Per un repertorio delle immagini di Vezzolano (1997)

in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro, Torino, Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

 

In memoria di Paolo Costantini       

 

 

 

“Dimensioni: lunghezza m 6,22; altezza m 1,22. Il ricordato ambone presenta molto interesse. Sopra le colonnine che sostengono i cinque archi sono scolpiti, su pietra calcarea, bassorilievi che, disposti su due fasce sovrapposte, coprono la parete dell’ambone verso l’ingresso della chiesa”. Così Secondo Pia apre la propria ampia scheda di lavoro  (più di tre cartelle) dedicata allo jubé di Vezzolano, redatta dopo il 1904,  che prosegue con una  estesa descrizione del doppio ciclo di figure, con la trascrizione dell’iscrizione dedicatoria e con una lunghissima citazione delle pagine che Adolfo Venturi  dedica a quest’opera  nel terzo volume della sua Storia dell’arte italiana[1]:  “Le figure sono colorate da un segno nero nelle sopracciglia, da un tondo pure nero negli occhi e da una tinta di ciliegia nei pomelli delle guancie, di rosso cinebrino nelle labbra, rosso purpureo nei calzari degli angeli, da un azzurro nel loro manto che pare invetriato e conferisce alla grande scultura l’aspetto di una maiolica smaltata; l’oro illumina le corone e i contorni delle penne degli angeli, il fondo è azzurro nel bassorilievo, verde negli archi”[2]. Si legge come in trasparenza in queste avvolgenti parole di Venturi, e ancor più nella ripresa che ne fa Pia, oltre al fascino per la policromia ricca di queste figure il rammarico di non poterle ancora trasmettere in immagine visibile, fotografica, e lo sforzo di una restituzione in ecfrasi affidata a una cascata cromatica di aggettivi precisamente qualificati. Sono questi gli anni, intorno all’inizio del secolo, in cui le ricerche scientifiche e tecnologiche intorno alla possibilità di riprodurre fotograficamente il colore si fanno più insistenti e mirate sino  a condurre alla messa a punto del procedimento della autocromia da parte dei fratelli Lumière, commercializzato a partire dal 1907 e quasi immediatamente adottato anche da Pia[3].

La redazione di precise schede analitiche dedicate a ciascuna delle opere fotografate è un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione del patrimonio architettonico piemontese, ma è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, la documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico, tradizione sulla quale non ci possiamo qui soffermare ma che varrà la pena un giorno di ricostruire criticamente[4] e che pare essere connotata nei casi più significativi dalla volontà di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, certamente lontano dalle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer) e prossimo invece alle indicazioni di Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture  (1880)  richiamava l’attenzione degli “amateur photographers” verso il compito di delineare accuratamente per mezzo della fotografia “i dettagli delle cattedrali sopra citate” (Lincoln e Wells in Inghilterra; Parigi, Amiens, Chartres, Rheims, Bourges e il transetto di Rouen in Francia) poiché “mentre una fotografia di paesaggio non è altro che un gradevole passatempo, quella di un’antica architettura è un prezioso documento storico; né questa architettura deve essere ripresa solo quando presenta un aspetto pittoresco ma pietra per pietra e scultura per scultura; cogliendo ogni opportunità offerta dai ponteggi per riprenderla più da vicino, orientando l’apparecchio nel modo più opportuno per controllare [la resa delle] sculture, senza il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”[5]. Ritroviamo qui il fascino per la lettura analitica del manufatto consentita dalla ripresa fotografica che già aveva colpito Viollet-Le-Duc[6] ma – soprattutto – cogliamo l’eco di quella mutazione tecnologica e poi sociale che stava trasformando i dilettanti fotografi in protagonisti attivi della cultura, in particolare nell’ambito specifico della conoscenza e valorizzazione del patrimonio artistico ed architettonico. Poiché se è vero che gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il  patrimonio architettonico – specialmente medievale – e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico (insieme alla fotografia sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”) è altrettanto vero che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Sono questi i meriti che il Comitato della Prima Esposizione italiana di Architettura (Torino, 1890) riconosce a Secondo Pia  assegnandogli la medaglia d’oro per la sua già  famosa e “numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”, anche con l’intento di stimolare altri dilettanti (gli amateur di Ruskin, appunto) a seguirne l’esempio: questi “dovrebbero assumere nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[7]. L’ambiente fotografico piemontese ormai da tempo si era rivelato sensibile a queste istanze e la documentazione ed il rilievo del territorio, consolidati campi di applicazione della fotografia sin dalle origini e, in Italia  – come aveva rilevato Giulio Bollati – strumento di unificazione almeno inventariale, divengono in Piemonte uno dei tracciati del percorso che porta alla definizione ed alla costruzione di una identità territoriale forte, adeguata al mutato ruolo politico della regione, e che si manifesta nel progressivo accrescimento di una documentazione del patrimonio specialmente architettonico[8] che si fa sempre più estesa e minuziosa, sovente precedendo nella scelta dei temi gli stessi studi specialistici.  Nel primo decennio successivo all’Unità quasi tutte le campagne fotografiche[9] ripropongono e confermano le scelte della tradizione  incisoria e litografica, semmai progressivamente distaccandosene nei modi.  Ancora nei  primi anni Settanta quando, con la diffusione degli studi fotografici al di fuori del capoluogo, la documentazione si estende ai centri minori, la logica di rappresentazione non muta: semplicemente se ne  estende l’applicazione per celebrare dopo quelle sabaude le glorie municipali, fatte di  monumenti ma anche di tutte quelle nuove realizzazioni che segnano l’avvento del moderno, dagli asili ai ponti, alle stazioni, ai primi stabilimenti industriali.  Solo coi primi anni Ottanta e ancor più dopo le suggestioni del Borgo Medievale realizzato per l’Esposizione Nazionale Italiana del 1884  a Torino, la logica sottesa alle campagne fotografiche muta sostanzialmente e queste si connotano esplicitamente come campagne di indagine e di documentazione, destinate a produrre e diffondere nuova conoscenza (sono questi gli anni del nascente associazionismo turistico-culturale) e non semplicemente a ribadire, con diversi mezzi, il repertorio delle emergenze monumentali piemontesi.

“Non la conoscevamo – l’amico che mi accompagnava ed io – che da alcune incomplete e vecchie incisioni” ricorda Ettore  Bracco nel 1896 riandando  all’emozione provata “il giorno di una Epifania già lontana” quando appunto gli apparve la chiesa di Vezzolano  “allo svolto di uno di quei ripidi e fangosi sentieri di collina (…)  nelle sue pure e semplici linee, e nella tenera armonia delle sue tinte”[10], a testimonianza di una fortuna e notorietà del monumento ancora recenti. La severa semplicità dell’architettura ed il dolce paesaggio delle colline monferrine in cui questa è immersa non erano fatti per attrarre e soddisfare il gusto goticizzante  dei primi decenni del secolo, tanto che la citazione che ne fa Modesto Paroletti nel secondo volume del suo Viaggio romantico-pittorico è corredata da una illustrazione dello jubé, realizzata   da Francesco Gonin nel 1828, che lo descrive come un elemento completamente passante, che lega piuttosto che separare le due parti di una navata estremamente luminosa, in qualche modo goticizzandolo (Paroletti 1832, tav. IV) tanto da provocare qualche decennio più tardi le dure critiche di Edoardo Arborio Mella,  che contrappone le attenzioni proprie della nascente cultura del rilievo storico-architettonico alla tradizione illustrativa di Gonin.  Nell’intervallo di tempo compreso tra questi due estremi e mostrando un chiaro segno delle trasformazioni culturali in atto sia nella specifica cultura tecnica sia nella fortuna di Vezzolano, si colloca la ricca produzione di Clemente Rovere che dopo una precoce veduta paesaggistica datata 1845, ritorna a Vezzolano nel giugno 1854, forse su suggestione del coevo XXV volume del Dizionario del Casalis[11], per documentare analiticamente, per  rilevare si direbbe, l’insieme e  i dettagli della chiesa e del chiostro, producendo un corpus complessivo di 41 schizzi e disegni (tra i quali una veduta d’insieme dello jubé e tre particolari del fregio che testimoniano un’attenzione per i valori architettonici così come per quelli plastici di questo elemento) che per impegno ed analiticità costituiscono un unicum in tutta la sua produzione[12].

Sono questi gli anni in cui si consolida l’iniziale fortuna critica del monumento, scandita dalla pubblicazione del primo studio di Bosio nel 1859 e da quella di poco successiva delle Notizie di Manuel di San Giovanni (1862) corredate di una puntuale Descrizione della Chiesa di Vezzolano redatta da  Mella che comprende tra le altre una tavola (n.4) dedicata alla “Sezione trasversale avanti al jubé” che mostra l’elemento – qui per la prima volta identificato con terminologia criticamente corretta – inserito nel contesto architettonico della chiesa, quindi senza sottolinearne particolarmente l’apparato scultoreo[13] che costituisce invece il soggetto specifico di una delle tavole disegnate da Pietro Viarengo e litografate da B. Marchisio a corredo del nuovo studio pubblicato da Antonio Bosio nel 1872 dove il “Bassorilievo sul nartece od ambone nell’interno della chiesa”  è considerato, insieme con quello della lunetta del portale, uno degli elementi qualificanti del complesso.

Questi studi danno al complesso  di Vezzolano una prima notorietà  tanto che il fotografo Vittorio Ecclesia, da poco trasferitosi da Torino ad Asti, gli dedica verso il 1879 una serie di otto riprese in grande formato (33x42cm circa) una delle quali è appunto dedicata allo jubé (“Nartece”) e costituisce con la sua ripresa frontale e lievemente rialzata, estesa al pilastro ed alla semicolonna laterali, il modello per buona parte delle riprese successive dello stesso soggetto[14], mentre pochi anni più tardi, nel 1883,  Carlo Nigra si cimenta con una serie di vedute ravvicinate e di dettaglio (MCT, Fondo d’Andrade, n574) che non giungono mai però alla restituzione delle singole figure, come pure si iniziava a fare in quegli anni nell’ambito della documentazione pittorica.

Vezzolano è ormai entrata a far parte a questa data del novero degli edifici piemontesi “aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico”  (Collegio 1887, p.5) presentati in riproduzione fotografica nelle sale del neonato Museo Regionale di Architettura al Borgo Medievale .

La chiesa  costituisce uno dei  soggetti privilegiati delle  “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia già negli anni del suo apprendistato: “A Vezzolano. Prese due pose placca [lastra intera] facciata. Stante gran caldo collodio evapora troppo presto” scrive sul suo diario in data 20 luglio 1882, alle prese con le difficoltà tecniche poste dall’uso della lastra al collodio umido che in quei giorni  alterna ancora alle nuove lastre a secco alla gelatina bromuro d’argento (Falzone del Barbarò, Borio, 1989, p.85) e questo luogo costituirà negli anni uno dei temi da lui più  frequentati  ritornando più volte, almeno fino al 1915, a fotografare particolari di interni ed esterni utilizzando formati e materiali sensibili diversi, con una lettura partecipata, ma anche minuziosa e analitica insieme,  tanto degli elementi scultorei quanto delle architetture, che lungi dall’essere mostrate quali “dettagli fotografici così chiaroscurali, quasi da «racconti gotici» o da fondali melodrammatici” (Falzone del Barbarò, 1989, p.20) sono rilevate nei loro precisi rapporti dimensionali e proporzionali, sovente inserendo in ripresa un riferimento metrico secondo un uso che in quegli anni si andava consolidando specialmente nell’ambito della fotografia archeologica.

Proprio Vezzolano, insieme a Sant’Antonio di Ranverso,  costituisce l’argomento di due raccolte di fotografie pubblicate da Pia nel 1907 (Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte) e intorno al  1919  (Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica) contenenti rispettivamente 21 e 36 stampe fotografiche dedicate al complesso, tra le quali si segnala nella raccolta più tarda una veduta  di dettaglio dell’intera fascia in bassorilievo dello jubé (n.12, 8x45cm)[15] realizzata accostando in stampa due distinte riprese. In questi album Pia comprende anche immagini realizzate prima dei restauri del 1896, che costituiscono oggi una preziosa documentazione  delle condizioni della chiesa antecedenti quella data, da integrare con quelle, anonime, pubblicate in Bracco 1896 e  Bosio 1896 (le prime ad essere diffuse tipograficamente), e con le due immagini della navata principale e della navata sinistra, datate 21 luglio 1895, attribuibili ad Ottavio Germano, da mettere in relazione con l’inizio del cantiere di restauro della chiesa ed eseguite in conformità alle raccomandazioni espresse da Camillo Boito in occasione del III Congresso degli ingegneri e architetti di Roma nel 1883[16].

A questa data Vezzolano è parte integrante del circuito artistico piemontese: “Andati per ferrovia fino a Chieri poi per omnibus (due ore) fino a Castelnuovo d’Asti da dove siamo andati con una vettura a detta Abbazia. Abbiamo fatto parecchi lavori in chiesa, nel chiostro e nell’interno e dopo siamo andati a Chivasso passando per Torino che lasciamo definitivamente.” Queste note, datate 3 settembre 1898, non sono tratte dal diario di un turista colto, ma di un altrettanto colto e allora giovanissimo fotografo, Mario Sansoni, operatore degli Alinari, che offre un rendiconto dettagliato della loro prima campagna piemontese[17]. Nella foto Alinari lo jubé occupa completamente l’inquadratura, nitidamente restituito nella sua interezza, senza gli ostacoli visivi determinati dai pilastri laterali, a dimostrazione di quella maestria professionale che contraddistingue la produzione di questa ditta (Alinari, n.15872, SBAS) costituendo di fatto  se non il modello certo il termine di riferimento italiano nella documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico.

Nel primo decennio del nuovo secolo altre immagini di Vezzolano, e dello jubé, verranno realizzate e pubblicate a corredo di studi di diverso impegno e valore, ma riproponendo sostanzialmente i modi della cultura visiva ottocentesca, quando non le stesse fotografie[18], e solo nei primi anni Venti compare una nuova interpretazione fotografica del monumento, dovuta al fotografo torinese Giancarlo Dall’Armi, che gli dedica una cartella della serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia” da lui edita e che aveva già visto la pubblicazione nel 1915 dei sei fascicoli dedicati a  Il Barocco Piemontese (palazzo Morozzo della Rocca, palazzo Madama, palazzo Barolo I/II, palazzo Saluzzo Paesana, palazzo Graneri).   Se nelle fotografie torinesi dalla grande maestria di esecuzione  emerge  ancora una impostazione ottocentesca, come bloccata nel tentativo di far corrispondere esattamente l’immagine all’architettura che l’ha generata, le dodici stampe dedicate a Vezzolano dimostrano una diversa e più matura autonomia della tecnica espressiva;  il progetto di documentazione lascia spazio e condivide evidenti intenzioni interpretative, alla ricerca di una autonomia formale dell’immagine, che non trova più solo nel referente, nel soggetto fotografato,  la propria ragione d’essere.  La novità di sguardo di Dall’Armi (almeno per il panorama locale) sarà rilevata immediatamente dalla critica in occasione della Prima esposizione internazionale di Torino del 1923,  sottolineando che: “nobili sono i paesi esposti e di squisita fattura i brani architettonici come: la porta dell’Abbazia di Vezzolano”[19].

Le campagne fotografiche  sembrano diradarsi nei decenni successivi[20] e si devono attendere i tardi anni ‘50 e i primi ‘60 per veder comparire nuove immagini di Vezzolano, quasi sempre realizzate e pubblicate con intenzioni diverse, meno documentarie ed analitiche, più decorative che illustrative, in cui i soggetti rappresentati si frantumano in tasselli minuti e sconnessi[21] mentre si fa più frequente il ricorso alle riprese cinematografiche e poi televisive. Contemporaneamente nuovi studi mettono in discussione la cronologia delle fasi costruttive della chiesa e, quindi, della realizzazione e collocazione dello jubé: l’ipotesi di un adeguamento dimensionale del ciclo scultoreo che avrebbe portato alla riduzione quantitativa delle figure, derivata dalle analisi di Renate Wagner-Rieger 1956 e fatta propria da Bernardi 1962, prende inaspettatamente consistenza visiva in una singolare e fantastica immagine pubblicata a corredo dell’ennesima riedizione (1966) dell’opuscolo di Achille Motta: la fotografia a doppia pagina che illustra “Il Nartece” si presenta curiosamente tagliata a sinistra in corrispondenza della chiave del primo arco mentre per la prima volta nella breve ma densa storia delle riprese fotografiche di questo elemento compare in tutto il suo sviluppo l’arco di destra, la cui estremità è solitamente coperta alla vista da una  semicolonna; conseguentemente si estende anche la “visibilità” delle fasce scolpite e questo nuovo spazio guadagnato alla rappresentazione viene utilizzato e riempito aggiungendo due figure: un (semi)patriarca al registro inferiore (forse materializzazione scultorea di quello dipinto sulla semicolonna) ed un non meglio identificato personaggio su quello superiore, che volge sdegnosamente le spalle, ignaro, alle storie della Vergine. La resa realistica dell’intervento di manipolazione è elevata: il ritocco, certamente eseguito con pazienza e maestria su di una ripresa appositamente progettata ed eseguita per avere un controllo realistico delle distorsioni prospettiche, ha prodotto un risultato che, almeno nella trasposizione tipografica a cui era destinato[22], può considerarsi talmente buono da passare inosservato, se non ad un occhio attento ed esercitato, quale certamente non si poteva presupporre avessero i destinatari della piccola guida turistica. Perché allora tanto sforzo destinato a rimanere invisibile? Perché faticare sul banco di lavoro e in camera oscura a ricostruire archi, apparecchio murario e figure se non si intendeva dimostrare nulla, forse solo suggerire, quasi in codice, con un gesto sommesso e comprensibile a pochi iniziati, quale avrebbe potuto essere l’aspetto di questo eccezionale insieme scultoreo “se…”?  Alla fotografia, strumento principe della oggettività documentaria, prova provata visibilmente della  realtà delle cose, viene affidato il compito di testimoniare non l’esistente ma il possibile: qui l’immagine fotografica non è più l’analogon né l’indice dei moderni semiologi ma certo un’icona dalle speciali caratteristiche, come sarebbe potuta piacere a Viollet-Le-Duc; non il documento irrefutabile ma – insospettabilmente – lo strumento per ristabilire il manufatto in una condizione di compiutezza che potrebbe anche non essere mai esistita in un momento dato.

 

Note

[1]  Venturi  1904,  pp.80-91, con sei fotografie non firmate dedicate a Vezzolano, a cui si deve aggiungere un’immagine del chiostro pubblicata a p.23. La monumentale opera di Venturi costituisce il primo esempio di impiego editoriale su vasta scala dell’apparato fotografico a corredo di un’opera di storiografia artistica generale (Spalletti 1979, p.469) e riflettette compiutamente il pensiero dello studioso  nei confronti della rilevanza, anche metodologica, della fotografia di documentazione d’arte, espresso una prima volta nella prefazione al catalogo della casa fotografica Adolphe Braun del 1887 (Cfr. Spalletti, 1979, p.471) e ribadito ulteriormente nell’intervista rilasciata ad Anton Giulio Bragaglia nel 1912. Nella stessa occasione Venturi anticipa che in occasione di un prossimo congresso di storia dell’arte medievale sarebbe stata promossa una specifica esposizione di “riproduzioni foto-meccaniche applicate alla storia dell’arte” e indetto “un concorso per la carta occorrente a quelle riproduzioni, carta che si desidera migliore di quella americana ora in uso, la quale per la sua lucentezza danneggia gli occhi.” (in Bragaglia, 1912, p.18)

[2]La scheda redatta da Pia attingendo ampiamente al testo di Venturi è pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.94-95. Va qui segnalato come Pia  riprenda senza citarlo  il testo di Bosio 1896, p.5, nel quale i Patriarchi sono descritti “tutti seduti in numero di trentasei”,  senza controllarne la consistenza reale (35) sulle sue stesse riprese fotografiche di dettaglio.  Pur in presenza di un ricchissimo materiale documentario (diari, schede) il problema di una accurata datazione delle immagini di Pia attende ancora una soluzione; si veda ad esempio la ripresa generale dello jubé pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, tav.6 con la data “4 ottobre 1904”  che è stata invece palesemente  realizzata prima dei restauri del 1896. Sulla figura di Secondo Pia cfr. inoltre Tamburini, Falzone del Barbarò 1981 e la scheda biografica redatta  da Cassio 1990, pp.409-410.

[3] A far data dalla loro commercializzazione (1907, cfr. Les frères Lumière 1980, p.11) alcuni fotografi piemontesi particolarmente attivi nel campo della documentazione   delle opere d’arte come il vercellese Pietro Masoero utilizzarono le autocromie per dotarsi di un importante ed innovativo sussidio di studio e di divulgazione (Cavanna 1985). Lo stesso Pia le utilizzerà a partire dal 1909 sia per la documentazione del patrimonio artistico piemontese sia per ricerche personali, producendo in circa vent’anni di attività in questo settore un numero rilevante di immagini a colori (297 secondo le indicazioni fornite in Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.65 e riconfermate in Falzone del Barbarò, 1989 p.56, che inspiegabilmente si riducono a 262 nella “Nota sull’archivio Secondo Pia” compresa in  Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.88.  La sola autocromia dedicata a Vezzolano sinora reperita,  relativa al  chiostro e datata 31 agosto 1910, è stata pubblicata in Miraglia 1990, tav.204.

[4]Una specifica vocazione dei fotografi attivi in Piemonte  per le immagini di documentazione e lettura del paesaggio e dell’architettura emergeva già dal corpus di immagini presentate nella mostra del 1977 dedicata ai Fotografi del Piemonte e risulta sostanzialmente riconfermata anche da Miraglia 1990.

[5] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione da cui  è tratta la citazione è stata ripubblicata in Ruskin 1911, p.21-22 e ripresa in Costantini 1986, p.16.

[6]Compila per il suo Dictionnaire la voce “Restauration” in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici:  “La photographie  à conduit naturellement les architectes à être plus scrupuleux encore dans leur respect pour les moindres débris d’une disposition ancienne, à se rendre mieux compte de la structure, et leur fournit un moyen permanent de justifier de  leur opérations. Dans les restaurations, on ne saurait donc trop user de la photographie, car bien souvent on découvre sur une épreuve ce qu’on n’avait pas aperçu sue le monument lui-même.” (Viollet-Le-Duc 1860, pp.33-34) Pochi anni prima, nel 1854, Hector Lefuel, che era succeduto a Louis Visconti nella costruzione del nuovo Louvre, aveva fatto ampiamente ricorso alla documentazione fotografica nell’ambito del nuovo, immenso cantiere (Daniel 1994, p.57), mentre nel 1857 su sollecitazione dei Fratelli Bisson l’école des Ponts et Chaussées istituiva un corso di fotografia, poi attivo fino al 1911 (Frizot 1994, p.208) e a Londra veniva fondata la Architectural Photographic Association.. Negli stessi anni in Italia era Pietro Estense Selvatico  nei suoi Scritti d’arte ad affrontare le questioni poste da l’uso documentario, e didattico, della fotografia di architettura e certo le sue riflessioni ebbero un peso rilevante nella formulazione delle più tarde indicazioni di Boito, suo successore alla Accademia di Venezia.

[7]I Esposizione 1890, p.49. Dieci anni più tardi lo stesso Masoero (1900, p.278 ripreso in  Miraglia 1990, pp. 69-70) recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sulle pagine del “Bullettino” sottolinea che “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica.(…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”

[8]Diverso è il caso della documentazione del patrimonio  pittorico, la cui applicazione era fortemente condizionata dalla impossibilità delle emulsioni al collodio di registrare fedelmente l’intero spettro cromatico. Qui la produzione si fa più incerta e sporadica e ricorre  sovente all’espediente della riproduzione indiretta dell’opera (da incisioni o litografie) sebbene siano da ricordare in questo ambito almeno le stampe fotografiche pubblicate negli album della “Promotrice” di Torino a partire dal 1863 (Reteuna 1991) e l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni  italiani raccolto  da Vittorio Besso a partire dal 1868 (Cavanna 1991, p.203). Solo intorno alla metà degli anni Ottanta vedrà la luce una realizzazione più impegnativa e narrativamente articolata quale la ricchissima lettura  fotografica (64 tavole in grande formato) che Pietro Boeri compie nel 1886 degli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli. Più complesso risulta conseguentemente il dibattito relativo alla documentazione delle opere d’arte, per la cui ricostruzione si rimanda a Spalletti 1979, Freitag 1980.

[9]Per una attenta ricostruzione di questi temi  si veda Miraglia 1990. Un esempio precoce di attenzione per il patrimonio minore è data dal fotografo biellese Vittorio Besso tra i cui meriti la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda “quello di usare di questa divina arte (…) anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario).”, citato in Cavanna 1991, p.202.

[10]Bracco 1896, p.457. La descrizione del cammino che porta alla scoperta del monumento è – con accenti diversi – uno dei topoi della letteratura su Vezzolano tra Otto e Novecento, cfr. Cena 1898b, p.270; Porter 1917, p.539. Un altro accenno al percorso di avvicinamento è compreso nelle pagine del diario di Mario Sansoni citate più oltre nel testo.

[11]Casalis 1854, pp.76-79. Un primo cenno al complesso era compreso nella voce “Albugnano”, vol.I, 1833, pp.171-172: “Fra le cappelle che sonovi sul territorio, havvene una rimarchevole per la forma gotica, sotto il nome della Beata Vergine di Vezzolano.”  Nel 1854 invece viene dedicata al complesso una ricca voce tutta rivolta  alla ricostruzione delle vicende storiche “in gran parte comunicate dal sig. avvocato Pier Luigi Menocchio (…) che le estrasse dall’archivio del R. Economato apostolico”, p.79 in nota.

[12]Sertorio Lombardi 1978, II, nn. 2235-2275. Allo jubé sono dedicati tre disegni (nn. 2252-54) datati genericamente “1854” relativi al Basso rilievo dell’ambone, a cui si deve aggiungere  il disegno (n. 2255)  della Figura dell’ambone (vale a dire l’elemento architettonico nel suo insieme) ricavato da uno schizzo (n. 2256) datato “11-6-1854”. Nella produzione di Rovere il solo caso confrontabile con Vezzolano è quello della Sacra di San Michele, a cui sono dedicati però solo diciannove disegni.

[13]Per una autorevole ricostruzione della più antica bibliografia dedicata a Vezzolano, a partire da Giulio Cordero di San Quintino, cfr. Porter 1917, III, pp.539-548. La Descrizione di Mella venne pubblicata in  Manuel 1862, pp.268-272. A questa data Mella segnala ancora la “imbiancatura praticata nell’interno” (p.271) che è documentata nei disegni di Clemente Rovere, cfr. nota 12, antecedente agli interventi del 1865 nel corso dei quali le pareti vennero tinteggiate a fasce alterne, e lamenta lo “stato di abbandono e miseria in cui trovasi questo prezioso monumento (…) Nello stato in cui ancora si trova il riattamento non sarebbe opera di gran conto, massime se l’amor dell’arte trovasse intelligenti e disinteressati [come il Mella stesso] direttori delle opere.” (p.272). Alla Descrizione di Mella farà esplicito riferimento Raffaele Pareto 1864,  ripubblicando anche due tavole   (n.14, pianta e n.4, facciata) per favorirne una corretta lettura e apprezzamento, stante le ridotte dimensioni di quelle comprese in Manuel 1862. Pareto aveva già dedicato all’attività di Mella altri interventi, tutti pubblicate nel “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”,  intitolati  rispettivamente al Duomo di Casale, 9 (1861), a Il nuovo pulpito della cattedrale di Casale, 10 (1862) ed alla Chiesa di S.Andrea in Vercelli, 10 (1862).

Mella sembra essere stato il primo studioso italiano ad utilizzare criticamente il termine jubé, verosimilmente su suggestione di Fernand de Dartein , autore a cui fa riferimento anche Giovanni Cena  1898b, p.271.

[14]Vittorio Ecclesia,  Via San Martino, 19, Asti, Abazia di S. Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti, otto stampe all’albumina virate all’oro 33×42 cm circa, montate su cartoni 50×65 cm circa.   La presenza dell’indirizzo della prima sede astigiana dello studio di Ecclesia  (Cassio 1990, p.379) ci consente di datare queste immagini agli anni 1878-1880,  forse di poco successive alla realizzazione dell’Album artistico della città di Asti – 1878  (cfr. Fotografi del Piemonte 1977, pp.29-30)  che al pari di queste non porta la firma dello studio (Fotografia Alfieri) ma quella del fotografo.  Questa serie faceva parte delle fotografie di Ecclesia comprese  nella sezione “Fotografie Architettoniche” della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 (Esposizione 1884, pp.124-125) e sembra verosimile ritenere che in quella occasione venissero depositate alla Biblioteca Reale di Torino in cui oggi sono conservate.  Un’altra copia della foto di Ecclesia dell’angolo sudorientale del chiostro, di  dimensioni lievemente inferiori,  è compresa nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (Cavanna 1981, tav. 5f).

[15]I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino,  sono dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” ed  “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” e comprendono foto parzialmente  inedite sebbene ampiamente note agli studiosi per essere state presentate a numerose esposizioni e in parte conservate in copia alla Galleria Sabauda fin dal 1891 (cfr. Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.30). Seguendo una consuetudine diffusa tra molti fotografi non solo piemontesi Pia aveva anche realizzato fotografie dei “monumenti della sua Asti nativa, raccolti in un magnifico album che, offerto al Re, gli valse la Croce di Savoia.” (Cena 1898a, p.239).

[16]Le due riprese, anonime, conservate nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (554F, 555F) devono essere  messe in relazione con le lastre alla gelatina bromuro d’argento 24/30, datate 21 luglio 1895 e 7 gennaio 1896, conservate nell’Archivio fotografico della SBAA di Torino e vanno verosimilmente attribuite ad Ottavio Germano, direttore del cantiere di restauro e buon fotografo dilettante, sempre attento ad un uso accorto dell’immagine fotografica in relazione alla documentazione sia dei cantieri di restauro (Cavanna 1981, p.123; Cassio 1990, p.386) sia di quelli di più libera reinterpretazione, come quello del castello di Banchette (Ivrea) da lui ricostruito nel 1884-96.  Le raccomandazioni formulate dalla prima sezione del Congresso del 1883 costituiscono come è noto uno dei momenti cruciali del formarsi di una moderna cultura del restauro in Italia. Per quanto riguarda i temi che più interessano questo saggio  ricordiamo che al punto 6 queste indicavano che “Dovranno eseguirsi, innanzi di por mano ad una opera anche piccola di riparazione o restauro, le fotografie del monumento, poi di mano in mano le fotografie dei principali periodi del lavoro, e finalmente le fotografie del lavoro compiuto (…).” (Boito 1893, p.25).

[17]Mario Sansoni 1987, p.50-51. Le pagine pubblicate si riferiscono al periodo 27 maggio/ 28 ottobre 1898 e riguardano le campagne fotografiche liguri e  piemontesi, durante le quali verranno realizzate nove riprese relative a Vezzolano (F.lli Alinari 1925, pp. 31-35). Sansoni  (1882-1975) ritornerà  ancora a fotografare lo jubé prima del 1941 (in tre parti, Archivio SBAA nn.4359-61) per incarico della   Frick Art Reference Library di New York che gli aveva affidato in esclusiva l’incarico di documentare l’arte europea.

[18]Oltre ai due album di Pia già citati, cfr.nota 15, ricordiamo qui le fotografie dello jubé in Venturi 1904, pp.85-89, quelle di Ecclesia nel catalogo dell’Esposizione Internazionale di Torino del 1911 (Cassio 1990, p.379)  e quelle poste a corredo della prima edizione del volumetto di Achille Motta 1912, dovute ad E. Serra, V. Ecclesia (il “nartece” ante 1880),  a due fotografi  e studiosi “irregolari” come Secondo Pia e Francesco Negri e specialmente al sacerdote F. Origlia, autore non altrimenti noto ma che si rivela qui di buon livello, con accurate immagini di documentazione; la passione per questo genere di fotografia lo accomuna ad un altro sacerdote fotografo attivo negli stessi anni, il vercellese Alessandro Rastelli, che fornisce le immagini per  un volume dedicato a Lucedio edito nel 1914 (Colli, Negri, Rastelli 1914), che vede tra gli autori dei testi anche Francesco Negri.  Singolare e interessante si prospetta a questo punto l’intreccio di relazioni e interessi tra cultura cattolica e fotografia di documentazione del patrimonio artistico ed architettonico nel Piemonte di inizio secolo.

[19]Angeloni 1924, p.40. Queste immagini di Vezzolano non risultano presenti alla Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese  (La Mostra retrospettiva 1926), una delle ultime occasioni espositive del fotografo torinese, che muore nel luglio 1928 (Necrologio 1928).

[20]Si segnalano qui le fotografie di Emilio Gallo pubblicate nel 1930 (T.C.I. 1930, pp.194-195), quelle – anonime – pubblicate nella riedizione ampliata di Motta 1933 e le immagini di Sansoni (ante 1941) e Pedrini (1941) conservate rispettivamente negli archivi fotografici  della SBAA e della SBAS di Torino.

[21]Costituiscono un’eccezione a questa tendenza le immagini pubblicate in Wagner-Rieger  1956, tavv. 42-45 ma specialmente la campagna fotografica realizzata da Augusto Pedrini nel 1961 per Bernardi 1962, che presenta la grande novità di una estesa utilizzazione delle riprese a colori  ma dimostra anche, nella restituzione dei particolari architettonici e scultorei una certa, inconsueta,  approssimazione.

[22]EPT 1966, s.n. Le immagini a corredo sono dovute agli studi Astifoto, Parvalux ed A. Robba, ma allo stato attuale delle ricerche non è possibile attribuire specificamente la fotografia ritoccata dello jubé.

 

 

Bibliografia e fonti

 

Alinari 1925

F.lli Alinari, Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. (1925)

 

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Arborio Mella 1869

Edoardo Arborio Mella, Chiesa e badia di Vezzolano presso Albugnano (secolo XI), “L’Arte in Italia”, 1 (1869), pp.39-41; pp. 56-59

 

Berenson 1948

Bernard Berenson, Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze: Electa, 1948

 

Bernardi 1962

Marziano Bernardi, a cura di, Tre abbazie del Piemonte. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1962

 

Boito  1893

Camillo Boito, Questioni pratiche di Belle Arti. Milano: Hoepli, 1893

 

Bosio 1872

Antonio Bosio, Storia dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano. Torino: Collegio degli Artigianelli, 1872

 

Bosio 1896

Antonio Bosio, Dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano presso Albugnano: Memorie storich. Asti: Tip. Bona Vincenzo, 1896

 

Bosio 1900

Antonio Bosio, Dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano presso Albugnano: Memorie storiche. Asti: Scuola Tipografica Michelerio, 1900

 

Bracco  1896

Ettore Bracco,  Luoghi romiti: S. Maria di Vezzolano,  “Emporium”, 4 (1896), n. 24, dicembre, pp. 456-470

 

Bragaglia 1912

Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia. Interviste con Biondi, Venturi, Sartorio, Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19

 

Casalis 1854

Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, XXV. Torino: Maspero, 1854

 

Cassio 1990

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Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’ architettura, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, giugno-settembre 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.107-125

               

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, aprile-luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese, in “Antichità ed arte nel Biellese”, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989),  a cura di Cinzia Ottino,“Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 ( 1990/1991), pp.199-216

 

Cena 1898 a

Giovanni Cena, Piemonte antico, “Arte Sacra”, 1898, disp.30,  pp.270-272

 

Cena 1898 b

Giovanni Cena, Santa Maria di Vezzolano, “Arte Sacra”, 1898, disp.34-35,  pp.239-240

 

Collegio di Architetti 1887

Collegio di Architetti – Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

Colli, Negri, Rastelli  1914

Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il B. Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: G.Pane, 1914 (nuova ediz., a cura di P. Cavanna.  Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996)

 

Cordero di San Quintino 1829

Giulio Cordero di San Quintino, Dell’italiana architettura durante la dominazione longobarda. Brescia: Bettoni, 1829

 

Costantini 1986

Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in I dagherrotipi della collezione Ruskin, catalogo della mostra (Venezia, 1986), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Venezia: Arsenale Editrice, 1986, pp.9-20

 

Dall’Armi 1923

Giancarlo Dall’Armi, L’abbazia di Vezzolano, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi , s.d. (1923ca), Cartella fotografica: 12 stampe alla gelatina-bromuro d’argento, 24×30

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York –  Montreal: The Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

Dartein 1865-1882

Fernand de Dartein, Étude sur l’architecture lombarde. Paris: Dunod, 1865-1882

 

Ecclesia 1878-1880

Vittorio Ecclesia, Abbazia di S.Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti. Asti: Vittorio Ecclesia, s.d. (1878-1880), otto stampe fotografiche: albumina, 42x33cm

 

EPT 1966

Ente Provinciale per il Turismo di Asti, a cura di, L’abbazia di Nostra Signora di Vezzolano, testo di Achille Motta. Colle Don Bosco: ISAG, 1966

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione 1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1989

Michele Falzone del Barbarò, Secondo Pia fotografo, in Torino Fotografia 89, catalogo della mostra (Torino ottobre-novembre 1989), a cura di Daniela Palazzoli. Milano: Fabbri Editori, 1989, pp.56-63

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia. Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, Catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Freitag 1980

Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979-80), n.2, Winter, pp.117-123

 

Les frères Lumière 1980

Les frères Lumière à l’aurore de la Couleur, catalogo della mostra, (Parigi, giugno-luglio 1980). Lyon: Fondation Nationale de la  Photographie, 1980

 

Frizot 1994

Michel Frizot, dir., Nouvelle histoire de la photographie. Paris: Bordas, 1994

 

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Manuel di San Giovanni 1862

Giuseppe Manuel di San Giovanni, Notizie e documenti riguardanti la Chiesa e Prepositura di S. Maria di Vezzolano nel Monferrato raccolte dal Barone M.d.S.G. ed illustrate dal Conte Edoardo Mella, “Miscellanea di Storia Patria”, I. Torino: Stamperia Reale, 1862

 

Mario Sansoni 1987

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Masoero1900

Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino. Note ed appunti, “Bullettino della Società fotografica italiana”, 12 (1900), n. 4; n. 8, 1900, pp.124-139; 277-291

 

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Mostra retrospettiva 1926

La mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, “Il Momento”, 24 (1926),  n.128, 2 giugno, p.5; n.132, 5 giugno, p.5

 

Mothes 1884

Oscar Mothes, Die Baukunst des Mittelalters in Italien. Jena: Hermann Costenoble, 1884

 

Motta 1912

Achille Motta, L’Abbazia monumentale di Santa Maria di Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Torino: Pietro Celanza,  1912

 

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Roberto Pane, Io non vedo con i miei occhi ma attraverso di essi, in “Napoli Nobilissima”, 2 (1962-1963), pp.78-79, ora in Id., Attualità e dialettica del restauro, a cura di Mario Civita. Chieti: Marino Solfanelli Editore, 1987, pp.250-251

 

Pareto 1864

Raffaele Pareto, Facciata della chiesa di S. Maria di Vezzolano in Monferrato, “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”, 12 (1864) , estratto

 

Paroletti 1832

Modesto Paroletti, Viaggio romantico-pittorico delle Provincie Occidentali dell’Antica e Moderna Italia, II. Torino: Felice Festa Litografo, 1832

 

Pia 1907

Secondo Pia, A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia Questi ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte offre riverentemente S.P. Torino: Secondo Pia, 1907, album fotografico: 32 stampe all’albumina, 20×25

 

Pia 1919

Secondo Pia, A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti promotore di ogni studio ed arte queste sue riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica offre in ossequioso omaggio il dilettante astigiano Presidente della Società Fotografica Subalpina in Torino. Torino: Secondo Pia, s.d. (1919?), Album fotografico: 73 stampe all’albumina, 20×25

 

Renier 1900

Rodolfo Renier, Una leggenda carolingia ed un affresco mortuario in Piemonte, “Emporium”, 12 (1900),  n. 71, pp.377-382

 

Reteuna 1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera-estate 1991, pp.30-39

 

Ruskin   [1880] 1911

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture [1880].London, Ward, Lock & Co., 1911

 

Selvatico 1859

Pietro Selvatico Estense, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859

 

Sertorio Lombardi 1978

Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Spalletti 1979

Ettore Spalletti, Documentazione, critica, editoria, in “Storia dell’arte italiana”, II. Torino: Einaudi, 1979, pp.417-484

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

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TCI 1930

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Venturi   1904

Adolfo Venturi, L’arte romanica, “Storia dell’arte italiana”, III. Milano: Hoepli, 1904

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc, Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. (1860)

 

Wagner-Rieger 1956

Renate Wagner-Rieger, Die italienische baukunst zu beginn der Gotik. I. Oberitalien. Graz-Köln: Hermann Böhlaus Nachf., 1956