Ieri – Immagini di un territorio storico (2007)

in Giorgio G. Negri, a cura di, Il riso: territorio, cultura, lavoro, Novara – Reggio Emilia, Promoriso – Diabasis, 2007, pp. 26-33

 

 

 “Lungo la strada non incontro nulla di diverso

da tutto ciò che può incontrare una persona qualsiasi

lungo una strada qualsiasi. (…)  è  tutto, tutto qui.”

Robert Walser, Il Greifensee, 1914

 

 

 

Ho vissuto per anni ai margini settentrionali della pianura del riso, oltre la sponda sinistra del Canale Cavour, questa linea d’acqua che ne segna, forse ne segnava i confini: al di qua i primi boschi, il frumento, il granturco e scarsi prati, di là il riso. Una sola grande risaia, continua e asimmetrica sino alle sponde del Po. Più volte l’anno ne attraversavo lunghi tratti, ricondotto bambino all’Emilia dei miei genitori: Vercelli, Mortara, Pavia; poi Broni, Casteggio, Voghera no, certo, dove arrivava invece Paolo Conte. Stradella sì, però, e  le sue fisarmoniche che salivano l’Appennino per le feste da ballo nelle piccole sale sgombrate delle osterie.

Non ne sapevo nulla allora di questi luoghi, consueti e non per questo meno ignoti, ma il loro fascino era insinuante e certo grande, complesso. Nutrito di occasioni di gioco nelle brume dei mesi di scuola come del racconto dei grandi, non ancora vecchi, che nella loro giovinezza per me allora impensabile avevano fatto all’inverso quello stesso viaggio, con un tempo lento ben diverso dal mio, con un’attenzione ai luoghi obbligata dal camminare, dal pedalare, al più dal ritmo lento del biroccio. E tornavano i nomi: Mortara, Vercelli, Lignana, Saletta, Trino; e la cascina Isola, la Colombara, il Torrione, Castelmerlino, e le strade secondarie percorse tante volte, e i piloni al bivio. Non che me ne importasse molto di quei nomi, di cui non mi poteva interessare l’origine, il senso. Io che ci abitavo non ne sapevo nulla, o quasi. Passata l’epoca dei giochi, quella campagna, risicola o asciutta che fosse era qualcosa che non mi riguardava. Non vi accadeva nulla; nulla che mi interessasse, almeno. Sì, certo, l’acqua nelle risaie ad aprile, specialmente con la luna. Ma erano così rare le occasioni per vederla. E il resto dell’anno il nulla: il susseguirsi sempre uguale del ciclo delle coltivazioni.

Sarebbero state delle immagini a sollecitarmi a capire, a interrogarmi per poi interrogare i luoghi. Sarebbero stati gli splendidi cabrei settecenteschi dell’Abbazia di Lucedio disegnati da Vincenzo Scapitta, parente del più noto Giovanni Battista, il raffinato architetto di Palazzo Treville e della chiesa di Santa Caterina a Casale Monferrato, ma anche l’autore del progetto di eleganti tettoie, quasi neoclassiche, “per poter ricoverare, battere e trescare gli risi al coperto ne’ tempi piovosi”, anno 1714.

Quei bellissimi disegni, con le sintetiche e un poco ingenue assonometrie dei nuclei abitati che io mi sforzavo di riconoscere, costituirono per me la rivelazione della Storia. Non che non mi fossi accorto prima delle architetture, dei monumenti; a questi ero preparato, li consideravo delle presenze quasi ovvie. Quelle carte disegnate mi rivelavano improvvisamente che anche la piccola strada poderale, quasi sommersa dalle erbe aveva una storia e la testimoniava. Insieme ai filari, alle rogge, alle costruzioni rustiche, ai resti abbaziali in stato di semiabbandono, quasi usati con intenzione distruttiva. Esito di un modo immediatamente utilitaristico di intendere il patrimonio storico, senza prospettiva e senza memoria.

Fu allora che incominciai a capire che il territorio è un luogo. Materiale e immateriale, fatto di cose e di memoria delle cose, condivisa. Esito di una ininterrotta sedimentazione di scienze e di sapienze, di gesti e di comportamenti (imparare a “camminare nel fango di risaia e non cadere” ad esempio, come ricorda qui Antonio Tinarelli), di un lessico nascosto dentro i dialetti, di culture non sempre e non solo trasformate in oggetti, sebbene ogni cosa presente ne sia contemporaneamente testimonianza e segno. E poi  una letteratura, prevalentemente orale, che ha prodotto ben più del canzoniere che tutti conosciamo.

Da allora ho provato ogni volta a guardare, a cercare di vedere, accorgendomi che il fascino di questi luoghi cresceva con la loro conoscenza, ritrovando le tracce della loro storia sedimentate e sovrapposte come in un palinsesto. Evocazioni toponomastiche, le pievi e le abbazie, la rete minuta e fittissima dei castelli di pianura, e il Bosco della Partecipanza, medievale nelle sue origini e nelle regole che ne governano la conduzione; alcune  sparse testimonianze auliche,  come Robella e Saletta, resti del sogno grandioso e illuminista di Tommaso Mossi, il funzionalismo lucidamente razionale delle grandi cascine a corte. La fitta trama della rete irrigua, dalle rogge tardomedievali al grande sistema dei canali ottocenteschi: Cavour, Depretis, Lanza, Sella; quasi un olimpo politico. Intorno e dentro la grande pianura, con i suoi coltivi, i piccoli centri una volta rurali, le corti oggi quasi vuote, costruite per coltivare  centinaia di ettari, per ospitare centinaia di lavoranti stagionali.

La modernizzazione della risicoltura, di cui la razionalizzazione della rete irrigua fu uno dei momenti più forti  insieme alla ricostruzione dei nuclei rurali, fu avviata tra Po e Ticino negli anni intorno all’Unità, che furono anche quelli della prima, diffusa maturità della fotografia, della sua definitiva uscita dalla fase pionieristica. Dobbiamo ancora conoscere molto, indagare raccolte e archivi per ricostruire un quadro compiuto della documentazione fotografica storica della pianura risicola, ma certo alcune testimonianze preziose si sono aggiunte negli anni alle cartografie settecentesche e poi napoleoniche, ai rilevamenti minutamente analitici delle tavolette dell’Istituto Geografico Militare.

Fu il territorio o meglio il suo uso a costituire il soggetto della prima campagna fotografica nota. Erano gli anni 1864-1866 quelli in cui Alberto Luigi Vialardi e Cesare Bernieri descrivevano la costruzione del Canale Cavour aderendo, si direbbe ideologicamente, al trionfo ingegneristico dell’opera durante il suo farsi, riflettendone  il senso progettuale, le macchine e il lavoro, sino a trasformare l’enorme cantiere in grandioso apparato scenografico nel quale agivano visitatori di rango, preludio alle immagini della cerimonia di inaugurazione. Lo scarto con la produzione vedutistica precedente era enorme e per queste loro caratteristiche quelle immagini vennero immediatamente adottate per una precisa sebbene non nuova (si pensi a Carlo Bossoli) strategia di comunicazione, divenendo ben presto – in particolare quelle di Vialardi – l’iconografia ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute, assemblate in un unico cartone, con corredo di tavola topografica esplicativa[1]. A queste fecero seguito le Riproduzioni fotografiche e disegni delle opere più importanti dei Canali derivati dal Po, dalla Dora Baltea e dal Sesia, che  Oreste Canavotto, impiegato dell’Amministrazione dei Canali Demaniali, realizzò nel 1884[2],  e poi ancora altre, anonime, alcuni decenni più tardi, forse in occasione  della mostra Vercelli e la sua Provincia dalla Romanità al Fascismo, realizzata nel 1939 a Vercelli nelle sale del Museo Leone appositamente riallestito da Augusto Cavallari Murat, per la cura di Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino ma di origine trinese e già direttore dei musei vercellesi[3].

È in questa serie storica che possiamo collocare le fotografie realizzate oggi da Mario Finotti, con la loro piana e ordinata restituzione dei manufatti come dei più complessi edifici della rete irrigua, insinuando la tentazione, la necessità quasi di un catalogo tipologico: gli edifici di presa, le chiuse, le centrali, i salti d’acqua, i ponti, le riserie e i mulini, i diramatori, gli scolmatori, le vasche, le pompe, l’asta liquida, la superficie sempre liscia, piana e specchiante delle acque dei canali.

Un paesaggio efficiente, un meccanismo complesso e intelligente pazientemente messo a punto nel tempo lungo che origina dalle prime bonifiche medievali, ma che ha subito una forte accelerazione negli ultimi centocinquant’anni. Destinato a durare. Finché ci sarà acqua, almeno. Finché le ombre minacciose delle mutazioni climatiche non si trasformeranno in urgenza ancor più concreta, prospettando un futuro privo di consapevolezza e memoria, quasi un oblio. Come è quello che testimonia e ricorda, quasi beffardamente celebra l’inquietante  nume acefalo della statua di Camillo Cavour in quello che fu il salotto buono di Leri, là dove prese forma il progetto del paesaggio odierno, la prima rivoluzione industriale della risaia italiana.

Solo tra Otto e Novecento, nella stagione che la storiografia fotografica definisce pittorialista,  si manifestò per la prima volta l’attenzione per questo  paesaggio, per  le valenze estetiche di questa pianura, da poco scoperta da certo divisionismo attento senza patetismi alle questioni sociali, come in Morbelli e Pellizza da Volpedo o dal verismo di Clemente Pugliese Levi. Il mondo della risaia,  non più malarico e infetto, non riusciva però a costituire tema di esercitazioni bucoliche, né letterarie né iconografiche: privo del tradizionale richiamo georgico della campagna asciutta come del fascino dei paesaggi alpini popolati di greggi e pastorelle, tanto cari all’iconografia pittorica tra Otto e Novecento. Ciò non impedì di organizzare a Vercelli,  nel 1912, in occasione dell’Esposizione Internazionale di risicoltura,  una “Mostra d’arte della campagna irrigua” destinata a celebrarne gli “aspetti poetici”, accostando alle opere di Morbelli, Follini e Reycend le autocromie di Adriano Tournon, futuro presidente dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, credo non troppo dissimili se non nelle intenzioni da quelle realizzate dallo stesso Morbelli o dal suo amico casalese Francesco Negri, ma specialmente le stampe fotografiche di Andrea Tarchetti, certo in quegli anni l’autore più attento ai gesti e al mondo della pianura irrigua[4]. Le sue Scene di vita e di lavoro si liberavano  dal bozzettismo per mettere a frutto almeno in parte le nuove possibilità di narrazione offerte dallo strumento fotografico, senza rinunciare alle suggestioni dei più noti (e ingombranti)  modelli pittorici, come fu per le tre istantanee dedicate al corteo di donne in occasione dello Sciopero per le otto ore che si tenne a Vercelli il primo giugno del 1906, in cui forte è l’influsso del modello costituito dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (1901).

Il lavoro di risaia si stava solo allora avviando a produrre una propria cultura, materiale e linguistica.  Pur nella sua conduzione arcaica, ancora quasi completamente manuale, era un lavoro moderno. In quegli anni  non aveva una tradizione che non fosse di lotte:  forse per questo risulta il grande assente dall’imponente repertorio raccolto e ordinato da Paul Scheuermeier nel 1919 -1925.[5] Negli anni tra le due guerre mondiali l’immagine del territorio, della cultura, del lavoro di risaia si riduceva alle due opposte forme delle foto di gruppo, che conservavano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere[6],  e della propaganda di Regime, fondata su “l’aureo assioma del Duce, che: nel problema granario italiano il riso è frumento”[7]. Così,  “nel suo slancio verso il popolo, e con particolare simpatia verso il popolo dei rurali, [organizzava] treni confortevoli (…) posti di ristoro nelle stazioni di partenza, di transito e di smistamento (…) appositi modernissimi edifici costruiti dall’Ente Risi [che ospitavano] in lieti refettori, ed in ampie e comode camerate, le squadre.”[8] Tra le piccole provvidenze offerte da questo “vigile amore” anche la fornitura dei grandi cappelli di paglia, avviata con successo nel 1938.

Negli anni del secondo dopoguerra furono le nuove istanze neorealiste, eredi culturali del socialismo  divisionista, ad affrontare il racconto della risaia. Fu Riso amaro (1949), col suo singolare connubio di istanze politiche e neorealiste amalgamate da una forte  “carica di carnalità e di erotismo” (Giuseppe De Santis), che insieme al successivo La risaia di Raffaello Matarazzo (1955) contribuì a porre al centro dell’attenzione la mondina come oggetto del desiderio,  protagonista assoluta e simbolo di tutto il mondo, di tutta la cultura popolare della risaia. Prese così avvio una cospicua produzione fotografica nella  quale accorto mestiere del fotografo e gratificazione della modella occasionale si incontravano sul piano di un blando erotismo ruspante, assumendo l’arcadico mondo rurale nella nascente cultura del fotoromanzo, mentre la descrizione  del ciclo colturale e delle innovazioni tecnologiche restava relegata alle pubblicazioni di settore o negli Atti dei convegni scientifici,  dove si pubblicavano le immagini strazianti delle patologie dermatologiche che colpivano le mondariso, duro contraltare all’iconografia corrente. Nei primi anni Cinquanta le condizioni di vita e di lavoro in molti centri e cascine non si discostavano di molto dalla realtà dell’anteguerra e – per certi versi – addirittura di inizio secolo, mentre iniziava a diffondersi l’uso dei diserbanti, dapprima visto come efficace ausilio alla diminuzione del carico di lavoro, ma ben presto individuato come minaccia e causa ultima di un progressivo e radicale calo occupazionale, tanto che le Federazioni sindacali si ritrovarono a combattere una battaglia di retroguardia, lamentando – ormai nel 1964 – che “buoi e cavalli sono stati sostituiti da trattori e mietitrebbie.”[9]

I gruppi di donne curve nell’acqua melmosa scomparvero rapidamente dai campi e dall’iconografia; ne rimasero solo alcune tracce relitte nella più vieta produzione fotoamatoriale e in certa pubblicistica sindacale.  La pianura irrigua era ormai diventata la fabbrica del riso: “L’elicottero è la mondina degli anni Sessanta”[10] recitava uno slogan di quegli anni.

Da tempo ormai anche il cielo è vuoto, vuota è la scena della risaia.  Vuote le grandi corti e le cascine, apparentemente inutili. Testimonianze imponenti di una storia centenaria, millenaria a volte. Non resti da cancellare però, ingombrati residui di cui disfarsi impunemente con fastidio più che con indifferenza. Invece    presenze che attendono ancora di essere riconosciute come monumenti, espressione compiuta e tangibile di un intrecciarsi di storie, culture, economie che ha dato forma e identità a questi luoghi disseminandoli di tracce che è indispensabile conoscere di nuovo, di cui riscoprire le ragioni e la necessità attuale, non fosse che quella della memoria. Molto di questo, di questo sentimento dei luoghi anche, mi pare di aver ritrovato nelle fotografie che qui si pubblicano.

Che molte di queste immagini siano racconto e non puro documento lo dichiarano le intenzioni del progetto e la prima, esplicita fotografia della serie realizzata da Vittore Fossati, con la sua figura proiettata sul tappeto della risaia fitta di piante, giusto al limite dell’ombra. Il fotografo esce allo scoperto, esce – letteralmente – dall’ombra e dichiara la propria determinante presenza di autore, il proprio volerci essere in ciascuna delle immagini che presenta. La scena è paradigmatica: cieli alti, orizzonte piatto, appena mosso da gruppi lontani di alberi. E riso, riso tutt’intorno. Sono i principali elementi costitutivi di questi luoghi, che Fossati individua in modo sistematico: i corsi d’acqua, naturali e artificiali; le strade, apparentemente rettilinee, che sembrano inseguire l’infinito, come i canali; gli insediamenti e le architetture, come sintesi di storia; e la risaia, certo, nelle sue differenti apparenze stagionali, da laguna a brughiera a campo, lasciando ampio spazio alla teatralità cangiante delle nuvole. Il riconoscimento può apparire ovvio, ma il racconto delle  stagioni non è così comune nella tradizione iconografica del paesaggio, solitamente mostrato in uno solo dei suoi infiniti e ciclici stati, mentre qui la variazione entra più volte a far parte dell’indagine, sino alla sintesi estrema della coppia di riprese fatte a Larizzate, che traducono il dato temporale in composizione  concretamente astratta. Altri sono poi gli elementi strutturali che assumono valore di figura, penso ai canali, per la specchiante simmetria che offrono, ma anche per la silenziosità dello scorrere delle loro acque, così adeguata ai ritmi lunghi della pianura. Penso alle opere idrauliche che li governano, cui ha dedicato la propria attenzione anche Finotti, qui trasformate in occasioni per implacabili collimazioni ottiche che dichiarano tutta l’inevitabile artificiosità della ripresa, gli infiniti rimandi su cui Fossati  costruisce il proprio sguardo. Quello del lettore, dopo: indotto a muovere la propria attenzione lungo linee illusorie, che congiungono spazi a volte solo apparentemente contigui, sempre  tra loro prossimi: tutti appartenenti all’uniforme mondo della risaia. Allineamenti prospettici da immagine a immagine, da figura a figura a ribadire l’invenzione della rappresentazione, la sua natura di racconto precisamente congegnato. Simmetrie minime, tenui (e teneri) congiungimenti che invano ci illuderemmo di ritrovare percorrendo quei luoghi. Paesaggi che nascono dall’uso virtuoso della visione monoculare e statica della fotografia, capace di riconoscere e restituire geometricamente intervalli misurabili, accordi spaziali tra elementi distinti, che solo per questo, solo qui sono così nitidamente posti in relazione tra loro, suggerendo l’esistenza di più profondi nessi, ma anche – più semplicemente – inducendo lo sguardo a vedere. Per molta fotografia l’operazione dell’inquadrare è l’inevitabile modo di coniugare un dentro e un fuori, di suggerire la presenza di ciò che il taglio esclude. Non qui. Per Fossati solo il dentro ha ragione d’essere, solo la rete di relazioni che lui comprende, quelle che fondano la necessità dell’immagine che ci offre. Nelle sue fotografie quasi non ha peso ciò che resta escluso, ciò che sappiamo essere fuori, nel mondo. Lievi spostamenti del punto di vista, che ne celebrano contemporaneamente l’insistenza e le invenzioni, mostrando come basti poco, anche meno di un passo a svelare una nuova immagine, che lo scatto fisserà trasformando in stabile il mutevole, anche non effimero. E poi: provare a voltarsi, chiedersi cosa mai accada esattamente (è indispensabile che sia così) alle spalle di ciò che vediamo e scoprire, qui, forse solo qui, proprio in questo paesaggio, che la scena si ripropone uguale, col solo variare della saturazione dei toni. Una notazione in punta di penna, quasi distratta. Ma tutt’altro che irrilevante. Bell’esempio della sapienza di un narrare che accoglie le suggestioni che la memoria vivente delle immagini offre, non solo quale espressione di coerenza poetica, ma come variazione su un tema già affrontato, quasi ai limiti dell’autocitazione. Penso all’arcobaleno sul Sesia, rievocazione simmetrica di quello che apriva le pagine di Viaggio in Italia (1984), come alla presenza quasi metafisica della pompa di benzina addossata alla muraglia del castello di Montonero, oggetto che compariva  già in uno dei suoi primi Appunti per una fotografia di paesaggio  (1983).  Immagini di immagini. Da leggere ben oltre la loro semplice, quasi spontanea naturalezza, oltre la scala ben temperata dei colori.

Anche Francesco Radino lavora sulla memoria delle immagini, sebbene in modi e per ragioni profondamente differenti: sovrapposizioni, accumuli, figure della sedimentazione che hanno costruito l’immaginario di questi luoghi.  Scomparso il lavoro corporale, a nutrire il ricordo, a certificare l’assenza restano la memoria e il mito, la mondina e la Mangano: due icone.  La descrizione procede per accumulo, per accostamento di frammenti cui la successione fornisce significati nuovi e possibili. Ancora immagini di immagini, ma utilizzate in altri registri narrativi, in un diverso orizzonte di riferimenti che guarda semmai alla grafica e ancor più alla pittura. Mentre certi mossi contengono la memoria lunga delle prime sperimentazioni di Munari e Veronesi, altre riprese, alcune di dettaglio, interrogano le superfici e ne scoprono le fascinazioni materiche, quasi grumi di paste terrose, gli impasti e le luci. Le tensioni superficiali.

Nulla però che abbia a che vedere con le emulazioni sovente ingenue della pittura informale care a certa fotografia dopo gli anni Cinquanta. Questa è invece una lucida strategia di restituzione di porzioni di mondo, condotta accogliendo tutto il patrimonio di scoperte e di esiti che la nostra cultura visiva ha prodotto, particolarmente prossimo e caro a un autore come Radino, figlio di pittori. Qui si mostra come la produzione contemporanea viva in un inevitabile stato osmotico, dove ogni sguardo – anche quello inconsapevole – è intriso di suggestioni infinite, dove il guardare – specie quello d’autore – non può che darsi come azione fortemente strutturata, gesto profondamente cólto ben più che inevitabilmente culturale. Mostrare per suggerire nessi e ragioni che avvicinino alla conoscenza. In questo suo fare il fotografo, diversamente dallo scrittore, si vede letteralmente costretto a misurarsi fisicamente con la realtà delle cose se vuole “produrre il suo miele”, come diceva Lucien Febvre a proposito degli storici. Lavora intorno alla contingenza per  trasformarla in elemento generatore di senso proprio superando la soglia della pura descrittività. Da qui nasce l’urgenza di adottare chiare strategie narrative, insieme interne ed esterne alla singola immagine: dalle scelte compositive alla messa in pagina delle sequenze. Entro i confini dell’inquadratura, poi dell’intero lavoro, entrano in gioco tanto  più sottilmente quanto più consapevoli e controllati, i rimandi e le evocazioni, nella convinzione che la propria opinione sul mondo sia meglio espressa attraverso un processo di mediazione che si nutre di immagini di immagini, di convenzioni rappresentative, discorsive quindi. Radino racconta un lavoro quasi senza figure. Nessun volto, nessun ritratto: solo alcuni gesti primari. Nessuna storia individuale a riassumere in emblema le vicende di molti. Nessuna tradizione.

In un’agricoltura sempre più meccanizzata, in una campagna quasi spopolata, profondamente trasformata nei modi della produzione, delle trascorse presenze (quasi antiche) sopravvivono solo immagini mitiche e incerte, tra loro sovrapposte, già in origine irreali. Il mondo delle mondariso, i gesti, la fatica, le malattie e i canti, le rivendicazioni personali e politiche, le risicate libertà e gli amori non hanno lasciato segni visibili. Nessuno qui che si sia preoccupato di raccogliere e conservare le trame, sparse ma certo fittissime di una collettiva memoria per immagini. I dormitori e le mense giacciono abbandonati, i muri sfarinandosi in muffe che sono l’esito ultimo dell’entropia di quel mondo. L’oggi è – fortunatamente – risaia e macchina, questa raccontata attraverso le superfici dure dei metalli, nelle funzionalità delle forme, sebbene quasi scultoree, nella rapidità dei movimenti che generano altre figure, accessibili solo all’ottica, mentre la trasformazione tecnologica delle piste ha determinato salti di scala e perdite di funzione che mutano le vecchie costruzioni in architetture della memoria, quasi teatrali, dove giacciono immobili gli attrezzi passati, tra l’abbandono e il piccolo, privato altare votivo. Per raccontarli Radino scegli tempi diversi, significanti. Tra le presenze immobili appare un corpo, la camicia fresca di stiratura, la mano che scende al bastone sottile e nodoso:  la figura acefala del signor padrone.

Note

[1] All’Album Vialardi, conservato presso l’Associazione Irrigazione Ovest Sesia (AIOS) di Vercelli devono infatti essere affiancate le immagini dei Fratelli Bernieri di Torino e del fotografo novarese Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara (ASCC) e in alcune collezioni private. Undici di queste immagini vennero inviate all’Esposizione di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.

[2] L’album, intestato alla Amministrazione dei canali Demaniali d’irrigazione Canale Cavour, è conservato presso l’Associazione Irrigazione Est Sesia (AIES), a Novara.

[3] ASCC, Novara.

[4] Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna,  Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli, Assessorato alla Cultura, 1990. Le interpretazioni del paesaggio di risaia sono poi ulteriormente mediate – in caso di pubblicazione – dai titoli redazionali  assegnati: così una stessa immagine del 1909 compare come Quiete campestre sulle pagine del milanese “Il Progresso Fotografico” per assumere quello più rarefatto e astratto di Nuages et rizières nella torinese e aristocratica “La Fotografia Artistica”.

[5] Cfr. Paul Scheuermeier, Bauernwerk in Italien der italienischen und rätoromanischen Schwiez. Erlenbach – Zürich: Eugen Rentsch Verlag, 1943; trad it. Il lavoro dei contadini. Milano: Longanesi, 1980; Marina Miraglia, a cura di, Fotografia e ricerca sul lavoro contadino in Italia 1919-1935. Milano: Longanesi, 1981.  Nella  fondamentale disamina di Scheuermeier il ciclo di coltivazione del riso non è preso in considerazione, neppure nel capitolo dedicato all’irrigazione.  Non è stato possibile in questa occasione consultare l’importante archivio di immagini realizzate da Ugo Pellis, a sua volta in contatto con lo studioso svizzero, realizzate nel 1925-1942 nel corso delle inchieste per la realizzazione dell’Atlante Linguistico Italiano, cfr. Voci e immagini. Ugo Pellis linguista e fotografo, catalogo della mostra (Spilimbergo, 1999), a cura di Gianfranco Ellero, Italo Zannier. Milano – Spilimbergo: Federico Motta – CRAF, 1999.

[6]Guardare la storia. Immagini di Pavia e della sua provincia 1915/1945, in “Annali di storia pavese”, n.12-13, giugno 1986: 210, n.5: Anonimo, Cascina Boragno Lomello (Valle Lomellina), Mondine di Mantova che lavorano nelle risaie lomelline, 1920.

[7] Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, catalogo della mostra (Vercelli, 1939), a cura di Vittorio Viale. Vercelli: Federazione dei Fasci di Combattimento, 1939, p. 92.

[8]Vercelli 1939, pp. 96-97.

[9]Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.1. Vercelli: Stamperia Vercellese, 1964, p. 7.

[10]Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.4.  Vercelli: Stamperia Vercellese, 1967, copertina; Id., Documento n.1, p. 6.

“Invece di leggere la storia nei libri”: Fotografia e museografia in Piemonte intorno al 1884 (2006)

in Enrica Pagella, a cura di, Il Borgo Medievale: Nuovi studi, “Quaderni del Borgo”, n.6. Torino: Fondazione Torino Musei, 2006, pp. 130-140

 

 

Erano i primi giorni  dell’anno 1870 quando il giovane Vittorio Avondo si recava nello studio della Fotografia Subalpina per farsi ritrarre da  Giovanni Battista Berra in costume da “antico gentiluomo inglese”[1], non ancora attratto da più rudi medievalismi sabaudi sebbene l’abito fosse scelto per partecipare  al gran ballo offerto dal Duca Amedeo d’Aosta, il 16 febbraio.  Quelli erano ancora tempi di vaghe suggestioni storiciste, teatrali: tra Partite a scacchi e Feste Campestri, Balli delle Alpi e Cavalieri del Bogo, Ordini cavallereschi  e l’ormai consolidata moda del revival neogotico.  Ancora due anni più tardi, nel Natale del 1872, alcuni dei protagonisti di quella stagione si riunivano per festeggiare vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme, così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[2] “Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne”[3], avrebbe aggiunto Pietro Giacosa in un suo ricordo tardo,  a rimarcare forse la fine della spensieratezza e l’avvio di una stagione nuova, col fratello Giuseppe, Alfredo d’Andrade, Federico Pastoris e Vittorio Avondo tra i protagonisti del convivio notturno in quello splendido edificio che il giovane pittore e antiquario aveva appena acquistato, dopo averlo segnalato nel 1871 alla Commissione consultiva per l’individuazione dei monumenti nazionali d’antichità e belle arti, di cui faceva parte.  Era ancora lieve lo sguardo volto a ritroso, alla ricerca di  un altrove  le cui coordinate oscillavano tra storicismi e orientalismi o – in altri – verso il mondo popolare extraurbano (a quello urbano avrebbe pensato Bava Beccaris), ma tutte identificavano luoghi in cui fosse almeno possibile vagheggiare alcuni valori perduti della società preindustriale. Quasi ovvio allora che questa topografia dell’immaginario trovasse una propria corrispondenza geografica nei luoghi delle architetture valdostane, quelle che avevano attratto i più sensibili artisti torinesi sin dai primi anni Cinquanta; Pastoris e D’Andrade dal 1865.  Tra 1870 e 1872 qualcosa sembra però essere mutato nella sensibilità di questo ristretto gruppo di artisti torinesi, già ricchi di giovanili esperienze internazionali. Al piacere della rievocazione fantastica, non ancora – forse mai – mitica,  si affiancava e cresceva  la consapevolezza del nesso inscindibile tra identità culturale e materiale del patrimonio,  attraverso la rielaborazione originale sebbene non sistematica delle suggestioni etiche e intellettuali che provenivano dalle diverse anime della cultura europea del restauro: da Pugin a Viollet-Le-Duc, in attesa di accogliere le raccomandazioni ruskiniane per il tramite di Camillo Boito. Era una disposizione alla scoperta[4] e all’ascolto che “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica”, delle testimonianze medievali in particolare, sostenuta da una peculiare forma di verismo che “invece di leggere la storia nei libri [li portava]  a studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita”[5], come ben dimostra un quadro importante come il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880). Quasi un manifesto del gruppo, in cui  ritroviamo felicemente coniugati la resa analitica, fotografica quasi  della descrizione architettonica e il ricco immaginario storicista della scena, in quella che a noi appare come un’oscillazione del gusto da comprendere e giustificare criticamente, mentre costituiva il primo esito maturo di quell’atteggiamento culturale che si sarebbe compiutamente espresso nella realizzazione del Borgo.  Negli stessi anni si avviava a livello centrale il primo progetto di formazione di un repertorio fotografico del patrimonio architettonico italiano. Nel 1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e [ad]  indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[6] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[7] e Vittorio Ecclesia[8] il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  limitandosi però al circondario di Torino e Susa e al territorio di Ivrea e Aosta.[9]    Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che  Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è di Alfonso Rubbiani – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”[10]. Per questo l’uso della documentazione fotografica veniva raccomandato e codificato da Viollet-Le- Duc nel suo Dictionnaire del 1860[11].    Fu proprio a Vittorio Ecclesia, autore delle riprese di Issogne nel corso della campagna del 1882, cui Avondo si rivolse per celebrare con un album fotografico[12] il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro come dei criteri e degli esiti recenti del suo riallestimento quasi filologico[13], quelli  che tanto avrebbero colpito  lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947) durante la visita fatta all’edificio nel 1896: “un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale.”[14] Giudizio che avrebbe potuto essere esteso con profitto e condiviso con reciproca soddisfazione per diverse altre occasioni museografiche. Dalle nuove riprese realizzate nei primi mesi del 1884[15] emerse una lettura chiara e sistematica dell’architettura come degli apparati decorativi e degli ambienti arredati. Una fedele documentazione non solo del suo stato attuale di residenza “in stile”, ma anche – sorprendentemente – di come il castello doveva essere stato, e vissuto: abitato da personaggi in costume, come l’armigero poggiato al bordo della fontana del melograno.  In quegli stessi mesi  giungeva a compimento la costruzione del Borgo Medievale, “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle “parti più importanti e caratteristiche” delle architetture, selezionate dopo il ‘colpo di mano’ di Avondo e D’Andrade che aveva reindirizzato le prime scelte della Commissione. Si trattava – come è noto – di procedere raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio”,  compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia”, di un repertorio insomma.  “Obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[16]  Il nodo concettuale imposto da questo vincolo metodologico generò un monumento di tipo nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza disciplinare e civile del patrimonio medievale piemontese e valdostano,  ma soprattutto esito concretamente esperibile dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, di presenze riconosciute autentiche. Alla manifesta necessità economica di sostituire la realtà col suo simulacro, infine. Analogamente a quanto accadeva con  le fotografie, l’aggregarsi improvviso di elementi esistenti in luoghi diversi dislocava il visitatore nello spazio e nel tempo, scardinando paradossalmente ogni realismo e nel Borgo trovava compiuta consistenza museografica quel concetto di analogo, di copia fedele e fungibile al reale che accomunava ‘ricostruzione’ e immagine ottico meccanica, mescolandosi ancora inestricabilmente con le suggestioni disciplinari e letterarie del restauro alla francese. Qui il luogo comune dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento  investiva  una pratica che si voleva filologica nonostante gli interventi di assemblaggio e collage, i sapienti aggiustamenti necessari ad  adattare i parametri originali al nuovo contesto[17]. Anche per questa realizzazione, come per ogni fotografia, si può così parlare di riscrittura apparentemente oggettiva e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di  un soggetto inesistente in quella forma. Analogamente a quanto accadeva quasi negli stessi giorni a Issogne, a ulteriore testimonianza della capacità dei membri più autorevoli della Commissione ordinatrice di conservare un affascinante equilibrio tra consapevolezza archeologica e piacere giocoso della messinscena, Vittorio Ecclesia veniva incaricato di realizzare anche al Borgo una serie di vedute animate da figure in costume.[18]

Così se “queste fabbriche non [apparivano] una fredda rassegna di cose da museo” ciò accadeva perché erano animate da “personaggi e scene dell’epoca a cui si riferiscono” (Nino Pettenati)[19], mentre al banchetto inaugurale offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (ispirati versi di Giuseppe Giacosa) intervenivano “un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…), il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” Alla cerimonia inaugurale poi, alla presenza dei reali, “il corteo passa. È il mondo moderno  che entra nel medioevo. È il secolo XIX che fa un ricorso fantastico nel XV. Quei due mondi destano un contrasto che non manca di una certa comicità” certo, ma per cogliere le emozioni più vere occorreva attendere la sera, quando la dotta attrazione archeologica trascolorava, trasformandosi: “un castello antico è bello – infine – al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido […] quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono  il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” Era il coup de théâtre ostinatamente cercato e raggiunto, poiché “ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro gli spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo” (Camillo Boito) , poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia” (Antonio Bonamore), specialmente quando la verosimiglianza – come a Issogne – era certificata dalla   rappresentazione fotografica degli ambienti e della “vita civile del XV secolo”, anticipando meccanismi narrativi che di lì a non molto avrebbe sviluppato con ben altri mezzi il cinema. Riproduzione tendenzialmente fedele dell’originale, testimonianza e documento, strumento – al pari dei rilievi grafici e dei calchi – di una disciplina  che stava definendo le proprie metodiche e il proprio progetto culturale e scientifico senza voler rinunciare al fascino letterario dell’evocazione[20]. Materializzazione di un sogno, questo assemblage di immagini costituiva un efficace dispositivo di realismo fantastico, non ancora consapevole dei rischi futuri di quelle rappresentazioni omologate in cui le più forti connotazioni dei luoghi sono trasformate in stereotipi.  Allora ciò non poteva neppure essere concepito per un patrimonio come quello piemontese, ancora in fase di scoperta e di studio,  ma nella spettacolarizzazione del Borgo oggi riconosciamo il primo indizio di un meccanismo di riduzione che si sarebbe rivelato tentacolare e onnivoro, di un percorso che ha condotto a certe superficialità consumistiche dell’oggi.

Il fascino e l’efficacia didascalica di questa museografia della verosimiglianza dovettero essere tenute nel dovuto conto dalla Commissione incaricata di stabilire il nuovo allestimento della Sezione di Arte Antica del Museo civico torinese, presieduta dal neodirettore Avondo, certo memore anche dei favorevoli commenti espressi da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito degli esiti del suo riallestimento del castello di Issogne come dell’Esposizione di Torino del 1880[21], che lo aveva avuto tra i commissari, dove la disposizione degli oggetti si presentava “come nella casa di un uomo di gusto”.[22] La revisione museografica degli allestimenti, consentita dal trasloco nell’aprile 1895 della Sezione di arte moderna nella nuova sede della palazzina dell’Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, ottenne il plauso del Comitato direttivo “pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate” [23], e quasi impose la messa in cantiere di una “pubblicazione illustrativa” la cui concreta realizzazione prese però avvio solo nel febbraio del 1899, affidata a Edoardo Balbo Bertone di Sambuy.  A causa di una serie di difficoltà successivamente sorte, la “riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo” fu particolarmente travagliata e lunga[24],  così che solo la vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica  venne presentata al Sindaco di Torino. Le bellissime tavole stampate dallo stabilimento eliotipico Calzolari & Ferrario di Milano illustravano la nuova sistemazione, in cui accanto all’organizzazione tipologica “per serie e per materiali” (ceramiche, tessuti ecc.) comparivano  ricostruzioni ambientali cronologicamente e stilisticamente connotate, come la Stanza piemontese del XV secolo, che costituivano non solo l’attualizzazione di importanti modelli internazionali, ma anche una rielaborazione delle esperienze e delle soluzioni adottate al Borgo e ancor prima poste in atto nella risistemazione del castello di Issogne. Mancavano ormai i figuranti in costume, che Edoardo di Sambuy aveva comunque utilizzato ancora in una serie di riprese valdostane del 1898, ma questi esempi di ricostruzione verosimilmente oggettiva di un altrove temporale e spaziale sarebbero stati ancora ben presenti nell’eclettico allestimento progettato da Augusto Cavallari Murat per il grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale mise a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte[25], incerto tra ormai consolidate soluzioni moderniste (penso all’uso dei bellissimi ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone[26])  e più tradizionali ambientazioni in stile di avondiana memoria. Qui, ancora una volta, i due diversi meccanismi di ‘riproduzione’ di una realtà lontana nel tempo e nello spazio prendevano forma nella goticizzazione degli spazi di Palazzo Carignano e nei rimandi visuali delle tavole fotografiche.

 

Note

 

[1] Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p. 120.

[2] Giuseppe Giacosa, 1908, citato in Sandra Barberi, L’ultimo castellano della Valle d’Aosta: Vittorio Avondo e il maniero di Issogne, in Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1997, pp. 137-164 (149).

[3] Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968. p. 12.

[4] A breve distanza dalla serie di incisioni realizzate da  Édouard Aubert, La Vallée d’Aoste. Paris: Amyot, 1860, utilizzate ancora molto tempo dopo da Amé Gorret, Claude Bich, Guide de la vallee d’Aoste. Torino: F. Casanova, 1877,  nel 1869 veniva pubblicato l’album  di Meuta e Riva La Vallée d’Aoste monumentale photographiée et annotée historiquement,  che costituisce il primo esempio di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio artistico della valle.

[5]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891,. Torino:Paravia e C.,  1893, p.337, citato in  Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano. Torino: Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.19-43.

[6]  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[7] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino, 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra ( Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I, oggi conservato presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria. Esemplari della sua campagna documentaria del 1882 sono attualmente conservati nell’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte, ma anche nel Fondo Avondo e nel Fondo Musei Civici della Fondazione Torino Musei, costituito da 96 stampe all’albumina di medio o grande formato essenzialmente dedicate a soggetti di architettura piemontese, nella maggior parte provenienti da Esposizioni torinesi o dalla campagna di documentazione dei “monumenti” piemontesi promossa dalla Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità della Provincia di Torino nel 1882.

[8] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).  Tre esemplari dell’album dedicato al Castello d’Issogne,  in due diverse edizioni, uno dei quali con  dedica di Vittorio Avondo ad “A. Pozzi antiquario” e numerosi esemplari delle due serie di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, 1884, sono oggi conservati presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei, mentre 24 stampe all’albumina  di identico soggetto compaiono nel Fondo Brayda e fanno parte anche di un Fondo non meglio identificato della stessa Fondazione, che conserva anche esemplari riferibili alla campagna documentaria del 1882, di cui si conoscono copie conservate anche presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte.

[9] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate nell’Alessandrino da Federico Castellani e alle  vedute urbane presentate dall’editore Giovanni Battista Maggi, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim; Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino:  Celid, 1999, p. 59. Diversi esemplari di queste immagini sono oggi conservati negli archivi fotografici della Fondazione Torino Musei, dell’Accademia Albertina di Belle Arti e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[10] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc, Restauration, in Id., Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle. Paris: Librairies Imprimeries Réunies, s.d. (1860),  VIII, pp.33-34.

[12]Per la ricostruzione dell’iter progettuale dell’album cfr. P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, pp. 33-35.

[13] Quale fosse il valore assegnato dall’ambiente culturale che ruotava intorno ad Avondo e D’Andrade al riallestimento di Issogne mi pare indirettamente confermato anche dalla scelta dei soggetti per le tavole che Carlo Chessa ricavò dalle fotografie Ecclesia (senza dichiararlo) ad illustrazione del volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898.

[14] Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassbur: Fritz Schlesier Verlag, 1896, citato in Barberi 1997, p.146.

[15] Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama- Fondo Vittorio Avondo, cartella “Conti – ricevute – fatture”.

[16] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884. Catalogo ufficiale della Sezione Storia dell’Arte. Torino: Tip. Vincenzo Bona, 1884, p.9.

[17] Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[18] Questa serie di  immagini ebbe un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino: Tip. Carlo Accame, 1934, pur omettendone la paternità.

[19] Salvo diversa indicazione tutte le citazioni successive sono tratte da Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale- Fratelli Treves, 1884: n.8, p. 67, n. 42, pp. 331-334.

[20] Giova qui almeno ricordare che il  1884 costituisce un momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura italiana anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”, che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tenne in occasione dell’Esposizione affidò  al Collegio torinese. Questa iniziativa ebbe quale primo esito la donazione da parte di  Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale. In una macchina museografica costruita come un repertorio veniva ospitato un catalogo antologico fatto di calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto di fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.” Cfr. Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887; Volpiano 1999. Colgo l’occasione per segnalare come parte di quelle immagini sia stata recentemente ritrovata nei depositi di Palazzo Madama ed oggi sia conservata presso l’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei, ma  sia ancora in attesa di un’appropriata catalogazione e studio sistematico in grado di stabilire consistenza e congruenza di quelle immagini rispetto all’allestimento originario.

[21] Ricordo qui, ma il tema della produzione fotografica connessa alle diverse esposizioni andrebbe approfondito, che un’ampia selezione delle opere esposte venne pubblicata nelle cento splendide tavole in fototipia che costituivano la cartella L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: Fratelli Doyen, 1882. Anche G. B. Berra aveva documentato fotograficamente in un grande album la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ma dedicandosi all’arte moderna.

[22] Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-60, cui rimando anche per un inquadramento critico delle concezioni museologiche di Avondo.

[23] Archivio dei Musei Civici di Torino,  CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura mia.

[24] Cfr. Cavanna 2005, pp. 41-44.

[25] Realizzazione “che costituisce, ancora oggi  un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”, Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[26]Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano, a cura di Vittorio Viale.  Torino: Città di Torino, 1939. Scoffone firmava gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 mentre a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.