Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

Bibliografia di riferimento

 

Alberti 1959

Guglielmo Alberti, Bernardo Berenson, “Motor Italia”, 34 (1959), n. 49, pp. 92 – 98

 

Andreis 1933

Luigi Andreis, L’arte sincera, “Galleria”, 1 (1933), n. 1, luglio, pp. 7 – 8

 

Andreis 1937

Luigi Andreis, Gli artisti italiani al V° Salone Internazionale di Torino, “Galleria”, 5 (1937), n. 5, maggio, pp. 10-11

 

Angeloni 1925a

Italo Mario Angeloni, Recenti manifestazioni dell’attività fotografica in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 5, maggio, pp.67-68

 

Angeloni 1925b

Italo Mario Angeloni, Luminosa vittoria (Per “Luci ed Ombre” del 1925), “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 11, novembre, pp. 169-171

 

Angeloni 1926

Italo Mario Angeloni, Arte consolatrice, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 11, novembre, pp. 241-243

 

Angeloni 1934a

Italo Mario Angeloni, “Luci ed Ombre” 1934, “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, pp. 591-592

 

Angeloni 1934b

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, p. 592

 

 

Angeloni 1935

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 32 (1935), n. 1, gennaio 1935, p. 14

 

Angeloni 1937

Italo Mario Angeloni, Il V Salone Internazionale di Fotografia Artistica, “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n. 6, giugno, pp. 134-136; n. 7, luglio, pp. 159-161

 

Angeloni 1938

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 1, gennaio, p. 14

 

Angeloni 1939

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 12, dicembre, p. 270

 

Angeloni 1940

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 37 (1940), n. 1, gennaio, p. 10

 

Annuario 1921

Annuario della fotografia artistica 1921: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1920

 

Annuario 1922-23

Annuario della fotografia artistica 1922 – 23: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1921

 

Anonimo 1923

Anonimo, Un precursore italiano della stereoscopia,  “Il Corriere Fotografico”, 19 (1923), n. 12, dicembre

Arte della fotografia 1927

L’Arte della fotografia alla terza Mostra internazionale delle arti decorative, catalogo della mostra (Monza,  Villa Reale), maggio – ottobre 1927. Milano: A. Rizzoli & C., 1927

 

Arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia : prima Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, Palazzo del Giornale al Valentino, primavera 1923). Milano – Roma : Bestetti & Tumminelli, 1923

 

Bellavista 1934-1936

Mario Bellavista, Tre concetti per fotografi moderni, “Galleria”, 2-4 (1934 – 1936)

 

Berengo Gardin 1982

Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo. Dieci anni di “Occhio quadrato” 1938/1948. Firenze: Alinari, 1982

 

Berenson 1966

Bernard Berenson, Tramonto e crepuscolo. Ultimi diari 1947 – 1958, a cura di Emilio Cecch. Milano: Feltrinelli, 1966

 

Bernardi 1927

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, VI annuale 1927. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1927, pp. IX-IXX

 

Bernardi 1928a

Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, pp. 641 – 643

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, 1928-VII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1928, pp. XI-XVI

 

Bernardi 1954

Marziano Bernardi, Un po’ di Piemonte, Torino, S.E.I., 1954

Boggeri 1929a

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.8, agosto, pp.557- 564

Boggeri 1929b

Antonio Boggeri, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1929-VIII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1929, pp. XIV-XVI

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi.  Milano: Hoepli, 1935

 

Borhan 1998

Pierre Borhan, André Kertész. Lo specchio di una vita. Milano: Federico Motta, 1998 (ed originale, André Kertész. La biographie d’une œuvre. Paris: Editions du Seuil, 1994)

 

Brezzo 1924

Guido Lorenzo Brezzo, Sfogliando “Luci ed Ombre” 1924. Impressioni di un profano, “Il Corriere Fotografico”, a21 (1924), n. 10, ottobre, p. 151

 

Brezzo 1926

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1926-V annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico, 1926, pp. XI-IXX

 

Brezzo 1927

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp. 201-204

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.11, novembre, pp. 777- 780

 

Brezzo 1930

Guido Lorenzo Brezzo,, Luci ed Ombre 1930, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n.11, novembre, pp.774- 778

 

Brezzo 1931

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1931-X annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1931, pp. IX-XV

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1934-XIII  annuale. Torino:Edizioni del Corriere Fotografico, 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1988

Carla Bricarelli, Stefano Bricarelli, un’intervista, “Fotologia”, 5 (1988), vol.9, maggio, pp. 29-35

 

Bricarelli 1914

Carlo Bricarelli S.J., Ottica fisica e ottica artistica. Roma: Civiltà Cattolica, 1914

 

Bricarelli 1924

Carlo Bricarelli S.J., La fotografia è capace di estetica?, “Luci ed Ombre”, 1924, pp. 5-8

 

Bricarelli 1912

Stefano Bricarelli, La fotografia artistica all’Esposizione di Torino 1911, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 1 gennaio, pp. 1791-1797

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, a. X, n. 8 agosto 1913, pp. 172255 – 2260

 

Bricarelli 1920

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1920, pp. 26-27

 

Bricarelli 1921

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1921, pp. 30-31

 

Bricarelli 1922

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1922, pp. 31-32

 

Bricarelli 1923

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1923, pp. 22-23

 

Bricarelli 1924

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1924, pp. 19-20

 

Bricarelli 1925

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1925, pp. 20

 

Bricarelli 1954

Stefano Bricarelli, Foto Annuario Italiano 1954, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954). n. 18, marzo, pp. 25-28

 

Bricarelli 1955

Stefano Bricarelli, Guido Rey, “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 29, aprile, pp. 22-29

 

Bricarelli 1956a

Stefano Bricarelli, Dilettantismo e professionismo fotografico in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 39, aprile, pp. 21-23

 

Bricarelli 1956b

Stefano Bricarelli, Storia di un Laboratorio, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 44, ottobre, pp. 37-41

 

Bricarelli 1958

Stefano Bricarelli, Visioni di Torino. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1958

 

Bricarelli 1968

Stefano Bricarelli, L’auto è femmina. Vent’anni di stile carrozziero a Torino nelle fotografie di Stefano Bricarelli. Torino: Motor Italia, 1968

 

Bricarelli 1975a

Stefano Bricarelli, Quando sugli oceani si andava navigando, “Motor Italia”, 75 (1975), n. 100,  pp. 82-90

 

Bricarelli 1975b

Stefano Bricarelli, Ritorno al 1936, qualche flash-back in U.S.A., “Motor Italia”, 75 (1975), n. 101, pp. 56-65

 

 

Bricarelli 1976

Stefano Bricarelli, Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta. Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1976

 

Bricarelli 1979

Stefano Bricarelli, Gli occhi della memoria. Milano: Automobilia, 1979

 

Bricarelli, Brezzo 1923

Stefano Bricarelli, Guido Lorenzo Brezzo, La nostra parte, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1923- II annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico 1923, pp. V-VII

 

Buffa, Ortoleva 1994

Cristiano Buffa, Peppino Ortoleva, Lingotto. Luogo. Simbolo, in Olmo 1994, pp. 151-192

 

Callari Nestri 1955

Febo Callari Nestri, La nuova fotografia industriale; fotografie di Stefano Bricarelli,  “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 30, maggio, pp. 20-28

 

Campari 1976

Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976

 

Caorsi 1982

Gigi Caorsi, Stefano Bricarelli fotografo e giornalista [intervista], “Piemonte vivo”, 16 (1982), n. 2, aprile, pp. 44-49

Carafòli 1957

Mario Carafòli, «Ciociaria 1956», Lettera aperta a un giovane, “Il Corriere Fotografico”,  54 (1957), n. 52, luglio, pp. 19 -21

 

Cartier-Bresson 1952

Henri Cartier-Bresson, Images à la Sauvette. Paris: Éditions Verve, 1952

 

Cartier-Bresson 1955

Henri Cartier-Bresson, Les Européens. Paris: Éditions Verve, 1955

 

Castruccio 1922

Giuseppe Castruccio, Come riuscire in fotografia. Milano: Il Corriere Fotografico, 1922

 

Cavanna 2003a

Pierangelo Cavanna, “La Fotografia Artistica”, in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895 – 1920.  Milano: Unicredit, 2003, pp. 166-167

Cavanna 2003b

Pierangelo Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp.40-116

 

Circolo Sciatori 1941

Circolo Sciatori Torino, Annuario 1941. Torino: Impronta, 1941

Colombo 2003

Cesare Colombo, a cura di, Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Torino: Agorà Editrice, 2003

Colombo 2004

Cesare Colombo, a cura di, Ferrania. Storie e figure di cinema & fotografia.  Novara: De Agostini, 2004

 

Costantini 1987

Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Tornare a Ranverso (2000)

in Walter Canavesio, a cura di, Jaquerio e le arti del suo tempo.  Torino:  Regione Piemonte – Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 2000, pp.  111 – 133

 

 

“Jaquerio si conosce andando  a Ranverso”, ricordava Andreina Griseri nel ricostruire le vicende della fortuna critica del pittore[1], poiché proprio in quel luogo si era compiuta la scoperta dell’autografia delle opere mentre se ne forniva per la prima volta la conferma fotografica[2];  esito piuttosto che avvio delle campagne di documentazione della produzione pittorica del tardogotico piemontese, risultato non occasionale di una collaborazione tra studiosi e fotografi che era andata maturando a partire dagli stessi giorni in cui la nuova tecnica di produzione e riproduzione d’immagini aveva fatto la sua sconvolgente comparsa sul finire del quarto decennio dell’Ottocento, quando alle prime entusiastiche previsioni avevano fatto seguito considerazioni più attente e specifiche, che affrontavano  nel merito l’effettiva possibilità (almeno tecnica) di documentare correttamente le opere d’arte ed i dipinti in particolare.

Già il “Messaggere Torinese” del 23 febbraio 1839 aveva individuato uno dei temi che saranno poi cari a molta pubblicistica ottocentesca, ipotizzando che “il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo e infedeli”[3], e ancora nell’ottobre dello stesso anno Felice Romani aveva ricordato dalle pagine della “Gazzetta Piemontese” che “già si pensa a poter  riprodurre gli oggetti non solo colle loro forme e coi loro rilievi, ma eziandio coi loro colori”[4].  Nel novembre successivo però il fisico Macedoni Melloni, presentando alla Regia Accademia delle Scienze di  Napoli la sua Relazione intorno al Dagherrotipo[5], primo esempio italiano di analisi lucida e scientificamente attrezzata del fenomeno, a fronte della speranza espressa da molti di “ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura e il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro” affermava: “Ci duole l’animo di non poter confermarli in codeste lusinghe (…) No, gli oggetti colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro sulle lamine del Dagherrotipo (…) Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni  punto del quadro. Stando alle cognizioni sinora acquistate, par certamente improbabilissimo che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori superiori e inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo negare con ciò la possibilità d’imitare un giorno coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni riunite in un sol quadro; e fors’anche, gli stessi colori.” La discussione del problema, almeno in Italia  pare per lungo tempo limitarsi ai soli aspetti tecnici, tanto che  le successive messe a punto dei procedimenti all’albumina e al collodio sono considerate progressivamente risolutive e in alcune rassegne dedicate alle sue applicazioni si riconosce che “felicemente oggi la riproduzione della pittura è uno de’ migliori attributi della fotografia”[6], dimostrando non tanto una scarsa conoscenza dei processi fotografici quanto una ormai acquisita insensibilità ai problemi posti dalla trascrizione dell’opera, propria di una cultura che si avvia a dimenticare il significato di traduzione per adottare progressivamente quello di riproduzione e poi di copia, in un  processo di slittamento semantico che corrisponde ad una sostanziale perdita di comprensione critica, certo in parte dovuta alla concezione positivistica del processo fotografico quale generatore di immagini obiettive, per definizione fedeli  e in quanto tali preferibili alle modificazioni introdotte dal lavoro dell’incisore: “Les reproductions de tableaux sont devenues des notes indispensables à ceux qui collectionnent l’oeuvre d’un maître – afferma Philippe Burty nel 1861- elles traduisent mot à mot ce que le burin (…) modifie toujours”[7], mentre alcuni anni più tardi, nel 1876,  Hermann Vogel riconosce ancora il maggior valore, almeno  artistico, dell’incisione di  traduzione, poiché la fotografia è sì in grado di fornire riproduzioni fedeli delle opere d’arte ma “cette reproduction n’est pas aussi artistique que celle donnée par la gravure (…) elle suffit pour faire rapidement connaître partout ce qui est nouveau. La gravure vien ensuite et conserve sa valeur” , per proseguire quindi, in una ingenua commistione di presunta oggettività ed effettiva manipolazione dell’immagine, ricordando che “les négatifs d’apres peinture à l’huile exigent la collaboration du retoucheur chargé de répartir entre les tons photographiques les proportions faussées par l’effet inégal des couleurs. Cette retouche peut être mal faite, si elle est exécutée par une main  inexperimentée. La plus habile est celle de l’artiste qui a peint l’original. Dèjà des peintres connus se sont essayés avec succès à la retouche…”[8]. Sono le stesse difficoltà a cui aveva fatto cenno Paul Liesegang nel 1864: “Trattandosi di quadri ed in particolare di quadri ad olio, s’incontrano spesso gravi difficoltà per ottenere un complesso armonioso”[9], e ancora all’inizio del nuovo secolo Paul N. Hasluck confermava che “i quadri riprodotti con lastre ordinarie vengono da queste talmente falsati, che il risultato merita decisamente la qualifica di pessimo  [ragione per cui] vanno riprodotti con lastre ortocromatiche combinate col filtro.”[10]

Come si è detto, ancora a questa data il problema sembra essere circoscritto alle sole questioni  tecniche; non si pongono esplicitamente questioni di ordine critico, linguistico: ciò a cui si tende è lo statuto della duplicazione perfetta[11] e la migliorata resa dei valori cromatici derivante dall’aggiunta di sensibilizzatori ottici alle emulsioni porta autorevoli studiosi a sottolineare acriticamente l’enorme valore assunto dalla fotografia nello studio della storia dell’arte. Così Adolfo Venturi nella Premessa al Catalogo 1887 della casa editrice fotografica Adolphe Braun riconosce come “inventata la fotografia, la critica fece un gran passo, allora furono resi possibili i riscontri diretti tra l’una e l’altra opera di un autore, e il metodo si fece più corretto, più fino e sicuro. Mentre tutte le discipline umane delle scienze naturali imparavano il rigore del metodo, anche la storia dell’arte si rinnovò in gran parte mercè il suo nuovo strumento di osservazione”[12], dichiarando una aspirazione allo statuto scientifico della nuova disciplina che ritroviamo circa negli stessi anni anche in Bernard Berenson per il quale  “When this continous study of originals is supplemented by isochromatic photographs, such comparision attains almost the accuracy of the physical science”[13], dimostrandosi lontano da alcune isolate, autorevoli posizioni come quella di Heinrich Wölfflin, ma in perfetta sintonia con le preoccupazioni delle maggiori case fotografiche che per adeguarsi ai continui e radicali avanzamenti tecnologici erano portate a rinnovare temi e soggetti già presenti in catalogo.[14]

Ciò che affascina e interessa è insomma la pura, e presunta, capacità tecnologica di duplicazione del reale e proprio su questa si misurano le prime iniziative, anche piemontesi, legate a questo particolare campo di applicazione della fotografia che in Italia a partire dalla metà del XIX secolo poteva ormai contare su imprese fotografiche di sempre maggiore rilevanza, dagli Alinari a Sommer.

Nella nostra regione le prime realizzazioni non sporadiche datano a partire dagli anni ‘60 con l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni italiani raccolto  dal biellese Vittorio Besso a partire dal 1868, al quale si deve anche la documentazione di quei “capolavori di pittura e d’architettura che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”[15] di cui riferisce un articolo della “Gazzetta Biellese” del 1865, ma particolarmente significativa è la comparsa delle prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese nell’Album della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1863: sei albumine realizzate da Francesco Maria Chiapella.[16] Nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  ed alla non eccellente qualità di stampa di alcuni esemplari, questo “album con magnifiche fotografie” viene considerato una “bella novità” ripresa ancora negli anni successivi, dopo l’interruzione del 1864, affidando l’incarico ad alcuni dei più noti fotografi torinesi quali Luigi Montabone, Alberto Luigi Vialardi, Fotografia Subalpina e Cesare Bernieri, che si era già distinto nel 1866 con un album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato.[17]

La fotografia di opere d’arte quindi muove in Piemonte i suoi primi passi rivolgendosi specialmente al contemporaneo, intesa a sostituire i processi di stampa calcografica e litografica quale mezzo più rapido ed economico, piuttosto che  proporsi o essere utilizzata quale strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico artistico[18].  Perché questo percorso si compia debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze, i contatti tra cultura artistica e fotografica che prendono forma non tanto col rapporto tra Bernieri e le opere neomedievali di gusto troubadour di Massimo d’Azeglio[19] quanto con Carlo Felice Biscarra ed ancor più con Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[20] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile le prime applicazioni – pur non sistematiche[21] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[22], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[23] e la cui infondatezza era stata tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel 1884, con “una ricchezza e una varietà che i sussidi grafici e fotografici non avevano ancora potuto dare e in cui erano compresi i più illustri esempi della pittura e della scultura tardomedievale piemontese, che non erano stati oggetto, ancorché di riproduzione, nemmeno di studio.”[24] Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[25] operarono sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fenis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[26], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[27]

Esemplari in questo senso sono le fotografie realizzate da Nigra in San Bernardino a Lusernetta nel 1885 e quelle fatte nella primavera del 1887 nella chiesa di San Pietro ad Avigliana, a Ranverso e verosimilmente anche in San Pietro a Pianezza[28], qualitativamente non eccelse e con scarsa attenzione per una illuminazione ottimale degli affreschi, poco più che appunti visivi su cui condurre successivamente gli studi, mentre le immagini realizzate nei decenni successivi, almeno fino agli anni Trenta, dimostrano un più maturo controllo della strumentazione ed il ricorso sapiente a lastre di maggiore formato.

Anche per Nigra, come già era stato per il “verista” Pastoris interpretato da Stella ma seguendo forse un percorso inverso,  “la conoscenza della storia dei monumenti antichi contribuisce ad aumentare la suggestione che ne emana ed a completare il godimento del loro valore estetico, facendo nello stesso tempo meglio comprendere lo spirito dei tempi”[29] e l’inevitabile oggettività fotografica diviene strumento insostituibile di questo progetto culturale.

Accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[30] la figura più rilevante è però quella di Secondo Pia[31], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione. La cronologia delle sue campagne è relativamente ben nota, ma certo l’attuale campagna di catalogazione condotta sul Fondo donato dal figlio Giuseppe al Museo Nazionale del Cinema consentirà in futuro di definirne meglio l’operato e forse anche di correggere la datazione di alcune riprese, in alcuni casi  stabilita da Pia molti anni dopo la loro realizzazione. Ciò che qui però interessa sottolineare è come il suo percorso di indagine percorra inizialmente le stesse canoniche tappe seguite da Nigra circa gli stessi anni: da Avigliana (1886)  a Ranverso (1887)  a Pianezza (1889) per compiere prima dello scadere del secolo una ricognizione esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese e in parte aostano: Issogne, Marentino, Manta, Fenis,  Villafranca Piemonte, Forno di Lemie, Roletto, Bastia, Chieri, Piobesi e Piossasco, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, ma spesso in anticipo sui tempi della ricerca storico artistica, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro[32]. Questo suo impegno viene giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire, quando espone circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[33]

Cena conferma ciò che  il catalogo della mostra ed ancor più le pagine del giornale dell’Esposizione dimostrano: quanto ridotto fosse ancora l’interesse per la pittura quattrocentesca piemontese nonostante una prima disponibilità di segnalazioni e studi specifici, prevalentemente dedicati a Ranverso (da Gamba e Brayda a Cena stesso) ma anche al Pinerolese (E. Bertea) ed a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890.[34]

Questa scarsa considerazione della pittura tardogotica piemontese emerge dalla stessa regia con cui Pia impagina le immagini di Ranverso nei due album dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” (1907) ed “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” (post 1920)[35]; sia nel primo che – specialmente – nel secondo gli affreschi jaqueriani sono collocati buoni ultimi nella sequenza di presentazione, dopo i particolari scultorei e gli stessi arredi, dopo la minuziosa documentazione e ricomposizione fotografica del polittico di Defendente Ferrari.

Ad ulteriore conferma di questa condizione di ridotta visibilità e rilevanza monumentale ricordiamo che neppure gli operatori degli Alinari, in Piemonte e Valle d’Aosta tra luglio e ottobre del 1898 comprenderanno nella loro campagna di documentazione luoghi come Ranverso o la Manta[36]; solo gli affreschi del castello entreranno a far parte del loro repertorio a partire dal catalogo del 1925 [37], mentre gli operatori dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo pare siano a  Ranverso e in San Sebastiano a  Pecetto prima del 1907 ma forse, più correttamente, entro il 1911[38].

Nel 1914 infine giunge a compimento sotto la direzione di Cesare Bertea la pluridecennale vicenda dei restauri di Ranverso, i cui  importanti esiti sono immediatamente resi noti dalla pubblicazione negli “Atti della Società di Archeologia e belle Arti per la provincia di Torino” , corredando il testo con una serie di tavole fotografiche, dovute a Giancarlo dall’Armi[39], che nell’urgenza della scoperta mostrano il cantiere di restauro ancora non ultimato e rivelano finalmente la firma di Jaquerio. Questa impresa risulta importante non solo in sé ma anche quale momento significativo di una collaborazione precisa e fruttuosa tra studiosi, organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata dal rapporto tra Riccardo Brayda e Mario Gabinio, ma che assumerà negli anni successivi forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate dallo stesso Dall’Armi al Barocco  Piemontese, con testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R. Deville[40], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[41]

La scoperta degli affreschi sollecita altri autori a tornare a Ranverso: Secondo Pia, che fotografa le pareti del presbiterio nel 1920,  e Mario Gabinio[42], che vi ritorna molti anni dopo le prime visite compiute con l’Unione Escursionisti per realizzare  una ventina di immagini che comprendono anche le nuove scoperte, e costituiscono, insieme a quelle di Santa Maria di Vezzolano, le sole testimonianze dell’interesse di questo autore per la storia della pittura piemontese.

Nei due decenni successivi, anche sulla scia di una bibliografia più generosa e attenta che consente ad alcune opere piemontesi di raggiungere una prima notorietà anche al di fuori degli ambiti specialistici o locali[43], le campagne fotografiche si estendono sia per iniziativa dei grandi studi nazionali (Alinari, Istituto Italiano di Arti Grafiche) sia di committenti istituzionali come le Soprintendenze e l’Ordine Mauriziano, che fa rifotografare Ranverso nel 1929, sia infine per un’importante istituzione internazionale quale la Frick Reference Library di New York, che affida a Mario Sansoni, uno dei più importanti e noti professionisti italiani del settore, l’incarico di documentare le testimonianze artistiche europee. La campagna piemontese, condotta negli anni 1934-1935 in compagnia di Helen Frick, risulta estremamente approfondita e dettagliata, singolarmente attenta anche agli episodi allora meno noti e studiati,  in questo confrontabile solo col precedente di Pia, verosimilmente condotta a partire da informazioni che presuppongono non solo la conoscenza della letteratura specifica.[44]  La documentazione, anche qui, è condotta in modo esemplare e rigoroso, con riproduzioni  che prediligono l’insieme dell’opera senza mai isolare il motivo né tanto più tentare trasposizioni personalizzate, alla ricerca di temi o elementi coi quali ottenere una restituzione narrativa dell’opera, letteraria o critica che fosse, in ciò mostrando non tanto di rifarsi ad un approccio ancora sostanzialmente ottocentesco, in debito coi  modi rappresentativi delle stampe di traduzione[45], quanto di aderire compiutamente al ruolo richiesto dal progetto della committenza, quello di raccogliere una documentazione precisa ed esaustiva, utile strumento e supporto per il conseguente lavoro degli storici.

Nei luoghi visitati da Sansoni si muovono circa negli stessi anni giovani studiosi torinesi come Umberto Chierici (affreschi nella cappella del  castello della Manta, 1937ca)  e specialmente Augusto Cavallari Murat, che in preparazione del suo intervento al Congresso storico di Asti del 1933 fotografa gli affreschi in San Giovanni ai Campi, a Ranverso e in San Pietro a Pianezza[46], preludio della collaborazione al grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale metterà a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte, realizzazione “che costituisce, ancora oggi, un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”[47]. Qui, nello scenografico riallestimento delle sale  vengono riproposti, in ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone, “Re David, una delle sei figure che ancora ornano la parete sinistra del presbiterio [mentre] su uno stesso piano è un’altra pittura della parete di fronte, là dove sotto le storie di S. Antonio, ora purtroppo molto svanite, il Jaquerio con una stupefacente realismo ha dipinto due contadini che recano al Santo l’offerta del simbolico animale.”[48]

La fotografia ha ormai raggiunto lo statuto di consapevole strumento di conoscenza e di salvaguardia del patrimonio artistico ed architettonico, costituendo a volte purtroppo anche l’ultima consolazione di fronte alle irreparabili perdite: nel 1931 viene istituita la Fototeca Municipale  di Torino mentre Viale, dal 1930 direttore del Museo Civico, predispone un primo nucleo di archivio fotografico che si propone di trasformare in Archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte[49].  A partire da questa data la raccolta organica di documentazione d’arte non spetta più solamente all’iniziativa di singoli studiosi come Lorenzo Rovere, ma diviene istituzionalizzata coinvolgendo e formando intere generazioni di fotografi piemontesi, torinesi in particolare.

Ciò che resta invece ancora oggi parzialmente inadeguata è la nostra capacità di guardare a queste immagini come documenti complessi e non come pure tracce del referente, mettendo da parte ogni superficiale pretesa di oggettività della riproduzione per riconoscerne fruttuosamente lo statuto di traduzione quando non di trascrizione delle opere.

 

Note

[1]Andreina Griseri, Ritorno a Jaquerio, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo  Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano.. Torino:  Città di Torino, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.3-29.

Per aver contribuito con suggerimenti e precisazioni alla realizzazione di questa ricerca, che si propone quale prima occasione di ricognizione di un tema vasto e complesso, desidero qui ringraziare Giovanni Romano e  Virginia Bertone;  per la consueta disponibilità dimostrata nel favorire l’accesso alle fonti fotografiche ringrazio inoltre Rosanna Roccia e Annamaria Stratta, Archivio Storico del Comune di Torino; Daniele Jalla, Nunzia Mangano e Adriana Viglino, Musei Civici di Torino; Donata Pesenti e Cristina Monti, Museo Nazionale del Cinema di Torino; Lino Malara e Paola Salerno, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte; Elena Ragusa, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte.

[2]Cesare Bertea , Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 8 (1914), fasc. 3, pp.194-207, estratto, con fotografie di Giancarlo dall’Armi poi ripubblicate per la prima volta nel 1979 da Enrico Castelnuovo, Giacomo Jaquerio e l’arte nel ducato di Amedeo VIII, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, op.cit. pp. 30-57 (pp.35-41)  e quindi in parte riprese da Guido Curto, S. Antonio di Ranverso presso Buttigliera Alta: i restauri degli affreschi, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.284-294.

[3] Questo articolo venne segnalato per la prima volta da Maria Adriana Prolo, Alcune notizie sulla dagherrotipia a Torino, in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.13-16, ed è stato poi ampiamente ripreso in numerosi studi relativi alle origini della fotografia in Italia. Il richiamo alla “fedeltà” della riproduzione fotografica rimanda al dibattito, ancora vivo e fecondo in quegli anni, relativo alla distinzione tra traduzione e copia, cfr. Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930). In Giovanni Previtali, a cura di, L’artista e il pubblico, “Storia dell’arte italiana”, I. 2.Torino: Einaudi, 1979, pp. 415-484.

[4] Felice Romani, Fotografia. Primo Daguerrotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”,  42 (1839), n.234, 12 ottobre, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, , pp.69-71.

[5] Ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.212-232. Per la fortuna editoriale del testo di Melloni cfr. Costantini,  Zannier, op.cit., p.88 nota 2; nello stesso volume, al quale si rimanda anche per una buona antologia di testi relativi alle prime applicazioni della fotografia,  è compresa (pp.96-109) anche la trascrizione della successiva, analitica relazione di Melloni dedicata alle Esperienze sull’azione chimica dello spettro solare e loro conseguenze.

[6] Luigi  Corvaja,  La fotografia e le sue applicazioni, I, “Panorama Universale”, 30 giugno 1855, p.107, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci Editore, 1980,  p.51.

[7] Philippe  Burty, La photographie en 1861,  “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.241-249.

[8] Hermann Vogel, La photographie et la chimie de la lumière. Paris: Librairie Germer Baillière, 1876, pp.217-218. Ricordiamo che Vogel, docente di chimica fotografica alla Technische Hochschule di Berlino, fu il primo maestro di Stieglitz, dal 1883 al 1887, cfr. William Innes Homer, Alfred Stieglitz and the American Avant-Garde. Boston: New York Graphic Society, 1977, pp.11-13.

[9]Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana per Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864, p.225.

[10]Paul N. Hasluck, La fotografia; prima traduzione italiana a cura di Giulio Sacco. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1905, p.518. Anche altri autori, dopo aver ricordato che “i risultati che possono dare le lastre ordinarie sono addirittura pessimi” confermavano che “i veri amatori d’arte preferiscono una buona incisione ad una riproduzione fotografica (…) ricorrendo invece a lastre ortocromatiche (…) la fotografia si eleva  al di sopra di qualsiasi altro genere di riproduzione”, Carlo Bonacini, La fotografia ortocromatica, Milano, Hoepli, 1896,  p.237-238, ma tutto il paragrafo dedicato alla Riproduzione delle pitture, pp.237-247, costituisce una interessantissima documentazione delle ragioni tecnologiche di un lavoro di riproduzione che voglia restituire “non soltanto una traccia qualunque del disegno (…) ma il carattere artistico della composizione”.

Nonostante gli avanzamenti costituiti dall’uso delle lastre ortocromatiche la manualistica consigliava ancora di procedere ad una “pulitura” preliminare del dipinto mediante spugnature con una emulsione a base di bianco d’uovo sbattuto, acqua e glicerina, cfr. E. J., Reproduction des tableaux,  “Photo-Gazette”, 11 (1901), n.7, 25 maggio, pp.138-139.

[11]Le preoccupazioni di correttezza nella resa proporzionale dei volumi o della cromia evidenziate da Jakob Burckardt  e Hans Tietze (cfr. Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979/80), n. 2,  winter, pp.117-123, in particolare alla p.122) erano sostanzialmente estranee al dibattito italiano. Per quanto sinora noto Pietro Masoero è il solo fotografo a riflettere in questi anni su alcuni  problemi di lettura fotografica delle opere d’arte; si veda ad esempio l’articolo dedicato a La dilatazione dei supporti positivi, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78 e le osservazioni fatte a proposito della “Madonna col Bambino”   dell’Ospedale di Vercelli, che Masoero attribuisce a Cesare Lanino: “Fu, questa tavola, anche molto ritoccata e la fotografia, nel riprodurla svelò tutta la parte più recente della pittura, che non era ben visibile all’occhio umano.”, Pietro Masoero, La Scuola Pittorica Vercellese 1460-1586, manoscritto, p.74. Per la sua attività di studioso e divulgatore rimando a P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154.

[12] Citato in Spalletti, op.cit., p.471. Lo stesso Venturi molti anni dopo definirà la fotografia come “il migliore mezzo di riproduzione che distrugge la ragione d’essere della incisione e della calcografia.”, cfr. Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia:  interviste a Ernesto Biondi, Adolfo Venturi, Aristide Sartorio, Gustavo Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19 (p.18).

[13]Da un appunto datato 14 ottobre 1893, citato in Freitag, op.cit., p.119. Più accorte e consapevoli saranno le considerazioni fatte da Berenson cinquant’anni più tardi: “Per cominciare dobbiamo scartare l’idea che la fotografia riproduca un oggetto come è, quale essenza oggettiva di alcunché. Una tal cosa non esiste. All’«uomo medio» non è stato mai detto che il suo modo di vedere ha una lunga storia alle spalle, utilitaria, pratica, perfino cannibalesca (…)  Facendo debita attenzione all’illuminazione, e collocando la macchina a un determinato angolo con l’oggetto, voi potete, entro certi limiti, farle riprodurre l’aspetto di quell’oggetto che risponde al vostro fine momentaneo, senza dubbio rispettabile ma con una buona dose di  parzialità, (…) Il compito di fotografare un dipinto è pressoché insormontabile dov’è questione di conservare i valori, i rapporti e i passaggi di colore. Per altro verso è più facile, molto più facile che per gli oggetti a tutto tondo o in altorilievo.(…) L’esperienza mi spingerebbe a dire: più sono scadenti i dipinti, e migliore è la fotografia.”, Bernard Berenson, La fotografia, in Id., Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze:  Electa, 1948, pp.327-338.

[14]Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4 (1892), pp.101-103. Lo stesso Brogi  molti anni più tardi  ribadiva che “le fotografie hanno giovato immensamente allo studio della Storia dell’Arte (…) ed hanno servito a divulgare (…) l’esistenza spesso ignorata di tanti patrii tesori.”, Carlo Brogi, A proposito del divieto fatto ai fotografi di trarre riproduzioni nei Musei e nelle Gallerie dello Stato; prefazione di Giovanni Rosadi. Firenze: Tip. E. Ariani, 1904, p.10.

[15] P. Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese. In Antichità ed arte nel Biellese, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989) a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 (1990 -1991), monografico, pp. 199-216 (p.203).

[16]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino,  “Fotologia”, 8 (1991), vol.13, primavera/estate, pp.30-39. I testi a corredo degli album costituiscono anche una interessante testimonianza del dibattito piemontese intorno alla questione del valore artistico della fotografia e delle sue relazioni con la pittura; si vedano in particolare i contributi di Carlo Felice Biscarra (1860) e di Federico  Pastoris (1862).

[17]ibidem, p.36. Ricordiamo qui che si deve a Bernieri anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P.Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998, in Photographie, ethnograhie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n. 2/4, monografico 1995, pp.145-160.

[18]è noto che la documentazione urbana e di architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in “Bollettino d’Informazioni” del Centro di ricerche informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Quaderno VIII,  Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, 49-55.

[19] Quando Massimo d’Azeglio disegna San Giorgio e il drago da Fenis, nel 1825 non è interessato tanto ad una “lettura puntuale del testo (…) quanto a trarne uno spunto per una illustrazione di gusto troubadour”, Franca Dalmasso, Massimo d’Azeglio, 1825. San Giorgio e il drago (da Fenis), in Giacomo Jaquerio, op.cit., p. 327.

[20]Antonio Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891. Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio, op. cit., pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43.

[21] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade, op. cit., pp.107-125.

[22]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[23]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880,  citato in Maggio Serra, Uomini e fatti, op.cit., p.29.

[24] Ivi, p.36.

[25]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonte, op.cit.; Alfredo d’Andrade, op.cit.

[26]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20.

Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, a.a. 1993-1994 e Simona Paggetti, a.a. 1994-1995. Oltre al Fondo Nigra i Musei Civici conservano anche 249 stampe di questo autore comprese nel Fondo D’Andrade,  qualche centinaio di negativi su lastra compresi nell’archivio corrente della Fototeca e alcune stampe sciolte nel Fondo Rovere. Altre fotografie (negativi e positivi) fanno parte dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte mentre le immagini di argomento familiare sono conservate presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, a cui pervennero per lascito testamentario nel 1984. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

Il riferimento metodologico costituito da Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21.

[27] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[28] Musei Civici di Torino, Fondo D’Andrade, rispettivamente F43-45; F55-62; F.71-78. Le immagini relative a Pianezza non sono datate ma le modalità di realizzazione fanno supporre una cronologia di realizzazione corrispondente agli altri soggetti.

[29] Carlo Nigra, Torri, castelli e case forti del Piemonte dal 1000 al secolo XVI, I, Il Novarese. Novara: E. Cattaneo, 1937, p.5.

[30] Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade, op. cit. ed inoltre Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77 (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sulla attività fotografica legata alle prime attività di tutela piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Ghione, op.cit., p.87.

Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione,  “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari; cfr. Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P.Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48.

La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[31]Oltre al testo indicato alla nota precedente si vedano: Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998.

[32]Si vedano le due riprese, datate 1902, con “dettagli di affreschi recentemente scoperti”  relativi rispettivamente a San Eutropio e San Dionigi dalla terza cappella a sinistra di Ranverso, conservate nel Fondo Pia del Museo Nazionale del Cinema, F30992, F3099; cfr. anche Giovanni Romano, Storie della vita della Vergine. Buttigliera Alta, Sant’Antonio di Ranverso. Giacomo Jaquerio, 1402-1410?, in Giacomo Jaquerio, op.cit., pp.393-397.

[33]Giovanni Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. Ancora oggi la figura di Pia è ricordata nelle poche storie della fotografia italiana solo in virtù della sua notorietà quale primo fotografo della Sindone e Presidente della Società Fotografica Subalpina (1908-1923).

[34]Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto. La redazione del saggio nasceva da una prima visita condotta nel 1889, quando ancora “l’abside era completamente coperto da un sottile intonaco bianco rosato sotto del quale potei intravedere tracce di dipinti”, p.7. Alcune delle riprese effettuate da Nigra nel 1889-1890, ma in una stampa più tarda (1927?), sono conservate nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 20).

[35]Secondo Pia, Ricordi fotografici di insigni monumenti del Piemonte, 1907; Id., Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica, 1920ca; I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino, comprendono rispettivamente 32 e 73 stampe all’albumina di diverso formato e datazione, così distribuite: 1907, Sant’Antonio di Ranverso (1-11); Santa Maria di Vezzolano (12-32).  Vezzolano (1-36); Ranverso (37-73).

L’attività pur eccezionale di Secondo Pia va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi , solo di rado professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Pietro Masoero, di Francesco Negri e di Alberto Durio (entrambi in relazione con Samuel Butler), di alcuni religiosi come F. Origlia, A. Rastelli e G. Valle, tutti legati a Negri, Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla ed ancora Mario Gabinio, Giancarlo dall’Armi ed Augusto Pedrini, per i quali ultimi la documentazione d’arte assumeva modi e impegni che esulavano dalla pura pratica professionale. 

[36]A far comprendere questi soggetti nel catalogo Alinari non era evidentemente servita la notorietà derivante dalla loro riproposizione al Borgo Medievale, né le successive attenzioni critiche, cfr. Elena Ragusa, Fortuna degli affreschi della Manta, in Giovanni Romano, a cura di, La sala baronale del castello della Manta. Milano:  Olivetti, 1992, pp.73-80.

[37]Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,  “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925].

[38]Si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che riportano appunto una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione) comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. In realtà la ripresa n.7441 “1792 Facciata dell’antico Ospedale dell’Abbazia” mostra l’edificio addossato alla facciata dell’Ospedale in uno stato certamente successivo al marzo 1907, data dell’ingiunzione ministeriale all’abbattimento della porzione di parete inglobante il pinnacolo di sinistra. (Daniela Brusaschetto, Silvia Savarro,  Cesare Bertea (1866-1941): note sul restauro in Piemonte nei primi decenni del Novecento. Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Corso di laurea in Architettura, 2000, relatori Maurizio Momo, Daniela Biancolini, pp. 223 – 224). Le riprese potrebbero allora riferirsi tutte alla campagna realizzata per il padiglione piemontese alla Mostra Etnografica di Roma del 1911.

[39]  Bertea , Gli affreschi, op.cit. Come risulta da un primo confronto tra le tavole qui pubblicate e le stampe conservate nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della Città di Torino e nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, il corpus realizzato dal fotografo è più esteso del pubblicato da Bertea, ma occorrerà un confronto con le lastre appunto conservate nel Fondo Dall’Armi per una più puntuale verifica di questa importante campagna di documentazione. Per Dall’Armi cfr. Dario Reteuna, Primario studio. Da Dall’Armi a Cagliero sessant’anni di vita a Torino.   Torino: Regione Piemonte, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1998, che costituisce un primo sommario tentativo di presentazione dell’attività di questo importante professionista torinese.

[40] Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche.

[41] Di Pedrini oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[42] Le immagini, non datate,  sono comprese negli album A34 ed A10 del Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; una prima occasione documentata di visita a Ranverso risaliva al 4 novembre 1906, in occasione di una gita compiuta con l’Unione Escursionisti, a cui Gabinio apparteneva, sotto la guida di Riccardo Brayda; una delle immagini realizzate in quella occasione venne utilizzata dallo stesso studioso per la copertina del suo Una visita a Sant’Antonio di Ranverso (Valle di Susa).  Torino: Tip. Massaro,  1906. Per una più estesa discussione dei rapporti Brayda / Gabinio  cfr. P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35.

[43]Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I, Milano, Touring Club Italiano, 1930 comprende due riproduzioni degli affreschi in San Sebastiano a Pecetto (tavv.124, 125) mentre di Ranverso è pubblicata solo l’immagine del prospetto della chiesa.

[44]Mario Sansoni (1882-1975) dopo un primo periodo di attività come operatore Alinari si mette in società con Giulio Bencini nel primo dopoguerra e quindi in proprio intorno alla metà degli anni Venti, dedicandosi esclusivamente alla documentazione delle opere d’arte. In questa veste viene incaricato dalla Frick Reference Library di New York di compiere una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, cfr. redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 44-45. Una più approfondita conoscenza di questo progetto documentario potrà essere ricavata dallo studio attento dei diari di lavoro di Mario Sansoni, conservati presso l’Archivio Fotografico Toscano di Prato, che non è stato possibile consultare in questa occasione; ricostruzione che sarà da porre a corredo di quel “recupero delle fotografie realizzate da Mario Sansoni per miss Helen Frick all’inizio degli anni Trenta [che] è ormai un obbligo metodologico”, di cui ha parlato  Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1997, p.12.  L’individuazione del fotografo fiorentino quale responsabile di una così vasta e impegnativa campagna di documentazione si inserisce non solo nel progetto culturale  della famiglia Frick, ma costituisce anche una ulteriore conferma della  specifica attenzione per l’uso appropriato della fotografia, e del conseguente riconoscimento del lavoro dei fotografi,  che nella cultura statunitense risulta un dato acquisito ben prima che ciò accada in Europa; basti pensare, per fare solo alcuni esempi, all’attenzione prestata  da Arthur Kingsley Porter, Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads.  New York: Hacher Art Books, 1966 (I ed. 1923), buon fotografo e severo giudice dell’attività degli studi più rinomati (“The catalogue is unfortunately of little use”, per Romualdo Moscioni, “Photographs of the highest quality”, per Clarence Kennedy e così via)  ed alle precisazioni contenute nella prefazione che Harry Dobson Miller Grier, direttore della collezione,  scrive per The Frick Collection. An illustrated catalogue, I-II. New York: The Frick Collection, 1968, p. xxii: “The black and white photographs of the paintings were made by Francis Beaton, our staff photographer, who has faithfully served the Collection for over thirty years. The reproductions in those and subsequent volumes of this catalogue will provide an enduring record of his talent, which has never been duly acknowledge. For the color reproductions of the paintings,  ektachromes were made by Joseph Corboy and Geoffrey Clements. The photograph of the Frick Collection building is by Ezra Stoller, and the colour photographs of the galleries are by Lionel Freedman.”

[45]Cfr. Massimo Ferretti, Fra traduzione e riduzione. La fotografia d’arte come oggetto e come modello, in Gli Alinari fotografi a Firenze 1852-1920, catalogo della mostra (Firenze, Forte di Belvedere, 1977) a cura di Wladimiro Settimelli, Filippo Zevi. Firenze: Edizioni Alinari, 1977 pp.116-142 (p.124), che per la casa fiorentina colloca a partire dal  1876 il periodo in cui le campagne di documentazione “diventano l’occasione di un rilevamento ravvicinato e linguisticamente più problematico”, ma sostanzialmente legato alla estrapolazione di elementi “decorativi” con immediata valenza commerciale e connessi al nascente interesse italiano per i rapporti tra arte e industria; si veda anche E. Spalletti, op.cit., p.473. Un diverso atteggiamento, orientato ad una lettura contestuale dell’opera e della scena rappresentata lo si ritrova invece, negli anni a cavallo tra i due secoli nelle fotografie dei gruppi statuari del Sacro Monte di Crea realizzate da Francesco Negri, non a caso nella doppia veste di fotografo e di studioso, cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145. Come è noto un uso mirabilmente critico della documentazione fotografica venne per primo realizzato in Italia da Roberto Longhi, Piero della Francesca. Roma: Valori Plastici, 1927.

[46] Augusto Cavallari Murat, Considerazioni sulla pittura piemontese verso la metà del sec. XV, “Bollettino  Storico Bibliografico Subalpino”, 38 (1936), n.1-2, gennaio-giugno, pp.43-79, corredato di una interessante documentazione fotografica prevalentemente dovuta all’autore stesso ma anche a Toesca (Fenis, cappella, particolare con una Santa), Rossi (Villafranca Piemonte, chiesa della Missione, particolare dell’Arcangelo e Deposizione) e Bertea (naturalmente per Ranverso, da confrontare con la produzione Dall’Armi). Questo significativo apparato di immagini è stato escluso dalla riedizione del saggio in Id., Come carena viva, I. Torino: Bottega d’Erasmo, 1982, pp.99-128.

[47] Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[48]Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano.  Torino: Città di Torino, 1939. Mentre Scoffone realizza gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

[49]Cfr. Cavanna, Mario Gabinio, op.cit., p.19.

Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione (1986)

“Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986, pp. 34 – 45

Ce ne sont que documents

Eugène Atget

 

Primo ottobre 1907 Mons. Teodoro dei Conti Valfrè di Bonzo “Arcivescovo di Vercelli e Conte” concede l’imprimatur al volume L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, “Studio storico del Can. Dott. Romualdo Pasté / Studio artistico del Cav. Federico Arborio Mella illustrato da Pietro Masoero”[1]. I tre autori nella dedica che apre il volume dichiarano di aver voluto “radunare quanto è a noi pervenuto delle memorie della abbazia di S. Andrea e fissarne il ricordo storico illustrando il grandioso tempio che, salvato dalla ruina di mille altri monumenti, permane solenne ad attestare una grandezza passata” portando anche un “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”.  Né questo rimando preciso deve essere semplicemente inteso quale richiamo d’occasione, né la dedica all’ Arcivescovo di Vercelli un semplice atto formale: l’arte sacra infatti aveva costituito per tutta la seconda metà del secolo XIX, ed in parte costituiva ancora, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale del Piemonte cattolico, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito ed alle prime iniziative di tutela. Se Romualdo Pastè, autore della ricerca storica, corrispondente della Deputazione Subalpina di Storia Patria, canonico ed archivista capitolare svolge, per il suo stesso ruolo, una funzione di tramite, è certamente Federico Arborio Mella la figura centrale, erede di una tradizione familiare di grande prestigio che aveva avuto nel nonno Carlo Emanuele e nel padre Edoardo gli esponenti più noti, impegnati a fondo nel  dibattito e nell’attività architettonica e di tutela. A Carlo Emanuele Arborio Mella si devono infatti i primi interventi di restauro della basilica di S. Andrea, condotti tra il 1822 e 1825 in modo “aperto ed attento a questioni singolarmente precoci quali il concetto di monumento inteso come insostituibile fonte documentaria dello stesso, da cui gli deriva l’esigenza di riportare in puntuali relazioni quanto emerso o osservato nel corso dello studio diretto delle strutture antiche”[2] Queste osservazioni, raccolte nell’ opuscolo Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli [3] pubblicato postumo nel 1856 a cura del figlio Edoardo, il quale a sua volta pubblicherà quasi a conclusione della sua lunga attività lo Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli [4]; segnano l’inizio della ripresa di interesse per il monumento vercellese da parte di studiosi italiani e stranieri. Accanto all’attività di studio si collocavano le iniziative di promozione culturale: anche in questo caso il primo riferimento è costituito dall’attività di Carlo Emanuele che aveva fondato a Vercelli, nel 1841, la Società per l’insegnamento gratuito del disegno, trasformata venti anni più tardi, sotto la presidenza di Edoardo, in Istituto di Belle Arti, prevalentemente preposto alla formazione di corsi professionali ma che prevedeva esplicitamente all’art. 3 dello Statuto di “provvedere alla conservazione dei patrii monumenti o col farne acquisto od avvisando ai mezzi di impedirne il deterioramento”[5]. Il richiamo alla “conservazione dei patrii monumenti” rimanda in modo quasi letterale alle disposizioni contenute nel Regio Brevetto carloalbertino del 1832 col quale si istituiva la Giunta di Antichità e Belle Arti, destinata a censire e tutelare “reliquie degli antichi monumenti e capolavori delle arti belle”[6]; di questo organismo, che ebbe vita stentata almeno fino al 1853 per essere poi sostituito a partire dal 1860 dalla Consulta di Belle Arti, fecero parte gli esponenti più noti del mondo culturale sabaudo e tra essi merita ricordare almeno Domenico Promis conservatore della Biblioteca Reale di Torino, che Edoardo Arborio Mella conobbe nel 1855, ed il fratello di questi Carlo Promis, architetto e storico dell’architettura, nominato nel 1837 “Ispettore de’ monumenti di antichità esistenti ne’ Regi Stati”, che nel 1857 proporrà il Mella per i restauri del duomo di Casale Monferrato, segnando l’inizio della sua carriera di restauratore.

Attorno al Mella ed all’Istituto di Belle Arti ruota gran parte dell’ ambiente artistico vercellese: quando la scuola apre i battenti nel 1862 il corso di Ornato e Figura è diretto dal pittore Carlo Costa, il quale aveva frequentato giovanissimo lo studio del Mella e lo aveva quindi accompagnato durante il suo fondamentale viaggio in Germania, divenendo uno dei suoi più preziosi collaboratori. Il corso di Elementi era tenuto dal fratello di Carlo Costa, Giuseppe, il quale sarà chiamato nel 1868, sempre dal Mella, a realizzare le parti a figura durante i restauri della chiesa di S. Francesco a Vercelli.[7] Abbiamo qui uno dei numerosi esempi di rapporti strettissimi tra mondo accademico e fotografia: “Studio di Pittura e Fotografia di Costa Giuseppe/ Vercelli/ via Felice Monaco”[8] recita il verso di una sua carte de visite conservata presso le Civiche Raccolte Bertarelli di Milano,mostrando la compresenza di due attività complementari, sebbene le notizie a noi note facciano supporre che negli anni successivi egli si sia dedicato prevalentemente alla fotografia, documentando nel 1882 gli affreschi eseguiti dal fratello Carlo nella cupola di S. Eusebio, pubblicati dapprima in un album ricordo e quindi riediti nel 1898 nel numero monografico di “Arte Sacra” dedicato a Vercelli, in cui compaiono anche sue riproduzioni dei cartoni di Francesco Grandi per la cupola del Duomo ed una bella immagine della basilica di S. Andrea. La figura di Giuseppe Costa, finora poco nota, sembra collocarsi marginalmente nel panorama dei fotografi piemontesi della seconda metà dell’Ottocento interessati alla documentazione del patrimonio artistico, ma sarà necessario attendere il riordino in corso del fondo fotografico Mella[9],conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli, per una verifica più puntuale della sua attività, soprattutto mettendola ancora una volta in relazione col ruolo e con le concezioni critiche espresse da Edoarado Arborio Mella.

Si avverte a Vercelli un certo ritardo rispetto ad altre situazioni regionali, ad altre figure di fotografi: già nel 1865 Vittorio Besso, allievo di Giuseppe Venanzio Sella, viene ricordato dalla locale “Gazzetta Biellese” come fotografo di “capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”)[10] e tra 1872 e 1877 a lui si deve l’accurata documentazione dei restauri condotti da Alfredo d’Andrade al Castello di Rivara per incarico di Carlo Pittara; immagini presentate dallo stesso D’Andrade alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880 ad illustrazione del suo primo intervento di restauro o meglio ­in questo caso – di reinvenzione.[11] Nel 1878 inizia la propria attività anche Secondo Pia che dodici anni più tardi, in occasione dell’Esposizione Italiana di  Architettura di Torino del 1890, riceverà una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi” riconoscimento offerto anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[12]. Torna in mente l’appello Ruskin: “the greatest service which can at present be rendered to architecture, is the careful delineation of details … by means of photography. I would particularly desire to direct the attention of amateur photographers to this task”[13],  ma ancora nel 1900 Masoero sottolineerà questo aspetto dell’attività di Pia che “dona alla storia tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case che riproducono per commerciare, ed  il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”[14]

Secondo Pia costituisce il termine di paragone di tutta una generazione di “amateur photographers” piemontesi che si dedicheranno con profonda attenzione e competenza alla scoperta ed alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico regionale che avrà poi in Francesco Negri uno degli esponenti di maggior rilievo. La situazione vercellese intorno agli anni Settanta sembra invece essere meno attenta alla produzione di fotografie di documentazione: lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, uno dei primi aperti a Vercelli, nel 1863, pare occuparsi solo di ritratto[15]; Giuseppe Costa negli stessi anni è impegnato essenzialmente come insegnante di disegno o al più si limita a riprodurre le opere del fratello Carlo. Si dovrà attendere il 1873, con l’apertura dello studio di Federico Castellani, già titolare di un altro studio ad Alessandria, per avere una prima documentazione del patrimonio architettonico della città: nel giugno di quell’anno egli presenta infatti l’Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli, costituito da 23 stampe. La distinzione fatta nel titolo tra vedute, edifizi e monumenti è indicativa del tipo di approccio di Castellani: l’intento documentario si stempera nell’illustrazione, alle architetture civili e religiose si affiancano la stazione ferroviaria ed il ponte sul Sesia, ed anche la ripresa del singolo monumento lo pone in un contesto più ampio, facendone il soggetto principale ma non unico dell’inquadratura.[16]

Diversamente da quanto era avvenuto ad esempio in Francia, in cui la scoperta della fotografia aveva coinciso con un periodo di rinnovato interesse per il patrimonio architettonico e con la creazione delle società di studi archeologici[17], a Vercelli la presenza di Edoardo Arborio Mella, chiamato a far parte nel 1870 della Commissione incaricata di istituire un primo elenco di monumenti nazionali, poi nominato “Ispettore degli scavi e monumenti di antichità di Vercelli”[18] e quella non meno importante del padre barnabita Luigi Bruzza, insigne archeologo, autore nel 1874 di uno studio dedicato alle  Iscrizioni antiche vercellesi   lodato da Theodor Momsen, che portò alla costituzione nel 1875 di un museo a lui dedicato, destinato a raccogliere “i cimeli lapidei della storia e delle vicende dell’ Agro vercellese”[19], non determinò attenzioni particolari per un uso documentario della fotografia.  Nel 1883 un altro padre barnabita, Giuseppe Colombo, utilizzando studi del Bruzza, pubblica a spese dell’Istituto di Belle Arti Documenti e notizie intorno agli artisti vercellesi; a questo studio farà riferimento nel 1886 il fotografo Pietro Boeri realizzando, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, uno splendido album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, primo e insuperato esempio a livello locale di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico. Non è per ora possibile sapere se l’album di Boeri nasca da una iniziativa personale o non sia piuttosto il prodotto di una collaborazione qualificata, ma ciò che preme sottolineare è che il primo esempio di documentazione fotografica prodotto localmente si rivolge al patrimonio artistico e non a quello architettonico od archeologico che pure godevano dell’attenzione di studiosi di grande levatura. Ciò è ancora più strano se si pensa che nel campo dell’architettura il ricorso all’immagine fotografica era da tempo codificato ed utilizzato sia per il restauro che per la documentazione storico-critica: la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri ed Architetti Italiani, tenuto si a Torino nel 1884, aveva auspicato la formazione di una “raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche degli edifici nazionali”[20], affidandone la realizzazione al Collegio torinese che presenterà  nel successivo congresso tenuto si a Venezia nel 1887  il Catalogo del Museo Regionale di Architettura, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai  monumenti piemontesi, “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione … [quelle] degli altri paesi d’Italia”.  L’elenco delle fotografie esposte e quello dei donatori forniscono dati di grande interesse: la città di Vercelli non è documentata; tra i donatori (architetti, fotografi, ingegneri ecc.) non compare il Mella, mentre è presente il fotografo Castellani, che ha fornito un’immagine del duomo di Alessandria. L’assenza non sembra essere priva di significato. Se si pensa all’intensa attività di Edoardo Arborio Mella ed ai riconoscimenti ricevuti questa non può essere ascritta che alla particolare natura del museo che prevedeva appunto l’uso di riproduzioni fotografiche, cioè di una tecnica di documentazione e di analisi che, pur utilizzando, il Mella non aveva mai preso in seria considerazione, tanto che nella esposizione postuma  dedicata a tutto l’arco della sua attività, curata da G.G. Ferria su incarico di Federico Arborio Mella in occasione dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 – sezione Arte Contemporanea –[21] non compare neppure una fotografia.

Lo scarso interesse locale per la documentazione fotografica dell’architettura è confermato anche in una pubblicazione più tarda: nel 1898 si tiene, sempre a Torino, l’Esposizione Italiana di Arte Sacra; la serie di fascicoli editi in questa occasione presenta al n. 4, dedicato a Vercelli, immagini di diversi fotografi locali impegnati ad illustrare il patrimonio artistico ed architettonico della città: vi compaiono i nomi di Pietro Boeri, Secondo Gambarova, Giuseppe Costa e Pietro Masoero. La scelta dei soggetti privilegia soprattutto le opere della scuola pittorica vercellese, dedicando alla basilica di S. Andrea una sola immagine.[22] Compare nello stesso numero anche un breve articolo dedicato alla Madonna delle Grazie a S. Maria Maggiore  siglato P.M. (Pietro Masoero) che prelude al saggio più ampio dedicato a La scuola vercellese e i suoi maestri pubblicato dallo stesso autore nei n. 34 e 35, prima stesura del testo della conferenza accompagnata da proiezioni luminose che terrà nel 1901 ottenendo vasti riconoscimenti.[23] Ho cercato in una occasione precedente di ricostruire la nascita dell’interesse di Masoero per la scuola pittorica vercellese, basterà ricordare qui che può essere fatta risalire agli stretti rapporti che legavano Masoero ad un collezionista come Antonio Borgogna ma anche al ruolo svolto dall’Istituto di Belle Arti nell’opera di recupero e valorizzazione della “scuola pittorica vercellese”. Ciò che interessa sottolineare è però la scelta operata da Masoero, che dedica la propria attenzione di divulgatore al solo patrimonio pittorico; ancora una volta al monumento più importante  dell’architettura religiosa vercellese, la basilica di S. Andrea, non viene concessa che una semplice immagine; troppo recenti e troppo autorevoli erano gli studi sull’architettura di questo complesso perché qualcuno potesse pensare di affrontare nuovamente il problema.  Solo nel 1901 il canonico Pasté pubblicherà la Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea [24] integrando ed ampliando l’apparato documentario prodotto cinquanta anni prima da Carlo Emanuele Arborio Mella con contributi di altri studiosi e con nuove ricerche archivistiche. A questo saggio storico Pietro Masoero (con lo pseudonimo di Martin Pala) dedicherà una attenta recensione sul giornale “La Sesia”, inserendo quasi di sfuggita una breve annotazione relativa all’architettura, ma dovranno  passare altri sei anni perché l’analisi critica del monumento venga affrontata compiutamente.

Nel 1907 si pubblica il volume su S. Andrea frutto della collaborazione di Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella e Pietro Masoero. Le motivazioni che hanno portato a questa collaborazione, oltre ai temi di carattere generale ricordati in apertura, nascono dalla constatazione che “la nuda esposizione di fatti … da sola non risponderebbe alla dignità del soggetto, ma soprattutto, come ricorda esplicitamente Mella presentando la sezione da lui curata, perché “naturale complemento a quegli studi [deve] essere il racconto delle vicende edilizie dell’edificio stesso; essendo che l’arte è sempre l’espressione più veritiera, anche contrariamente alla volontà degli uomini, dei tempi nei quali ebbe vita.”[25] Ecco allora che “lo studio accurato dell’arte del nostro S. Andrea e del chiostro annesso, in rapporto coll’architettura religiosa del medioevo e nelle sue linee tecniche, parve conferire ad una illustrazione meno imperfetta e più accetta ai lettori. Perrocché è forse anche colpa nostra se le bellezze singolarissime di un monumento che ci è invidiato dai forestieri restarono finora note ad altri piuttosto che ai connazionali”. “Si volle per ultimo che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’ opera un senso di realtà e di vita”. Queste dichiarazioni di intenti si concretizzarono in un apparato iconografico di circa centotrenta immagini (98 fotografie e 31 rilievi) che percorre tutto il testo ed anzi correda prevalentemente la parte dedicata alla ricostruzione delle vicende storiche della abbazia, istituendo una serie di percorsi  paralleli tra dato storico (temporale) ed elemento architettonico (spaziale). Se il saggio storico adotta una sequenza strettamente cronologica, il saggio iconografico adotta una sequenza spaziale che nasce dall’integrazione tra percorso logico-architettonico (planimetria, volumetria) e percorso percettivo, entrambi realizzati per confronto diretto tra rilievo grafico e fotografico: partendo dal prospetto principale la sequenza si sviluppa illustrando il fianco meridionale, l’abside e quindi l’esterno della cupola; la sezione longitudinale dell’edificio introduce quindi la documentazione dell’interno, molto attenta agli elementi strutturali ed all’apparato decorativo, passando poi – attraverso la sala capitolare ed il refettorio – ad illustrare il chiostro ed il lato settentrionale della basilica, che chiude il percorso visivo.

Le fotografie di Masoero, a volte ritoccate in stampa, sono accuratamente impaginate e sovente tagliate per sottolineare gli elementi salienti o per correggere le distorsioni  prospettiche particolarmente evidenti sui bordi della lastra. Per i soggetti più complessi si procede seguendo il criterio ormai consolidato dal generale al particolare, utilizzando diverse riprese a distanza sempre più ravvicinata, ma anche procedendo ad ingrandimenti selettivi della stessa lastra quando le caratteristiche del soggetto ripreso (campanili, cupola ecc.) non consentono di procedere altrimenti. Le riprese, generalmente frontali, adottano a volte un taglio più scorciato per mettere in evidenza il gioco dei volumi, utilizzando con grande accortezza ombre molto marcate, senza però indulgere all’immagine d’effetto, seguendo in questo le precise intenzioni espresse da Federico Arborio Mella, il quale,  presentando l’apparato iconografico, parla di “disegni condotti senza alcun lenocinio di arte, quindi più fedeli ed esatti” e di immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato od alterato da alcun manierismo, la vera parvenza artistica o carattere stilistico”[26]  dell’ edificio.

Il volume, stampato in 600 esemplari, riscosse un buon successo di critica, e come ricordava la pubblicità redazionale contenuta nell’Archivio della Società Vercellese di Storia ed Arte del 1909 “Le 150 illustrazioni geometriche e fotografiche, a giudizio dei periti, non lasciano più nulla a desiderare: quelle completano l’analisi tecnica della basilica e del chiostro, queste danno la visione da terra di tutte le parti”[27],ma il coro di elogi non fu unanime: se “Civiltà Cattolica” definisce il volume illustrato “abbondantemente, anzi sovrabbondantemente, con vedute fotografiche generali e particolari, per ogni aspetto, ogni angolo, ogni minuzia”[28] mostrando di non comprendere la novità dell’impostazione complessiva, anche uno studioso avveduto  come Guido Marangoni, nel suo studio sulla basilica di S. Andrea pubblicato nel 1909, si limita a sottolineare che gli studi di Romualdo Pasté  “dal punto di vista artistico nessuna novella  luce hanno portato sull’interessante argomento. Ed anche Federico Arborio Mella, dedicandosi nello stesso libro allo studio artistico dell’Abbazia e  della Chiesa, si è limitato a raccogliere le varie e disparate opinioni degli autori precedenti, racchiudendosi in poche, timide ed eccessivamente modeste osservazioni personali”[29] senza rilevare il ruolo svolto dai rilievi grafici e fotografici e soprattutto senza ricordare l’opera di Pietro Masoero di cui lui stesso si era avvalso in questa ed altre  occasioni.

Quando viene pubblicata in “Rassegna d’Arte” la prima parte dell’articolo di Marangoni la stampa locale ne dà immediata notizia definendolo “articolo splendidamente illustrato con fotografie in gran parte inedite del nostro Masoero”[30]; l’affermazione non corrisponde al vero, poiché le fotografie che corredano il testo sono le stesse già utilizzate per il volume del 1907, ma dimostra con evidenza (oltre ad un tocco di campanilismo) quale peso avesse assunto la documentazione fotografica nell’economia complessiva dello studio, ciò di cui era del resto ben cosciente lo stesso Marangoni che nella ristampa del 1910 non mancherà di ringraziare Masoero: ” alla sua nota eccellenza di fotografo devo il materiale illustrativo onde questo studio si fregia, al suo  colto e consapevole entusiasmo per i tesori dell’arte autoctona, vado debitore di preziose notizie e di validissimo aiuto “. Per Marangoni era l’impostazione stessa dello studio di Arborio Mella a non essere soddisfacente poiché questi si limitava ad esporre le opinioni precedenti, indulgendo soprattutto, sulla scia degli studi del nonno Carlo Emanuele, all’ipotesi di una matrice inglese per l’architettura del S. Andrea, fermamente confutata da Marangoni, insieme a quelle che proponevano  derivazioni francesi o tedesche, a tutto favore di una rivendicazione dei caratteri sostanzialmente autoctoni dell’opera, basata soprattutto sull’analisi degli apparati decorativi. A questo tipo di analisi è strettamente connessa la scelta dell’apparato illustrativo: assenti i rilievi grafici, anche le viste d’insieme si riducono all’essenziale mentre invece abbondano immagini di capitelli, cornici, pinnacoli a sottolineare la matrice lombarda di questa architettura.

 

 

È questo un uso dell’immagine fotografica decisamente meno interessante di quello rilevato nel volume del 1907; la fotografia diviene semplice illustrazione, la sequenza perde di compattezza e si sfalda, ponendosi all’assoluto servizio del testo. La completezza e la complessità di articolazione della documentazione fotografica verranno invece riutilizzate in una pubblicazione di poco successiva: esce nel 1910 il n. 13 della serie “Italia Monumentale – Collezione di monografie sotto il patronato della «Dante Alighieri» e del Touring Club Italiano” dedicato a Vercelli, in cui un breve testo introduttivo di Francesco Picco accompagna una serie di fotografie di Pietro Masoero prevalentemente dedicate alla basilica di S. Andrea.[31] Qui sono le stesse caratteristiche editoriali della pubblicazione a far prevalere l’apparato iconografico, ancora una volta coincidente con quello utilizzato nel 1907 ma trattato con diversa attenzione: non solo l’ordine della sequenza abbandona la logica architettonica, disciplinare, a favore di un percorso schiettamente percettivo che passa dalla visione del prospetto principale all’interno, articolando poi sulla cupola – cioè sull’elemento anche visivamente emergente – il ritorno all’esterno, ma anche la singola immagine si presenta in modo diverso: scomparsi i tagli e l’ingrandimento selettivo la lastra viene utilizzata nella sua interezza, perdendo in parte l’efficacia dell’analisi a favore di un approccio più descrittivo, didascalico. Sembra quindi che la documentazione prodotta da Masoero non possa essere assimilata ad una vera e propria opera di rilievo, ma che abbia assunto questa veste solo sotto la guida attenta di Federico Arborio Mella. Si pone così il problema di individuare i tempi ed i modi della  realizzazione delle immagini fotografiche.

L’unica fonte a noi nota è costituita dal fondo Masoero conservato presso il Museo Borgogna di Vercelli, costituito da lastre, diapositive ed autocromie prevalentemente dedicate al patrimonio artistico ed architettonico vercellese;[32] il corpus di immagini relative a S. Andrea comprende un centinaio di lastre alla gelatina­bromuro in formati diversi dal 9/12 al 24/30 e due diapositive,  un esterno ed un dettaglio del portale principale, che sembrano costituire l’unico resto del materiale da proiezione utilizzato da Masoero nel corso della conferenza da lui tenuta a Novara la sera del 25 aprile 1909, dedicata alla basilica. Dal confronto tra le lastre e le immagini utilizzate nelle varie pubblicazioni emerge immediatamente un dato interessante: le fotografie pubblicate nella maggior parte dei casi non corrispondono alle lastre a noi pervenute che, anzi, si presentano in più di un caso come prove non perfettamente riuscite delle riprese poi utilizzate in sede di pubblicazione. Il dato pone interrogativi inquietanti, a cui peraltro non sono ancora in grado di rispondere, soprattutto ricordando che per esplicita volontà dello stesso Masoero, prima amministratore e poi presidente del Museo Borgogna, tutto il suo fondo fotografico era stato donato al museo stesso, come ricordano esplicitamente anche i necrologi pubblicati alla sua morte, nel 1934. Il materiale conservato presso il Museo, prescindendo dalla discontinua qualità delle singole immagini, fornisce comunque dati di rilevante interesse, soprattutto perché molte delle lastre sono accompagnate da annotazioni autografe con indicazioni relative a data e tempi di ripresa. L’11 gennaio del 1890 Masoero fotografa per la prima volta la navata centrale e la navata destra, proseguendo poi fino ai primi di marzo con una attenzione particolare per gli interni o per i singoli elementi quali il confessionale del XVII secolo, la tomba dell’abate Tommaso Gallo (sec. XIII) ed il monumento ad Edoardo Arborio Mella del 1889, escludendo quasi del tutto le riprese in esterno che comprendono solo una serie di tre immagini del transetto e di parte della navata ripresi dal chiostro, interessanti soprattutto per ricostruire il suo modo di impostare la documentazione per aggiustamenti progressivi. Fanno parte di questa prima serie di immagini anche alcuni interni con figure in cui la ripresa architettonica lascia il posto ad annotazioni di costume. Non si può quindi ancora parlare di una intenzione chiara e coerentemente sviluppata (almeno a giudicare dal materiale disponibile) ma, come abbiamo ricordato, in questi anni a Vercelli non esistono esempi di documentazione fotografica dell’architettura a cui fare riferimento, certamente non favoriti dalla presenza di uno studioso come Edoardo Arborio Mella.

Le prime riprese di Masoero, all’epoca ancora direttore dello Studio Castellani, nascono da una iniziativa personale, connessa all’interesse nascente per il patrimonio architettonico ed artistico della città in cui risiedeva, e forse anche alla progressiva conoscenza dell’ opera di altri fotografi piemontesi. L’esempio di Secondo Pia, premiato nel 1890 per la sua opera di documentazione, dovette certamente indurlo a proseguire l’opera di documentazione, impostandola con nuovi criteri di organicità e completezza: nel giugno del 1892 Masoero apre il proprio studio in via Caserma di  Cavalleria al n. 1, dedicandosi soprattutto al ritratto, e circa un anno dopo, dal 20 marzo al 19 aprile del 1893, fotografa la chiesa con lastre 18/24 rilevandone prospetti, interni e dettagli, ritornando sui soggetti fotografati tre anni prima. I dati di ripresa scrupolosamente annotati (pratica del resto comune ad altri) mostrano la preoccupazione di produrre immagini prospetticamente corrette che rendano compiutamente la volumetria dell’intero complesso, fotografato più volte con obiettivi diversi, impiegando il grandangolare solo in casi eccezionali, quando le condizioni di ripresa non consentono alternative. La campagna fotografica del 1893 risulta essere la più completa (altre immagini vennero realizzate ancora nel 1896 e nel 1899 in modo certamente più occasionale e saltuario)[33], ma rimarrà inutilizzata ancora per molti anni e probabilmente sconosciuta  anche in ambito locale se l’unica immagine di S. Andrea presente nel già ricordato fascicolo di “Arte Sacra” del 1898 si deve a Giuseppe Costa. L’attività fotografica di Masoero, che pure in quegli anni riceverà una significativa serie di riconoscimenti, era caratterizzata dalle sue note capacità di ritrattista e, in ambito più strettamente professionale, dalle iniziative sostenute a favore della costituzione di scuole di fotografia, mentre si andava consolidando la sua fama di divulgatore e di studioso della scuola pittorica vercellese. La documentazione dell’architettura della basilica di S. Andrea, che pure per quasi vent’anni costituirà uno dei temi ricorrenti del suo lavoro, viene lasciata in secondo piano, per essere ripresa solo nel 1907 quando, dietro lo stimolo di Federico Arborio Mella, Pietro Masoero tornerà per l’ultima volta  fotografare la chiesa, con lastre di grandi dimensioni (24/30), attento soprattutto ad “evitare un pericolo … di cadere nel manierato … Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni … L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità”.[34]  Per Masoero, appassionato studioso della pittura vercellese, la fotografia di architettura non era che un documento.

 

Note

 

 

[1] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907. In seguito citato come PMM.

 

[2] Daniela Biancolini,  Carlo Emanuele Arborio Mella (1783­1850), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980,  voI. III, p. 1387.

 

[3] Carlo Emanuele Arborio Mella, Cenni storici sulla chiesa ed abbazia di Sant’Andrea in Vercelli. Torino: Lit. Giordana, 1856.

 

[4] Edoardo Arborio Mella, Studio delle proporzioni dell’antica chiesa di S. Andrea in Vercelli. Torino: Stamperia Reale di G.B. Paravia e C.,1881.

 

[5] Anna Maria Rosso, Il fondo disegni di Edoardo Arborio Mella conservato presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli,  in

Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti  – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 67-75.

 

[6] Lucetta Levi Momigliano, La Giunta di Antichità e Belle Arti,  in Cultura figurativa e architettonica 1980,  vol. 1, pp. 386-387.

 

[7] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1897 in Edoardo Arborio Mella 1985  pp. 149­-158.

 

[8] Milano, Civica Raccolta Stampe A. Bertarelli, Pubblicità di fotografi. Il verso della carte de visite porta, oltre all’intestazione dello studio, una veduta della basilica di S. Andrea.

 

[9] Istituto di Belle Arti di Vercelli, Fondo Mella. Il fondo proviene dal lascito di Federico Arborio Mella: “Lascio pure al suddetto Istituto di Belle Arti tutta la raccolta di disegni del compianto mio padre, quella di riproduzioni fotografiche di monumenti, di quadri, di statue”,  cfr. A.M. Rosso, il fondo disegni, op. cit., p. 67.

 

[10] Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p. 55. A Vittorio Besso si deve anche lo splendido Album artistico ossia raccolta di 326 disegni autografi di valenti artisti italiani” del 1868, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, che gli valse una medaglia all’Esposizione di Vienna del 1873.

 

[11] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura,  in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

[12] I Esposizione Italiana di Architettura: Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L. Roux e C., 1891, p. 49. Si veda anche Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981.

 

[13] Cfr. Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale, 1986. Una più ampia traduzione del brano di Ruskin è riportata a p. 16.

 

[14] Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p. 278. Non mancavano però le critiche rivolte all’uso indiscriminato della fotografia nella pratica architettonica. Si veda in proposito Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p. 18: ” non riuscì altrettanto di buon augurio il vedere come molti architetti, dilettanti fotografi, preferiscano servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano … Quello che riesce di maggiore giovamento all’ educazione artistica dell’architetto è il paziente e intelligente rilievo fatto sul sito”.

 

[15] Becchetti 1978, p. 126.

 

[16] Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra, apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977 p. 27, Tav. XXIV.

 

[17] Françoise Heilbrun, Charles Nègre et la photographie d’architecture,  “Monuments historiques, Photographie et Architecture”, 1980, n. 110, p. 18. Per ulteriori informazioni sui rapporti tra tutela e documentazione fotografica in Francia si veda Françoise Bercé,  Les premiers travaux de la Commission des Monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

 

[18] Liliana Pittarello: La posizione di Edoardo Arborio Mella all’interno del dibattito ottocentesco sul restauro , in Cultura figurativa e architettonica 1980, vol. 2, p. 768.

 

[19] Luigi Bruzza: storia, epigrafia, archeologia a Vercelli nell’Ottocento, Guida alla mostra. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984.

 

[20] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero,1887, p.1.

 

[21] Esposizione Genera1e Italiana di Torino 1884: Arte contemporanea Catalogo Ufficiale. Torino: Unione Tipografica Torinese, 1884, p. 114. L’ingegnere Giuseppe Gioacchino Ferria aveva presentato nel luglio del 1883 una memoria Sul rilevamento architettonico coll’uso della fotografia poi pubblicata in “Atti della Società degli Ingegneri e degli Industriali di Torino”, 17 (1883). Torino: Tip. Salesiana, 1884, pp. 43-48, che viene unanimemente considerato il primo studio italiano di fotogrammetria. Gli interessi di Ferria non sembrano aver influito sulle opinioni di Federico Arborio Mella relative all’uso della documentazione fotografica dell’architettura; un riferimento più concreto, forse un modello, potrebbe invece essere individuato nella monumentale opera dedicata alla Basilica di S. Marco edita da Ferdinando Ongania a Venezia, di cui l’Istituto di Belle Arti di Vercelli possedeva una copia.

 

[22] “Arte Sacra”, Torino, n. 4, 1898, numero monografico dedicato a Vercelli.  La basilica di S. Andrea era già compresa nel catalogo Alinari. Cfr. Liguria, Piemonte, Lombardia. Vedute, bassorilievi, statue, quadri, affreschi ecc. Riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari.  Firenze: Tip. G. Barbera, 1899. Le immagini della basilica, nn. 15877-15881, comprendevano esterno, facciata, abside, interno, confessionale del XVII secolo.

 

[23] Antonio Taramelli, Per la diffusione della cultura artistica , “L’Arte”, 6 (1901), pp. 212-213: “Prima di lasciare il Piemonte debbo ricordare come alcuni studiosi abbiano cercato di aiutare la diffusione della cultura artistica col mezzo di conferenze illustrate da proiezioni di fotografie. Debbo ricordare a titolo d’onore, quella del sig. Masoero di Vercelli, che a Torino ed a Firenze, espose una brillante serie di sue fotografie illustranti la pittura de’ Vercellesi”. Si veda anche P. Cavanna: Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 19895), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano, , Milano, Electa, 1985, pp. 150-154.

 

[24] Romualdo Pastè, Storia documentata dell’Abbazia di S. Andrea di Vercelli nel periodo medioevale 1219-1466, “Miscellanea di Storia Italiana”, Serie III, Tomo VII. Torino: Bocca, 1902, pp. 345-458. Questo studio era stato recensito da Masoero in “La Sesia” del 17 settembre 1901.

 

[25] Federico Arborio Mella in PMM 1907, p. 439. L’affermazione richiama il concetto di “Documento/Monumento” espresso da Jacques Le Goff in anni recenti.

 

[26] Ivi, p. 489, sottolineatura nostra. Sono ormai lontani i tempi in cui Pietro Selvatico pensava che la fotografia offrisse “le esatte apparenze della forma”. Pietro Masoero, sempre molto attento ai problemi posti da un uso corretto della strumentazione fotografica, aveva redatto uno studio relativo a La dilatazione dei supporti positivi, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp. 74-78.

 

[27] “Archivio della Società Vercellese di Storia e d’Arte”, 1 (1909), n. 3-4.

 

[28] “La Sesia”, 27 settembre 1908.

 

[29] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli,  “Rassegna d’Arte”, 9 (1909), n. 7, pp. 122­126; n. 8/9, pp. 154-158; n. 11, pp. 180-186. I tre articoli vennero riediti in Guido Marangoni, Il bel Sant’Andrea di Vercelli Note ed appunti critici. Milano:  Alfieri & Lacroix, 1910. Il giudizio sul volume collettivo del 1907 è alla p. 12 di questa edizione. La volontà di compilare una semplice rassegna degli studi critici precedenti era stata palesemente espressa da Federico Arborio Mella: ” Mi asterrò nel mio scritto … da ogni giudizio mio personale; essendo unico mio scopo quello di mostrare il S. Andrea quale fu nei tempi passati e quale è oggi; illustrandolo coi giudizi e colle opinioni di quanti io conosco essersi proposto ad oggetto degli studi loro il nostro monumento” (Cfr., PMM, op. cit., p. 439). Ma in almeno un’occasione non può esimersi dal formulare la propria opinione, criticando proprio l’intervento del padre che nel 1850 aveva realizzato gli altari della cappella di S. Carlo e di S. Francesco di Sales “in uno stile archiacuto tedesco del secolo XIV” impiegando “un unico materiale bianco “. Ormai si sono fatta strada i nuovi concetti di restauro propugnati da Camillo Boito e da Alfredo d’Andrade e le teorie di Viollet-le-Duc sono state abbandonate. “Sarebbe stata certamente ottima cosa che il monumento ci fosse pervenuto integro anche in quelle parti, che dal punto di vista architettonico si possono ritenere accessorie … ” conclude amaramente Federico Arborio Mella (ivi, p. 487).

 

[30] “La Sesia”, 25 luglio 1909.

 

[31] Francesco Picco, Vercelli, con “Sessantaquattro illustrazioni fornite dallo Studio fotografico del Cav. Pietro Masoero/Vercelli”. Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[32] Il fondo fotografico, pervenuto al Museo Borgogna per lascito dello stesso Masoero, giace per ora scarsamente utilizzato ed in precarie condizioni di conservazione. Le lastre sono in parte conservate nelle loro confezioni originali, corredate da annotazioni autografe, ma prive di protezioni contro luce, polvere ed umidità, tanto che in numerosi casi l’emulsione tende a staccarsi dal supporto, soprattutto ai bordi. Una prima parziale schedatura del fondo, relativa alle riproduzioni delle opere di Bernardino Lanino, è stata realizzata in occasione della mostra del 1985. Cfr.  Laura Berardi, P. Cavanna, Elenco ragionato delle fotografie di Pietro Masoero relative all’opera di Bernardino Lanino. Per ulteriori notizie sulla storia e sulle importanti collezioni del museo si veda Laura Berardi: Il Civico Museo Borgogna ­Vercelli.  Milano: Federico Garolla, 1985.

 

[33] Pietro Masoero,  Il sepolcro dell’abate Gallo in S. Andrea. 14 gennaio 1899 dalle 11.40 alle 12.30, Lastre Orto Cap. [Ortocromatiche Cappelli] da 2 mesi almeno nel chassis, diafr., temo posa (7) “. Vercelli, Museo Borgogna, Fondo Masoero, Scatola 14, lastra 18/24.

 

[34] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171.

Luigi Ghirri: seduzioni della differenza (1999)

in Luigi Ghirri. Castelli valdostani, catalogo della mostra (Aosta, Torre del Lebbroso, 3 Luglio – 3 Ottobre 1999). Aosta: Musumeci  Editore, 1999

 

Oh che bel castello…

 

“Quando sono chiamato a compiere un lavoro (…) il primo impatto risulta sempre problematico” scriveva Luigi Ghirri nel 1987[1] presentando alcune immagini eseguite su commissione. “Per prima cosa mi ritornano alla mente lavori analoghi svolti in altri luoghi, con modalità e finalità analoghe (…) poi comincio a rivedere e a ripensare a tutto quello che è già stato fatto negli stessi luoghi da altri fotografi e da fotografi di altre generazioni. (…) Non è sicuramente una novità riaffermare che ormai tutti i luoghi sono iper-descritti, raccontati, indagati, tanto che sembra impossibile ad ogni  nostro sguardo sfuggire da un deprimente deja-vu, se non allo stereotipo.”

Questa riflessione, nata in altri siti e occasioni, credo possa essersi affacciata alla mente di Ghirri anche nei momenti che hanno preceduto nel 1991 la realizzazione della campagna fotografica sui castelli valdostani, che qui presentiamo per la prima volta nella sua compiutezza, commissionata dalla Regione Valle d’Aosta nell’ambito di un progetto ideato da Gianfranco Maccaferri.

 

Tradizione iconografica e stereotipo sono in questo particolare contesto elementi specialmente marcati e pericolosamente incombenti: tra pittoresco e sublime l’interesse per le architetture castellane si sviluppa a partire dalla seconda metà del XIX secolo[2], mescolando istanze romantiche e  gusto troubadour con le prime attenzioni archeologiche per il patrimonio costruito che emergono in artisti come Federico Pastoris, il cui verismo “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[3] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni – pur non sistematiche[4] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico “piemontese” in cui si comprendeva allora anche la Valle d’Aosta.

Il primo viaggio di D’Andrade in valle, accompagnato da Pastoris e datato 1865, tocca oltre ad Aosta proprio i castelli di Fénis, Verrès e Issogne,  al quale già nel 1853 un altro artista torinese come Carlo Felice Biscarra aveva dedicato una serie di studi e disegni, mentre numerosi oggetti di provenienza valdostana entravano a far parte delle collezioni del neonato (1863) Museo Civico di Arti Applicate di Torino.[5] In questo contesto di interessi e passioni va collocato anche l’acquisto del castello di Issogne nel 1872 da parte di un altro esponente  della “scuola di Rivara”, Vittorio Avondo che ne affida il restauro proprio a D’Andrade in collaborazione con Pastoris ed i fratelli Pietro[6] e Giuseppe Giacosa[7], il quale nello stesso anno pubblica in “Nuova Antologia”, con dedica a Pastoris, Una partita a scacchi , poi rappresentata con scenografie di D’Andrade.

È a questo gruppo di artisti che si deve l’invenzione, tutta ottocentesca, dei castelli valdostani, prima assenti da una tradizione iconografica che semmai aveva privilegiato le antichità romane di Aosta. Questo processo di invenzione prenderà forma compiuta,  fascinosamente in bilico tra cura filologica e spettacolarizzazione didattica, nella campagna di studi e rilevamenti che porterà alla realizzazione del Borgo e Rocca Medievale al parco del Valentino per l’Esposizione generale italiana  che si tiene a Torino nel 1884[8], occasione in cui la Prima Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani auspica la formazione di quella  “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni [fotografiche] architettoniche di edifici nazionali” [9]che propone con largo anticipo il problema dei Musei documentari.

Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[10] operano sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fénis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[11],  per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[12]

 

Dal complesso progetto culturale che presiede all’invenzione del Borgo Medievale deriva quella necessità di realizzare una “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni”  delle diverse tipologie di costruzioni che sarebbero andate a costituire il Borgo,  raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità”[13], che testimonia di un percorso intellettuale contraddittorio e affascinante, poi tradotto magistralmente in progetto espositivo, nel quale è facile riconoscere il segno dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, analoghe e fungibili al reale. In questo senso esso rivela i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico di secondo Ottocento e investe una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è (considerato) autentico, vero  in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a rappresentare in modo tanto verosimile da divenire reale un soggetto inesistente in quella forma. Il gioco intellettuale e pittoresco della simulazione viene spinto fino alla messa in scena di una rappresentazione più vera del vero che prende forma nella commissione, fatta da Alfredo D’Andrade a Vittorio Ecclesia[14], di una serie di vedute del Borgo animate da figure in costume, che influenzeranno l’opera di un fotografo più giovane come Edoardo di Sambuy[15], titolare almeno dal 1898 di uno “Studio di riproduzioni artistiche” dopo una breve carriera di fotografo amateur.   In questo stesso anno anch’egli realizza una serie di immagini  della Valle d’Aosta (alcune dedicate ad Issogne) animate da personaggi in costume storico che – diversamente da quanto accadeva in Ecclesia – costituiscono  il soggetto principale e il centro di attenzione: il punto di vista si abbassa, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è trasformato in fondale scenografico. Queste fotografie rappresentano  per il Piemonte la prima traccia visibile del progressivo slittamento semantico del termine ‘artistico’ applicato alla fotografia: se fino ad allora (e per molti anche dopo, sempre) l’aggettivo qualificativo era riferito alle caratteristiche dell’oggetto fotografato (architettura, dipinto, insomma opera d’arte) qui esso inizia a essere riservato all’immagine in quanto tale,  in accordo a quel  passaggio dalla riproduzione alla fotografia “artistica” che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902 di cui lo stesso Di Sambuy fu responsabile.

 

L’influenza della realizzazione del Borgo Medievale  è però particolarmente rilevante sulle campagne documentarie dei fotografi piemontesi, poiché contribuisce a determinare quella “particolare e storica forma di traduzione dell’architettura in immagine. Immagine di una particolare concezione dell’architettura” [16] che si tradurrà progressivamente nella sedimentazione di quegli stereotipi visivi a cui faceva riferimento Ghirri nella riflessione posta in apertura.

Un riscontro immediato di questa influenza ci è dato dall’elenco dei soggetti presentati all’Esposizione del 1884 dagli studi fotografici che intrattenevano più stretti rapporti con la cerchia di d’Andrade quali Berra ed Ecclesia che espongono rispettivamente fotografie relative a S. Antonio di Ranverso e alla Sacra di S. Michele, ma anche  una nutrita serie di vedute dei castelli della Valle d’Aosta, tema che ritornerà ampiamente  anche nell’opera  di altri fotografi piemontesi come Vittorio Besso, per il quale un confronto tra i cataloghi del  1881 e del 1893 mostra un accrescimento  rilevante del repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti, e specialmente Secondo Pia che comprenderà molte di  queste architetture nella sua fondamentale ricognizione fotografica. A partire dalla fine del secolo i castelli valdostani -ormai entrati a far parte del patrimonio pubblico per iniziativa dello stesso D’Andrade che in veste di direttore dell’Ufficio regionale per  la conservazione dei monumenti ne aveva promosso l’acquisto (Verrès, 1894; Fénis, 1895; Issogne, 1907) –  costituiscono mete consolidate del nascente turismo associazionistico-culturale e la loro immagine diviene componente familiare delle prime guide a stampa ad alta tiratura, “abitati da Paggi Fernandi e da abati di Challant le cui regioni di provenienza sono chiaramente ben più quelle mitiche della letteratura che non quelle della realtà effettivamente vissuta.”[17]

 

 

Dichiarazioni autentiche in forma apocrifa

 

I castelli valdostani, allora, sono immagini immaginate, iperdeterminate da un itinerario di costruzione della loro visibilità tutto moderno, che nasce da quella cultura che “facendo della Fotografia, mortale, il testimone principale e come naturale di «ciò che è stato» (…)  ha rinunciato al Monumento. Paradosso: lo stesso secolo ha inventato la Storia e la Fotografia” [18], ma anche il Restauro, connesso storicamente alla riscoperta e forse soprattutto alla reinvenzione del medioevo: dal gothic novel all’eclettismo storicistico su su fino al  cinema e al fumetto, al Luna Park e a Disneyland.

Qui lo stereotipo piuttosto che costituire l’esito di una proliferazione visuale anestetizzante marca in certa misura l’origine stessa della reimmissione dell’oggetto nel contesto culturale, per questo  solo “un tentativo semplice di ricostruire un sentimento di appartenenza e pacificazione, un «percorso possibile» all’interno dei territori da fotografare e raccontare”[19], può ancora consentire di scoprire “l’enorme potere di rivelazione che ogni nostro sguardo può contenere; [la necessità] di una visione che ci «riconsegni» i monumenti e le architetture grandi e piccole che compongono il nostro habitat, nonché i colori che lo determinano e lo definiscono. (…) quasi in un gioco di sottile dimenticanza, per lasciare all’esterno la possibilità di rivelarsi, o comunque cercare nella visione un punto di equilibrio tra la mia soggettività e i dati dell’esterno”[20]. “Penso che oggi bisogna (…) continuare a pensare alla fotografia come desiderio, immagine dialettica, e forse utopia, per mostrare all’altro il nostro stupore nei confronti del mondo (…) e che da questa semplice constatazione o progetto nascono il fare, le percezioni e i sentimenti”[21], perché “mai come oggi l’uomo è travolto dalle immagini, e mai come oggi queste gli dicono poco. L’uomo è talmente saturo che non sa più provare emozioni. La fotografia ha quindi un compito etico ancor prima che estetico.”[22]

 

In questo contesto si colloca il lavoro condotto da Ghirri sui castelli valdostani, lavoro che come molti altri realizzati  su commissione lo porta a confrontarsi coi monumenti,  coi luoghi notevoli, e comuni, di ciascun territorio, apparentemente lontano e in contraddizione coi suoi primi interessi, penso in particolare a In scala (1977-1978 ), ma in realtà tutto compreso all’interno di una riflessione più ampia e matura sui rapporti tra artificio e natura, sulla rappresentazione e  sul doppio, sul nostro essere culturale nella storia: produttori, consumatori e narratori di luoghi ridotti ad immagini;  nella consapevolezza che il rapporto col sito storico si dà sempre e comunque nel presente e nonostante l’appartenenza dell’icona castello al reame dell’immaginario, esiste ancora – e va mostrata – la sottile differenza che distingue Fénis, Issogne e Verrès da Disneyland e altri nonluoghi.[23] Abbandonata per un momento l’indagine sui margini (anche delle convenzioni rappresentative, non solo urbani o geografici) Ghirri si misura con temi compresi tra  Grand Tour e Touring Club (Abbazie, Campanili, Cappelle, Castelli, Centri storici, Chiese, Conventi, Fontane monumentali, Musei, Palazzi, Ponti, Teatri, Torri, Ville) , con spazi e luoghi cioè che non sono  stati “dimenticati dalla storia”. è proprio nell’interrogarsi sulla possibilità di narrare di nuovo questi luoghi facendo i conti con lo stereotipo per “squarciare il muro percettivo che ci accompagna”[24]  che risiede l’interesse alto e la grande qualità della riflessione di cui queste immagini  sono l’esito.

Il punto nodale è allora la comprensione – che determina poi le forme del narrare – del nostro rapporto con la storia, “alla ricerca di quell’originale [necessariamente] perduto” che non possiamo che riscoprire nella contemporaneità della nostra percezione. Ha ricordato Arturo Carlo Quintavalle ormai parecchi anni fa[25] che le foto di Ghirri dimostrano la consapevolezza di chi ha coscienza non solo di essere immerso in “una civiltà dove originale e copia non esistono perché tutto è ambiguamente duplicato, incerto tra realtà e immagine della realtà”,  ma anche esprimono  una “durata” che deriva dal “soffermarsi sulla dimensione della storia degli oggetti, ma una storia che è sempre dentro l’oggi, non documento di una storia staccata, lontana da noi”, trama di una esperienza in cui i  singoli elementi che costituiscono il manufatto storico “ci appaiono come brani di uno straordinario «Romanzo storico». Ed è così che si ha la sensazione che la storia possa essere condensata in questo «Castello in aria» [riferendosi alla Sacra di San Michele in Valle di Susa] dove tutto è sospeso, dove le nuvole in certi momenti nascondono il castello e dove in altri lo mostrano sospeso su loro stesse.”[26]  “Romanzo storico”, “Castello in aria” sono qui termini sin troppo chiaramente sintomatici di un modo di percepire e comprendere il monumento, la “permanenza” di rossiana memoria[27], che Ghirri mostra a partire dalla fine degli anni Ottanta: “Sentiamo che abbiamo abitato questi luoghi, una sintonia totale ci fa dimenticare che tutto questo esisteva e continuerà ad esistere al di là dei nostri sguardi”[28],   e ancora:  “è necessario recuperare una forma di umiltà di fronte al tempo e alla durata delle cose, e proporre un  punto di equilibrio fra artificio e natura, fra rilevazione e rivelazione. Quello che ci è dato di conoscere non è che una smagliatura. Eppure è qualcosa di irripetibile…”[29]. È in questo scarto che risiede la possibilità di rappresentare di nuovo, di  “osservare il mondo in uno stato adolescenziale, rinnova[ndo] quotidianamente lo stupore”[30], che coincide per Ghirri con la ragione stessa del fotografare.

È in questa “piccola smagliatura sulla superficie delle cose, dei paesaggi che abitiamo e viviamo” che si insinua lo sguardo del fotografo scoprendovi il solo spazio “che ci è dato di conoscere, raccontare e rappresentare”;  è qui che “si può spiegare l’aria di inquietante tranquillità che abita luoghi e paesaggi, che sembrano essere abitati di nuovo dal mistero e dai segreti che ancora possiedono”  dove, richiamando le categorie di Roger Callois[31], ciò che emerge non è l’universo meraviglio  del fiabesco “che si affianca al mondo reale senza sconvolgerlo e senza distruggerne la coerenza”,  ma quel fantastico che “rivela uno scandalo, una lacerazione, una irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale”[32].

Per questo, come aveva ben compreso Massimo  Mussini, “per Ghirri la fotografia non è «invenzione» nel senso tradizionale pittorico, ma inventio nel senso primo di ritrovamento, scoperta, e dunque disvelamento, della realtà fenomenica” [33] o, come ha detto lui stesso: “credo che la fotografia sia semplicemente la rappresentazione di come si percepisce la realtà”[34].

Qui, nell’accettazione del proprio rapporto dialettico col mondo che si fa immagine, risiede la possibilità per il fotografo di riconoscere il senso, la necessità del proprio ruolo, la sua funzione etica che lo porta a indicare, a suggerire possibili scenari di esistenza e comprensione affascinata delle cose. “So benissimo che l’immagine fotografica non è la realtà – dice Ghirri –  ma l’osservatore, nel momento in cui guarda una fotografia, inevitabilmente viene richiamato alla realtà fotografata: questo istantaneo e duplice sguardo determina la sottile fascinazione della fotografia, per questo non credo sia necessario aggiungere, trasformare, colorare ulteriormente la realtà  fotografata. (…) Io penso di agire e intendo lavorare con leggerezza e trasparenza”[35].

Questo non è un elogio ingenuo della “naturalezza” o della presunta obiettività dell’immagine fotografica; tutto il suo lavoro, inutile sottolinearlo,  si è svolto intorno al profilo problematico di questa presunzione ingenua e storicamente significante. La realtà mostrata non può che essere – da sempre – quella fotografata ma, dopo le ricerche degli anni ‘70, tale postulato non necessità più di essere ostentato, non marca esplicitamente l’esito formale di uno sguardo rivolto a scorci inconsueti per eccessiva normalità. Ora la rivelazione è più complessa e sottile, verificata in contesti più rischiosi, invischiati in una tradizione iconografica dalla quale è possibile liberarsi solo accettando di subire “il sottile fascino malefico della doppia visione che si ha quando si osserva una fotografia, seduzione della differenza che esiste tra la cosa e la cosa fotografata, lo scarto percettivo del doppio sguardo che continua a catturarci”[36].

è  l’esplicitazione della retorica della messa in scena, sottesa alla semplicità di uno sguardo che ormai non ha più bisogno di essere ironico, di segnare una distanza ulteriore e distinta da quella già insita nell’atto della trasformazione in immagine. Ciononostante il lavoro non giunge ad assumere posizioni di straniamento, non più almeno, ma anzi rivela la volontà di raggiungere  “la percezione della quotidianità degli spazi che compongono un paese come l’Italia”[37],  allargando il  Catalogo sino a “realizzare una specie di «legenda» italiana, legenda nel senso di cose da vedere in quanto sono dei modelli, come a dire degli archetipi, oppure un abbecedario.” (p. 305, 1991) nel quale – come sempre – “Le foto assumono senso dal loro essere dentro un «sistema», all’interno di un montaggio o discorso narrativo”, mentre la “rinnovata attenzione alla singola immagine”[38] appartiene al  superamento della fase più marcatamente programmatica di cui si diceva, in direzione di una più complessa condivisione di analiticità e sentimenti .

 

 

 

Teatri di luce e accoppiamenti giudiziosi

 

Per queste ragioni forse alle indagini tematiche più diverse, dai paesaggi padani all’atelier Morandi, ai singoli argomenti sembra essere sotteso un tema di fondo, vero soggetto della riflessione per immagini: il territorio “vastissimo e inesplorato” (1989) costituito da quella rappresentazione dello spazio che “è sempre stata all’interno della fotografia un problema esclusivamente formale mentre, a mio parere, è anche un problema che si lega al concetto di tempo”[39] e quindi di durata e, al limite, di storia. Esso si  traduce in termini di modalità narrative in quel “adoperare la luce per cancellare alcune cose anziché per rivelarle” che costituisce certo la cifra più affascinante e magistrale degli ultimi lavori di Ghirri, ben leggibile in molte delle immagini dedicate ai castelli valdostani. La luce come fondamento stesso della fotografia nella sua concezione aurorale evocata dal ricordo della camera obscura del castello di Fontanellato,  ma anche legata alle  suggestioni di quella “architettura fatta con le ombre (…) svelata dalla luce” di cui aveva parlato Etienne-Louis Boullée riletto da Aldo Rossi[40], luce come legame rivelatore tra atemporalità e durata, tra natura e storia.

Proprio questo sapiente riconoscimento del ruolo costruttivo della luce  impedisce di collocare, ma non siamo certo i primi a riconoscerlo, il lavoro di Ghirri nella tradizione canonica della fotografia di architettura, rivelando un’altra delle sottili questioni del fare e del parlare fotografia, quella dei generi: non è sufficiente che il manufatto architettonico costituisca il soggetto della ripresa perché questa possa essere conseguentemente definita di architettura. Basterebbe il confronto, per questa serie sui castelli e specialmente su Issogne, tra le soluzioni adottate da Ghirri e quelle messe in atto da Vittorio Ecclesia più di cent’anni prima, nobile avvio di una discendenza sempre più sciatta e approssimativa. Non è questione, banalmente, dello scarto culturale tra momenti cronologicamente lontani, non è neppure un problema di inquadrature diversamente sapienti: è una diversa intenzione poetica e narrativa. Scopo dichiarato del fotografo ottocentesco è la restituzione perfetta ed equilibrata della percettibilità dell’insieme, la riduzione intenzionalmente neutrale di uno spazio a tre dimensioni immerso in una luce che tutto lega e distingue; a questa “precisione” Ghirri contrappone un desiderio di “profondità” che si traduce in invenzione dell’ombra, soluzione tutta interna certo al suo universo intellettuale e poetico, ma anche possibile risposta alle affermazioni di chi, come Bruno Zevi, ha sostenuto da sempre l’impossibilità della restituzione fotografica dello spazio architettonico. Qui, nella porzione mantenuta in ombra si colloca il punto (fisico) in cui all’osservatore è consentito di dar vita alla sua propria percezione. L’ombra è scarto e smagliatura intenzionale dell’immagine, offerta per superare la barriera della restituzione piana di uno spazio a quattro dimensioni. Questa assenza densa che è l’ombra traduce in figura quel “sentimento di indicibilità che accompagna per sempre ogni visione. Un misterioso silenzio (…) sembra diventare il modo più evidente e plausibile per costruire un racconto di fronte all’inesauribilità del mondo esterno” [41]. Ma l’ombra introduce anche una distanza, una memoria che consente di mostrare il reale come citazione di sé stesso; essa porta a  fotografare l’oggetto come se fosse memoria di quell’oggetto  stesso, che ormai non può più essere visto che attraverso una trama di rimandi e relazioni, sogni e suggestioni. Impossibili da vedere in sé, il paesaggio, l’architettura,  le cose rivelano un senso solo se ne accettiamo la loro modalità di esistenza attuale,  e per questo più ricca, mitica nel senso che a questo termine dava Aldo Rossi: “Sempre più amo le citazioni o i frammenti del passato, anche i frammenti materiali, le ricostruzioni, tutto ciò che assume un significato nuovo nel contesto (…) Mi sembra che le cose riappaiono con la permanenza del mito e che quindi noi traduciamo sempre un disegno antico.”[42]

 

Questo tradurre nuovamente dà forma a tutto il lavoro di Ghirri sui castelli valdostani, assumendo di volta in volta modalità diverse che nascono, pur nell’unitarietà della realizzazione complessiva, dalla definizione dei problemi che pongono le singole architetture fotografate, vissute essenzialmente come interni, come spazi della rappresentazione piuttosto che come figure rappresentate inserite in un contesto ambientale che non è mai dato di vedere. Certo questo è stato per Ghirri – credo – un modo per sfuggire alle insidie di una tradizione iconografica di matrice “romantica” e turneriana (accettata ad esempio nel lavoro di poco precedente dedicato alla Sacra di San Michele),  ma anche l’esito di un letterale  spaesamento, che lo obbliga a dedicare al paesaggio dei castelli pochissime immagini, poi non selezionate, in cui lo sforzo è di adattare, di “tradurre in piano” se non in pianura l’orografia che li circonda. Né gli importa ormai più di riflettere sull’identità e sul ruolo dei frequentatori turistici di questi luoghi, essi non sono più soggetto sociologico o specchio inquieto della presenza del fotografo, ma puro componente delle fenomenologia di percezione dei siti, presenza indifferente e in perenne movimento, secondo una soluzione formale di cui si ricorderà Thomas Struth nella sua serie sui Musei.

Il problema è quindi – ormai lo abbiamo capito – quello che possiamo definire del rappresentare come rappresentazione: mostrare l’artificio in modo naturale, far sì che il sedimento e la stratificazione che formano la nostra esperienza del mondo siano trasformati in figure non forzosamente retoriche, insistite lasciando “agli spazi, agli oggetti, ai paesaggi, il compito di rivelarsi al nostro sguardo”[43] segnato dalla memoria.

Ecco allora il senso profondo di queste immagini che appaiono  “teatrini che danno il senso di un mondo osservato”, come ha detto Ermanno Cavazzoni[44], dove – come in alcuni interni di Issogne – il letto a baldacchino è proscenio, aperto da cortine  vermeriane. La ripresa è esplicitamente in soggettiva: noi abitiamo l’alcova e osserviamo il mondo, affascinati e protetti, disposti ad accogliere il fantastico; ma il letto è anche spazio nello spazio, luogo misterioso e letteralmente oscuro, per accadimenti privati, teatro segreto del mondo di fronte al quale il visitatore è invitato  a passare senza far rumore, attratto dalla doppia fuga prospettica che si apre sul fondo; apertura su spazi discordi, doppia possibilità di prosecuzione del racconto, tra raccoglimento e azione dinamica, per indicare la complessità e l’articolazione dell’organismo architettonico che vive nel tempo: forma, volume e luce, il colore della luce. Doppie aperture e riquadrature come scatole ottiche  compaiono anche  in molte altre immagini, organizzate in composizioni nelle quali i ritmi neoplastici riemergono come sorprendente reperto antico, e costituiscono la soluzione felice ad un problema sottile e complesso, quello di rendere ragione, di restituire fotograficamente spazi concepiti prima del “paradigma” prospettico, per i quali risulterebbe improprio e inadeguato il ricorso alla frontalità della prospettiva centrale insita nella stessa concezione dell’apparato ottico utilizzato.[45] Ecco allora che l’asse centrale dell’immagine risulta sovente occupato da un elemento sordo e piano, che ha lo scopo di suddividere e raddoppiare l’inquadratura distribuendo lo sguardo su fughe diagonali, a volte con effetti caleidoscopici.  Lo si vede bene nella serie dedicata a Fénis in cui, fin dall’ingresso, la visione è mediata dai fornici degli archi, improvvisamente vuoti e silenziosi dopo il passaggio dei visitatori, mentre l’avvicinarsi allo scalone è progressivo e lievemente obliquo. Poi,  lo sguardo si muove lungo i ballatoi ai diversi piani, fermandosi a definire inquadrature in cui la sottolineatura di una fuga prospettica, raddoppiata ancora da un’apertura finale, è riequilibrata dalla sovrapposizione per piani di più fondali distinti, ciascuno corrispondente ad un differente elemento di articolazione dello spazio del castello, con aggiustamenti progressivi del punto di ripresa che generano sottili ed eloquenti differenze nell’articolazione dell’immagine finale. Il ricorso al codice prospettico che si trasforma in linguaggio e forma della narrazione ritorna ancora negli interni di Verrès,  specie nella sequenza relativa all’antica cucina padronale, dove gli allineamenti ottici informano palesemente e virtuosisticamente lo spazio, mostrandone chiara la sua caratteristica essenziale di “cosa fotografata.”

Quando lo spazio è più ristretto e pieno, come nel punto nodale del loggiato al secondo piano di Issogne, Ghirri procede per direzioni tra loro ortogonali, per mostrare l’addensarsi dei diversi elementi,  avvolti in una luce calda e morbida che riporta alla memoria le architetture fotografate da Frederick Evans. Cunicoli, passaggi e porte,  arcate,  ciascuno di questi costituisce elemento di articolazione e di raccordo, ma specialmente le scale, nelle differenti tipologie e forme, assumono un valore e un ruolo particolare in questo racconto poiché suggeriscono un al di là dello spazio rappresentato, sino a divenire, specialmente per Issogne (guardate attraverso il filtro di suggestioni costruttiviste), elemento strutturale della narrazione, ordito del racconto di cui la sequenza di sguardi costituisce la trama, filo conduttore ed elemento di congiunzione narrativa, suggerimento e anticipazione, ma anche elemento dinamico in grado di muovere lo spazio con espansioni e compressioni che dipendono dalla direzione dello sguardo.

Intrecciati e disseminati lungo il racconto di questo viaggio nei castelli valdostani incontriamo poi segnali e memorie di altri luoghi e di altri sguardi: i toni caldi degli intonaci della Certosa di Capri e delle case emiliane, le ombre rivelatrici dell’Interno di Villa Sorra, le scenografie e i teatrini di Rossi, i graffiti e i monocromi dell’Atelier Morandi, le finestre a crociera di Versailles e quelle della scuola di Fagnano Olona, ancora di Rossi: sono sintomi della forte autoreferenzialità del progetto visionario di Ghirri. Il riemergere di rimandi e analogie, di memorie visuali che suggeriscono autocitazioni consente di  ribadire con leggerezza determinata le ragioni del mostrare;  per ricordare sempre non solo “il fascino malefico della doppia visione”,  ma anche che ciò che si sta progressivamente compiendo davanti ai nostri occhi non può essere altro che la costruzione di un autoritratto per immagini.

 

Note

 

 

[1] Luigi Ghirri, Luigi Ghirri, in Il museo diffuso. Beni culturali e didattica a Cesena, catalogo della mostra (Cesena, Galleria Comunale d’Arte – Palazzo del Ridotto, 4 luglio – 13 settembre 1987). Milano: Mazzotta, 1987, pp.19-20, ora in Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per una autobiografia, a cura di Paolo Costantini e Giovanni Chiaramonte. Torino: SEI, 1997, pp.125-126. A questa fondamentale raccolta di scritti (d’ora in poi NASS ) si rimanda per i dati editoriali delle fonti bibliografiche citate di seguito, per le quali si forniranno qui solo, titolo, data di  prima pubblicazione e riferimento alle pagine della raccolta.

 

[2] Data al 1869 l’album La Vallée d’Aoste  monumentale photographiée et annotée historiquement di Meuta e Riva, pubblicato a Ivrea dalla Tipografia Garda,  che costituisce sinora  il primo esempio noto di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio culturale della Valle.

 

[3]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326.

 

[4]Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

 

[5]Bruno Orlandoni, Architettura in Valle d’Aosta. III. Dalla Riforma al XX secolo. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1996, p.354

 

[6] “Questi giovani artisti traversavano la Val d’Aosta nei più fantastici costumi, il cappello ornato di piume, cantando e ridendo” – ricorderà Pietro Giacosa molti anni dopo, ed ancora: “Non so se fu nel 1872 o nel 1873 [in occasione di un Natale] Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro.”, Pietro Giacosa, Il Castello di Issogne, con fotografie di Augusto Pedrini. Verona: Stamperia Valdonega, 1968, p.4 passim.

 

[7]Il volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898, offerto da “La Stampa” quale strenna ai propri abbonati, sancirà definitivamente la fortuna turistica di questi luoghi. Lo stesso Giacosa aveva firmato l’introduzione all’album  Il castello di Issogne in Val d’Aosta: Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884], con diciotto tavole fotografiche di Vittorio Ecclesia, destinate a “invogliare gli studiosi ad uno studio speciale intorno a questo singolarissimo edificio.” (p.II). Alcune di queste tavole, tradotte in litografia da Carlo Chessa, verrano utilizzate per illustrare il volume del 1898 ma erano già state ripubblicate da Robert Forrer, Spätgothische Wohnraume und Wandmalereien aus Schloss Issogne.  Strassburg: Schlesier,  1896, con una inspiegabile attribuzione all’editore Manias & Co.

 

[8]Per la ricostruzione delle vicende che portarono alla realizzazione del Borgo cfr. Rosanna Maggio  Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43. L’operazione di riscrittura apparentemente oggettiva  sottesa alla realizzazione di questo complesso è stata accuratamente studiata da Carla Bartolozzi,  L’invenzione della Rocca e del Borgo Medievale di Torino, in Id., a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995, pp.21-46. Su questi temi si veda ora anche Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

Che non fosse il puro interesse archeologico a costituire il nucleo forte dell’interesse di questo circolo intellettuale ed artistico per  il passato, e quindi anche per le architetture medievali valdostane e per la loro riproposizione, è dimostrato dal clima giocoso in cui si svolse il banchetto offerto ad Alfredo d’Andrade in occasione della stessa Esposizione,  a cui l’ospite d’onore  intervenne “travestito da Ercole [con] in mano una clava ed in testa il gibus”, secondo un gusto della messa in scena che lo aveva visto di volta in volta indossare, col suo ristretto gruppo di amici, costumi medievali o rinascimentali, cfr. nota  6.  Lo stesso Camillo Boito celebrerà il fascino romantico di queste costruzioni ricordando che “Un castello antico è bello al lume di luna, quando gli  sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido che le fa parere fantasmi giganteschi;  quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che  vi  sta a lato, si avviticchia a voi, stretta, tremando.”, cfr.Torino e l’Esposizione Generale Italiana 1884. Cronaca illustrata dell’Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale – F.lli Treves, 1884, p.67 e p.334.

 

[9]Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

 

[10]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra; apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977; Alfredo d’Andrade, op.cit.

 

[11]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna   Maggio  Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte, op.cit., pp.17-20. Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, Anno Accademico 1993-1994 e Simona  Paggetti, a.a. 1994-1995.

 

[12] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, “Ruskin e il dagherrotipo”, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

 

[13]Giuseppe  Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884, Catalogo ufficiale della sezione Storia dell’Arte. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p.9.

 

[14]La corrispondenza di queste fotografie all’immaginario collettivo di argomento castellano fu tale  che vennero ripubblicate ne “La Fotografia Artistica” ( giugno-luglio 1911, pp.98 ss.) e quindi riprese in parte, anonime, nel volume di Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello Medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino:  Tipografia Carlo Accame, 1934.

 

[15] Sulla figura e il ruolo del Di Sambuy cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; Id., Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Rosanna Maggio Serra, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

 

[16]Gaddo Morpurgo, L’architettura fra le immagini di se stessa, in Fotografia e immagine dell’architettura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria comunale d’Arte moderna, gennaio – febbraio 1980), a cura di Gabriele Basilico, Gaddo Morpurgo, Italo Zannier. Bologna: Grafis, 1980,  pp.9-38 (35).

 

[17]Bruno Orlandoni, op.cit., p.333;  ad ulteriore testimonianza e conferma della connotazione di questo patrimonio architettonico derivata da un medioevo immaginario l’autore richiama il caso del castello di Saint Pierre, ‘restaurato’ nel 1881 da Camillo Boggio adottando “l’infelice soluzione delle quattro torrette angolari pensili che costituiscono una delle icone più vendute dell’odierna Valle d’Aosta turistica.” (p.358). La formazione dell’iconografia della Valle è stata ricostruita da Marco Cuaz, Valle d’Aosta. Storia di un’immagine. Bari: Laterza, 1994, dedicando però scarsa attenzione a quello che lui stesso definisce il “secondo mito, la Valle d’Aosta dei castelli”, p.190; per quanto riguarda la fortuna  fotografica di questo tema va ricordato che già nel 1898 Mario Sansoni, operatore degli Alinari, documenta Fénis, Verrès e Issogne, che compariranno nel n.39 della collana “Italia monumentale” dedicato a La Valle d’Aosta. Firenze: IDEA/Alinari, 1922, con un testo dell’architetto Cesare Bollea. Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,   “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925]; Domenico Prola, Vittor Pisani, a cura di, La Valle d’Aosta si affaccia al nuovo secolo. Archivi Alinari 1892/1930. Firenze: Edizioni Alinari, 1979, con immagini Alinari e Anderson.

 

[18]Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi,  1980,  pp.86-94, corsivi dell’autore.

 

[19] Una luce sul muro, 1991, in  NASS, p.166.

 

[20]  Il museo diffuso, 1987, in  NASS, p.125-126.

 

[21] Pensando a un’immagine necessaria, 1987,  in  NASS, p.119.

 

[22] Collezionista di attimi, 1991, in  NASS, p.304.

 

[23]Marc Augé, Disneyland e altri non luoghi. Torino: Bollati Boringhieri, 1999.

 

[24]  Paesaggio e rivelazione, 1990,  in  NASS, p.299.

 

[25]Arturo Carlo Quintavalle, Luigi Ghirri, 1982, ora in Id., Messa a fuoco. Milano: Feltrinelli, 1983, p.445-447

 

[26]Luigi Ghirri, Il romanzo della Sacra, in Giovanni Romano, a cura di, La Sacra di San Michele. Torino: SEAT, 1990, p.353

 

[27]Le “permanenze [sono] un passato che sperimentiamo ancora”,  Aldo Rossi, L’architettura della città.  Marsilio: Padova, 1973 (I ed., 1966), p.51.  Il  rapporto Ghirri Rossi è stato studiato da Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi. Cose che sono solo se stesse.  Milano – Montréal: Electa – CCA, 1996.

 

[28] Il paesaggio impossibile,1989,  in  NASS, p.155.

 

[29]  Paesaggio e rivelazione,1990, in  NASS, p.300.

 

[30] Un canto della terra, 1989, in  NASS,p.296.

 

[31]La citazione tratta dal saggio di Callois Dalla fiaba alla fantascienza che Ghirri richiama per definire la propria idea di paesaggio (Niente di antico sotto il sole, 1988,  in NASS, p.138) era stata da lui utilizzata l’anno precedente (Il punto di scomparsa, 1987, in NASS, p. 98) per definire l’opera dei New Topographers Egglestone, Shore, Baltz, Gossage e Adams, presentati in  Nuovo paesaggio americano. Dialectical landscape, catalogo della mostra (Venezia, Museo Fortuny,  aprile 1987), a cura  di  Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola.  Milano: Electa, 1987, e costituisce quindi una indiretta ma nettissima dichiarazione di consonanza se non il riconoscimento di una appartenenza.

 

[32] Niente di antico sotto il sole, 1988, in  NASS, p.138.

 

[33]Massimo Mussini, Luigi Ghirri – «Vera fotografia», in Luigi Ghirri. Parma – Milano: CSAC – Feltrinelli, 1979, pp.9-31 (23)

 

[34] Un canto della terra, 1989, in  NASS, p.298.

 

[35] Viaggio dentro le parole, 1991, in  NASS, p.313.

 

[36] L’enigma fotografia, 1987, in  NASS, p.122.

 

[37] Viaggio dentro le parole, 1991, in  NASS, p.308.

 

[38] Ivi, p.307.

 

[39] Ivi, p.308.

 

[40]Aldo Rossi, Introduzione a Boullée, in Etienne-Louis Boullée, Architettura: Saggio sull’arte. Padova: Marsilio, 1967, citato in Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi, op.cit., p.26.

 

[41] Lo sguardo inquieto, un’antologia di sentimenti, 1988, in  NASS, p.133.

 

[42]Aldo Rossi, Premessa: Altre voci, altre stanze,  in Alberto Ferlenga, Aldo Rossi. Architetture 1988-1992.  Milano: Electa, 1992, pp.7-8, apparato fotografico di Luigi Ghirri e Daniele de Lonti.

 

[43]Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, 1985, in NASS,  pp.70-71. Le parole che Ghirri dedica ad Evans possono essere lette come un viatico alla sua stessa produzione, specialmente quando riconosce la necessità di queste immagini in cui “tutto sembra naturale” e dall’assenza di “contraddizione tra il naturale e l’artificiale” nasce una “sensazione di unità e sintonia.”

 

[44]Citato da Gianni Celati, Commento su un teatro naturale delle immagini, in Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano. Milano: Feltrinelli, 1989, p.n.n.

 

[45]La questione della coerenza culturale, se non ideologica, tra tradizione rinascimentale e apparato fotografico – ormai da tempo oggetto di riflessioni non sempre concordi – è ben sintetizzata da Rudolf  Wittkower: “Una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani.”, citato in Carlo Bertelli,  La fotografia come critica visiva dell’architettura,  “Rassegna”, 6 (1984), n.20/4, dicembre, pp.6-13. Le implicazioni  di carattere non tanto simbolico quanto paradigmatico della prospettiva sono state discusse da Hubert Damisch, L’Origine de la perspective. Paris: Flammarion 1987 (trad.it., L’origine della prospettiva. Napoli: Guida Editori, 1992). La consapevolezza di questo ordine di problemi apparteneva naturalmente anche al bagaglio culturale e alla sensibilità di Ghirri, come ha ricordato Gianni Celati, op.cit.: “Ghirri dice che una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca, perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua.”  Gli accorgimenti “prospettici” adottati nella costruzione di Fènis sono stati analizzati da Domenico Prola, Ipotesi di lettura simbolica, in Bruno Orlandoni, Domenico Prola, Il castello di Fenis. Aosta: Musumeci Editore, 1982, pp.3-38 (in particolare alle pp.17-20).

Per un repertorio delle immagini di Vezzolano (1997)

in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro, Torino, Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

 

In memoria di Paolo Costantini       

 

 

 

“Dimensioni: lunghezza m 6,22; altezza m 1,22. Il ricordato ambone presenta molto interesse. Sopra le colonnine che sostengono i cinque archi sono scolpiti, su pietra calcarea, bassorilievi che, disposti su due fasce sovrapposte, coprono la parete dell’ambone verso l’ingresso della chiesa”. Così Secondo Pia apre la propria ampia scheda di lavoro  (più di tre cartelle) dedicata allo jubé di Vezzolano, redatta dopo il 1904,  che prosegue con una  estesa descrizione del doppio ciclo di figure, con la trascrizione dell’iscrizione dedicatoria e con una lunghissima citazione delle pagine che Adolfo Venturi  dedica a quest’opera  nel terzo volume della sua Storia dell’arte italiana[1]:  “Le figure sono colorate da un segno nero nelle sopracciglia, da un tondo pure nero negli occhi e da una tinta di ciliegia nei pomelli delle guancie, di rosso cinebrino nelle labbra, rosso purpureo nei calzari degli angeli, da un azzurro nel loro manto che pare invetriato e conferisce alla grande scultura l’aspetto di una maiolica smaltata; l’oro illumina le corone e i contorni delle penne degli angeli, il fondo è azzurro nel bassorilievo, verde negli archi”[2]. Si legge come in trasparenza in queste avvolgenti parole di Venturi, e ancor più nella ripresa che ne fa Pia, oltre al fascino per la policromia ricca di queste figure il rammarico di non poterle ancora trasmettere in immagine visibile, fotografica, e lo sforzo di una restituzione in ecfrasi affidata a una cascata cromatica di aggettivi precisamente qualificati. Sono questi gli anni, intorno all’inizio del secolo, in cui le ricerche scientifiche e tecnologiche intorno alla possibilità di riprodurre fotograficamente il colore si fanno più insistenti e mirate sino  a condurre alla messa a punto del procedimento della autocromia da parte dei fratelli Lumière, commercializzato a partire dal 1907 e quasi immediatamente adottato anche da Pia[3].

La redazione di precise schede analitiche dedicate a ciascuna delle opere fotografate è un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione del patrimonio architettonico piemontese, ma è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, la documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico, tradizione sulla quale non ci possiamo qui soffermare ma che varrà la pena un giorno di ricostruire criticamente[4] e che pare essere connotata nei casi più significativi dalla volontà di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, certamente lontano dalle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer) e prossimo invece alle indicazioni di Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture  (1880)  richiamava l’attenzione degli “amateur photographers” verso il compito di delineare accuratamente per mezzo della fotografia “i dettagli delle cattedrali sopra citate” (Lincoln e Wells in Inghilterra; Parigi, Amiens, Chartres, Rheims, Bourges e il transetto di Rouen in Francia) poiché “mentre una fotografia di paesaggio non è altro che un gradevole passatempo, quella di un’antica architettura è un prezioso documento storico; né questa architettura deve essere ripresa solo quando presenta un aspetto pittoresco ma pietra per pietra e scultura per scultura; cogliendo ogni opportunità offerta dai ponteggi per riprenderla più da vicino, orientando l’apparecchio nel modo più opportuno per controllare [la resa delle] sculture, senza il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”[5]. Ritroviamo qui il fascino per la lettura analitica del manufatto consentita dalla ripresa fotografica che già aveva colpito Viollet-Le-Duc[6] ma – soprattutto – cogliamo l’eco di quella mutazione tecnologica e poi sociale che stava trasformando i dilettanti fotografi in protagonisti attivi della cultura, in particolare nell’ambito specifico della conoscenza e valorizzazione del patrimonio artistico ed architettonico. Poiché se è vero che gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il  patrimonio architettonico – specialmente medievale – e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico (insieme alla fotografia sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”) è altrettanto vero che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Sono questi i meriti che il Comitato della Prima Esposizione italiana di Architettura (Torino, 1890) riconosce a Secondo Pia  assegnandogli la medaglia d’oro per la sua già  famosa e “numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”, anche con l’intento di stimolare altri dilettanti (gli amateur di Ruskin, appunto) a seguirne l’esempio: questi “dovrebbero assumere nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[7]. L’ambiente fotografico piemontese ormai da tempo si era rivelato sensibile a queste istanze e la documentazione ed il rilievo del territorio, consolidati campi di applicazione della fotografia sin dalle origini e, in Italia  – come aveva rilevato Giulio Bollati – strumento di unificazione almeno inventariale, divengono in Piemonte uno dei tracciati del percorso che porta alla definizione ed alla costruzione di una identità territoriale forte, adeguata al mutato ruolo politico della regione, e che si manifesta nel progressivo accrescimento di una documentazione del patrimonio specialmente architettonico[8] che si fa sempre più estesa e minuziosa, sovente precedendo nella scelta dei temi gli stessi studi specialistici.  Nel primo decennio successivo all’Unità quasi tutte le campagne fotografiche[9] ripropongono e confermano le scelte della tradizione  incisoria e litografica, semmai progressivamente distaccandosene nei modi.  Ancora nei  primi anni Settanta quando, con la diffusione degli studi fotografici al di fuori del capoluogo, la documentazione si estende ai centri minori, la logica di rappresentazione non muta: semplicemente se ne  estende l’applicazione per celebrare dopo quelle sabaude le glorie municipali, fatte di  monumenti ma anche di tutte quelle nuove realizzazioni che segnano l’avvento del moderno, dagli asili ai ponti, alle stazioni, ai primi stabilimenti industriali.  Solo coi primi anni Ottanta e ancor più dopo le suggestioni del Borgo Medievale realizzato per l’Esposizione Nazionale Italiana del 1884  a Torino, la logica sottesa alle campagne fotografiche muta sostanzialmente e queste si connotano esplicitamente come campagne di indagine e di documentazione, destinate a produrre e diffondere nuova conoscenza (sono questi gli anni del nascente associazionismo turistico-culturale) e non semplicemente a ribadire, con diversi mezzi, il repertorio delle emergenze monumentali piemontesi.

“Non la conoscevamo – l’amico che mi accompagnava ed io – che da alcune incomplete e vecchie incisioni” ricorda Ettore  Bracco nel 1896 riandando  all’emozione provata “il giorno di una Epifania già lontana” quando appunto gli apparve la chiesa di Vezzolano  “allo svolto di uno di quei ripidi e fangosi sentieri di collina (…)  nelle sue pure e semplici linee, e nella tenera armonia delle sue tinte”[10], a testimonianza di una fortuna e notorietà del monumento ancora recenti. La severa semplicità dell’architettura ed il dolce paesaggio delle colline monferrine in cui questa è immersa non erano fatti per attrarre e soddisfare il gusto goticizzante  dei primi decenni del secolo, tanto che la citazione che ne fa Modesto Paroletti nel secondo volume del suo Viaggio romantico-pittorico è corredata da una illustrazione dello jubé, realizzata   da Francesco Gonin nel 1828, che lo descrive come un elemento completamente passante, che lega piuttosto che separare le due parti di una navata estremamente luminosa, in qualche modo goticizzandolo (Paroletti 1832, tav. IV) tanto da provocare qualche decennio più tardi le dure critiche di Edoardo Arborio Mella,  che contrappone le attenzioni proprie della nascente cultura del rilievo storico-architettonico alla tradizione illustrativa di Gonin.  Nell’intervallo di tempo compreso tra questi due estremi e mostrando un chiaro segno delle trasformazioni culturali in atto sia nella specifica cultura tecnica sia nella fortuna di Vezzolano, si colloca la ricca produzione di Clemente Rovere che dopo una precoce veduta paesaggistica datata 1845, ritorna a Vezzolano nel giugno 1854, forse su suggestione del coevo XXV volume del Dizionario del Casalis[11], per documentare analiticamente, per  rilevare si direbbe, l’insieme e  i dettagli della chiesa e del chiostro, producendo un corpus complessivo di 41 schizzi e disegni (tra i quali una veduta d’insieme dello jubé e tre particolari del fregio che testimoniano un’attenzione per i valori architettonici così come per quelli plastici di questo elemento) che per impegno ed analiticità costituiscono un unicum in tutta la sua produzione[12].

Sono questi gli anni in cui si consolida l’iniziale fortuna critica del monumento, scandita dalla pubblicazione del primo studio di Bosio nel 1859 e da quella di poco successiva delle Notizie di Manuel di San Giovanni (1862) corredate di una puntuale Descrizione della Chiesa di Vezzolano redatta da  Mella che comprende tra le altre una tavola (n.4) dedicata alla “Sezione trasversale avanti al jubé” che mostra l’elemento – qui per la prima volta identificato con terminologia criticamente corretta – inserito nel contesto architettonico della chiesa, quindi senza sottolinearne particolarmente l’apparato scultoreo[13] che costituisce invece il soggetto specifico di una delle tavole disegnate da Pietro Viarengo e litografate da B. Marchisio a corredo del nuovo studio pubblicato da Antonio Bosio nel 1872 dove il “Bassorilievo sul nartece od ambone nell’interno della chiesa”  è considerato, insieme con quello della lunetta del portale, uno degli elementi qualificanti del complesso.

Questi studi danno al complesso  di Vezzolano una prima notorietà  tanto che il fotografo Vittorio Ecclesia, da poco trasferitosi da Torino ad Asti, gli dedica verso il 1879 una serie di otto riprese in grande formato (33x42cm circa) una delle quali è appunto dedicata allo jubé (“Nartece”) e costituisce con la sua ripresa frontale e lievemente rialzata, estesa al pilastro ed alla semicolonna laterali, il modello per buona parte delle riprese successive dello stesso soggetto[14], mentre pochi anni più tardi, nel 1883,  Carlo Nigra si cimenta con una serie di vedute ravvicinate e di dettaglio (MCT, Fondo d’Andrade, n574) che non giungono mai però alla restituzione delle singole figure, come pure si iniziava a fare in quegli anni nell’ambito della documentazione pittorica.

Vezzolano è ormai entrata a far parte a questa data del novero degli edifici piemontesi “aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico”  (Collegio 1887, p.5) presentati in riproduzione fotografica nelle sale del neonato Museo Regionale di Architettura al Borgo Medievale .

La chiesa  costituisce uno dei  soggetti privilegiati delle  “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia già negli anni del suo apprendistato: “A Vezzolano. Prese due pose placca [lastra intera] facciata. Stante gran caldo collodio evapora troppo presto” scrive sul suo diario in data 20 luglio 1882, alle prese con le difficoltà tecniche poste dall’uso della lastra al collodio umido che in quei giorni  alterna ancora alle nuove lastre a secco alla gelatina bromuro d’argento (Falzone del Barbarò, Borio, 1989, p.85) e questo luogo costituirà negli anni uno dei temi da lui più  frequentati  ritornando più volte, almeno fino al 1915, a fotografare particolari di interni ed esterni utilizzando formati e materiali sensibili diversi, con una lettura partecipata, ma anche minuziosa e analitica insieme,  tanto degli elementi scultorei quanto delle architetture, che lungi dall’essere mostrate quali “dettagli fotografici così chiaroscurali, quasi da «racconti gotici» o da fondali melodrammatici” (Falzone del Barbarò, 1989, p.20) sono rilevate nei loro precisi rapporti dimensionali e proporzionali, sovente inserendo in ripresa un riferimento metrico secondo un uso che in quegli anni si andava consolidando specialmente nell’ambito della fotografia archeologica.

Proprio Vezzolano, insieme a Sant’Antonio di Ranverso,  costituisce l’argomento di due raccolte di fotografie pubblicate da Pia nel 1907 (Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte) e intorno al  1919  (Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica) contenenti rispettivamente 21 e 36 stampe fotografiche dedicate al complesso, tra le quali si segnala nella raccolta più tarda una veduta  di dettaglio dell’intera fascia in bassorilievo dello jubé (n.12, 8x45cm)[15] realizzata accostando in stampa due distinte riprese. In questi album Pia comprende anche immagini realizzate prima dei restauri del 1896, che costituiscono oggi una preziosa documentazione  delle condizioni della chiesa antecedenti quella data, da integrare con quelle, anonime, pubblicate in Bracco 1896 e  Bosio 1896 (le prime ad essere diffuse tipograficamente), e con le due immagini della navata principale e della navata sinistra, datate 21 luglio 1895, attribuibili ad Ottavio Germano, da mettere in relazione con l’inizio del cantiere di restauro della chiesa ed eseguite in conformità alle raccomandazioni espresse da Camillo Boito in occasione del III Congresso degli ingegneri e architetti di Roma nel 1883[16].

A questa data Vezzolano è parte integrante del circuito artistico piemontese: “Andati per ferrovia fino a Chieri poi per omnibus (due ore) fino a Castelnuovo d’Asti da dove siamo andati con una vettura a detta Abbazia. Abbiamo fatto parecchi lavori in chiesa, nel chiostro e nell’interno e dopo siamo andati a Chivasso passando per Torino che lasciamo definitivamente.” Queste note, datate 3 settembre 1898, non sono tratte dal diario di un turista colto, ma di un altrettanto colto e allora giovanissimo fotografo, Mario Sansoni, operatore degli Alinari, che offre un rendiconto dettagliato della loro prima campagna piemontese[17]. Nella foto Alinari lo jubé occupa completamente l’inquadratura, nitidamente restituito nella sua interezza, senza gli ostacoli visivi determinati dai pilastri laterali, a dimostrazione di quella maestria professionale che contraddistingue la produzione di questa ditta (Alinari, n.15872, SBAS) costituendo di fatto  se non il modello certo il termine di riferimento italiano nella documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico.

Nel primo decennio del nuovo secolo altre immagini di Vezzolano, e dello jubé, verranno realizzate e pubblicate a corredo di studi di diverso impegno e valore, ma riproponendo sostanzialmente i modi della cultura visiva ottocentesca, quando non le stesse fotografie[18], e solo nei primi anni Venti compare una nuova interpretazione fotografica del monumento, dovuta al fotografo torinese Giancarlo Dall’Armi, che gli dedica una cartella della serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia” da lui edita e che aveva già visto la pubblicazione nel 1915 dei sei fascicoli dedicati a  Il Barocco Piemontese (palazzo Morozzo della Rocca, palazzo Madama, palazzo Barolo I/II, palazzo Saluzzo Paesana, palazzo Graneri).   Se nelle fotografie torinesi dalla grande maestria di esecuzione  emerge  ancora una impostazione ottocentesca, come bloccata nel tentativo di far corrispondere esattamente l’immagine all’architettura che l’ha generata, le dodici stampe dedicate a Vezzolano dimostrano una diversa e più matura autonomia della tecnica espressiva;  il progetto di documentazione lascia spazio e condivide evidenti intenzioni interpretative, alla ricerca di una autonomia formale dell’immagine, che non trova più solo nel referente, nel soggetto fotografato,  la propria ragione d’essere.  La novità di sguardo di Dall’Armi (almeno per il panorama locale) sarà rilevata immediatamente dalla critica in occasione della Prima esposizione internazionale di Torino del 1923,  sottolineando che: “nobili sono i paesi esposti e di squisita fattura i brani architettonici come: la porta dell’Abbazia di Vezzolano”[19].

Le campagne fotografiche  sembrano diradarsi nei decenni successivi[20] e si devono attendere i tardi anni ‘50 e i primi ‘60 per veder comparire nuove immagini di Vezzolano, quasi sempre realizzate e pubblicate con intenzioni diverse, meno documentarie ed analitiche, più decorative che illustrative, in cui i soggetti rappresentati si frantumano in tasselli minuti e sconnessi[21] mentre si fa più frequente il ricorso alle riprese cinematografiche e poi televisive. Contemporaneamente nuovi studi mettono in discussione la cronologia delle fasi costruttive della chiesa e, quindi, della realizzazione e collocazione dello jubé: l’ipotesi di un adeguamento dimensionale del ciclo scultoreo che avrebbe portato alla riduzione quantitativa delle figure, derivata dalle analisi di Renate Wagner-Rieger 1956 e fatta propria da Bernardi 1962, prende inaspettatamente consistenza visiva in una singolare e fantastica immagine pubblicata a corredo dell’ennesima riedizione (1966) dell’opuscolo di Achille Motta: la fotografia a doppia pagina che illustra “Il Nartece” si presenta curiosamente tagliata a sinistra in corrispondenza della chiave del primo arco mentre per la prima volta nella breve ma densa storia delle riprese fotografiche di questo elemento compare in tutto il suo sviluppo l’arco di destra, la cui estremità è solitamente coperta alla vista da una  semicolonna; conseguentemente si estende anche la “visibilità” delle fasce scolpite e questo nuovo spazio guadagnato alla rappresentazione viene utilizzato e riempito aggiungendo due figure: un (semi)patriarca al registro inferiore (forse materializzazione scultorea di quello dipinto sulla semicolonna) ed un non meglio identificato personaggio su quello superiore, che volge sdegnosamente le spalle, ignaro, alle storie della Vergine. La resa realistica dell’intervento di manipolazione è elevata: il ritocco, certamente eseguito con pazienza e maestria su di una ripresa appositamente progettata ed eseguita per avere un controllo realistico delle distorsioni prospettiche, ha prodotto un risultato che, almeno nella trasposizione tipografica a cui era destinato[22], può considerarsi talmente buono da passare inosservato, se non ad un occhio attento ed esercitato, quale certamente non si poteva presupporre avessero i destinatari della piccola guida turistica. Perché allora tanto sforzo destinato a rimanere invisibile? Perché faticare sul banco di lavoro e in camera oscura a ricostruire archi, apparecchio murario e figure se non si intendeva dimostrare nulla, forse solo suggerire, quasi in codice, con un gesto sommesso e comprensibile a pochi iniziati, quale avrebbe potuto essere l’aspetto di questo eccezionale insieme scultoreo “se…”?  Alla fotografia, strumento principe della oggettività documentaria, prova provata visibilmente della  realtà delle cose, viene affidato il compito di testimoniare non l’esistente ma il possibile: qui l’immagine fotografica non è più l’analogon né l’indice dei moderni semiologi ma certo un’icona dalle speciali caratteristiche, come sarebbe potuta piacere a Viollet-Le-Duc; non il documento irrefutabile ma – insospettabilmente – lo strumento per ristabilire il manufatto in una condizione di compiutezza che potrebbe anche non essere mai esistita in un momento dato.

 

Note

[1]  Venturi  1904,  pp.80-91, con sei fotografie non firmate dedicate a Vezzolano, a cui si deve aggiungere un’immagine del chiostro pubblicata a p.23. La monumentale opera di Venturi costituisce il primo esempio di impiego editoriale su vasta scala dell’apparato fotografico a corredo di un’opera di storiografia artistica generale (Spalletti 1979, p.469) e riflettette compiutamente il pensiero dello studioso  nei confronti della rilevanza, anche metodologica, della fotografia di documentazione d’arte, espresso una prima volta nella prefazione al catalogo della casa fotografica Adolphe Braun del 1887 (Cfr. Spalletti, 1979, p.471) e ribadito ulteriormente nell’intervista rilasciata ad Anton Giulio Bragaglia nel 1912. Nella stessa occasione Venturi anticipa che in occasione di un prossimo congresso di storia dell’arte medievale sarebbe stata promossa una specifica esposizione di “riproduzioni foto-meccaniche applicate alla storia dell’arte” e indetto “un concorso per la carta occorrente a quelle riproduzioni, carta che si desidera migliore di quella americana ora in uso, la quale per la sua lucentezza danneggia gli occhi.” (in Bragaglia, 1912, p.18)

[2]La scheda redatta da Pia attingendo ampiamente al testo di Venturi è pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.94-95. Va qui segnalato come Pia  riprenda senza citarlo  il testo di Bosio 1896, p.5, nel quale i Patriarchi sono descritti “tutti seduti in numero di trentasei”,  senza controllarne la consistenza reale (35) sulle sue stesse riprese fotografiche di dettaglio.  Pur in presenza di un ricchissimo materiale documentario (diari, schede) il problema di una accurata datazione delle immagini di Pia attende ancora una soluzione; si veda ad esempio la ripresa generale dello jubé pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, tav.6 con la data “4 ottobre 1904”  che è stata invece palesemente  realizzata prima dei restauri del 1896. Sulla figura di Secondo Pia cfr. inoltre Tamburini, Falzone del Barbarò 1981 e la scheda biografica redatta  da Cassio 1990, pp.409-410.

[3] A far data dalla loro commercializzazione (1907, cfr. Les frères Lumière 1980, p.11) alcuni fotografi piemontesi particolarmente attivi nel campo della documentazione   delle opere d’arte come il vercellese Pietro Masoero utilizzarono le autocromie per dotarsi di un importante ed innovativo sussidio di studio e di divulgazione (Cavanna 1985). Lo stesso Pia le utilizzerà a partire dal 1909 sia per la documentazione del patrimonio artistico piemontese sia per ricerche personali, producendo in circa vent’anni di attività in questo settore un numero rilevante di immagini a colori (297 secondo le indicazioni fornite in Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.65 e riconfermate in Falzone del Barbarò, 1989 p.56, che inspiegabilmente si riducono a 262 nella “Nota sull’archivio Secondo Pia” compresa in  Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.88.  La sola autocromia dedicata a Vezzolano sinora reperita,  relativa al  chiostro e datata 31 agosto 1910, è stata pubblicata in Miraglia 1990, tav.204.

[4]Una specifica vocazione dei fotografi attivi in Piemonte  per le immagini di documentazione e lettura del paesaggio e dell’architettura emergeva già dal corpus di immagini presentate nella mostra del 1977 dedicata ai Fotografi del Piemonte e risulta sostanzialmente riconfermata anche da Miraglia 1990.

[5] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione da cui  è tratta la citazione è stata ripubblicata in Ruskin 1911, p.21-22 e ripresa in Costantini 1986, p.16.

[6]Compila per il suo Dictionnaire la voce “Restauration” in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici:  “La photographie  à conduit naturellement les architectes à être plus scrupuleux encore dans leur respect pour les moindres débris d’une disposition ancienne, à se rendre mieux compte de la structure, et leur fournit un moyen permanent de justifier de  leur opérations. Dans les restaurations, on ne saurait donc trop user de la photographie, car bien souvent on découvre sur une épreuve ce qu’on n’avait pas aperçu sue le monument lui-même.” (Viollet-Le-Duc 1860, pp.33-34) Pochi anni prima, nel 1854, Hector Lefuel, che era succeduto a Louis Visconti nella costruzione del nuovo Louvre, aveva fatto ampiamente ricorso alla documentazione fotografica nell’ambito del nuovo, immenso cantiere (Daniel 1994, p.57), mentre nel 1857 su sollecitazione dei Fratelli Bisson l’école des Ponts et Chaussées istituiva un corso di fotografia, poi attivo fino al 1911 (Frizot 1994, p.208) e a Londra veniva fondata la Architectural Photographic Association.. Negli stessi anni in Italia era Pietro Estense Selvatico  nei suoi Scritti d’arte ad affrontare le questioni poste da l’uso documentario, e didattico, della fotografia di architettura e certo le sue riflessioni ebbero un peso rilevante nella formulazione delle più tarde indicazioni di Boito, suo successore alla Accademia di Venezia.

[7]I Esposizione 1890, p.49. Dieci anni più tardi lo stesso Masoero (1900, p.278 ripreso in  Miraglia 1990, pp. 69-70) recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sulle pagine del “Bullettino” sottolinea che “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica.(…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”

[8]Diverso è il caso della documentazione del patrimonio  pittorico, la cui applicazione era fortemente condizionata dalla impossibilità delle emulsioni al collodio di registrare fedelmente l’intero spettro cromatico. Qui la produzione si fa più incerta e sporadica e ricorre  sovente all’espediente della riproduzione indiretta dell’opera (da incisioni o litografie) sebbene siano da ricordare in questo ambito almeno le stampe fotografiche pubblicate negli album della “Promotrice” di Torino a partire dal 1863 (Reteuna 1991) e l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni  italiani raccolto  da Vittorio Besso a partire dal 1868 (Cavanna 1991, p.203). Solo intorno alla metà degli anni Ottanta vedrà la luce una realizzazione più impegnativa e narrativamente articolata quale la ricchissima lettura  fotografica (64 tavole in grande formato) che Pietro Boeri compie nel 1886 degli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli. Più complesso risulta conseguentemente il dibattito relativo alla documentazione delle opere d’arte, per la cui ricostruzione si rimanda a Spalletti 1979, Freitag 1980.

[9]Per una attenta ricostruzione di questi temi  si veda Miraglia 1990. Un esempio precoce di attenzione per il patrimonio minore è data dal fotografo biellese Vittorio Besso tra i cui meriti la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda “quello di usare di questa divina arte (…) anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario).”, citato in Cavanna 1991, p.202.

[10]Bracco 1896, p.457. La descrizione del cammino che porta alla scoperta del monumento è – con accenti diversi – uno dei topoi della letteratura su Vezzolano tra Otto e Novecento, cfr. Cena 1898b, p.270; Porter 1917, p.539. Un altro accenno al percorso di avvicinamento è compreso nelle pagine del diario di Mario Sansoni citate più oltre nel testo.

[11]Casalis 1854, pp.76-79. Un primo cenno al complesso era compreso nella voce “Albugnano”, vol.I, 1833, pp.171-172: “Fra le cappelle che sonovi sul territorio, havvene una rimarchevole per la forma gotica, sotto il nome della Beata Vergine di Vezzolano.”  Nel 1854 invece viene dedicata al complesso una ricca voce tutta rivolta  alla ricostruzione delle vicende storiche “in gran parte comunicate dal sig. avvocato Pier Luigi Menocchio (…) che le estrasse dall’archivio del R. Economato apostolico”, p.79 in nota.

[12]Sertorio Lombardi 1978, II, nn. 2235-2275. Allo jubé sono dedicati tre disegni (nn. 2252-54) datati genericamente “1854” relativi al Basso rilievo dell’ambone, a cui si deve aggiungere  il disegno (n. 2255)  della Figura dell’ambone (vale a dire l’elemento architettonico nel suo insieme) ricavato da uno schizzo (n. 2256) datato “11-6-1854”. Nella produzione di Rovere il solo caso confrontabile con Vezzolano è quello della Sacra di San Michele, a cui sono dedicati però solo diciannove disegni.

[13]Per una autorevole ricostruzione della più antica bibliografia dedicata a Vezzolano, a partire da Giulio Cordero di San Quintino, cfr. Porter 1917, III, pp.539-548. La Descrizione di Mella venne pubblicata in  Manuel 1862, pp.268-272. A questa data Mella segnala ancora la “imbiancatura praticata nell’interno” (p.271) che è documentata nei disegni di Clemente Rovere, cfr. nota 12, antecedente agli interventi del 1865 nel corso dei quali le pareti vennero tinteggiate a fasce alterne, e lamenta lo “stato di abbandono e miseria in cui trovasi questo prezioso monumento (…) Nello stato in cui ancora si trova il riattamento non sarebbe opera di gran conto, massime se l’amor dell’arte trovasse intelligenti e disinteressati [come il Mella stesso] direttori delle opere.” (p.272). Alla Descrizione di Mella farà esplicito riferimento Raffaele Pareto 1864,  ripubblicando anche due tavole   (n.14, pianta e n.4, facciata) per favorirne una corretta lettura e apprezzamento, stante le ridotte dimensioni di quelle comprese in Manuel 1862. Pareto aveva già dedicato all’attività di Mella altri interventi, tutti pubblicate nel “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”,  intitolati  rispettivamente al Duomo di Casale, 9 (1861), a Il nuovo pulpito della cattedrale di Casale, 10 (1862) ed alla Chiesa di S.Andrea in Vercelli, 10 (1862).

Mella sembra essere stato il primo studioso italiano ad utilizzare criticamente il termine jubé, verosimilmente su suggestione di Fernand de Dartein , autore a cui fa riferimento anche Giovanni Cena  1898b, p.271.

[14]Vittorio Ecclesia,  Via San Martino, 19, Asti, Abazia di S. Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti, otto stampe all’albumina virate all’oro 33×42 cm circa, montate su cartoni 50×65 cm circa.   La presenza dell’indirizzo della prima sede astigiana dello studio di Ecclesia  (Cassio 1990, p.379) ci consente di datare queste immagini agli anni 1878-1880,  forse di poco successive alla realizzazione dell’Album artistico della città di Asti – 1878  (cfr. Fotografi del Piemonte 1977, pp.29-30)  che al pari di queste non porta la firma dello studio (Fotografia Alfieri) ma quella del fotografo.  Questa serie faceva parte delle fotografie di Ecclesia comprese  nella sezione “Fotografie Architettoniche” della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 (Esposizione 1884, pp.124-125) e sembra verosimile ritenere che in quella occasione venissero depositate alla Biblioteca Reale di Torino in cui oggi sono conservate.  Un’altra copia della foto di Ecclesia dell’angolo sudorientale del chiostro, di  dimensioni lievemente inferiori,  è compresa nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (Cavanna 1981, tav. 5f).

[15]I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino,  sono dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” ed  “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” e comprendono foto parzialmente  inedite sebbene ampiamente note agli studiosi per essere state presentate a numerose esposizioni e in parte conservate in copia alla Galleria Sabauda fin dal 1891 (cfr. Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.30). Seguendo una consuetudine diffusa tra molti fotografi non solo piemontesi Pia aveva anche realizzato fotografie dei “monumenti della sua Asti nativa, raccolti in un magnifico album che, offerto al Re, gli valse la Croce di Savoia.” (Cena 1898a, p.239).

[16]Le due riprese, anonime, conservate nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (554F, 555F) devono essere  messe in relazione con le lastre alla gelatina bromuro d’argento 24/30, datate 21 luglio 1895 e 7 gennaio 1896, conservate nell’Archivio fotografico della SBAA di Torino e vanno verosimilmente attribuite ad Ottavio Germano, direttore del cantiere di restauro e buon fotografo dilettante, sempre attento ad un uso accorto dell’immagine fotografica in relazione alla documentazione sia dei cantieri di restauro (Cavanna 1981, p.123; Cassio 1990, p.386) sia di quelli di più libera reinterpretazione, come quello del castello di Banchette (Ivrea) da lui ricostruito nel 1884-96.  Le raccomandazioni formulate dalla prima sezione del Congresso del 1883 costituiscono come è noto uno dei momenti cruciali del formarsi di una moderna cultura del restauro in Italia. Per quanto riguarda i temi che più interessano questo saggio  ricordiamo che al punto 6 queste indicavano che “Dovranno eseguirsi, innanzi di por mano ad una opera anche piccola di riparazione o restauro, le fotografie del monumento, poi di mano in mano le fotografie dei principali periodi del lavoro, e finalmente le fotografie del lavoro compiuto (…).” (Boito 1893, p.25).

[17]Mario Sansoni 1987, p.50-51. Le pagine pubblicate si riferiscono al periodo 27 maggio/ 28 ottobre 1898 e riguardano le campagne fotografiche liguri e  piemontesi, durante le quali verranno realizzate nove riprese relative a Vezzolano (F.lli Alinari 1925, pp. 31-35). Sansoni  (1882-1975) ritornerà  ancora a fotografare lo jubé prima del 1941 (in tre parti, Archivio SBAA nn.4359-61) per incarico della   Frick Art Reference Library di New York che gli aveva affidato in esclusiva l’incarico di documentare l’arte europea.

[18]Oltre ai due album di Pia già citati, cfr.nota 15, ricordiamo qui le fotografie dello jubé in Venturi 1904, pp.85-89, quelle di Ecclesia nel catalogo dell’Esposizione Internazionale di Torino del 1911 (Cassio 1990, p.379)  e quelle poste a corredo della prima edizione del volumetto di Achille Motta 1912, dovute ad E. Serra, V. Ecclesia (il “nartece” ante 1880),  a due fotografi  e studiosi “irregolari” come Secondo Pia e Francesco Negri e specialmente al sacerdote F. Origlia, autore non altrimenti noto ma che si rivela qui di buon livello, con accurate immagini di documentazione; la passione per questo genere di fotografia lo accomuna ad un altro sacerdote fotografo attivo negli stessi anni, il vercellese Alessandro Rastelli, che fornisce le immagini per  un volume dedicato a Lucedio edito nel 1914 (Colli, Negri, Rastelli 1914), che vede tra gli autori dei testi anche Francesco Negri.  Singolare e interessante si prospetta a questo punto l’intreccio di relazioni e interessi tra cultura cattolica e fotografia di documentazione del patrimonio artistico ed architettonico nel Piemonte di inizio secolo.

[19]Angeloni 1924, p.40. Queste immagini di Vezzolano non risultano presenti alla Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese  (La Mostra retrospettiva 1926), una delle ultime occasioni espositive del fotografo torinese, che muore nel luglio 1928 (Necrologio 1928).

[20]Si segnalano qui le fotografie di Emilio Gallo pubblicate nel 1930 (T.C.I. 1930, pp.194-195), quelle – anonime – pubblicate nella riedizione ampliata di Motta 1933 e le immagini di Sansoni (ante 1941) e Pedrini (1941) conservate rispettivamente negli archivi fotografici  della SBAA e della SBAS di Torino.

[21]Costituiscono un’eccezione a questa tendenza le immagini pubblicate in Wagner-Rieger  1956, tavv. 42-45 ma specialmente la campagna fotografica realizzata da Augusto Pedrini nel 1961 per Bernardi 1962, che presenta la grande novità di una estesa utilizzazione delle riprese a colori  ma dimostra anche, nella restituzione dei particolari architettonici e scultorei una certa, inconsueta,  approssimazione.

[22]EPT 1966, s.n. Le immagini a corredo sono dovute agli studi Astifoto, Parvalux ed A. Robba, ma allo stato attuale delle ricerche non è possibile attribuire specificamente la fotografia ritoccata dello jubé.

 

 

Bibliografia e fonti

 

Alinari 1925

F.lli Alinari, Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. (1925)

 

Angeloni 1924

Italo Mario Angeloni, La fotografia artistica alla Prima Esposizione Internazionale, in L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, maggio-giugno 1923). Milano-Roma: Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Arborio Mella 1869

Edoardo Arborio Mella, Chiesa e badia di Vezzolano presso Albugnano (secolo XI), “L’Arte in Italia”, 1 (1869), pp.39-41; pp. 56-59

 

Berenson 1948

Bernard Berenson, Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze: Electa, 1948

 

Bernardi 1962

Marziano Bernardi, a cura di, Tre abbazie del Piemonte. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1962

 

Boito  1893

Camillo Boito, Questioni pratiche di Belle Arti. Milano: Hoepli, 1893

 

Bosio 1872

Antonio Bosio, Storia dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano. Torino: Collegio degli Artigianelli, 1872

 

Bosio 1896

Antonio Bosio, Dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano presso Albugnano: Memorie storich. Asti: Tip. Bona Vincenzo, 1896

 

Bosio 1900

Antonio Bosio, Dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano presso Albugnano: Memorie storiche. Asti: Scuola Tipografica Michelerio, 1900

 

Bracco  1896

Ettore Bracco,  Luoghi romiti: S. Maria di Vezzolano,  “Emporium”, 4 (1896), n. 24, dicembre, pp. 456-470

 

Bragaglia 1912

Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia. Interviste con Biondi, Venturi, Sartorio, Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19

 

Casalis 1854

Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, XXV. Torino: Maspero, 1854

 

Cassio 1990

Claudia Cassio, Biografie, in Miraglia 1990, pp.347-432

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’ architettura, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, giugno-settembre 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.107-125

               

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, aprile-luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese, in “Antichità ed arte nel Biellese”, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989),  a cura di Cinzia Ottino,“Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 ( 1990/1991), pp.199-216

 

Cena 1898 a

Giovanni Cena, Piemonte antico, “Arte Sacra”, 1898, disp.30,  pp.270-272

 

Cena 1898 b

Giovanni Cena, Santa Maria di Vezzolano, “Arte Sacra”, 1898, disp.34-35,  pp.239-240

 

Collegio di Architetti 1887

Collegio di Architetti – Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

Colli, Negri, Rastelli  1914

Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il B. Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: G.Pane, 1914 (nuova ediz., a cura di P. Cavanna.  Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996)

 

Cordero di San Quintino 1829

Giulio Cordero di San Quintino, Dell’italiana architettura durante la dominazione longobarda. Brescia: Bettoni, 1829

 

Costantini 1986

Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in I dagherrotipi della collezione Ruskin, catalogo della mostra (Venezia, 1986), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Venezia: Arsenale Editrice, 1986, pp.9-20

 

Dall’Armi 1923

Giancarlo Dall’Armi, L’abbazia di Vezzolano, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi , s.d. (1923ca), Cartella fotografica: 12 stampe alla gelatina-bromuro d’argento, 24×30

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York –  Montreal: The Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

Dartein 1865-1882

Fernand de Dartein, Étude sur l’architecture lombarde. Paris: Dunod, 1865-1882

 

Ecclesia 1878-1880

Vittorio Ecclesia, Abbazia di S.Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti. Asti: Vittorio Ecclesia, s.d. (1878-1880), otto stampe fotografiche: albumina, 42x33cm

 

EPT 1966

Ente Provinciale per il Turismo di Asti, a cura di, L’abbazia di Nostra Signora di Vezzolano, testo di Achille Motta. Colle Don Bosco: ISAG, 1966

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione 1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1989

Michele Falzone del Barbarò, Secondo Pia fotografo, in Torino Fotografia 89, catalogo della mostra (Torino ottobre-novembre 1989), a cura di Daniela Palazzoli. Milano: Fabbri Editori, 1989, pp.56-63

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia. Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, Catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Freitag 1980

Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979-80), n.2, Winter, pp.117-123

 

Les frères Lumière 1980

Les frères Lumière à l’aurore de la Couleur, catalogo della mostra, (Parigi, giugno-luglio 1980). Lyon: Fondation Nationale de la  Photographie, 1980

 

Frizot 1994

Michel Frizot, dir., Nouvelle histoire de la photographie. Paris: Bordas, 1994

 

Kingsley Porter 1917

Arthur Kingsley Porter, Lombard Architecture. New Haven: Yale University Press, 1917

 

Manuel di San Giovanni 1862

Giuseppe Manuel di San Giovanni, Notizie e documenti riguardanti la Chiesa e Prepositura di S. Maria di Vezzolano nel Monferrato raccolte dal Barone M.d.S.G. ed illustrate dal Conte Edoardo Mella, “Miscellanea di Storia Patria”, I. Torino: Stamperia Reale, 1862

 

Mario Sansoni 1987

Mario Sansoni: Diario di un fotografo, “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.46-53

 

Masoero1900

Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino. Note ed appunti, “Bullettino della Società fotografica italiana”, 12 (1900), n. 4; n. 8, 1900, pp.124-139; 277-291

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Mostra retrospettiva 1926

La mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, “Il Momento”, 24 (1926),  n.128, 2 giugno, p.5; n.132, 5 giugno, p.5

 

Mothes 1884

Oscar Mothes, Die Baukunst des Mittelalters in Italien. Jena: Hermann Costenoble, 1884

 

Motta 1912

Achille Motta, L’Abbazia monumentale di Santa Maria di Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Torino: Pietro Celanza,  1912

 

Motta 1933

Achille Motta, Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Milano: Tipografia delle Missioni, 1933

 

Pane [1963] 1987

Roberto Pane, Io non vedo con i miei occhi ma attraverso di essi, in “Napoli Nobilissima”, 2 (1962-1963), pp.78-79, ora in Id., Attualità e dialettica del restauro, a cura di Mario Civita. Chieti: Marino Solfanelli Editore, 1987, pp.250-251

 

Pareto 1864

Raffaele Pareto, Facciata della chiesa di S. Maria di Vezzolano in Monferrato, “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”, 12 (1864) , estratto

 

Paroletti 1832

Modesto Paroletti, Viaggio romantico-pittorico delle Provincie Occidentali dell’Antica e Moderna Italia, II. Torino: Felice Festa Litografo, 1832

 

Pia 1907

Secondo Pia, A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia Questi ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte offre riverentemente S.P. Torino: Secondo Pia, 1907, album fotografico: 32 stampe all’albumina, 20×25

 

Pia 1919

Secondo Pia, A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti promotore di ogni studio ed arte queste sue riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica offre in ossequioso omaggio il dilettante astigiano Presidente della Società Fotografica Subalpina in Torino. Torino: Secondo Pia, s.d. (1919?), Album fotografico: 73 stampe all’albumina, 20×25

 

Renier 1900

Rodolfo Renier, Una leggenda carolingia ed un affresco mortuario in Piemonte, “Emporium”, 12 (1900),  n. 71, pp.377-382

 

Reteuna 1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera-estate 1991, pp.30-39

 

Ruskin   [1880] 1911

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture [1880].London, Ward, Lock & Co., 1911

 

Selvatico 1859

Pietro Selvatico Estense, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859

 

Sertorio Lombardi 1978

Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Spalletti 1979

Ettore Spalletti, Documentazione, critica, editoria, in “Storia dell’arte italiana”, II. Torino: Einaudi, 1979, pp.417-484

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

TCI 1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930

 

Venturi   1904

Adolfo Venturi, L’arte romanica, “Storia dell’arte italiana”, III. Milano: Hoepli, 1904

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc, Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. (1860)

 

Wagner-Rieger 1956

Renate Wagner-Rieger, Die italienische baukunst zu beginn der Gotik. I. Oberitalien. Graz-Köln: Hermann Böhlaus Nachf., 1956

 

 

 

 

Mario Gabinio, vita attraverso le immagini (1996)

in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di Pierangelo Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35

 

 

“Prime prove con macchina da L.10 su carta albuminata, 1889? .

La ricostruzione dell’attività di Mario Gabinio si apre con questa sua nota autografa apposta in calce ad un piccolo gruppo di immagini realizzate in Valle di Aosta, al Gran San Bernardo, raccolte in uno dei tanti album che l’autore realizzerà nei decenni successivi.  Essa racchiude, come quasi sempre accade  in questa vicenda, informazioni dettagliate, precise, sulle quali sembra possibile costruire ipotesi biografiche e critiche non arbitrarie, e dubbi, incertezze difficili da districare. Di lui rimane l’opera, conservata quasi  integralmente nel Fondo omonimo della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ma scarse testimonianze documentali o indirette della sua biografia, rari e contraddittori elementi paratestuali che siano in grado di suggerire o indirizzare la decifrazione del lavoro di questo fotografo che, alla sua morte, ha attraversato l’esatta metà della breve storia della fotografia riflettendone i mutamenti continui ma conservando anche, intatta, una coerenza di fondo, una presa di posizione precisa per quanto sommessa, che costituisce per noi una scelta di campo, una implicita dichiarazione d’intenti a favore della “documentazione artistica”.

Le prime testimonianze coeve disponibili parlano di Gabinio quasi solo in relazione alla sua ‘curiosa’ figura di escursionista-fotografo, accentuandone i lati pittoreschi e forse un poco esibizionisti[1], e per averne un ritratto meno angusto si deve attendere il ricordo redatto dal nipote Ivan Alessio nel 1939[2], certo più ampio ed articolato, il solo  a fornire -seppure in modo incompleto- un piccolo ritratto di quella che definisce “caratteristica e simpatica figura di artista e di cultore appassionato e tenace della fotografia (…) Fotografo non per interesse ma per passione (…) Alla ricerca continua del ‘meglio’ eseguiva molte fotografie per un solo soggetto (…) Ed erano lunghe soste sotto il sole od al freddo; erano studi lunghissimi per ottenere negli interni di chiese, e di palazzi monumentali, il voluto ed a volte difficilissimo effetto, per superarsi e vincere le difficoltà di ambiente che rendevano a volte difficile, quasi impossibile l’eseguire la riproduzione quale lui la voleva, nobilitante le bellezze e i pregi e nascondente o quanto meno attenuante i difetti e le disarmonie. Erano studi che continuavano nella solitudine della sua casa, nella camera oscura per provare e riprovare le varie carte fotografiche, i vari ‘bagni’ e i vari viraggi. Erano somme ingenti spese per ottenere dei contrasti su carte speciali, per ottenere gli effetti che il suo occhio di artista aveva visto al vero. (…) Malgrado il suo alto sentimento artistico e grandi capacità era modesto come la vita che conduceva; arguto assai sapeva con una buona battuta accattivarsi le simpatie di (sic) persone e allontanarle magari dall’inquadratura della fotografia che non le richiedeva. È scomparso con lui, se non un fotografo di eccezione, certo un appassionato ed originalissimo cultore di quest’arte.”

Questa testimonianza affettuosa e sottotono conserva, preziosa, le sole labili tracce di un atteggiamento nei confronti della pratica fotografica che è nostro compito ricostruire in forma compiuta analizzandola criticamente, cercandone le ragioni  nelle vicende coeve, nelle culture fotografiche che ne hanno accompagnato il suo svolgimento.

Si tratta allora di intraprendere un lavoro interpretativo che si proponga di superare la distanza che ci separa (in termini di tempo, di cultura) dal corpus di testi figurativi che costituisce l’opera di Gabinio, mettendo in atto una interpretazione cosciente del suo proprio “intendere intenzionale”, che “segue un certo progetto, deriva da una certa  precomprensione, da un qualche necessario pregiudizio” (Volli, 1994, p.40).  Si tratterà insomma di riconoscere i “tre tipi di intenzioni” definiti da Umberto Eco (1990, pp.22-25)  nella rassegnata consapevolezza di una irrimediabile povertà di elementi in grado di testimoniare l’intentio auctoris, costretti a  mettere  in atto una operazione di riconoscimento  delle caratteristiche dell’opera, di ciò che essa comunica (intentio operis) attraverso la formulazione di una serie di congetture e la definizione di tattiche interpretative ed ipotesi critiche che determinano il nostro “atto di lettura [da intendersi come] una transazione difficile fra la competenza del lettore (la competenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto in maniera economica.”[3]

Lo strumento, il percorso, a cui siamo ricorsi in prima approssimazione è quello dell’analisi cronologica, scelta certo arbitraria e forse poco aderente al discorso di Gabinio se pensiamo che i suoi esempi di strutturazione del testo (gli album) hanno criteri di aggregazione che sono -piuttosto- tematici ma, appunto, una delle nostre congetture, dei nostri pre-giudizi, è la modificazione del lavoro fotografico di Gabinio in modo parzialmente lineare, traducibile  in cronologia, e la sua aderenza, in forme ogni volta diverse, allo spirito del proprio tempo.

 

 

Non conosciamo le ragioni precise o  le eventuali influenze che portarono Gabinio ad occuparsi di fotografia o -meglio- ad acquistare la prima macchina fotografica, ma certo negli anni in cui questo accade, intorno al 1890, l’evento non riveste più alcun carattere di eccezionalità per un giovane della piccola borghesia urbana, ormai dotato di una sua risicata disponibilità economica imposta dagli eventi.[4] Con le semplificazioni della tecnica fotografica che caratterizzano l’ultimo decennio del XIX secolo la fotografia entra  nella sua prima fase di grande diffusione fotoamatoriale, e si inaugura un periodo della sua breve storia ricco di contraddizioni e fermenti, durante il quale la fotografia si accompagna sovente ad altri fenomeni sociali propri dell’epoca, in particolare alle diverse forme di associazionismo turistico in cui, superato il meccanismo della cooptazione secondo criteri di  censo tipico dei club d’élite ottocenteschi, l’aggregazione si fonda sulla condivisione di un programma, supera i confini di classe, e costituisce in molti casi un elemento di forte integrazione sociale.[5]

Esempio tipico di questa connotazione nuova delle strutture  associative è la torinese Unione Escursionisti (U.E.T.), fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, ambedue impiegati delle Ferrovie dello Stato con la passione per la montagna, con lo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”[6] Il successo è tale che al 1898 -quando L’U.E.T. si presenta con una propria sezione nel padiglione della Didattica alla Esposizione Nazionale di Torino, il socio Ercole Bonardi illustrandone brevemente le vicende sul giornale dell’Esposizione può affermare orgogliosamente che “ormai fra gli Escursionisti c’è gente di tutte le condizioni, dal piccolo negoziante all’impiegato, al professionista, al Consigliere comunale, al Deputato”. [7]

Gabinio ne entra a far parte nel 1894 e durante alcune escursioni alpine realizza le sue prime fotografie di un certo interesse, segno ormai di una buona padronanza del mezzo come dimostra il Panorama in tre parti dalla vetta del Rocciamelone realizzato nel luglio di quell’anno forse seguendo le suggestioni di immagini analoghe viste alla “Esposizione Fotografica Alpina” che si era tenuta l’anno precedente nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, di Torino, dove sei dei ventotto autori  presenti esponevano appunto panorami.[8] Allo stesso 1894 risale anche una serie di fotografie affatto diversa: le 21 lastre relative alla “Regia Scuola Normale Femminile di Ginnastica in Torino” frequentata dalla sorella Ida; sono il primo esempio compiuto di serie organica di immagini nella produzione di Gabinio, verosimilmente realizzate su commissione per illustrare tutti gli aspetti della scuola,  dalle divise delle allieve, agli esercizi ginnici all’istruzione didattica.[9]

Questa realizzazione costituisce però un semplice intermezzo nella produzione di quegli anni: Gabinio è ancora -per quanto ci è dato di sapere- un fotografo occasionale, attivo per brevi periodi, sempre in estate e prevalentemente  in occasione di gite in montagna; in questo periodo l’attività  fotografica è sempre motivata dall’escursione e non viceversa, come risulta dalla stessa scelta dei soggetti: il paesaggio e la veduta sono ancora scarsamente presenti e l’attenzione è rivolta al rito sociale,  all’esperienza di gruppo della gita, con notazioni tra il celebrativo e l’ironico nella documentata conquista di cime sin troppo accessibili.  Solo durante le ascensioni realizza le prime, vere vedute alpine; qui la montagna è presentata quale entità geografica pura, spoglia di presenze umane, forzando la veduta al panorama in un tentativo di estrema oggettivizzazione. Questa alternanza è ben documentata nelle prime immagini pubblicate da Gabinio nella  Guida Reynaudi dedicata a Ceresole Reale, edita nel 1896[10], certo una opportunità importante che gli viene offerta, il primo riconoscimento dell’interesse del suo lavoro ed uno stimolo a proseguire in modo meno occasionale, maturando il proprio interesse per una attività condivisa con altri membri dell’Unione Escursionisti, quali Treves e Belli, le cui opere sono nel frattempo presentate all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895.[11]

Testimoniano questo nuovo impegno sia l’adozione di un formato maggiore (18 x 24) sia le sperimentazioni condotte  in fase di ripresa (ripetizione in diurna e notturna, utilizzazione del lampo di magnesio) ed in fase di stampa, mediante il ricorso a carte ed a viraggi differenti (A25/44), alla ricerca di una propria forma espressiva che si risolverà infine in un sostanziale rifiuto delle manipolazioni proprie della fotografia pittorica, per un’immagine che si presenti con un “aspetto armonico ed artistico” ma in grado di “dare tutti i dettagli”, così come viene teorizzata ad esempio  da Jules Brocherel[12] e proposta -almeno in quegli anni- da un nume tutelare come Sella;  una fotografia insomma che riesca a coniugare artisticità della composizione e ricchezza di informazione, qualità estetica e valore documentario, ricorrendo coscientemente a tutti gli elementi tecnici, e quindi linguistici, che ne costituiscono lo specifico. Al modello costituito dal fotografo biellese Gabinio fa esplicito riferimento in alcune immagini dei primi anni del secolo;  in particolare il confronto assume le caratteristiche di una vera e propria citazione nel caso  dell’immagine  di Pian della Mussa , nelle Valli di Lanzo (B123/1/30) visto da ovest con tre escursionisti di spalle in primo piano, datata 17 luglio 1900, che riprende esplicitamente Il Monte Rosa dal Monte Moro di Sella, datata 1895, presente nella collezione Gabinio[13]. La presenza di figure in primo piano è un motivo iconografico che ritorna più volte nella sua produzione, specialmente nella variante che prevede le figure in atteggiamento esplicitamente ostensivo, disposte in pose precise, realizzate con l’apparecchio di grande formato, nelle quali  il gesto esplicito dell’indice puntato,  del braccio teso,  non pare rivolto ai compagni presenti, non appartiene al  tempo della ripresa ma a quello della sua osservazione futura, è una comunicazione posticipata, un espediente narrativo, particolarmente evidente nelle vedute di ampio respiro (B122/2/42) e nei panorami.

Se i compagni di escursione sono sovente presenti nelle fotografie di montagna non altrettanto si può dire per le persone che in quelle valli vivono, riprese sempre in rigide pose e sovente ridotte al rango di “tipi”, con uno sguardo che oscilla tra il lombrosiano ed il pittoresco, condiviso con l’amico Reynaudi, lontanissimo in questo caso dall’esempio proposto da Sella e Vallino con l’album Monte Rosa e Gressoney, 1890,  in cui l’attenzione per “la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire (…) l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie, la fisionomia propria di questa popolazione” si traducono in “quadretti graziosissimi”, riconoscendo e ritrovando nelle vicende dei luoghi che si sarebbero aperti di li a poco al turismo una contraddizione che doveva essere in primo luogo loro, di cittadini, di estranei, di rappresentanti di quella imprenditoria illuminata che possedeva gli strumenti per comprendere e subire il fascino di una cultura altra, ma insieme anche la forza e la determinazione economica e politica per porre concretamente in atto quel progresso che l’avrebbe cancellata. L’atteggiamento di Gabinio riflette una minore  coscienza  di questa distanza, che pare piuttosto appartenere ai soggetti fotografati (A18/56), una curiosità senza dramma e senza pietas, piuttosto orientata verso la fotografia di genere (B125/49).[14]

Sembra di leggere qui  una traccia di quella  ritrosia che si intuisce dalla scarna biografia del fotografo, quel tenersi al margine che impedisce un confronto schietto con l’altro, con l’estraneo, il diverso, un atteggiamento che invece non ritroviamo quando col soggetto fotografato intercorrono rapporti di amicizia o di parentela, come accade nei numerosi gruppi realizzati in occasione delle gite dell’Unione Escursionisti (B123/2/35, B123/2/36, B123/2/64, A25/8)  ed in alcuni bellissimi ritratti che appartengono alla sua prima produzione, noti soltanto attraverso le lastre: si tratta di immagini di singoli o coppie (coniugi, sorelle o amiche) fotografati in esterni davanti ad un rozzo telo disteso al muro, nella migliore tradizione della fotografia ambulante e domiciliare, o di prove di ripresa effettuate nello spazio angusto del balconcino della casa di Corso San Martino, con la modella avvolta in un lungo mantello,  poggiata in precario equilibrio su di uno sgabello che consentisse migliore spazio all’inquadratura, ma anche affettuose riprese della sorella Ida mentre allatta il primo figlio, i gruppi di famiglia ed i ritratti della madre, alcuni dei quali conservati in album, di cui già aveva sottolineato il valore Giorgio Avigdor (1981), esempi tutti della qualità fotografica che il ritratto ottocentesco raggiunge tanto più quanto si allontana dalla pratica codificata, e presto sclerotizzata, della ripresa di studio,  come mostrano anche le opere di due altri dilettanti piemontesi delle generazioni precedenti Gabinio, quali Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Negri.

Ma i risultati più interessanti si ritrovano in immagini quali  il doppio ritratto di  C.Canavese e C. Varesi, 1900c.  (A23/23) in cui le figure rigidamente in posa, staccate l’una dall’altra, sembrano per sempre immobili, trasformate in caratteri, nei due tipi distinti del pedone e del velocipedista, pur mantenendo invariata la loro individualità, sottolineata dal titolo che ne riporta esplicitamente i nomi, ed ancora in quello di G.E Canale, 1900c.  (A23/26) in cui la figura del doppio rimanda invece al confronto tra i modi della rappresentazione, fotografica e pittorica, suggerendo un ambito di riflessione che non coinvolge tanto la questione della fotografia come arte  ma piuttosto quella del realismo e della possibilità delle due tecniche (dei due linguaggi) di affrontare il tema della verosimiglianza fisionomica, indagando contestualmente lo scarto tra produzione e riproduzione, accessibile solo a partire dalle possibilità metalinguistiche della fotografia.

Meno rilevanti quantitativamente ma altrettanto significative sono le immagini in cui la presenza umana  diviene elemento di lettura e di articolazione dello spazio restituito fotograficamente, come nelle vedute animate di alcune vie e piazze di Torino viste attraverso le quinte dei portici urbani, secondo  una soluzione ripresa da modelli riferibili al vedutismo  ottocentesco [15] che ritroviamo anche nella fotografia del Santuario di Santa Maria in Doblazio a Pont Canavese, 1907? (A36/50) in cui compare per la prima volta in Gabinio l’uso della disposizione scalare delle figure in relazione ai segni emergenti della scena, in un gioco di rimandi, un dialogo tra ‘emergenze’  a scale diverse tra le quali è destinato a muoversi lo sguardo dell’osservatore, attratto da un evento puramente visivo, in cui il dato di cronaca è bandito ed il soggetto è propriamente il tempo sospeso della fotografia, di quella fotografia, che concatena arbitrariamente e rende leggibili accadimenti altrimenti autonomi (A15/65, B90/5).

 

Un uso meno palesemente orchestrato, più diretto, della presenza umana lo ritroviamo in alcune delle immagini di quello che è certamente il lavoro di Gabinio all’epoca più noto, realizzato nei primi mesi del 1900 e presentato, sotto l’egida dell’Unione Escursionisti, alla I Esposizione Internazionale promossa dalla Società Fotografica Subalpina che si tiene dall’11 febbraio al 19 marzo nei locali della Società Promotrice di Belle Arti,  in via della Zecca 25[16] . Per l’occasione il Comune di Torino  bandisce un concorso dedicato alla “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente” (Brayda, 1900) che Gabinio si aggiudica con la serie dedicata a Torino che scompare (A14/ –), realizzata non “appena bandito il concorso del Municipio, vale a dire nella prima quindicina di gennaio p.p. in condizioni d’ambiente e di luce difficilissime.(…) Con quel senso artistico che lo distingue [Gabinio] ha saputo fissare un centinaio di impressioni curiose, tipiche, interessantissime, rivelando certi angoli ignorati della nostra Torino che, poco ancora, non avremmo conosciuto più” (Fiori, 1900, p.4). Il lavoro, costituito da un centinaio di riprese su lastra 9×12 dalle quali vengono ricavate 84 stampe, prende forma ed è realizzato in pochi giorni, segno di una raggiunta padronanza tecnica e di una maturità espressiva che deriva da precedenti esperienze, sulle quali occorrerà ritornare.  Per la scelta  dei soggetti, l’esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituisce una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana, piuttosto propensa alle realizzazioni di tono celebrativo[17]. Le vedute dei canali nella zona del Balôn si alternano ai tetri cortili delle case a ballatoio di via Porta Palatina, vuoti di presenze, alle vedute urbane della “città quadrata”, riprese in tagli verticali che sottolineano lo spazio angusto di “quella parte della città che si stende tra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città -nelle parole di  Edmondo De Amicis- invecchia improvvisamente di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s’intrica, si fa povera e malinconica. (…) Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia di cielo, che s’aprono in portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz’uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione”[18];  la scena è più ariosa ma le condizioni generali non certo migliori nelle altre zone documentate, i cosiddetti “orti delle Benne” nella zona delle Basse di Dora, le case delle lavandaie al Borgo Rubatto, sulla sponda destra del Po, ed il ghetto di Borgo San Salvario;  qui la presenza umana all’interno dell’immagine è accettata piuttosto che cercata, quale ulteriore elemento di connotazione del luogo. Sono fotografie che è giusto definire dirette, senza compiacimenti o cadute nel pittoresco, prive di nostalgia; immagini che si propongono quali puri documenti di una condizione urbana in via di auspicata trasformazione, per opera  di quel “piccone demolitore” che compare nel titolo di una veduta di via Genova (A14/101, attuale via San Francesco d’Assisi), lo stesso a cui farà riferimento Pietro Gribaudi nel 1908 analizzando quella fase del rinnovamento urbano torinese (Comoli Mandracci, 1983, p. 215). La consonanza tra la lettura che ne offre Gabinio e l’opinione diffusa negli ambienti culturali torinesi è ben documentata, oltre che dalla assegnazione del premio di duecento lire da parte del Comune di Torino, anche dalla accoglienza favorevole che la stampa locale riserva a questo lavoro rilevandone l’importanza “come ricordo di luoghi cari che più non rivedremo e come studio di monumenti e linee architettoniche” (Fadilla, 1900) poiché “interessanti e belle per ora, queste fotografie saranno preziose più tardi, quando le cose fotografate saranno cancellate dalla memoria”[19]. Ma il riconoscimento più importante viene certamente da Riccardo Brayda che sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” pubblica in due puntate l’articolo Torino che scompare. (Da fotografie del signor M.Gabinio), che costituisce una analisi dettagliata dell’opera e l’occasione per una riflessione sulle perdite provocate da una politica urbanistica poco attenta al patrimonio architettonico: “Fra queste fotografie non mancano i quadretti assai originali, come taluni che riproducono i canali e le modeste abitazioni che in essi si rispecchiano (…) Questi soggetti ricordano un motivo che i torinesi hanno veduto riprodotto parecchie volte nelle passate Esposizioni di Belle Arti: “l’Adigetto di Verona”. A chi non conosce quella remota regione di Torino, pare impossibile che possano trovarsi colà tanti soggetti pittorici, i quali dovrebbero invogliare molti artisti del pennello a riprodurli. Colpite con assai buon gusto sono certe scene del Mercato degli stracci in quel sobborgo, e pittoresche le riproduzioni dei modesti casolari che si trovano tuttora nelle regioni di San Salvario e nel Lungo Po, edifizi dei quali non è lontana la demolizione. Il Gabinio, compreso nell’importanza del suo concorso, non volle soltanto limitare il suo studio alla riproduzione di motivi pittorici; ma con molta cura, e superando non poche difficoltà tecniche, ci lascia memoria di antiche costruzioni e di particolari architettonici, i quali, malgrado abbiano carattere storico ed artistico, dovranno sparire per causa degli sventramenti e degli allargamenti di alcune vie di Torino. Degne di nota sono le riproduzioni degli avanzi del Cisternone della Cittadella [fotografato nel 1896-97], della casa del Vescovo [fotografata nel dicembre del 1898], e, tra le costruzioni medioevali, quella di via Sant’Agostino (…). Fra  le costruzioni del settecento, è notevole una minuscola cappella accanto al vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, opera d’arte non priva di merito artistico, ma che fu lasciata in completo abbandono, e che presto, per la comodità della circolazione, dovrà essere abbattuta. Alcune fotografie riproducono molto chiaramente i particolari del cortile del palazzo (…) situato in quella parte di via Genova che è compresa tra la ex-piazzetta di S. Martiniano e la chiesa di S. Francesco, è assai modesto nella sua architettura esterna, ma è dotato all’interno di un cortile originale, che rivela quella grandiosità solenne che si osserva e si ammira nelle fabbriche del settecento e che difficilmente riescono ad ottenere i moderni architetti. Originali sono gli archi poligonali invece che in curva, sovrastanti allo spazio tra le colonne binate del piano terreno, grandiose le logge del piano superiore, che fortunatamente ci furono conservate intatte. (…) Ho parlato volontieri di questo edifizio, come altra volta ebbi a descrivere il distrutto palazzo Gibellini, pure in via Genova, perché troppo soventi ho udito ripetere che a Torino non c’è nulla da vedere”[20]. L’aderenza del testo al progetto fotografico di Gabinio non mostra semplicemente una consonanza di sentire ma  ci permette di riconoscere in questo tracce più che evidenti della presenza fattiva di Brayda, un risultato visibile, concreto, di quell’opera di “inarrivabile volgarizzatore dei fasti piemontesi” (Barraja, 1912) che l’ingegnere conduce da alcuni anni anche nell’ambito dell’Unione Escursionisti, con la quale collabora a partire dal 1898, guidando gli associati in  quelle gite artistiche che costituivano uno degli scopi del sodalizio,  in un ruolo che era stato sostenuto precedentemente dall’architetto Gottardo Gussoni e dal professore Ercole Bonardi. Le mete corrispondono puntualmente agli interessi di Brayda e toccano molti  dei luoghi canonici della riscoperta del medioevo piemontese, da Avigliana a Vezzolano, da Asti a Verres, da Bussoleno e Susa a Villarbasse, alla torinese Casa del Vescovo, tutti puntualmente ripresi da Gabinio con una attenzione specifica per i valori documentali ed architettonici, in immagini in cui non prevale mai -come accade nelle coeve fotografie di montagna- il semplice ricordo della gita, la foto di gruppo con l’architettura a fare da sfondo.[21] La presenza di Brayda  risulta determinante per la formazione del fotografo, ed in particolare per la maturazione di quell’interesse per le architetture storiche che si svilupperà  pienamente nel corso degli anni Venti, ma la sua egemonia all’interno dell’associazione solleva forti perplessità, manifestate pubblicamente con una lettera aperta del presidente Fiori, pubblicata sul numero di maggio 1902 del bollettino sociale “L’Escursionista”, in cui -dopo gli apprezzamenti di rito- viene evidenziato il rischio che le troppe gite artistiche snaturino la fisionomia originaria dell’Unione: “Per qualcuno cessammo proprio completamente d’essere escursionisti [diventando] un’associazione di artisti; ed è appunto questo concetto che crediamo sia poco opportuno (…) [noi siamo] amici dei monumenti (dico amici e non studiosi)”[22]. Se la rete di relazioni istituite all’interno di questo sodalizio -in particolare le presenze di Ceradini e Gussoni oltre a Brayda- risulta un elemento fondamentale per la formazione di Gabinio non va però dimenticata l’importanza del panorama fotografico torinese coevo, ricco di figure rilevanti e particolarmente attive proprio nell’ambito della documentazione ingegneristica e del patrimonio artistico ed architettonico, primo fra tutti Secondo Pia che proprio pochi anni prima, nel 1890,  riceve una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi” [23] in occasione della Esposizione Italiana di Architettura di Torino diventando di fatto un modello per il giovane Gabinio,  allora agli esordi, e certo la sua emozione dovette essere forte quando, al banchetto conclusivo  dell’Esposizione del 1900  Edoardo di Sambuy, – di fronte a Pia ed ai rappresentanti più noti della Società Fotografica Subalpina di cui è presidente – elogia le fotografie di Gabinio “da esse traendo occasione per lanciare l’idea della fondazione di un archivio fotografico”.[24] Il tema della raccolta fotografica documentaria, che attraversa tutta la fotografia ottocentesca, diviene di particolare interesse negli anni a cavallo dei due secoli e costituisce oggetto di riflessioni ed esperienze diverse in ambito internazionale e italiano. Nel 1892 era stato istituito a Roma, per iniziativa dell’ingegnere Giovanni B. Gargiolli quello che diventerà il Gabinetto Fotografico Nazionale, iniziativa legata a filo doppio al nascente problema della tutela, come viene esplicitamente dichiarato nel contestatissimo Regio Decreto del 1893 relativo all’obbligo da parte dei fotografi di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche “per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”. Lo stesso Congresso Internazionale di Fotografia che si tiene a Parigi nel 1900 (23-28 luglio) affronta il tema, specialmente per iniziativa di G. Moreau ed Alfred Liégard, contribuendo a meglio definire culturalmente e metodologicamente i termini della questione, poi ripresi in Italia da Corrado Ricci e Pietro Toesca in due interventi del 1904, da confrontare con le riflessioni coeve di Giovanni Santoponte, il quale affrontando la questione dal punto di vista dello specifico fotografico esplicita la differenza tra  museo fotografico, da intendersi quale raccolta eterogenea di immagini, e archivio, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti  riferentesi ad una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”.[25] Anche l’Unione Escursionisti partecipa di questo clima e nei primi mesi del 1901 il nuovo presidente Anselmo Giusta propone l’istituzione di un museo  presso la sede sociale individuando nella fotografia, da buon dilettante, “il mezzo più semplice, più spiccio e maggiormente alla portata dei soci per illustrare quanto si riscontra in fatto di monumenti, chiese, cappelle, castelli torri, ecc.ecc. sia antiche che moderne;  ed è quello che abbiamo scelto di preferenza, senza escludere di proposito gli altri. (…) Oltre alla fotografia dell’insieme si dovrà aver cura di riprodurre anche i particolari delle costruzioni e  delle decorazioni, gli interni degli edifici, i loro arredi ecc.” (Giusta, 1901) Si associano qui, come in decine di altri casi simili, l’ansia catalografica e la fiducia, tutta positivista, ottocentesca, nella fotografia come schermo trasparente, come strumento principe per la riappropriazione sistematica della realtà, semplicemente ridotta ad immagine, impronta reale del vero,   ma si riconosce anche,  qui come nelle riflessioni di Brocherel e Masoero, nell’opera di Pia, l’ansia di una parte del mondo fotografico di costruire e vedere riconosciuto un proprio ruolo, una propria funzione sociale e culturale che altri, nello stesso ambito e negli stessi anni, perseguono attraverso il confronto ingenuo e sovente superficiale con le retroguardie del mondo dell’Arte.

In questo clima si colloca la ricca serie di fotografie di architetture storiche piemontesi, prevalentemente  medievali, realizzata da Gabinio a partire dal 1897-1898, in cui la composizione risulta articolata e complessa, tesa ad indagare il rapporto tra lo  spazio urbano dei piccoli centri  e la presenza incombente, il segno forte di un elemento come la Sacra di San Michele  (A42/32, A37/96) o la coerenza compatta del tessuto edilizio di un centro storico, restituita nei suoi aspetti di fascinazione spaziale e architettonica mediante l’uso del grande formato, che consente l’emergere del dettaglio ed il suo apprezzamento (A21/9); ed ancora l’interesse per la città in trasformazione, in cui la documentazione si traduce in  composizioni di più ampio respiro, formalmente dotate di una propria autonomia che deriva da una sapiente distribuzione degli elementi di attenzione tra i diversi piani, come accade nella  veduta del Ponte in ferro [ponte Maria Teresa] al primo inizio dei lavori/ pel nuovo ponte, 1903 (A22/16). Ma il suo interesse non si limita al patrimonio storico; se l’influenza della cultura storicistica torinese è determinante essa comunque non esaurisce l’orizzonte di interessi di Gabinio che anzi si cimenta con le architetture effimere dei padiglioni della Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album) realizzato forse su sollecitazione dell’amico  Mario Ceradini, in cui mostra di aver raggiunto ormai una padronanza tecnica ed espressiva assolute, producendo immagini in grado di competere vittoriosamente con quelle realizzate da Remo Lovazzano, fotografo ufficiale della manifestazione.[26] Appartiene allo stesso periodo anche la bella serie sui “Periodi di costruzione di un gasometro della Soc.ta’ It.na [Società Italiana Gas] – Torino” a Borgo Dora, 1898,(A17/13, 14) realizzata -crediamo- a partire da una committenza legata alla sua frequentazione nello stesso anno del corso di Meccanica presso le Scuole Tecniche Operaie San Carlo[27] e l’interessante documentazione del cantiere di ampliamento della Conceria Fiorio a Torino su progetto di Pietro Fenoglio, tra i primi esempi di applicazione del cemento armato in una architettura industriale.[28]

 

La montagna resta però, in questi anni, il tema maggiormente frequentato ed il soggetto utilizzato per condurre le Prove su carte diverse poi raccolte nell’Album n.25. Molte di queste immagini tendono alla oggettivazione del soggetto, isolato dall’inquadratura e descritto in sé, nelle sue componenti orografiche e geologiche,  senza relazioni che ne suggeriscano la collocazione geografica; la cima o il panorama alpino come assoluto o come pretesto – in contraddizione solo apparente- per la confezione di composizioni gradevoli, graziose, sovente a profilo centinato, che guardano in particolare alla produzione pittorica del paesaggismo piemontese di primo Novecento, ad Angelo Morbelli per indicare un nome.[29] Più frequenti sono però le immagini in cui risulta leggibile, coinvolta, la presenza del fotografo alpinista, la sua esperienza del luogo, la sua percezione dell’oggetto fotografato: in alcune ciò che prevale è il senso della distanza, la separazione tra punto di osservazione e oggetto dello sguardo, tra veduta e fotografia (A39/41) mentre altre, all’opposto,  sono giocate sul senso di prossimità, di accessibilità del sito, e allora la ripresa si sviluppa senza soluzione di continuità dal primo piano all’orizzonte, rimanda al percorso necessario da compiere per raggiungere la vetta (B123/1/37). Il fotografo mostra di essere nel paesaggio specialmente nelle vedute di bassa valle (A1/130, A1/132) che raccontano di spazi densi, in cui l’elemento naturale quasi sommerge i segni dell’antropizzazione, la strada, le baite; spazi letti come sistemi complessi e privi di gerarchie, restituiti in modo efficacemente preciso, analitico, sovente inseriti in un vero e proprio resoconto per immagini che descrive l’intero percorso dalla pianura alle vette, con quell’alternarsi mirato di inquadrature orizzontali e verticali che abbiamo visto utilizzato anche in Torino che scompare.

Le precise intenzioni descrittive, analitiche, si accompagnano qui alle prime evidenti preoccupazioni formali, compositive e tonali, che risentono in parte dei modelli coevi della fotografia artistica, come accade per la Cascatella sotto la Sacra di S. Michele, del 1899 (CN/4), riquadrata in stampa ad accentuarne le proporzioni verticali ed il calligrafismo, o in alcuni paesaggi più tardi (1905-1910) venati di un romanticismo mai lezioso, dove l’atto del guardare è retoricamente sottolineato dalla presenza di quinte poste in primo piano a delimitare la scena (A15/41); né finestra né specchio ma palese rappresentazione. Ciò che invece segna la distanza da quei modelli è l’assenza di flou e di manipolazioni in fase di stampa,  la ricchezza di dettaglio consentita dalla copia a contatto su carte ad annerimento diretto, per le quali anche i viraggi assumono una semplice funzione conservativa e di stabilizzazione del tono.

Il distacco risulta ancora più netto nella serie realizzata intorno al 1900 “Al Valentino – presso il ponte in ferro” (A22/1), in cui di un gruppo di alberi ripresi in controluce netto viene restituito il puro grafismo dell’intreccio dei rami, una massa intricata di segni contro il chiarore del cielo; immagini di cui è difficile trovare l’analogo nella produzione dei fotografi coevi, specialmente piemontesi. Qui la fotografia abbandona esplicitamente ogni intenzione di riproduzione per non documentare altro che se stessa e la fascinazione da cui è nata.  Questa serie costituisce il presupposto necessario per comprendere la successiva maturazione delle ricerche di Gabinio relative al tema del paesaggio, che si manifesta compiutamente intorno alla  prima metà degli anni Dieci, quando si allontana, per ragioni non note, dal gruppo dell’Unione Escursionisti, guadagnando l’indipendenza, la libertà di operare al di là di esigenze più o meno esplicite espresse o imposte  dall’appartenenza ad un gruppo. Si veda la Cascata secca (A41/21) del 1914, dove  la padronanza tecnica ed espressiva  di un linguaggio fotografico di derivazione ottocentesca gli consente di produrre un’immagine di grandissima qualità,  che supera di fatto ogni questione relativa alla fotografia pittorica; questa resta sullo sfondo, una suggestione forse non eliminabile per chi opera all’inizio del secolo con una formazione da autodidatta, ed emerge soltanto in alcuni elementi, nel modo di inquadrare certi soggetti, come nel  Paesaggio invernale al Frais (A42/7), 1910c., da confrontare con A Snow Track di Will A. Cady, presentata a Torino all’Esposizione del 1902, [30] o nella volontà esplicita di comporre il “quadretto” tipicamente grazioso ma senza osare poi il salto pittorialista ed anzi ibridando quella matrice con interventi strettamente connessi alle possibilità analitiche proprie del mezzo fotografico, confidando quindi tutto nel suo specifico: e sono le riprese scandite diacronicamente conservando meticolosamente immutato il punto di vista, dalla notte al giorno, dall’estate all’inverno. Uno strumento d’indagine, “un’opera fotografica, forse tecnicamente perfetta, o per qualche motivo speciale interessante, e che pur trovasi agli antipodi dell’opera d’arte”, per riprendere le distinzioni introdotte da Edoardo Di Sambuy per la  presentazione della manifestazione torinese, “evento cruciale per le vicende della cultura fotografica del nostro paese” (Costantini, 1994, p.95) che Gabinio visita il giorno 25 maggio sotto la guida dell’onnipresente Brayda, lasciando però nella sua opera tracce relativamente modeste. Quali possono essere le ragioni, le resistenze forse, che fanno sì che un dilettante attivo a Torino in questi anni non risulti segnato, profondamente, da questi celebrati modelli? Possiamo provare a definire il problema cercando di leggere le intenzioni dell’autore non solo attraverso l’opera ma anche utilizzando il filtro di alcuni dati, o indizi, legati alla sua biografia: il primo elemento da rilevare è la sua marginalità rispetto al mondo fotografico torinese, espresso in quegli anni da quella Società Fotografica Subalpina che nella preparazione della mostra del 1902 si rivolge a “pochi, ma valentissimi cultori”  ed ancora nel 1933 si riconoscerà “nata aristocratica”; [31] ed inoltre la formazione di Gabinio, l’ambito da cui proviene, ed al quale è ancora legato -quello dell’associazionismo alpinistico- non ha pretese di “modernità” e per quanto riguarda la fotografia si propone altri intendimenti e quindi si esprime con linguaggi differenti; riconosce i propri valori nei “dettagli” propugnati da Jules Brocherel e nelle dichiarazioni di Pietro Masoero a proposito dell’ “arte fotografica [che] deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”, [32] riconoscendo nel suo specifico quella modernità di linguaggio che altri cercavano altrove. Sarà per queste ragioni che il suo modo di fotografare non viene apprezzato dai critici dell’epoca così che, quando partecipa all’esposizione di fotografia organizzata dall’Unione Escursionisti nel 1906, il notista de “La Fotografia Artistica” lo segnala solo in quanto organizzatore della manifestazione, senza citare alcuna delle sue opere.[33] È  questa modesta occasione la sola esposizione a cui Gabinio partecipa prima degli anni Trenta né risulta che sia mai stato coinvolto in altre particolari realizzazioni collettive, quali le diverse iniziative legate agli aiuti per i terremotati di Reggio Calabria e Messina nel 1908.[34]

A  Torino si susseguono in questo lasso di tempo l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata nel 1907 da “La Fotografia Artistica”, con la partecipazione di 391 autori provenienti da 16 paesi diversi, in particolare Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania, e quindi la Mostra Fotografica organizzata in occasione  dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro, promossa nel 1911 nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, che vede 250 espositori con circa 2000 opere suddivise nelle due sezioni di “Fotografia artistica, industriale, illustrativa” e “Applicazioni della fotografia”, a cui va aggiunta l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino Italiano e curata da Guido Rey.[35] Le occasioni per un confronto, anche pubblico,  e per un relativo aggiornamento sono quindi accessibili, al di là della presenza torinese di un periodico autorevole come “La Fotografia Artistica” (Costantini, 1990), ma l’attività di Gabinio in questo periodo risulta -per ragioni non note- quantitativamente ridotta seppure di grande qualità, condotta in assoluta autonomia e quasi -si direbbe- in isolamento, in una condizione di autoemarginazione da qualsivoglia sodalizio fotografico.

 

Gli anni della Grande Guerra, per Torino anni di crescita industriale e demografica e di forti conflitti sociali, sono un lungo periodo di silenzio per  un personaggio ormai non più giovane (nel 1921 compie cinquant’anni) e forse sconcertato dai mutamenti in atto, che alla cronaca non ha dedicato mai -almeno fotograficamente- alcuna attenzione, neppure più avanti nel tempo, durante la collaborazione con la Rassegna Municipale “Torino”, che utilizza la fotografia quale strumento di isolamento e difesa, una protezione sicura che libera dalla necessità di avere contatti col mondo.

Il 1923 è un anno di svolta. In un quadro politico segnato dall’ascesa al governo di Mussolini, nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, la Camera di Commercio Torinese promuove la “Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia”, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  per onorare il terzo  centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615). Esempio complesso di esposizione fotografica, strutturalmente distante dai Salon che seguiranno per l’articolazione della materia, che prevede sezioni relative a tutti i settori di applicazione della fotografia, la manifestazione riscuote un grande successo di pubblico, segnato da più di 200.000 visitatori in due mesi. “Nonostante lo stato d’animo in cui vivono ancora molti nella crisi restauratrice, che involge problemi di spirito e di materia” alla sezione di fotografia artistica partecipano 227 autori internazionali con ben 3920 opere, tra le quali destano particolare attenzione quelle del cecoslovacco Frantisek Drtikol, nelle quali si rileva “uno stridore di contrasti, un urto fra l’acquiescenza alle forme consuete e la ribellione al passato, che impongono uno studio”.[36] Ma il 1923 è anche l’anno della pubblicazione del primo numero di Luci ed Ombre, annuario del “Corriere Fotografico”, da poco trasferitosi per proprietà e redazione a Torino per opera di Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, i fondatori del “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, che assumerà per oltre un decennio “un ruolo catalizzatore della ricerca fotografica in Italia”.[37]

Anche per Gabinio questo sembra essere il momento della ripresa, segnato da una novità importante: l’apposizione alle stampe, quasi sempre al verso,  della data esatta di realizzazione e in alcuni casi del titolo, ancora di tipo descrittivo, semplice elemento di identificazione documentale del soggetto. Sono, questi, sintomi  di un rinnovato e diverso interesse per il lavoro fotografico ed elementi importanti  per ricostruire datazione e modalità di lavoro per la prima volta in modo accurato e diretto. [38]A partire dal giugno 1922  le cadenze di ripresa diventano molto ravvicinate, anche 3-4 giorni di seguito, e quantitativamente consistenti, mentre i soggetti oscillano in un ventaglio ampio di temi torinesi, tra paesaggi fluviali  e prime architetture, ancora senza un chiaro progetto apparente. All’anno successivo va invece fatto risalire l’inizio di un’altra consistente serie, quella dedicata alle “Fioriture”, che proseguirà senza sostanziali modificazioni di senso negli anni successivi, certo su sollecitazione diretta degli esempi proposti dalle riviste, in particolare dal “Corriere Fotografico” che dedica più di un concorso tra i propri abbonati a questo tema, ospitandone poi i risultati migliori sulle proprie pagine. [39] È  certo un tema tra i più consueti e stereotipati, al quale Gabinio riesce però ad applicare un trattamento meno oleografico, non solo per il ricorso consueto alla stampa a contatto da lastra di grande formato ma anche per la specifica modalità di composizione, con le chioma fiorite a riempire l’inquadratura sino a saturazione (B96/88) oppure, all’inverso, costruendo l’immagine su percorsi di lettura dinamici,  guidati da un pullulare di segni che si intersecano secondo opposte direzioni (B96/79). Sostanzialmente differenti e distanti dagli esempi proposti dalle riviste sono poi alcune stampe del 1923 (P5/1) nelle quali il segno forte dell’albero o del ramo fiorito viene sostituito da una trama di elementi apparentemente minori, ciascuno privo di intrinseca rilevanza figurale, propri dei micropaesaggi marginali, in cui scompare la relazione consueta tra figura e sfondo e l’immagine vive propriamente delle sole relazioni interne definite dal fotografo.[40]

L’articolazione del tema diviene particolarmente complessa nella serie del 1924-1926 realizzata al parco del Valentino e intitolata “Il castello medievale, ingresso pustierla a nord-o”: sono circa venti stampe su carte diverse, corrispondenti a quasi altrettante riprese, in cui gli alberi e le architetture, sino a quel momento indagati separatamente, interagiscono tra loro per il tramite della luce, che incomincia a mostrarsi quale elemento narrativo autonomo. Il risultato finale (B52/118), molto più tardi pubblicato anonimo sulla rivista “Torino”, è il frutto di una ricerca ostinata e lunga, fondata sullo studio delle varianti minime di definizione della scena, condotta in momenti e stagioni diverse mantenendo costante l’inquadratura. La questione della definizione spaziale propria del paesaggio è indagata in Parco Michelotti sotto la neve, 1930c (P37/10), secondo  una impostazione che possiamo definire paradossalmente antifotografica: le divergenti linee di fuga dei viale e l’assenza di un centro precisamente individuato producono una ambiguità percettiva che rende irriconoscibili le tracce della costruzione prospettica propria dell’ottica fotografica, generando contemporaneamente un raddoppiamento speculare della figura secondo una formula  che ritroviamo in altre sue immagini di soggetti diversi realizzate nello stesso periodo (B71/14, B103/23). [41]

 

I primi anni Venti segnano anche l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico e le trasformazioni urbane di Torino, già indagato con Torino che scompare del 1900 e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, qui ora affrontato con sguardo più ampio e nuova sistematicità, mentre sparisce  di fatto quello che era stato fino al quel momento il tema principale della sua produzione fotografica, la montagna.

Tra i primi soggetti il Borgo Medievale al parco del Valentino, spazio effimero realizzato in occasione della Esposizione Generale Italiana del 1884 divenuto testimonianza consolidata della cultura architettonica storicista e del nascente restauro architettonico, che Gabinio indaga come microcosmo urbano reale, nei suoi rapporti spaziali e nelle sue architetture più vere del vero, senza cedimenti al pretesto decorativo o sottolineature della sua possibile funzione di loisir. È la stessa intenzione documentaria, di registrazione del dato reale che si ritrova nelle altre serie: quella dedicata ai monumenti che ornano piazze e giardini torinesi, dei quali ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, e quelle altrettanto ricche  dedicate alle chiese ed ai palazzi barocchi, alle vedute urbane, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.  Le campagne fotografiche sono condotte con ritmi molto intensi, anche 15 lastre al giorno, percorrendo la città per aree omogenee o limitrofe, combinando esaustività della documentazione ed economia degli spostamenti, seguendo cioè percorsi che sembrano determinati non tanto da una committenza precisa quanto da un progetto individuale, al quale non sembrano però essere estranei i precisi interessi e la rete di relazioni del nipote Ugo Alessio, che in questi anni frequenta l’Accademia Albertina diplomandosi professore di Disegno Architettonico nel 1925.[42] A molti di questi edifici vengono  dedicate serie costituite da numerose immagini, come accade per la chiesa dei Santi Martiri o per il Duomo, di cui -oltre alle importantissime riprese della navata principale realizzate prima della cancellazione totale della decorazione- il fotografo indaga l’architettura e la presenza urbana, con inquadrature singolari e sapienti, a volte tanto poco ortodosse quanto efficaci (B75/64), segnate da un accorto uso dei rapporti tra luce ed ombra per presentare l’articolazione dei volumi minori del fianco destro (P21/17) oppure ancora ricorrendo alle affascinanti riprese zenitali (B75/129), fino ai notturni dal campanile e della facciata, questi datati al maggio 1930 in occasione della ostensione della Santa Sindone,  nei quali ancora una volta si riconferma l’interesse del fotografo non tanto per la cronaca dell’evento quanto per le modifiche ambientali che questo induce (le transenne, le tracce del  flusso di movimento della folla).[43] L’interesse per l’architettura e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, quindi anche per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, risulta chiaro nelle opere dedicate al cortile a portico e loggiato del palazzo dell’Università torinese, nelle quali al rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa (ripetizione dello stesso punto di vista in punti corrispondenti sui due piani, perfettamente allineati secondo un asse verticale) si affiancano immagini più affascinate dal gioco chiaroscurale consentito dagli stessi elementi architettonici, tema su cui lavorerà a lungo ottenendo risultati soddisfacenti, come per Austerità (RA/80) presentata all’Esposizione di Fotografia di Stoccolma nel gennaio 1934 e per Università  (RA/79) esposta a Bruxelles nel 1935 nell’ambito del XIV Salon organizzato dalla Association Belge de Photographie et Cinematographie, esempi di quel possibile connubio tra documentazione (architettonica) e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento. “La fotografia architettonica non può essere fotografia artistica -afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal  Photographic Society di Londra,  nel 1925- essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”, affermazioni pesanti queste, alle quali tenta di far fronte J.R.H. Weaver quando afferma che “nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[44]

In questo periodo la posizione di Gabinio così come ci appare dalla lettura delle sue opere si mantiene in bilico tra le due posizioni ed è semmai orientata verso una concezione della fotografia quale riproduzione della realtà esterna, documento tanto più oggettivo quanto più tecnicamente corretto e magistralmente realizzato, con un orgoglio del fare che guarda alla tradizione dell’artigiano piuttosto che  all’artista, al mestiere del fotografo se non alla professione. “Rimettere in collezione” afferma l’iscrizione  apposta la verso di una stampa del 1925, suggerendo  la presenza di un repertorio prodotto con destinazione commerciale, al quale fanno pensare anche altri indizi sparsi quali i numeri d’ordine o le indicazioni di classificazione presenti in alcune stampe dello stesso periodo e le prime tracce di pagamenti ottenuti da committenti occasionali, incontrati forse durante le peregrinazioni fotografiche per le vie della città. Il lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, già affrontato da Alberto Charvet nel 1888 ancora in relazione con Brayda[45], qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento posto a sottolineare la posizione del punto di fuga.

Appartengono allo stesso periodo anche le fotografie dei piccoli caffè ed alberghi del vecchio centro, non i caffè ‘storici’ della tradizione torinese ma quelli che allora animavano le strade dell’antica città quadrata e contribuivano a definirne l’identità ambientale. Anche qui non è opportuno parlare semplicisticamente di nostalgia, è necessario invece riconoscere un’intenzione ed un sentimento più complessi, condivisi da una larga ed eterogenea porzione della scena culturale torinese della seconda metà del decennio. Le vedute urbane si muovono tra le strade anguste del nucleo antico (B103/4) e le sponde del Po, con il ponte ad articolare il dialogo tra la città e la collina con le sue presenze architettoniche (B77/122, B91/9) mentre la parte più aulica della città viene quasi trascurata. Sono gli stessi soggetti che si ritrovano nell’esposizione di “Vedute di Torino” promossa nel 1926 dalla “Società di Belle Arti A. Fontanesi”, a cui partecipano tutti gli esponenti del fronte figurativo torinese insieme ad architetti come Annibale Rigotti, Alberto Sartoris, membro della Commissione Ordinatrice, ed al giovane Aldo Morbelli, ancora studente,  con una serie di schizzi architettonici di temi e soggetti che si ritrovano nel lavoro che Gabinio compie negli stessi anni, noto anche ad un altro degli artisti presenti in mostra, l’incisore Francesco Mennyey, al quale il fotografo cede alcune vedute realizzate negli anni  immediatamente precedenti.[46] Sono i temi consueti della Torino antimodernista (“Noi moderni per i quali ogni arte è buona” dice Ceradini nel 1925)  contro i quali si scaglia Fillia nella recensione alla mostra: “[Nessuno] ha interpretato gli elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne (…) Sembra che il pittore sia un essere insensibile, fuori del tempo, legato alla tradizione borghese della città, senza contatti con la vita (…) Una Torino quasi gozzaniana, dunque, in utrilliane elegie” (citato in Dragone, 1976, p.112), la stessa che si ritrova due anni più tardi nella serie dedicata alla “Vecchia Torino” da Marcello Boglione[47], ancora una volta ripercorrendo i luoghi,  intersecando i passi di Gabinio.

Una più accorta e impegnativa attenzione per le architetture storiche, ed una ulteriore occasione di confronto e di riflessione per Gabinio, è costituita sul medesimo scorcio dell’anno 1926 dalla “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tiene a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e Giovanni Chevalley sotto la presidenza di Carlo Nigra, la mostra presenta “un complesso di materiali di eccezionale interesse e non sempre facili da riunire e ordinare (…) gran copia di disegni di antichi architetti piemontesi e disegni e fotografie di cospicui edifizi della regione subalpina dal romanico all’800”[48] tra cui una importantissima retrospettiva dell’opera di Secondo Pia. Le architetture che Gabinio fotografa in questi anni,  e le scarse annotazioni presenti al verso di alcune stampe confermano una attività professionale non altrimenti documentata e smentita dallo stesso ricordo di coloro che lo conoscevano (Alessio, 1939, p.34) e la presenza di precise committenze per ora ignote. Conclusa la documentazione del patrimonio storico architettonico urbano si dedica alle architetture religiose della collina ma soprattutto alle nuove realizzazione, infrastrutturali o simboliche che tentano di porre un argine alle tensioni sociali determinate dalla crescente disoccupazione  connettendole  alle celebrazioni per il decennale della vittoria (il ponte Vittorio Emanuele III ora Balbis al Pilonetto (B92/86 E SEGG), su progetto di Giuseppe Pagano e il Faro della Vittoria al Colle della Maddalena)  ed agli altri  importanti cantieri aperti in città alla fine del decennio quali il ponte Principi di Piemonte in zona Sassi, ancora di Pagano (B92/27 E SEGG),  e  la demolizione di parte dell’antico Arsenale, per i quali organizza documentazioni minuziose e concettualmente innovative che seguono ogni fase dei lavori alternando vedute di insieme e dettagli costruttivi, introducendo per la prima volta l’elemento dinamico nel proprio lavoro (P16/15-18).

Il consolidamento dell’attività professionale sembra dargli sicurezze nuove e nel 1928 Gabinio partecipa individualmente per la prima volta ad un concorso, quello dedicato a “Le belle fotografie di Torino”, promosso dal “Corriere Fotografico” tra i propri abbonati, vincendo uno dei premi minori con la veduta Dal campanile del Duomo verso piazza Castello,  che sarà successivamente pubblicata nel numero unico dedicato a Le Esposizioni e i festeggiamenti di Torino nel 1928 (Commissione Propaganda, 1928, p.11) ma soprattutto gli frutta i primi contatti con la redazione della rivista municipale “Torino” (Avigdor, 1981, p.170) con cui collaborerà fino alla morte, pur senza mai ottenere di poter firmare le proprie immagini.

L’Amministrazione Comunale torinese è in questi anni particolarmente attenta ai temi della fotografia sia come settore di formazione professionale sia come strumento di documentazione e propaganda della propria attività. Per iniziativa di Alfredo Laezza, segretario della Società Fotografica Subalpina,  nel 1929 viene istituita dalla Città di Torino la Scuola di Avviamento Fotografico G. Pacchiotti “a beneficio di coloro che intendono dedicarsi all’arte ed al commercio fotografico” introducendo per la prima volta nel programma dei corsi anche l’insegnamento di Storia dell’Arte[49], mentre risale al 1931 l’istituzione della Fototeca Municipale allo scopo di “seguire e fissare nella documentazione fotografica lo sviluppo urbanistico in genere e sotto l’aspetto estetico dell’edilizia in ispecie (…) sia ancora per seguire l’andamento e lo sviluppo di opere pubbliche eseguite dal Comune o dei lavori edilizi privati (…) analogamente a quanto viene praticato dai grandi comuni del Regno. [Specialmente] con l’occasione dell’imminenza dei lavori di risanamento dei quartieri adiacenti via Roma e dell’esecuzione di altre numerose ed importanti opere di pubblico interesse (…) è opportuno deliberare subito la formazione della raccolta delle fotografie interessanti la vita cittadina”.[50]

 

È  in questa prospettiva che va collocata l’importante documentazione fotografica realizzata da Gabinio nei primi anni Trenta, seguendo il cantiere di Via Roma nuova ma documentando anche singole realizzazioni architettoniche su commissione diretta delle società proprietarie (Società Reale Mutua Assicurazioni, Istituto San Paolo)  o di architetti come Armando Melis e Alberto  Ressa. È specialmente il tessuto urbano interessato dai lavori per il primo tratto (1931-1933) ad attirare l’attenzione di Gabinio, nuovamente intento ad indagare le mutazioni, il passaggio dall’antico al nuovo, dalla tradizione al moderno, gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi” come diceva Benjamin nello stesso 1931 analizzando Atget[51]. L’enorme cantiere è seguito passo passo con la preoccupazione -in lui consueta- di fornire una informazione esaustiva.   Le vedute d’insieme delle prime demolizioni si alternano alla documentazione delle preesistenze per lasciare quindi spazio agli scavi, in particolare quelli per la “metropolitana”, osservati con una sapienza di sguardo che coniuga felicemente documento e ricerca compositiva; una fotografia diretta, pura, che produce immagini eleganti e raffinate dalle quali traspare il fascino ambiguo esercitato da queste architetture nuove, quasi posticce, scenografiche (B71/44), meno interessanti dei padiglioni provvisori costruiti in piazza San Carlo (B103/21, 23).

Le fasi di realizzazione del secondo tratto (1935-1937) sono documentate in modo meno esaustivo. Gabinio è ormai ammalato ma -crediamo- in questi anni è più  interessato alla esplorazione del linguaggio  fotografico. La fotografia  pura si affianca alle manipolazioni che gli consentono di proporre una propria visione di Via Roma nuova adottando la tecnica del fotomontaggio (B68/30), assolutamente eccezionale per lui, in cui per un semplice gioco di ribaltamento, di rispecchiamento della figura, la prefigurazione della nuova strada assume quei caratteri di regolarità e decoro che il progetto prevedeva pur conservando miracolosamente intatte le proprie architetture. Qui la città viene reinventata o mostrata nella lacerazione delle sue ferite che le danno “quell’aspetto di Dunkerque” che nemmeno le demolizioni dell’ultima guerra le avrebbero inflitto (Gabetti, Olmo, 1976, p.28); come già accadeva per le immagini di montagna è al panorama che viene affidato il compito di restituire in modo esauriente, massimamente oggettivo, il quadro della situazione (B71/140-143).

Il lavoro più interessante prodotto in questi anni è però quello legato alla documentazione dei due importanti cantieri promossi dalla Reale Mutua Assicurazioni, la sede centrale in via Corte d’Appello (1932)  e la “torre littoria” (1933-34), compresa nella ricostruzione dell’isolato di San Emanuele, entrambi eseguiti su commissione della Società in concomitanza con altri professionisti torinesi quali Pedrini e Ottolenghi[52], ciò che conferma ulteriormente la relativa notorietà professionale raggiunta da Gabinio in quegli anni. Il dato per noi più interessante è però fornito dalle stesse fotografie, che denunciano esplicitamente il fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontato con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana (A31/64) che solo in rari casi si traduce troppo esplicitamente nella  ricerca retorica e ingenua dei Contrasti (CN/51). Qui la cultura fotografica che emerge non è di certo quella dei Salon torinesi o di Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorata ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che Gabinio conosce certamente per il tramite del nipote Ugo Alessio, che ospita dopo una prima, importante, recensione del volume Photographie prodotto dalla rivista parigina “Arts et métiers graphiques”, pubblicata nell’aprile del 1932, nel maggio dello stesso anno l’importante  Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, il quale riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”.[53] L’affermazione di questa autonomia è poi sostenuta e illustrata nella rubrica di fotografia che compare saltuariamente nei numeri successivi almeno fino ai primi mesi del 1933;  in perfetto accordo con la linea espressa dalla rivista, la selezione di fotografie industriali o di oggetti, di “cose”, non si rivolge tanto alla produzione europea di matrice costruttivista e razionalista quanto piuttosto alla sua declinazione statunitense, posta sotto l’influenza di Charles Sheeler e  conservando traccia del fascino che l’America aveva esercitato alcuni anni prima su Erich Mendelsohn.  Quanto autorevole fosse per Gabinio l’esempio costituito dalle fotografie pubblicate sulle pagine di queste riviste lo dimostrano alcune immagini della serie dedicata al palazzo dell’Opera Pia San Paolo di Torino (1934), in particolare quelle dedicate alla scala elicoidale, in cui sempre più chiaramente assistiamo alla riappropriazione da parte del fotografo del puro dato documentario, sul quale opera per variazioni tanto lievi quanto significative (B69/49), costruendo una realtà esplicitamente fotografica.[54]

 

Nuove visioni di Torino titola Gabinio nel 1931 una veduta di piazza Castello ripresa dalla cupola della chiesa della SS. Trinità (P13/5)  e definisce con questo solo titolo gli anni della sua svolta. È una sintetica dichiarazione di intenti. L’immagine non si discosta di molto dalle numerose altre sue fatte a partire dalla metà degli anni Venti; l’inquadratura è ancora ortodossa, perfettamente allineata all’orizzonte, ma le luci si fanno taglienti e ciò introduce  un’inquietudine nuova, inattesa, che dà senso al titolo: ciò che muta è l’intenzione dello sguardo se non ancora -ma per poco- la sua strutturazione in immagine. È per noi  il segnale dell’avvenuta conoscenza e dell’accettazione di una nuova concezione dell’immagine che si sta formando e diffondendo in quegli anni e della quale la “nuova visione” costituisce la parola d’ordine, il motto internazionale, che trova nell’esposizione Film und Foto di Stoccarda nel 1929 la propria celebrazione, diffuso in Italia da interventi quali  L’ora presente della fotografia di Wilhelm Kastner, pubblicato ne “Il Corriere Fotografico” dello stesso anno (Zannier, 1993, p.38) e ripreso nel 1931 da un altro torinese, Piero Boccardi, che presenta alla Mostra di Fotografia Futurista una  sua Visione torinese.[55] Se escludiamo alcuni panorami della città dal Monte dei Cappuccini, realizzati per incarico della Fototeca Municipale nei quali il tema ancora una volta è, al di la delle apparenze, la Torino che scompare, opere come Dall’alto, 1933, (RA/83) incarnano consapevolmente gli indirizzi dell’estetica  nuova: “L’importante è il come un oggetto viene considerato -afferma ancora Kastner- in quale posizione si trova rispetto all’apparecchio, da qual punto di vista lo si percepisce”,  al quale fa eco Antonio Boggeri sulle pagine di Luci ed Ombre dello stesso anno quando riconosce tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della nuova fotografia “la scelta del soggetto, la sua illuminazione e il punto di vista dal quale colpirlo” (citato in Luci ed Ombre, 1987,p.110), entrambi intenti a divulgare gli insegnamenti di Lazlo Moholy-Nagy.[56]

I suggerimenti e le suggestioni che gli provengono dalla cultura architettonica sono certo determinanti per il rinnovamento del suo linguaggio fotografico ma a questi deve essere accostato il preciso impegno scolastico che Gabinio assume verosimilmente in relazione alle necessità di aggiornamento che gli derivano dai suoi incarichi professionali. Nonostante abbia alle spalle una carriera quarantennale, sempre vissuta modestamente ai margini della comunità fotografica ma tutt’altro che povera di riconoscimenti, egli si iscrive nel 1928 ai Corsi promossi dalla Sezione Fotografica dell’Unione Escursionisti ALA (“Ad Liberas Alpes”, da non confondere con la più antica Unione Escursionisti Torinesi) che nel secondo semestre del 1933, per iniziativa di circa sessanta membri darà vita alla Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura,  che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana). Tra i vari  scopi l’Associazione   si prefigge di “guidare i Soci attraverso lo studio pratico della fotografia promuovendo manifestazioni culturali (…) esperimenti e dimostrazioni (…); promuovere mostre personali e collettive (…); creare gradatamente il più grande numero possibile di elementi idonei a presentare opere d’arte fotografica alle esposizioni nazionali e, principalmente, a quelle estere dove sempre più dovrà affermarsi l’arte fotografica italiana.” (citato in Avigdor, 1981, p.165) secondo un programma che risente palesemente delle direttive imposte dal regime fascista, qui ben rappresentate dalla figura di Mario Bellavista, consulente tecnico dell’associazione e rappresentante della società Gevaert. A dimostrazione dei consistenti appoggi di cui gode, la stessa Associazione pubblicherà a partire dal settembre 1934 il periodico “Pagine Fotografiche ALA”, stampato in migliaia di copie e distribuito gratuitamente.

Il II Corso, di perfezionamento, che vede tra i docenti oltre a Bellavista anche Alfredo Laezza, Oreste Castagneri e Domenico Riccardo Peretti-Griva, cioè una buona rappresentanza di esponenti della tradizione con alcune aperture “moderniste”,  si conclude nel 1933 con una premiazione da cui Gabinio risulta escluso pur figurando tra gli iscritti, né pare che si debba all’iscrizione all’ALA la sua partecipazione alla “I Mostra di Arte Fotografica del paesaggio e dei monumenti di Aosta e Provincia” del 1932, organizzata da Jules Brocherel e suddivisa in cinque sezioni, (archeologia, arte, folklore, scienza, turismo) che vede tra gli espositori anche Italo Bertoglio, Achille Bologna, Cesare Giulio e Mario Prandi mentre della Giuria fanno parte Cesare Schiaparelli, Emilio Zanzi e Antonio Valli. Gabinio, che partecipa a quattro sezioni risultando  primo classificato in quella dedicata all’archeologia, sceglie di presentare in questa occasione ancora immagini di taglio tradizionale, sia ingrandimenti da lastre realizzate a cavallo del secolo sia riprese nuove, datate al 1931 e 1932 ma compositivamente assimilabili ai canoni ottocenteschi (CN/22) e non a caso premiate e pubblicate. Le caratteristiche delle sue fotografie ricche di dettagli tornano ad essere apprezzate in questi anni di incerto abbandono del gusto pittorialista e Gino Sansoni recensendo la mostra arriva a contrapporre Gabinio “ottimo fotografo molto nitido e preciso, nemico di ogni ricercatezza” al “pizzico di leziosità” di Bologna e in genere di tutti quei fotografi che “per la meticolosa raffinatezza e ricercatezza dell’esecuzione, con l’abuso del ritocco, con l’esagerata sfocatura [si sono] un poco discostati dalla natura forte ed a volte aspra, dei soggetti  prescelti quali sono in maggior parte quelli offerti dalle Alpi aostane”[57], offrendo un esempio di felice sintesi tra estetica fotografica e retorica della razza.

Il successo ottenuto lo spinge certo a dedicarsi con sempre maggior impegno alla ricerca fotografica ed il suo linguaggio subisce proprio in questi anni una trasformazione radicale, ben riconoscibile sia nei lavori professionali sia nelle sperimentazioni personali sebbene -come vedremo- sussistano  una insicurezza di fondo ed un desiderio di  omologazione che gli impediscono di presentare pubblicamente le prove più avanzate, nella consapevolezza della distanza esistente tra queste ed il panorama offerto dalla produzione amatoriale ma anche nella volontà ostinata di voler entrare a far parte, ad ogni costo, della comunità dei fotografi da Salon.

Dopo la grande Esposizione del 1923 Torino vede un susseguirsi quasi ininterrotto di occasioni espositive, prevalentemente nate dalla collaborazione tra il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e la Società Fotografica Subalpina.

Nel dicembre 1925 apre il “Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale” con la partecipazione di 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalano Bragaglia, Sella e Wulz mentre il panorama straniero spazia da Drtikol a Mortensen, a Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo che sconcerta il critico de “La Stampa” Ugo Pavia, il quale dopo l’ennesima riproposizione del luogo comune delle fotografie che “possono essere scambiate per veri quadri” rileva la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  “questi artisti-fotografi futuristi, anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori” mentre giudica negativamente la partecipazione francese (“il materiale inviato è di scarso interesse artistico”) ciò che parrebbe una prima presa di distanza dal gusto pittorialista se non fosse per l’apprezzamento manifestato per l’opera di Léonard Misonne.[58]

Il 1928 vede un pullulare di manifestazioni che si affiancano alla “Esposizione per il IV Centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria” dove il padiglione della “Comunità dei fotografi” è progettato da Gigi Chessa[59], ma la ricchezza delle proposte risulta solo di ordine quantitativo ed il panorama proposto riconferma univocamente la tendenza pittorialista, negando le aperture che avevano caratterizzato il “I Salon”.

Per incontrare proposte diverse si deve attendere il 1930, quando al “Terzo Salon Italiano d’arte fotografica Internazionale”, vengono esposte -pur in un panorama quantitativamente ridotto rispetto alle edizioni precedenti- alcune opere che indicano direzioni nuove di ricerca come Uova, una natura morta di Achille Bologna, Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli e L’onda dell’americano K. Nakamura, un efficace studio di forme derivato dal movimento delle acque, che propone un atteggiamento inedito per il panorama torinese e sul quale Gabinio ha certamente riflettuto, profondamente diverso da quanto teorizzato poco tempo prima da Cesare Schiaparelli, per il quale “l’uomo, il fotografo che va in giro per diletto, si ferma più volentieri presso l’acqua morta. Perché? Perché la vista delle cose immote riposa l’anima e il corpo. E noi, dopo le diuturne e grandi e piccole battaglie della vita, cerchiamo il riposo. E poi è così suggestiva l’acqua che si ferma a dormire all’ombra delle piante nei silenziosi recessi! (…)  Da questo mistico sposalizio della forma della pianta colla superficie dell’acqua ferma, nasce in noi quel senso di intenerimento, di distensione dei nervi, di calma dello spirito che dà la vista delle cose solitarie, immobili e silenti, come l’audizione di un notturno o di una sinfonia in tono minore” (Schiaparelli, 1928, p.293). È  il contrasto tra la quiete piccolo borghese e l’inquietudine dei tempi nuovi, che produce, anche in ambito fotografico, il suo piccolo fuoco d’artificio con la “Mostra sperimentale di fotografia Futurista” che si tiene a Torino nel 1931 dopo la prima, ridotta,  edizione romana dell’anno precedente: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”. La presentazione di Giuseppe Enrie, fotografo torinese che nello stesso anno realizza una nuova ripresa della Sindone,  inquadra bene le spinte contraddittorie e le realizzazioni sovente ingenue che si ritrovano in questa tendenza alla quale molti (Bertieri, Castagneri, Enrie e lo stesso Parisio) sembrano aver aderito in modo episodico, ormai distante dalle tendenze rivoluzionarie espresse del primo futurismo e dalla prime fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, ma il Manifesto della Fotografia Futurista  che Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) lanciano in questa  occasione contiene comunque una serie di suggestioni affascinanti e ricche, che certo hanno contribuito al formarsi in Italia di una nuova concezione della visione: “Il dramma degli oggetti (…) Il dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi. La spettralizzazione di alcune parti del corpo umano (…). La fusione di prospettive (…). La fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso (…) Le drammatiche sproporzioni (…). Le amorose o violente compenetrazioni (…)” (citato in Fillia, 1932, p.101)  costituiscono altrettante nuove, e dirompenti, “possibilità fotografiche” contro le quali si scaglia Guido Lorenzo Brezzo nel testo di apertura dell’annuario del “Corriere Fotografico”  dello stesso 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica. Stabilito che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).” (citato in Luci ed Ombre, 1987, pp.134-135)

Ulteriori segnali di rinnovamento provengono dalle opere presentate al “Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra dilettanti” che si tiene sempre a Torino nel maggio-giugno 1933, con presenze interessanti come Ferruccio Leiss, Fosco Maraini, Alfredo Ornano e Bruno Stefani, oltre ai cecoslovacchi Jan Lauschmann e Jiri Jenicek. Per Italo Mario Angeloni, che la recensisce sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” “c’è in questa Mostra il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso” (Angeloni, 1933, p.252) ma anche, almeno per i migliori espositori italiani, la preoccupazione per  un problema: “quello della semplificazione”.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi,  sempre sulle pagine di Luci ed Ombre, Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”.[60] Sono termini (e forse concetti) che si prestano  a sottili slittamenti di senso, ciascuno dei quali connota -e distingue in parte- le diverse posizioni. Così l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire” e Luigi Andreis, poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale” rivelando infine l’ideologia nazional-popolare sottesa, che si traduce in  richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926 -ciò che sembra inserire rimandi ad un’estetica diversa e lontana da quella a cui si ispirava ad esempio Boggeri- la necessità di “inquadramento sindacale delle forze artistiche ed intellettuali” allo scopo di “creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.”[61]

 

La trasformazione del linguaggio fotografico di Gabinio nel corso degli anni Trenta risente e riflette queste diverse influenze, in qualche modo assumendole e conciliandole contraddittoriamente nella propria opera.

Già si è detto del ruolo, importante, della cultura delle riviste di architettura ma nelle sue fotografie troviamo anche riferimenti e rimandi espliciti ad opere presentate alle mostre torinesi. Un primo esempio palese è La macchina da caffè (B106/54), insieme autoritratto e registrazione analitica del fascino moderno del metallo cromato della macchina, che costituisce una citazione quasi letterale de La tazza di caffè che Giulio Parisio presenta alla “Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista” del 1931, visitata da  Gabinio forse in compagnia di Oreste Castagneri, presente con tre opere e suo docente alla Scuola Fotografica ALA, ma anche l’altra coppia di autoritratti, più tarda,  (B103/27, B106/75) pur richiamandosi alle distorsioni anamorfiche di Louis Ducos du Hauron  e di Léon Gimpel, vive dello spirito ‘sperimentale’ della fotografia futurista.  Meno semplice risulta ricostruire la sequenza di rimandi che lo porta a realizzare la fotografia dei Due lattonieri su di una scala (B102/101) dove  i riferimenti evidenti vanno cercati  ben oltre i confini torinesi e italiani, e sono Moholy-Nagy (Navigazione, 1926-27) e soprattutto Rodcenko (Sulla grande scala, 1927)  anche se -come rilevava Andreina Griseri in tutt’altro contesto- anche noi possiamo dire che semplicemente “poteva aver captato un esempio eccitante, un’idea decisiva, sul filo della concentrazione (…). Dire «poteva aver estratto» toglie ogni legame di necessità all’ispirazione, ogni derivazione precisa da fonti: era il legame che unisce chi appartiene ad una cultura complessivamente unitaria, parla il medesimo linguaggio artistico, e lavora verso direzioni non contrastanti.” (Griseri, Gabetti, 1973, p.66)

Queste realizzazioni convivono con altre di impianto meno radicalmente innovativo ma ormai saldamente ancorate al moderno, quel recupero della fotografia pura che per Gabinio è solo consapevolezza nuova di una forma espressiva mai abbandonata. I due ritratti della  Ragazza col gatto  (B111/19) e dell’Uomo al mercato (P38/19) sono esempi riusciti di quel processo di semplificazione riconosciuto come elemento sostanziale della nuova fotografia, mentre dai contemporanei ritratti del compagno delle ultime  escursioni (B120/107, B106/50)  trapela una attenzione, una cultura d’immagine che tiene conto delle più autorevoli esperienze della scena pittorica torinese, senza per questo porsi alcun obiettivo di imitazione o di rifacimento.

È una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che si ritrova anche nelle immagini dedicate alle acque,  tema a lui caro fin dalle prime fotografie di cascate alpine realizzate sul finire del secolo. Basta confrontare il fascino melanconico della Veduta della città dal Po (RA/47), sapientemente sottolineato da un appropriato viraggio, con la bella serie -realizzata nello stesso sito- dei gorghi alla diga Michelotti (B92/44-50) dove l’indagine assume la forma della variazione sul tema del contrasto tra la fissità della struttura metallica e  le forme continuamente cangianti dell’acqua, quelle stesse che  ritroviamo ancora in Po,  1935 (RA/76), rappresentazione di quell’”acqua catramosa, rapida in improvvisi luccichii”  che avrebbe descritto Giovanni Arpino molti anni dopo.

L’attivissima Associazione Fotografica ALA ha tra i propri scopi quello di “contribuire fattivamente all’ascesa culturale e organizzativa dell’amatore fotografo italiano che dovrà fascisticamente riuscire, in brevi anni, a conquistare quel posto che gli spetta nel campo delle competizioni artistiche internazionali”[62] e l’adesione consente a Gabinio di partecipare fin dal 1934 alle esposizioni di Sopron in Ungheria, Stoccolma e Vienna[63] con una decina di opere che rappresentano un panorama esauriente del suo nuovo corso, dalla riproposizione in senso luministico di soggetti già affrontati nel decennio precedente come Austerità (RA/80), alle immagini caratterizzate dalla ‘modernità’ del punto di vista come Dall’alto (RA/82) sino al tema per lui nuovo della natura morta, specialmente di frutta e verdure riprese al mercato, genere che gode di grande fortuna nella produzione pittorica di questi anni ma qui affrontato sulla scia di Achille Bologna, che realizza immagini con identico trattamento del soggetto: non composizioni in studio ma “oggetti trovati” e rielaborati fotograficamente in fase di ripresa e soprattutto di stampa. Il soggetto viene progressivamente isolato, reinquadrato mediante maschere in carta leggera, ricavate da fogli di quaderno, che consentono anche rotazioni dell’asse compositivo, per “forzare lo sguardo all’arresto” (Marbot, 1989, p.151)  ed esaltare il motivo, sottolineato ancora dagli ultimi e definitivi interventi legati alla scelta della carta ed ai viraggi di intonazione cromatica, alla ricerca di un preziosismo anche materico della stampa finale (RA/30) che costituisce per Gabinio una concessione tarda al pittorialismo.

La partecipazione prosegue nel 1935 (Bruxelles, Londra, Johannesburg, Ottawa, Parigi) ma le opere presentate testimoniano l’emergere dell’attenzione per soggetti diversi: dalla sontuosità quasi barocca delle Uve e delle Pesche si passa alle “cose più modeste e comuni” di cui parlava Boggeri nel 1929, “interpretate con desiderio di penetrarne la segreta personalità, la solitaria poesia” (citato in Luci ed Ombre, 1987, p.111). Sono le Maioliche (RA/21) e i Piatti (RA/19) presentati alla “Prima esposizione fotografica sociale ALA”, inaugurata il 15 marzo 1935 nei locali del Salone della “Stampa” alla presenza del Vice Segretario Federale Ing. Cavallari Murat, accompagnato da Alfredo Laezza, Cesare Schiaparelli ed Edoardo Rubino. L’insieme delle  189 opere di 41 autori diversi è caratterizzato dall’eclettismo delle tendenze e dal sincretismo delle opere: “C’era una infinita gamma di personalità che colpiva enormemente anche come problema psicologico. Molte delle opere esposte destavano una ben viva curiosità di conoscere personalmente l’artista, per ricercare in esso l’anima dell’autore” afferma Peretti-Griva nella breve presentazione al catalogo prima di passare in rassegna le immagini più significative, senza peraltro riferirsi esplicitamente ai singoli autori. “Ecco [di Gabinio] gli umili  piatti in fila, che attendono l’umile acquisitore dall’umile mensa, che stanno a individualizzare col linguaggio, talora terribile, delle cose inanimate, tutta una vicenda sociale”[64]. Già Avigdor ha fatto a suo tempo notare come Peretti-Griva sia “molto lontano dal cogliere la novità dell’operazione”, questo taglio diagonale della composizione che si richiama senza indecisioni alla nuova fotografia, ma la questione appare più complessa, e certo la nostra valutazione va fondata, per quanto possibile, sulla considerazione e sulla comprensione dello sguardo coevo, sulla compresenza di tendenze e interpretazioni che possono apparire contraddittorie e tenendo conto anche della concezione, nostra, di un moderno a tutto tondo che costituisce uno dei miti,  quindi  una delle mitologie del secondo Novecento.

“Quanto più la crisi dell’attuale ordinamento sociale dilaga -dice Benjamin nel 1931- e quanto più i suoi singoli momenti si oppongono rigidamente secondo una morta contraddittorietà, tanto più la creatività -che nella sua sostanza più profonda è una variante, figlia della contraddizione e dell’imitazione- diventa un feticcio, la cui fisionomia vive soltanto in virtù dei cambiamenti dell’illuminazione, determinato dalla moda. Il mondo è bello: questo è il suo motto. Questo motto smaschera l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la totalità del cosmo un qualunque barattolo di conserve, ma non è in grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si presenta e che così, anche quando affronta i soggetti più gratuiti, è più una prefigurazione della loro vendibilità che della loro conoscenza” (Benjamin, 1966, p.75). L’attacco portato alla fotografia pubblicitaria così come alla “Nuova Oggettività” ed a Renger-Patzsch in particolare, noto anche in Italia almeno per la sua partecipazione alla “Mostra internazionale della fotografia” di Milano del 1933,  riporta in primo piano la questione della relazione forma-contenuto o meglio le possibilità e intenzioni, di produzione e lettura critica, delle immagini in termini narrativi o puramente compositivi. Peretti-Griva, non riconoscendo la novità della forma e sottolineando il significato del contenuto, attribuisce a quell’immagine il valore di una “fotografia costruttiva”, avvicinandosi forse maggiormente, più di quanto noi non si sia in grado di fare, alle intenzioni di Gabinio, che nel 1932 aveva intitolato Umiltà un’altra fotografia di stoviglie (RA/20).[65]

Il problema della comprensione critica della sua produzione ultima è reso più complesso, meno facilmente risolubile, dall’analisi di altre serie fotografiche coeve, più esplicitamente derivate da una ricerca formale aggiornata sulle più avanzate esperienze europee degli anni Venti e mai proposte in esposizioni o concorsi ma da lui stesso raccolte in una cartella di “Saggi scelti” che porta la data del 23 aprile 1936. Sono, insieme a quelle già segnalate, fotografie tutte costruite su forti elementi di geometrizzazione del soggetto, ottenuti vuoi per astrazione di un dettaglio, come il particolare del portale della nuova sede della Cassa di Risparmio di Torino (B65/9), a partire dal quale realizza un puro esercizio stereometrico, un’analisi dei rapporti tra luce e volume in cui la materia perde la propria rilevanza e le relazioni contestuali sono annullate, vuoi giocando sulle relazioni grafiche tra linee del soggetto e margini dell’inquadratura, come nelle riprese dello scalone della chiesa della Gran Madre di Dio (B76/166, 169), che richiamano, forse attraverso la mediazione di Bologna e Bertoglio ma qui in modo più graficamente preciso, una delle serie più note di Rodcenko, realizzata nel 1930.[66] Accanto a queste, e nello stesso ambito di influenza tra costruttivismo e nascente fotografia pubblicitaria, vanno poi collocate fotografie come Lavori per la posa di cavi, 1930c. (B106/4) e le Reti metalliche, 1935c. (B106/52), così come il gioco di riflessi e rimandi iconici della Vetrina, 1930c. (B84/7), raro esempio di attenzione per i segni della cultura urbana letta nella sovrapposizione delle sue tracce, nella costruzione dell’immagine per compresenza di segni che deriva  dalla tecnica del collage e del fotomontaggio.

I segni più evidenti di una riflessione avanzata sulla fotografia, le reali “nuove visioni” prodotte da Gabinio, si ritrovano nel gruppo di immagini che hanno esplicitamente per tema la luce, progressivamente riconosciuta quale esplicito fondamento costitutivo del linguaggio fotografico. Le prime prove risalgono alla metà degli anni Venti e già indicano un passaggio significativo da una concezione della luce quale  segno simbolico, come nell’Interno della chiesa dei Santi Martiri (B77/11), alla luce come valore autonomo, segno autoreferenziale che ritroviamo nell’astrazione del ritmo luminoso ricavato dal buio di una casa a ballatoio (B83/24) e nelle due vedute dal Lungo Po (B91/64, 65) nelle quali, contrariamente a quanto accade per i più consueti notturni, la traccia luminosa dei lampioni sull’acqua si trasforma in puro elemento di modulazione della superficie fotografica, liberato da ogni contingenza, posto a confronto con un segno di luce tracciato dal fotografo di fronte all’obiettivo; una dichiarazione palese, nel corpo dell’opera, dell’autonomia dell’immagine fotografica. La ricerca prosegue con la ricca serie realizzata nell’atrio ottocentesco di palazzo Carignano il giorno di Natale del 1932 (RA/87, 88). Qui i raggi luminosi trasformano percettivamente lo spazio modificandone la figurabilità, si sovrappongono al disegno degli elementi architettonici facendone emergere alcuni e relegandone  altri in masse appena distinte, segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico, condotta analizzando le sottili variazioni introdotte dal modificarsi di uno solo dei due termini del discorso, la luce appunto, mentre la scena architettonica rimane sostanzialmente immutata e trattata secondo i più rigorosi canoni previsti dal “genere”: nessun punto di vista inconsueto, nessun taglio forzato, affinché tutta l’attenzione possa essere concentrata sulle modulazioni luminose.[67]

Questa ricerca prosegue ancorandosi liberamente a precise occasioni di committenza come in Sera sullo stadio, 1933-35 (RA/92),  o nella serie sul sottopasso al Lingotto, 1933 (B80/25, B80/36), nella quale cade ogni distinzione tra documentazione e sperimentazione formale, questa applicandosi a quella nella produzione di pura fotografia.   La raggiunta consapevolezza della propria padronanza linguistica è evidente nei diversi passaggi che conducono dalla ripresa alla stampa finale della veduta di Via Pietro Micca vista in controluce dall’alto, del 1933 (RA/84) che rimanda senza incertezze a opere quali  Unheimliche Strasse I  di Umbo (1928) e Kleiner Platz in Alt-Berlin di Raoul Hausmann (1931). L’originaria ripresa dall’alto di Palazzo Madama  viene tagliata per eliminare la striscia di cielo ed accrescere il peso delle masse nere, incombenti, dei palazzi così da accentuare l’isolamento della piccola figura in primo piano, presenza umana priva di fisionomia riconoscibile, ai margini della moderna città delle macchine.

E’ un esempio compiuto di quella fotografia contro cui si scaglia Alberto Savinio dalle pagine della “Stampa”: “Cominciò il diabolico settentrione a dare un’anima alla fotografia, un cervello, un cuore, e nacque la fotografia ‘pensosa’. Si scrissero libri interi di sole fotografie, i ‘soggetti’ si ridussero a uno schematismo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’alto. L’ombra portata conobbe i maggiori successi.”[68]

1 Giro di giostra/ Zeppelin, del 1934 (B106/21) costituisce il risultato più compiuto e complesso delle ricerche di Gabinio sul tema della luce, che qui si fa generatrice di un volume, di un solido di rotazione tutto virtuale, ricollegandosi idealmente alle prime prove degli anni Venti ma  con una ricchezza di intuizioni che richiama alla mente le esperienze, più fredde, condotte in ambito Bauhaus nel corso di Walter Peterhans o i notturni di Hilde Hubbuch. È questa un’opera che appartiene di diritto alla “nuova cultura della luce” di cui parla Moholy-Nagy: “Questo secolo appartiene alla luce. La fotografia è il primo mezzo per dare forma tangibile alla luce, anche se in una forma trasposta e -forse proprio per questo- quasi astratta.” (citato in La fotografia al Bauhaus, 1993, p.117)

 

 

Lo scarto tra queste ricerche, avanzate e segrete, e la produzione inviata ai Salon si fa stridente, il divario enorme. Nel 1936, se si esclude la partecipazione all’esposizione che si tiene alla City Art Gallery di Durban con Carezze di sole, la sua attività sembra dedicata esclusivamente  alla produzione professionale per conto della rivista “Torino” e solo l’anno successivo riprende la partecipazione ai Salon (Torino, Metz,  Parigi, Chicago) presentando le consuete nature morte di frutta e di oggetti.[69]

La sua morte, avvenuta il 19 aprile del 1938 per complicanze prodotte dalla nefrite cronica di cui soffriva da tempo, passa inosservata nel mondo della fotografia torinese e Gabinio viene ricordato solo dal necrologio pubblicato dal Club Alpino Italiano mentre le sue immagini continuano ad essere sporadicamente utilizzate, anonime, dalla rivista “Torino”.

 

 

L’oblio in cui giace la sua figura cade parzialmente nel 1974 in conseguenza della mostra Torino anni ‘20: documentazione fotografica da materiali di Mario Gabinio promossa dalla Fondazione Agnelli e curata da  Giorgio Avigdor ed Enrico Nori a partire da una segnalazione di Andreina Griseri, e dalla successiva pubblicazione del volume omonimo con scritti di Aldo Passoni ed E. Nori. La definizione del titolo e gli stessi commenti -tra il nostalgico ed il rancoroso- raccolti sul registro dei visitatori danno l’esatta misura del senso dell’operazione: il tema è Torino, la fotografia è una finestra trasparente e magica, aperta su di uno spazio antico, passato, col quale si può entrare in comunicazione solo attraverso lo strumento della nostalgia. Di Gabinio quasi nessuna traccia, se non le varie e fantasiose considerazioni aneddotiche fornite da Nori alle quali pone un argine il bel testo di Aldo Passoni che individua alcuni elementi chiave del suo atteggiamento (“Gabinio, che non ha il gusto della critica”) rilevando anche le connessioni con certa produzione figurativa coeva, da Boglione a Mennyey, a certe periferie di Umberto Boccioni e di Italo Cremona, la Torino disabitata, colta sulla soglia di radicali trasformazioni, che faceva pensare ad Atget, che altri invece interpretano come una “città che muore e che avrà la sua necropoli nelle fosse scoperte di via Roma” (Carluccio, 1974, p.9) in un saggio suggestivo ma fondato su di una coincidenza equivoca, quella tra l’opera di Gabinio e le immagini presenti in mostra, accortamente scelte e scenograficamente presentate per parlare in un certo modo di una certa Torino, non del fotografo. Lo ha ben compreso allora Paolo Fossati, che registra l’impossibilità di far coincidere il sentimento di Gabinio con l’angoscia della scomparsa cogliendo “un attimo di stupore che va ben oltre la nostalgia per un ‘vecchio’ ordine distrutto (…). Sicché la tesi che ora si accredita nel libro è fatta per non convincerci, un immobilismo di fondo, culturale e morale, di Gabinio di fronte alla città in sviluppo” (Fossati, 1975). È questa l’occasione anche per riconoscere e sottolineare -nelle parole di Andreina Griseri- il ruolo fondamentale svolto dai fotografi nel documentare la storia della città, letta da Gabinio “come una natura morta di oggetti (…) fedele ad un realismo di presenze sempre rapportate a un ambiente teso, spesso disabitato o quasi (…) [indagato] con un segno che rinuncia per fortuna nostra ad ogni inflessione dialettale, approdando ad un paradigma angoscioso.” (Griseri, 1974)

All’esperienza della mostra del 1974 si ricollega esplicitamente -mutandone però radicalmente l’impostazione-  la monografia scritta da Giorgio Avigdor alcuni anni più tardi (1981)  fondata anche sulla conoscenza diretta di documenti di prima mano, oggi purtroppo in larga parte non disponibili.

La competenza dell’autore, studioso di storia della fotografia e fotografo egli stesso, consente per la prima volta di delineare la complessità della figura di Gabinio collocandola nella necessaria trama di relazioni con le culture fotografiche del suo tempo, presentando  un primo corpus di immagini che rende evidente la complessità della sua opera e le profonde trasformazioni del suo linguaggio fotografico, pur nella consapevolezza che “certamente c’è molto altro da scoprire, da conoscere e quindi da dire…”.

 

Abbiamo raccolto l’invito.

 

Note

 

[1] “Va su per le ripide costiere con una sua gabbietta a fotografie (…) ha qualcosa in sé dello scoiattolo di montagna” (Piasco, 1896, p.83). “Per immaginarselo bisogna pensare ad un frammento di roccia miracolosamente staccato dal massiccio materno e divenuto parte vivente di quella gigantesca famiglia di culmini. Della natura primitiva trasformata in essere umano, non è rimasta che una figura vigorosamente delineata, con lineamenti disarmonici, che tuttavia non fanno impressione sgradevole, una rozzezza non priva di grazia (…) La sua poesia però è tutta nella macchina, compagna fedele delle grandi ascensioni”, (M.B. [ Mario Borani?], 1904, citato in Avigdor, 1981, p.29).

L’apparecchio a cui si fa riferimento potrebbe essere  la Simplex-Roll Camera di Krügerer, compresa nel lascito Marcellino Alessio del 1968; una detective-box in legno, reflex biottica (ma priva di obiettivo da ripresa), per pellicola in rullo nel formato 120 (1890 post), che costituisce un adattamento della precedente Simplex-Magazine del 1889, con magazzino portalastre. La matricola dell’apparecchio di Gabinio, il solo a noi pervenuto, porta il n.2427.   Nel  Fondo è conservato anche l’ingranditore ICA per il formato 9×12, a messa a fuoco automatica, matricola n.76997, dotato di obiettivo ICA Novar Anastigmatic 1:6,8, f =  13,5 cm, matricola n.669397, che Gabinio acquista forse dopo il  1930, anno in cui -con la morte della madre- si ritrova solo nell’appartamento di via Avogadro, 9.

 

[2] “Ogni volta che qualcosa di Torino “moriva” l’ultimo conforto (così egli soleva dire) gli veniva da lui portato (…).Seguiva con attenzione ogni mutamento edilizio ed urbanistico: il vecchio raffrontava poi al nuovo e di ogni risanamento sapeva cogliere il lato artistico e quello pratico insieme” (Alessio, 1939, p.37).  Questo articolo  deve essere messo in relazione col tentativo, condotto dai fratelli  Ugo ed Ivan Alessio  di vendere al Comune di Torino  le lastre ricevute in eredità dallo zio.  La proposta viene prima fatta alla Fratelli Alinari, che suggerisce di rivolgersi al Comune di Torino, e quindi  alla sezione torinese del CAI sottolineando opportunamente ogni volta i possibili motivi di interesse per ciascun destinatario, ma entrambi declinano. Dopo un primo rifiuto (7 giugno 1939) ed una lunga trattativa relativa alla valutazione economica, il podestà di Torino delibera l’acquisto dell’eredità Gabinio in data 17 giugno 1940, cfr. i documenti relativi in Avigdor, 1981, pp.174-179. Il perfezionamento dell’acquisto potrebbe non essere estraneo al ruolo svolto da Ivan Alessio, dipendente dell’Ufficio Tecnico Municipale ma soprattutto Comandante della Centuria Sportiva delle Camicie Nere della I Legione (Alessio, 1936).

 

[3]Eco, 1990, p.110. L’utilizzo semplificato e strumentale che qui viene fatto delle categorie analitiche definite da Eco presuppone ovviamente una accettazione della definizione generale di testo quale “trama comunicativa”, a prescindere dalle specificità dell’ambito  della comunicazione visiva ed in particolare dai problemi posti dalla interpretazione semantica e semiotica della fotografia.

 

[4]Al 1889, data delle prime immagini realizzate citate in apertura, Gabinio ha 18 anni  e  da due è entrato a far parte della Amministrazione delle Ferrovie dello Stato prima di poter terminare gli studi, in conseguenza della morte del padre, già funzionario delle ferrovie, avvenuta nel 1887. Le condizioni della famiglia, certo non floride, non sono comunque tali da impedire alla sorella Ida (1872-1931) di diplomarsi maestra di ginnastica ed al fratello Ernesto (1875-1944) di laurearsi in farmacia.

 

[5]Cfr. Maiullari, 1988; Banti, Meriggi, 1991; Per una analisi della principale e più nota di queste associazioni di massa, il Touring Club Italiano cfr. Ottaviano, 1986;  per i rapporti intensissimi tra TCI e fotografia cfr. Zannier, 1991.

 

[6]”L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Sono soci dell’Unione Escursionisti Torinesi  negli anni immediatamente successivi la fondazione architetti come Mario Ceradini ,  Gottardo Gussoni (direttore del periodico dell’associazione del primo numero, 1899, al 1907),  Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione è poi sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine dell’ “Escursionista” si  incontrano anche i nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

 

[7]Bonardi, 1898, p.232. L’interesse di Bonardi per la fotografia è discusso in Costantini, 1990, p.72 passim.

 

[8]Cfr. Rivoir, 1992, p.18, p.130. Il primo panorama alpino realizzato da Gabinio con mezzi ancora inadeguati è quello della valle del Gran San Bernardo (A17/85) datato 1889. Per una storia generale del panorama come genere cfr. Bordini, 1984. In particolare le connessioni tra montagna e panorama sono già ben presenti in De Saussure, 1776 (ibidem, p.31-32 e nota 7 p.40);  per le prime realizzazioni fotografiche cfr. Garimoldi, 1995, pp.15-18.

 

[9]Quindici di queste immagini, tratte dall’album di proprietà della “Società Ginnastica” che non ci è stato consentito di consultare in questa occasione, sono state pubblicate in Gilodi, 1978, pp.IX-XX. La serie completa di 21 lastre in formato 13x 18 è conservata nel Fondo Gabinio (Sc.182/Ri) mentre 12 stampe a contatto sono comprese nell’album  Ritratti =Gruppi =/ Ginnastica =/ 16. Sul tema dell’educazione fisica femminile a Torino nell’Ottocento cfr. Giuntini, 1995 da cui si ricava (p.426) tra l’altro che Ubaldo Valbusa, membro dell’Unione Escursionisti ed uno dei più assidui compagni di Gabinio, pubblica Ginnastica da camera, massaggio e nuoto. Torino: Lattes, 1910. Di  Valbusa va ricordata anche l’attività di fotografo alpino, cfr. Rivoir, 1992, p.126, p.134-135.

 

[10]Reynaudi, 1896. La collaborazione tra Gabinio e Reynaudi nasce certamente nell’ambito dell’Unione Escursionisti, della quale fa parte anche l’architetto Ceradini, che proprio  per queste guide disegnerà le copertine, presentate alla I Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna  di Torino nel 1902,   e realizzerà alcune tavole nel testo. Diamo di seguito l’elenco cronologico delle collaborazioni di Gabinio alle  guide Reynaudi, indicando tra parentesi il numero di immagini pubblicate nelle prime edizioni di ciascuna, rilevando però che  nelle edizioni successive molte di queste fotografie vengono ripubblicate anonime e con un diverso ordine di presentazione:  1896 (sei); 1903 (trentasette); 1905 (dieci); 1906 (una); 1910 (sei).

 

[11]Alla Esposizione partecipano tra gli altri Guido Rey, Giulio Roussette, Vittorio Sella, Luigi Primoli, Giovanni Varale di Biella   “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese, cfr. “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 1895. La partecipazione di Peliti a questa Esposizione non era sinora stata segnalata, cfr. Federico Peliti, 1993, p.19 passim.

 

[12]Brocherel, 1898,  dedica un intero paragrafo del capitolo XV al tema de “La fotografia sulle Alpi”, in cui accanto ad una serie di indicazioni tecniche si ritrovano attacchi sprezzanti al costume della nascente fotografia di massa ed una serie di prescrizioni  relative a “La veduta [che] deve riescire d’un aspetto armonico ed artistico e dare tutti i dettagli rilevanti”. Da segnalare inoltre l’invito -proprio della più avanzata cultura fotografica dell’epoca- a far si che “il dilettante cerchi sempre che il suo lavoro riesca di qualche utilità [sottolineatura nostra] alle scienze, e lo si può senza scemare la soddisfazione che si ripromette dalle sue non poche fatiche. La geologia, la glaciologia, la topografia, i bradisismi ed i fenomeni tellurici in genere abbisognano della fotografia.”, p.292.

 

[13]Compresa nell’album Autori diversi/ Vedute alpine, etc./ 1a parte/ 26 (A26/4); il passo del Monte Moro costituisce uno dei più noti  e celebrati punti panoramici  dell’arco alpino occidentale, cfr. Garimoldi, 1995, p.25. Gabinio possiede complessivamente quattordici  fotografie di Sella; di un’altra, non reperita, si ha traccia nell’unica  lettera inviata da Sella a Gabinio: “Biella 20 Ott. 98/ Eg.o  Collega/ Le mando le tre copie della/ fotografia n.1685 [Grivola, Grivoletta e ghiacciaio del Trajo, 1894]  e Le sono grato/ di spedirmi L.4.50 per cartolina-vaglia./ Con  saluti  cordiali/ suo dev.mo/ V. Sella”, (Fondazione Sella, Biella, Fondo Vittorio, Copialettere dal 3-5-1897 al 31-12-1898, p.50, n.421), verosimilmente da mettere in relazione con l’ascensione che Gabinio compie nello stesso periodo, documentata da una ricca serie di stampe.

Lo schema compositivo che prevede la collocazione in primo piano di una o più figure di fronte al panorama, di derivazione  romantica, è tipico della fotografia a cavallo dei due secoli (Sella, Rey, Lamy, Gabinio ed altri) e corrisponde ad una fase in cui l’esperienza del panorama non è più eccezionale senza essere ancora divenuta pratica massificata dal turismo.

Nella collezione Gabinio sono presenti , insieme a due riproduzioni da Vittorio Besso, anche 475 stampe originali di Anonimo e di Mario Balloira, V.Baretta, A.Basso, Avv. G. Belli, Giovanni Bollani, Bossola, Brogi, Bugelli, Giovanni Caracciolo, Avv. Carbone, Mario Ceradini, E.Chirali, Luigi Costa, Bobbio Crau, Giovanni Cravero, E.Curione, O.Debernardi, Ducretet, Giovanni Elia, L.Elia, O.Elia, Giuseppe Enrie, Giuseppe Facciotti, V.Ferrari,  Federico Filippi, Funch, Luigi Galleani, C.Galli, C.Giacchino, O.Giudice, Anselmo Giusta, Cesare Grosso, F.Guidetti, Gottardo Gussoni, Adolfo Hess,  Paolo Kind, Cesare Lucca, R.Marchetti, A.Mennyey, Luigi Minetti (Studio SLIFT), Felice Mondini, Agide Noelli, Peluffo, Angelo Perotti , Secondo Pia, Teresio Piasco, Benedetto Porro, Carlo Reynaudi, H.Rinck, Michelangelo Scavia, Vittorio Sella, Diana e Bianca Stella, Giuseppe Tavella, Tonelli, Emanuele Elia Treves, Trionfi, Ubaldo Valbusa, Wehrli (ed.), Ernesto Zoppis. E’ interessante notare che Gabinio possedeva anche un piccolo gruppo di lastre di autori diversi (Fondo Gabinio, lastre, scatola 58/Gs). Per le notizie relative ad alcuni di questi fotografi si rimanda al puntuale apparato di schede in  Miraglia, 1990, ad vocem.

 

[14]Questa immagine si inserisce perfettamente nel genere delle “Scene di vita e di lavoro” che tanto successo aveva nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo, “Il Progresso Fotografico” in particolare in cui vennero pubblicate sotto questo titolo immagini di autori tra loro diversissimi quali Von Gloeden e Tarchetti, cfr. Cavanna, 1990; Miraglia, 1990, p.75 passim.

 

[15]Si confronti ad esempio la  fotografia di Piazza Solferino, datata 1927, (B41/1)   con la veduta di Piazza S. Gioanni  litografata da D. Festa da un  disegno di Enrico Gonin del 1835, verosimilmente nota a Gabinio almeno dal 1902 , quando cura con Luigi Galleani la proiezioni delle diapositive a corredo della conferenza di Alberto Viriglio dedicata ad Una escursione attorno ed a traverso alla vecchia Torino, tenuta il 17 aprile al Politeama Gerbino per iniziativa dell’Unione Escursionisti e comunque pubblicata nel 1923 in un album tipografico di grande diffusione (Rossi, 1923, s.n.). Rare sono queste immagini nel Fondo Gabinio della Galleria Civica mentre  una serie significativa è stata pubblicata in Avigdor, 1981, tavv. 62-65.

 

[16]Sezione IV del IV Concorso,  cfr. “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio. L’Unione Escursionisti espone “nella categoria dei paesaggi e gruppi gran parte del materiale che era raccolto nella sede a ricordo di tutte le escursioni compiute” accanto a lavori di maggior impegno quali la serie di Gabinio e la riproduzione degli affreschi della sala del castello della Manta, realizzata da Gottardo Gussoni. Una immagine del padiglione dell’Unione Escursionisti è pubblicata in Avigdor, 1981, tav. VI, ma con datazione al 1898.

 

[17] Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville ed oltre alla ben nota produzione di Vittorio Besso, che non assume però esplicitamente la forma dell’album dedicato alla città in cui opera (Biella) numerose sono a partire dagli anni ‘70 dell’800 le produzioni documentarie commissionate dalle diverse municipalità, da committenti o sottoscrittori privati ma più sovente realizzate dagli stessi fotografi a scopo promozionale, cfr. Cavanna, 1992. La novità d’impostazione del lavoro di Gabinio, la sua qualità di “documentazione artistica”, è stata rilevata anche da Marina Miraglia (1990, pp.72-73; tavv. 163-166) sebbene a partire da immagini che appartengono ad una fase molto più tarda della sua produzione, riferibile piuttosto ai primi anni Trenta. Solo in questo contesto sono condivisibili le osservazioni relative alla capacità di Gabinio di leggere la “complessità e continuità dell’aggregato urbano” , mentre non pare verificabile l’ipotesi che egli abbia  puntato “il proprio obiettivo sulla classe dei lavoratori, riprendendone a distanza ravvicinata volti, espressioni, gesti e sorrisi. Sembra quasi che egli abbia colto (…) soprattutto la forza diversa del proletariato”

Colgo l’occasione per segnalare che anche la fotografia di Carlo Nigra Torino, fontana nella piazza del Borgo Medioevale, (tav.138) datata dubitativamente 1884?, va più correttamente collocata almeno al 1928, anno in cui la copia della fontana del melograno del castello di Issogne, realizzata per l’Esposizione romana del 1911, venne collocata nella piazza del Borgo.

 

[18]Edmondo De Amicis, La città, 1880, citato in Comoli Mandracci, 1983, p.209.

 

[19]Ferrari, 1900. Nel testo è contenuta anche una interessante “classificazione”: “Questa grande famiglia -dice Ferrari- come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”.

Nell’ambito dell’Esposizione la Sezione III, dedicata alle “Riproduzioni di monumenti, dipinti ed oggetti d’arte antica e moderna” comprende lavori di Ernesto Forma, Alberto Grosso, Charvet e Tamagnone di Torino oltre a Pietro Santini di Pinerolo, ma non risultano presenti Secondo Pia, Vittorio Ecclesia, due tra i principali operatori piemontesi del settore. Nella Sezione IV, dedicata un poco confusamente ad “Interni, vedute, paesaggi” si segnalano Guido Accotto, Annibale Cominetti ed appunto Gabinio, al quale Pietro Masoero dedica una lusinghiera segnalazione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”: “Un’altra esposizione collettiva è quella dell’Unione escursionisti di Torino, interessante nel complesso. È l’illustrazione dell’escursione in tutte le forme, e fra fotografie di poca importanza tecnica ve ne sono alcune molto buone. Tra queste le riproduzioni interessantissime di Mario Gabinio Torino che scompare.” (Masoero, 1900, p.282). Lo stesso Masoero, uno dei personaggi più interessanti della fotografia   italiana tra i due secoli, sarà la guida artistica dell’Unione Escursionisti nel corso della gita a Vercelli e Palestro del 1912, cfr. “L’Escursionista”, 14 (1912), n.6, maggio.  L’opera e la figura di Masoero sono state in parte presentate e discusse in Cavanna, 1985; Id. 1986; Costantini, 1990, p.22 passim.

 

[20]Brayda, 1900. Limitatamente alle sole architetture medievali Gabinio ripercorre lo stesso cammino tracciato da Secondo Pia negli anni immediatamente precedenti (1894-1896), ma risulta assente nel catalogo delle riprese di questo fotografo (Borio, Falzone del Barbarò, 1989, pp.130-132) il palazzo dei conti Ponte di Scarnafigi e Lombriasco in via Genova, al quale Brayda dedica così grande attenzione, ciò che sembra indicare per l’ingegnere qualcosa di più che il ruolo di semplice ispiratore nella genesi di Torino che scompare.

Le vicende legate alla demolizione della Casa del Vescovo (1900)  e l’intervento di poco precedente (1897) relativo agli affreschi di Sant’Antonio di Ranverso sono testimonianza precisa dei dissapori tra Riccardo Brayda ed Alfredo d’Andrade, originati certo da rivalità personali e professionali che datano dagli anni di formazione del progetto per il Borgo Medievale (1882-1884) ma soprattutto legati a due diverse concezioni della politica di tutela  e restauro del patrimonio storico torinese. Cfr. Bertea, 1914; Alfredo d’Andrade, 1981; Viglino Davico, 1984; Donato, 1993.

Nella pubblicazione della seconda serie di immagini sul numero del 1 aprile 1900, il redattore conferma il giudizio positivo sul senso da assegnare a questa campagna di documentazione: “Ci pare opera buona ed utile il registrare così, per via di documenti che potranno servire ai futuri storici dell’arte o della topografia torinese, alcune fra le cose più interessanti sia dal punto di vista estetico, sia da quello di una semplice curiosità: tanto più che siamo sicuri di porre non pochi fra i nostri lettori torinesi in grado di scoprire nella loro città bellezze pittoriche, le quali a moltissimi sono perfettamente ignote”.

Ancora nel 1934, in occasione dei lavori relativi alla realizzazione di via Roma nuova, la rassegna municipale “Torino” pubblica una rubrica fotografica intitolata La città che scompare nella quale peraltro non sono comprese immagini di Gabinio.

 

[21]Nello stesso periodo anche la Società Fotografica Subalpina organizza gite con identiche mete, sempre guidata da Brayda, ma non risulta che le due associazioni organizzassero iniziative comuni. Anche Francesco Negri, nel  1901, ripeterà la propria conferenza sul Santuario di Crea sia per  l’Unione Escursionisti sia per la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, cfr. Mattirolo, 1925, p.13, n.1.   Il connubio tra l’attivissimo Brayda e l’Unione è precocemente celebrato da Edoardo Barraja nell’articolo Alla scoperta del Piemonte ( il cui titolo è ripreso da una conferenza tenuta da Ercole Bonardi al Circolo Centrale di Torino) pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 1 gennaio 1899, (Barraja, 1899) corredato da una fotografia della casa del Vescovo  realizzata da Gabinio,  la cui collaborazione al periodico data dal 1898 al 1902 per il tramite di Brayda e Treves.

 

[22]Fiori, 1902, p.3. Con un articolo dallo stesso titolo, Gli amici dei monumenti, pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 23 febbraio 1902 Edoardo Barraja aveva presentato  la serata di proiezioni che si doveva tenere il successivo giorno 28 al Teatro Vittorio Emanuele per iniziativa dell’Unione Escursionisti e collega l’attività di questa associazione al più vasto fenomeno della rinnovata attenzione per l’arte (“la sua funzione nella società appare sempre più potente quale strumento di rigenerazione civile”) mostrando in particolare apprezzamento per l’attenzione portata al patrimonio artistico ed architettonico minore, ai cui problemi legali di tutela aveva dedicato sua tesi di laurea in Giurisprudenza, discussa nel 1901 (Gilibert Volterrani, Gilibert, 1977, p.10): “È pregiudizio purtroppo ancora largamente diffuso all’epoca presente -ha scritto e con ogni ragione Luca Beltrami- che il patrimonio artistico e storico del nostro paese possa compendiarsi tutto nei principali monumenti e nelle sole opere d’arte più salienti (…) ma tutto il resto delle memorie, le quali pur essendo meno appariscenti, sono gli elementi che compongono la vaga ed indefinita espressione di quell’ambiente artistico che avvolge i nostri monumenti e li completa, e ci conduce ad una vera comprensione dell’arte” (Barraja, 1902, G164P).  Appare qui una concezione del patrimonio artistico certamente più proficua di quella che sarà alla base della prima legge italiana di tutela (L.185 del 12-6-1902) da applicarsi ai soli “monumenti, agli immobili ed agli oggetti mobili che abbiano pregio d’antichità o d’arte”.

Nel rinnovato interesse per il patrimonio storico che si manifesta in questo periodo (“Solo in questi anni, e diremmo, in questi ultimi mesi, è venuto per buona sorte un salutare movimento contro la distruzione inconsiderata dei monumenti antichi (…) meno male però per la nostra città! La prosa del presente non è ancora riuscita a distrurre del tutto la poesia del passato”, Anonimo, 1902) va collocata verosimilmente l’iniziativa  per l’erezione di un monumento a Filippo Juvarra, proposta da Brayda e sostenuta dall’Unione Escursionisti, a cui aderiscono  il sindaco di Torino Severino Casana, Alfredo d’Andrade, Camillo Boito, Carlo Ceppi, Giacomo Salvadori di Wiesenhof, Stefano Molli, Melchiorre Pulciano,  Camillo Boggio, Pietro Spurgazzi, Mario Gabinio ed altri. Tale iniziativa si concretizzerà nella posa di una lapide commemorativa a Superga nel 1903.

 

[23]Citato in Cavanna, 1981, p.109. Questo giudizio positivo sarà ribadito da Masoero nella recensione delle immagini di Pia presentate all’Esposizione Fotografica di Torino del 1900: “Il Pia dona alla storia futura quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia” (citato in Cavanna, 1985, p.151). Questa celebrazione del ruolo del dilettante rimanda alle opinioni espresse da Brocherel nel 1898, cfr. nota  12.

 

[24]Al banchetto erano presenti oltre ad Eduardo di Sambuy anche Luigi Cantù, Guido Rey, Ercole Bonardi,  Felice Alman, Vigliardi-Paravia, Alessandro Pasta, Benedetto Porro, Achille Berry, Oreste Pasquarelli, Efisio Manno, Secondo Pia, Pio Foà, Gerardo Molfese, Annibale Cominetti, Oreste Bertieri, Adolfo Guallini, Giovanni Assale e Luigi Pellerano. “Finito il banchetto, dietro invito del presidente i commensali si recarono ad inaugurare la nuova sede della Società Fotografica Subalpina, in via Maria Vittoria 25″(Anonimo, 1900/ G159P, Anonimo, 1900/ G156P).

 

[25] Giovanni Santoponte, “Per un museo italiano di fotografie documentarie”, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48, citato in Cavanna, 1991, p.42.  Per la ricostruzione del dibattito italiano sugli stessi temi, a partire dagli interventi pubblicati ne “La Fotografia Artistica” cfr. Costantini, 1990, pp.58-72.

 

[26]Per Lovazzano cfr. Miraglia, 1990, tavv.147-150. L’Album di Gabinio intitolato Esposizione/ 1898 contiene anche alcune immagini fatte dal pallone frenato di Godard collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie simile viene realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli aveva vietato di fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898 ”, n.14, p.105. Forse in occasione della concomitante Esposizione di Arte Sacra Gabinio fotografa una copia del trittico con “L’Annunciazione” di Van Der Weyden (B101/19).

Mario Ceradini partecipa al concorso per il manifesto del “Cinquantenario dello Statuto/ Esposizione generale Italiana/ Torino/ Aprile 1898 Ottobre”, presentato col motto “Biancabella” e quindi realizza per l’Esposizione il chiosco della ditta Sangemini, entrambi fotografati da Gabinio (B110/6, A17/21). Per Ceradini cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.120-121, scheda a cura di Airis Rossana Masiero, in cui la presenza dell’architetto all’Esposizione non viene però segnalata.

Il trattamento riservato alla fotografia nella stessa Esposizione viene aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà (…) non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero (…) Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate (…) Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria.”, Brogi, 1898, pp.252-254.

 

[27] Avigdor, 1981, p.155, cita anche il primo premio in Meccanica ricevuto da Gabinio a conclusione del Corso, documentato da una medaglia conservata nella collezione Marcellino Alessio ma non ricordato in Serra, 1898 nelle sue “Memorie” raccolte in occasione del cinquantenario di fondazione delle Scuole, il cui obiettivo -simile a molte altre istituzioni consimili- era di “Educare le menti degli operai al bello ed al vero”. La primitiva denominazione di “Società di Tecnico Insegnamento” muta nel 1856 acquisendo la denominazione corrente e popolare legata all’ex-convento di San Carlo in cui le Scuole erano ospitate. Tra le presenze significative vanno segnalate quelle di Angelo Reycend, Pier Celestino Gilardi e Tancredi Pozzi, amministratori rispettivamente dal 1885, dal 1888 e dal 1892 mentre Cesare Reduzzi faceva parte del corpo insegnante; di quest’ultimo Gabinio fotograferà il Busto in bronzo della Signora Bonardi nel 1903 (A30/2-5).

 

[28] Album 23 nn.67-72, album 17 n.26. Il riferimento all’impresa costruttrice Viretti contenuto nel titolo di quest’ultima immagine fa supporre che questa ditta ne fosse il committente, forse per il tramite dell’architetto Gottardo Gussoni, collaboratore di Fenoglio dopo il 1895,  cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.148-149, scheda a cura di Airis Rossana Masiero. Per Fenoglio cfr. Nelva, Signorelli, 1979; Politecnico di Torino, 1995.

 

[29] Per Morbelli cfr. Anzani, Maggia, 1995. Il confronto che qui si suggerisce, ad esempio tra il Morbelli di Alta montagna, 1912 ed alcune immagini di Gabinio non pretende ovviamente di fondare relazioni dirette ma più semplicemente di dare conto di un clima culturale comune all’interno del quale si collocano le due esperienze, senza che sia per ora possibile definire i reciproci debiti, che andrebbero comunque verificati caso per caso.  L’individuazione di  relazioni evidenti tra le produzioni della fotografia e le “ricerche pittoriche in corso” a Torino nei primi anni del secolo è stata proposta ad esempio da Maria Mimita Lamberti (1996, p.16) in particolare a proposito della Ofelia di Felice Carena, esposta alla Biennale di Venezia del 1912.

 

[30]Pubblicata in Costantini, 1994, p.152, n.101.

 

[31] “Nata aristocratica la fotografia piemontese, pare ancor oggi segnata di quel nobile sigillo (…) ed è stata la quarta culla che ammirò il mondo in Torino, dove i destini vollero nascesse prima il Risorgimento, e poi l’automobile e la moda e la fotografia. Quante attività fotografiche ha già disseminato nel mondo la città nostra? Qui le prime conferenze, le prime proiezioni, il primo Istituto di educazione proiettiva, le prime battaglie per l’autocromia, per la fotografia artistica; qui i primi passi e certo le più aristocratiche creazioni della cinematografia”, Angeloni, 1933, p.189. Questo delirio retorico autocelebrativo costituisce un buon esempio del clima culturale dominante a Torino in quegli anni.  La marginalità in cui si collocavano i dilettanti fotografi dell’Unione Escursionisti è rivelata nella relazione anonima sulla Seconda Esposizione Sociale che si tiene nei mesi di marzo ed aprile del 1914: “Subito si nota nelle prove esposte (…) la grande preponderanza d’ingrandimenti e la mancanza assoluta di lavori al carbone, di gomme bicromatate e di altri processi foto-meccanici. Va considerato però che se tale lacuna sarebbe certamente sentita in una mostra fotografica che abbia prevalente carattere artistico e classico, diventa pressoché trascurabile nella modesta accolta di opere delle nostre esposizioni.”, De Marchi, 1914, p.4.

 

[32]Citato in  Cavanna, 1985, p.150.  Queste posizioni lo portarono ad esempio a criticare “l’esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, sebbene poi apprezzasse nella stessa occasione le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli, cfr. Costantini, 1994, p.99 passim.

 

[33]”La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, p.204;

 

[34] La notizia di un viaggio di Gabinio a Messina viene riportata per la prima volta da Enrico Nori (Passoni, Nori, 1974, s.n.) corredata da una serie di  informazioni non altrimenti documentate e di valutazioni infondate (la “dimestichezza con Galileo Ferraris”; “Dopo i cinquanta anni Gabinio comincia a fotografare solo Torino”; “Negli anni che restano [cioè gli anni Trenta] scatta ancora qualche fotografia: ma è solo tecnica, mestiere, abitudine e sopravvivenza”)  e viene quindi  ripresa da Avigdor, 1981, p.155, il  quale connette esplicitamente il viaggio alla documentazione del terremoto del dicembre 1908, seguito in questo da Miraglia, 1990, p.385, sulla base di quattro lastre poi passate al Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, forse corredate di una indicazione di attribuzione della quale oggi non rimane traccia.  La verifica condotta sulle copie moderne tratte da quelle lastre, gentilmente fornite da Giorgio Avigdor, non consente di formulare alcuna ipotesi attributiva poiché queste fotografie non si discostano  in nulla dalla corrente produzione coeva relativa all’evento. Va però fatto notare che nelle circa 12.000 stampe originali e nelle circa 4500 lastre che costituiscono il Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino non compare alcuna traccia non solo di immagini relative al terremoto ma neppure ad un viaggio in Calabria e Sicilia.

A sostegno dei terremotati e per iniziativa della Società Fotografica Subalpina la rivista torinese “La Fotografia Artistica” pubblica  nel gennaio 1909 il numero unico Pro Sicilia e Calabria, contenente 80 illustrazioni dovute a Felice Masino, Secondo Pia, Frank Perret di Napoli, Stabilimento Brogi, Luca Comerio, Generale Cerri, Giovanni Assale, Giovanni Alifredi, Arturo Ambrosio, L. Martinez di Catania, Modò di Acireale e Maraffa Abate di Palermo. Una simile iniziativa viene presa anche dalla Società Fotografica Italiana che “sotto l’alto patronato di S.M. il Re” mette in cantiere una monografia su Calabria e Sicilia che sarà posta in vendita a L.5.  Di intento più celebrativo sembra essere invece l’album Resurrecturae edito a Milano da Biagio Giarmoleo e conservato alla Biblioteca Civica di Torino, forse da mettere in relazione con la realizzazione  a Messina dell’Ospedale Piemonte, offerto alla città dal “Comitato piemontese in pro delle popolazioni colpite dal terremoto”, realizzato nel 1911 su progetto di Riccardo Brayda e Pietro Fenoglio. (Viglino Davico, 1984, p.51). L’edificio venne visitato da una comitiva dell’Unione Escursionisti in occasione della gita nel Mediterraneo compiuta nel giugno del 1910.

 

[35]Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, 1907; Brand, 1911; Garimoldi, 1995, p.109.

 

[36]Angeloni, 1924, p.46. In particolare il riferimento è all’opera Movimento di Drtikol, pubblicata anche nel catalogo dell’esposizione, a cui partecipa tra gli altri anche Alexander Rodcenko con il Ritratto del poeta Assico  ed un altro Ritratto non identificato (nn. 102, 103). L’insieme delle immagini presenti riflette l’eterogeneità delle tendenze della fotografia dei primi anni Venti, ancora segnate da influenze pittorialiste, specialmente forti in ambito torinese come non manca di rilevare Namias, escluso dalla Giuria,  sulle pagine de “Il Progresso Fotografico”, luglio 1923, p.220: “In questa Esposizione, pur così riuscita, è mancato al Comitato il volere o il potere di sottrarsi alle influenze locali”. Al termine della manifestazione il Consigliere Giuseppe Ratti, ideatore dell’iniziativa, propone che le eccedenze di bilancio siano destinate “alla costituzione di un primo fondo per la creazione di una scuola professionale di fotografia ed ottica sotto l’alto patronato della Camera [di Commercio] stessa”,   intitolandola al conte Teofilo Rossi di Montelera, ma questa iniziativa prenderà corpo solo molti anni più tardi, nel 1935, cfr. infra nota 49.

 

[37]Per la ricostruzione della vicenda e del ruolo svolto dalla rivista e dall’annuario il riferimento è Luci ed Ombre, 1987. La rivista venne fondata a Piacenza nel 1904 da Angelo Guido Dell’Acqua (deceduto a Genova nel 1932); in seguito alla morte di  Alberto Dell’Acqua  la rivista passa al gruppo torinese nel 1922.  Il titolo dell’annuario riprende la definizione che Sem Benelli aveva dato dell’Esposizione Internazionale di Fotografia del 1923, detta “della luce e dell’ombra” (Prolo, 1976, p.215) e richiama quello di una rivista di esoterismo che si pubblicava a Roma circa negli stessi anni (1923-1927): “Luce e ombra. Rivista mensile illustrata di Scienze Spiritualistiche”.

 

[38] La schedatura analitica prevede che si definisca come “data” quella di realizzazione del fototipo (positivo, negativo, diapositiva) oggetto di scheda, registrando in nota le eventuali differenze tra data di esecuzione della ripresa e data di esecuzione della stampa. Stabilito questo irrinunciabile principio, perfettamente consono al trattamento di tutte quelle immagini su cui non compare una annotazione autografa relativa all’esecuzione, i problemi si pongono -paradossalmente- proprio nel momento in cui ci si trova di fronte ad una informazione dettagliata e precisa fornita dall’autore stesso: la data apposta al verso.  Alcune verifiche incrociate hanno consentito di individuare casi diversi: 1) data di ripresa e di stampa coincidono. 2) la data indica per certo l’esecuzione della stampa. 3) data di ripresa e data di stampa sono diverse ma molto prossime nel tempo, nell’ordine di due/tre giorni. Questa verifica consente di attribuire con certezza la data autografa all’esecuzione della stampa analizzata ma di ottenere anche -per le considerazioni appena fatte- una ricostruzione più che attendibile del calendario delle riprese.

Dall’analisi si ricava che Gabinio in questo periodo dedica alla fotografia anche giornate non festive, ciò che lascia supporre l’interruzione o la  conclusione del suo rapporto di lavoro con l’Amministrazione delle Ferrovie, apparentemente non verificabile attraverso i documenti conservati presso l’Archivio Storico delle Ferrovie di Torino.

 

[39] Il gioco insistito di relazioni  tra il primo piano di rami (fioriti)  e lo sfondo di  paesaggio tenuto fuori fuoco che  rimanda nella struttura compositiva e nel trattamento a numerose immagini di Gabinio dello stesso periodo,  si ritrova ad esempio in Fiori di melo di Enrico Unterveger, primo premio al II Concorso Trimestrale del 1926 (Praj, 1950, s.n.) ma anche in Nube di primavera di Mario Balloira, commerciante torinese di articoli fotografici ed amico di Gabinio, pubblicata in La Società Fotografica Subalpina nel 1927, p.2  Altri confronti possibili si possono fare tra il Panorama di Torino dall’approdo fluviale di Sassi (A44/56) ed il Tramonto sul Po presso Sassi (CM/35), entrambe del 1922,  con  alcune delle immagini presenti negli annuari del “Corriere Fotografico” quali Crepuscolo di Cesare Schiaparelli, 1926, o Tramonto di Antonio Fasoli, 1927, ora ripubblicate in Luci ed Ombre, 1987, s.n. Tutte registrano il tentativo fatto da Gabinio in quegli anni di aggiornare una prima volta il proprio linguaggio, adeguandolo ai  sicuri modelli certificati dalla pubblicistica fotografica e dai Salon.

Una seconda serie di immagini di fiori, isolati singolarmente, risale invece agli anni 1933-34 e rimanda ad esempi precisi della fotografia in ambito Bauhaus, la cui conoscenza era mediata in Italia, ad esempio, dalle immagini di soggetto simile pubblicate nella rivista “Domus”. Particolarmente interessante è il confronto tra il Fiore di passiflora di Gabinio, 1933, e la fotografia di identico soggetto di Joost Schmidt, datata 1928c, ora in Bauhaus Fotografie, p.47, tav.50.

 

[40]Una attenzione simile per i paesaggi marginali, inconsueta per l’epoca, si ritroverà in una serie di fotografie di Raoul Hausmann dei primi anni Trenta come Grano presso Schönenberg, 1931, Senza titolo, 1927-31 e Acqua di torba, 1931 (Raoul Hausmann, 1994, p.130).

 

[41] La singolarità e novità di questa immagine sono verificabili nel confronto con la stampa al bromolio di identico soggetto realizzata da Domenico Riccardo Peretti-Griva e pubblicata in “Torino” Rassegna Municipale, 8 (1929), n.4, aprile, p.176.

 

[42] Per Ugo Alessio cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.200-206, scheda a cura di Airis Rossana Masiero e Elena Dellapiana. La commissione esaminatrice  con la quale Alessio si diploma nell’ottobre del 1925 con il progetto per una cappella, era composta da Eugenio Ballatore di Rosana, Giulio Casanova che controfirma il progetto Alessio, Agide Noelli,  Cesare Bertea e Mario Ceradini, questi ultimi buoni conoscenti e amici di lunga data di Mario Gabinio. Tra le collaborazioni professionali di Alessio interessa ricordare qui quella con Carlo Brayda, che rimanda ancora una volta ad una trama di relazioni che trova le proprie origini nell’Unione Escursionisti. Gabinio riproduce più volte disegni e progetti del nipote, a partire dal saggio di diploma del 1925 sino alle tavole di progetto per il Teatro Civico di Vercelli e l’Istituto Tecnico Industriale Q. Sella di Biella, realizzati in collaborazione con l’ing. L. Gariboldi (Fondo Gabinio, lastre, sc. 311/Pl).

 

[43]Nell’ampia produzione superstite la sola immagine di folla urbana presente compare in una fotografia di piazza Palazzo di Città ripresa dall’alto il 12 settembre 1925 in occasione di un evento non identificato. (P22/9).

 

[44]Weaver, 1925, p.36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confusi, del resto propri della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

 

[45]Brayda, 1888. La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Brayda, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, 1990, pp.371-372. Il tema “porte e portoni” è stato ripreso in anni più vicini a noi da Augusto Pedrini, 1955, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura, alla quale si accompagna una ricca produzione editoriale sugli stessi temi, con presentazioni di Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi, e la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri ed Architetti di Torino”. Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

 

[46] I rapporti tra Gabinio e l’architetto sono  documentati dalla riproduzione fotografica della tavola generale del progetto di laurea di Morbelli, Veduta assonometrica di un quartiere operajo/ presso la FIAT-Lingotto a Torino/ 1928,  presente nel Fondo (B101/31). Anche le relazioni con alcuni esponenti della famiglia Mennyey sono documentate da stampe presenti nel Fondo: due fotografie di paesaggi liguri sono infatti attribuite da Gabinio ad A.Mennyey mentre le stampe di Via Bertola, 1924 (B114/15), Albergo Fucina, 1926 (B83/16) e Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Borgo Dora, 1927c(B77/146) risultano “consegnate”, secondo quanto si ricava dalle indicazioni al verso, a [Francesco?] Mennyey, che all’Esposizione del 1926 presenta l’acquaforte Il Borgo Dora. Per Mennyey, alle cui incisioni già aveva fatto riferimento Aldo Passoni a proposito di Gabinio (Passoni, Nori, 1974, s.n),  cfr. Francesco Mennyey, 1975; L’incisione del Novecento, 1985, p.62.

Le relazioni di Gabinio con l’ambiente artistico torinese sono ulteriormente confermate dalle fotografie di quattro copriteiere ricamate di Maria Rigotti Calvi, datate tra il 1920 ed il 1926 (Rigotti, 1980, p.268) realizzate forse in preparazione della mostra ginevrina del 1927 “Expositions d’Artistes Italiens Contemporains”.

Va segnalata qui anche la straordinaria coincidenza di temi, soggetti e luoghi che avvicina la serie di fotografie che Gabinio dedica ai cortili di case a ballatoio nell’area interessata dalla ricostruzione di via Roma, realizzata nel 1930-31 (B83/19-21), a litografie ed acqueforti di  Ettore de Fornaris quali Vecchio cortile (1936-1937) e  Slums (1938-39), nelle quali anche il punto di vista fortemente scorciato dal basso rivela un preciso rimando ai modi della ripresa fotografica, cfr. 6 incisori a “La Stampa”,  1939, p.7; Il tema era già stato affrontato da De Fornaris, ma con diverso trattamento, in Vecchio cortile, ante 1932, cfr. Incisori contemporanei, 1932, tav.XI. La sua figura di artista e mecenate è stata affettuosamente presentata da Rosanna  Maggio Serra (1986, pp.11-17).

 

[47] Il fascino degli spazi e dell’ambiente della “Vecchia Torino” coinvolge anche Marcello Boglione che al tema dedica  sia l’omonima cartella di incisioni, realizzata nel 1928 con Ercole Dogliani, sia le più tarde vedute di Via Barbaroux e di Via Sant’Agostino, esposte nel 1938 alla personale alla Galleria  Martina a Torino, mostra che Ettore Zanzi definisce, nella sua recensione, “specialmente interessante per gli studiosi della storia urbanistica torinese: sono infatti numerose le tavole che documentano con esattezza obiettiva e, tuttavia, con genialità interpretativa, non pochi aspetti della nostra città vecchia e stanca, edifizi che stanno per essere demoliti, strade e vicoli che subiranno presto o tardi radicali trasformazioni.” (citato in Marcello Boglione, 1994, p.143) riproponendo valutazioni sostanzialmente identiche a quelle con cui era stato accolto Torino che scompare nel 1900. Gabinio conosce certamente alcune opere di  Boglione, e in particolare nella sua Veduta della torre littoria in costruzione da Piazza Castello (P14/12) riprende esplicitamente il disegno di identico soggetto pubblicato in “Torino”, 14 (1934), n.1, gennaio, p.43.

 

[48] Nella Sala VII sono ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli e “tutta una parete della sala è occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”. Nella Sala X sono presenti rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Giancarlo Dall’Armi ed Augusto Pedrini; nella Sala XI progetti di Bonsignore, Talucchi, Locarni, Ferri ed altri ed infine nella Sala XII progetti di Vittorio Melano, Angelo Reycend, Stefano Molli e Carlo Ceppi, cfr. La Mostra retrospettiva, 1926.

 

[49] Società  Fotografica Subalpina, 1949. Sulle prime scuole di fotografia istituite a Torino cfr. Costantini, 1990, p.142, n.229. La scuola professionale Teofilo Rossi di Montelera, già auspicata da Giuseppe Ratti nel 1923 viene istituita solo nel 1935 per iniziativa del Consorzio per l’Istruzione Tecnica. Riconoscendo la necessità di fornire una formazione a largo raggio il programma della scuola viene impostato per giungere alla “formazione del ‘fotografo totalitario’”,  dotato di cultura generale e di cultura professionale. A tale scopo accanto agli insegnamenti tecnici, tecnologici e merceologici sono attivati i corsi di Storia dell’Arte, Storia delle Tecniche Fotografiche, Estetica Fotografica e Storia dell’Arte Fotografica, cfr. Bellavista, 1935, p.189.

 

[50]Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par.35, Verbale n.4 del 24-1-1931. Questa attenzione per la documentazione fotografica potrebbe anche essere stata suggerita da Vittorio Viale, dal 1930   direttore del Museo Civico in cui istituisce un primo nucleo di Archivio Fotografico, dotato di un fondo spese di circa ottomila lire annue, che propone di trasformare in “Archivio fotografico dei monumenti degli oggetti d’arte del Piemonte”, in apparente  concorrenza col corrispondente archivio della Regia Soprintendenza. La proposta, presentata al “I Congresso piemontese di Archeologia e Belle Arti” che si tiene a Cavallermaggiore nell’agosto del 1932, intende anche ovviare alla dispersione del materiale fotografico di interesse documentario conseguente alla chiusura degli studi professionali per cessazione dell’attività, (Viale, 1932) prefigurando in un qualche modo proprio la vicenda Gabinio che vedrà ancora protagonista Viale sul finire del decennio.

Quando, dopo alterne vicende (Avigdor, 1981, pp. 174-179) il Comune di Torino decide di accettare la proposta di acquisto avanzata da  Ugo ed Ivan Alessio dopo la morte di Gabinio, la motivazione è individuata “in relazione essenzialmente all’interesse connesso alla conoscenza dello stato di fatto in cui si trovavano l’edilizia cittadina e parecchi servizi municipali, fra l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, da cui risultano evidenti le trasformazioni verificatesi sotto l’impulso innovatore del Regime.“, Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par. 40, verbale n.28 del 17-6-1940, corsivo nostro. La perizia relativa al valore delle 497 scatole di lastre, stimato in 9.500 lire, venne affidata a Viale, il quale ne opera una prima selezione, trattenendo per l’Archivio Fotografico dei Musei Civici solo quelle “di carattere artistico o archeologico”, corrispondenti a 1087 lastre e restituendo le altre -oggi non più reperibili- alla Divisione VIII Amministrazione Patrimonio e Lavori Pubblici, Archivio dei Musei Civici, cat. IX, cl.6, pr.425 del 18 ottobre 1941.

 

[51]Benjamin, 1966, p.71, che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  In un contesto diverso questa relazione è sottolineata anche nella recensione del volume di Camille Recht dedicato ad Atget pubblicata da “La Casa Bella”, nel 1931: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un”arte” della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica” (C.G., 1931).

 

[52] Le stampe di Gabinio relative ai due cantieri sono conservate anche nell’archivio storico della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino, insieme a quelle di Stella, Pedrini, Ottolenghi,  dell’ing. Pantanelli e di Luigi Costa, fotografo con studio in Corso Regina Margherita 102 a Torino, che firma con Gabinio anche l’album Nuovo Palazzo/ della Società’ Reale/ Mutua Assic.ni/ Torino/ Foto di M.Gabinio/ e L.Costa. Alcune di queste immagini vennero pubblicate in Architetture di Armando Melis, 1936, p.38;

 

[53]Ponti, 1932, pp. 285-286, corsivo dell’autore.  Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”, pubblicato nel 1931, che contiene due importanti saggi di G.H. Saxon Mills e di C. Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  (4 (1931), n.47, p.67),  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” (4 (1931),  n.47, novembre 1931, p.54). All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “La Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti.

 

[54]La fotografia di Gabinio, pubblicata in “L’Architettura Italiana”, 29 (1934), n.3, marzo, p.95, ricorda le foto di Thèrese Bonney di una scala di Robert Mallet-Stevens, a proposito delle quali Ponti  parla di “seduzione fotografica”  (“Domus”, 2 (1929), n.2, febbraio, p.38) e richiama in particolare quelle eseguite dalla Studio Cartoni per la palazzina al Lungotevere Arnaldo da Brescia di Giuseppe Capponi, pubblicate in “Domus”, 4 (1931), n.37, gennaio, p.23.

 

[55]Cfr. Mostra sperimentale, 1931. Il concetto di “nuova visione” formulato da Moholy-Nagy e sviluppato in ambito Bauhaus relativamente alla fotografia (La fotografia al Bauhaus, 1993) diventerà il titolo della prima edizione americana del suo volume Von material zu architektur, Bauhausbücher 14, edito nel 1928 da Albert Lagen a Monaco (The New Vision: from Material to Architecture New York: Brewer, Warren & Putnam, 1930) ed in questa forma avrà particolare fortuna critica, pur non riferendosi in nulla, come è noto, alla fotografia.

 

[56]Antonio Boggeri  ha occasione di conoscere le opere delle avanguardie fotografiche europee per il tramite delle riviste messe a disposizione da Marco Luigi  Poli, che alla Alfieri & Lacroix di Milano, dove entrambi lavorano, cura il supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia” (Monguzzi, 1981, p.2).

 

[57]Sansoni, 1932, in cui sono pubblicate anche tre immagini di Gabinio: Lyskamm (4500) e suo ghiacciaio al chiaro di luna, L’alba sul ghiacciaio del Trajo e Aosta – Le Porte Praetorie. È interessante rilevare l’operazione condotta in questa occasione da Gabinio che stampa su carta per ingrandimento alla gelatina bromuro d’argento lastre realizzate circa trent’anni prima destinate alla stampa a contatto su carte ad annerimento diretto. I risultati, tecnicamente discutibili, indicano non tanto la necessità di adeguarsi alla scomparsa dal mercato delle carte alla celloidina ed al citrato quanto piuttosto un desiderio di adattamento al gusto corrente, alla modernità dell’ingrandimento consentito dalle carte al bromuro. Alcune perplessità sul lavoro di Achille Bologna erano già state espresse da Cesare Schiaparelli nella recensione alla sua personale torinese del 1930 (Schiaparelli, 1930).

 

[58] Pavia, 1926. Il rimando improprio al cubismo ed al futurismo  (“Si rallegrino i futuristi: la teoria del ‘volume’ e quella della ‘sintesi’ è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo”) indica bene quale fosse il giudizio -e la distanza- che separava la cultura tradizionale dalle esperienze più aperte verso i valori del moderno, gli  stessi che avevano fatto si che lo stesso Felice Casorati venisse gratificato, nel 1919, dell’epiteto di “futurista” (Dragone, 1978, p.194)

 

[59] Sarà con questa architettura effimera che Edoardo Persico commemorerà l’artista sulle pagine di “Casabella” a pochi giorni dalla morte, nel numero di maggio 1935.

Nel corso del 1928, oltre a numerose altre minori, si tengono a Torino: gennaio – febbraio, “Prima mostra del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica” accanto alle personali di Léonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams; giugno, “Prima mostra provinciale d’arte fotografica dell’O.N.D.” promossa dalla Società Fotografica Subalpina; settembre,  “ III Mostra nazionale e I Esposizione internazionale di fotografia di montagna” organizzata dal Club Alpino Italiano; ottobre: “Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale” oltre naturalmente alla I Esposizione dei Maestri d’Arte professionisti Fotografi nell’ambito dell’Esposizione Celebrativa.

 

[60] I “Commenti” di M.Bernardi (1928) ed A.Boggeri (1929) sono stati ripubblicati in Luci ed Ombre, 1987, pp.100-101 e pp.110-111.

 

[61]Andreis, 1933, p.10. Andreis con Mario  Bellavista, Cesare Giulio, Giuseppe Borghi, Luigi Costa (collaboratore di Gabinio per le riprese alla “torre littoria”), Carlo Emanuele Rossi ed Ernesto Sacchetto sono i  membri della redazione di “Pagine Fotografiche ALA”, con direttore Giuseppe Portigliatti. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.121) Questo intrecciarsi di presenze non solo rende ragione dell’attenzione con cui “Galleria” segue le vicende ALA ma mostra bene quanto fosse oligarchico il gruppo “dirigente” della fotografia torinese negli anni del fascismo.  La stessa rivista ospita i Concetti per fotografi moderni, con cui Mario Bellavista si propone di definire una tipologia della fotografia fascista. Bellavista, interessante fotografo, è uno  dei personaggi più influenti della fotografia italiana del Ventennio: oltre a tenere corsi per numerose associazioni a Milano ed a Torino è direttore a Milano  del Laboratorio di Resinotipia di Namias, Direttore della Scuola ALA a Torino, direttore dell’Ufficio Tecnico Gevaert e  per la stessa Società realizza nel 1934-35 il “Corso radiofonico elementare di fotografia” che viene pubblicato in sunto anche sulle pagine di “Galleria” e della “Rivista Fotografica Italiana”.

 

[62] “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.1, febbraio, p.5. Il problema dell’aggiornamento e della crescita culturale dei fotografi induce le diverse associazioni sia a mettere a disposizione dei soci una ricca serie di periodici (37 titoli tra italiani e stranieri, presso la sede ALA) sia a promuovere corsi di grande interesse, come quello prodotto dalla Società Fotografica Subalpina nel 1934 che prevedeva, tra gli altri, interventi di Bellavista, Dalla dagherrotipia ai raggi infrarossi; Erizzo, Il Novecento in fotografia e in cinematografia; Bertoglio, Surrealismo e fotografia; Bologna, Tendenze fotografiche internazionali;  Movilia, Funzione politica e sociale della fotografia. Anche la ALA promuove “riunioni culturali” seguite da dimostrazioni pratiche, tra le quali segnaliamo quelle dedicate a La fotografia dell’infrarosso nella pratica e La fotografia notturna, entrambe tenute da Gabinio in collaborazione rispettivamente con Mario Balloira e Smeraldo Smeraldi. Questo impegno didattico sostenuto in età avanzata spezza temporaneamente la sua tradizionale riservatezza ma stupisce anche per i  temi trattati: tra le stampe del Fondo Gabinio sono presenti attualmente solo tre fotografie all’infrarosso (B53/59-61).

Nel 1936 la denominazione muta da “Associazione Culturale Fotografica ALA” a “Associazione Fotografica Italiana A.L.A” mentre l’anno successivo si riduce definitivamente ad “Associazione Fotografica Italiana” (AFI).  La nuova denominazione riflette una crescita ed un livello di influenza che superano l’orizzonte torinese creando forti polemiche con la Società Fotografica Subalpina. In questo contesto va collocata l’assenza dell’AFI dall’Unione Società Italiane Arte Fotografica (USIAF), con sede a Roma presso l’Associazione Fotografica Romana Dilettanti e ovviamente aderente all’Istituto Fascista di Cultura , la cui costituzione era stata però promossa proprio dalla Società Fotografica Subalpina, a cui spetta anche l’organizzazione del primo Congresso USIAF, che si tiene a Torino nel 1937. Alla Società torinese si deve anche l’organizzazione dell’assemblea costitutiva della FIAF (Federazione Italiana  Associazioni Fotografiche) che si tiene a Torino il 19 dicembre 1948. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.8 passim).

 

[63] Nel 1934 Gabinio partecipa alle seguenti esposizioni: “Internationell Fotografiutstallning” alla Liljevalchis Konsthall di Stoccolma con le opere Austerità, n.272, Carezze di sole, n.273, Pesche, n.274, Uva, n.275 (poi a Boston e Ottawa), Refezione al cantiere, n.276, Dall’alto, n.277; “Prima mostra internazionale fra le Società YMCA” (Young Men’s Christian Association) a Torino, con  Mezzogiorno ovvero Refezione al cantiere, n.202; “III Nemzetkozi Muveszi Fenykepkiallitas” di Sopron (Ungheria) con l’opera Carezze di sole; “III Internationale Photo-austellung” di Vienna con Umiltà, n.192, Carezze di sole, n.193, Pesche, n.194.

Le nature morte di Gabinio vanno confrontate con le corrispondenti di Achille Bologna ora pubblicate in Fotografia luce della modernità, 1991, pp.122,12,127, datate 1935c.

Nello stesso 1934 Federico Sacco pubblica il volume dedicato a Le Alpi che contiene, tra le altre, 38 fotografie di montagna di Gabinio. A partire da questo dato è stato ipotizzato (Avigdor, 1981, p.155) un ruolo fondamentale svolto dal geologo nella formazione culturale di Gabinio, a partire da una collaborazione databile al 1890. In realtà la collaborazione data a partire dal 1925 e si concretizza nell’utilizzazione di immagini provenienti dall’ampio repertorio di Gabinio relativo alla montagna.

 

[64]Domenico Riccardo Peretti-Griva, La nostra prima rassegna, in Prima esposizione fotografica, 1935, s.n. A suggerire altre e possibili tangenze e riferimenti troviamo in  catalogo Aringhe di Giulio Galimberti, che rimanda anche compositivamente a Le sardine di Emmanuel  Sougez, del 1932.  Una ulteriore selezione di immagini presenti in mostra (“la fotografia classica ottocentesca era accoppiata alle più audaci composizioni pubblicitarie”)  viene pubblicata anche dalla “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935),  n.3, marzo, con fotografie di Martino Brondi, Giovanni Calleri, Vincenzo Balocchi, Enrico Giorello, Enrico Aonzo, Gualtiero Castagnola, Mario Castino e Mario Gabinio (Piatti). Anche il redattore del “Corriere Fotografico” rileva che “Il torinese Mario Gabinio si fa notare per diverse belle nature morte e per una bella scena sul Po”  (citato in “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.4, aprile, p.38). Le opere presentate alla mostra sono: Piatti, n.112, Maioliche, n.113, Cipolline, n.115, Festa, n.116, Po, n.117, Valnontey, n.118. Nello stesso anno Gabinio partecipa anche al “XIV Salon International de Photographie” di Bruxelles con Università, n.352, Alluminio, n.353; “Fourth South African Salon of Photography” di Johannesburg: Carezze di sole, poi alla City Art Gallery di Durban, nel 1936; Mostra della Royal Photographic Society of Great Britain di Londra: Maioliche, n.86; “Second Canadian International Salon of Photographic Art” di Ottawa: Uva, n.63 (mentre Refezione al cantiere viene restituita); “XXX  Salon  international d’art photographique” di Parigi: Maioliche, n.166, Po, n.167,  Piatti, n.168;

 

[65] La rigida strutturazione compositiva di Piatti appare piuttosto come un’eccezione nella produzione di Gabinio di questi anni; in opere come Miscellanea (RA/23) o Maioliche (RA/21) come nella già citata Umiltà la forma appare piuttosto trovata che cercata, mai enfatizzata o insistita, e l’attenzione sembra piuttosto rivolta al “motivo” dell’accumulazione di oggetti, acutamente analizzato in Marbot, 1989, pp.154-155.

 

[66] Per La scala, 1930, di  Rodcenko cfr. Karginov, 1977, tav.182 e la variante di ripresa in Khan-Magomedev, 1986, p.247. Il gioco delle ombre portate sulla scalinata è il soggetto di Gradinata del tempio, 1930, di Achille Bologna e di Parigi, la Madeleine, 1932 , di Italo Bertoglio, entrambe pubblicate in Luci ed Ombre (1987, s.n.).

 

[67] Due immagini di questa serie vennero inviate a numerosi Salon internazionali con un titolo, “Carezza/e di sole”, che riprende esplicitamente quello di un’opera di Carlo Baravalle pubblicata in Luci ed Ombre, del 1927 (L’ultima carezza del sole), ancora una volta a suggerire non solo la condivisione di un gusto “crepuscolare” ma anche la caparbia capacità di assimilazione di Gabinio.

Le ninfee presenti nella citata immagine di Baravalle sono un altro dei temi con cui si confrontano numerosi fotografi in questi anni, attirati dalla mescolanza di richiami e suggestioni che questo contiene e, insieme,  dalle possibilità di ricerca formale che offre. Neppure Gabinio si sottrae a questa prova ma in Ninfee dopo la pioggia, 1933, (RA/1) riesce comunque a realizzare un’opera dotata di personalità propria, riconoscibile nel mantenimento di alcuni elementi caratteristici quali la perfetta leggibilità del dettaglio, la connotazione tridimensionale dello spazio pur in assenza della linea dell’orizzonte, ottenuta con la presenza di elementi minimi, che suggeriscono un punto di fuga (assente nelle opere di altri fotografi, forse sulla scia di Monet) e nell’ancorare la figura al luogo, che si ricava dalle scritte al verso, perché l’immagine sia -contemporaneamente- documento e forma.

 

[68] Savinio, 1935. L’articolo prende le mosse da una irridente condanna di Cézanne per estenderla a tutto l’ambito della ricerca fotografica contemporanea, a quel  “cézannismo fotografico [che] fu la vendetta burlona di Cézanne, il morto”, non senza aver prima esaltato il valore della scoperta della fotografia ed averne tracciato per sintetici tratti le influenze sulla produzione artistica tra Otto e Novecento, dalla letteratura alla musica. Sulla scia dell’antica condanna baudelairiana alla fotografia, “microscopio per tutti”, viene negato il “mistero dello sguardo”.

 

[69] Nel 1937 Gabinio partecipa al “XXXII Salon international d’art photographique” di Parigi con Moscato bianco e nero; “Salon international de 1937” di Metz, organizzato in occasione del trentaseiesimo convegno dell’Unione nazionale delle Società Fotografiche Francesi: Uva zibibbo e mele, n.269, Pesche reali, n.270; “V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti” di Torino: Uva nera e dorata, n.230, Mezzanotte alle Porte Palatine, n.231. Le fotografie Maioliche, Ferro zincato, Partita a carte e Persi moi [Pesche mature], inviate al Salon di Chicago, non vennero accettate.

 

 

 

Bibliografia citata

 

 

Alessio 1936

Ivan Alessio, Camicie nere della Ia Legione sulla Rocca Bernauda, “Rivista mensile del CAI”, 55 (1936), pp. 86-88

 

Alessio 1939

Ivan Alessio, Figure che scompaiono,  “Torino”, 19 (1939), n. 2, febbraio, pp. 34-37

 

Alfredo d’Andrade 1981

Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  1981

 

Andrea Tarchetti 1990

Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di Pierangelo Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura, 1990

 

Angeloni 1924

Italo  Mario Angeloni, La fotografia artistica alla Prima Esposizione Internazionale, in L’arte nella fotografia, 1924, pp. 39-50

 

Angeloni 1933

Italo  Mario Angeloni, Nell’imminenza del IV “Salon” Torinese, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n. 4, aprile, pp. 189-190

 

Appendino, Ghigo, Lombardo 1973

Giorgio Appendino, Michele  Ghigo, Guido Lombardo, a cura di, Fotografia amatoriale italiana 1948-1973. 25 anni della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. Napoli: Edizioni Nuova Fotografia, 1973

Gli architetti dell’Accademia Albertina, 1996

Gli architetti dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, aprile giugno 1996),  a cura di Giovanni  Maria Lupo.  Torino:  Allemandi,  1996

 

L’arte nella fotografia 1924

L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia, (Torino, maggio-giugno 1924). Milano-Roma:  Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Avigdor 1981

Giorgio Avigdor, Mario Gabinio fotografo.  Torino: Einaudi, 1981

 

Banchetto 1900 a

Banchetto di chiusura della mostra fotografica, “La Stampa”, 34 (1900), n. 81, 22 marzo

 

Banchetto 1900 b

Banchetto fotografico, “La Gazzetta del Popolo”, 53 (1900), n. 81, 22 marzo

 

Banti , Meriggi 1991

Alberto M.  Banti, Marco Meriggi, a cura di, Élites e associazioni nell’Italia dell’Ottocento, “Quaderni storici”, 26 (1991),  fasc. 2, n. 77, agosto

 

Barraja 1899

Edoardo  Barraja, Alla scoperta del Piemonte, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 17 (1899), n. 1, 1 gennaio, pp. 4-5

 

Barraja 1902

Edoardo  Barraja, Gli amici dei monumenti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, 23 febbraio, p. 59.

 

Barraja 1912

Edoardo  Barraja, Riccardo Brayda e l’opera della sua vita.  Torino: Tip. Gran Didier, 1912

 

Bauhaus 1982

Bauhaus Fotografie. Düsseldorf: Marzana,  1982

 

Bauhaus 1993

La fotografia al Bauhaus, catalogo della mostra, (Venezia, Museo Fortuny, ottobre dicembre 1993), a cura di Paolo Costantini, Venezia:  Marsilio, 1993

 

Bellavista 1935

Mario Bellavista, All’Italia la più bella scuola di fotografia, “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935), n. 10, ottobre, pp. 189-192

 

Benjamin [1931] 1966

Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78

 

Bertea 1914

Cesare Bertea, Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa di Sant’Antonio di Ranverso, in “Atti  della Società Piemontese di  Archeologia e Belle Arti”, vol. VIII. Torino:Paravia, 1914,  estratto

 

Boggeri 1929

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 8, agosto, pp. 557-564

 

Boggeri 1930

Antonio Boggeri,  Caratteri della nuova fotografia,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930) n. 8, agosto, pp. 546-549

 

Bologna 1932

Achille Bologna, Il corso di fotografia nella Scuola di Avviamento al Lavoro in Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 3, marzo, pp. 136-138

 

Bonardi 1898

Ercole Bonardi, Una società di escursionisti,  “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 231-232

 

Bordini 1984

Silvia Bordini, Storia del panorama. La visione totale nella pittura del XIX secolo. Roma:  Officina, 1984

 

Brand 1911 a

Brand, Inaugurazione della mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), nn. 6-7,  giugno-luglio, pp. 98-99

 

Brand 1911 b

Brand, La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911) n. 12,  dicembre, pp. 167-171

 

Brayda 1887 a

Riccardo Brayda, Ricordo di una passeggiata artistica a Sant’ Antonio dl Ranverso (Valle di Susa). Torino: Doyen, 1887

 

Brayda 1887 b

Riccardo Brayda, Stucchi ed affreschi nel reale Castello del Valentino.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1887

 

Brayda 1888

Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1888

 

Brayda 1898

Riccardo Brayda,  Torino scomparsa, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, p. 96

 

Brayda 1900

Riccardo Brayda,  Torino che scompare (da fotografie del signor Mario Gabinio),  “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 18 (1900), n. 11, 18 marzo, pp. 85-86

 

Brocherel 1898

Jules Brocherel, Alpinismo. Milano: Hoepli, 1898

 

Brogi 1898

Carlo Brogi, , La fotografia all’esposizione, “L’Esposizione Nazionale del 1898”, Torino, 1898, pp. 252-255

 

Carluccio 1974

Luigi  Carluccio, Entrare e vivere nella Torino di ieri e di oggi, “Piemonte vivo”, 8 (1974), n. 2, aprile, pp. 4-9

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’ Andrade. Tutela e restauro, 1981, pp. 107-125

 

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

Cavanna 1986

Pierangelo Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di S. Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo,  “L’Impegno”, 11 (1991), n. 3 dicembre, pp. 41-48

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Problemi di documentazione fotografica del territorio Piemontese nell’Ottocento, in Le “Ali” del mercato in provincia di Cuneo. Bra – Torino: Comune di Bra – Ministero per i Beni Culturali – Politecnico di Torino -L’Arciere, 1992, pp. 100-111

 

Chan-Magomedov 1986

Selim Omarovič Chan-Magomedov,  Rodcenko. The complete work.  London:  Thames and Hudson, 1986

 

Comoli  Mandracci 1983

Vera  Comoli  Mandracci, Torino.  Bari:  Laterza, 1983

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917.  Torino:  Bollati Boringhieri,  1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902 1994, pp. 94-179

 

De Marchi 1914

Guido de Marchi, Esposizione fotografica sociale, “L’Escursionista”, 16 (1914), n. 11, 25 maggio, pp. 4-7

 

X anniversario  1902

A proposito del X anniversario dell’Unione Escursionisti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, febbraio, pp. 60-61

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del Medioevo fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra medioevo e rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale.  Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Dragone 1976

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 97-151

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra, (Torino, marzo-giugno).  Torino:  Città di Torino, Assessorato per la Cultura-Musei Civici, 1978

 

Eco 1990

Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani, 1990

 

Esposizione 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, catalogo della mostra, (Torino, giugno-luglio 1907), Torino: s.n., 1907

 

Ettore de Fornaris 1932

Incisori contemporanei. Ettore de Fornaris;  presentazione di T. Grandi. Torino:  Buratti, 1932

 

Fadilla 1900

Ugolino Fadilla, L’Esposizione Fotografica di Torino,  “Gazzetta di Torino”, 41 (1900), n. 64, 5 marzo

 

Ferrari 1900

Giulio Ferrari, Esposizione Fotografica. La fotografia artistica,  “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3

 

Fillia 1932

Fillia [Luigi Colombo], Il futurismo. Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Italiano.  Milano: Sonzogno, 1932

 

Fiori 1900

Silvestro Fiori, L’Esposizione di fotografia,  “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio, p. 4

 

Fiori 1902

Silvestro Fiori, Gli amici dei monumenti,  “L’Escursionista”, 4 (1902), n. 6, 23 maggio, pp. 3-5

 

Fossati 1975

Paolo Fossati, Fotografia e città: la Torino di Mario Gabinio,  “Il Corriere della Sera”, 100  (1975), n. 68, p. 15

 

Fotografia 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabetti, Olmo 1976

Roberto Gabetti, Carlo Olmo, Cultura edilizia e professione dell’architetto: Torino anni ’20-’30, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 11-33

 

Garimoldi 1995

Giuseppe  Garimoldi, Fotografia e Alpinismo:  Storie parallele.  Ivrea: Priuli e Verlucca, 1995

 

Gilibert Volterrani 1977

Anna Gilibert Volterrani , Alfredo Gilibert, Valsusa com’era.  Susa: Editrice Delphinus, 1977

 

Gilodi 1978

Renzo  Gilodi, La Società Ginnastica di Torino. Sport e cultura nel tempo.  Torino:  SGT, s.d. [1978]

 

Giuntini 1995

Sergio Giuntini, L’educazione fisica femminile a Torino a fine Ottocento,  “Studi Piemontesi”, 24 (1995), n. 2, novembre,  pp. 419-427

 

Giusta 1901

Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche,  “L’Escursionista”,  11 (1901) , n. 3, 6 maggio, pp. 6-7

 

Griseri 1974

Andreina  Griseri, Obbiettivo sulla città,  “L’informazione industriale”, 30 (  1974), nn. 7-8, 30 aprile, pp. 34-35

 

Griseri, Gabetti 1973

Andreina  Griseri, Roberto Gabetti,  Architettura dell’eclettismo : un saggio su G. B. Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

In memoriam 1938

In memoriam Mario Gabinio,  “Rivista mensile del CAI”, 58 (1938), p. 463

 

L’incisione del Novecento 1985

L’incisione del Novecento in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, marzo – aprile 1985), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1985

 

L’ invention d’un regard 1989

L’invention d’un regard (1839-1818), catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 4 ottobre – 31 dicembre 1989),  a cura di Françoise Heilbrun, Bernard Marbot e Philippe Néagu. Paris:  Réunion des Musées Nationaux,  1989

 

Karginov 1977

German Karginov, Aleksandr Rodcenko.  Roma:  Editori Riuniti, 1977

 

Laezza 1927

Alfredo Laezza, a cura di, La Società Fotografica Subalpina nel 1927. Torino: Tip. Bona, 1927

 

Lamberti 1996

Maria Mimita Lamberti, Gli anni torinesi di Felice Carena, in Felice Carena, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte moderna e contemporanea, 30 gennaio-7 aprile 1996),  a cura di Fabio Benzi.  Milano:  Fabbri,1996,  pp. 9-22

 

Levi 1991

Marcello Levi, Mario Gabinio: immagini del primo Novecento, in XV Mostra Nazionale di Antiquariato di Saluzzo, catalogo della mostra (Saluzzo, maggio 1991).  Savigliano:  L’Artistica, 1991

 

Luci ed ombre 1987

Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Maggio Serra 1986

Rosanna Maggio Serra, a cura di, Arte moderna a Torino.  Torino:  Allemandi, 1986

 

Marcello Boglione 1994

Marcello Boglione (1891-1957). Un maestro dell’incisione all’Accademia Albertina, catalogo della mostra  (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-aprile 1994), a cura di Angelo Dragone, Franca Dalmasso,  Vincenzo Gatti.  Torino:  Regione Piemonte – Franco Masoero,  1994

 

Mario Gabinio 1982

Mario Gabinio. Trenta fotografie di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna,  marzo-maggio 1982), a cura di Aldo Audisio.  Torino: Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi -Club Alpino Italiano, sezione di Torino, 1982

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), nn. 6, 7,  pp. 124-139, 277-291

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In memoria dell’avv. Francesco Negri : commemorazione letta nell’adunanza del 1 marzo 1925 alla Società piemontese di Archeologia e Belle Arti.  Torino: Anfossi, 1925

 

Melis 1936

Architetture di Armando Melis. Milano: Tip. Allegretti, 1936

 

Mennyey 1975

Francesco Mennyey. Monumentalità dell’incisione, in Francesco Mennyey:  acqueforti, catalogo della mostra, a cura di P. D. Ferrero.  Torino: Le Immagini – Studio d’arte contemporanea, 1975

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri, 1933-1981 : archetipi della seduzione grafica.  Milano:  Electa, 1981

 

Le montagne della fotografia 1992

Le montagne della fotografia, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 18 settembre – 22 novembre 1992) a cura di Silvana Rivoir. Torino: Museo Nazionale della Montagna – Club Alpino Italiano sezione di Torino, 1992

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli Angelo & Morbelli Alfredo, catalogo della mostra (Masnago e Casale Monferrato, giugno luglio 1995), a cura di Giovanni Anzani e Filippo Maggia.  Varese:  Lativa, 1995

 

La Mostra retrospettiva 1926

La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese,  “Il Momento”, 24 (1926), n. 128, 2 giugno, p. 5

 

Mostra Sperimentale 1931

Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra, (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino:  Tip. Fedetto,  1931

 

Nelva , Signorelli 1979

Riccardo Nelva , Bruno Signorelli, Le opere di Pietro Fenoglio nel clima dell’Art Nouveau internazionale.  Bari:  Dedalo,  1979

 

Ottaviano 1986

Chiara Ottaviano, Classe agiata e organizzazione del tempo libero, in Valerio Castronovo, a cura di, La cassetta degli strumenti. Ideologia e modelli sociali nell’industrialismo italiano.  Milano: Franco Angeli, 1986, pp. 169-196

 

Passoni, Nori 1974

Aldo  Passoni, Enrico Nori, Torino anni ‘20:  104 fotografie di Mario Gabinio.  Torino:  Editoriale Valentino, 1974

 

Pavia 1926

Ugo Pavia, Il “Salon” fotografico di Torino: gli espositori stranieri , “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

 

Pedrini 1955

Augusto Pedrini, Portoni e porte maestre dei secoli XVI e XVI in Piemonte. Torino: Pozzo-Salvati, Gros Monti & C., 1955

 

Peliti  1993

Federico Peliti (1844-1914). Un fotografo piemontese in India al tempo della Regina Vittoria, catalogo della mostra (Roma, maggio-luglio 1993; Torino, marzo-maggio 1994), a cura di Marina Miraglia.  Roma: Peliti Associati, 1993

 

Peretti Griva 1933

Domenico  Riccardo Peretti Griva, In difesa dei procedimenti interpretativi,  “Galleria”, 1 ( 1933), n. 8, agosto, pp. 4-6

 

Piasco 1896

Teresio Piasco, Otto giorni sulle Alpi Marittime, 5-12 luglio ‘96; riproduzione anastatica. Cuneo:  Vecchi libri, s.d.

 

Politecnico di Torino 1995

Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali, a cura di, Torino nell’Ottocento e nel Novecento. Ampliamenti e trasformazioni entro la cerchia dei corsi napoleonici.  Torino:  Celid, 1995

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283

 

Praj 1950

Praj, a cura di, Luci e ombre. Fotografie pubblicate dalla cessata rivista torinese “Il Corriere Fotografico“.  Torino, in proprio,  1950

 

Prima esposizione 1935

Prima esposizione fotografica sociale ALA, brochure della mostra (Torino, marzo 1935). Torino: Tip. A. Kluc, 1935

 

Primo salon 1925

Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale : Torino 1925-26,  brochure della mostra (Torino, Galleria centrale d’arte,  19 dicembre 1925 – 10 gennaio 1926).  Torino: Tip. Celanza, 1925

 

Prolo 1976

Maria Adriana Prolo, Il cinema – la fotografia, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 211-217

 

Raoul Hausmann, 1994

Raoul Hausmann, catalogo della mostra, (Valencia, Institut Valencià d’Art Modern, febbraio – aprile 1994). Valencia: IVAM-Generalitat Valenciana, 1994

 

Reynaudi 1896

Carlo  Reynaudi, Ceresole Reale e la valle dell’Orco.  Torino: Roux e Frassati, 1896

 

Rigotti 1980

Giorgio Rigotti, 80 anni di architettura e di arte : Annibale Rigotti architetto, 1870-1968 : Maria Rigotti Calvi pittrice, 1874-1938.  Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1980

 

Sansoni 1932

Gino Sansoni, La Ia Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, “Aosta”, 4 (1932), nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, “La Stampa”, 69 (1935), 6 luglio, p. 3, ora in Id., Torre di guardia ,  a cura di Leonardo Sciascia.  Palermo: Sellerio, 1977, pp. 131-142

 

Schiaparelli 1924

Cesare  Schiaparelli, La scuola piemontese di fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 4, aprile, pp. 52-53

 

Schiaparelli 1930

Cesare  Schiaparelli, Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Secondo Pia 1989

Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale del Cinema, ottobre-novembre 1989), a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò.  Torino:  Allemandi, 1989

 

6 incisori 1939

6 incisori a “La Stampa”, brochure della mostra (Torino, Salone de La Stampa, aprile 1939), a cura di Marziano Bernardi. Torino: La Stampa, 1939

 

Serra 1898

Gian Giacomo Serra, Le Scuole Tecniche Operaie San Carlo in Torino.  Torino: Tip. Cassone, 1898

 

VI Mostra Biennale 1939

VI Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica (Torino, Circolo degli artisti,  maggio-giugno 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

VII Esposizione Annuale 1941

VII Esposizione Annuale Sociale di Fotografia Artistica AFI, (Torino, maggio 1941).  Torino:  Satet, 1941

 

Società  Fotografica Subalpina 1949

Società  Fotografica Subalpina, Catalogo della mostra del cinquantenario,  “Vita Fotografica”, 5 (1949), n. 9, aprile

 

Storiografia 1990

Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo durante XVIII e XIX secolo,  atti delle Giornate di studio (Torino, Fondazione Luigi Einaudi , 6 e 7 maggio 1988),  a cura di Maria Teresa Maiullari. Torino : Fondazione Luigi Einaudi, 1990

 

Thovez 1898

Enrico Thovez, Fotografia pittorica, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 219-222

 

Torino 1902 1994

Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino settembre 1994 gennaio 1995),  a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano:  Fabbri, 1994

 

Torino 1920-1936 1976

Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976

 

Torino che scompare 1929

Torino che scompare: l’Arsenale,  “Torino”, 9 (1929), n. 2, febbraio, pp. 91-93

 

Viale 1932

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte, in I  congresso Piemontese di Archeologia e Belle Arti, atti del convegno, (Cavallermaggiore, agosto 1932).  Torino:  Anfossi, 1932, pp. 158-161

 

Viglino Davico 1984

Micaela Viglino Davico, Benedetto Riccardo Brayda: una riproposta ottocentesca del medioevo.  Torino:  Centro Studi Piemontesi, 1984

 

Volli 1994

Ugo Volli, Il libro della comunicazione: idee, strumenti, modelli.  Milano: Il Saggiatore, 1994

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36

 

Zannier 1991

Italo  Zannier, Cento anni di fotografia Touring, in Fotografi del Touring Club Italiano, a cura di Elisabetta Porro.  Milano:  TCI,  1991, pp. 6-27

 

Zannier 1993

Italo  Zannier, Leggere la fotografia. Le riviste specializzate in Italia (1863-1990).  Roma:  Nuova Italia Scientifica, 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andrea Tarchetti, fotografo dilettante (1990)

 in Andrea Tarchetti notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo  Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990, pp.   19-45

 

Fotografi a Vercelli

Il vercellese “Vessillo della libertà” nel numero del 27 settembre 1860 cita per la pri­ma volta lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, senza indicarne la localizzazione, mentre pochi anni dopo, nel 1863, lo stesso periodico riporta la notizia che il fotografo “ha aperto or ora un elegante e comodissimo laboratorio sull’ameno Viale dei Tigli”.[1] Sono queste le prime notizie relative alla presenza di uno studio fotografico in città, né pare che vi fossero presenze precedenti ora dimenticate se lo stesso “Vessillo”, nel ricordare l’apertura del nuovo studio, sottolinea come “non si senta più il bisogno di ricorrere al di fuori per avere ritratte le nostre sembianze o quelle delle persone che ci sono care”.

Mancano per Vercelli – almeno sino a questo momento ed in attesa che venga portata a termine l’indagine sui Fondi Fotografici Locali – indicazioni relative ai primi anni di diffusione della tecnica fotografica, in particolare della dagherrotipia, quali invece risultano disponibili ad esempio per Biella, dove già dai primi anni ’40 sono operosi alcuni dagherrotipisti, per ora anonimi, mentre nel decennio successivo si registra la presenza di autori quali Fortin, forse un fotografo itinerante di origine francese, Bernardi e infine Adolfo, attivo anche a Torino prima di trasferirsi a Roma nel 1848.[2] La ritrattistica risulta essere l’attività prevalente dei primi operatori, sia a Biella sia ­più tardi a Vercelli, e solo dai primi anni ’60 si registra la presenza di fotografi attivi anche nel campo della documentazione d’arte e di architettura: se a Biella emerge la figura di Vittorio Besso, che apre il proprio studio nel 1859, a Vercelli è Giuseppe Co­sta, titolare di uno “Studio di Pittura e Fotografia” aperto forse poco oltre il 1862, ad occuparsi per primo di documentazione del patrimonio artistico, alternando l’attività di fotografo a quella di titolare della cattedra di Elementi presso l’Istituto di Belle Arti, a cui si devono aggiungere alcune collaborazioni con Edoardo Arborio Mella quali, in particolare, la realizzazione delle parti a figura durante i restauri della chiesa di San Francesco nel 1868.[3]

Allo stesso Costa si deve anche la prima realizzazione di una campagna fotografica espressamente dedicata alla documentazione del patrimonio artistico, che porta alla realizzazione di un album Ricordo dell’inaugurazione della Cappella di S. Eusebio, realizzato nel 1882, recentemente ritrovato nei fondi della Biblioteca Civica di Vercel­li, che documenta il rifacimento dell’apparato decorativo della cappella del Duomo ad opera dei pittori Francesco Grandi e Carlo Costa, fratello del fotografo.

Alla documentazione della città si dedica invece Federico Castellani, titolare di un avviato studio ad Alessandria in collaborazione col padre Luigi, operoso anche a Vercelli a partire dai primi anni ’70, il quale realizza nel 1873 un Album delle principali ve­dute edifizi e monumenti della città di Vercelli che non comprende però alcuna docu­mentazione del patrimonio pittorico, come sottolinea un articolo del “Vessillo d’Ita­lia” del giugno dello stesso anno in cui l’articolista, rivolgendosi a Castellani, ricorda come “Le opere di Gaudenzio e quelle di Lanino sparse nella nostra città invitano al­tresì la vostra camera oscura: invocano anche quella del vostro valente collega e pittore Giuseppe Costa e voi provvedete ambedue ad appagare il desiderio.”[4] Il tono dell’ articolo lascia supporre una campagna di documentazione ormai in atto e parzialmente nota ma si deve rilevare come a tutt’ oggi non ne sia stata riscontrata traccia. Solo nel 1886 il fotografo Pietro Boeri (già titolare di uno” Studio di Fotografia e Pittu­ra”) realizza, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, un album dedicato agli “Af­freschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli”, realizzato ve­rosimilmente sulla scia delle celebrazioni del IV centenario della nascita dell’artista, che risulta localmente un esempio insuperato di documentazione e lettura fotografica di un ciclo pittorico.

Negli anni ’80 risultano quindi presenti a Vercelli gli studi di Giuseppe Costa, di Federico Castellani e la “Fotografia Nazionale” di Boeri-Valenzani; probabilmente chiuso è ormai lo studio di C. Fontana, mentre per ora non è possibile sapere se fossero ancora in attività l’antico studio di Pietro Mazzocca e quello di Giuseppe Ferrero dei quali per altro non si conosce la produzione. Proprio nel 1880, proveniente da Alessandria, giunge a Vercelli Pietro Masoero impiegato dapprima come apprendista e quindi come direttore dello studio Castellani, per cui lavorerà sino al 1892, anno in cui apre il pro­prio studio nella casa Tricerri. La figura di questo fotografo risulta ormai sufficiente­mente delineata[5] perché qui se ne debba ulteriormente definire il ruolo; resta da sot­tolineare però come al suo impegno pubblico in campo fotografico quale segretario del primo Congresso Fotografico Italiano (Torino, 1898) e poi membro dei Comitati orga­nizzatori dei due successivi congressi di Firenze (1899) e Roma (1911) si debba una rinnovata attenzione in sede locale per le problematiche connesse alla fotografia, che si traduce immediatamente in una notevole diffusione della pratica dilettantistica.

 

Il dilettante fotografo

Riprendendo in parte il titolo di un volume edito a Torino nel 1890, autore il marchese Dionigi Arborio di Gattinara, Masoero pubblica nel 1901 sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” il Decalogo del dilettante fotografo[6], tema a cui dedica anche la conferenza dal titolo Arte e beneficenza, tenuta al Teatro Civico di Vercelli il 26 aprile 1902, per la quale Ambrogio Alciati disegna il biglietto d’ingres­so, pubblicata l’anno successivo a Firenze da Salvatore Landi, il tipografo del “Bullet­tino”[7].

La conferenza, che significativamente cade nel periodo di apertura della Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica annessa alla Prima Esposizione di Arte Decorati­va e Moderna di Torino, precede la proiezione di centossessanta diapositive realizzate da numerosi dilettanti vercellesi, di cui il giornale “La Sesia” fornisce un elenco par­ziale: Virginio Locarni, Vittorio Petterino, Nerina Masoero (tutti presenti anche all’E­sposizione torinese), il marchese Arborio di Gattinara, Vincenzo Canetti, Secondo Gambarova, Giuseppe Tavallini, Giulio Cesare Faccio, Andrea Tarchetti ed altri. Le immagini che costituiscono la proiezione, non reperite, hanno titoli quali “ultime luci”, “tramonto”, “nubi vaganti”, “effetto di neve”, “pecorelle” e simili, propri della voga allora imperante della fotografia pittorica o artistica, “quella che sola me­rita il nome di “Arte”[8], fenomeno culturale multiforme e contraddittorio, rifiutato in blocco e quasi rimosso dalla critica e dalla storiografia. fotografica sino ad anni molto recenti[9], che ha invece costituito, seppure confusamente, la prima occasione, il primo momento di riflessione sullo specifico fotografico, sintetizzabile appunto nella questio­ne “se la fotografia sia un’arte o non sia”, secondo l’espressione usata da Enrico Tho­vez in uno degli articoli di commento alla Esposizione di Torino del 1898, in cui per la prima volta in Italia la fotografia artistica era ospitata in un’apposita criticatissima sezione.[10]

Al problema posto da Thovez, corredato da un’analisi molto attenta delle caratteristiche dell’immagine fotografica che gli consente di affermare che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero” e, in quanto tale, può fornire “non una riproduzione, ma una vera interpretazione, per quanto involontaria, della realtà” possiamo accostare le opinioni espresse nello stesso anno da Masoero[11], verosimilmente avendo in mente le stesse immagini che hanno stimolato le riflessioni di Thovez. Dopo aver riassunto sinteticamente i temi più consueti del dibattito, già a questa data ampiamente discussi e ripetuti, stancamente ripresi poi da numerosissimi autori per tutto il periodo precedente il primo conflitto mondiale, Masoero afferma risolutamente: “per parte mia la questione se la fotografia è un’arte o no, mi è sempre parsa di nessun valore [poiché] se la fotografia è suscettibile di afferrare e rendere gli aspetti della natu­ra con potenza e verità allorquando è con abilità maneggiata, non è per avere una natu­ra artistica in sé, ma perché risiede in chi di lei si serve; tanto è vero che per pretendere a delle forme artistiche è obbligata ad assumere delle apparenze che non sono sue . Essa è un’arte che deve evitare un pericolo, essa che è la manifestazione più pura del vero, di cadere nel manierato. E manierati, checchè si dica, sono tutti questi nuovi prodotti artistici, perché abbagliati dal mezzo, dalla forma dell’ opera, perdono di mira la parte principale del loro compito: il vero … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”.

Il rifiuto delle tecniche di manipolazione in stampa non potrebbe essere più netto, ma l’opinione di Masoero è in questi anni sostanzialmente isolata, povera di riscontri nella pratica fotografica corrente; ormai la Naturalistic Photography di Emerson si è trasfor­mata per i più in Fotografia Artistica[12] in cui come “in ogni opera d’arte, se tale vuo­le chiamarsi, è necessario che il carattere della mano dell’artefice si manifesti chiaro ed evidente … perché l’essere soggettiva è in aperto contrapposto coll’obbiettività in­trinseca generale della fotografia; … la macchina fotografica, se riproduce fedelmente le immagini che le sono dinanzi e spinge la sua esattezza scrupolosa nella ricerca di particolari che all’occhio sfuggono, non può riprodurre sempre quel sentimento pro­fondo che molte volte spira in un soggetto e che lo fa amare da chi lo riproduce … Ma quando l’immagine riprodotta riesce ad acquistare ed a trasfondere in chi la vede, quel sentimento che la rese cara all’operatore, allora realmente il fotografo può dire d’aver fatta arte colla fotografia … Se a questa riproduzione l’autore aggiunge la sapienza tec­nica del metodo di stampa, da accrescerne l’effetto voluto, sia usando procedimenti co­me la gomma, il carbone o la fotocollografia, oppure interponendo tele o veli fra la negativa e la carta o la lastra da stampare, allora egli potrà ottenere dei risultati che per grazia o sapore nulla avranno da invidiare a delle vere e proprie opere d’arte.”[13] La lunga citazione, che racchiude e riassume il nuovo credo estetico, porta la firma autorevole di Arturo Alinari, nipote del fondatore della più nota dinastia italiana di fo­tografi, e mostra chiaramente quale divario esistesse tra la pratica fotografica profes­sionale e l’attività dei dilettanti, i veri protagonisti di questa stagione del gusto fotogra­fico. “La fotografia artistica, s’intende, non può fare appello a un commerciante … dunque è ai dilettanti che essa si rivolge con tutte le sue risorse, con tutte le sue incogni­te, con tutte le sue promesse.”[14]

Con essa compare nella fotografia italiana, in modo massiccio, il motivo, la scena, l’immagine stereotipa mutuata dalla coeva produzione pittorica; se per tutto l’Ottocen­to è proprio nell’assenza del ‘motivo’ “la novità, anche se riduttiva e freddamente tecnica,della fotografia italiana, che non dipende dalla pittura, anzi se ne distingue net­tamente”[15], col nuovo secolo la situazione si ribalta e la ‘pittura’, intesa sinonimicamente come arte, diviene il modello indiscusso, il termine di paragone, la pratica di riferimento. In un confronto esplicito con essa si gioca la riflessione sull’ estetica fo­tografica, sebbene i commentatori più accorti neghino credito a quello che sarà poi de­finito “combattimento per un’immagine”. Mario Tamponi, in un articolo di data or­mai tarda (1909) pubblicato in “La Fotografia Artistica” che assume quasi il tono di una riflessione, di un riesame, afferma: “Noi non abbiamo voluto, come molti credo­no, rivaleggiare colla pittura e batterla, né abbiamo voluto imitarla sotto altro punto di vista che sotto quello del criterio artistico di chi lavora alla composizione del qua­dro … La fotografia artistica è dunque cosa ben diversa da ciò che si intende sotto il nome di fotografia; essa è quell’arte che mettendo a suo profitto alcune proprietà o pos­sibilità della fotografia, tende a fini artistici, cioè a dire, tende alla produzione di quadri o composizioni artistiche”[16].

Se il confronto è con la pittura e se questa trova nella manualità il proprio strumento espressivo allora tutto quanto di meccanico risiede nel processo fotografico va posto in secondo piano, sminuito; la produzione di immagini “fotografiche” viene sottopo­sta ad una dissociazione schizoide, si instaura una cosciente dicotomia tra matrice ne­gativa, prodotto asettico di un processo ottico-chimico-meccanico, e stampa positiva, la sola a cui venga riconosciuto lo statuto di immagine, prodotto della creatività manua­le del fotografo artista. Ancora Tamponi sottolinea come “la negativa ben difficilmen­te è perfetta; vi è da togliere, da aggiungere, da oscurare, da illuminare, da tagliare, ma più di tutto da togliere … Una negativa racchiude quasi sempre pur troppo una nega­tiva artistica, cioè presenta troppi particolari; bisogna togliere le cose inutili, avvicina­re al centro l’oggetto a cui si vuole dare importanza, togliere troppi particolari che af­fievoliscono l’idea della suggestione artistica, e aggiungere qualche volta alcun’altra cosa che può essere necessaria. Tutto ciò, m’affretto a dirlo, quasi senza ricorrere al ritocco della negativa”[17].

Si riconoscono i segni, in queste riflessioni modeste, di un idealismo di maniera, che vive dei lontani riflessi di una concezione del fare artistico che affonda le proprie radici nella tradizione rinascimentale, incapace di analizzare compiutamente la novità costi­tuita dalla tecnica fotografica, modellato rigidamente sulle valutazioni espresse pochi anni prima dall’Estetica crociana, dove il filosofo riflette, marginalmente e senza offri­re contributi di rilievo, sull’eterna questione che aveva occupato pagine e pagine delle riviste fotografiche: “Persino la fotografia – afferma Croce – se ha alcunché di artisti­co, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di cogliere. E, se non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno inelimi­nabile e insubordinato: e infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena? a quale un artista non farebbe una o molte variazioni e ritocchi, non toglierebbe o aggiungerebbe? “[18]

Andrea Tarchetti

Poco sappiamo sino ad ora della sua vita: nasce a Stroppiana il 10 febbraio del 1854 da Giuseppe e Caterina Grignolio; la famiglia si trasferisce però ben presto a Vercelli, certo prima del 1864, anno in cui nasce la secondogenita Teodolinda, a cui seguiranno Luigi, Margherita e Giovanni. Il primogenito Andrea, seguendo le orme paterne ab­braccia la carriera notarile per entrare quindi in magistratura, divenendo Procuratore Capo al Tribunale Civile di Vercelli; “la sua voluta modestia che sempre lo tenne lon­tano dalla vita pubblica” come recita il necrologio pubblicato su “La Sesia” del 28 dicembre 1923, quattro giorni dopo la sua morte, impedisce di seguire più a lungo le tracce della sua vicenda biografica e di delineare meglio la sua figura, certo nota in città se le esequie celebrate il giorno di Santo Stefano risultano una “imponente mani­festazione funebre” a cui partecipa col proprio gonfalone anche la Congregazione di Carità, mentre l’orazione viene letta dall’avvocato Francesco Ferraris.

Ancora “La Sesia” ricorda che egli “fu anche animo di artista e come dilettante fotografo si ricordano di lui dei lavori, paesaggi, quadretti di genere, illustrazioni di avve­nimenti, documentazioni grafiche di antichi edifici scomparsi, che erano delle piccole opere d’arte”. La descrizione, per quanto sintetica, non si rivela un compito d’occasio­ne ed appare oggi precisa e circostanziata, segno di una buona diffusione almeno locale delle immagini del notaio Tarchetti, fotografo dilettante. Nulla risulta invece a proposi­to delle circostanze che hanno portato al deposito della maggior parte della sua produ­zione fotografica nei fondi del Museo Borgogna, sebbene si possa supporre che essa derivi da una precisa sua volontà, come dimostrerebbe la presenza sia delle stampe de­finitive sia dei negativi e di alcuni clichè tipografici da questi ricavati, mentre l’altro consistente fondo locale di immagini di Tarchetti, conservato alla Biblioteca Agnesia­na, proviene – come ricorda Mimmo Vetrò nel saggio in catalogo – da una donazione di Ernesto Gorini che le aveva acquistate dal fratello di Tarchetti, Giovanni, agli inizi degli anni ’60, ed è costituito da sole stampe fotografiche.

La sua attività di fotografo, almeno per quanto è possibile ricostruire sulla base dei ma­teriali conservati presso il Museo Borgogna, inizia negli ultimi anni del XIX secolo al­ternando immagini di paesaggio (Il lago di Viverone, la Valtournanche) ad occasioni maggiormente legate alla cronaca degli avvenimenti cittadini, ma certamente i temi che maggiormente lo affascinano, a cui dedicherà sin dal principio la sua attenzione, sono quelli propri della fotografia artistica, come risulta dalle due immagini comprese nella proiezione organizzata nel 1902 (verosimilmente la sua prima presenza pubblica) Ef­fetto di neve e Sant’ Andrea,  influenzata forse quest’ultima dalla campagna di rile­vamento del principale monumento vercellese che Pietro Masoero conduceva in quegli anni e che avrebbe portato nel 1907 all’edizione del volume dedicato alla basilica, rea­lizzato in collaborazione con Romualdo Pasté e Federico Arborio Mella.

Proprio a Masoero, che nel 1900 era stato delegato al Congresso Fotografico di Parigi con Rodolfo Namias, fondatore della rivista nel 1894, si deve forse la presenza delle opere di Tarchetti sulle pagine de “Il Progresso Fotografico / Rivista mensile di foto­grafia scientifica e pratica” che ancora oggi si pubblica a Milano sotto la direzione del figlio del fondatore, Gian Rodolfo Namias[19], presenza che permane costante per cir­ca un decennio e porta complessivamente alla pubblicazione di circa 100 immagini. Nel numero di dicembre dell’anno 1904 sono citate per la prima volta fotografie di Tar­chetti, non reperite, che saranno comprese nel supplemento” Arte Fotografica” per il 1905: Sulle rive del Sesia e Arriva il babbo stampate in fotocalcografia mentre Una partita interessante, fotografia di Tarchetti dipinta da Valeria Josz di Milano, viene stampata in tricromia, come accade anche l’anno successivo per una Marina. La presenza di proprie immagini sul prestigioso supplemento costituisce certo un rico­noscimento importante per il dilettante vercellese, di cui si riconosce che “i lavori … sono come sempre ispirati da un gran buon gusto e conformi alle esigenze della tec­nica. L’avv. Tarchetti è un gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce tal­volta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto. L’avv. Tarchetti ci ha inviato i suoi lavori fuori concorso avendo già avuto la prima onorifi­cenza lo scorso anno nel nostro concorso.”[20] Questo commento, datato 1906, forni­sce una prima messa a punto dell’attività di Tarchetti: i temi più frequenti sono costituiti dalle “scene di vita” , cioè da immagini che ricorrendo alle possibilità concesse dalle nuove emulsioni rapide al gelatino-bromuro d’argento, pretendono di essere “istanta­nee” pur non riuscendo ancora a nascondere, per imperizia, il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli “attori”. Ciononostante le fotografie di Tarchetti risultano vincitrici sia del concorso indetto dalla rivista sia di quello indetto dalla Ditta Fumagalli di Milano, editrice di cartoline in parte utilizzate anche da “Pro­gresso” quale servizio per i propri abbonati.[21]

L’organizzazione artificiosa degli attori in scena non risulta comunque così evidente come potrebbe apparire dalle osservazioni sopra riportate o meglio non caratterizza univocamente tutte le immagini: se alcune di quelle riprodotte in cartolina, oggi com­prese nella collezione Peraldo, non sfuggono a tale artificiosità, denunciata persino in titoli quali Partiamo!, Primi servizi o Nonna solerte, le fotografie pubblicate sulle pagine della rivista, certamente selezionate da un occhio esercitato e attento, co­stituiscono ormai delle prove soddisfacenti in cui l’indagine del mondo contadino sem­bra staccarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica per mettere a frutto almeno in parte le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico.

La fama acquisita sulle pagine della rivista milanese si riflette anche nell’ ambiente cit­tadino, come mostra il commento de “La Sesia”[22] alla sezione fotografica della Esposizione organizzata dall’ Associazione “Pro Emigratis” che si tiene nei locali del nuovo asilo Umberto I dal 19 al 29 maggio del 1906: tra i pochissimi fotografi presenti (“Non molto copiosa ma interessantissima la mostra fotografica”) al solo Tarchetti, autore di “una serie di istantanee e vedute panoramiche”, viene riconosciuta la “bella fama di dilettante valente”, di lì a poco impegnato – crediamo – in una revisione pro­fonda del proprio lavoro e soprattutto del proprio atteggiamento nei confronti degli “attori” con cui compone le “scene di vita”, protagonisti in quegli stessi giorni delle lotte per la conquista delle otto ore che dilagano in tutto il vercellese. Il 30 di maggio infatti “un altro gruppo (di mondine) con la bandiera bianca e rossa, ripeté la dimostrazione e si portò alla Camera del Lavoro … quindi al municipio e alla sottoprefettura”[23] ed il giorno successivo la cavalleria carica i dimostranti sulla strada per Olcenengo. Tarchetti dedica a questi avvenimenti una breve sequenza di tre imma­gini (Sciopero), mai pubblicate su alcuna rivista fotografica, in cui lo sguardo affa­scinato con cui riprende il corteo delle donne molto deve alla struttura iconografica de Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, esposto per la prima volta alla Quadriennale di Torino del 1902.

Non sappiamo quanto profondamente, nella realtà, l’inattesa tra­sformazione degli umili contadini in gruppo sociale con una precisa coscienza di classe, abbia mutato la percezione del mondo rurale in un personaggio quale Tarchetti, ma è innegabile il riconoscimento di una trasformazione nel modo di scegliere i temi e comporre le immagini che caratterizza gli anni successivi al 1906, sebbene il quadro di riferimento complessivo continui ad essere costituito da una produzione tendenzial­mente ‘artistica’ che trova le proprie radici tematiche ed espressive nella tradizione pittorica del secondo Ottocento italiano. “Questo valentissimo dilettante – recita una nota critica del 1907 – ci ha ormai abituato ai paesaggi animati trattati da maestro e che strappano esclamazioni ammirative anche ai pittori. Come sempre anche questa volta, si distingue, per la rara abilità con cui sa cogliere i motivi della vita nelle città, nelle strade, nei campi, ottenendo sempre dei veri quadri, dimostrando quanto sia vi­vissimo in lui il desiderio di perfezionare il suo lavoro, tenendo conto delle nuove con­quiste senza giungere alle esagerazioni di certa arte fotografica che oggi per alcuni co­stituisce il non plus ultra, ma che si potrebbe chiamare incomprensibile per chi non è arrivato nell’arte a simile pretesa evoluzione.[24]

La polemica su “certa arte fotografica” che ricorre quasi esclusivamente alla stampa ai pigmenti, risulta essere decisamente pretestuosa sulle pagine di una pubblicazione quale “Il Progresso Fotografico” che propugna, per bocca del suo direttore Namias, il ricorso ai processi alla gomma bicromatata coi quali “si fa strada l’intervento del sentimento e gusto artistico dell’operatore nella produzione della copia positiva”[25] e sembra essere destinata ad aprire la polemica con “La Fotografia Artistica”, la nuova prestigiosa rivista internazionale pubblicata a Torino a partire dal 1904 da Annibale Cominetti, vercellese di origine[26], unanimemente considerata la pubbli­cazione culturalmente più avanzata del panorama fotografico italiano di quegli anni; la sola in grado di poter essere confrontata con la mitica “Camera Work” fondata da Stieglitz a New York l’anno precedente, a cui del resto la rivista torinese più o meno esplicitamente si rifaceva, propugnando la causa comune della “fotografia come stru­mento di espressione individuale”, di cui presenta almeno nei primissimi anni, un pa­norama ampio e variegato di autori e correnti anche profondamente diverse tra loro, che vanno dalle immagini di derivazione simbolista di Puyo, Demachy o Marchi per l’Italia, ai “quadri religiosi” di Riccardo Bettini, di cui il primo fascicolo del 1905 offre un allucinante La Trasfigurazione, alle stampe alla gomma di Luigi Cavadini, già presente ne “Il Progresso Fotografico” , che diviene uno dei più assidui collabora­tori della rivista sia come titolare della calcografia veronese da cui escono alcune delle tavole fuori testo che corredano la pubblicazione sia quale autore di immagini, special­mente vedute e paesaggi, marcate a volte da un sentimentalismo esasperato.[27]  Corredano questo variegato apparato fotografico, arricchito da riproduzioni delle ope­re esposte nelle più importanti mostre d’arte quali la Quadriennale di Torino e la Bien­nale di Venezia, articoli di diverso impegno e levatura, alcuni per così dire di carattere eminentemente teorico, di estetica, altri di taglio manualistico, dedicati all’analisi delle basi della fotografia artistica, nel tentativo di mettere a punto una tecnica dell’estetica in grado di per sé di garantire il raggiungimento di elevati traguardi artistici o forse ritenendo che il pubblico di dilettanti a cui essi sono rivolti sia sostanzialmente digiuno anche delle più elementari nozioni di tecnica fotografica, negando così implicitamente il carattere elitario che la rivista pretende di avere. Diversamente da quanto accade sulle pagine del periodico milanese le “scene di vita” pubblicate ne “La Fotografia Artistica” risultano molto più evidentemente costruite, con scelta accurata della posa, controllo minuzioso delle luci in ripresa e virtuosistico uso delle più varie tecniche di stampa, manifestazioni queste di un concreto ed evidente intervento dell’ autore che proprio nella sapienza delle manipolazioni mostra le proprie potenzialità espressive di artista, in grado di “modificare l’immagine secondo il pro­prio sentimento”. Poiché in realtà non sono certo i temi ed i soggetti prediletti a distin­guere gli autori presenti nelle pagine delle due riviste, che anzi – soprattutto a partire dal 1907 – diventano relativamente intercambiabili sino ad operare addirittura un ribal­tamento negli anni dopo il 1910, quando “Il Progresso Fotografico” apre le proprie pagine alle stampe alla gomma ed ai bromoli, mentre “La Fotografia Artistica”, che cessa le pubblicazioni nel 1916, abbandona gradualmente il filone delle immagini ‘simboliste’ per presentare una quieta sequenza di paesaggi, ritratti, animali e scene di genere.

Ciò che continua invece a differenziare le due testate è l’atteggiamento di fondo nei confronti della lettura dell’immagine; così nello stesso anno 1909 una immagine di Tarchetti compare quale Quiete campestre  sulle pagine di “Progresso” per assume­re ne “La Fotografia Artistica” il titolo più rarefatto e astratto di Nuages et rizières e dell’autore vercellese, indicato come uno dei più apprezzati ed assidui collaboratori della rivista sebbene la sua presenza sia sporadica e limitata a poche annate, si pubbli­cano significativamente quasi solo immagini di paesaggio, rifiutando di fatto la vasta produzione delle “Scene di vita e di lavoro” che tanta ospitalità trova sulle pagine della rivista milanese e nella produzione di cartoline.

Sono questi gli anni in cui più assidua è la presenza di Tarchetti: dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” mentre dal 1909 al 1912 ne compaiono dodici in “La Fotografia Artistica”; tra queste andranno collocate anche le sette fotografie presentate alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre ed il novembre del 1912 in occasione della Esposi­zione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione[28] a cui partecipano artisti quali Follini, Reycend, Allason, Morbelli e Mazzucchelli oltre ad una nutrita schiera di esponenti locali quali Alberto Ferrero, Francesco Bosso, Francesco Porzio, Attilio Gartmann ed altri.

L’iniziativa dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, impegnato negli stessi giorni a sostenere le nuove lotte dei lavoratori agricoli per la conquista delle otto ore[29], è invece seguita in ogni dettaglio dalle pagine de “La Se­sia” che commentando la sezione artistica ripropone tra le righe il conflitto tra produ­zione pittorica e immagine fotografica; dopo aver rilevato che “non tutte le opere che fanno parte della mostra … rispondono alle esigenze del programma compilato dai pro­motori”, parlando di uno degli artisti presenti, il vercellese Ferrero, rileva come egli certo non sia uno “di quei pittori, dei quali si sospetta qualche confidenza eccessiva con la prospettiva del tutto meccanica e artificiale della fotografia istantanea: prospetti­va non rispondente cioè alla visione fisiologica dell’occhio umano, e alle leggi della geometria descrittiva, di cui la prospettiva normale è appunto un ramo”. Al di là della confusione tra psicologia della percezione e strutture rappresentative fortemente codifi­cate, si ritrova in queste righe una eco dei dettami imposti dalla pittura impressionista con il lavoro en plein air ma anche, e forse più prossimo, un ricordo delle riflessioni di P. H. Emerson che nel suo testo del 1889 si era soffermato a riflettere proprio sul contrasto, sulla contraddizione si potrebbe dire, tra fisiologia dello sguardo e visione fotografica, rilevando lo scarto che esiste tra la precisione indifferenziata con cui la lastra registra l’immagine e la selezione dei piani e delle relazioni prospettiche operata fisiologicamente dal sistema visivo, per giungere infine a proporre un uso attento di alcuni espedienti quali la messa a fuoco selettiva (che si trasformerà nella pratica corren­te dei decenni successivi in un uso sfrenato del flou) proprio per simulare un livello “naturalistico” di percezione e costruzione dell’immagine, rifiutando quindi le specifi­cità della visione fotografica, considerate allora pressoché unanimemente prive di po­tenzialità artistiche.

Sono queste le opinioni condivise anche dall’anonimo recensore de “La Sesia” che chiude “la rivista degli artisti vercellesi con un cenno alla magnifica raccolta esposta dall’ avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del calore [è da intendersi ovviamente colore, cioè autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore. Tanto la raccolta di Tarchetti quanto quella del Tournon, hanno un alto significato tecnico e artistico, poiché indicano fino a che alto grado di interpretazione del vero possa giungere la fotografia, quando la si utilizzi con piena scienza dei suoi mezzi materiali e con elevati intenti d’arte.”[30]

La presenza di questi due autori, a cui si aggiunge nella mostra il solo G. Bertucci di cui nulla ci è noto, risulta particolarmente significativa nell’ambito di questa manifesta­zione, e non solo in termini di storia della fotografia locale: sia l’ingegnere Tournon, che sarà presidente della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, sia Tarchetti, il cui fratello Giovanni è agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettigné presso Santhià, so­no legati a filo doppio alla grande proprietà terriera che esprime in quegli anni, partico­larmente a Vercelli, tutti gli esponenti di maggior rilievo della classe dirigente, econo­mica e politica; fortemente connotata da una precisa volontà di difesa dei valori rurali intesi quale fondamento etico ed economico, e quindi culturale, dei rapporti sociali, in cui la città, salvata dai pericoli dell’industrializzazione, è intesa ancora quale appen­dice gestionale di un territorio agricolo, in un rapporto sostanzialmente non dissimile da quello che connette il nucleo rurale della grande cascina a corte al proprio tenimen­to, alla terra; dove alle nascenti rivendicazioni del socialismo si contrappone quello che Castronovo ha definito “patriarcato georgico”, intriso di paternalismo sociale, che si manifesta nelle associazioni benefiche e di carità quali la già ricordata “Pro Emigra­tis” o la Congregazione di Carità ma anche, con declinazioni diverse, nelle associazio­ni di mutuo soccorso. Ecco allora che le due presenze sono in sintonia col carattere celebrativo dell’Esposizione, che cade in un momento di forte conflitto sociale; le im­magini dei due autori si prestano ancora al processo, ormai sempre più anacronistico, di mitizzazione del mondo rurale, alla celebrazione di un orizzonte sociale bloccato che rifiuta ogni industrializzazione che non sia subordinata allo sviluppo dell’agricoltura e vive le nascenti manifestazioni dei conflitti di classe in modo quasi prepolitico, come rottura di un equilibrio che è culturale ancor prima che economico.

Scene di vita e di lavoro

La produzione fotografica di Tarchetti è dedicata a due grandi temi, il paesaggio e le scene di vita e di lavoro, suddivise queste ultime, come vedremo, in ulteriori, successi­ve categorie che corrispondono all’ordinamento dato dallo stesso autore alle proprie stampe. La cronologia ricostruita a partire dalle immagini pubblicate sulle diverse riviste mo­stra come tutti questi temi siano da subito compresenti e permangano per tutto l’arco della sua produzione, variando però anche sensibilmente nel trattamento, ciò che si tra­duce in scelte diverse di composizione dell’immagine e dell’inquadratura e nella scelta di particolari condizioni di luce, senza ricorrere mai a manipolazioni né a tecniche par­ticolari quali le stampe ai pigmenti, fedele in questo alla lezione sopra ricordata di Ma­soero; unica concessione esplicita al modello pittorico è costituita, in alcuni casi, dall’impaginazione della stampa definitiva, sovente tagliata per essere riportata a propor­zioni tra i lati estranee ai moduli fotografici, prediligendo in particolare gli schemi for­temente orizzontali, ottenuti eliminando drasticamente ampie porzioni di cielo, utiliz­zati sia per scene urbane – quali i mercati in piazza Mazzini – sia per le immagini di greggi e mandrie in cui il richiamo alla produzione pittorica coeva assume le forme di una ripresa quasi letterale, del resto riscontrabile anche in esempi apparentemente meno diretti come accade in Lavori campestri (1907 c.), di cui si conosce una ripro­duzione non datata, da porre in confronto con opere quali Primavera, di Clemente Pugliese-Levi, del 1882, o Prateria presso Vercelli, dello stesso autore, presentata all’Esposizione d’Arte Vercellese Moderna del 1922.[31]

I richiami alla pittura piemontese del secondo Ottocento sono evidentemente molto for­ti e, nel caso degli epigoni, si può parlare tranquillamente di sorprendenti coincidenze in cui risulta difficile valutare a quale delle due parti assegnare il debito; ma certo i confronti si fanno coi maggiori e così “In certi effetti ricordava il Fontanesi” dice Masoero commentando le fotografie di Virginio Locarni presenti all’Esposizione di Torino del 1902, e l’artista costituisce certamente uno dei termini di riferimento ricor­renti insieme a Lorenzo Delleani, quest’ultimo presente numerose volte in giurie di concorsi ed esposizioni fotografiche, senza troppo sottilizzare sulle differenze o meglio ricorrendo di volta in volta al modello che più si presta all’occasione. Così in Tarchetti gli “Studi di piante” successivi al 1905, (nei precedenti si registra la presenza della figura umana quale misura del paesaggio secondo una consuetudine fotografica ancora fortemente ottocentesca), richiamano con evidenza le atmosfere del paesaggismo natu­ralistico velato di romanticismo, in parte mitigato qui da una perfezionistica ricerca del vero che lo porta ad utilizzare per questi soggetti solo lastre di grande formato (18/24) da cui trarre prevalentemente stampe per contatto, in grado di restituire al massimo li­vello la ricchezza di dettagli e di toni della scena.

Come accade anche in Francesco Negri e in numerosi altri autori contemporanei, scarse sono le vedute di ampio respiro, i paesaggi aperti della pianura; la ripresa si dedica al dettaglio (“Boschi e piante” e “Piante e acqua”), il centro di interesse è costituito dalla configurazione ambientale complessiva, priva di singoli elementi emergenti, pre­feribilmente illuminata da luci diffuse, date da cieli coperti. La prevalenza del dato at­mosferico, sottolineato da contrasti di luce, cieli nuvolosi e tramonti si ritrova invece in alcune immagini del 1909-1911: le marine (Poesia del mare, Maestosa tranquil­lità), le vedute del Sesia (Pescatore, Dopo il temporale) e alcune immagini di montagna quali Il Mucrone e Il castello di Ussel, a cui forse possono essere accostate cronologicamente le vedute di Vercelli dal campanile del Duomo, non datate, che Tarchetti intitola significativamente “Cieli”. Ancora un forte interesse per il dato atmosferico si ritrova nella serie intitolata “Inverno” (1908-1912) in cui il centro di attenzione è costituito dal fenomeno nel suo svolgersi e non semplicemente dalle possi­bilità pittoriche che l’immagine della città coperta dalla coltre di neve può offrire. Qui il riferimento è prevalentemente fotografico e richiama in particolare le opere di Alfred Stieglitz, note in Italia per essere state presentate fin dal 1894 alla Esposizione Fotogra­fica di Milano e poi ancora, negli anni successivi, a Firenze (1898) e Torino (1902).[32] Il richiamo a Lorenzo Delleani ed al bozzettismo della scuola biellese è invece partico­larmente evidente in immagini quali La locomotiva, pubblicata in “La Fotografia Artistica” del 1912, e nelle serie dedicate agli animali, realizzate dopo il 1908 (Pa­scolo, Dopo il pascolo, Ritorno dal pascolo) in cui comunque si riscontrano rimandi precisi, in termini di struttura compositiva, anche alla già citata Prateria presso Vercelli di Pugliese-Levi. Queste immagini, che Tarchetti classifica come “Varie: vacche, pecore, ragazzi, casolari, polli”, comportano anche, in alcuni casi la presenza di figure e rientrano nella più vasta categoria delle “scene di vita e di lavo­ro”, titolazione quasi certamente non autografa, dovuta forse ai redattori di “Progres­so” come sembra indicare sia la presenza di titoli diversi per la stessa immagine a se­conda che sia pubblicata come illustrazione del periodico o edita come cartolina sia la ricorrenza dello stesso titolo a corredo di immagini di autori diversi, culturalmente an­che molto lontani da Tarchetti, quali Wilhelm von Gloeden.

All’interno di questa grande categoria tematica compaiono immagini di soggetto diverso (bambini, lavori agricoli, scene di strada) ma tutte legate alla documentazione del mondo rurale, sebbene di questo venga fornita un’immagine assolutamente parziale, privilegiando quali soggetti le occupazioni marginali come il taglio del bosco, la rac­colta di fascine, la spigolatura, il “ritorno dalla fonte”. Se si esclude un’immagine di mondine (Il lavoro nelle risaie del 1911) la risicoltura, il più importante ciclo pro­duttivo dell’agricoltura vercellese, base pressoché esclusiva dell’economia locale, non rientra tra i temi maggiormente frequentati da Tarchetti che privilegia invece soggetti legati alla coltura del grano (Falciatori, presente anche in cartolina, L’aratura ed altre) e questa scelta, se può trovare qualche fondamento nella biografia dell’autore, che riprende molte di queste immagini proprio nei pressi della tenuta di Vettigné di cui il fratello era agente, risulta essere soprattutto di tipo culturale, una scelta di non coinvolgimento, che consente di mantenere una distanza netta nei confronti del sogget­to, ciò che ne permette ancora, appunto, una lettura mitologica, finalizzata alla compo­sizione del quadro, della scena, sebbene alcune scelte espressive quali l’uso molto pre­ciso e calibrato dell’inquadratura, in cui la presenza umana risulta sempre privilegiata e dominante, inserita in un ambiente che la connota, e la tecnica dell’istantanea, definitivamente padroneggiata da Tarchetti dopo i primissimi anni, possano suggerire anche ipotesi meno univoche, un approccio fotografico al tema sempre in bilico tra bozzetti­smo e documentazione.[33]

Che tale fosse ormai il suo modo di operare lo dimostra la presenza di numerose varianti, corrispondenti a momenti successivi della stessa situazione, che risulta quindi documentata mediante una sequenza successiva di scatti, secondo un modo di operare allora proprio di pochi fotografi (si pensi, in un ambito diverso, a Primoli), che diverrà pratica corrente solo dopo l’introduzione della pellicola in rullo perforato, di piccolo formato. L’interesse per la sequenza in fase di ripresa (mai però riproposta in stampa) è evidente anche nelle due immagini di giochi di bimbi presentate in catalogo, mentre una variante dello stesso procedimento, finalizzata però alla ricerca di costanti compor­tamentali o tipologiche si rileva sia in altre immagini di giochi in cui il soggetto è sem­pre il “girotondo” (Giochi felici, Nell’ora del riposo) sia nella serie dedicata ai carri, costituita dalla documentazione esaustiva di tutte le varianti tipologiche locali di questo mezzo di trasporto.

Anche le scene di ambiente urbano hanno una loro cifra singolare, un poco passatista: se escludiamo la cronaca, che costituisce una produzione minore e d’occasione, Tar­chetti rivolge prevalentemente la propria attenzione a mestieri o modi di vita già allora in declino, e questa potrebbe essere letta come manifestazione di una sensibilità acuta se non fosse, più probabilmente, ancora una volta il sintomo di un rifiuto più o meno esplicito dell’industrializzazione. Certo anche qui la qualità delle immagini è general­mente notevole, la realtà viene indagata senza apparenti infingimenti e costruzioni arti­ficiose, ma l’occhio del fotografo opera distinzioni drastiche, e le assenze risultano si­gnificative; l’attenzione principale non è rivolta alla città che cambia, alla “città che sale”, ma a quella che resiste al cambiamento, che è ancora legata alla tradizione. Non immagini di manifatture e opifici, non di operai né di borghesi. Anche nelle scene urbane la città è vista solo in relazione alla campagna circostante: il ritorno dai campi, i venditori ambulanti, ma – soprattutto – i mercati, il momento dello scambio, uno dei nodi fondamentali del sistema di relazione tra centro e territorio, a cui Tarchetti dedica una splendida serie di immagini, mai pubblicate su rivista, alcune edite in cartolina. Altre cartoline ancora, tutte edite dalla ditta Larizzate di Vercelli, sono poi dedicate alla illustrazione dell’immagine della città, di cui si sottolineano prevalentemente le permanenze medievali, indagata sia negli aspetti monumentali (Sant’Andrea, il Brolet­to, le torri) sia negli angoli minori (il passaggio di Rialto, la cosiddetta Casa degli Ele­fanti), in cui rispunta in parte il tema del pittoresco (“Vercelli che scompare”). Sono, tutte, immagini anomale; lontane per impostazione e gusto dalla produzione consueta di questo autore, e solo l’inequivocabile indicazione sul verso ci convince ad attribuirle al notaio Tarchetti, dilettante fotografo, che qui fa sfoggio di una consumata abilità tec­nica nell’uso di macchine fotografiche decentrabili e basculabili, indispensabili ad otte­nere un perfetto controllo dei parallelismi, che sale ai primi piani delle case più prossi­me per riprendere le torri o la Piazza Cavour, costruendo immagini assolutamente indi­stinguibili dalla produzione corrente di soggetto simile realizzate in ogni parte d’Italia, applicando alla lettera i moduli canonici di impaginazione dell’immagine e di ripresa che erano stati messi a punto e di fatto codificati nella vastissima produzione dei grandi studi fotografici che si dedicavano alla documentazione, primi fra tutti gli Alinari. Per concludere la rassegna delle opere di Tarchetti o, meglio, per esaurire la serie dei temi da lui affrontati non rimane che parlare delle immagini che hanno per soggetto i bambini; serie vastissima, presente come una costante lungo tutto l’arco della sua pro­duzione a noi nota, che compare sia sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” sia in numerosissime cartoline. Se escludiamo una delle prime fotografie realizzate, scatta­ta a Roma e pubblicata nel 1905, anomala rispetto alla produzione successiva e stretta­mente legata all’occasione[34], tutte queste immagini si servono del soggetto infantile per costruire piacevoli quadretti di genere, segnati da uno sguardo affettuoso, in cui il sentimento idilliaco non è mai sfiorato dal sospetto dell’ironia, corredati di opportuni titoli (Passatempi infantili, L’età felice, Senza pensieri, Ore d’ozio e simi­li) che non fanno che sottolineare retoricamente il contenuto dell’immagine, rafforzan­do l’idea di una visione pacificata, bucolica appunto, del mondo rurale, in cui la pover­tà delle condizioni materiali di vita -che pure emerge evidente- è riscattata nella visio­ne dell’autore da una condizione aurorale di innocente felicità. La stessa quiete dei la­vori campestri, dei buoi all’aratro, delle schiene ricurve dei falciatori sotto i grandi orizzonti padani, dei piccoli gesti calmi, consueti, della vita sulle aie dei cascinali in cui, ancora, ad accentuare l’intimismo della scena sono quasi sempre presenti i bambini.

Il migliore dei mondi possibili? Uno sforzo sovrumano per guardare e non vedere? Nulla può essere escluso, ma alcuni indizi lasciano affiorare una possibilità di lettura meno semplicistica, che consente di riconoscere, in un quadro complessivo fortemente segnato dalle tematiche della fotografia artistica, elementi diversi e in parte divergen­ti, in un equilibrio precario che oscilla tra l’aneddotica delle immagini di bimbi e la “riproduzione del vero” dei paesaggi, avendo al proprio centro la vastissima produ­zione delle “scene di vita e di lavoro”, cioè tutte quelle immagini che vanno a compor­re un affresco complesso del mondo rurale delle campagne vercellesi d’inizio secolo, in cui il documento si mescola con la scena di genere ed a volte emerge a fatica da essa ma non è mai definitivamente escluso, negato, e non solo per l’incapacità struttura­le dell’immagine fotografica di staccarsi dal reale.

Una conferma in tal senso ci viene dall’analisi del suo proprio modo di organizzare le copie fotografiche, modo che riflette immediatamente il percorso di analisi dei sog­getti e di selezione delle immagini da proporre alle riviste. Circa trenta sono le classi in cui Tarchetti suddivide i propri soggetti, rilevabili dalle scritte autografe che segna­no ciascuno dei raccoglitori (buste, cartelline, faldoni) in cui le stampe sono conserva­te; scompaiono qui i titoli dal sentimentalismo facile, e le “Scene di vita e di lavoro” ritornano ad essere indicate quali “Agricoltura”, “Fiere e mercati”, “Carri”, “Vac­che e pecore”, “Ragazzi”, “Dintorni di Vercelli”, “Sesia” ed altri. Ciascuna di que­ste classi, che corrisponde ad uno o più contenitori, certamente impoveriti rispetto alla loro consistenza iniziale, comprende numerose immagini, a volte decine, altre centi­naia, che sono risultato del lavoro condotto sul tema, ripetutamente indagato, appro­fondito mediante la registrazione di numerose varianti non semplicemente iconografi­che, cronologicamente anche distanti tra loro. Lo si vede nelle minute scene di vita ru­rale ma anche altre serie, apparentemente meno significative, quali le già ricordate im­magini di carri da traino animale, in cui la varietà di mezzi e situazioni documentate è tale da poter essere letta quale vera e propria indagine tipologica, compiutamente do­cumentaria. Non è possibile credere che questa cospicua produzione, queste ampie se­rie tematiche, fossero destinate solo a costituire un repertorio di prove fotografiche a cui attingere per la realizzazione della bella immagine finale, di una ‘fotografia arti­stica’, sebbene esista una obiettiva coincidenza di temi, di soggetti, che lo accomuna a molti rappresentanti di questo filone, di cui del resto Tarchetti è stato uno degli esponenti più noti, come dimostra il grandissimo numero di sue immagini pubblicate nel primo decennio del secolo, testimonianza di una consonanza di gusto ampiamente dif­fusa e consolidata.

Ma forse la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica è solo apparente; una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[35], per uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, ”l’art et le document peuvent, et même doivent, s’ entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[36] Certo le contraddizioni sono molte e la ventilata possibi­lità di ricorrere a “saggi di ricostruzione storica” o all’inserimento di personaggi (ve­rosimilmente in costume) – che porta alla mente un certo filone della cultura torinese che va dalla realizzazione del Borgo Medievale nel Parco del Valentino alle fotografie di Edoardo di Sambuy e poi di Guido Rey – può sembrare forse una concessione ecces­siva, un prezzo troppo alto da pagare alla possibilità di raccogliere, comunque, per quanto disturbate da impropri rumori di fondo, delle prove documentarie sotto forma di immagini, ma questo atteggiamento potrebbe rivelare anche una concezione molto avanzata del concetto di documento e l’appello finale, il valore anche civile della pro­posta, forse potrebbe essere stato sottoscritto da Tarchetti; l’impegno di conservare al­meno in immagine alcune testimonianze della storia locale (compito che in Masoero assume la forma di un progetto finalizzato), dimostrato indirettamente anche dalla deci­sione finale di donarle al Museo Borgogna, ci consente oggi di ricorrere ad esse quale fonte documentaria relativa alle condizioni materiali di vita delle popolazioni dell’agro vercellese di inizio secolo, e di riconoscere lo sguardo con cui la borghesia urbana le osservava.

Note

 

[1]  “Il Vessillo della Liberta”, Vercelli, 27 settembre 1860 e 30 aprile 1863. La data del 1863 è indicata anche in Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Edizioni Quasar, 1978, p. 126.

 

[2] Per le notizie relative ai dagherrotipisti biellesi cfr. Becchetti 1978,  p. 55-56 ed anche Michele Falzone del Barbarò, Schede, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 2 , pp. 903- 942.

 

[3] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1887, in Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa,  catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 149-158.  Per Giuseppe Costa cfr. Claudia Cassio, a cura di, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980,  pp. 212-214. Giusep­pe Costa risulta ancora presente all’ Esposizione del 1906 con un ritratto ad olio del barone  Vincenzo Cesati, cfr. L’Inaugurazione dell ‘Esposizione “Pro Emigratis” all’Asilo Um­berto I, “La Sesia”, 36 (1906), n. 61,  22 maggio .

 

[4] C. Cassio 1980, p. 202.

 

[5] Il primo studio relativo a Masoero si deve a Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973,. Per altri saggi sulla produzione di questo fotografo, in particolare sulle campagne di documentazione del patrimonio artistico ed ar­chitettonico vercellese cfr. LINK MASOERO 1985 . Cfr. anche LINK MASOERO 1986.

 

[6] Dionigi Arborio di Gattinara, Carnet del Dilettante Fotografo. Torino: Tipografia Editrice C. Candeletti, 1890;  Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901 quindi nel “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167.

 

[7] Cfr. Marcone 1973, p. 28. Per il testo della conferenza cfr. Pietro Masoero, Arte e Beneficenza. Firenze: Tipografia di Salvatore Landi, 1903. Nei primi anni del secolo ri­sulta a Vercelli una notevole presenza di studi fotografici, di cui si presenta qui un primo elenco in attesa di completare le ricerche tuttora in corso sui Fondi Fotografici Vercellesi, condotte, per incarico dell’Assessorato per la Cultura del Comune di Vercelli, da chi scri­ve in collaborazione con Domenico Vetrò. Oltre ai noti studi fotografici di Boeri, Castellani, Costa, Masoero e Valenzani risultano presenti anche E. Rosetta, già collaboratore di G. Costa, G. Orlandi, R. Vercellino , S. Gambarova, che passa al professionismo dopo le prime prove da dilettante, M. Pozzi, G. Borghello e L. Corona, il solo fotografo vercellese presente all’Esposizione di Torino del 1911, cfr. Esposizione Internazionale di Torino 1911: Catalogo Ufficiale Illustrato del­l’Esposizione e del Concorso Internazionale di Fotografia. Torino: Tipografia Momo, 1911.

 

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, pp. 4-5.

 

[9] Marina Miraglia, La fotografia pittorica, in Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979,  pp. 9-15.

 

[10] Enrico Thovez, Poesia fotografica,  “L’Arte all’Esposizione del 1898”, n. 9, pp. 67-70, ripubblicato in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 277-281.

 

[11] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171. L’opinione di Masoero viene ripresa quasi letteralmente in un articolo di Albert che compare più di dieci anni dopo: “L’arte fotografica deve restare nettamente fotografica. È solo a questa condizione assoluta che essa può esse­re ammessa come arte. Essa non deve cercare di imitare né il pastello, né lo sfumino, né la matita, né l’acquarello: è necessario che resti una fotografia e cioè una cosa che non si può visibilmente ottenere che con mezzi puramente fotografici”; Armand Albert, Cosa intendo per fotografia artistica, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), n. 10, pp. 292-95, citato in Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2, pp. 421-544 (503-504).

 

[12] Il termine “fotografia pittorica” a cui si fa comunemente ricorso in Italia per indicare questo fenomeno è in realtà una definizione piuttosto recente; al momento della sua massi­ma diffusione tale fenomeno fotografico era comunemente noto come “fotografia artisti­ca”. Si veda a questo proposito la precisazione contenuta nel già citato testo di Tam­poni del 1909 (cfr. nota 8): “L’appellativo di “Pictorial” che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione. Risulta evidente credo che non si tratta di una semplice precisazione filologica ma di una diversa concezione critica; per l’autore il termine “pittorica” sancisce una dipen­denza dalle “arti maggiori” che egli non è disposto a condividere.

 

[13] Arturo Alinari, Le Fotografie Artistiche. Appunti critici, “La Fotografia Artistica”, 3 (  1906),  n. 2,  pp. 25-26.

 

[14] Tamponi 1909, p. 4.

 

[15] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in  Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979,  p. 67.

 

[16] Tamponi 1909, p. 4.

 

[17] Ibidem. È necessario ricordare che in quegli anni non sempre risultava in modo così netto la distinzione tra fotografia artistica e documentaria. Anche per la fotografia di guerra “volendo copie fotografiche di bell’ effetto e stabili, da destinare ai musei del Risorgimen­to, si farà ricorso al processo al pigmento o ancor meglio al processo al bromolio che può permettere ad un operatore artista di rimediare alle manchevolezze della fotografia ed aumentarne l’effetto”, Rodolfo Namias, Per la documentazione fotografica della nostra guerra,  “Il Progresso Fotografico”, 22 (1915),  n. 6, pp. 161-166.

 

[18] Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione linguistica generale. Bari: Laterza, 1902. Il brano è citato in numerose storie della fotografia italiana e riportato in Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia. Bari: Laterza, 1982, p. 147.

 

[19] Colgo l’occasione per ringraziare il dotto Gian Rodolfo Namias che mi ha consentito di consultare le preziosissime annate della rivista che fanno parte della sua collezione priva­ta, fonte indispensabile per determinare, seppure approssimativamente, la cronologia delle opere di Tarchetti e per ricostruire il dibattito che si è svolto in quegli anni intorno alle valenze espressive dell’immagine fotografica.

 

[20] “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10,  p. 145.

 

[21] “II Progresso Fotografico”, 12 , (1905), n. 3. Le sole cartoline di Tarchetti sinora note sono conservate nella collezione vercellese di Giorgio Peraldo, che ringrazio. Già nel giugno del 1901 sulle pagine della rivista si annunciava la pubblicazione di cartoline, utilizzate quali immagini fuori testo, che saranno inviate separatamente agli abbonati. Nella stessa occasione si an­nuncia anche la pubblicazione, presso lo stesso editore, del periodico “La Cartolina”. L’anno successivo il reparto di fotocollografia di “Progresso” viene messo a disposizione degli abbonati per la stampa a pagamento di cartoline tratte da loro fotografie, cfr. “Il Progresso Fotografico”, 8 (1901),  n. 6:  9 (1902), n. 1. Oggi (2022) una significativa scelta di quelle cartoline, appartenenti all’Archivio Fornacca di Candelo (BI), è visibile all’indirizzo https://frafor.com/fotografo-tarchetti/.

 

[22] “La Sesia”, 36 (1906),  n. 64, 29 maggio. Alla sezione fotografica della mostra, intitolata” Arte e beneficenza” rifacendosi all’iniziativa promossa nel 1902 da Masoero, che risulta nel Comitato Ordinatore col pittore Ferdinando Rossaro e lo scultore France­sco Porzio, partecipano solo sette fotografi (Aldo Guallini, Luigi Caberti, Pietro Bellone, Carlo Gastaldi, Andrea Tarchetti, Cesare Grosso, “un intelligente operaio che si diletta di fotografia” e Ugo Graneri). Come si vede, a questa data Tarchetti è il solo rimasto del folto gruppo di dilettanti presentati da Masoero nella precedente proiezione del 1902.

 

[23] L’agitazione agraria nel Vercellese, “La Sesia”, 36 (1906),  n. 65, 1giugno 1906.

 

[24] “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), p. 163; 15 (1908), p. 329.

 

[25] Il Congresso Nazionale delle Arti Grafiche, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), pp. 156-157.

 

[26] Non è per ora possibile stabilire se esistessero legami di parentela tra Annibale e Giuseppe Cominetti, che nasce a Salasco (VC) il28 ottobre del 1882. Per Annibale Cominetti non sono state sinora effettuate indagini esaurienti, basti però ricordare che la madre, la nobil­donna Paola Cominetti era nativa di Vercelli, come si ricorda nel necrologio pubblicato in “La Fotografia Artistica”, 1913. Vercellese era anche Guido Momo, titolare dello sta­bilimento tipografico torinese che stampava la rivista. Anche Momo muore nello stesso anno, in febbraio, a seguito di un incidente occorsogli a Parigi.

 

[27] Per Luigi Cavadini cfr. La Fotografia Pittorica 1979, pp. 31-34, scheda a cura di Alberto Prandi.

 

[28] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione Mostra d’arte della campagna irrigua. Catalogo delle opere esposte, Vercelli, Gallardi e Ugo, s.d. (1912). Per i com­menti alla Mostra cfr. “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

 

[29] Inaugurando l’Esposizione Risicola, “La Risaia”,  13 (1912), n. 44, 26 ottobre: “L’Esposi­zione è dunque dei poveri e dei lavoratori e giova ai ricchi, ma non è forse così sempre?” Ed ancora: “il discorso del ministro Nitti” fu la glorificazione del grande assente, del lavoro, che era altrove e non lo ascoltava.”

 

[30] Cfr. “La Sesia” 1912. Le fotogra­fie a colori ricordate dall’articolista, più correttamente definite “diapositive” nel catalogo della Mostra, corrispondono verosimilmente alle autocromie oggi conservate alla Fondazione Sella di Biella, due delle quali sono state pubblicate in Miraglia 1981,  tavv. 679-680. A sottolineare il preciso interesse di Tournon per la fotografia occorre ricordare che nella Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tiene nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911, alcune delle pubblicazioni esposte, relative al primo periodo della storia della fotografia, sono appunto di proprietà del Tournon. Egli non compare invece tra i fotografi selezionati per il Concorso Interna­zionale di Fotografia che si tiene nella stessa occasione, mentre risultano presenti Vittorio Sella, nella sezione del CAI, Roberto Mosca ed il vercellese Luigi Corona. Cfr. Esposi­zione Internazionale di Torino, 1911. Catalogo.

 

[31] Per Clemente Pugliese-Levi cfr. Esposizione d’Arte Vercellese Moderna. Vercelli: Gal­lardi e Ugo, 1922. Angela Ottino Della Chiesa, Clemente Pugliese-Levi (1855-1936).  Mi­lano: Mondial Gallery, 1961.

 

[32] Per Francesco Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924. Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969. Sebbene una certa uniformità nel trattamento delle immagini di paesaggio fosse co­mune a molti dei dilettanti fotografi di inizio secolo (“vi sono nei paesaggi inanimati ca­ratteri di somiglianza anche se eseguiti da autori diversi in località diverse” rileva un arti­colo redazionale dedicato a L’esito del Concorso per le illustrazioni del “Progresso Foto­grafico” nel 1908 , “Il Progresso Fotografico” , 14 (1907), p. 162) il riferimento a Francesco Negri risulta, per i fotografi vercellesi, quasi obbligato. Le sue immagini so­no conosciute a Vercelli sia per il tramite delle proiezioni organizzate da Masoero, di cui Negri era intimo amico, sia per la sua presenza diretta in numerose occasioni quali la con­ferenza da lui tenuta alla Unione Eusebiana la sera del 27 gennaio 1906, dedicata alla illu­strazione storico artistica del Santuario di Crea, cfr. “La Sesia”, 36 (1906),  n. 13, 30 gennaio.

Per l’influenza di Stieglitz sulla fotografia italiana cfr. il saggio già citato di Miraglia 1981 e anche Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica. In Federico Zeri, a cura di,  Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 545-586.  Si veda in particolare la fotogra­fia di Federico Tensi, L’abreuvoir alla tav. 737 in cui, seguendo la lezione del grande fotografo americano, ciò che costituisce il soggetto della scena è la sua connotazione com­plessiva sottolineata dai dati atmosferici.

 

[33] Una attenzione per il mondo contadino sempre in bilico tra documentazione e scena di genere si riscontra già in molta produzione fotografica ottocentesca. Si vedano a questo proposito alcune delle immagini contenute in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979; Marina Mira­glia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bolletti­no d’Arte”, 70 (1985), serie VI, n. 33/34, settembre/dicembre, pp. 199-206; Bertelli,. Bollati 1979, tavv. nn. 32-33 ed anche, per un sommario panorama della produzione internazionale, Françoise Heilbrun, Philippe Néagù, Musée d’Orsay. Chefs-d’oeuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers- RMN, 1986. Ciò che cambia in Tarchet­ti, ed in altri fotografi dilettanti a lui prossimi, quali Giovanni Sanvitale di Parma, l’avvocato Umberto Beccuti di Moncalvo o il biellese Franco Bogge, è la modalità di approccio al tema, che in questi autori è programmaticamente quello dell’istantanea, di una tecnica cioè in cui costruzione della struttura compositiva dell’immagine (che porta tendenzialmente alla posa) e scelta dell’attimo fuggente (che è specifica delle possibilità tecnico-espressive della fotografia) faticosamente convivono.

 

[34] L’immagine viene pubblicata in “Il Progresso Fotografico”, 12 (1905), n. 5, luglio, col titolo  errato  Ciociari sulla scalinata del Campidoglio a Roma. Si tratta invece, come è facile verificare, della scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna. Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini, 1956, p. 246, commentando un’immagine di soggetto simile, dovuta a Giuseppe Primoli e datata circa il 1890, ricorda che i ciociari “veniva­no in particolare da Anticoli Corrado e Saracinesco. L’uso di star ad aspettare ingaggio [come modelli] sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui gradini della chiesa dei Greci, cominciò con la pittura di genere e finì con la prima guerra mondiale”.

 

[35] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n. 2, febbraio, p. 30.

 

[36] Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese (1985)

in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

 

“lo non ho che un rimpianto, ed è che la fotogra­fia non sia ancora giunta a fermare sulla lastra i colori, per poter presentare queste opere in tutto il fulgore della loro bellezza.”[1] Così si esprimeva Masoero illustrando al pubblico della Società Artistica di Milano la sua confe­renza sulla Scuola pittorica vercellese, già presentata nei primi mesi del 1900 nell’aula della scuola di anatomia della Accademia Albertina di Torino, per la serie di conferenze in­dette dalla Società Fotografica Subalpina[2]. Erano questi gli anni di maggiore impegno per Pietro Masoero, il cui attivismo in campo fotografico veniva riconosciuto ufficialmente dap­prima col conferimento di una “Grande meda­glia d’argento data dal Ministero della Pubbli­ca Istruzione”[3] per le sue speciali benemerenze verso l’arte fotografica, quindi con la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia. Furono questi riconoscimenti a coronare il suo impegno de­cennale di protagonista del dibattito fotografi­co italiano ed a segnare il suo definitivo ricono­scimento a livello nazionale, insieme ad altri, pochi, nomi di fotografi piemontesi: Francesco Negri, Secondo Pia, Vittorio Sella; ciò che forse stupirà chi si occupa di storia della fotografia italiana, poiché il nome di Masoero è a tutt’og­gi, a fronte di quelli appena citati, quello di uno sconosciuto.

L’attività di Masoero, nato ad Alessandria nel 1863, inizia a Vercelli, dove dal 1880 è impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio Ca­stellani. L’apprendistato in questo studio non è senza conseguenze per la sua formazione: Fe­derico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli, presentando nel 1873 il suo Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, si qualificava qua­le “membro dell’Accademia artistica Raffaello – Socio Onorario dell’Istituto di Belle Arti del­le Marche … “, dimostrando un interesse per il mondo dell’arte che certo non passò inosserva­to al giovane aiuto, così come si deve presumi­bilmente sempre ai Castellani se Masoero ri­sulta, al 1892, con Teresa Castellani (vedova di Luigi, morto nel 1890) Felice Alman, Carlo Mar­setti e Vittorio Sella uno dei pochissimi abbo­nati piemontesi al “Bullettino della Società Fo­tografica Italiana”, allora e per molto tempo ancora il più qualificato organo a stampa del mondo fotografico italiano.[4]

Il 1890 segna il passaggio alla attività in pro­prio. Masoero apre in giugno il suo studio, ma la sua emancipazione risale a qualche tempo prima quando – ancora direttore dello studio Castellani – illustra il numero unico de «La Se­sia» dedicato alla inaugurazione del monumento a Garibaldi. Alcuni anni dopo illustrerà un altro numero unico, dedicato all’ossario di Pa­lestro, fotografando sia i luoghi della battaglia che i progetti dell’ossario e lo stesso architetto Sommaruga.[5] Nascono questi incarichi dal consolidamento della sua fama locale e dai suoi rapporti con l’ambiente vercellese di matrice liberal-progressista, iniziati alcuni anni prima quando, nell’ambito della Associazione Gene­rale degli Operai per mutuo soccorso ed istru­zione, di cui è presidente, entra in contatto con Antonio Borgogna e quindi con Cesare Faccio, cui si deve forse l’incarico a Masoero per la do­cumentazione dell’ossario.

Ancora nel 1898 il n. 4 di “Arte Sacra”, dedicato a Vercelli, conterrà numerose fotografie di Ma­soero, tra cui la Madonna degli aranci di Gau­denzio Ferrari in San Cristoforo e la Madonna della Grazia in San Paolo, immagine che illu­stra un breve testo dallo stesso titolo, siglato P.M., verosimilmente da attribuire a Masoero stesso, che costituisce il primo documento no­to del suo interesse per il patrimonio artistico vercellese. Da sottolineare come si debba ascri­vere alla capacità di Masoero di costruire e consolidare da un lato relazioni sociali qualifi­cate e dall’altro di superare il ruolo di fotogra­fo per dedicarsi alla pubblicistica di divulga­zione culturale, il progressivo e rapido consoli­damento del suo ruolo di documentatore del patrimonio architettonico e artistico vercelle­se che in precedenza era stato svolto da Castel­lani e soprattutto da Pietro Boeri, il quale con l’album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella Chiesa di San Cristofo­ro a Vercelli, edito nel 1886, aveva fornito un ec­cellente esempio, mai superato a livello locale, di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico.[6]

Agli impegni locali si affiancano a partire dal 1898 le attività più specificamente connesse al­la professione fotografica che lo vedono impe­gnato sia nel campo della qualificazione pro­fessionale – sua è la prima proposta di istitu­zione di una scuola di fotografia[7] – sia nella ri­flessione teorica sullo specifico fotografico: “La fotografia – si chiede Masoero – è un’arte o no ? .. nel nostro lavoro vi è una parte scientifi­ca ed una artistica … L’arte interviene nella de­terminazione della posa, e la migliore esposi­zione è un’ispirazione … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotogra­fia e non incisione, o pastello o altro”.[8]

A questa lucidità corrisponde un altrettanto chiaro impegno morale: “L’arte fotografica de­ve avere un compito, un mandato: lo studio del­la natura in modo vero, perfetto, sia nell’insieme sia nel particolare. L’arte fotografica deve avere un’ispirazione: di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte con le sue potenti verità.”[9]

Le riflessioni di carattere teorico sono seguite da interventi più puntuali, in cui l’uso dello strumento fotografico è analizzato nelle sue possibilità e difficoltà tecnico-espressive; così, riflettendo sui problemi della fotografia di do­cumentazione artistica, Masoero affronta il problema delle conseguenze della dilatazione dei supporti positivi per cui la “dilatazione del­la carta non meno nocumento porta alle linee architettoniche di un monumento, facendo pa­rere più larghi o più acuti certi archi in cui un’i­nezia può far perdere assai della loro grazia, così pure un disegno, particolarmente di piani e sezioni, e di quadri.”[10]

Con questi presupposti ci si potrebbe attende­re una specializzazione professionale nel cam­po della documentazione del patrimonio arti­stico ed architettonico, ma ciò non avviene. L’ampliarsi della sua fama è dovuto alle quali­tà di ritrattista, per le quali riceve, a partire dal 1893 alla Esposizione di Ginevra, una messe di premi, ed al suo impegno di organizzatore e di divulgatore a livello nazionale ed internaziona­le che lo vede tra i segretari dei primi due con­gressi fotografici italiani (Torino 1898, Firen­ze 1899), quindi rappresentante con Rodolfo Namias della Società Fotografica Italiana al Congresso di Parigi del luglio 1900 e autore di quel Decalogo del dilettante fotografo, pubbli­cato per la prima volta nel 1900, che divenne immediatamente il suo testo più noto e celebra­to.[11] Non è questa la sede per indagare a fondo le motivazioni che lo portarono invece ad inte­ressarsi, a titolo personale, del patrimonio arti­stico, motivazioni che nascono da una serie complessa di rapporti e riferimenti, costituiti dalla presenza in ambito locale di personaggi quali Camillo Leone e Antonio Borgogna e dal ruolo svolto da quelle singolari figure di foto­grafi piemontesi che sono Francesco Negri e Secondo Pia, con cui Masoero era in contatto, che certo gli furono esempio e termine di riferi­mento per la sua attività di uomo di cultura che usa le possibilità nuove offerte dalla fotografia per realizzare quel processo di promozione cul­turale che era il fine ultimo della sua azione. “Il Pia dona alla storia futura – dice Masoero – quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo la­voro è l’elemento più prezioso per chi studia”.[12] In questo breve giudizio, che è anche una dichiarazione di intenti, si legge con chia­rezza la posizione del fotografo che individua nell’obiettivo della commercializzazione il li­mite culturalmente negativo delle campagne fotografiche dei grandi stabilimenti, a favore di un progetto che si vuole caratterizzare inve­ce quale operazione culturale e strumento di conoscenza. Da qui l’attenzione per la fotogra­fia come mezzo che ci viene suggerita dalla con­ferenza presentata a Parigi al Congresso Foto­grafico Internazionale su L’applicazione della fotografia allo studio dell’arte[13], di cui non ci è pervenuto il testo, che indica fin dal titolo il ruolo strumentale assegnato alla nuova tecni­ca, senza che per questo ne venga misconosciu­to il valore autonomo, che anzi si fonda proprio sul riconoscimento dello specifico codice lin­guistico connesso all’uso coerente delle parti­colari qualità di traduzione.[14] Né si può dimen­ticare che questo progetto si inseriva coerente­mente in quella ampia corrente di opinioni e comportamenti che Ando Gilardi ha definito “socialismo fotografico”, ben sintetizzata nelle parole di Paolo Mantegazza: “… come il Cristo nel Vangelo, che moltiplicava i pani e i pesci per sfamare le moltitudini, essa [la fotografia] moltiplica le opere d’arte e concede anche ai di­seredati della fortuna, il possedere una dome­stica galleria dei quadri più insigni dei sommi artisti”.[15]

L’iperbole retorica del brano può forse scon­certare e risultare oggi per certi versi non com­prensibile e artificiosa, ma offre esattamente la misura del tempo trascorso e la distanza che ci separa dallo spirito di quelle iniziative in cui l’uso delle scoperte e invenzioni più recenti ve­niva posto al servizio di un progetto politico­ culturale preciso.[16]

La fotografia di documentazione quindi non tanto e non solo quale ausilio dello studioso e merce da offrire al turismo colto dell’epoca, ma anche strumento di definizione di varie identità culturali che nelle radici locali cerca­no le basi per un riconoscimento paritetico a li­vello nazionale, e in questo senso il caso vercel­lese mi pare sintomatico, e ancora, ausilio di­dattico, strumento di realizzazione del pro­gramma che abbiamo ricordato.

Questi temi e problemi convergono e si concretizzano nella serie di conferenze tenute da Pie­tro Masoero: Arte e fotografia[17]  ampia e do­cumentata rassegna sulle principali tendenze fotografiche nazionali ed internazionali e La scuola pittorica vercellese, che cercheremo di presentare in modo più dettagliato.

“Le conferenze con proiezioni rappresentano la forma migliore che presentemente si usa nei grandi centri per illustrare l’arte (…) le proiezioni sono indispensabili, imperocché nessuna parola, per quanto viva e colorita essa sia, riuscirà mai, neanche lontanamente, in un tempo lun­ghissimo, quello che la proiezione in un attimo stampa indelebilmente nella mente dell’ascol­tatore”.[18] Il testo della conferenza, di circa ot­tanta pagine compilate a mezza colonna, corre­dato da 78 diapositive (90 in una prima redazio­ne) si suddivide in due parti: la prima, che si apre con una breve descrizione delle vicende storico-politiche del Piemonte e del Vercellese, passa in rassegna quelli che vengono indicati quali precursori della scuola vercellese (Boni­forte Oldoni, Eusebio Ferrari da Pezzana, Mar­tino Spanzotti, Defendente Ferrari, Stefano Scotto) e si conclude con una lunga analisi delle opere di Gaudenzio Ferrari (pp. 20-45) da cui qui importa estrarre e riconoscere le moti­vazioni di fondo, riferibili a tutto il fenomeno, che hanno spinto Masoero a studiare e divulga­re le opere di questi pittori, ben sintetizzate nel brano dedicato alla Madonna degli aranci:  “Basterebbe questa sola opera per dare ad un artista gloria imperitura (…) Eppure quanti la co­noscono? Pochissimi, ed il silente coro della chiesa, che tale tesoro accoglie, rare volte sente interrotta la sua pace claustrale dal bisbiglio di ammirazione dei visitatori; ed il più sovente, questa, non è espressa in italica favella”.[19] Ecco allora la necessità di divulgare, di far co­noscere, come avviene anche per Bernardino Lanino per il quale “una delle cause per cui (…) fu troppo dimenticato è quella che pochissimi suoi lavori sono noti e visitati”.

L’opera del Lanino è presa in esame nella se­conda parte della conferenza che iniziando da una breve disamina della nascita dell’interesse per la scuola pittorica vercellese e del costituir­si di una storiografia specifica, individuati nel­l’opera di Roberto d’Azeglio e degli “studiosi di patrie glorie (che) andarono alla ricerca delle opere dei maestri vercellesi”, prosegue con gli anni della formazione del Sodoma per passare quindi ad analizzare l’opera di Gerolamo Gio­venone e Bernardino Lanino e concludersi con gli anni della decadenza, che Masoero fa coinci­dere con la morte del Lanino stesso, mentre “gli eredi della fama e delle ricchezze delle tre fami­glie (Oldoni, Giovenone, Lanino) che fondarono nutrirono e formarono la scuola, la più bella gloria artistica di tutto il Piemonte, si adagia­rono nella agiatezza e nella facilità connesse ad un bel nome, e non si scossero più”. La produ­zione laniniana viene descritta ed analizzata nel suo svolgimento cronologico e nella sua evoluzione stilistica a partire dagli affreschi del Duomo di Novara, ora collocati ad una data più tarda, di cui presenta la Fuga in Egitto “frammento di vaste composizioni, trasportato nella sacrestia (…) allorché si demolì l’antica chiesa, in cui furono dipinte da questo artista quando ancora sentiva tutta l’influenza del suo maestro Gaudenzio Ferrari”[20], per giungere si­no alla Madonna della Grazia in San Paolo, con­siderata “la tavola più importante del maestro [che] tuttavia è affatto sconosciuta”.

Se escludiamo il ciclo di affreschi novaresi il percorso visivo laniniano suggerito da Masoe­ro è tutto interno alle opere vercellesi (ricordia­mo che la conferenza si tenne anche a Milano) e comprende oltre ai lavori già citati parte degli affreschi del ciclo delle Storie di Santa Cateri­na, a proposito dei quali, correggendo un giudi­zio dell’abate Lanzi che diceva il Lanino “nato come il Ferrari per grandi istorie”, ricorda che “troppo spesso si inspirò alle composizioni del maestro suo e non seppe opporsi alla tendenza dei figli, che badarono piuttosto a fare molto che bene”, lo stendardo della Confraternita di Sant’Anna, l’affresco nel coro della chiesa di San Bernardino “un saggio delle composizioni drammatiche del maestro vercellese”, il Com­pianto sul Cristo morto a San Giuliano, la Depo­sizione dipinta per la chiesa di San Lorenzo e la Madonna col Bambino e Santi, entrambe alla Sabauda, la Madonna del cane del museo Bor­gogna e la Pala Olgiati a San Paolo. Risulta dal­l’elenco l’assenza totale di opere anche molto note come quelle biellesi, all’ epoca già fotogra­fate da Secondo Pia; il dato mi pare interessan­te: esclusa l’ipotesi della non conoscenza, è Ma­soero stesso a ricordare che Lanino “lavorò as­sai in tutta la provincia vercellese, nella Valse­sia e nel Novarese risalendo su per la valle del­l’Olona fino a Saronno”, l’assenza di queste opere sembra connessa alla pratica di volonta­rismo assoluto quindi di difficoltà a documen­tare quei lavori che per la loro ubicazione ren­devano molto onerosa la realizzazione delle ri­prese.

Dall’elenco di opere presentate nel corso della conferenza abbiamo omesso la Madonna con due Sante, già appartenente ai marchesi di Gat­tinara, ora ubicazione ignota, che Masoero as­segna alla maturità del Lanino e che ora viene attribuita a Giuseppe Giovenone il giovane; è questo – insieme all’affresco in San Bernardi­no oggi attribuito al Moncalvo – uno dei non molti casi di attribuzione errata, tra i quali si segnala la Madonna col Bambino e Santi dell’O­spedale Maggiore di Vercelli per la quale la stampa fotografica (n. 14584) dà una attribuzio­ne a Bernardino Lanino, mentre lo stesso Ma­soero, presentandola nel corso della conferen­za, segnalava “la scritta, indubbiamente apocrifa, Bernardino Lanino 1574” e proseguiva: “Porta lo stemma dei Volpi”. Fu attribuita an­che ad Ottaviano Cane, ma più probabilmente è di Cesare Lanino, primo figlio di Bernardino. Conforta la supposizione l’aver i figli di Lanino molto lavorato in Lomellina ed i Volpi erano di quella regione”. Il non aver reperito il negativo corrispondente impedisce per ora di stabilire una datazione della stampa stessa e di verifica­re quindi la successione delle attribuzioni; ma ciò che ne fa un caso interessante è la successi­va osservazione, sempre di Masoero: “Fu, que­sta tavola, anche molto ritoccata e la fotogra­fia, nel riprodurla svelò tutta la parte più re­cente della pittura, che non era ben visibile al­l’occhio umano”. Riemerge qui la cultura speci­fica del fotografo, in grado di usare al meglio le caratteristiche tecniche degli strumenti a sua disposizione, di sfruttare anzi positivamente gli stessi limiti, determinati in questo caso dal­la incapacità delle emulsioni fotografiche di re­gistrare i colori in modo costante ed indifferen­ziato; la scarsa resa tonale della gamma croma­tica propria delle emulsioni ortocromatiche, che pure avevano costituito già un grande pas­so avanti, è qui sfruttata per ricavare il massi­mo di informazione possibile, secondo il ricor­dato principio della fotografia quale “docu­mento inspiratore e coadiuvatore dell’arte”. L’impegno di divulgatore prosegue con la con­ferenza dedicata a Il Rinascimento della pittu­ra in Piemonte, tenuta ad Alba nel 1902[21],  men­tre si estendono i suoi contatti con le più note personalità del mondo della cultura quali Al­fredo d’Andrade, per il quale fotografa alcuni interventi di restauro a Orta ed Arona[22], e Gu­stavo Frizzoni il quale, in occasione del minac­ciato abbattimento del chiostro di Santa Maria delle Grazie a Varallo scrive ad Antonio Massa­ra richiamandosi alla autorevole opinione espressa “dall’egregio fotografo Masoero”[23]. La documentazione del patrimonio architetto­nico, iniziata già sullo scadere del secolo, si concretizza nel 1907 con la realizzazione del vo­lume dedicato alla basilica di Sant’Andrea, per il quale fornisce l’apparato iconografico a cor­redo dei rilievi del Mella, proseguendo poi con le illustrazioni per l’articolo di Guido Maran­goni Il Sant’Andrea di Vercelli, pubblicato in “Rassegna d’Arte” nel corso del 1909[24] e quindi col tredicesimo volume della serie “Italia Monu­mentale” del 1910, in cui ad un breve testo intro­duttivo di Francesco Picco fanno seguito 64 ta­vole fotografiche realizzate dallo Studio Masoero[25].

Il 25 ottobre 1908 si costituisce a Vercelli un Comitato per le celebrazioni del IV centenario della nascita di Lanino; Masoero, che fa parte della Giunta esecutiva, riprende per l’occasio­ne il tema affrontato alcuni anni prima ed ese­gue una documentazione a tappeto, seppure non esaustiva, delle opere della scuola pittori­ca vercellese ed in particolare del Lanino. Anche in questa occasione la competenza professionale ed il costante aggiornamento danno i loro frutti: sebbene manchino dati certi in proposito, alcuni indizi fanno supporre che Ma­soero abbia riprodotto contemporaneamente le opere sia in negativo, utilizzando lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21/27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare con­temporaneamente la duplice esigenza di larga diffusione – erano infatti diapositive da proie­zione – e di restituzione della gamma cromati­ca, realizzando il desiderio espresso nel corso della conferenza del 1901.

Una parte di queste autocromie, per le quali si rimanda all’elenco ragionato, viene utilizzata la sera del 22 settembre 1910, al Politeama Fac­chinetti, per illustrare la conferenza sulla Scuola pittorica vercellese tenuta da Luigi Cesare Faccio, “promossa dal Municipio e dalla locale Società di cultura” in onore dei parteci­panti al XIII Congresso Storico Subalpino che si tiene a Vercelli.[26]

Diversamente da quanto era accaduto nel 1901 e per ovvie ragioni, l’attenzione maggiore è ri­servata al Lanino, cui sono dedicate 103 auto­cromie su 242, comprendendo anche numero­sissime opere non vercellesi: Borgosesia, Casa­le, Tortona, Valduggia ecc.; da notare ancora una volta l’assenza delle opere biellesi mentre è presente – forse grazie agli stretti rapporti esi­stenti tra i due – il ciclo di affreschi nella chie­sa di San Magno a Legnano, reso noto nell’Ago­sto dello stesso anno da Guido Marangoni[27]. L’opera di documentazione legata al ciclo di ce­lebrazioni laniniane chiude la serie delle cam­pagne fotografiche di Pietro Masoero, il cui fondo, ormai noto ed esposto pubblicamente al Borgogna[28], verrà più volte utilizzato da autori quali Weber (1927) Brizio (1935) Jacini (1938). Masoero stesso pubblicherà in forma ridotta nel volume collettivo Vercelli nella storia e nel­l’arte il suo saggio sulla “Scuola vercellese”, corredato da alcune fotografie, modesta con­clusione del suo lungo impegno.[29]

 

 

Laura Berardi, Pierangelo Cavanna,  Elenco ragionato delle fotografie  di Pietro Masoero relative all’ opera di Bernardino Lanino

 

 

L’indagine è stata condotta sui fondi fotografi­ci del Museo Borgogna di Vercelli, fondo Ma­soero (MB/M), in cui sono conservati i negativi su lastra, le autocromie e alcune stampe; sul fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (MCT/R); sul fondo Bickley della Fondazione Sella di Biella (FS/B) e nelle fototeche dell’Isti­tuto di Storia dell’Arte della Facoltà di Lettere dell’Università di Torino (ISA), del Kunsthisto­risches Institut di Firenze e del Gabinetto Fo­tografico Nazionale di Roma. La consultazio­ne ha consentito di rilevare una diffusione a carattere regionale delle immagini relative al­le opere laniniane, mentre l’altro importante ciclo documentario di Masoero, relativo alla basilica di Sant’Andrea di Vercelli, è presente in parte anche presso il Gabinetto Fotografico Nazionale. Per la datazione dei materiali rile­vati, costituiti – salvo diversa indicazione ­da negativi su lastra di 21/27 cm, da stampe al citrato e alla gelatina bromuro d’argento da questi ricavate per contatto e da autocromie Lumière di 9/13 cm, essa va riferita complessi­vamente agli anni 1909-1910.

Non sono state reperite sino ad ora le diaposi­tive da proiezione utilizzate negli anni 1900­-1901 per illustrare le due conferenze Arte e fotografia e La scuola pittorica vercellese, forse perdute.

 

L’elenco, organizzato topograficamente, regi­stra per ogni soggetto la presenza di negativi, positivi e autocromie; il numero che segue questa specifica ne indica la quantità, mentre in parentesi sono registrati i numeri di identi­ficazione apposti da Masoero, generalmente a doppia numerazione per le autocromie. Segue la collocazione: mentre per negativi e diaposi­tivi (autocromie), conservati solo al Museo Borgogna, questa è costituita dal solo riferi­mento interno, provvisorio, in attesa del defi­nitivo riordino del fondo stesso, per i positivi è indicato anche il fondo di provenienza, iden­tificato con le sigle precedentemente indicate. Si è preferito in questa occasione non com­prendere nell’elenco le numerose stampe con­servate nei diversi fondi, presumibilmente di Masoero ma prive di identificazione, in attesa che la ristampa dei negativi originali consenta più puntuali riscontri.

 

Borgosesia, Parrocchiale

Madonna col Bambino e Santi Negativo: gen. 3 (23, s.i.); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (58/70), part. 3 (16/-, 51/72, 60/71) fratturata la 16/-; coll. 85/1.

 

Casale Monferrato, Oratorio del Gesù

Circoncisione e Angelo con carti­glio

Negativo: gen. 2 (39, s.i.), part. 1 (38); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (15/74), part. 3 (16/75,17/77,18/76); coll. 85/2.

 

Legnano, Chiesa di San Magno

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

 

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 1 (28); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (19/82) frattu­ra angolare; coll. 85/3

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (29); coll. 5/85

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (30); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (12/79) frattu­rata; coll. 85/3

Circoncisione

Negativo: gen. 1 (31); coll. 5/85

Adorazione dei pastori

Negativo: gen. 1 (32); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (8/80) due frat­ture; coll. 85/3

Visitazione

Negativo: gen. 1 (33); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (4/81); coll. 85/3

San Rocco

Negativo: gen. 1 (34); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (45/84) frattu­ra centrale; coll. 85/3

San Sebastiano

Negativo: gen. 1 (35); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (42/85); coll. 85/3

Cristo coi simboli della Passione

Negativo: gen. 1 (36); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (43/87); coll. 85/3

Santo Vescovo

Negativo: gen. 1 (37); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (44/86); coll. 85/3

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (22/83); coll. 85/3

Disputa al tempio

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (23/78) ampia perdita di pigmento colorato; coll. 85/3

 

Mortara, Chiesa di Santa Croce

Adorazione dei Magi, all’epoca conservata presso la chiesa di “Santa Trinitates”

Negativo: gen. 2 (41, s.i.); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.) due copie; coll. MCT/R Se. 21; MB/M n. 41

Autocromia: gen. 1 (13/67), part. 2 (13/68, 15/-); coll. 85/4

 

Novara, Duomo

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 2 (35, s.i.); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (20/89); coll. 85/5

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (40); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (11/90); coll. 85/5

Visitazione

Negativo: gen. 1 (42); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (5/92); coll. 85/5

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (43); coll. 6/85

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (44); coll. 6/85 Autocromia: gen. 1 (7/91) frattura centrale; coll. 85/5

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (47); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (1/93) piccola frattura d’angolo; coll. 85/5

 

Occimiano, Parrocchiale

Madonna col Bambino, Sante e devote, ‘Pala di Sant’Orsola”

Negativo: gen. 1 (“=6=N. 26”); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (62/39), part. 7 (63/102, 64/104, 65/40, 66/106, 67/107, 68/41, -/103); coll. 85/6

 

Oleggio, Chiesa dei Santi Pietro e Paolo

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

 

Tortona, Palazzo Vescovile

San Paolo

Negativo: gen. 1 (40); coll. 3/85

 

Positivo: gen. 1 (s.i.); MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (54/100); coll. 85/7

 

Valduggia, Parrocchiale

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (58); coll. 7/85

Polittico

Negativo: gen. 2 (24, s.i.) spezzata la 24, con mascheratura rossa per evidenziare la cornice, part. 1 (24); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (69/94), part. 5 (-/95, 70/96, -/97, -/98, -/99); coll. 85/8

 

Vercelli, Palazzo Arcivescovile

Assunzione della Vergine

Positivo: gen. 1 (14610) in due co­pie; coll. MCT/R Se. 21, MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/55), part. 2 (30/56, -/57) frattura d’angolo la 30/56; coll. 85/10

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (14589); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/46), part. 1 (-/47); coll. 85/10

Martirio di Santa Margherita (bottega di Giuseppe Giovenone il Giovane).

già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14604); coll. MB/ M

 

Vercelli, Basilica di Sant’Andrea, Sala Capitolare

Angeli musicanti

Autocromia: gen. 1 (35/66) con piccola frattura d’angolo; coll. 85/16

Madonna col Bambino, già con attribuzione a Gaudenzio Ferrari

Autocromia: gen. 1 (-/109); coll. 85/16

 

Vercelli, Chiesa di Sant’Antonio

Crocefissione

Negativo: gen. 1 (92); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (92) in due copie; coll. MCT/R  Se. 21, MB/M

 

Vercelli, Chiesa di Santa Cateri­na, Oratorio

Ciclo di affreschi con le Storie di Santa Caterina

Martirio di Santa Caterina Negativo: gen. 1 (15); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (53/91); coll. 85/15

Conversione di Santa Caterina Autocromia: gen. 1 (-/26); coll. 85/15

Gruppo di figure con Santa Cate­rina, attualmente non visibile

Negativo: gen. 1 (17); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/37); coll. 85/15

 

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/32, -/33, -/34, -/35, -/36); coll. 85/15

Corona di angeli

Autocromia: part. 2 (-/90, 34/-); coll. 85/15

 

Non appartenente al ciclo

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (16) spaccata; coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (16); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/38); coll. 85/15

 

Vercelli, Chiesa di San Giuliano

Compianto sul Cristo morto

Negativo: gen. 1 (s.i. formato 13 X 18); coll. 1/85

Positivo: gen. 2 (14587 in tre co­pie+ una s.i. in formato 9x 13), part. 1 (s.i. in formato 9x 13); coll. FS/B. MCT/R Se. 21. MB/M, ISA.

Autocromia: gen. 1 (24/-) con frat­tura, part. 5 (25/49, 26/50, 27/51, 28/?8, 29/52) frattura d’angolo al­la 25/49; coll. 85/12

 

Vercelli, Chiesa di San Michele

Sacra Famiglia con Sant’Anna

Negativo: gen. 1 (13); coll. 1/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (-/64); coll. 85/13

 

Vercelli, Chiesa di San Paolo

Adorazione del Bambino

Autocromia: gen. 1 (9/46); coll. 85/14

Madonna della Grazia

Negativo: part. 11(18, 19, 20, 21, 22, altri s.i.) spaccata la 21; coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (14585); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (71/42), part. 5 (36/43, 72/44, 73/44, 38/45, 74/45);

coll. 85/14

 

Vercelli, Museo  Borgogna

Madonna col Bambino e i Santi Bernardino e Francesco. “Madon­na del cane”

Positivo: gen. 1 (s.i.) montato su cartone  verde con scritte in oro; coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (?/37), part. 1 (54/38); coll. 85/9

Stendardo della Confraternita di Sant’Anna, all’epoca conservato presso l’istituto di Belle Arti

Positivo: gen. 1 (14591); due copie coll. FS/B, ISA

Autocromia: gen. 1 (-/61); coll. 85/9

Adorazione del Bambino (Mae­stro vercellese, circa 1600), all’e­poca conservata presso Palazzo Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Negativo: gen. 1 (14); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (14); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/65); coll. 85/9

Madonna col Bambino, Santi e angeli musicanti, già con attribu­zione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 3 (52, altre s.i.); coll. 3/85

Autocromia: gen. 1 (-/115) con frattura; coll. 85/9

Annunciazione, all’epoca conser­vata presso l’Istituto di Belle Arti

Negativo: gen. 1 (69); coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (69); coll. MB/M

 

Dal ciclo di affreschi con le Sto­rie di Santa Caterina nell’Orato­rio della chiesa omonima, all’epo­ca conservati presso il Museo Leone

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/1, -/2,32/3, -/ 4, 31/5) fratturata la -/4; coll. 85/9

Battesimo di Santa Caterina

Positivo: gen. 1 (14582); due copie coll. FS/B,  ISA

Autocromia: gen. 1 (46/35), part. 2 (48/36, 49/18); coll. 85/9

Santa Caterina presenta i confra­telli alla Madonna

Positivo: gen. 1 (14583); due co­pie; con. MCT/R Se. 21, ISA

Autocromia: part. 2 (47/23?, 51/48); coll. 85/9

Incoronazione di Santa Caterina

Negativo: gen. 1 (9) spezzata; coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/24); coll. 85/9

 

Ciclo di affreschi dalla chiesa di San Francesco ora Sant’Agnese (Gerolamo e Pietro Francesco La­nino?), all’epoca conservati pres­so il Museo Leone, già con attri­buzione a Bernardino Lanino

Angeli musicanti, otto vele

Negativo: gen. 8 (1-8) spezzata la1; coll. 4/85

Autocromia: gen. 8 (-17, -/8, -/9, 38/10,41/11, -/12, -/13, 40/14); coll. 85/9

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (lO); coll. 4/85

Autocromia: gen. 1 (2/15), part. 1 (3/16) con ampie perdite del pig­mento colorato; coll. 85/9

Fregi

Autocromia: gen. 1 (-/25); coll. 85/ 9

Angelo che sorregge un finto ocu­lo

Autocromia: gen. 1 (-/60?) con lie­ve frattura; coll. 85/9

 

Vercelli, Museo Leone

Adorazione del Bambino (Gerola­mo Giovenone), all’epoca conser­vata presso la chiesa di San Cri­stoforo con attribuzione a Ber­nardino Lanino

Autocromia: gen. 1 (16/62); coll. 85/11

Adorazione del Bambino (bottega di Gerolamo Giovenone), all’epo­ca conservata presso l’Orfanatro­fio con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (12); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/63); coll. 85/

 

Vercelli, Ospedale

Madonna con Bambino e Santi , già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14584); coll. MB/ M

 

Collocazione ignota

Cristo alla colonna, Madonna col Bambino, all’epoca conservata presso Palazzo Gattinara con at­tribuzione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 1 (52); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (52); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/110) con frattura angolare, part. 2 (-/111, -/ 112); coll. 85/00

 

Collocazione ignota

Madonna col Bambino e due San­te (Giuseppe Giovenone il Giova­ne), all’epoca in collezione priva­ta, forse Marchese di Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (17162?) in due co­pie; coll. MB/M, FSIB

 

 

Note

 

[1] Pietro Masoero, La scuola pittorica vercellese, 1901. Il testo, manoscritto, inedi­to, che costituisce lo studio più approfondito svolto da Masoero sul tema, mi è stato gentilmente fornito da Pino Marcone, che rin­grazio, a cui si deve anche il pri­mo studio sul fotografo vercelle­se: Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973, da cui sono tratte tutte le indicazioni biogra­fiche non altrimenti indicate.

[2] Marcone, 1973, p. 21.

 

[3] “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p.  231.

 

[4] “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 4 (1892). Gli altri fotografi piemontesi entrarono in contatto con la S.F.I. solo in occa­sione del Congresso di Torino del 1898.

 

[5] Palestro: inaugurandosi l’ossario pei caduti del 30-31 maggio 1859. Vercelli: Gallardi & Ugo, 1893, Le fotografie vennero tradotte in incisione da A. Colombo, Angerer e Goschl di Vienna e P. Carlevaris.

 

[6] Boeri-Valenzani, Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, 1886;  con un breve testo introduttivo tratto dalla Vita e opere di Gaudenzio Ferrari pittore, pubblicato a Torino nel 1881 da padre Giuseppe Colombo, con sessantaquattro grandi stampe all’albumina da negativi al collodio. Le foto­grafie che corredano il volume, firmato dai due titolari dello stu­dio, vennero realizzate dal solo Pie­tro Boeri.

 

[7] Nella seduta del 21 ottobre 1898 Masoero presenta per la pri­ma volta la sua proposta di costi­tuzione di una scuola di fotogra­fia, approvata dal Congresso, di­battuta poi, sempre senza succes­so, nel corso dei successivi incon­tri almeno fino al Congresso di Roma del 1911. Solo nel 1909 ven­ne instituita a Torino la prima scuola di fotografia italiana, ma su iniziativa del locale Photo­Club: Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, p. 82.

 

[8] Pietro  Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).

 

[9] Ibid.

 

[10] Pietro  Masoero, La dilatazione dei supporti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78. Il problema tecni­co-metodologico connesso alla realizzazione, conservazione e utilizzazione del materiale foto­grafico documentario sarà af­frontato con grande lucidità e competenza negli anni successivi da Giovanni Santoponte.

 

[11] Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901. Il testo, edito per la prima volta nel­la Breve raccolta pubblicata dal­la Società Fotografica Subalpina quale strenna sociale per il 1900, venne ripreso dal “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167, e ristampa­to alcuni anni orsono nel “Noti­ziario” n. 13, del Museo Naziona­le del Cinema di Torino, 1970.

 

[12] Pietro  Masoero, l’Esposizione fo­tografica di Torino. Note e appunti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.129-134 . Ricordia­mo che Masoero si era già occu­pato di Secondo Pia in Rassegna del mese – Annotazioni, “Rivista Scientifico-Artistica di Fotografia: Bollettino mensi­le del Circolo Fotografico Lom­bardo” 7 (1898), pp. 132-133,177.

 

[13] Pietro  Masoero, Congresso foto­grafico internazionale di Parigi, prima parte, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.429-439. Il Congresso fotografico Internazio­nale si tenne a Parigi dal 23 al 28 luglio 1900 in concomitanza dell’Esposizione Universale. La con­ferenza di Masoero, forse corre­data da 29 diapositive di opere di Gaudenzio Ferrari, programmata in un primo tempo per la sera del 25 venne rimandata al 28 luglio e chiuse i lavori del Congresso.

 

[14] Si veda a questo proposito Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930), in “Storia dell’arte italiana”, I**, L’artista e il pubblico. Torino: Einaudi, 1979, pp.417.484, ed in particolare le affermazioni di Adolfo Venturi qui riportate, ricavate dalla Pre­messa al Catalogo dello stabili­mento fotografico Adolphe Braun del 1887, p. 471, riconfermate venti­cinque anni dopo dallo stesso Venturi nell’intervista rilasciata a Bragaglia: “debbo riconoscere che se questa [la storia dell’arte] sorta tra le ultime, si è affermata e ha progredito così rapidamen­te, lo è appunto in grazia della fo­tografia che permette gli studi di comparazione con maggiore faci­lità ed efficacia (…) come il migliore mezzo di riproduzione che di­strugge la ragione d’essere del­l’incisione e della calcografia”, Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. 17-19, 55-57, 71-73 (p. 18).

 

[15] Paolo Mantegazza, Introduzione, in Carlo Brogi, Il ritratto in fotografia : appunti pratici per chi posa.  Firenze: pei tipi di Salvadore Landi, 1895, p. 12. Mantegazza, fondatore e diretto­re del Museo Antropologico Etno­grafico di Firenze, era il presi­dente della Società Fotografica Italiana. Il brano citato riprende il tema della fotografia quale strumento democratico a lui ca­ro, che costituiva anche il nucleo centrale del discorso inaugurale della Società stessa, tenuto a Fi­renze il 20 Maggio 1889, cfr. Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976, pp. 199-214.

 

[16] Inutile ricordare che il riscat­to sociale compreso in questo progetto aveva limiti grandi e ben definiti che è facile riscontra­re anche nell’operato di Masoero: nonostante i suoi trascorsi di pre­sidente delle associazioni operaie vercellesi e di promotore della Scuola Professionale il suo nome non compare tra i sostenitori de­gli scioperanti del 1906 che lotta­vano per le otto ore lavorative, anzi la sua appartenenza alla As­sociazione Costituzionale Demo­cratica, nelle cui liste fu eletto nel 1909 assumendo poi l’incari­co di assessore alla Pubblica Istruzione, lascia chiaramente in­tendere a quale schieramento fos­se legato.

 

[17] La conferenza venne tenuta una prima volta a Torino nei pri­mi mesi del 1901 quindi ripetuta a Vercelli, Novara e Lodi; era cor­redata da più di 250 diapositive, tra cui erano comprese, e furono molto ammirate, le prime tricro­mie realizzate da Francesco Ne­gri. Le immagini erano il più del­le volte fornite direttamente da­gli autori stessi, come si ricava dal carteggio Masoero-Sella che si riferisce appunto a questa oc­casione: Archivio Sella, San Gero­lamo, Biella: Fondo Vittorio, car­teggio. Il testo della conferenza, non pervenuto, doveva forse cor­rispondere all’articolo dallo stes­so titolo pubblicato sul “Bulletti­no”, cfr. nota 8.

 

[18] Pietro Masoero, Il Rinascimento, 1902. Il testo mi è stato cortese­mente fornito da Pino Marcone. Anche l’attività professionale del­lo studio Masoero è in questi anni segnata da questa particolare at­tività, tanto che le inserzioni pub­blicitarie riportano: “Masoero Cav. Pietro. Studio fotografico. Diapositive da proiezione, per contatto, ridotte da negativi o tratte da positivi”,  Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, supplemento, p. 23.

 

[19] Pietro Masoero, La scuola, 1901, p. 33 passim; lo scrupolo di prepa­razione e di ricerca è testimonia­to anche dalla consistenza della bibliografia usata da Masoero che comprende ben 20 titoli. In alcune occasioni è anche riporta­to il giudizio di Gustavo Frizzoni, sebbene suoi testi non siano com­presi in bibliografia, ciò che fa­rebbe supporre una frequentazio­ne diretta già in quegli anni.

 

[20] Per la datazione degli affre­schi novaresi cfr. Giovanna Galante Gar­rone, in Gaudenzio Ferrari e la sua scuola. I cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino,  Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-maggio 1982), a cura di Giovanni Romano. Torino: Accademia Albertina Belle Arti, 1982.

 

[21] Cfr. nota 18.

 

[22] Cristina Mossetti, Interventi di tutela sul patrimonio artistico del novarese, in Alfredo D’Andrade: tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana  Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, p. 342.

 

[23] Cronaca dell’agitazio­ne per la conservazione del convento di santa Maria delle Grazie in Varallo, in Il chiostro di santa Maria delle Grazie in Varallo.  Novara, s.e.,  1905, p. 13.

 

[24] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli, “Rassegna d’arte”, 9 (1909), n. 7, pp.122-126; n.  8-9, pp. 154-158; n.  11, pp. 180-186; le tre parti avevano come sottotito­lo rispettivamente “Intorno alle asserite sue origini inglesi,” “Le ipotesi sulle origini francesi” e “Prevalenza dei caratteri naziona­li”.

 

[25] Francesc Picco, Vercelli.  Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[26] Atti del XIII Congresso storico subalpino,  “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, 16 (1911), p. 193.

 

[27] Guido Marangoni, Bernardino Lanino a Legnano, “Rassegna d’arte”, 10 (1910), pp.114-121. Le imma­gini che corredano l’articolo ­senza indicazione dell’autore ­non sembrano essere di Masoero, ma sarà necessario un confronto diretto con le lastre conservate al Museo Borgogna per stabilirlo in modo più preciso.

 

[28] Nella seduta del consiglio di Amministrazione del Museo Bor­gogna del 18 Dicembre 1920 Ma­soero propone che vengano espo­ste periodicamente le “incisioni, disegni e fotografie che numero­se ed importanti sono possedute dal Museo (…) per concorrere all’e­ducazione artistica del popolo” (Archivio del Museo Borgogna, Verbali). Dal necrologio di Masoe­ro, morto il 2 giugno 1934, pub­blicato su “L’Eusebiano” sappia­mo anche che le immagini di Ma­soero erano pubblicamente espo­ste (“le cui diapositive possiamo ammirare nel Museo Borgogna”).

 

[29] Pietro Masoero, La scuola vercel­lese, in Vercelli nella storia e nell’arte: guida artistica illustrata.  Vercelli: Gallardi,  1930,

pp.39-50.