La documentazione fotografica dell’architettura (1981)

 

in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125

 

Se – come dice Lamberto Vitali – “non esiste storia della fotografia che non prenda le mosse da una frase infelice di uno pseudo grande maestro, Paul Delaroche [ … ] e, quel che più conta, da un capitolo famoso di Baudelaire”[1] non esiste neppure riflessione critica sul­lo specifico del mezzo fotografico che non prenda le mosse (o non tenga comunque conto) delle parole di Benjamin: “l’ora dell’invenzione era giunta e [ … ] ciò era sentito da molti, indipendentemente l’uno dall’al­tro, numerosi uomini perseguivano lo stesso fine [ … ] Così si delinearono le condizioni per uno sviluppo co­stante e rapido”.[2] Questo per sottolineare come nel caso della fotografia non si sia registrata dicotomia o intervallo temporale e culturale tra sviluppo tecnico e comprensione critica del mezzo, lasciando spazio semmai alle sole valutazioni, il più delle volte di segno ferocemente opposto.

La documentazione dell’opera architettonica è stata  poi, quasi di necessità, uno dei generi più praticati fino dalle origini, sia sotto forma di veduta che di rilievo fotografico vero e proprio[3] e su questa applicazione pratica si è appuntata subito anche l’attenzione critica degli esegeti del nuovo mezzo.

Già Macedonio Melloni nella sua Relazione intorno al dagherrotipo del 12 novembre 1839 evidenzia la pos­sibilità di riprodurre “le dimensioni dei corpi [ … ] con una esattezza per così dire matematica; e però le pro­porzioni relative delle varie parti che compongono il I quadro vengono rappresentate con una precisione eguale se non superiore a quella dei più accurati dise­gni eseguiti col compasso o col pantografo” aggiungendo poco oltre che “la prontezza e la facilità di ritrar le cose colla massima precisione riuscirà indubitata­mente utilissima in parecchie operazioni di architettu­ra, di topografia ed arte nautica, soprattutto quando verrà divulgato il processo di trasportare i disegni su carta ideato dal dottor Donnè”.[4]

In questo passo lucidissimo vengono delineate almeno tre caratteristiche fondamentali: la relazione matema­tica – determinata dalle caratteristiche ottiche del mezzo – tra l’oggetto e la sua rappresentazione, da cui deriva la possibilità di eseguire rilievi, “la prontezza e la facilità” di ripresa che permettono di estendere enormemente il proprio campo di indagine e l’elevato grado di riproducibilità dell’immagine, allora ancora al  di là da venire, almeno fino al perfezionamento degli esperimenti di Talbot. Questa serie di parametri indi­vidua nettamente lo specifico del nuovo mezzo anzi, per moltissimo tempo, proprio questa fortuna critica impedirà paradossalmente di comprendere la possibili­tà della fotografia di costituirsi come linguaggio.

Ma in questa prima fase è proprio la realizzazione di immagini che possano essere lette come documenti e non come rappresentazioni che interessa gli operatori e i critici, i quali si affrettano a dichiarare che “compi­to della pittura è quello di creare, della fotografia di copiare e riprodurre”[5] poiché, secondo l’espressione di Pietro Selvatico, essa può “darci le esatte apparenze della forma, ma non isprigionare dall’intelletto l’i­dea”.[6]

Questa sorta di ritardo è – a mio parere – in parte recuperato nel momento in cui lo stesso autore mette in luce un altro aspetto: “Così – dice – i prospettivi non più comporranno a loro talento vedute de monu­menti e de si ti famosi, né ingrandiranno alle propor­zioni del Colosseo la gentile Alhambra, né abbatteran­no muri e fabbriche per lasciarne trionfante una sola. Così gli architetti, meglio giudicando gli effetti delle proporzioni reali negli edifici, e la spiccatezza dei loro particolari, impareranno a non perdere tempo sulle ar­bitrarie regole di un trattato classico”.[7]

Al di là dell’accenno polemico all’insegnamento acca­demico è qui interessante rilevare l’attenzione portata alla necessità di non isolare il monumento dal suo in­torno, magari facendo uso dell’obbiettivo “triplice” così come consigliava in quegli anni il manuale del Liesegang.[8]

La fotografia quindi come indispensabile strumento tecnico di documentazione che può ormai essere inse­rito in un progetto organico di intervento quale è quel­lo di Viollet-Ie-Duc che ne propone una precisa codifi­cazione d’uso legata alla necessità “de ne pas faire quelques oublis, de ne pas negliger certaines traces à peine apparentes. De plus, le travail de restauration achevé, on pouvait toujours leur contester l’exactitude des procès verbaux-graphiques, de ce qu’ on appelle des “états actuels”. Mains la photographie presente cet advantage de dresser des procès-verbaux irrecusa­bles et des documents qu’on peut sans cesse consul­ter”.[9] Questa precisa codificazione segna il livello raggiunto in quegli anni dal dibattito critico sull’uso della foto­grafia in architettura, né il progresso tecnico è da me­no e ormai il mercato offre oltre ai già ricordati obbiet­tivi grandangolari anche i primi esemplari di macchina con decentramento verticale e dorso e frontale bascu­labili.[10]

Non a caso quindi data proprio dal sesto decennio del XIX sec. il fiorire di iniziative fotografico-editoriali che avranno un peso enorme nella determinazione della nostra immagine della architettura; sono cioè gli anni dei primi cataloghi Alinari, modello per decine di ini­ziative similari tra cui ne vorremmo segnalare due, di certo minore risonanza ma probabilmente importanti per la formazione di un interesse specifico per la foto­grafia in d’Andrade: La Vallée d’Aoste monumentale photographiée et annotée historiquement di Meuta e Riva, del 1869, che si pone probabilmente come il primo esempio di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio artistico della valle[11] e l’Album artistico ossia raccolta di 326 disegni autografi di valenti artisti italiani, di Vittorio Besso, del 1868.

Allo stato attuale delle ricerche la possibilità che d’Andrade abbia conosciuto queste opere non è nulla più che una ipotesi, ma è necessario ricordare che nel 1865 egli visita la Valle d’Aosta per la prima volta, e che non è improbabile una sua conoscenza del lavoro di Besso negli anni in cui alla Accademia Ligustica era docente del corso libero di ornato.

L’occasione certa per un incontro tra d’Andrade e Bes­so e – più in generale – con l’ambiente fotografico piemontese è data dalla serie di rifacimenti del castello di Rivara Canavese che il d’Andrade esegue su invito di Carlo Pittara. Questi lavori vennero ampiamente documentati da diversi fotografi che produssero una documentazione ampia e diversificata.

Mentre Besso documenta i lavori fino al 1875 con una bella serie di immagini in cui l’obbiettivo grandangola­re è usato con molta accortezza le immagini prodotte da La Fotografia Subalpina accentuano il definitivo aspetto monumentale dell’edificio, che do­mina tutto il campo dell’inquadratura. Completamente diverse sono le immagini di Giuseppe Marinoni che – come aveva già notato Claudia Cassio – usa la camera per inquadrare “spesso un gruppo animato di persone e relega il castello sul fondo, mutando così il documento di una ristrutturazione architettonica in una garbata scena di genere”[12]. L’ultima serie di immagini – a lavori ultimati – appartiene a Giuseppe Vanetti ed è caratterizzata da un uso particolare dell’impaginazione che vede accostati sulla stessa tavola o con la tecnica del fotomontaggio o per semplice giustapposizione la riproduzione di un disegno e di una fotografia  re­lativi allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di d’Andrade, con un intento documentario che non può non richiamare alla memoria le già citate indicazioni di Viollet -le- Duc.

Certamente queste immagini di Vanetti, forse accop­piate a quelle di G. B. Berra (Fotografia Subalpina) do­vevano far parte delle sei fotografie del castello di Rivara presentate da d’Andrade alla IV Esposizione na­zionale di Belle Arti di Torino, nel 1880, insieme ad altre non reperite dal “camposanto privato in Riva­ra”[13]; e se da un lato stupisce che un disegnatore fe­condo come d’Andrade si presenti ufficialmente per la prima volta con sole fotografie, dall’altro è interessante rilevare come su 79 espositori presenti nella sezione Architettura, solo in altri quattro casi gli elaborati pre­sentati siano costituiti da fotografie (Biscarini, Lovarello) o da tavole in cui queste sono affiancate agli elabo­rati grafici (Mancucci, Petiti).

Dopo questa prima occasione in cui d’Andrade è pre­sente sia come espositore che come membro della Commissione generale, l’altro grande momento è evi­dentemente costituito dalla Esposizione generale ita­liana di Torino del 1884 e dalla realizzazione del Bor­go medievale.

Mentre per una analisi dettagliata si rimanda alle schede ed ai saggi presenti in catalogo, qui vorremmo portare l’attenzione al ruolo che questa vicenda ha svolto nella caratterizzazione di una gran parte della fotografia d’architettura piemontese di quel periodo, contribuendo a determinare una “particolare e storica forma di traduzione della architettura in immagine. Immagine di una particolare concezione dell’architettura.”[14]

Ci interessa qui sottolineare l’intento didattico che presiede all’invenzione del Borgo medievale, la necessi­tà chiaramente espressa che “la classificazione non re­sti museo inerte, ma si integri alla vita.”[15] E certamen­te in questo sta il merito di tutta la Commissione che “fino dalle primissime sedute fu unanime nell’ avviso che, a differenza delle precedenti, questa [esposizione] si dovesse indirizzare ad uno speciale intento di utilità pratica, di modo che ne derivassero al visitatore, no­zioni determinate e precise intorno a uno o più periodi della storia dell’ arte.”[16]

Prescindendo dalle motivazioni relative alla scelta del periodo storico cercheremo di analizzare ora i mecca­nismi attraverso i quali questo progetto di rappresen­tazione si svolse.

Partendo dalla necessità di ricostruire la “vita civile” dell’epoca (XV sec.) vennero “riprodotti i principali aspetti che tali fabbriche dovevano allora presentare” in una “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni [ … ] né contraddiceva al concetto generale dell’opera il raccogliere da parecchi le diverse parti dell’ edificio armonizzandole in un tutto omogeneo” poiché “la nostra opera si può assimilare a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o gal­leria o di un dizionario d’arte e d’archeologia [H’] ob­bligo solo e strettissimo l’autenticità.”[17]

In questo succinto compendio di frasi tratte dall’intro­duzione di Giacosa alla Guida Illustrata al Castello Feudale del secolo XV emergono chiari quei concetti di riproduzione e di fedeltà all’originale che abbiamo vi­sto essere usati in relazione al mezzo fotografico; an­cora di più tutta l’operazione si pone non solo e non tanto come “raccolta” o “dizionario “, poiché in tal caso le singole “voci” potrebbero avere un basso livello di relazione, ma come un enorme fotomontaggio in cui il fine è quello di rappresentare in modo reale un soggetto non più documentabile, di fornire una imma­gine autentica, nella quale la riproduzione (per quanto ricostruita e quindi sostanzialmente falsa) possa essere letta come analogon della realtà, a cui vuole rimandare direttamente, libera da ogni connotazione. Che poi si scelga di dare una evidenza tridimensionale a questa immagine è un’idea felicissima degna delle più sofisti­cate tecnologie della comunicazione di massa: “la compiuta finzione aiuta la fantasia (…) ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti este­tici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effetti­vo.”[18]

E “per aumentare la illusione” vengono aggiunti i per­sonaggi in costume, altra idea di successo, ripresa e commentata in modo tutto sommato positivo dai gior­nali dell’epoca che ne riprendono sovente il motivo nelle illustrazioni che corredano gli articoli; ma il pro­getto d’Andrade va oltre e giocando proprio sulla au­tenticità dell’immagine fotografica viene commissiona­ta al fotografo Ecclesia una serie di vedute del Borgo animate da figure in costume.

Ancora una volta è necessario rilevare la singolarità dell’uso della fotografia: perché non affidare alle stampe la novità ed il messaggio di questa iniziativa? Perché non affidarsi al disegno od alla pittura di sog­getto storico in cui eccellevano alcuni dei membri della Commissione stessa, per mettersi invece nelle mani di uno strumento che non poteva offrire il “vero avvivato dall’ideale” ?

Proprio nel chiaro riconoscimento di questo limite sta la qualità del messaggio che si voleva comunicare: queste fotografie documentano il vero, insegnano co­me si vivesse nel XV sec. trasmettono una impressione di verità che nessun altro tipo di immagine avrebbe potuto offrire.

Queste immagini ebbero un successo notevole, tanto da venire ripubblicate su “La Fotografia Artistica”[19] nel 1911 e quindi riprese in parte dal Nigra nella sua pubblicazione sul Borgo medioevale[20] del 1934 in­fluenzando poi anche l’opera di un fotografo più gio­vane come Edoardo di Sambuy.

Già lo stesso Ecclesia aveva ripreso sporadicamente il tema del personaggio in costume in una delle fotogra­fie che corredano il breve testo di Giacosa sul castello di Issogne[21] ma il tema verrà più ampiamente ripreso e sfruttato in un ambito diverso dal di Sambuy in una serie di fotografie sulla Valle d’Aosta, databili al 1898, in cui compaiono regolarmente personaggi in costume  che in alcuni casi quali la ripresa del cortile del castello di Issogne, diventano il centro di attenzione di tutta l’immagine: il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco, l’elemento architettonico è trasformato in fondale sceno­grafico.[22]

La realizzazione del Borgo medievale portò anche ad una attenzione nuova per quegli edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione e se non si può dire che tutti fossero privi di una tradizione ico­nografica, certamente le possibilità aperte dalla riproducibilità dell’immagine fotografica ne ampliarono l’ambito di diffusione, sia attraverso la vendita di copie fotografiche che attraverso l’uso sempre più consueto di queste immagini nella illustrazione delle guide turi­stiche.[23]

Un riscontro immediato ci è dato dall’elenco dei sog­getti presentati in questa occasione dagli studi foto­grafici che intrattenevano più stretti rapporti con la cerchia di d’Andrade, cioè Berra ed Ecclesia, che pre­sentano tavole relative a S. Antonio di Ranverso o alla Sagra di S. Michele (Berra) ed una nutrita serie di ve­dute dei castelli della Valle d’Aosta (Ecclesia)[24] men­tre altri fotografi presenti nella sezione di “fotografie architettoniche” quali Federico Castellani o l’editore Giovanni Battista Maggi hanno in repertorio quasi essenzialmente vedute urbane.

Non è documentata la presenza in questa occasione di Secondo Pia, che pure aveva iniziato a fotografare già dal 1878, che invece riceverà un eccezionale ricono­scimento nel corso della prima Esposizione italiana di Architettura tenutasi a Torino nel 1890, nel corso del­la quale venne premiato con medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi” .[25]

Questa Esposizione ci consente di fare il punto sulla fotografia di architettura in quel periodo: nel 1883 ve­niva pubblicato – proprio a Torino – il primo studio italiano sul rilievo fotogrammetrico[26] mentre nello stesso anno il quarto Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani tenuto si a Roma approvava una risolu­zione relativa al restauro degli edifici che prevedeva espressamente (punto VI) l’uso della fotografia nella documentazione delle varie fasi di intervento, ripren­dendo in modo più dettagliato le indicazioni[27] di Viollet­le-Duc del 1860. Nel 1890  l’uso della documenta­zione fotografica doveva essere ormai molto diffuso se un recensore di questa Esposizione poteva affermare che “non riuscì altrettanto di buon augurio il vedere come molti architetti, dilettanti fotografi, preferiscano servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del ri­lievo manuale, il quale purtroppo trascurano.”[28] Que­ste osservazioni non possono certo venire riferite all’o­pera di d’Andrade che pure in questa occasione espone anche numerose fotografie, il quale usa­va prevalentemente il disegno ed il rilievo grafico per la documentazione e l’analisi degli edifici, relegando la fotografia – che ha comunque una presenza rilevante tra il materiale presente nei vari fondi – in secondo piano, come fonte di dati necessariamente incontrover­tibili, ponendo scarsa attenzione alla qualità delle sin­gole immagini, così da richiamare alla mente un famoso giudizio sulla fotografia, tanto qua­lificato quanto sorprendente: “Quando si viaggia e si ha pratica di arti figurative [ … ] si guarda con gli occhi e si disegna [ … ] La macchina fotografica è uno strumento di pigrizia; si affida ad un congegno meccanico il compito di vedere per noi.”[29]

Se per d’Andrade “disegnare [ … ] è la più semplice, più rapida e più completa rappresentazione di un ogget­to”,[30] anche se per alcuni disegni è ipotizzabile il sup­porto di uno strumento ottico o il riporto da una foto­grafia, il considerare le fotografie semplici referenti ha come conseguenza un interesse indifferenziato che non distingue tra l’immagine d’autore e la semplice cartoli­na[31] sia che si tratti di documentazione ad uso privato o di materiale ufficiale da inviare al Ministero della Pubblica Istruzione.

Così ritroviamo tra il materiale compreso nei vari fon­di un alternarsi di immagini prive di altra logica che non sia quella di accostare rappresentazioni diverse di uno stesso soggetto, sovente (almeno per il materiale conservato presso il Museo Civico di Torino e prove­niente dall’archivio privato di Pavone) assemblate in un secondo tempo, al di fuori quindi di un preciso progetto, mentre piuttosto rari e di datazione tarda (fine ‘800, inizi ‘900) sono gli esempi di uso accurato del rilievo fotografico di un complesso monumentale indagato nei suoi aspetti architettonici e artistici come è nel caso della cattedrale o della chiesa collegiata di S. Orso ad Aosta, dove peral­tro è documentabile l’uso di immagini originariamente prodotte con fini diversi. Una lettura com­plessiva del materiale fotografico relativo all’opera di d’Andrade, che in questa occasione è stata poco più che iniziata, permette comunque di far emergere le tracce di una evoluzione o – meglio – alcuni episodi che si impongono per un uso meno schematico di que­sto tipo di documentazione.

Il primo esempio è costituito da una fotografia del “Castello di Pavone, visto da nord-ovest. Fotogr. di C. Nigra, corretta da me secondo i progetti di restauro”, circa 1885, in cui D’Andrade interviene ri­toccando la stampa per ricostruire l’immagine del suo castello feudale, esercitando un ritocco prima virtuale e poi reale. L’uso di intervenire manualmente sulla fo­tografia con colorazioni parziali o con scritte è ripreso per fini strettamente analitico-descrittivi in numerose serie successive come quelle relative alle “costruzioni romane presso le ghiacciaie”  del 1887, nelle ta­vole della “cinta romana”  del 1891 e ancora nel­le fotografie che documentano i restauri di palazzo Boccanegra a Genova, tra il 1892 ed il 1905. Al­cune di queste tavole (quelle relative alla cinta roma­na, ad esempio) sono compilate con una cura tale da lasciar supporre una precisa destinazione espositiva che giustificherebbe di rimando la buona qualità delle immagini.

Si inseriscono in questo filone della pubblicizzazione degli interventi di restauro i tre menabò relativi a pa­lazzo Madama, alla chiesa di S. Agostino a Genova ed alla torre del Pailleron ad Aosta, per i quali si rimanda alle relative schede presenti in catalogo.

Se per palazzo Madama si prevedeva l’uso di una sola fotografia (per il frontespizio) per la chiesa di S. Ago­stino, dove il progetto sembra riferirsi ad una esposizione piuttosto che ad una pubblicazione, le tavole so­no costituite essenzialmente da fotografie, secondo una tecnica di impaginazione molto efficace che pone al centro una immagine totale circondata da altre foto­grafie relative ai particolari più salienti. Interessante ri­levare come, in questo caso, fosse previsto di acquista­re le immagini centrali  e di servirsi invece di Ot­tavio Germano[32] per la realizzazione delle foto di det­taglio, secondo una consuetudine che è facile ri­conoscere in tutto il fondo fotografico, costituito per gran parte di immagini gentilmente fornite da amici e collaboratori che, anche quando avevano una lunga consuetudine col mezzo come il Nigra, non si può cer­to dire che fossero eccellenti fotografi.

Il d’Andrade stesso, a partire dal 1899, si dedica spo­radicamente alla fotografia con risultati tutto sommato deludenti soprattutto pensando alla lunga frequentazione che l’autore ebbe con il milieu fotografico piemontese e non; non si vuole qui semplice­mente riferirsi al livello tecnico (immagini mosse e sfo­cate, inquadrature approssimative) ma alla intenzione complessiva, che non riesce a determinare risultati di­versi da quelli prodotti dal solo “inconscio tecnologi­co”[33] del mezzo, sintomo di una situazione contrad­dittoria in cui ad una precoce e accorta attenzione per le fotografie non si accompagnò mai una altrettanto chiara comprensione delle possibilità linguistiche del mezzo.

 

 

 

Opere esposte

 

Abbreviazioni:

 

ACP: Archivio Castello di Pavone Canavese

 

MCTFd’ A: Torino, Musei Civici: Fondo D’Andrade.

 

SBAAP-AS: Torino, già Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte: Archivio Storico

SBASP-FP: Torino, già Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte – Fondo Pia

 

  • Vittorio Besso, Castello di Rivara rampa d’accesso, aprile 1875, albumina, 21 x 27, MCTFd’ A, cartella 26-27-28-29 (1), foglio 786, n. 867

 

  • Vittorio Besso, “Facciata a levante e tramontana. Stato in cui trovansi i lavori di ricostruzione e decorazione in aprile 1875″, aprile 1875, albumina, 21 x 27, MCTFd’A, cartella 26-27-28-29 (1), foglio 777, n. 858

 

 

  • Giuseppe Marinoni, Foto di gruppo delle maestranze durante i lavori al Castello di Rivara d. [1876-77], albumina, 15 x 20, MCTFd’A, cartella 26-27-28-29 (1), foglio 795, n. 876

 

  • Giuseppe Vanetti, Castello di Rivara Facciata a levante prima e dopo gli interventi di d’Andrade, d. [1880], albumine, 12 x 38, MCTFd’A, cartella 26-27-28-29 (1), n. 855

 

  • [Vittorio Ecclesia], Abbazia di Maria di Vezzolano, s.d. [1884], albumina, 39 x 29, MCTFd’A, cartella 9-10-11-12, foglio 548, n. 553

 

 

  • [Vittorio Ecclesia], “Chiesa di Secondo presso Curtazzone (Astigiano), s.d. [1884], albumina, 38 x 28, MCTFd’A, cartella 9-10-11-12, foglio 540, n. 566

 

  • Vittorio Ecclesia, ” Cattedrale di Aosta oggetti del tesoro”, d. [1884], , albumina, 30 x 40, SBAAP-AS, c. 32, n. 300

 

 

  • Vittorio Ecclesia, “Cattedrale di Aosta porta princ.e”, d. [1884J, albumina, 30 x 40, SBAAP-AS, c. 32, n. 230

 

  • [Vittorio Ecclesia], “Castello di Issogne, Valle d’Aosta, Cortile lato O. “, s.d. [1884], albumina, 30 x 40, SBAAP-AS, c. 23, n. 127

 

 

  • [Vittorio Ecclesia], “Collegiata di Orso in Aosta sottoportico del chiostro”, s.d. [1884],  albumina, 30 x 40, SBAAP-AS, c. 23

 

  • [Carlo Nigra, Alfredo d’Andrade], “Castello di Pavone visto da Nord-ovest … “, d. [ca. 1885], gelatina bromuro d’argento, ritoccata, ACP

 

 

  • [Carlo Nigra, Alfredo d’Andrade], Il castello di Pavone d. [ca. 1885], gelatina bromuro d’argento, ritoccata ACP

 

  • [Secondo Pia], “Cavaliere avvocato Secondo Pia, da Asti, dilettante fotografo” d., albumina, 24,5 x 19,5 SBASP-FP, sc. 3

 

 

  • [Secondo Pia], “Fenis cortile del castello” d., albumina, 26 x 20, SBASP-FP, sc. 7, n. 4

 

  • [Secondo Pia], “Montalto Dora Castello, veduta esterna”  d., albumina, 26 x 20, SBASP-FP, sc. 8, n. 1

 

 

  • [Secondo Pia], “Sagra San Michele Tomba dei monaci, lato ovest” d., albumina, 26 x 20, SBASP-FP, sc. 12, n. 5

 

17  [Secondo Pia],. “Montafia Abside della chiesa di S. Martino” s.d., albumina, 26 x 20, SBASP-FP, sc. 8, n. 10

 

18  Non identificato, “Costruzioni romane presso le ghiacciaie” 1888, gelatina bromuro d’argento,  13 x 18,  MCTFd’ A, cartella 23-24, foglio 731, nn. 806 – 810

 

19  [Alfredo d’Andrade] Menabò relativo alla chiesa di S. Agostino a Genova, s.d. [1889],  inchiostro nero e matita, 21 x 31, MCTFd’ A, cartella 31, n. 2766/1

 

20  [Alfredo Noak ?], “Chiesa di S. Agostino in Genova, facciata, stato attuale, Tav. IX”, s.d. [1889], albumina, 27 x 22 MCTFd’ A, cartella 31, foglio 22, n. 1011

 

21  Ottavio Germano,  Genova Chiesa di S. Agostino,  1889, gelatina bromuro d’argento, 13 x 18, MCTFd’ A,  cartella 31 f. 18, nn. 1002 – 1010

 

22  Non identificato, “Torino cinta romana” 1891, gelatina bromuro d’argento colorata con matita rossa, 28 x 25

MCTFd’ A, cartella 23-24, foglio 736, n.817

 

23  Torri e castelli della Valle d’Aosta s.d., s.f.,  Castello di Gressan, Castello di Chatelard, Castello di St. Pierre, Castello d’Aymaville, Torre a Brissogne, Castello di Sarriod de la Tour, Castello di Sarre,  Arvier il Castello, collotipia, 10,5 x 14 – 16 x 10; [Alfredo d’Andrade] ” Marmo che si conserva al Castello di Aymaville” 1898, matita e inchiostro nero, 15 x 15,5 514,  MCTFd’ A, cartella 4A, foglio 163

 

24  [Secondo Pia?] “(Torino) Aosta Priorato di S. Orso” 1898, albumina con scritte a inchiostro, 24 x 30,  SBAAP-AS, c. 31, n. 189

 

25  Studio Riproduzioni Artistiche [Edoardo di Sambuy], “Aosta – S. Orso Priorato” s.d. [1898],  gelatina bromuro d’argento, 24 x 30, SBAAP-AS, c. 31, n. 191

 

26  Studio Riproduzioni Artistiche [Edoardo di Sambuy], “Issogne Maniera, Cortile lato volto a Nord” s.d. [1898], gelatina bromuro d’argento,  24 x 30,  SBAAP-AS, c. 23, n. 141

 

27  Studio Riproduzioni Artistiche [Edoardo di Sambuy],  “Issogne castello cortile” s.d. [1898],  gelatina bromuro d’argento, 24 x 30 SBAAP/AS, c. 23, n. 138

 

28  Alfredo d’Andrade,  Castello di Fénis, vedute e particolari “, 1899, gelatina bromuro d’argento, 8×10 – 9×12, MCTFd’A, cartella 4B, foglio 202

 

29  Alfredo d’Andrade, Palazzo di S. Giorgio Genova “Fotografie fatte col mio Kodak … ” 1899,

gelatina bromuro d’argento, 9 x 12

“Ricerca della pittura del lato sud … ” 1899, matita, 19×13,5

“Ricerca sulla decorazione … ” 1899, matita, 13,5 x 19

“Pei mobili ed imposte … ” s.d. [1899], matita, 26,5 x21,5

MCTFd’ A, cartella 34, foglio 14

 

30 [Ottavio Germano?],  Restauri di Palazzo Boccanegra – Genova

“Cortile del Palazzo Boccanegra guardato da levante durante i restauri del 1892-1905″

s.d., gelatina bromuro d’argento, colorata con matita arancio, 27 x 22  1068

“Cortile del Palazzo Boccanegra guardato da levante durante i restauri del 1892-1905”

s.d., gelatina bromuro d’argento, colorata con matita arancio, 27 x 22  1069

MCTFd’ A, cartella 34, foglio 7

 

31  Non identificato,  “Aosta chiostro della cattedrale, cofano reliquario di S. Giocondo” s.d. [ca. 1900], gelatina bromuro d’argento, 24 x 30, SBAAP-AS, c. 32, n. 305

 

32  Non identificato,   “Aosta chiostro della cattedrale, sepolcro di Francesco di Challant”, gelatina bromuro d’argento,, 24 x 30, SBAAP-AS, c. 32, n. 273

 

33 Non identificato,  “Aosta chiostro della cattedrale, sepolcro di Bonifacio di Challant”, gelatina bromuro d’argento,, 24 x 30,  SBAAP-AS, c. 32, n. 272

 

34 Non identificato,   “Issogne castello loggia” s.d. [1898], Studio Riproduzioni Artistiche, gelatina bromuro d’argento, 24 x 30, SBAAP-AS, c. 23, n. 139

 

 

 

[1] Nadar. Torino: Einaudi, 1973, p. 3 (testo di L. Vitali).

 

[2] Walter Benjamin, Piccola storia della otografia [1931]. In Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (p. 59)

 

[3] Ricordiamo almeno tre immagini famosissime quali il Point de vue d’apres nature di J.N. Nièpce del 1827, la Finestra con grata a Lacock Abbey di W. H. F. Talbot del 1835 e la Veduta dell’Ile de la Cité e di Notre-Dame  di L. Daguerre del 1838-39. Pochi anni più tardi, nel 1842, Viollet-le-Duc fece eseguire una serie di dagherrotipi della cattedrale di Notre-Dame prima di iniziarne i restauri.

 

[4] Macedonio Melloni, Relazione intorno al dagherrotipo [1839], in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212- 232 (p. 224 passim).

 

[5] Antoine Claudet citato in Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544  ( p. 451).

 

[6] Pietro Estense Selvatico, Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e C., 1859, p. 338.

 

[7] Ivi, p. 349.

 

[8]Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia : descrizione dei migliori processi fotografici usati attualmente al collodio umido e secco : la tiratura, ecc. per vedute, riproduzioni, prove stereoscopiche ed amplificazioni / pel signor Paolo Liesegang ; prima traduzione italiana sulla quinta edizione tedesca intieramente rifusa per Antonio Mascazzini. Torino: Stamperia dell’ Unione Tipografico-Editrice, 1864, p. 238. L’autore afferma che “gli ob­biettivi triplici permettono di ritrarre le immagini fino sotto un angolo di 80” aggiungendo poco oltre che “le vedute del­le quali fa parte l’architettura non devono essere prese che mediante obbiettivi triplici”.  Questo passo dimostra quale fosse la capacità di comprende­re gli strumenti stessi dell’ operare fotografico da parte degli stessi addetti ai lavori; l’uso del grandangolo (un obiettivo con angolo di ripresa di 80° corrisponde ad una focale di 25 mm. nel formato 24/36) modifica infatti enormemente la prospettiva e le proporzioni degli oggetti ripresi, tanto da es­sere in seguito vivamente sconsigliato: “Ogni qualvolta si può arretrare sufficientemente la camera, in modo da pren­dere un soggetto architettonico sotto un angolo piccolo, con­viene prenderlo in tal modo [ … ]. Ne viene la regola generale di usare sempre un foco della massima lunghezza possibile, e di ricorrere all’obbiettivo grandangolare a corto foco solo quando è giocoforza mettersi in stazione in un punto dal qua­le il soggetto è visto sotto un grande angolo.” (P. Hasluck, 1905, p. 636).

 

[9] Eugène  Viollet-le-Duc , Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XIe au XVIe siècle, 1854, tome 8. Paris: Librairies-Imprimeries Rèunies,   1866,  pp. 33-34.

 

[10] Brian Coe,  La macchina fotografica : dal dagherrotipo allo sviluppo immediato.  Milano : Garzanti,  1978, pp. 37-38.

 

[11] Sarebbe importante confrontare (cosa che non è stato possibile fare in questa occasione) la scelta dei soggetti ed il taglio iconografico di questa pubblicazione con le tavole di poco precedenti di  Edouard Aubert, La Vallée d’Aoste. Paris: Amyot, 1860. Le stesse incisioni ven­nero riutilizzate ancora molto tempo dopo in  Amé Gorret,  M. le baron Claude Bich, Guide de la vallee d’Aoste: ouvrage illustré de 85 gravures tirées de l’ouvrage de M. Aubert . Torino: Casanova,1877.

 

[12] Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra;  apparato documentario a cura di Claudia Cassio. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, scheda relativa a G. Marinoni. Numerose fotografie pubblicate in quella occasione provenivano dal Fondo d’Andrade del Museo Civico di Torino; le immagini erano corredate di un testo specifico relativo a La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico della dottoressa Rosanna Maggio Serra che ringrazio per la cortese attenzione che mi ha prestato nel corso di tutta la presente ricerca. Altro mate­riale fotografico relativo all’ opera di Alfredo d’Andrade è conservato negli archivi (fotografico e storico) delle Soprin­tendenze per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemon­te, della Liguria e della Valle d’Aosta oltre ché naturalmente nell’archivio privato del castello di Pavone Canavese che non è stato possibile consultare. Un corpus nettamente separato, anche se in stretta relazione coi materiali citati, è costituito dal Fondo Secondo Pia conservato presso la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte.

 

[13] IV Esposizione Nazionale di Belle Arti: Catalogo degli oggetti componenti la Mostra di Arte Antica.  Torino : V. Bona, 1880, nn. 182-­183.

 

[14] Fotografia e immagine dell’architettura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, gennaio-febbraio 1980) a cura di Gabriele Basilico, Gaddo Morpurgo, Italo Zannier. Bologna: Grafis, 1980, p. 35.

 

[15] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Bertelli, Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, 1979, citato, pp. 5-55 ( p. 34).

 

[16] Giuseppe Giacosa,  a cura di,  Esposizione generale italiana, Torino 1884 : catalogo ufficiale della sezione Storia dell’arte : guida illustrata al castello feudale del secolo XV . Torino : V. Bona, 1884,  p. 9.

 

[17] ibid., p. 16 passim, corsivo di chi scrive.

 

[18] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di Torino, “Nuova Antologia”, 19 (1884), 1884, n. 42, p. 331.

 

[19] “La Fotografia Artistica “, giugno-luglio 1911, pp. 98 passim. Per celebrare la “Mostra retrospettiva dell’arte tipografica” tenutasi al Castello medioevale in occasione della Esposizio­ne internazionale di quell’anno, il periodico pubblica sei fo­tografie del Borgo con personaggi in costume: quattro sono di Ecclesia e due del Capitano Carlo Campioni di Torino.

 

[20] Carlo Nigra, Il borgo ed il castello medioevali  nel 50. anniversario della loro inaugurazione . Torino: Accame, 1934. Viene qui omessa l’attribuzione delle fo­tografie ad Ecclesia.

 

[21] Giuseppe Giacosa, Castello d’Issogne in Valle d’Aosta. Torino : Camilla e Bertolero, 1884, tav. IV. Il breve testo di Giacosa è destinato “solamente a dare una data e un nome alle tavole che seguono” cioè alle diciotto fotografie di V. Ecclesia che costituiscono il nucleo portante della pubblicazione. Dodici di queste vennero riprese in Robert Forrer, Spätgothische Wohnraume und Wandmalereien aus Schloss Issogne.  Strassburg: Schlesier,  1896,ma pur fa­cendo espresso riferimento nel testo all’opera italiana le im­magini vennero qui attribuite a Manias & Co.  Le stesse fotografie serviranno ancora come base per le illu­strazioni di Carlo Chessa relative a Issogne che accompagnano il testo di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux, Frassati & C., 1897. A testimonianza della diffusione di un gusto romanticheggiante e fantastico caratteristico di questo ambito culturale è interessante confrontare le descri­zioni di Giacosa con la produzione di alcuni fotografi suoi contemporanei, vedi ad esempio il castello di Montalto foto­grafato da Pia  o la descrizione di Giacosa delle scritte presenti nel castello di Issogne e la relativa immagine dello Studio Riproduzioni Artistiche .

 

[22] Colgo l’occasione per tentare una prima sistemazione del­le notizie relative all’opera di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, sinora poco nota. La prima notizia che lo riguarda è quella della fondazione, nel 1891, di un Circolo Dilettanti Fotografi a cui farà seguito, sempre ad opera del di Sambuy, la fondazione della Società Fotografica Subalpina il 4 aprile 1899. Conosciuto finora come “valente dilettante fotografo” egli è invece, almeno dal 1898, titolare di uno “Studio di Riproduzioni Artistiche” con sede prima in corso Vittorio Emanuele, 96 e quindi in via Napione, 41 come segnala la Guide illustré (1902), che enumera anche le specialità dello “Studio”: “Vedute, interni, quadri e oggetti artistici, foto­grafie industriali, ingrandimenti, illustrazioni di libri, giorna­li, cataloghi ecc. “. Sempre nel 1898 di Sambuy fotografa To­rino dal pallone frenato di Godard in ‘occasione dell’Esposi­zione di quell’anno; nell’ottobre dello stesso anno partecipa alle sedute del primo Congresso fotografico nazionale con una relazione sul tema Delle condizioni dei fotografi in Ita­lia.

Partecipa nel 1900 alla Esposizione fotografica di Torino presentando tra l’altro riproduzioni di castelli della Valle d’Aosta, probabilmente da identificare con quelle presentate in questa mostra. In questa occasione Pietro Masoero ne pre­senta il lavoro sul “Bullettino della Società Fotografica Ita­liana” con queste parole: “Sambuy è professionista, ma non fa ritratti. Forma una classe a sé, che egregiamente imperso­na; nella quale si possono raccogliere allori, ed egli ne va raccogliendo, ma per esistere ci vogliono ed il suo disinteres­se ed il suo grande amore dell’arte per l’arte”. Il di Sambuy riceve un primo riconoscimento ufficiale in occasione del Congresso fotografico internazionale di Parigi del luglio 1900 in cui è eletto vicepresidente, per poi consolidare defi­nitivamente il suo ruolo con la prima Esposizione interna­zionale di Fotografia Artistica, tenutasi a Torino tra l’aprile ed il novembre del 1902, di cui fu promotore e presidente effettivo.

Bibliografia di riferimento: Gerolamo Marzorati, Guida di Torino. Torino: Paravia, 1898; Esposizione nazionale del 1898 a Torino. L’arte all’Esposizione del 1898. Torino: s.e., 1898; Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, Ottobre 1898. Torino : Tip. Roux, Frassati e C., 1899 ; “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 1900, n. 4, p. 12 (testo di P. Masoero); Francesco  Casanova, Guide illustré publié en l’ occasion de la Ire Exposition Internationale de l’art decoratif moderne. Torino: F. Casanova, 1902; Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica, in Federico Zeri, a cura di,  Grafica e immagine, 1981, citato pp. 545-586 (p. 558).

 

[23] Sarebbe interessante ricostruire le vicende della invenzio­ne e del consolidamento di ‘luoghi fotografici’  susseguente all’Esposizione del 1884 ma, poiché lo spazio non lo consen­te, proponiamo senza svilupparlo un percorso fotografico at­traverso le Guide di Torino che significativamente a partire da quella data ospitano con sempre maggiore frequenza e attenzione immagini dei castelli valdostani, compresi tra le mete delle “gite nei dintorni della città”.

 

[24] Esposizione generale italiana in Torino, 1884: Arte contemporanea : catalogo ufficiale.  Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1884, p. 123 passim.

 

[25] Prima esposizione italiana di architettura, Torino 1890 : catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890, p. 49.

 

[26] Sul rilevamento architettonico coll’uso della fotografia : memoria dell’ingegnere Giuseppe Gioacchino Ferria, ” Atti della Società degli ingegneri e degli industriali di Torino” 1883, estratto, p. 43 passim.  L’uso della fotogrammetria, sotto specie di fototopografia, data in Italia a partire almeno dal 1875 ad opera degli spe­cialisti dell’Istituto Geografico Militare che presterà sempre una grande e comprensibile attenzione a queste tecniche di rilevamento, ma le prime esperienze europee (Meydenbauer in Germania e Laussedat in Francia) sono legate proprio al rilievo architettonico.

 

[27] Il testo della risoluzione è ripreso da Camillo Boito, I restauri in architettura, in Id. Questioni pratiche di Belle Arti. Milano: Hoepli, 1893, pp. 3-48.

 

[28] Daniele Donghi, La prima esposizione italiana di architettura tenutasi a Torino nel 1890 : origine, programmi, conferenze. Torino : Unione Tipografico-Editrice, 1891, p. 18; l’autore auspica poi naturalmen­te un ritorno al “paziente e intelligente rilievo manuale fatto sul vero” (ibid.). Lo stesso argomento è ripreso sotto diversa angolazione anche da Camillo Boito, Gli ammaestramenti della Prima Esposizione Italiana di Architettura , in Id. Questioni pratiche di Belle Arti, 1893, citato, pp. 385-419.

 

[29] Le Corbusier, La mia opera. Torino: Boringhieri,1961, p. 37.

 

[30] Boito, Gli ammaestramenti , 1893, citato, p. 52.

 

[31] In relazione alla proposta di decretare monumento nazio­nale la casa di Pietro Micca a Sagliano si chiede di inviare “se esistesse una fotografia o una cartolina illustrata” (SBAAP-AS, 737, 3 febbraio 1901).

 

[32] Ottavio Germano, che normalmente fotografava su lastre 13/18, nel 1889, cioè nello stesso anno in cui Eastman commercializza i negativi su celluloide, invia al Ministero un elenco di 76 fotografie in cui gli stessi soggetti sono ripresi prima col “sistema vecchio” e poi col “sistema Eastman” (SBAAP-AS, FS). Questo elenco costituisce il primo esempio noto di invio di materiale fotografico come supporto alla do­cumentazione inviata al Ministero, secondo una consuetudi­ne che si verrà consolidando col tempo, come dimostrano i numerosi esempi che mi sono stati segnalati da Cristina Mossetti, e che verrà favorita dall’istituzione, nel 1892, del Gabinetto Fotografico Nazionale che pubblicherà nel 1903 il suo primo catalogo.

 

[33] La definizione di questo concetto si deve a Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979.