Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione (1986)

“Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986, pp. 34 – 45

Ce ne sont que documents

Eugène Atget

 

Primo ottobre 1907 Mons. Teodoro dei Conti Valfrè di Bonzo “Arcivescovo di Vercelli e Conte” concede l’imprimatur al volume L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, “Studio storico del Can. Dott. Romualdo Pasté / Studio artistico del Cav. Federico Arborio Mella illustrato da Pietro Masoero”[1]. I tre autori nella dedica che apre il volume dichiarano di aver voluto “radunare quanto è a noi pervenuto delle memorie della abbazia di S. Andrea e fissarne il ricordo storico illustrando il grandioso tempio che, salvato dalla ruina di mille altri monumenti, permane solenne ad attestare una grandezza passata” portando anche un “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”.  Né questo rimando preciso deve essere semplicemente inteso quale richiamo d’occasione, né la dedica all’ Arcivescovo di Vercelli un semplice atto formale: l’arte sacra infatti aveva costituito per tutta la seconda metà del secolo XIX, ed in parte costituiva ancora, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale del Piemonte cattolico, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito ed alle prime iniziative di tutela. Se Romualdo Pastè, autore della ricerca storica, corrispondente della Deputazione Subalpina di Storia Patria, canonico ed archivista capitolare svolge, per il suo stesso ruolo, una funzione di tramite, è certamente Federico Arborio Mella la figura centrale, erede di una tradizione familiare di grande prestigio che aveva avuto nel nonno Carlo Emanuele e nel padre Edoardo gli esponenti più noti, impegnati a fondo nel  dibattito e nell’attività architettonica e di tutela. A Carlo Emanuele Arborio Mella si devono infatti i primi interventi di restauro della basilica di S. Andrea, condotti tra il 1822 e 1825 in modo “aperto ed attento a questioni singolarmente precoci quali il concetto di monumento inteso come insostituibile fonte documentaria dello stesso, da cui gli deriva l’esigenza di riportare in puntuali relazioni quanto emerso o osservato nel corso dello studio diretto delle strutture antiche”[2] Queste osservazioni, raccolte nell’ opuscolo Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli [3] pubblicato postumo nel 1856 a cura del figlio Edoardo, il quale a sua volta pubblicherà quasi a conclusione della sua lunga attività lo Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli [4]; segnano l’inizio della ripresa di interesse per il monumento vercellese da parte di studiosi italiani e stranieri. Accanto all’attività di studio si collocavano le iniziative di promozione culturale: anche in questo caso il primo riferimento è costituito dall’attività di Carlo Emanuele che aveva fondato a Vercelli, nel 1841, la Società per l’insegnamento gratuito del disegno, trasformata venti anni più tardi, sotto la presidenza di Edoardo, in Istituto di Belle Arti, prevalentemente preposto alla formazione di corsi professionali ma che prevedeva esplicitamente all’art. 3 dello Statuto di “provvedere alla conservazione dei patrii monumenti o col farne acquisto od avvisando ai mezzi di impedirne il deterioramento”[5]. Il richiamo alla “conservazione dei patrii monumenti” rimanda in modo quasi letterale alle disposizioni contenute nel Regio Brevetto carloalbertino del 1832 col quale si istituiva la Giunta di Antichità e Belle Arti, destinata a censire e tutelare “reliquie degli antichi monumenti e capolavori delle arti belle”[6]; di questo organismo, che ebbe vita stentata almeno fino al 1853 per essere poi sostituito a partire dal 1860 dalla Consulta di Belle Arti, fecero parte gli esponenti più noti del mondo culturale sabaudo e tra essi merita ricordare almeno Domenico Promis conservatore della Biblioteca Reale di Torino, che Edoardo Arborio Mella conobbe nel 1855, ed il fratello di questi Carlo Promis, architetto e storico dell’architettura, nominato nel 1837 “Ispettore de’ monumenti di antichità esistenti ne’ Regi Stati”, che nel 1857 proporrà il Mella per i restauri del duomo di Casale Monferrato, segnando l’inizio della sua carriera di restauratore.

Attorno al Mella ed all’Istituto di Belle Arti ruota gran parte dell’ ambiente artistico vercellese: quando la scuola apre i battenti nel 1862 il corso di Ornato e Figura è diretto dal pittore Carlo Costa, il quale aveva frequentato giovanissimo lo studio del Mella e lo aveva quindi accompagnato durante il suo fondamentale viaggio in Germania, divenendo uno dei suoi più preziosi collaboratori. Il corso di Elementi era tenuto dal fratello di Carlo Costa, Giuseppe, il quale sarà chiamato nel 1868, sempre dal Mella, a realizzare le parti a figura durante i restauri della chiesa di S. Francesco a Vercelli.[7] Abbiamo qui uno dei numerosi esempi di rapporti strettissimi tra mondo accademico e fotografia: “Studio di Pittura e Fotografia di Costa Giuseppe/ Vercelli/ via Felice Monaco”[8] recita il verso di una sua carte de visite conservata presso le Civiche Raccolte Bertarelli di Milano,mostrando la compresenza di due attività complementari, sebbene le notizie a noi note facciano supporre che negli anni successivi egli si sia dedicato prevalentemente alla fotografia, documentando nel 1882 gli affreschi eseguiti dal fratello Carlo nella cupola di S. Eusebio, pubblicati dapprima in un album ricordo e quindi riediti nel 1898 nel numero monografico di “Arte Sacra” dedicato a Vercelli, in cui compaiono anche sue riproduzioni dei cartoni di Francesco Grandi per la cupola del Duomo ed una bella immagine della basilica di S. Andrea. La figura di Giuseppe Costa, finora poco nota, sembra collocarsi marginalmente nel panorama dei fotografi piemontesi della seconda metà dell’Ottocento interessati alla documentazione del patrimonio artistico, ma sarà necessario attendere il riordino in corso del fondo fotografico Mella[9],conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli, per una verifica più puntuale della sua attività, soprattutto mettendola ancora una volta in relazione col ruolo e con le concezioni critiche espresse da Edoarado Arborio Mella.

Si avverte a Vercelli un certo ritardo rispetto ad altre situazioni regionali, ad altre figure di fotografi: già nel 1865 Vittorio Besso, allievo di Giuseppe Venanzio Sella, viene ricordato dalla locale “Gazzetta Biellese” come fotografo di “capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”)[10] e tra 1872 e 1877 a lui si deve l’accurata documentazione dei restauri condotti da Alfredo d’Andrade al Castello di Rivara per incarico di Carlo Pittara; immagini presentate dallo stesso D’Andrade alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880 ad illustrazione del suo primo intervento di restauro o meglio ­in questo caso – di reinvenzione.[11] Nel 1878 inizia la propria attività anche Secondo Pia che dodici anni più tardi, in occasione dell’Esposizione Italiana di  Architettura di Torino del 1890, riceverà una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi” riconoscimento offerto anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[12]. Torna in mente l’appello Ruskin: “the greatest service which can at present be rendered to architecture, is the careful delineation of details … by means of photography. I would particularly desire to direct the attention of amateur photographers to this task”[13],  ma ancora nel 1900 Masoero sottolineerà questo aspetto dell’attività di Pia che “dona alla storia tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case che riproducono per commerciare, ed  il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”[14]

Secondo Pia costituisce il termine di paragone di tutta una generazione di “amateur photographers” piemontesi che si dedicheranno con profonda attenzione e competenza alla scoperta ed alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico regionale che avrà poi in Francesco Negri uno degli esponenti di maggior rilievo. La situazione vercellese intorno agli anni Settanta sembra invece essere meno attenta alla produzione di fotografie di documentazione: lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, uno dei primi aperti a Vercelli, nel 1863, pare occuparsi solo di ritratto[15]; Giuseppe Costa negli stessi anni è impegnato essenzialmente come insegnante di disegno o al più si limita a riprodurre le opere del fratello Carlo. Si dovrà attendere il 1873, con l’apertura dello studio di Federico Castellani, già titolare di un altro studio ad Alessandria, per avere una prima documentazione del patrimonio architettonico della città: nel giugno di quell’anno egli presenta infatti l’Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli, costituito da 23 stampe. La distinzione fatta nel titolo tra vedute, edifizi e monumenti è indicativa del tipo di approccio di Castellani: l’intento documentario si stempera nell’illustrazione, alle architetture civili e religiose si affiancano la stazione ferroviaria ed il ponte sul Sesia, ed anche la ripresa del singolo monumento lo pone in un contesto più ampio, facendone il soggetto principale ma non unico dell’inquadratura.[16]

Diversamente da quanto era avvenuto ad esempio in Francia, in cui la scoperta della fotografia aveva coinciso con un periodo di rinnovato interesse per il patrimonio architettonico e con la creazione delle società di studi archeologici[17], a Vercelli la presenza di Edoardo Arborio Mella, chiamato a far parte nel 1870 della Commissione incaricata di istituire un primo elenco di monumenti nazionali, poi nominato “Ispettore degli scavi e monumenti di antichità di Vercelli”[18] e quella non meno importante del padre barnabita Luigi Bruzza, insigne archeologo, autore nel 1874 di uno studio dedicato alle  Iscrizioni antiche vercellesi   lodato da Theodor Momsen, che portò alla costituzione nel 1875 di un museo a lui dedicato, destinato a raccogliere “i cimeli lapidei della storia e delle vicende dell’ Agro vercellese”[19], non determinò attenzioni particolari per un uso documentario della fotografia.  Nel 1883 un altro padre barnabita, Giuseppe Colombo, utilizzando studi del Bruzza, pubblica a spese dell’Istituto di Belle Arti Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi; a questo studio farà riferimento nel 1886 il fotografo Pietro Boeri realizzando, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, uno splendido album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, primo e insuperato esempio a livello locale di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico. Non è per ora possibile sapere se l’album di Boeri nasca da una iniziativa personale o non sia piuttosto il prodotto di una collaborazione qualificata, ma ciò che preme sottolineare è che il primo esempio di documentazione fotografica prodotto localmente si rivolge al patrimonio artistico e non a quello architettonico od archeologico che pure godevano dell’attenzione di studiosi di grande levatura. Ciò è ancora più strano se si pensa che nel campo dell’architettura il ricorso all’immagine fotografica era da tempo codificato ed utilizzato sia per il restauro che per la documentazione storico-critica: la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri ed Architetti Italiani, tenuto si a Torino nel 1884, aveva auspicato la formazione di una “raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche degli edifici nazionali”[20], affidandone la realizzazione al Collegio torinese che presenterà  nel successivo congresso tenuto si a Venezia nel 1887  il Catalogo del Museo Regionale di Architettura, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai  monumenti piemontesi, “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione … [quelle] degli altri paesi d’Italia”.  L’elenco delle fotografie esposte e quello dei donatori forniscono dati di grande interesse: la città di Vercelli non è documentata; tra i donatori (architetti, fotografi, ingegneri ecc.) non compare il Mella, mentre è presente il fotografo Castellani, che ha fornito un’immagine del duomo di Alessandria. L’assenza non sembra essere priva di significato. Se si pensa all’intensa attività di Edoardo Arborio Mella ed ai riconoscimenti ricevuti questa non può essere ascritta che alla particolare natura del museo che prevedeva appunto l’uso di riproduzioni fotografiche, cioè di una tecnica di documentazione e di analisi che, pur utilizzando, il Mella non aveva mai preso in seria considerazione, tanto che nella esposizione postuma  dedicata a tutto l’arco della sua attività, curata da G.G. Ferria su incarico di Federico Arborio Mella in occasione dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 – sezione Arte Contemporanea –[21] non compare neppure una fotografia.

Lo scarso interesse locale per la documentazione fotografica dell’architettura è confermato anche in una pubblicazione più tarda: nel 1898 si tiene, sempre a Torino, l’Esposizione Italiana di Arte Sacra; la serie di fascicoli editi in questa occasione presenta al n. 4, dedicato a Vercelli, immagini di diversi fotografi locali impegnati ad illustrare il patrimonio artistico ed architettonico della città: vi compaiono i nomi di Pietro Boeri, Secondo Gambarova, Giuseppe Costa e Pietro Masoero. La scelta dei soggetti privilegia soprattutto le opere della scuola pittorica vercellese, dedicando alla basilica di S. Andrea una sola immagine.[22] Compare nello stesso numero anche un breve articolo dedicato alla Madonna delle Grazie a S. Maria Maggiore  siglato P.M. (Pietro Masoero) che prelude al saggio più ampio dedicato a La scuola vercellese e i suoi maestri pubblicato dallo stesso autore nei n. 34 e 35, prima stesura del testo della conferenza accompagnata da proiezioni luminose che terrà nel 1901 ottenendo vasti riconoscimenti.[23] Ho cercato in una occasione precedente di ricostruire la nascita dell’interesse di Masoero per la scuola pittorica vercellese, basterà ricordare qui che può essere fatta risalire agli stretti rapporti che legavano Masoero ad un collezionista come Antonio Borgogna ma anche al ruolo svolto dall’Istituto di Belle Arti nell’opera di recupero e valorizzazione della “scuola pittorica vercellese”. Ciò che interessa sottolineare è però la scelta operata da Masoero, che dedica la propria attenzione di divulgatore al solo patrimonio pittorico; ancora una volta al monumento più importante  dell’architettura religiosa vercellese, la basilica di S. Andrea, non viene concessa che una semplice immagine; troppo recenti e troppo autorevoli erano gli studi sull’architettura di questo complesso perché qualcuno potesse pensare di affrontare nuovamente il problema.  Solo nel 1901 il canonico Pasté pubblicherà la Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea [24] integrando ed ampliando l’apparato documentario prodotto cinquanta anni prima da Carlo Emanuele Arborio Mella con contributi di altri studiosi e con nuove ricerche archivistiche. A questo saggio storico Pietro Masoero (con lo pseudonimo di Martin Pala) dedicherà una attenta recensione sul giornale “La Sesia”, inserendo quasi di sfuggita una breve annotazione relativa all’architettura, ma dovranno  passare altri sei anni perché l’analisi critica del monumento venga affrontata compiutamente.

Nel 1907 si pubblica il volume su S. Andrea frutto della collaborazione di Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella e Pietro Masoero. Le motivazioni che hanno portato a questa collaborazione, oltre ai temi di carattere generale ricordati in apertura, nascono dalla constatazione che “la nuda esposizione di fatti … da sola non risponderebbe alla dignità del soggetto, ma soprattutto, come ricorda esplicitamente Mella presentando la sezione da lui curata, perché “naturale complemento a quegli studi [deve] essere il racconto delle vicende edilizie dell’edificio stesso; essendo che l’arte è sempre l’espressione più veritiera, anche contrariamente alla volontà degli uomini, dei tempi nei quali ebbe vita.”[25] Ecco allora che “lo studio accurato dell’arte del nostro S. Andrea e del chiostro annesso, in rapporto coll’architettura religiosa del medioevo e nelle sue linee tecniche, parve conferire ad una illustrazione meno imperfetta e più accetta ai lettori. Perrocché è forse anche colpa nostra se le bellezze singolarissime di un monumento che ci è invidiato dai forestieri restarono finora note ad altri piuttosto che ai connazionali”. “Si volle per ultimo che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’ opera un senso di realtà e di vita”. Queste dichiarazioni di intenti si concretizzarono in un apparato iconografico di circa centotrenta immagini (98 fotografie e 31 rilievi) che percorre tutto il testo ed anzi correda prevalentemente la parte dedicata alla ricostruzione delle vicende storiche della abbazia, istituendo una serie di percorsi  paralleli tra dato storico (temporale) ed elemento architettonico (spaziale). Se il saggio storico adotta una sequenza strettamente cronologica, il saggio iconografico adotta una sequenza spaziale che nasce dall’integrazione tra percorso logico-architettonico (planimetria, volumetria) e percorso percettivo, entrambi realizzati per confronto diretto tra rilievo grafico e fotografico: partendo dal prospetto principale la sequenza si sviluppa illustrando il fianco meridionale, l’abside e quindi l’esterno della cupola; la sezione longitudinale dell’edificio introduce quindi la documentazione dell’interno, molto attenta agli elementi strutturali ed all’apparato decorativo, passando poi – attraverso la sala capitolare ed il refettorio – ad illustrare il chiostro ed il lato settentrionale della basilica, che chiude il percorso visivo.

Le fotografie di Masoero, a volte ritoccate in stampa, sono accuratamente impaginate e sovente tagliate per sottolineare gli elementi salienti o per correggere le distorsioni  prospettiche particolarmente evidenti sui bordi della lastra. Per i soggetti più complessi si procede seguendo il criterio ormai consolidato dal generale al particolare, utilizzando diverse riprese a distanza sempre più ravvicinata, ma anche procedendo ad ingrandimenti selettivi della stessa lastra quando le caratteristiche del soggetto ripreso (campanili, cupola ecc.) non consentono di procedere altrimenti. Le riprese, generalmente frontali, adottano a volte un taglio più scorciato per mettere in evidenza il gioco dei volumi, utilizzando con grande accortezza ombre molto marcate, senza però indulgere all’immagine d’effetto, seguendo in questo le precise intenzioni espresse da Federico Arborio Mella, il quale,  presentando l’apparato iconografico, parla di “disegni condotti senza alcun lenocinio di arte, quindi più fedeli ed esatti” e di immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato od alterato da alcun manierismo, la vera parvenza artistica o carattere stilistico”[26]  dell’ edificio.

Il volume, stampato in 600 esemplari, riscosse un buon successo di critica, e come ricordava la pubblicità redazionale contenuta nell’Archivio della Società Vercellese di Storia ed Arte del 1909 “Le 150 illustrazioni geometriche e fotografiche, a giudizio dei periti, non lasciano più nulla a desiderare: quelle completano l’analisi tecnica della basilica e del chiostro, queste danno la visione da terra di tutte le parti”[27],ma il coro di elogi non fu unanime: se “Civiltà Cattolica” definisce il volume illustrato “abbondantemente, anzi sovrabbondantemente, con vedute fotografiche generali e particolari, per ogni aspetto, ogni angolo, ogni minuzia”[28] mostrando di non comprendere la novità dell’impostazione complessiva, anche uno studioso avveduto  come Guido Marangoni, nel suo studio sulla basilica di S. Andrea pubblicato nel 1909, si limita a sottolineare che gli studi di Romualdo Pasté  “dal punto di vista artistico nessuna novella  luce hanno portato sull’interessante argomento. Ed anche Federico Arborio Mella, dedicandosi nello stesso libro allo studio artistico dell’Abbazia e  della Chiesa, si è limitato a raccogliere le varie e disparate opinioni degli autori precedenti, racchiudendosi in poche, timide ed eccessivamente modeste osservazioni personali”[29] senza rilevare il ruolo svolto dai rilievi grafici e fotografici e soprattutto senza ricordare l’opera di Pietro Masoero di cui lui stesso si era avvalso in questa ed altre  occasioni.

Quando viene pubblicata in “Rassegna d’Arte” la prima parte dell’articolo di Marangoni la stampa locale ne dà immediata notizia definendolo “articolo splendidamente illustrato con fotografie in gran parte inedite del nostro Masoero”[30]; l’affermazione non corrisponde al vero, poiché le fotografie che corredano il testo sono le stesse già utilizzate per il volume del 1907, ma dimostra con evidenza (oltre ad un tocco di campanilismo) quale peso avesse assunto la documentazione fotografica nell’economia complessiva dello studio, ciò di cui era del resto ben cosciente lo stesso Marangoni che nella ristampa del 1910 non mancherà di ringraziare Masoero: ” alla sua nota eccellenza di fotografo devo il materiale illustrativo onde questo studio si fregia, al suo  colto e consapevole entusiasmo per i tesori dell’arte autoctona, vado debitore di preziose notizie e di validissimo aiuto “. Per Marangoni era l’impostazione stessa dello studio di Arborio Mella a non essere soddisfacente poiché questi si limitava ad esporre le opinioni precedenti, indulgendo soprattutto, sulla scia degli studi del nonno Carlo Emanuele, all’ipotesi di una matrice inglese per l’architettura del S. Andrea, fermamente confutata da Marangoni, insieme a quelle che proponevano  derivazioni francesi o tedesche, a tutto favore di una rivendicazione dei caratteri sostanzialmente autoctoni dell’opera, basata soprattutto sull’analisi degli apparati decorativi. A questo tipo di analisi è strettamente connessa la scelta dell’apparato illustrativo: assenti i rilievi grafici, anche le viste d’insieme si riducono all’essenziale mentre invece abbondano immagini di capitelli, cornici, pinnacoli a sottolineare la matrice lombarda di questa architettura.

 

 

È questo un uso dell’immagine fotografica decisamente meno interessante di quello rilevato nel volume del 1907; la fotografia diviene semplice illustrazione, la sequenza perde di compattezza e si sfalda, ponendosi all’assoluto servizio del testo. La completezza e la complessità di articolazione della documentazione fotografica verranno invece riutilizzate in una pubblicazione di poco successiva: esce nel 1910 il n. 13 della serie “Italia Monumentale – Collezione di monografie sotto il patronato della «Dante Alighieri» e del Touring Club Italiano” dedicato a Vercelli, in cui un breve testo introduttivo di Francesco Picco accompagna una serie di fotografie di Pietro Masoero prevalentemente dedicate alla basilica di S. Andrea.[31] Qui sono le stesse caratteristiche editoriali della pubblicazione a far prevalere l’apparato iconografico, ancora una volta coincidente con quello utilizzato nel 1907 ma trattato con diversa attenzione: non solo l’ordine della sequenza abbandona la logica architettonica, disciplinare, a favore di un percorso schiettamente percettivo che passa dalla visione del prospetto principale all’interno, articolando poi sulla cupola – cioè sull’elemento anche visivamente emergente – il ritorno all’esterno, ma anche la singola immagine si presenta in modo diverso: scomparsi i tagli e l’ingrandimento selettivo la lastra viene utilizzata nella sua interezza, perdendo in parte l’efficacia dell’analisi a favore di un approccio più descrittivo, didascalico. Sembra quindi che la documentazione prodotta da Masoero non possa essere assimilata ad una vera e propria opera di rilievo, ma che abbia assunto questa veste solo sotto la guida attenta di Federico Arborio Mella. Si pone così il problema di individuare i tempi ed i modi della  realizzazione delle immagini fotografiche.

L’unica fonte a noi nota è costituita dal fondo Masoero conservato presso il Museo Borgogna di Vercelli, costituito da lastre, diapositive ed autocromie prevalentemente dedicate al patrimonio artistico ed architettonico vercellese;[32] il corpus di immagini relative a S. Andrea comprende un centinaio di lastre alla gelatina­bromuro in formati diversi dal 9/12 al 24/30 e due diapositive,  un esterno ed un dettaglio del portale principale, che sembrano costituire l’unico resto del materiale da proiezione utilizzato da Masoero nel corso della conferenza da lui tenuta a Novara la sera del 25 aprile 1909, dedicata alla basilica. Dal confronto tra le lastre e le immagini utilizzate nelle varie pubblicazioni emerge immediatamente un dato interessante: le fotografie pubblicate nella maggior parte dei casi non corrispondono alle lastre a noi pervenute che, anzi, si presentano in più di un caso come prove non perfettamente riuscite delle riprese poi utilizzate in sede di pubblicazione. Il dato pone interrogativi inquietanti, a cui peraltro non sono ancora in grado di rispondere, soprattutto ricordando che per esplicita volontà dello stesso Masoero, prima amministratore e poi presidente del Museo Borgogna, tutto il suo fondo fotografico era stato donato al museo stesso, come ricordano esplicitamente anche i necrologi pubblicati alla sua morte, nel 1934. Il materiale conservato presso il Museo, prescindendo dalla discontinua qualità delle singole immagini, fornisce comunque dati di rilevante interesse, soprattutto perché molte delle lastre sono accompagnate da annotazioni autografe con indicazioni relative a data e tempi di ripresa. L’11 gennaio del 1890 Masoero fotografa per la prima volta la navata centrale e la navata destra, proseguendo poi fino ai primi di marzo con una attenzione particolare per gli interni o per i singoli elementi quali il confessionale del XVII secolo, la tomba dell’abate Tommaso Gallo (sec. XIII) ed il monumento ad Edoardo Arborio Mella del 1889, escludendo quasi del tutto le riprese in esterno che comprendono solo una serie di tre immagini del transetto e di parte della navata ripresi dal chiostro, interessanti soprattutto per ricostruire il suo modo di impostare la documentazione per aggiustamenti progressivi. Fanno parte di questa prima serie di immagini anche alcuni interni con figure in cui la ripresa architettonica lascia il posto ad annotazioni di costume. Non si può quindi ancora parlare di una intenzione chiara e coerentemente sviluppata (almeno a giudicare dal materiale disponibile) ma, come abbiamo ricordato, in questi anni a Vercelli non esistono esempi di documentazione fotografica dell’architettura a cui fare riferimento, certamente non favoriti dalla presenza di uno studioso come Edoardo Arborio Mella.

Le prime riprese di Masoero, all’epoca ancora direttore dello Studio Castellani, nascono da una iniziativa personale, connessa all’interesse nascente per il patrimonio architettonico ed artistico della città in cui risiedeva, e forse anche alla progressiva conoscenza dell’ opera di altri fotografi piemontesi. L’esempio di Secondo Pia, premiato nel 1890 per la sua opera di documentazione, dovette certamente indurlo a proseguire l’opera di documentazione, impostandola con nuovi criteri di organicità e completezza: nel giugno del 1892 Masoero apre il proprio studio in via Caserma di  Cavalleria al n. 1, dedicandosi soprattutto al ritratto, e circa un anno dopo, dal 20 marzo al 19 aprile del 1893, fotografa la chiesa con lastre 18/24 rilevandone prospetti, interni e dettagli, ritornando sui soggetti fotografati tre anni prima. I dati di ripresa scrupolosamente annotati (pratica del resto comune ad altri) mostrano la preoccupazione di produrre immagini prospetticamente corrette che rendano compiutamente la volumetria dell’intero complesso, fotografato più volte con obiettivi diversi, impiegando il grandangolare solo in casi eccezionali, quando le condizioni di ripresa non consentono alternative. La campagna fotografica del 1893 risulta essere la più completa (altre immagini vennero realizzate ancora nel 1896 e nel 1899 in modo certamente più occasionale e saltuario)[33], ma rimarrà inutilizzata ancora per molti anni e probabilmente sconosciuta  anche in ambito locale se l’unica immagine di S. Andrea presente nel già ricordato fascicolo di “Arte Sacra” del 1898 si deve a Giuseppe Costa. L’attività fotografica di Masoero, che pure in quegli anni riceverà una significativa serie di riconoscimenti, era caratterizzata dalle sue note capacità di ritrattista e, in ambito più strettamente professionale, dalle iniziative sostenute a favore della costituzione di scuole di fotografia, mentre si andava consolidando la sua fama di divulgatore e di studioso della scuola pittorica vercellese. La documentazione dell’architettura della basilica di S. Andrea, che pure per quasi vent’anni costituirà uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, viene lasciata in secondo piano, per essere ripresa solo nel 1907 quando, dietro lo stimolo di Federico Arborio Mella, Pietro Masoero tornerà per l’ultima volta  fotografare la chiesa, con lastre di grandi dimensioni (24/30), attento soprattutto ad “evitare un pericolo … di cadere nel manierato … Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni … L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità”.[34]  Per Masoero, appassionato studioso della pittura vercellese, la fotografia di architettura non era che un documento.

 

Note

 

 

[1] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907. In seguito citato come PMM.

 

[2] Daniela Biancolini,  Carlo Emanuele Arborio Mella (1783­1850), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980,  voI. III, p. 1387.

 

[3] Carlo Emanuele Arborio Mella, Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli. Torino: Lit. Giordana, 1856.

 

[4] Edoardo Arborio Mella, Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli. Torino: Stamperia Reale di G.B. Paravia e C.,1881.

 

[5] Anna Maria Rosso, Il fondo disegni di Edoardo Arborio Mella conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli,  in

Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti  – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 67-75.

 

[6] Lucetta Levi Momigliano, La Giunta di Antichità e Belle Arti,  in Cultura figurativa e architettonica 1980,  vol. 1, pp. 386-387.

 

[7] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1897 in Edoardo Arborio Mella 1985  pp. 149­-158.

 

[8] Milano, Civica Raccolta Stampe A. Bertarelli, Pubblicità di fotografi. Il verso della carte de visite porta, oltre all’intestazione dello studio, una veduta della basilica di S. Andrea.

 

[9] Istituto di Belle Arti di Vercelli, Fondo Mella. Il fondo proviene dal lascito di Federico Arborio Mella: “Lascio pure al suddetto Istituto di Belle Arti tutta la raccolta di disegni del compianto mio padre, quella di riproduzioni fotografiche di monumenti, di quadri, di statue”,  cfr. A.M. Rosso, il fondo disegni, op. cit., p. 67.

 

[10] Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p. 55. A Vittorio Besso si deve anche lo splendido Album artistico ossia raccolta di 326 disegni autografi di valenti artisti italiani” del 1868, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, che gli valse una medaglia all’Esposizione di Vienna del 1873.

 

[11] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura,  in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

[12] I Esposizione Italiana di Architettura: Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L. Roux e C., 1891, p. 49. Si veda anche Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981.

 

[13] Cfr. Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale, 1986. Una più ampia traduzione del brano di Ruskin è riportata a p. 16.

 

[14] Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p. 278. Non mancavano però le critiche rivolte all’uso indiscriminato della fotografia nella pratica architettonica. Si veda in proposito Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p. 18: ” non riuscì altrettanto di buon augurio il vedere come molti architetti, dilettanti fotografi, preferiscano servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano … Quello che riesce di maggiore giovamento all’ educazione artistica dell’architetto è il paziente e intelligente rilievo fatto sul sito”.

 

[15] Becchetti 1978, p. 126.

 

[16] Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra, apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977 p. 27, Tav. XXIV.

 

[17] Françoise Heilbrun, Charles Nègre et la photographie d’architecture,  “Monuments historiques, Photographie et Architecture”, 1980, n. 110, p. 18. Per ulteriori informazioni sui rapporti tra tutela e documentazione fotografica in Francia si veda Françoise Bercé,  Les premiers travaux de la Commission des Monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

 

[18] Liliana Pittarello: La posizione di Edoardo Arborio Mella all’interno del dibattito ottocentesco sul restauro , in Cultura figurativa e architettonica 1980, vol. 2, p. 768.

 

[19] Luigi Bruzza: storia, epigrafia, archeologia a Vercelli nell’Ottocento, Guida alla mostra. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984.

 

[20] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero,1887, p.1.

 

[21] Esposizione Genera1e Italiana di Torino 1884: Arte contemporanea Catalogo Ufficiale. Torino: Unione Tipografica Torinese, 1884, p. 114. L’ingegnere Giuseppe Gioacchino Ferria aveva presentato nel luglio del 1883 una memoria Sul rilevamento architettonico coll’uso della fotografia poi pubblicata in “Atti della Società degli Ingegneri e degli Industriali di Torino”, 17 (1883). Torino: Tip. Salesiana, 1884, pp. 43-48, che viene unanimemente considerato il primo studio italiano di fotogrammetria. Gli interessi di Ferria non sembrano aver influito sulle opinioni di Federico Arborio Mella relative all’uso della documentazione fotografica dell’architettura; un riferimento più concreto, forse un modello, potrebbe invece essere individuato nella monumentale opera dedicata alla Basilica di S. Marco edita da Ferdinando Ongania a Venezia, di cui l’Istituto di Belle Arti di Vercelli possedeva una copia.

 

[22] “Arte Sacra”, Torino, n. 4, 1898, numero monografico dedicato a Vercelli.  La basilica di S. Andrea era già compresa nel catalogo Alinari. Cfr. Liguria, Piemonte, Lombardia. Vedute, bassorilievi, statue, quadri, affreschi ecc. Riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari.  Firenze: Tip. G. Barbera, 1899. Le immagini della basilica, nn. 15877-15881, comprendevano esterno, facciata, abside, interno, confessionale del XVII secolo.

 

[23] Antonio Taramelli, Per la diffusione della cultura artistica , “L’Arte”, 6 (1901), pp. 212-213: “Prima di lasciare il Piemonte debbo ricordare come alcuni studiosi abbiano cercato di aiutare la diffusione della cultura artistica col mezzo di conferenze illustrate da proiezioni di fotografie. Debbo ricordare a titolo d’onore, quella del sig. Masoero di Vercelli, che a Torino ed a Firenze, espose una brillante serie di sue fotografie illustranti la pittura de’ Vercellesi”. Si veda anche P. Cavanna: Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 19895), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano, , Milano, Electa, 1985, pp. 150-154.

 

[24] Romualdo Pastè, Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea di Vercelli nel periodo medioevale 1219-1466, “Miscellanea di Storia Italiana”, Serie III, Tomo VII. Torino: Bocca, 1902, pp. 345-458. Questo studio era stato recensito da Masoero in “La Sesia” del 17 settembre 1901.

 

[25] Federico Arborio Mella in PMM 1907, p. 439. L’affermazione richiama il concetto di “Documento/Monumento” espresso da Jacques Le Goff in anni recenti.

 

[26] Ivi, p. 489, sottolineatura nostra. Sono ormai lontani i tempi in cui Pietro Selvatico pensava che la fotografia offrisse “le esatte apparenze della forma”. Pietro Masoero, sempre molto attento ai problemi posti da un uso corretto della strumentazione fotografica, aveva redatto uno studio relativo a La dilatazione dei supporti positivi, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp. 74-78.

 

[27] “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 1 (1909), n. 3-4.

 

[28] “La Sesia”, 27 settembre 1908.

 

[29] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli,  “Rassegna d’Arte”, 9 (1909), n. 7, pp. 122­126; n. 8/9, pp. 154-158; n. 11, pp. 180-186. I tre articoli vennero riediti in Guido Marangoni, Il bel Sant’Andrea di Vercelli Note ed appunti critici. Milano:  Alfieri & Lacroix, 1910. Il giudizio sul volume collettivo del 1907 è alla p. 12 di questa edizione. La volontà di compilare una semplice rassegna degli studi critici precedenti era stata palesemente espressa da Federico Arborio Mella: ” Mi asterrò nel mio scritto … da ogni giudizio mio personale; essendo unico mio scopo quello di mostrare il S. Andrea quale fu nei tempi passati e quale è oggi; illustrandolo coi giudizi e colle opinioni di quanti io conosco essersi proposto ad oggetto degli studi loro il nostro monumento” (Cfr., PMM, op. cit., p. 439). Ma in almeno un’occasione non può esimersi dal formulare la propria opinione, criticando proprio l’intervento del padre che nel 1850 aveva realizzato gli altari della cappella di S. Carlo e di S. Francesco di Sales “in uno stile archiacuto tedesco del secolo XIV” impiegando “un unico materiale bianco “. Ormai si sono fatta strada i nuovi concetti di restauro propugnati da Camillo Boito e da Alfredo d’Andrade e le teorie di Viollet-le-Duc sono state abbandonate. “Sarebbe stata certamente ottima cosa che il monumento ci fosse pervenuto integro anche in quelle parti, che dal punto di vista architettonico si possono ritenere accessorie … ” conclude amaramente Federico Arborio Mella (ivi, p. 487).

 

[30] “La Sesia”, 25 luglio 1909.

 

[31] Francesco Picco, Vercelli, con “Sessantaquattro illustrazioni fornite dallo Studio fotografico del Cav. Pietro Masoero/Vercelli”. Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[32] Il fondo fotografico, pervenuto al Museo Borgogna per lascito dello stesso Masoero, giace per ora scarsamente utilizzato ed in precarie condizioni di conservazione. Le lastre sono in parte conservate nelle loro confezioni originali, corredate da annotazioni autografe, ma prive di protezioni contro luce, polvere ed umidità, tanto che in numerosi casi l’emulsione tende a staccarsi dal supporto, soprattutto ai bordi. Una prima parziale schedatura del fondo, relativa alle riproduzioni delle opere di Bernardino Lanino, è stata realizzata in occasione della mostra del 1985. Cfr.  Laura Berardi, P. Cavanna, Elenco ragionato delle fotografie di Pietro Masoero relative all’opera di Bernardino Lanino. Per ulteriori notizie sulla storia e sulle importanti collezioni del museo si veda Laura Berardi: Il Civico Museo Borgogna ­Vercelli.  Milano: Federico Garolla, 1985.

 

[33] Pietro Masoero,  Il sepolcro dell’abate Gallo in S. Andrea. 14 gennaio 1899 dalle 11.40 alle 12.30, Lastre Orto Cap. [Ortocromatiche Cappelli] da 2 mesi almeno nel chassis, diafr., temo posa (7) “. Vercelli, Museo Borgogna, Fondo Masoero, Scatola 14, lastra 18/24.

 

[34] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171.

Un poco fuori fuoco[1]. Torino 1884-1898: dalla fotografia d’arte alla fotografia artistica (2013)

 

Erano i primi giorni dell’anno 1870 quando una giovane donna, per noi sconosciuta, si presentava nel prestigioso studio torinese di Luigi Montabone per farsi ritrarre nel sontuoso costume medievale  che aveva scelto per partecipare al gran ballo a palazzo Reale offerto dal duca Amedeo d’Aosta, il 16 febbraio[2]. Scelta condivisa nei giorni successivi  dai 248 partecipanti  che decisero di farsi fotografare dai più prestigiosi studi torinesi (Le Lieure, Montabone e Schembosche) raccogliendo poi le immagini in un album da donare al duca, ormai divenuto re di Spagna.  Dopo lo spostamento da Torino a Firenze della capitale del nuovo stato (e in attesa di Roma) l’ iniziativa  aveva lo scopo di ribadire quanto fosse rimasto saldo il legame fra la città e la casa regnante dei Savoia (il duca in costume da Conte Verde e la moglie in abito della sua sposa Bona di Borbone), adottando la forma simbolica della citazione medievaleggiante: la stessa che avrebbe  segnato ancora per più di un decennio la cultura torinese con un passaggio sottile quanto fondamentale tra revival neogotico, invenzione di una tradizione[3] con scopi politici e riappropriazione del patrimonio storico architettonico,  riconosciuto quale elemento fondamentale per la  definizione storica delle diverse identità nazionali.

Nel Piemonte sabaudo esisteva fin dal tardo Settecento una tradizione letteraria e storiografica che si era rivolta all’età medioevale, oscillando tra filologia e reinvenzione pittoresca di impronta romantica,  e specialmente a partire dal regno di Carlo Alberto ( 1831-1849) si affermò in architettura e ancor più nella produzione pittorica  un significativo gusto neogotico che si espresse in particolare con la rievocazione di personaggi ed episodi che illustravano e celebravano la dinastia regnante[4]. Dalle prime rappresentazioni di un Medioevo romanticamente idealizzato e ricostruito con scarsa attenzione per la  verosimiglianza storica si era però ben presto passati a un atteggiamento radicalmente differente in cui il pittore si proponeva “la più scrupolosa cura affinché nulla di arbitrario entrasse in questo dipinto, sia nelle figure (…) sia negli accessori diversi e nei costumi di quell’epoca”  al fine di coniugare “il positivo della Storia coll’ideale e poetico che una composizione pittorica deve possedere.”[5] Il richiamo alla totale assenza di arbitrarietà è sintomo della nuova cultura che si andava diffondendo, attenta alla registrazione scrupolosa e oggettiva del reale, da intendersi in campo artistico quale presupposto e contesto della rappresentazione. Erano gli stessi temi sui quali sarebbe tornato nel 1862 un altro pittore piemontese, Federico Pastoris, ma introducendo un elemento nuovo: “Figlia d’un secolo calcolatore  ed esatto, carattere speciale dell’arte odierna si può appunto dire l’esattezza (…) A cercare questa verità contribuisce in questi anni anche l’invenzione della fotografia. Credesi da taluno che quest’ultima, stante i suoi rapidissimo progressi, possa divenire l’apogeo della perfezione artistica e minacci d’invadere il campo della pittura; questo è un errore. Fra questa e quella occorre un tale divario che l’una potrà bensì influire sull’altra, ma confondersi giammai. Nella prima l’imitazione è scopo mentre nella seconda non deve essere che il mezzo di cui l’artista si serve per rendere un concetto, dopo averlo concretizzato col suo sentimento individuale, e radunato tutto quel corredo di cognizioni che sono necessarie a svilupparlo (…) per cui io credo che la fotografia, invece che nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi di imitazione.”[6] Giudizio opposto alle invettive di Baudelaire in occasione del Salon del 1859, rivolte  proprio a chi “si illuse di rendere le scene, tragiche o leggiadre, della storia antica associando e raggruppando davanti all’obiettivo gaglioffi e gaglioffe agghindati come i macellai e le lavandaie a carnevale, pregando questi eroi di voler prolungare, durante il tempo necessario all’operazione, la loro smorfia di circostanza”.[7] Nonostante queste differenze l’idea di un uso non più che strumentale della fotografia era però patrimonio comune della cultura del secolo, almeno per quel che riguardava le sue straordinarie capacità di riproduzione, così che già dal 1865, e per un decennio, gli Album pubblicati in occasione delle esposizioni annuali della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino ospitavano le prime riproduzioni fotografiche di dipinti, con belle stampe all’albumina: un fenomeno su cui torneremo. Non ebbe questo onore il dipinto, I Signori di Challant, presentato proprio da Pastoris nell’esposizione del 1865, una “vera scena di genere e di sentimenti borghesi  trasposta nel Quattrocento feudale e cortese del Piemonte e ambientata nel décor realistico di monumenti ancora esistenti.”[8] Questa opera, “dove si incontrano naturalismo e storicismo”[9] non venne particolarmente apprezzata dai contemporanei[10], ma segnava l’avvio della scoperta e dell’attenzione filologica per il patrimonio architettonico del Piemonte e della Valle d’Aosta. La scena era infatti ambientata in una delle sale, perfettamente resa in tutti i dettagli architettonici e d’arredo, del Castello di Issogne. Qui ritroviamo felicemente coniugati la resa analitica, fotografica quasi della descrizione architettonica e il ricco immaginario storicista della scena, in quella che a noi appare come un’oscillazione del gusto da comprendere e giustificare criticamente, mentre costituiva il primo esito maturo dell’atteggiamento culturale proprio di quel gruppo di intellettuali e artisti che avrebbe avuto negli anni immediatamente successivi un ruolo determinante nelle vicende che stiamo studiando. Proprietà dal 1872 di Vittorio Avondo, pittore e antiquario, il castello aveva ospitato nelle sue sale lo stesso Pastoris, il pittore e architetto Alfredo d’Andrade e lo scrittore Giuseppe Giacosa[11], riuniti a festeggiare il Natale vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme, così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[12] Un gioco letterario, raffinato e colto, in cui l’interesse per la storia e per i luoghi si intrecciava col piacere ancora privato della messa in scena, anticipando di poco il complesso e affascinante progetto del Castello Feudale, con precisa connotazione politica, realizzato in occasione dell’Esposizione Generale Italiana che si tenne a Torino nel 1884.

Per quella occasione venne ricostruito sulle sponde del fiume Po un piccolo villaggio assemblando con accuratezza filologica elementi tratti dai più significativi edifici piemontesi e valdostani del XV secolo sino a costruire un borgo chiuso da mura merlate  e dominato dall’inevitabile rocca. Come scrisse D’Andrade, a cui si deve l’ideazione originaria, “ogni cosa in questo insieme è un particolare vero (…) un inventario di tutti i dettagli (…) un dizionario del genere di quello che Viollet-Le-Duc aveva compilato per l’arte francese del medioevo.”[13]

Analogamente a quanto accadeva con gli album di fotografie, l’aggregarsi improvviso di elementi esistenti in luoghi diversi dislocava il visitatore nello spazio e nel tempo, scardinando ogni preteso realismo e nel Borgo trovava compiuta consistenza museografica quel concetto di analogo, di copia fedele e fungibile al reale che accomunava ‘ricostruzione’ e immagine ottico meccanica, mescolandosi ancora inestricabilmente con le suggestioni disciplinari e letterarie del restauro alla francese. In questa impostazione, in questa pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio e collage ed i sapienti aggiustamenti necessari ad adattare i parametri originali al nuovo contesto, riconosciamo il segno dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dalla già enorme diffusione della fotografia. Anche per questa realizzazione, come per ogni fotografia, si può così parlare di riscrittura apparentemente oggettiva del reale: il Castello feudale è un fotomontaggio tridimensionale, una stereoscopia improvvisamente vivibile, che riesce a dare concretezza materiale alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché – come rilevava Camillo Boito – “la compiuta finzione aiuta la fantasia (…). Ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effetti­vo”[14]. Il gioco illusionistico[15] era portato alle estreme conseguenze popolando le vie con figuranti in costume: effetto celebrato dai giornali dell’epoca e documentato da una bella serie di fotografie realizzate da  Vittorio Ecclesia[16], che aveva conosciuto Avondo a Issogne nel 1882, a cui venne affidato il ruolo di fotografo di scena di questo spettacolo della Storia. Questa serie di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, in grande formato, quasi piccoli quadri[17], nella loro apparente semplicità costituiscono uno snodo nella storia della fotografia italiana, nel percorso che avrebbe portato al riconoscimento della sua autonomia di immagine, della sua autorialità. Qui infatti il fotografo non si limitava a documentare la realizzazione architettonica ma, disponendo i figuranti in costume, metteva in scena con grande verosimiglianza (per quanto convenzionale, ovvio: nessuno poteva averne esperienza diretta, nessuno ne poteva giudicare la verità) la “vita civile del XV secolo”, con una operazione analoga a quella della coeva pittura di storia, con la quale condivideva in questo caso principi e modelli della rappresentazione.

Ciò che accomuna queste produzioni, e pone le basi per le scelte pittorialiste è la progressiva distanza dal referente documentario e la conseguente crescita di autonomia dell’immagine. È l’atto stesso della messa in scena a segnare una cesura, a maggior ragione nel caso di fotografie come queste (di queste fotografie) in cui la rappresentazione assume la forma della mise en abyme:  gli ambienti descritti, e le stesse figure, sono infatti a loro volta immagini che nella loro realtà materiale rimandano ad altro da sé. Queste fotografie di Ecclesia frequentano il limite tra imitazione come scopo (in quanto tale proprio della fotografia, per la cultura del XIX secolo) e come mezzo dell’espressione artistica. È proprio il ricorso alla presunta autenticità del mezzo fotografico che consente e determina il passaggio dalla rappresentazione alla verosimiglianza, superando le convenzioni di quella stessa pittura di storia che ne aveva costituito il modello iconografico, a sua volta conosciuto e mediato attraverso le riproduzioni fotografiche. Figure che per dimensioni e gamma tonale riducevano percettivamente la distanza tra i due media (tra le due forme di rappresentazione) sino a confonderne gli esiti: tra superficiale somiglianza e affinità.

Sulla scia di questa serie, lo stesso Ecclesia avrebbe riproposto il tema dell’architettura animata da personaggi in costume in una delle due versioni  dell’album dedicato al castello di Issogne[18], realizzato nel 1884 per incarico di Avondo, ma proprio l’uso sporadico di questa soluzione compositiva mostra come, al di fuori dello spazio artificiale del Borgo, l’autore non si sentisse ancora pienamente legittimato a mescolare documento e ‘arte’ in una sola immagine, ciò che poi fece Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[19] nell’autunno del 1898 nel corso della campagna fotografica dedicata alle architetture della Valle d’Aosta[20], realizzata forse in previsione di una collaborazione, poi non sviluppata, con Giuseppe Giacosa per la realizzazione del volume Castelli valdostani e canavesani.[21] In quella occasione Di Sambuy realizzò due diverse serie di riprese: quelle specificamente architettoniche – commercializzate a proprio nome e non troppo diverse da quelle realizzate da Mario Sansoni per Alinari in quello stesso anno[22] –  e quelle in cui l’architettura diviene scenografia e ambientazione delle gesta di figure in costume, poste in vendita come Studio Riproduzioni Artistiche e forse da intendersi quale omaggio al Giacosa della Partita a scacchi. Ritroviamo qui personaggi simili a quelli che abitavano le fotografie di Ecclesia ma la loro funzione è cambiata, modificando il senso stesso di queste fotografie. Sono figure singole, come il paggio fotografato ad Aosta, omaggio  a uno dei personaggi topici del medioevo cortese e fonte di ispirazione di molta pittura coeva[23], che qui diviene un vero e proprio ritratto (come l’imponente armigero barbuto fotografato sullo sfondo dell’architettura di Fenis e di Issogne), ma sono soprattutto  immagini in cui il contesto architettonico si trasforma in scenario di un’azione suggerita da un uso raffinato della grammatica fotografica: dallo scarto di messa a fuoco che concentra l’attenzione sulla figura all’uso misurato del mosso, che suggerisce alla nostra complicità di osservatori un’azione in corso: la fotografia si allontana dalla referenzialità sorda della sua funzione documentaria per trasformarsi in racconto d’autore, presentato come l’istantanea di un evento del quale noi possiamo solo immaginare i contorni e gli sviluppi. La trasformazione è segnata proprio dal passaggio dai tableaux vivants di Ecclesia all’azione simulata del Di Sambuy.  Risolutivo in tal senso il confronto tra due riprese del portale di Verres: nella prima Ecclesia collocava accanto allo stipite un uomo seduto e una stadia, per rendere la fotografia misurabile; nella seconda Di Sambuy, pur variando di poco il punto di vista, trasformava l’architettura in scenario in cui si muovevano due personaggi, ciascuno a sua volta impegnato in azioni differenti.  Le modalità espressive e le tecniche del racconto sono ora specificamente fotografiche, di una fotografia che si vuole consapevolmente artistica e rivendica il proprio diritto a produrre immagini autonome con i suoi propri strumenti, senza per questo rinunciare o – peggio – rinnegare i legami e i debiti con la storia delle immagini.

Diversamente da quanto sarebbe accaduto solo pochi anni più tardi con le  composizioni di ispirazione neoclassica e fiamminga di Guido Rey e di altri autori minori, qui la contrapposizione tra documento e arte fotografica, che avrebbe animato il dibattito modernista, perde di senso a favore di una concezione meno manichea. Credo anzi che sia ormai giunto il tempo di prendere in considerazione il fatto che la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica fosse solo apparente, frutto una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “L’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[24], uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore per la Francia della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, membro della Société Française d’Archéologie,  segretario (poi presidente) della Società fotografica ma anche della Société des Beaux-Arts di Caen, scriveva proprio sulle pagine del periodico torinese “La Fotografia  Artistica” che “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[25]

Aggiungiamo infine un elemento ulteriore, sinora mai considerato ma certo di non secondaria importanza: la critica coeva considerava Di Sambuy un  “professionista [che] non fa ritratti [che] forma una classe a sé nella quale si possono raccogliere allori, ed egli ne va raccogliendo, ma per esistere ci vogliono ed il suo disinteres­se ed il suo grande amore dell’arte per l’arte”[26]; questo professionista che di fatto si può permettere di comportarsi come un amateur, ci dice Masoero tra le righe, aveva in realtà anche una concezione politica della fotografia (artistica) come forma d’arte accessibile a molti: “Nel simpatico ambiente domestico (sweet home) che ogni savia ed accorta donna dovrebbe creare attorno a sé, quale dolce rete al consorte, il tenerae coniugis immemor di Orazio, la decorazione moderna, sobria e pura di linea e di colore, troverà largo sussidio nelle opere di fotografia artistica. Esse potranno procacciare alla più modesta abitazione i sani sorrisi dell’arte, nonché educare  ai sensi del bello le crescenti generazioni. Benvenuta adunque l’Esposizione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte decorativa moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale.”[27]

 

[1] La prima parte del titolo cita affettuosamente (e fuori contesto) Robert Capa, Slightly out of focus. New York: Henry Holt & Company, 1947.

 

[2] Un importante antecedente fu costituito dal gran “Ballo a corte con travestimenti” che si era tenuto il 13 aprile 1842 per celebrare le nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele con Maria Adelaide d’Asburgo Lorena, con un interessante Souvenir litografato da Lorenzo Pedrone, a cui seguì il 22 dello stesso mese un carosello storico in costume medievale in piazza San Carlo a Torino, illustrato in tavole cromolitografiche da Francesco Gonin. Rosanna Maggio Serra, Gonin e i festeggiamenti per le nozze di Vittorio Emanuele. In: Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830-1865. Torino: Banca CRT, 2001, pp.126-127. La consuetudine del mascheramento e del ballo in costume poteva però avere occasioni e motivazioni diverse; si veda ad esempio  la Raccolta/ di/ Quadri Storici e di genere [attenzione al significato delle maiuscole]/ Composti ed eseguiti dal vero/ dal/ Pittore Giacomelli, pittore di storia di una certa notorietà, verso il 1860; cfr. Italo Zannier, Un inedito: Vincenzo Giacomelli pittore-fotografo, “Fotologia”, n. 21-22, 2001, pp. 4-7.

 

[3] Il concetto è stato definito da Eric Hobsbawm, Introduction: Inventing Traditions, in Id., Terence Ranger, editors, The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 1-14 (p.4). Naturalmente la fortuna del medioevo fu – come è ben noto – uno dei fenomeni più rilevanti e pervasivi della cultura ottocentesca a livello europeo, sebbene con forti specificità nazionali e locali, determinate dall’intreccio tra istanze politiche e culturali e riconoscimento di un valore estetico che di quelle è espressione, cfr. Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di,  Arti e storia nel Medioevo. IV. Il Medioevo al passato e al presente. Torino: Einaudi, 2004.

 

[4] il “romaticismo più o meno veemente” di D’Azeglio, Migliara e Gonin, Biscarra e Michele Cusa, che realizzano dipinti di storia con episodi dinastici, 1831, 1839; Pietro Ayres, ritratto di Amedeo VI, 1840; Arienti, 1841; Marocchetti: statua equestre di Emanuele Filiberto, 1838; Palagi, gruppo del Conte Verde, 1843). Nel decennio precedente l’Unità i soggetti medievali della pittura di storia si allontanano dalla celebrazione dinastica per affrontare temi che assumono valenza simbolica in termini di epica risorgimentale (Hayez, La sete dei Crociati, 1850; Arienti, Il Barbarossa ad Alessandria, 1851; Gastaldi, Il primo moto del Vespro Siciliano, 1852) per tornare a temi  ancora sabaudi subito dopo l’Unità (Gaetano Ferri, Il matrimonio di Oddone di Savoia, 1864; Enrico Gamba, Beatrice di Portogallo sposa a Carlo III di Savoia, 1865) che si affiancano però ormai a un più ampio e generalizzato richiamo al Medioevo come vagheggiata stagione cortese (Pastoris, I Signori di Challant, 1865; Maso Gilli, Margherita al confessionale, 1865; Rayper, Passeggiata amena, 1866). Secondo Federico Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani nella storia della pittura. In: Atlante, ”Storia d’Italia”,  V. 6. Torino: Einaudi, 1976, pp. 3-65 (p. 56), in quel periodo le arti visive “risentono della musica e, sulla scia dei libretti e delle scene in costume, si moltiplicano i dipinti che esplorano i fatti della storia italiana, del Medioevo comunale, delle repubbliche mercantili, di episodi anticipatori dello spirito di indipendenza: e anche questo del ripensamento storico è un modo di percepire sé stessi, nel riandare al passato nei suoi aspetti esemplari per moralità civica o quale origine delle componenti su cui si forma il presente.”

[5] Felice Cavalleri, Amedeo III giura la Sagra Lega per l’impresa di Terra Santa, relazione a Carlo Alberto a proposito del dipinto che il re gli aveva commissionato; Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite, Fondo Casa di Sua Maestà, cart. 2175, citato in  Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte,  p. 115.

[6] F. Pastoris, Episodio della giovinezza di Filippino Lippi, del Signor Carlo Felice Biscarra, in Luigi Rocca, a cura di, Album della Pubblica Esposizione del 1862. Torino: Vincenzo Bona, 1862, pp. 41-43 (p. 43).

 

[7] «D’étranges abominations se produisirent. En associant et en groupant des drôles et des drôlesses, attifés comme les bouchers et les blanchisseuses dans le carnaval, en priant ces héros de vouloir bien continuer, pour le temps nécessaire à l’opération, leur grimace de circonstance, on se flatta de rendre les scènes, tragiques ou gracieuses, de l’histoire ancienne. Quelque écrivain démocrate a dû voir là le moyen, à bon marché, de répandre dans le peuple le goût de l’histoire et de la peinture, commettant ainsi un double sacrilège et insultant à la fois la divine peinture et l’art sublime du comédien. »,  Charles Baudelaire, Salon de 1859, II, Le public moderne et la photographie,  “Revue française”, 5, (1859) n. 158,  10 Juin,

 

[8] Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino. In: Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra, (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981),  a cura di  Maria Grazia Cerri,  Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze, Vallecchi, 1981,  pp. 19-43 (p.31).

 

[9] Ibidem.

 

[10] “se l’occhio è appagato, se l’intelligente approva, il cuore risulta freddo, l’animo non si commuove, la mente non pensa: sono bei quadri, ma nulla più.”, Armando Benvenuti, I Signori di Challand. In: Luigi Rocca, Album della Pubblica Esposizione del 1865. Torino: Società Promotrice delle Belle Arti, 1865, pp. 35-37 (p. 36).

[11] In quello stesso periodo lo scrittore lavorava all’opera teatrale Una partita a scacchi, prendendo spunto da una chanson de geste del XII secolo pubblicata in Francia da Viollet-Le-Duc ma anche dal dipinto I signori di Challant, di Pastoris a cui l’opera è dedicata. Questa venne  rappresentata per la prima volta a Napoli nel 1873 con la scenografia di D’Andrade. Ancora nel 1891 Giacosa scrisse la Signora di Challant, portata in scena a New York da Sarah Bernhardt e da Eleonora Duse in Italia.

 

[12] Giuseppe Giacosa, 1908, citato in Sandra Barberi, a cura di, Il Castello di Issogne in Valle d’Aosta : diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo. Torino: Allemandi, 1999, p. 149.

 

[13] Lettera di D’Andrade a Francesco Carandini datata 1909, citata in F. Carandini, La Rocca e il Borgo Medioevali eretti in Torino dalla Sezione Storia dell’Arte. La figura e l’opera di Alfredo d’Andrade. Ivrea: Viassone, 1925, p. 95.

 

[14] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, pp. 107-125. Boito aveva da poco pubblicato Architettura del Medio Evo in Italia : con una introduzione sullo stile futuro dell’architettura italiana, Milano, Ulrico Hoepli, 1880.  Autore dei disegni di armature, arredi e stoffe per il Borgo Medievale fu Alberto (Tommaso) Maso Gilli (Chieri 1840-Calvi dell’Umbria 1894), pittore di storia, amico di Avondo e successore di Pastoris all’Albertina, poi Direttore della Regia Calcografia a Roma. Di quelle sue realizzazioni fece realizzare una documentazione fotografica esaustiva, ma anonima, poi raccolta in album e donata al Ministero ( e non al Ministro) della Pubblica Istruzione nel 1886, a pochi mesi dalla nomina a  Direttore, oggi conservata nel Fondo della Direzione Antichità e Belle Arti della Fototeca Nazionale dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.  Per  Carlo Nigra nei quadri di soggetto storico di Maso Gilli “egli ebbe campo di sfoggiare la conoscenza profonda che aveva delle suppellettili e dei costumi delle epoche che illustrava. Questa sua particolare scienza gli valse di essere chiamato dall’Avondo ad aiutarlo nella sua opera di riassetto del castello di Issogne, e poi di far parte della Sezione di Storia dell’Arte che costrusse questo Borgo e Castello medievali, dove egli ebbe lo speciale incarico di raccogliere, disegnare e far eseguire costumi, mobili, ari, stoffe, ecc. pel loro arredamento.”, Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevali nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino: Tipografia Carlo Accame, [1934].

[15] “Così, improvvisamente, dopo fatto un giretto vizioso tra gli alberi per un sentiero ombroso, si arriva all’ingresso del Borgo feudale, le cui mura non puoi credere non abbiano quattro secoli almeno (…). Da questo punto l’illusione ti afferra e non ti abbandona più, cresce anzi, inoltrandosi, tanto che poco per volta ti aspetti l’umiliazione di trovarti ridicolo in giacca moderna, calzoni e cappello molle o cilindro (…). Il castello medioevale col suo borgo è una creazione moderna con tipi antichi, ma presenta negli oggetti che contiene un museo abbondante e interessantissimo per la Storia dell’Arte industriale e la storia del feudalesimo”,  “Rivista della Esposizione Nazionale italiana”, n.7,  1884, p. 35.

[16] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), attivo a Torino sino al 1878, quindi ad Asti, fu uno dei migliori fotografi piemontesi della fine del XIX secolo, autore di importanti campagne documentarie dedicate specialmente all’architettura medievale, realizzate per committenze pubbliche e private; cfr. P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[17] Il loro successo di lunga durata è testimoniato anche dalla pubblicazione a venticinque anni di distanza sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911, pp. 98 e segg. , poi ancora in parte riprese da Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevali, 1934, pur omettendone la paternità.

[18] Issogne, s.d. [1884], tavola IV, Parte del cortile col pozzo, nell’edizione in piccolo formato (stampe di 13×18 cm) presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno mentre risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore. Il breve testo di Giacosa che apriva l’Album era destinato “solamente a dare una data e un nome alle tavole che seguono”  cioè alle diciotto fotografie di Ecclesia che costituiscono il nucleo portante della pubblicazione. Dodici di queste vennero riprese in Robert  Forrer, Spätgotische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassburg: Schlesier, 1896, ma pur fa­cendo espresso riferimento nel testo all’opera italiana le im­magini vennero qui attribuite a Manias & Co. Le stesse fotografie serviranno ancora come base per le illu­strazioni di Carlo Chessa relative a Issogne che accompagnano il testo di Giuseppe  Giacosa, Castelli valdostani e canavesani.  Torino: Roux, Frassati & C., 1897.

[19] Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, (1854 – 1915 post), incisore e pittore dilettante, si dedica alla fotografia dal 1890 circa, divenendo in breve tempo uno dei protagonisti del­la cultura fotografica torinese e italiana. Vicepresidente del  primo (1898) e del secondo (1899) Congresso Fotografico Italiano e  di quello internazionale di Parigi (1900), Di Sambuy fu il Presidente del Comitato promotore e il Direttore artistico dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica che si svolse nell’ ambito della grande Esposizione internazionale di Arte de­corativa di Torino del 1902, in cui furono presentate più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession. Nel 1904 cede il proprio studio ad Arturo Ambrosio, titolare della prima casa di produzione cinematografica italiana, e intensifica la propria partecipazione alle esposizioni nazionali e la sua collaborazione alla rivista “La Fotografia Artistica”, sulla quale nel maggio 1913 (a. X, n. 5, pp. 71-75)  pubblicava La fotodinamica futurista di Anton Giulio e di Arturo Bragaglia, il primo saggio italiano dedicato a queste straordinarie immagini.

 

[20] Il 19 agosto 1898 Di Sambuy aveva inoltrato domanda “per riprodurre in fotografia i monumenti della Valle d’Aosta”, SBAPP – AS, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesistici del Piemonte, Archivio Storico,  Mastri e Protocolli P04; Cass. A8. La serie venne certamente realizzata nell’autunno successivo e nel febbraio  dell’anno successivo l’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti di Torino gli chiese “copie dovute delle fotografie degli edifizi di proprietà dello Stato in Valle d’Aosta che può avere ricavate.” (SBAPP – AS, Mastri e Protocolli P05, n. 252 del 18-2-1899). Nonostante il contenuto della richiesta, il repertorio rimasto comprende poche immagini dei monumenti più noti (Arco di Augusto, Porta Pretoria, i chiostri della Cattedrale e di Sant’Orso, il Priorato ad Aosta), a cui si aggiungono altri pochi esempi sparsi (il ponte romano di Leverogne, la torre di Graines, i castelli di Avise, Aymavilles, Sarriod de la Tour e Ussel), mentre prevalgono le vedute (con i centri abitati ampiamente inseriti nel loro contesto ambientale) e specialmente le riprese di montagna, anche di alta quota (ghiacciai del Furggen, Teodulo, tema sinora sconosciuto della sua produzione. Le serie conservate nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese, certamente incomplete – come si desume dalle iscrizioni al verso che indicano “Serie I” “Serie II Parte I” e “Parte II”, con soluzioni di continuità nella numerazione – rappresentano comunque il più ricco repertorio unitario di immagini di Balbo Bertone, mentre altre stampe, prevalentemente di ambientazioni con figure in costume ‘medievale’, sono comprese nel Fondo D’Andrade della stessa Soprintendenza e nel Fondo Avondo della Fondazione Torino Musei.

[21] Giacosa, Castelli valdostani e canavesani, dedicato alla memoria di Federico Pastoris e agli amici Avondo e D’Andrade, con incisioni f.t. di Chessa, datate 1897, e di Celestino Turletti  (derivate da fotografie Di Sambuy), mentre nel testo sono riprodotti disegni di Chessa, D’Andrade, Edoardo Rubino e Piero Giacosa. Il volume, offerto in dono agli abbonati de “La Stampa” per il 1898, poi ristampato numerose volte,  segna la conclusione della ‘scoperta’ ottocentesca del patrimoni castellano delle valli piemontesi ed era così presentato da Augusto Ferrero, Il nuovo libro di G. Giacosa, “La Stampa”,  29-11-1897 n. 330, p. 2:  “Castelli valdostani e canavesani (…) illustrerà (…) quella Valle d’Aosta, quelle balze del Canavese (…) a cui tornò mai sempre con fido tenace amore, di cui frugò i bruni ruderi e le ingiallite pergamene, da queste e da quelli rievocando torbide storie, fantasmi eroici e visini gentili. (…) Poiché il Giacosa, che è penetrato, come nessuno prima di lui, nell’intimità di quelle mura annose, ce lo ripopola delle figure che le abitarono un giorno: ci rappresenta il medioevo, non già tutto catafratto, o lucido, e rigido di ferree corazze e d’elmi, ma vivo, altresì, nella sua domestica vita che in molti punti si richiama alla nostra vita dell’oggi, e che di questa ha partecipato gli affetti, gli odii, le viltà, tutte le vicende serene e dolorose.” A testimonianza della diffusione di un gusto romanticheggiante e fantastico caratteristico di questo ambito culturale è interessante confrontare le descri­zioni di Giacosa con la produzione di alcuni fotografi suoi contemporanei, vedi ad esempio il castello di Montalto foto­grafato da Secondo Pia o la descrizione di Giacosa delle scritte presenti nel castello di Issogne e la relativa immagine dello Studio Riproduzioni Artistiche.

[22] “15 agosto (lunedì)[1989], “Fatto viaggio da Ivrea a Aosta. Viag­gio splendido. La ferrovia costeggia quasi sempre la Dora, splendido fiume che passa fra certi punti stretti appena un metro e mezzo. Ad Ao­sta si parla la lingua francese e sia­mo in una bella vallata tutta contor­nata da monti altissimi e a picco.”,Mario Sansoni, Diario di un fotografo, “AFT- Rivista di Storia e Fotografia”,  n.5, Gennaio 1987, pp. 46-53 (p. 50). I soggetti sono quelli canonici, anche se prevalentemente circoscritti ad Aosta, più alcuni inevitabili castelli. A questi si aggiunge – un poco sorprendentemente per Alinari – molta montagna, ma circoscritta alla valle di Gressoney, benedetta dalla presenza della Regina Margherita, che Sansoni ricorda nel suo diario di avere “Veduta più volte”.

 

[23] Per limitarsi ad esempi ben noti in ambito torinese, ricordo il bel disegno di Testa maschile con copricapo (costume rinascimentale) di Francesco Mosso, amico di Vittorio Avondo e allievo di Alberto (Tommaso) Maso Gilli all’Albertina nel 1871-1872 e il dipinto di Antenore Soldi, Lelio, ispirato a uno dei personaggi del racconto Isabella Orsini, duchessa di Bracciano di Francesco Guerrazzi, pubblicato a Firenze da Le Monnier nel 1844, presentato all’esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino del 1871, illustrato da Gioacchino Toesca di Castellazzo nell’ Album della Pubblica Esposizione del 1871, a cura di Luigi Rocca. Torino, 1871, pp. 14-15, dove venne riprodotto in una “Tavola fotografica bellamente eseguita dal Berra, uno de’ nostri più distinti fotografi” e che costituì certamente un riferimento importante per una fotografia di analogo soggetto del Di Sambuy.

[24] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907,), n. 2, febbraio, p. 30.

[25] Alfred Liégard, La question de la photographie documentaire,  “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 6-7.

[26] Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n.4, 1900, p. 12.

 

[27] Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”,  28-11-1901, n.330 – p. 1.