Un poco fuori fuoco[1]. Torino 1884-1898: dalla fotografia d’arte alla fotografia artistica (2013)

 

Erano i primi giorni dell’anno 1870 quando una giovane donna, per noi sconosciuta, si presentava nel prestigioso studio torinese di Luigi Montabone per farsi ritrarre nel sontuoso costume medievale  che aveva scelto per partecipare al gran ballo a palazzo Reale offerto dal duca Amedeo d’Aosta, il 16 febbraio[2]. Scelta condivisa nei giorni successivi  dai 248 partecipanti  che decisero di farsi fotografare dai più prestigiosi studi torinesi (Le Lieure, Montabone e Schembosche) raccogliendo poi le immagini in un album da donare al duca, ormai divenuto re di Spagna.  Dopo lo spostamento da Torino a Firenze della capitale del nuovo stato (e in attesa di Roma) l’ iniziativa  aveva lo scopo di ribadire quanto fosse rimasto saldo il legame fra la città e la casa regnante dei Savoia (il duca in costume da Conte Verde e la moglie in abito della sua sposa Bona di Borbone), adottando la forma simbolica della citazione medievaleggiante: la stessa che avrebbe  segnato ancora per più di un decennio la cultura torinese con un passaggio sottile quanto fondamentale tra revival neogotico, invenzione di una tradizione[3] con scopi politici e riappropriazione del patrimonio storico architettonico,  riconosciuto quale elemento fondamentale per la  definizione storica delle diverse identità nazionali.

Nel Piemonte sabaudo esisteva fin dal tardo Settecento una tradizione letteraria e storiografica che si era rivolta all’età medioevale, oscillando tra filologia e reinvenzione pittoresca di impronta romantica,  e specialmente a partire dal regno di Carlo Alberto ( 1831-1849) si affermò in architettura e ancor più nella produzione pittorica  un significativo gusto neogotico che si espresse in particolare con la rievocazione di personaggi ed episodi che illustravano e celebravano la dinastia regnante[4]. Dalle prime rappresentazioni di un Medioevo romanticamente idealizzato e ricostruito con scarsa attenzione per la  verosimiglianza storica si era però ben presto passati a un atteggiamento radicalmente differente in cui il pittore si proponeva “la più scrupolosa cura affinché nulla di arbitrario entrasse in questo dipinto, sia nelle figure (…) sia negli accessori diversi e nei costumi di quell’epoca”  al fine di coniugare “il positivo della Storia coll’ideale e poetico che una composizione pittorica deve possedere.”[5] Il richiamo alla totale assenza di arbitrarietà è sintomo della nuova cultura che si andava diffondendo, attenta alla registrazione scrupolosa e oggettiva del reale, da intendersi in campo artistico quale presupposto e contesto della rappresentazione. Erano gli stessi temi sui quali sarebbe tornato nel 1862 un altro pittore piemontese, Federico Pastoris, ma introducendo un elemento nuovo: “Figlia d’un secolo calcolatore  ed esatto, carattere speciale dell’arte odierna si può appunto dire l’esattezza (…) A cercare questa verità contribuisce in questi anni anche l’invenzione della fotografia. Credesi da taluno che quest’ultima, stante i suoi rapidissimo progressi, possa divenire l’apogeo della perfezione artistica e minacci d’invadere il campo della pittura; questo è un errore. Fra questa e quella occorre un tale divario che l’una potrà bensì influire sull’altra, ma confondersi giammai. Nella prima l’imitazione è scopo mentre nella seconda non deve essere che il mezzo di cui l’artista si serve per rendere un concetto, dopo averlo concretizzato col suo sentimento individuale, e radunato tutto quel corredo di cognizioni che sono necessarie a svilupparlo (…) per cui io credo che la fotografia, invece che nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi di imitazione.”[6] Giudizio opposto alle invettive di Baudelaire in occasione del Salon del 1859, rivolte  proprio a chi “si illuse di rendere le scene, tragiche o leggiadre, della storia antica associando e raggruppando davanti all’obiettivo gaglioffi e gaglioffe agghindati come i macellai e le lavandaie a carnevale, pregando questi eroi di voler prolungare, durante il tempo necessario all’operazione, la loro smorfia di circostanza”.[7] Nonostante queste differenze l’idea di un uso non più che strumentale della fotografia era però patrimonio comune della cultura del secolo, almeno per quel che riguardava le sue straordinarie capacità di riproduzione, così che già dal 1865, e per un decennio, gli Album pubblicati in occasione delle esposizioni annuali della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino ospitavano le prime riproduzioni fotografiche di dipinti, con belle stampe all’albumina: un fenomeno su cui torneremo. Non ebbe questo onore il dipinto, I Signori di Challant, presentato proprio da Pastoris nell’esposizione del 1865, una “vera scena di genere e di sentimenti borghesi  trasposta nel Quattrocento feudale e cortese del Piemonte e ambientata nel décor realistico di monumenti ancora esistenti.”[8] Questa opera, “dove si incontrano naturalismo e storicismo”[9] non venne particolarmente apprezzata dai contemporanei[10], ma segnava l’avvio della scoperta e dell’attenzione filologica per il patrimonio architettonico del Piemonte e della Valle d’Aosta. La scena era infatti ambientata in una delle sale, perfettamente resa in tutti i dettagli architettonici e d’arredo, del Castello di Issogne. Qui ritroviamo felicemente coniugati la resa analitica, fotografica quasi della descrizione architettonica e il ricco immaginario storicista della scena, in quella che a noi appare come un’oscillazione del gusto da comprendere e giustificare criticamente, mentre costituiva il primo esito maturo dell’atteggiamento culturale proprio di quel gruppo di intellettuali e artisti che avrebbe avuto negli anni immediatamente successivi un ruolo determinante nelle vicende che stiamo studiando. Proprietà dal 1872 di Vittorio Avondo, pittore e antiquario, il castello aveva ospitato nelle sue sale lo stesso Pastoris, il pittore e architetto Alfredo d’Andrade e lo scrittore Giuseppe Giacosa[11], riuniti a festeggiare il Natale vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme, così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[12] Un gioco letterario, raffinato e colto, in cui l’interesse per la storia e per i luoghi si intrecciava col piacere ancora privato della messa in scena, anticipando di poco il complesso e affascinante progetto del Castello Feudale, con precisa connotazione politica, realizzato in occasione dell’Esposizione Generale Italiana che si tenne a Torino nel 1884.

Per quella occasione venne ricostruito sulle sponde del fiume Po un piccolo villaggio assemblando con accuratezza filologica elementi tratti dai più significativi edifici piemontesi e valdostani del XV secolo sino a costruire un borgo chiuso da mura merlate  e dominato dall’inevitabile rocca. Come scrisse D’Andrade, a cui si deve l’ideazione originaria, “ogni cosa in questo insieme è un particolare vero (…) un inventario di tutti i dettagli (…) un dizionario del genere di quello che Viollet-Le-Duc aveva compilato per l’arte francese del medioevo.”[13]

Analogamente a quanto accadeva con gli album di fotografie, l’aggregarsi improvviso di elementi esistenti in luoghi diversi dislocava il visitatore nello spazio e nel tempo, scardinando ogni preteso realismo e nel Borgo trovava compiuta consistenza museografica quel concetto di analogo, di copia fedele e fungibile al reale che accomunava ‘ricostruzione’ e immagine ottico meccanica, mescolandosi ancora inestricabilmente con le suggestioni disciplinari e letterarie del restauro alla francese. In questa impostazione, in questa pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio e collage ed i sapienti aggiustamenti necessari ad adattare i parametri originali al nuovo contesto, riconosciamo il segno dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dalla già enorme diffusione della fotografia. Anche per questa realizzazione, come per ogni fotografia, si può così parlare di riscrittura apparentemente oggettiva del reale: il Castello feudale è un fotomontaggio tridimensionale, una stereoscopia improvvisamente vivibile, che riesce a dare concretezza materiale alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché – come rilevava Camillo Boito – “la compiuta finzione aiuta la fantasia (…). Ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effetti­vo”[14]. Il gioco illusionistico[15] era portato alle estreme conseguenze popolando le vie con figuranti in costume: effetto celebrato dai giornali dell’epoca e documentato da una bella serie di fotografie realizzate da  Vittorio Ecclesia[16], che aveva conosciuto Avondo a Issogne nel 1882, a cui venne affidato il ruolo di fotografo di scena di questo spettacolo della Storia. Questa serie di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, in grande formato, quasi piccoli quadri[17], nella loro apparente semplicità costituiscono uno snodo nella storia della fotografia italiana, nel percorso che avrebbe portato al riconoscimento della sua autonomia di immagine, della sua autorialità. Qui infatti il fotografo non si limitava a documentare la realizzazione architettonica ma, disponendo i figuranti in costume, metteva in scena con grande verosimiglianza (per quanto convenzionale, ovvio: nessuno poteva averne esperienza diretta, nessuno ne poteva giudicare la verità) la “vita civile del XV secolo”, con una operazione analoga a quella della coeva pittura di storia, con la quale condivideva in questo caso principi e modelli della rappresentazione.

Ciò che accomuna queste produzioni, e pone le basi per le scelte pittorialiste è la progressiva distanza dal referente documentario e la conseguente crescita di autonomia dell’immagine. È l’atto stesso della messa in scena a segnare una cesura, a maggior ragione nel caso di fotografie come queste (di queste fotografie) in cui la rappresentazione assume la forma della mise en abyme:  gli ambienti descritti, e le stesse figure, sono infatti a loro volta immagini che nella loro realtà materiale rimandano ad altro da sé. Queste fotografie di Ecclesia frequentano il limite tra imitazione come scopo (in quanto tale proprio della fotografia, per la cultura del XIX secolo) e come mezzo dell’espressione artistica. È proprio il ricorso alla presunta autenticità del mezzo fotografico che consente e determina il passaggio dalla rappresentazione alla verosimiglianza, superando le convenzioni di quella stessa pittura di storia che ne aveva costituito il modello iconografico, a sua volta conosciuto e mediato attraverso le riproduzioni fotografiche. Figure che per dimensioni e gamma tonale riducevano percettivamente la distanza tra i due media (tra le due forme di rappresentazione) sino a confonderne gli esiti: tra superficiale somiglianza e affinità.

Sulla scia di questa serie, lo stesso Ecclesia avrebbe riproposto il tema dell’architettura animata da personaggi in costume in una delle due versioni  dell’album dedicato al castello di Issogne[18], realizzato nel 1884 per incarico di Avondo, ma proprio l’uso sporadico di questa soluzione compositiva mostra come, al di fuori dello spazio artificiale del Borgo, l’autore non si sentisse ancora pienamente legittimato a mescolare documento e ‘arte’ in una sola immagine, ciò che poi fece Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[19] nell’autunno del 1898 nel corso della campagna fotografica dedicata alle architetture della Valle d’Aosta[20], realizzata forse in previsione di una collaborazione, poi non sviluppata, con Giuseppe Giacosa per la realizzazione del volume Castelli valdostani e canavesani.[21] In quella occasione Di Sambuy realizzò due diverse serie di riprese: quelle specificamente architettoniche – commercializzate a proprio nome e non troppo diverse da quelle realizzate da Mario Sansoni per Alinari in quello stesso anno[22] –  e quelle in cui l’architettura diviene scenografia e ambientazione delle gesta di figure in costume, poste in vendita come Studio Riproduzioni Artistiche e forse da intendersi quale omaggio al Giacosa della Partita a scacchi. Ritroviamo qui personaggi simili a quelli che abitavano le fotografie di Ecclesia ma la loro funzione è cambiata, modificando il senso stesso di queste fotografie. Sono figure singole, come il paggio fotografato ad Aosta, omaggio  a uno dei personaggi topici del medioevo cortese e fonte di ispirazione di molta pittura coeva[23], che qui diviene un vero e proprio ritratto (come l’imponente armigero barbuto fotografato sullo sfondo dell’architettura di Fenis e di Issogne), ma sono soprattutto  immagini in cui il contesto architettonico si trasforma in scenario di un’azione suggerita da un uso raffinato della grammatica fotografica: dallo scarto di messa a fuoco che concentra l’attenzione sulla figura all’uso misurato del mosso, che suggerisce alla nostra complicità di osservatori un’azione in corso: la fotografia si allontana dalla referenzialità sorda della sua funzione documentaria per trasformarsi in racconto d’autore, presentato come l’istantanea di un evento del quale noi possiamo solo immaginare i contorni e gli sviluppi. La trasformazione è segnata proprio dal passaggio dai tableaux vivants di Ecclesia all’azione simulata del Di Sambuy.  Risolutivo in tal senso il confronto tra due riprese del portale di Verres: nella prima Ecclesia collocava accanto allo stipite un uomo seduto e una stadia, per rendere la fotografia misurabile; nella seconda Di Sambuy, pur variando di poco il punto di vista, trasformava l’architettura in scenario in cui si muovevano due personaggi, ciascuno a sua volta impegnato in azioni differenti.  Le modalità espressive e le tecniche del racconto sono ora specificamente fotografiche, di una fotografia che si vuole consapevolmente artistica e rivendica il proprio diritto a produrre immagini autonome con i suoi propri strumenti, senza per questo rinunciare o – peggio – rinnegare i legami e i debiti con la storia delle immagini.

Diversamente da quanto sarebbe accaduto solo pochi anni più tardi con le  composizioni di ispirazione neoclassica e fiamminga di Guido Rey e di altri autori minori, qui la contrapposizione tra documento e arte fotografica, che avrebbe animato il dibattito modernista, perde di senso a favore di una concezione meno manichea. Credo anzi che sia ormai giunto il tempo di prendere in considerazione il fatto che la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica fosse solo apparente, frutto una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “L’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[24], uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore per la Francia della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, membro della Société Française d’Archéologie,  segretario (poi presidente) della Società fotografica ma anche della Société des Beaux-Arts di Caen, scriveva proprio sulle pagine del periodico torinese “La Fotografia  Artistica” che “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[25]

Aggiungiamo infine un elemento ulteriore, sinora mai considerato ma certo di non secondaria importanza: la critica coeva considerava Di Sambuy un  “professionista [che] non fa ritratti [che] forma una classe a sé nella quale si possono raccogliere allori, ed egli ne va raccogliendo, ma per esistere ci vogliono ed il suo disinteres­se ed il suo grande amore dell’arte per l’arte”[26]; questo professionista che di fatto si può permettere di comportarsi come un amateur, ci dice Masoero tra le righe, aveva in realtà anche una concezione politica della fotografia (artistica) come forma d’arte accessibile a molti: “Nel simpatico ambiente domestico (sweet home) che ogni savia ed accorta donna dovrebbe creare attorno a sé, quale dolce rete al consorte, il tenerae coniugis immemor di Orazio, la decorazione moderna, sobria e pura di linea e di colore, troverà largo sussidio nelle opere di fotografia artistica. Esse potranno procacciare alla più modesta abitazione i sani sorrisi dell’arte, nonché educare  ai sensi del bello le crescenti generazioni. Benvenuta adunque l’Esposizione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte decorativa moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale.”[27]

 

[1] La prima parte del titolo cita affettuosamente (e fuori contesto) Robert Capa, Slightly out of focus. New York: Henry Holt & Company, 1947.

 

[2] Un importante antecedente fu costituito dal gran “Ballo a corte con travestimenti” che si era tenuto il 13 aprile 1842 per celebrare le nozze del principe ereditario Vittorio Emanuele con Maria Adelaide d’Asburgo Lorena, con un interessante Souvenir litografato da Lorenzo Pedrone, a cui seguì il 22 dello stesso mese un carosello storico in costume medievale in piazza San Carlo a Torino, illustrato in tavole cromolitografiche da Francesco Gonin. Rosanna Maggio Serra, Gonin e i festeggiamenti per le nozze di Vittorio Emanuele. In: Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830-1865. Torino: Banca CRT, 2001, pp.126-127. La consuetudine del mascheramento e del ballo in costume poteva però avere occasioni e motivazioni diverse; si veda ad esempio  la Raccolta/ di/ Quadri Storici e di genere [attenzione al significato delle maiuscole]/ Composti ed eseguiti dal vero/ dal/ Pittore Giacomelli, pittore di storia di una certa notorietà, verso il 1860; cfr. Italo Zannier, Un inedito: Vincenzo Giacomelli pittore-fotografo, “Fotologia”, n. 21-22, 2001, pp. 4-7.

 

[3] Il concetto è stato definito da Eric Hobsbawm, Introduction: Inventing Traditions, in Id., Terence Ranger, editors, The Invention of Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, pp. 1-14 (p.4). Naturalmente la fortuna del medioevo fu – come è ben noto – uno dei fenomeni più rilevanti e pervasivi della cultura ottocentesca a livello europeo, sebbene con forti specificità nazionali e locali, determinate dall’intreccio tra istanze politiche e culturali e riconoscimento di un valore estetico che di quelle è espressione, cfr. Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di,  Arti e storia nel Medioevo. IV. Il Medioevo al passato e al presente. Torino: Einaudi, 2004.

 

[4] il “romaticismo più o meno veemente” di D’Azeglio, Migliara e Gonin, Biscarra e Michele Cusa, che realizzano dipinti di storia con episodi dinastici, 1831, 1839; Pietro Ayres, ritratto di Amedeo VI, 1840; Arienti, 1841; Marocchetti: statua equestre di Emanuele Filiberto, 1838; Palagi, gruppo del Conte Verde, 1843). Nel decennio precedente l’Unità i soggetti medievali della pittura di storia si allontanano dalla celebrazione dinastica per affrontare temi che assumono valenza simbolica in termini di epica risorgimentale (Hayez, La sete dei Crociati, 1850; Arienti, Il Barbarossa ad Alessandria, 1851; Gastaldi, Il primo moto del Vespro Siciliano, 1852) per tornare a temi  ancora sabaudi subito dopo l’Unità (Gaetano Ferri, Il matrimonio di Oddone di Savoia, 1864; Enrico Gamba, Beatrice di Portogallo sposa a Carlo III di Savoia, 1865) che si affiancano però ormai a un più ampio e generalizzato richiamo al Medioevo come vagheggiata stagione cortese (Pastoris, I Signori di Challant, 1865; Maso Gilli, Margherita al confessionale, 1865; Rayper, Passeggiata amena, 1866). Secondo Federico Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani nella storia della pittura. In: Atlante, ”Storia d’Italia”,  V. 6. Torino: Einaudi, 1976, pp. 3-65 (p. 56), in quel periodo le arti visive “risentono della musica e, sulla scia dei libretti e delle scene in costume, si moltiplicano i dipinti che esplorano i fatti della storia italiana, del Medioevo comunale, delle repubbliche mercantili, di episodi anticipatori dello spirito di indipendenza: e anche questo del ripensamento storico è un modo di percepire sé stessi, nel riandare al passato nei suoi aspetti esemplari per moralità civica o quale origine delle componenti su cui si forma il presente.”

[5] Felice Cavalleri, Amedeo III giura la Sagra Lega per l’impresa di Terra Santa, relazione a Carlo Alberto a proposito del dipinto che il re gli aveva commissionato; Archivio di Stato di Torino, Sezioni Riunite, Fondo Casa di Sua Maestà, cart. 2175, citato in  Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte,  p. 115.

[6] F. Pastoris, Episodio della giovinezza di Filippino Lippi, del Signor Carlo Felice Biscarra, in Luigi Rocca, a cura di, Album della Pubblica Esposizione del 1862. Torino: Vincenzo Bona, 1862, pp. 41-43 (p. 43).

 

[7] «D’étranges abominations se produisirent. En associant et en groupant des drôles et des drôlesses, attifés comme les bouchers et les blanchisseuses dans le carnaval, en priant ces héros de vouloir bien continuer, pour le temps nécessaire à l’opération, leur grimace de circonstance, on se flatta de rendre les scènes, tragiques ou gracieuses, de l’histoire ancienne. Quelque écrivain démocrate a dû voir là le moyen, à bon marché, de répandre dans le peuple le goût de l’histoire et de la peinture, commettant ainsi un double sacrilège et insultant à la fois la divine peinture et l’art sublime du comédien. »,  Charles Baudelaire, Salon de 1859, II, Le public moderne et la photographie,  “Revue française”, 5, (1859) n. 158,  10 Juin,

 

[8] Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino. In: Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra, (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981),  a cura di  Maria Grazia Cerri,  Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze, Vallecchi, 1981,  pp. 19-43 (p.31).

 

[9] Ibidem.

 

[10] “se l’occhio è appagato, se l’intelligente approva, il cuore risulta freddo, l’animo non si commuove, la mente non pensa: sono bei quadri, ma nulla più.”, Armando Benvenuti, I Signori di Challand. In: Luigi Rocca, Album della Pubblica Esposizione del 1865. Torino: Società Promotrice delle Belle Arti, 1865, pp. 35-37 (p. 36).

[11] In quello stesso periodo lo scrittore lavorava all’opera teatrale Una partita a scacchi, prendendo spunto da una chanson de geste del XII secolo pubblicata in Francia da Viollet-Le-Duc ma anche dal dipinto I signori di Challant, di Pastoris a cui l’opera è dedicata. Questa venne  rappresentata per la prima volta a Napoli nel 1873 con la scenografia di D’Andrade. Ancora nel 1891 Giacosa scrisse la Signora di Challant, portata in scena a New York da Sarah Bernhardt e da Eleonora Duse in Italia.

 

[12] Giuseppe Giacosa, 1908, citato in Sandra Barberi, a cura di, Il Castello di Issogne in Valle d’Aosta : diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo. Torino: Allemandi, 1999, p. 149.

 

[13] Lettera di D’Andrade a Francesco Carandini datata 1909, citata in F. Carandini, La Rocca e il Borgo Medioevali eretti in Torino dalla Sezione Storia dell’Arte. La figura e l’opera di Alfredo d’Andrade. Ivrea: Viassone, 1925, p. 95.

 

[14] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, pp. 107-125. Boito aveva da poco pubblicato Architettura del Medio Evo in Italia : con una introduzione sullo stile futuro dell’architettura italiana, Milano, Ulrico Hoepli, 1880.  Autore dei disegni di armature, arredi e stoffe per il Borgo Medievale fu Alberto (Tommaso) Maso Gilli (Chieri 1840-Calvi dell’Umbria 1894), pittore di storia, amico di Avondo e successore di Pastoris all’Albertina, poi Direttore della Regia Calcografia a Roma. Di quelle sue realizzazioni fece realizzare una documentazione fotografica esaustiva, ma anonima, poi raccolta in album e donata al Ministero ( e non al Ministro) della Pubblica Istruzione nel 1886, a pochi mesi dalla nomina a  Direttore, oggi conservata nel Fondo della Direzione Antichità e Belle Arti della Fototeca Nazionale dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.  Per  Carlo Nigra nei quadri di soggetto storico di Maso Gilli “egli ebbe campo di sfoggiare la conoscenza profonda che aveva delle suppellettili e dei costumi delle epoche che illustrava. Questa sua particolare scienza gli valse di essere chiamato dall’Avondo ad aiutarlo nella sua opera di riassetto del castello di Issogne, e poi di far parte della Sezione di Storia dell’Arte che costrusse questo Borgo e Castello medievali, dove egli ebbe lo speciale incarico di raccogliere, disegnare e far eseguire costumi, mobili, ari, stoffe, ecc. pel loro arredamento.”, Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevali nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino: Tipografia Carlo Accame, [1934].

[15] “Così, improvvisamente, dopo fatto un giretto vizioso tra gli alberi per un sentiero ombroso, si arriva all’ingresso del Borgo feudale, le cui mura non puoi credere non abbiano quattro secoli almeno (…). Da questo punto l’illusione ti afferra e non ti abbandona più, cresce anzi, inoltrandosi, tanto che poco per volta ti aspetti l’umiliazione di trovarti ridicolo in giacca moderna, calzoni e cappello molle o cilindro (…). Il castello medioevale col suo borgo è una creazione moderna con tipi antichi, ma presenta negli oggetti che contiene un museo abbondante e interessantissimo per la Storia dell’Arte industriale e la storia del feudalesimo”,  “Rivista della Esposizione Nazionale italiana”, n.7,  1884, p. 35.

[16] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), attivo a Torino sino al 1878, quindi ad Asti, fu uno dei migliori fotografi piemontesi della fine del XIX secolo, autore di importanti campagne documentarie dedicate specialmente all’architettura medievale, realizzate per committenze pubbliche e private; cfr. P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[17] Il loro successo di lunga durata è testimoniato anche dalla pubblicazione a venticinque anni di distanza sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911, pp. 98 e segg. , poi ancora in parte riprese da Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevali, 1934, pur omettendone la paternità.

[18] Issogne, s.d. [1884], tavola IV, Parte del cortile col pozzo, nell’edizione in piccolo formato (stampe di 13×18 cm) presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno mentre risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore. Il breve testo di Giacosa che apriva l’Album era destinato “solamente a dare una data e un nome alle tavole che seguono”  cioè alle diciotto fotografie di Ecclesia che costituiscono il nucleo portante della pubblicazione. Dodici di queste vennero riprese in Robert  Forrer, Spätgotische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassburg: Schlesier, 1896, ma pur fa­cendo espresso riferimento nel testo all’opera italiana le im­magini vennero qui attribuite a Manias & Co. Le stesse fotografie serviranno ancora come base per le illu­strazioni di Carlo Chessa relative a Issogne che accompagnano il testo di Giuseppe  Giacosa, Castelli valdostani e canavesani.  Torino: Roux, Frassati & C., 1897.

[19] Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, (1854 – 1915 post), incisore e pittore dilettante, si dedica alla fotografia dal 1890 circa, divenendo in breve tempo uno dei protagonisti del­la cultura fotografica torinese e italiana. Vicepresidente del  primo (1898) e del secondo (1899) Congresso Fotografico Italiano e  di quello internazionale di Parigi (1900), Di Sambuy fu il Presidente del Comitato promotore e il Direttore artistico dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica che si svolse nell’ ambito della grande Esposizione internazionale di Arte de­corativa di Torino del 1902, in cui furono presentate più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession. Nel 1904 cede il proprio studio ad Arturo Ambrosio, titolare della prima casa di produzione cinematografica italiana, e intensifica la propria partecipazione alle esposizioni nazionali e la sua collaborazione alla rivista “La Fotografia Artistica”, sulla quale nel maggio 1913 (a. X, n. 5, pp. 71-75)  pubblicava La fotodinamica futurista di Anton Giulio e di Arturo Bragaglia, il primo saggio italiano dedicato a queste straordinarie immagini.

 

[20] Il 19 agosto 1898 Di Sambuy aveva inoltrato domanda “per riprodurre in fotografia i monumenti della Valle d’Aosta”, SBAPP – AS, Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesistici del Piemonte, Archivio Storico,  Mastri e Protocolli P04; Cass. A8. La serie venne certamente realizzata nell’autunno successivo e nel febbraio  dell’anno successivo l’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti di Torino gli chiese “copie dovute delle fotografie degli edifizi di proprietà dello Stato in Valle d’Aosta che può avere ricavate.” (SBAPP – AS, Mastri e Protocolli P05, n. 252 del 18-2-1899). Nonostante il contenuto della richiesta, il repertorio rimasto comprende poche immagini dei monumenti più noti (Arco di Augusto, Porta Pretoria, i chiostri della Cattedrale e di Sant’Orso, il Priorato ad Aosta), a cui si aggiungono altri pochi esempi sparsi (il ponte romano di Leverogne, la torre di Graines, i castelli di Avise, Aymavilles, Sarriod de la Tour e Ussel), mentre prevalgono le vedute (con i centri abitati ampiamente inseriti nel loro contesto ambientale) e specialmente le riprese di montagna, anche di alta quota (ghiacciai del Furggen, Teodulo, tema sinora sconosciuto della sua produzione. Le serie conservate nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese, certamente incomplete – come si desume dalle iscrizioni al verso che indicano “Serie I” “Serie II Parte I” e “Parte II”, con soluzioni di continuità nella numerazione – rappresentano comunque il più ricco repertorio unitario di immagini di Balbo Bertone, mentre altre stampe, prevalentemente di ambientazioni con figure in costume ‘medievale’, sono comprese nel Fondo D’Andrade della stessa Soprintendenza e nel Fondo Avondo della Fondazione Torino Musei.

[21] Giacosa, Castelli valdostani e canavesani, dedicato alla memoria di Federico Pastoris e agli amici Avondo e D’Andrade, con incisioni f.t. di Chessa, datate 1897, e di Celestino Turletti  (derivate da fotografie Di Sambuy), mentre nel testo sono riprodotti disegni di Chessa, D’Andrade, Edoardo Rubino e Piero Giacosa. Il volume, offerto in dono agli abbonati de “La Stampa” per il 1898, poi ristampato numerose volte,  segna la conclusione della ‘scoperta’ ottocentesca del patrimoni castellano delle valli piemontesi ed era così presentato da Augusto Ferrero, Il nuovo libro di G. Giacosa, “La Stampa”,  29-11-1897 n. 330, p. 2:  “Castelli valdostani e canavesani (…) illustrerà (…) quella Valle d’Aosta, quelle balze del Canavese (…) a cui tornò mai sempre con fido tenace amore, di cui frugò i bruni ruderi e le ingiallite pergamene, da queste e da quelli rievocando torbide storie, fantasmi eroici e visini gentili. (…) Poiché il Giacosa, che è penetrato, come nessuno prima di lui, nell’intimità di quelle mura annose, ce lo ripopola delle figure che le abitarono un giorno: ci rappresenta il medioevo, non già tutto catafratto, o lucido, e rigido di ferree corazze e d’elmi, ma vivo, altresì, nella sua domestica vita che in molti punti si richiama alla nostra vita dell’oggi, e che di questa ha partecipato gli affetti, gli odii, le viltà, tutte le vicende serene e dolorose.” A testimonianza della diffusione di un gusto romanticheggiante e fantastico caratteristico di questo ambito culturale è interessante confrontare le descri­zioni di Giacosa con la produzione di alcuni fotografi suoi contemporanei, vedi ad esempio il castello di Montalto foto­grafato da Secondo Pia o la descrizione di Giacosa delle scritte presenti nel castello di Issogne e la relativa immagine dello Studio Riproduzioni Artistiche.

[22] “15 agosto (lunedì)[1989], “Fatto viaggio da Ivrea a Aosta. Viag­gio splendido. La ferrovia costeggia quasi sempre la Dora, splendido fiume che passa fra certi punti stretti appena un metro e mezzo. Ad Ao­sta si parla la lingua francese e sia­mo in una bella vallata tutta contor­nata da monti altissimi e a picco.”,Mario Sansoni, Diario di un fotografo, “AFT- Rivista di Storia e Fotografia”,  n.5, Gennaio 1987, pp. 46-53 (p. 50). I soggetti sono quelli canonici, anche se prevalentemente circoscritti ad Aosta, più alcuni inevitabili castelli. A questi si aggiunge – un poco sorprendentemente per Alinari – molta montagna, ma circoscritta alla valle di Gressoney, benedetta dalla presenza della Regina Margherita, che Sansoni ricorda nel suo diario di avere “Veduta più volte”.

 

[23] Per limitarsi ad esempi ben noti in ambito torinese, ricordo il bel disegno di Testa maschile con copricapo (costume rinascimentale) di Francesco Mosso, amico di Vittorio Avondo e allievo di Alberto (Tommaso) Maso Gilli all’Albertina nel 1871-1872 e il dipinto di Antenore Soldi, Lelio, ispirato a uno dei personaggi del racconto Isabella Orsini, duchessa di Bracciano di Francesco Guerrazzi, pubblicato a Firenze da Le Monnier nel 1844, presentato all’esposizione della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino del 1871, illustrato da Gioacchino Toesca di Castellazzo nell’ Album della Pubblica Esposizione del 1871, a cura di Luigi Rocca. Torino, 1871, pp. 14-15, dove venne riprodotto in una “Tavola fotografica bellamente eseguita dal Berra, uno de’ nostri più distinti fotografi” e che costituì certamente un riferimento importante per una fotografia di analogo soggetto del Di Sambuy.

[24] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907,), n. 2, febbraio, p. 30.

[25] Alfred Liégard, La question de la photographie documentaire,  “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 6-7.

[26] Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n.4, 1900, p. 12.

 

[27] Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”,  28-11-1901, n.330 – p. 1.