La variante Sommer (2011)

in Dal Vesuvio alle Alpi. Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli Castel dell’Ovo – Museo di Etnopreistoria, 27 marzo -30 aprile 2011; Torino, Museo nazionale della montagna 25 novembre 2011 – 20 aprile 2012).  Torino: Museo nazionale della montagna, 2011, pp. 6-19

 

Ho sempre visto tutto in forma di figura,

anche le parole.

Claudio Parmiggiani

 

“Ci sono poche prove che possono essere portate della grande diffusione del nuovo mezzo, e dei differenti modi della sua ricezione [quanto il fatto che] mentre la nostra Regina ha inviato un apparato fotografico completo per uso del Re del Siam, il solo Re di Napoli, in tutto il mondo civilizzato, ha vietato la pratica delle opere della luce nei propri domini!”[1]  Questo scriveva Lady Elizabeth Eastlake, in quello che è forse il primo resoconto critico della letteratura fotografica, nello stesso 1857 in cui Sommer apriva a Napoli il proprio studio[2], negli anni fervidi del passaggio dalla prima fase pionieristica a quella che si sarebbe poi detta età del collodio, nella quale – abbandonata la carta – il negativo su supporto in vetro avrebbe aperto l’era dei grandi studi fotografici e della sistematica commercializzazione.

Questo giudizio derivato dalla disillusione postromantica per il nostro paese era certo ingeneroso, ma soprattutto infondato[3], sebbene resti un sintomo significativo di quale fosse la percezione delle condizioni culturali e politiche del Regno borbonico, e forse italiane nell’Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo. Va rilevato invece l’artificio retorico e implicitamente razzista (del resto ampiamente diffuso anche oggi) di collocare spregiativamente il reo a un livello inferiore a quello attribuito a persone e paesi che si consideravano modelli di arretratezza.  La Napoli di Ferdinando II (1830 – 1848), certo attenta alle suggestioni e ai simboli della modernità (si pensi alla ferrovia Napoli – Portici), fu invece uno dei centri italiani in cui  più precoce e qualificata era stata l’attenzione per le nuove, meravigliose invenzioni di Daguerre e Talbot:  la prima anticipata da Raffaele Liberatore sulle pagine de “Il Lucifero” già il 6 febbraio 1839; l’altra patrocinata dallo scienziato Michele Tenore, Direttore dell’Orto Botanico di Napoli e da più di un quindicennio in contatto con Talbot, che il 27 settembre dello stesso anno scriveva al Direttore di quel giornale per annunciare di aver ricevuto direttamente dallo studioso inglese alcuni “disegni fotogenici eseguiti da lui medesimo.”[4]  Insomma, dopo quel giovedì 28 novembre in cui il signor Raffaele Gargiulo “restò meravigliosamente dagherrotipato” ad opera di Gaetano Fazzini durante il “primo  sperimento”condotto a Napoli”[5], le vicende locali della fotografia dovettero avere sviluppo e attenzione ben più ampie di quelle supposte dalla Eastlake, specialmente per merito delle rilevanti presenze straniere in una città che costituiva una delle principali tappe del Gran Tour. “Amena più che ogni altra (…) per pittoresche circostanze – era infatti descritta questa città – [essa] darebbe all’artista o all’amatore che ne avesse genio l’agio di riprodurre per mezzo del Daguerre, le più belle vedute che la matita o il pennello de’ paesisti abbia mai tracciato sulla carta e sulla tela.”[6]

Le prime vedute al dagherrotipo di Napoli, e dei siti archeologici, entrarono molto presto, già nel 1840-1841,a far parte delle serie editoriali di Alexander John Ellis come di Noël Marie Paymal  Lerebours o dell’italiano Ferdinando Artaria e per tutto il quindicennio successivo – cioè fino a che tale tecnica non venne abbandonata – furono almeno una decina i dagherrotipisti in transito o presenti in città per periodi più o meno lunghi, mentre Francesco Gibertini pare essere stato il solo professionista locale.[7] Ancor più nutrita, e qualificata fu la frequentazione dei luoghi da parte dei calotipisti, a partire almeno dal 1846, con le presenze di Amélie Guillot-Saguez e di Richard Calvert-Jones, che a Santa Lucia si provò con una veduta urbana in due parti, dedicandosi anche a Pompei e Baja[8], ma soprattutto di Stefano Lecchi che, nella testimonianza del Reverendo George Wilson Bridges, era a Napoli per realizzare fotografie di Pompei proprio su incarico di Ferdinando II.[9]  Altri seguirono nei primissimi anni Cinquanta: Alfred-Nicolas Normand, Firmin Eugéne Le Dien, Paul Jeuffrain, Alphonse Davanne, i napoletani Arena e Pellegrino e il milanese Luigi Sacchi che verso il  1853 fotografò Pompei e Paestum,  ma anche una Veduta del Golfo di Napoli con Castel dell’Ovo poi non compresa nelle serie di Monumenti, vedute e costumi d’Italia pubblicata  nel 1852-1855.[10] Come si vede la scelta dei soggetti non presenta novità di rilievo. Pompei e Paestum, Mergellina e Santa Lucia, Ischia e Ravello: sono le mete che consigliava anche l’Handbook for travellers in Southern Italy, che Octavian Blewitt scrisse nel 1853 per la serie edita a Londra da John Murray, distribuita a Napoli da Detken, presso il quale sarebbero state poste in vendita negli anni successivi anche le stampe di Sommer.[11]

Dopo una prima, forse breve sosta a Roma nel mese di settembre, Giorgio Sommer aveva aperto il proprio studio napoletano nell’inverno 1857-1858. Poco sappiamo di quel suo avvio di attività; nulla a proposito delle tecniche adottate in quei primissimi anni, anche se pare verosimile ritenere che fin da subito adottasse l’innovativo negativo su vetro, come del resto avevano fatto gli Alinari solo pochi anni prima[12], magari utilizzando dapprima, al posto del collodio, un’emulsione all’albumina che consentiva una migliore resa dell’immagine pur scontando maggiori tempi di esposizione. Ciò che conosciamo  almeno un poco meglio è la sua capacità immediata di adeguarsi alle richieste di mercato avviando, accanto alle prime vedute in diversi formati, una ricca produzione di stereoscopie, e dedicandosi contemporaneamente al ritratto, una pratica che pare aver progressivamente abbandonato nei decenni successivi.[13] Risale a questo stesso periodo anche la collaborazione con Edmond Behles, che tanti problemi attributivi ancora pone agli studiosi[14], ma che qui vogliamo richiamare solo per quanto significa in merito alla questione della concezione autoriale del lavoro fotografico nel contesto della pratica professionale italiana dopo la metà del XIX secolo. Non si tratta tanto di richiamarsi alla questione del diritto d’autore riconosciuto alla fotografia, ancora di là da venire in quegli anni nel nostro paese, ma di considerare quale fosse il significato e il valore in termini di responsabilità intellettuale sotteso a una pratica di scambio di immagini che molti indizi ci dicono diffusa, anche se ancora poco nota e pochissimo studiata, ma che pare avesse implicazioni quasi esclusivamente commerciali.[15]  In questa prospettiva è ancora utile richiamarsi alle riflessioni di Rosalind Krauss che ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[16]

Un altro elemento problematico relativo ai primi anni della sua attività, riguarda la precoce circolazione delle sue immagini, che derivava credo dalla conquista di un’autorevolezza ben presto riconosciuta se già nel 1859 Domenico Benedetto Gravina, credo per il tramite dello stabilimento litografico Richter di Napoli, a lui si rivolgeva per l’illustrazione del suo Il Duomo di Monreale, certo una delle più rilevanti imprese della prima editoria fotografica italiana.[17] È una collaborazione questa che ci interroga anche sui tempi e sui modi della formazione di Sommer, sul farsi della sua prima cultura visiva come della sua maestria tecnica, per le quali non sembra sufficiente il riferimento all’apprendistato presso lo studio Andreas und Sohn di Francoforte. Certo avranno avuto un qualche rilievo le suggestioni che gli poterono derivare dalla frequentazione di alcuni membri dell’eterogenea colonia tedesca ben radicata a Roma negli anni della sua presenza in città, ma credo vada almeno presa in considerazione la possibilità che in quello stesso periodo abbia avuto contatti coi principali esponenti della Scuola fotografica romana, ancora molto attivi e presenti anche a Napoli, come si è detto, o – almeno – che abbia avuto occasione di conoscere e studiare le loro opere, di buona circolazione quando non addirittura predisposte per la diffusione seriale, come nel caso delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855. Sono domande a cui non siamo per ora in grado di rispondere, ma non per questo meno necessarie, nella convinzione che sia difficile attribuire il suo rapido percorso di formazione al contesto napoletano in cui, a prescindere dal valore discontinuo dei diversi operatori presenti, lui pare essersi proposto da subito quale professionista qualificato, non come un autore in fieri. Non solo: la qualità del lavoro che andava conducendo a Pompei almeno dal 1860, quando il 25 settembre fotografò Garibaldi in visita agli scavi[18], lo propose da subito quale interlocutore privilegiato del neo nominato Direttore del Museo Nazionale Giuseppe Fiorelli, cui si deve la prima applicazione a Pompei dei metodi dell’archeologia moderna, a scavo stratigrafico, e l’utilizzo del metodo della colatura di gesso nelle forme vuote lasciate dai corpi nella lava, di cui Sommer fotografò uno dei primi esiti nel febbraio del 1863[19].

Impronta di un’impronta. Matrice di una matrice sono questi negativi in cui la forma del vuoto lasciato dai corpi annientati dal calore della lava è l’immagine latente che il calco ha rivelato, in un processo concettualmente analogo a quello fotografico. Immagine di un’immagine quindi, ma in modo incommensurabilmente diverso dalla riproduzione di un dipinto, di una scultura o di un reperto. Il calco ha una diversa relazione col tempo; non è il reale che ritorna, ma una sua manifestazione seconda, differita, cui riconosciamo lo statuto di figura, ma che appartiene in maniera radicale e netta al regime dell’impronta, non dell’icona: come le sagome lasciate sui muri dal “vento-lampo della bomba”[20] atomica. Figure non tracciate da mano umana. “Ciò che rappresenta un ostacolo per lo sguardo si ricollega alla  (…) questione dell’impronta: non c’è nulla da guardare perché non c’è invenzione formale, e non c’è invenzione formale perché l’oggetto non è che un prelievo, una riproduzione, una semplice impronta della realtà. Non c’è nulla da guardare perché non c’è abilità, non c’è lavoro artistico, e non c’è lavoro artistico perché c’è solo un calco, un’impronta meccanicamente riproducibile della realtà. Non c’è nulla da guardare, come opera d’arte, perché c’è solo impronta: la non opera per eccellenza”[21], che era appunto ciò che si diceva, l’accusa che era mossa alla fotografia al tempo della sua comparsa e negli anni di Sommer, ancora.

Non considerando i lavori su commissione, l’archeologia – tra Roma e Napoli – sembra essere stata la sua prima area di interesse, cui si aggiunsero ben presto le vedute urbane, pur se non unanimemente apprezzate[22]. Roma, Napoli, di cui realizzò anche un panorama in cinque parti verso il 1865, poi Firenze, Milano (entro il 1869). E Torino, la prima capitale. Insolito soggetto per quegli anni, in cui la città sabauda era descritta quasi solo dai fotografi residenti, se si esclude la luminosa eccezione di Charles Marville[23], e di cui Sommer ci ha offerto una veduta stereoscopica della Contrada di Po e di Via della Zecca che restituisce le qualità prospettiche di questo spazio urbano che poi si sarebbe detto metafisico in maniera tanto più magistrale della già eccellente ripresa contenuta in Turin ancien et moderne, edito da Henri Le Lieure nel 1867. Sono anni questi in cui il suo catalogo si accresce rapidamente e, per la sua parte più connotata e consistente, si trasforma in repertorio iconografico napoletano: archeologia, veduta urbana e “tipi napoletani”, disponibili anche in versione colorata, nel formato carte de visite, destinati a soddisfare la diffusa richiesta del mercato turistico, specialmente nordeuropeo e che proprio per questo si ritrovano con minime variazioni e riprese al limite del plagio anche nel repertorio di altri fotografi attivi  a Napoli, come Giorgio Conrad, Achille Mauri e poi Gustavo Eugenio Chauffourier, in un andirivieni continuo tra grafica e fotografia, con forti influenze della tradizione tutta napoletana delle figurine da presepe. E il Vesuvio allora? Giustamente famosa è la sequenza relativa all’eruzione del 1872, sistematicamente ripresa a intervalli di mezz’ora, adottando una forma narrativa che suggerisce la durata piuttosto che sottolineare l’istantaneità della posa. Un trattamento antipittoresco, che segna uno scarto rispetto alle opere antecedenti relative allo stesso soggetto. La prima immagine nota [2204], in piccolo formato, in una copia firmata Edmond Behles, si riferisce all’eruzione del 1861, ma non è ancora una “vera fotografia”. Si tratta infatti della riproduzione di una stampa, analogamente a quanto accade per la pseudostereoscopia Scesa dal Vesuvio [753], questa firmata “Sommer e Behles Napoli & Roma”, che essendo formata da una coppia di riproduzioni necessariamente identiche mai avrebbe potuto sortire alcun effetto tridimensionale. “Lava con figure” potrebbe essere classificato il soggetto, comune anche a una ripresa stereoscopica [293] e ad altre fotografie successive [2546], così come alle immagini di altri autori, ancora Chauffourier e Mauri[24], che mostrano anche un’analoga se non perfettamente coincidente attrazione per le forme fantastiche, quella stessa che in Sommer accomuna le prime riprese in cui la lava è sontuosamente posta in primo piano [298] a quelle più tarde dei ghiacciai alpini [13307], entrambe forse debitrici della Colata di lava che James Graham fotografò intorno al 1860, utilizzando ancora il negativo di carta.[25]

Catalogo di fotografie d’Italia recita il suo primo titolo, pubblicato nel 1870, dove la geografia dei luoghi progressivamente si amplia, secondo percorsi e movimenti che sarebbe interessante poter seguire nel dettaglio, in particolare per quanto riguarda la Sicilia e altri importanti centri dell’Italia meridionale, soggetti che in parte contribuiranno all’apparato iconografico delle dispense relative agli Studi sui monumenti della Italia meridionale dal IV al XIII secolo che Demetrio Salazar pubblicò a Napoli, presso Richter & C. nel 1871 – 1877. La figura dello studioso risulta importante anche per il ruolo svolto nella fondazione del Museo Artistico Industriale, nel 1882,  con Gaetano Filangieri  e la collaborazione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, che ne fu Direttore,  e Giovanni Tesorone. Prendendo a modello come in altre realizzazioni italiane  il South Kensington Museum, lo scopo della nuova istituzione era quello di divulgare e sviluppare la cultura delle arti applicate nell’Italia meridionale, avviando, accanto al Museo, le Scuole-Officine in cui i giovani potessero ricevere un insegnamento tecnico specializzato nei settori della ceramica come della lavorazione dei metalli e simili. Questo progetto è da porre in relazione anche con la produzione e col fiorente mercato di oggetti artistici e copie cui a diverso titolo si dedicavano molti fotografi napoletani quali Achille Mauri (che vendeva “ceramiche artistiche, collezioni di bronzi e terrecotte, copie del Museo e dei Costumi di Napoli)[26], la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati, che realizzava copie di busti e statue in scagliola col metodo della “scultofotografia”[27] e specialmente Giorgio Sommer, il quale a partire almeno dal Catalogo del 1873 si definiva  “Artiste fabricant de vases etrusques de l’Abruzzi et terre-cuites” reclamizzando “le sue copie di statue, di vetri Riton, di lampade, candelabri, allegorie e ancora vasi fra i più belli conservati al Museo Nazionale di Napoli.”[28]  Questa nuova pubblicazione, nell’anno in cui fu tra i premiati all’Esposizione di Vienna, ma a breve distanza dalla prima edizione, deve essere messa in relazione non solo con l’accresciuto numero di soggetti disponibili, ma anche con la comparsa di temi napoletani nel catalogo Alinari dello stesso anno[29]. La novità dichiarata sin dal titolo era la presenza di immagini di Malta[30], una delle mete più frequentate dai viaggiatori inglesi, ma anche il repertorio italiano si era nel frattempo esteso sino a comprendere i laghi di Como e Maggiore, più un’appendice luganese, con stampe destinate a circolare nella forma dei fogli sciolti o raccolte in album[31]. Napoli è il semplice titolo di quello dedicato “Alla Sezione centrale di Torino [dal]la Sezione di Napoli in occasione del VII Congresso del Club Alpino Italiano”, che si aprì  a Torino il  9 agosto 1874. Dopo l’orgogliosa antiporta con l’ostensione delle “Grandi Medaglie d’Oro” ricevute negli anni precedenti, il frontespizio con la grande “N” ornata di figure costituisce una sintesi iconica e una dichiarazione programmatica a un tempo, con quella barocca iniziale che si staglia su uno sfondo di vegetazione lussureggiante da cui emerge un pino marittimo (La Pina) sullo sfondo del Golfo con Castel dell’Ovo e il Vesuvio fumante[32]. La sequenza dei soggetti, il sommario diremmo, è canonica e la si può ritrovare in altri e successivi esemplari[33]. Apertura con panorama. Il primo è dal Vomero: verso nord, poi a sud. Quindi dalla Certosa di San Martino e – in controcampo, secondo una soluzione cui ricorreva sistematicamente  – dal molo della Stazione marittima. Segue una serie – qui di quattro immagini – dedicata al chiostro e all’interno della chiesa della Certosa, il primo monumento incontrato in questo percorso visuale e quasi materiale di avvicinamento alla città. Di fatto anche l’unico; la sola architettura a essere indagata in quanto tale e non nella sua presenza urbana. Poi si inoltra in città: Piazza del Plebiscito, Marinella, Santa Lucia (ancora campo e controcampo), la Villa Nazionale, Piazza del Municipio, Posillipo e le altre località dei dintorni da Baja a Caserta. La composizione ricorre spesso a un impianto in diagonale, che è un modo per restituire una maggiore profondità prospettica.  Nel leggere il paesaggio dei dintorni di Napoli  Sommer  si richiamava senza soluzioni di continuità – anzi, quasi citando – all’iconografia immediatamente precedente, ma ricorrendo di volta in volta a modelli e fonti differenti, a seconda del tema svolto, secondo il soggetto. Direi che è una modalità comune all’operare di molti grandi studi fotografici: non la definizione spasmodica di uno stile, forse ancora culturalmente inconcepibile,  ma la sapienza e la strategia visiva necessarie per adottare di volta in volta le soluzioni più adatte a inserire la propria produzione in una precisa tradizione iconografica,  giungendo alla formulazione di un discorso qualificato e riconoscibile a un tempo, in cui sovente l’effetto prospettico è accentuato collocando “un oggetto ombrato che facesse da primo piano”[34] ovvero un gruppo di figure, sovente posizionate a sinistra,  figure nel paesaggio che arricchiscono il pittoresco della veduta.  Anche il Vesuvio, certo. Proposto però in modo niente affatto romantico, privo di ogni pur lontana eco di sublime, mostrato anzi in tutta la terribilità della sua forza distruttrice, con le Ruine di San Sebastiano causate dall’eruzione del 1872, seguite da un’immagine tratta dalla ben nota sequenza. Poi: le ceneri che ne rimasero. Un’illustrazione che si potrebbe dire esauriente se non completa, da cui però risulta clamorosamente assente ogni riferimento ai pittoreschi stereotipi delle figure popolane cui tanta attenzione aveva dedicato nel decennio precedente, mentre ancora manca qualsiasi ripresa ‘dal vero’ della varia umanità che animava le strade di Napoli. Solo, al fondo, unica concessione a un pittoresco ormai in crisi come argomento e modalità di racconto, la riproduzione di una popolare litografia raffigurante il Calesse per Resina e la riproposizione dell’icona fotografica dei Mangiamaccheroni: quasi un atto dovuto. Singolare l’immagine dedicata all’interno del Teatro San Carlo, palese riproduzione di una grafica, forse una litografia, certo neppure tratta a sua volta da una ripresa fotografica, come dimostra non tanto la presenza della folla degli spettatori quanto l’incerta resa prospettica dello spazio[35]. Analoga soluzione era adottata per raffigurare altri interni ‘difficili’ come la Grotta di Pozzuoli  e la Grotta Azzurra , riproducendo un repertorio di figure cui negli stessi anni facevano ricorso anche altri fotografi come Chauffourier (Pozzuoli) e Mauri (Teatro San Carlo)[36]. L’insieme raccolto in questo album, ben rappresentativo del suo repertorio, mi pare sia l’ulteriore conferma di come sia quasi una forzatura collocare Sommer tra i fotografi di architettura o di riproduzione di opere d’arte, mentre invece i suo generi preferiti erano la veduta urbana, il paesaggio e in misura minore il costume, in ciò distinguendosi dalla linea Alinari, Anderson e simili.

La visita al suo studio in quello stesso anno da parte di Edward Livingston Wilson, fondatore e editore di “The Philadelphia Photographer”[37], il solo periodico fotografico professionale pubblicato all’epoca negli Stati Uniti,  certifica la notorietà del fotografo in una città che conta ormai quasi cento studi attivi, confermata anche dalla frequente pubblicazione di sue immagini su periodici internazionali, sebbene ancora nella forma del disegno o dell’incisione “d’apres une photographie”.[38]  A questa ormai consolidata posizione di prestigio si deve forse la commessa da parte della Società La Ferrovia Funicolare del Vesuvio  per la realizzazione di una ricca documentazione del nuovo impianto, pubblicata nel 1881 in “un piccolo ma raffinatissimo volumetto”[39], cui certo fece seguito una campagna autonoma realizzata nel 1886 dopo la sostituzione delle due prime vetture con un nuovo modello a fiancate aperte, puntualmente registrata nel catalogo edito in quello stesso anno. Questo incarico, con le relazioni che sottende e lascia intuire, potrebbe aver costituito un punto nodale per lo sviluppo di alcuni progetti successivi, in particolare quelli legati alla documentazione di alcune strade ferrate svizzere di diversa rilevanza ma di analoga notorietà turistica internazionale, quali la ferrovia del Gottardo e le due brevi linee che dai dintorni di Lucerna portavano al Monte Rigi e al Monte Pilatus. L’impresa della Funicolare vedeva infatti coinvolte figure ben inserite in una rete complessa di rapporti internazionali di tipo finanziario e industriale, come l’imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, azionista di numerose società di costruzioni ferro-tranviarie presenti ad esempio anche in Lombardia, ed Enrico Treiber, progettista e direttore dei lavori, in relazione per il tramite della sorella Clara, a sua volta parente del segretario generale di una compagnia ferroviaria tedesca,  con la famiglia Pallme[40], attiva a Napoli nel commercio e nella produzione di vetri intagliati e ceramiche. Nulla più che una suggestione per ora. Come escludere però che questa possa essere stata la via che portò Sommer a divenire socio della Mittelschweizerischen Geographisch Commerciellen Gesellschaft [Società Geografico Commerciale della Svizzera centrale] di Aarau, fondata nel 1884, che aveva tra i propri scopi statutari quello di istituire un vero e proprio “Museo fotografico.  Fotografie di paesaggi,  città, porti, villaggi, templi, palazzi, case, monumenti, opere d’arte, statue, dipinti. Immagini di tipi e costumi, queste ultime possibilmente colorate. Vegetazione, frutta e immagini di animali. Navi, veicoli e macchinari di ogni tipo. Fotografie stereoscopiche. Grafica pubblicitaria e oggetti etnografici. Chiediamo che tutte le fotografie,  se possibile, non siano montate, così come tutte le singole immagini di grande formato. Sono benvenute anche incisioni su acciaio e rame, fototipie e cromolitografie, xilografie e litografie.”[41]

All’iniziativa di questo sodalizio potrebbe riferirsi la serie fotografica relativa alla ferrovia del Gottardo, realizzata certo dopo la conclusione dei lavori e immediatamente resa nota nel catalogo del 1886[42], mentre fu lo studio Adolphe Braun & C.ie di Dornach[43] a documentare il cantiere sino alla messa in esercizio della linea il primo giugno 1882, illustrando con grande attenzione non solo le opere strutturali (ponti e gallerie) ma anche i macchinari utilizzati e gli impianti di servizio. Il confronto tra le due serie fotografiche mostra, al di là delle differenti intenzioni, il riproporsi di scelte che paiono obbligate: non solo i luoghi sono necessariamente gli stessi (gli stessi anche delle innumerevoli guide che seguiranno[44]), ma sovente coincidevano anche i punti di vista, quelli che consentivano non di distinguersi rispetto al lavoro di altri Studi ma di mostrare nella maniera più efficace lo stupefacente andamento della linea ferroviaria, le sue andate e ritorni, le gallerie. Ma Sommer non li descrive per sé. Non gli interessa l’ingegneria civile dei ponti e dei viadotti,  ma il loro inserimento quasi naturale nel paesaggio alpino, cui si aggiunge così un di più di meraviglia.  L’andamento delle immagini raccolte nell’album Souvenir de la Suisse è strutturato secondo il percorso della ferrovia, con una direzione certo non casuale da nord a sud (quasi un invito), in cui accanto ai punti più significativi o spettacolari del tracciato si illustrano le strutture ricettive più importanti, come l’Hotel Bellevue di Andermatt, ripreso anche da Braun, secondo la consuetudine di molta fotografia alpina della seconda metà del XIX secolo.[45] La documentazione di questa ferrovia costituì per Sommer una prima occasione per fotografare non solo Lucerna e il Lago dei Quattro Cantoni, che ne costituivano la destinazione svizzera, ma anche le montagne del Vallese e dell’Oberland Bernese[46]; luoghi in cui sarebbe tornato ancora negli anni successivi e per almeno un decennio per arricchire il catalogo di nuovi soggetti, come quelli dedicati alla Pilatusbahn [n. 13535] e alla Wengeralpbahn [n. 14300], aggiornando in molti casi riprese già presenti in catalogo, regolarmente ripetute confermando punto di vista e angolo di ripresa, secondo una modalità operativa ormai ampiamente consolidata.

Rispetto alla sua produzione antecedente, la novità di queste fotografie svizzere sta più nei soggetti che nei modi: mentre per Napoli e dintorni l’adesione alla richiesta culturale, e quindi commerciale, si traduceva in una generale accentuazione del pittoresco, qui l’attenzione era rivolta al paesaggio trasformato dalla modernità. Fedele ai modelli narrativi utilizzati per circa trent’anni, la veduta, lo sguardo d’insieme prevalgono sulla ripresa propriamente architettonica. Anzi, proprio la volontà di sottolineare le relazioni tra i diversi elementi costituenti la scena urbana, di segnalare visualmente le connessioni tra emergenze e tessuto, e questo e quelle col paesaggio e l’orografia sembra essere l’elemento caratterizzante del suo lavoro, cui si aggiunge una costante sistematicità. Nella progressione ottica delle riprese, dal generale al particolare, come nella scansione spaziale di avvicinamento al soggetto che suggeriscono (o consentono di ricostruire) un percorso di avvicinamento, lo spazio e il tempo di un viaggio. Si veda la bella serie realizzata intorno al Vierwaldstättersee in cui il segno luminoso del campanile di Fluelen emerge progressivamente dal fondo della veduta come un’epifania, sino a collocarsi in asse perfetto con la cima del Bristenstock sullo sfondo; poi, con uno scarto netto, l’attracco del traghetto al molo della stessa località, con un’immagine che Bruno Munari avrebbe potuto scegliere per le sue Fotocronache.[47] È nelle possibilità di questo impianto narrativo che mi pare di poter leggere la novità, importante, di queste realizzazioni, non,  ad esempio, nella scelta del punto di vista e nel taglio dell’inquadratura, che molte volte ripropongono schemi consolidati, citando quasi letteralmente esempi antecedenti, come accade proprio con alcune immagini di Lucerna e dintorni, in cui è evidente il richiamo alle fotografia dei bernesi Fratelli Charnaux, che avevano ampia circolazione anche in cartolina.

Le riprese relative alla Svizzera formano due serie distinte, la cui numerazione, almeno in questo caso[48] riflette una cronologia. La prima, numerata intorno al 12100-12500, è  coeva alle riprese del Gottardo,  cioè databile agli anni 1882-1885, mentre la successiva (nn. 13100-13700) data almeno al 1889.[49] L’occasione per il ritorno credo possa essere individuata nella conclusione dei lavori della ferrovia del Monte Pilatus (1889), che costituiva – accanto a quella del Rigi – una grande attrazione turistica[50], come confermano i soggetti offerti dal Diorama Meyer, a Lucerna in Zürichstrasse. Lo spettacolo offriva quattro vedute: il panorama dalla sommità del Rigi,  la veduta della ferrovia del Rigi e i panorami dal Pilatus e dal Gornergrat con “rappresentazioni degli effetti luminosi di mattina e sera. Somiglianza perfetta di grandi proporzioni. Ogni rappresentazione di 25-40 metri ca. è il miglior risarcimento per i turisti in caso di tempo cattivo e il miglior ricordo delle vedute alpine.”[51] Con un buon secolo di anticipo lo spettatore si ritrovava inconsapevolmente immerso nella condizione postmoderna della società del simulacro: “I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dì nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia. I paesi, grazie a questi due portati della civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v’è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato, fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti ed ignorati! Tutto quanto si vede è già cosi conosciuto! già così saputo! già così veduto!”[52]

Sono quelli gli anni in cui il figlio Edmondo iniziava a collaborare col padre, sino alla costituzione di una vera e propria società nel gennaio del 1889, e certo si dovrà tenere conto nell’attribuzione delle fotografie realizzate dopo questa data delle condizioni stabilite dal contratto, che prevedeva che il figlio dovesse “viaggiare per smaltire i prodotti dell’azienda e per formare le collezioni di vedute.”[53] Il successo internazionale della Ditta Giorgio Sommer e Figlio venne ribadito dall’assegnazione del Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 e dalla crescente diffusione di loro fotografie su pubblicazioni locali e internazionali[54], mentre i cataloghi di vendita, ancora nel 1914 distinguevano tra “Grand Etablissement Photographique/ sous la direction de Mr. Giorgio Sommer” e  “Grande Fonderie Artistique en Bronze (…) sous la direction du Chev. Edmondo Sommer”: una complessa attività che si muoveva sul crinale sottile che distingue produzione e riproduzione e che ancora attende di essere compiutamente indagata.

 

Note

[1] “These are but a few of the proofs  that could be brought  forward of the wide dissemination of the new agent, and of the various modes of its reception (…) for while our Queen has sent out a complete photographic apparatus for the use of the King of Siam, the King of Naples alone, of the whole civilised world, has forbidden the practice of the works of light in his dominions!”. L’articolo Photography, comparve anonimo in “The London Quarterly review”, 101 (1857), January – April, pp. 241-255 (243) per essere successivamente attribuito a Elisabeth Rigby Eastlake (1809-1893), in più occasioni fotografata da Hill & Adamson,  moglie di Charles Eastlake, Direttore della National Gallery e primo presidente della Photographic Society of London (ora Royal Photographic Society of Great Britain). Il saggio venne riproposto anche in Beamont Newhall, ed.,  Photography: Essays and Images,. London: Secker &  Warburg, 1980, pp. pp. 81-95 (84), ma citando in modo impreciso la fonte, oggi consultabile integralmente mediante il browser Google Books. Per il dibattito napoletano intorno alle nuove scoperte si veda Giovanni Fiorentino, Tanta di luce meraviglia arcana. Origini della fotografia a Napoli. Sorrento: Franco Di Mauro Editore, 1992, che rappresenta un indispensabile riferimento per la ricostruzione del contesto delle origini della fotografia in questa città. Rilievo ben maggiore ebbe la Relazione intorno al dagherrotipo presentata da Macedonio  Melloni alla Regia Accademia delle Scienze nella seduta del 12 novembre 1839 e più volte ristampata nei mesi successivi a Napoli, a Parma, a Roma e persino a Parigi, con traduzione di Alfred Donné; cfr. Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839/ 1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 88-89. La Relazione è stata ripubblicata integralmente in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212-232.

[2] Cfr. Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in M. Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia, 1857-1891. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11-32, a cui si rimanda anche per la definizione del quadro generale della biografia, non solo professionale del fotografo. Si veda anche Giovanni Fanelli, L’ Italia virata all’oro  attraverso le fotografie di Giorgio Sommer.  Firenze: Pagliai Polistampa, 2007.

[3] Ancora in anni recenti si è affermato che “benché le prime tecniche di riproduzione fotografica (…) fossero state recepite immediatamente dagli ambienti scientifici napoletani, ciò non ha riscontro in una corrispondente attività di professionisti o dilettanti locali.”, Daniela del Pesco, Fotografia e scena urbana fra artigianato e industria culturale, in Giuseppe Galasso, Mariantonietta Picone Petrusa, D. del Pesco, Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento. Napoli: Gaetano Macchiaroli Editore, 1981, pp. 65-107 (67).

[4] Già Ugo di Pace aveva ritrovato al Museo di San Martino una lettera di Talbot a Tenore datata 29 gennaio 1840, Cfr. U. di Pace, …E Napoli scoprì la foto, “Paese Sera”, Napoli, 3 dicembre 1982, p. 15. La corrispondenza di Talbot è stata digitalizzata e trascritta nell’ambito del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot (d’ora in poi TCP), consultabile all’indirizzo http://foxtalbot.dmu.ac.uk/letters/letters.html [25-01-2011].

[5] “Il Lucifero”, 2 (1839), n. 43, 4 dicembre, p. 443, citato in Fiorentino 1992, p. 43 passim.

[6] A. De. L., Nuovo metodo per la pittura fotogenica, “Salvator Rosa”, 1 (1839),  n. 20, 24 marzo, pp. 154-155, citato in Fiorentino 1992, p. 31, che ha identificato l’autore in Achille de Lauzières, il quale mostrava così una precoce comprensione di quella linea che avrebbe collocato il dagherrotipo, e poi la fotografia nella consolidata tradizione di quel paesaggismo napoletano che proprio sull’oleografia dei luoghi e dei costumi avrebbe fondato la propria fortuna ancora per almeno due secoli a venire.

[7] Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie, in L’Italia d’argento. 1839/ 1859 Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003, pp. 252-255.

[8] Per la ricostruzione delle presenza napoletane di fotografi calotipisti si rimanda ai saggi e alle opere pubblicate in Éloge du negatif. Les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862), catalogo della mostra (Parigi – Firenze, 2010). Paris: Paris Musées, 2010. Per l’attività di Calvert Jones cfr. la lettera di Bridges a Talbot del 23 aprile 1846, in TCP n. 5632.

[9] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie, in Éloge du negatif 2010, pp. 25-35 (35, nota 45) in cui ricorda un calotipo di Lecchi relativo alla Casa del Fornaio di Pompei, firmato e datato 1846, che costituisce a oggi il più antico calotipo noto di autore italiano.  G.W. Bridges scriveva a Talbot:  “In Naples I met with a Sig. Lechie [sic], a Milanese – who is teaching the art at 600 francs – one only lesson: – a poor Optician in Toledo, paid that sum – & by some means obtained the whole process in writing: – from him I have it & have seen some very superior negative & possitives worked by it: – but have yet been too ill to try it myself. I give you the copy overleaf (…) Lechie’s skies are perfect – & he succeeds on paper of very inferior quality – no spots seeming to appear, or injure the process. (…) Certainly some few of his specimens are more perfect in detail than any I have seen – He is employed now by the King of Naples in copying at Pompeii – but I have some 4 or 5 taken there equal to his. – His advantage seems to be that he makes use of any inferior paper, & is more certain of good productions. – I saw him take 14 one morning at Pompeii without one failure.” (28 Aug 1847 , TCP n. 5985). Lo stesso Bridges si riprometteva di realizzare “a few [copies] which I shall take to the King of Naples, (of Pompeii) – who is infinitely pleased even with the negatives – especially those of the frescoes lately discovered” (lettera del 23 maggio 1847, TCP n. 5951).  Il nome di Lecchi era già noto a Talbot per il tramite di  Calvert Jones: “At Lyons, Avignon, and Marseilles I saw some Photographs which the Shopkeepers at the houses where they were exposed, represented as being paper Dags, but which, from certain identical stains on different copies, I discovered to be a kind of Talbotype; they appeared to be quickly done, as several figures appeared. They were done by an Italian, named Leuchi, who is prepared to reveal his method whenever a certain number (how many I know not) of persons shall have agreed to give him 100 francs each: I did not see him, but all the Photographers I have met with are delighted with my paper specimens.” (lettera del 1 dicembre 1845 , TCP n. 05453).

[10] Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, “Quaderni della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte”, 2. Torino: Provincia di Torino, 1998, cat. 41. Ben oltre gli anni in cui si iniziava a utilizzare il negativo di vetro Gustave de Beaucorps, realizzò ancora una serie di vedute al calotipo del Golfo di Napoli, una di Ischia e una di Ravello, datate  1859, cfr. Éloge du negatif 2010, pp. 40-41, 171, 173.

[11] Miraglia 1992, p. 18.

[12] Cfr. lettera di Leopoldo Alinari a Ernest Becker del 15 giugno 1858, in Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003, p. 129.

[13] Sino al 1862 avrebbe realizzato più di 1.000 ritratti, vale a dire una media di circa 200 ritratti l’anno, dato che può indicare non solo la sua riconosciuta abilità nel genere, ma anche la scarsità di alternative professionali locali. Per quanto riguarda la definizione dell’arco cronologico in cui Sommer si sarebbe dedicato a questo genere, che molti propendono a considerare conchiuso proprio nei primi anni Sessanta,  ricordiamo che il suo ben noto n. 11601 – Bersagliere, pubblicato in Miraglia 1992, p. 17 è datato “post 1873”, sebbene proprio la titolazione faccia propendere per una sua interpretazione come figura piuttosto che come ritratto, come conferma anche Fanelli 2007, p. 35, che ricorda come Il Bersagliere fosse compreso nella sezione “Costumi” del Catalogo del 1886. Quanto alle stereoscopie, la cui produzione secondo alcuni fu limitata allo stesso periodo,  si può affermare sulla base delle immagini note che proseguì almeno sino al 1880, data di realizzazione della serie dedicata alla Funicolare vesuviana.

[14] Pur senza pretendere di dirimere le questioni relative alla cronologia della collaborazione tra Sommer e Behles (questo fu, quasi sempre, l’ordine di citazione sui cartoni di supporto) proviamo a riordinare i dati sino ad ora resi disponibili dalle fonti bibliografiche: l’avvio del loro rapporto professionale, che Miraglia 1992 pone al 1857, andrà forse spostato al 1860, anno in cui Behles giunse a Roma (Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983,  ad vocem), se non addirittura oltre, considerando che una richiesta avanzata ai Musei vaticani per fotografare alcune sculture, datata 2 luglio 1863, venne firmata dal solo Sommer, mentre la successiva, datata 20 settembre 1864, fu sottoscritta da entrambi; si veda a questo proposito l’attenta ricostruzione fatta da Maria Francesca Bonetti, Giorgio Sommer – Edmondo Behles, Laocoonte, 1863-1867 , in Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007). Roma: L’Erma di Bretschneider, 2006, sch. n. 87, pp. 190-191. Ancora nel 1867 i due fotografi firmarono congiuntamente un’analoga domanda, mentre furono premiati separatamente all’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno (Miraglia 1992, p.31, nota 84.) Pare quindi ragionevole sostenere che la separazione dovette compiersi in quel periodo, e comunque prima del 1870, anno in cui Sommer pubblicò il suo primo catalogo. A ulteriore conferma si ricorda che nel 1871 fu il solo Behles, con cui i rapporti dovettero restare ottimi se Sommer chiamerà il figlio Edmondo, a inoltrare una nuova richiesta di autorizzazione per fotografare nei Musei Vaticani (Bonetti 2006).

[15] Già Miraglia 1992 aveva segnalato i rapporti commerciali di Sommer con Celestino Degoix a Genova e  Carlo Ponti a Venezia, ma vogliamo qui ricordare almeno la proposta ben più tarda (a suo tempo ricordata dalla stessa studiosa) avanzata da Achille Mauri sulle pagine de “La Camera Oscura” nel 1883 in cui chiedeva “ai vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale”,  Mariantonietta Picone Petrusa, Linguaggio fotografico e «generi» pittorici, in Galasso, Picone Petrusa, Del Pesco, 1981, pp. 21-63 (60, nota 175). Altra invece la questione delle copie illecite e delle contraffazioni, di cui pure è ricca la vicenda professionale di  Sommer e di altri fotografi napoletani, per la quale si rimanda alla stessa fonte.

[16] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48. Va inoltre immediatamente posta una questione che qui non possiamo che limitarci a formulare: si dice Sommer come si direbbe Alinari o Brogi, proponendo un’indicazione di responsabilità che non sempre e necessariamente può aver coinciso con l’effettivo operatore, ma che deve semmai essere intesa quale adesione a una linea interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio. Ancora troppo poco sappiamo dell’organizzazione del lavoro degli studi fotografici di medie e grandi dimensioni per procedere oltre in questo percorso, che dovrà prima o poi essere avviato, pena l’incomprensione critica non solo dell’effettiva cultura fotografica di questi operatori ma anche delle modalità della costituzione di quell’iconografia dei luoghi che ha determinato l’immaginario del Bel Paese.

[17] Domenico Benedetto Gravina, Il duomo di Monreale  illustrato e riportato in tavole cromo litografiche. Palermo: Stab. tipogr. di F. Lao, 1859-1869; nuova edizione con riproduzione integrale dell’originale del 1869: Caltanissetta: Lussografica, 2007.

[18]  Del Pesco 1981, p. 74.

[19] Stephen L. Dyson, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries. New Haven, CT:  Yale University Press, 2006, p. 48.

[20] Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra,. Milano: Bruno Mondadori, 2010, p. 121.

[21] Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009, pp. 17-18, che costituisce la riedizione in forma di saggio  del catalogo della mostra L’empreinte, curata dallo stesso Didi-Huberman nel 1997 presso il Centre Pompidou di Parigi. Particolarmente ricca di suggestioni è la lettura in parallelo dei saggi di Bailly e Didi-Huberman.

[22] Secondo la “Photographische Correspondenz”, 1865, p. 306 queste erano considerate “eccessivamente dure e tecnicamente al limite dell’errore”, citata in Miraglia, 1992 n.54 p. 29.

[23] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, [s.d.], in Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp. 37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p. 334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando “Charles François Bossu, dit Marville artiste photographe”, era in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie” ed è oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di riproduzione dei disegni della stessa Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese torinesi potrebbe essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville  si qualificava come “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, dicitura che ritroviamo sui cartoni di queste stampe, solo fino al 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori. La rivelazione del vero nome di Marville si deve a Sarah Kennel, conservatrice presso la National Gallery di Washington, che sta preparando una mostra monografica a lui dedicata.

[24] Picone Petrusa, 1981, tavv. 237, 245; Achille Mauri fotografo di Sua Maestà, catalogo della mostra (Bari,  2009–2010),  a cura di Clara Gelao. Firenze: Alinari 24 Ore, 2009, tav. 190.

[25] James Graham, Vesuvius. Lava of 1858-60 near the Observatory,  albumina, pubblicata in  Éloge du negatif, p. 195.

[26] Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo, in Achille Mauri fotografo 2009, pp. 19-31. (p. 30 nota 35).

[27] Del Pesco, 1981, p. 98 n. 44.

[28] Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981, p. V. Le relazioni tra le diverse attività di Sommer sono ancora, mi pare, tutte da datare con precisione e soprattutto da studiare, ponendo in relazione l’accrescimento del catalogo di fotografie con la produzione di bronzetti e simili che avrebbe avuto “un eccezionale incremento fra il 1879 e il 1886, tanto è vero che nel catalogo a stampa di quell’anno Sommer faceva precedere l’elenco delle proprie fotografie da un soggettario di ben 245 bronzi.” Miraglia 1992 p. 28 nota 52. Dal Catalogo del 1914 (Del Pesco 1981, p. 73) si ricava come oltre alla vendita di fotografie (anche al carbone, al platino e colorate) e diapositive, la ditta forniva cromolitografie di propria edizione, acquarelli, guache e dipinti a olio di Napoli, Pompei e dintorni. Veniva inoltre offerto un servizio completo di sviluppo e stampa di lastre e pellicole Kodak, di cui era rivenditore. Se a queste si aggiungono le attività della fonderia, dell’atelier di scultura, dei calchi in gesso, delle copie in argento e delle terrecotte, si ha un’immagine ben definita di un’azienda di medie dimensioni con una produzione molto diversificata, le cui diverse attività pare difficile poter separare. Una selezione di opere della Fonderia Sommer è visibile all’indirizzo  http://www.annona.de/alben/Sommer%20Bronze/ (8-2-2011).

[29] Catalogo generale delle riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari. Firenze: Barbera, 1873.

[30] Giorgio Sommer, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta.  Napoli: Rocco, 1873, che risulta essere il solo catalogo di uno stabilimento fotografico registrato nel repertorio di  Attilio Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899. Milano: Associazione tipografico-libraria italiana, 1901-1905, ad vocem.

[31] L’enorme diffusione delle stampe Sommer è confermata ancora oggi dalla presenza di numerosissimi esemplari non solo in collezioni pubbliche e private, ma anche dalla frequenza di presentazione in asta di fogli singoli e di album. Alla fine del decennio è databile, ad esempio, il bellissimo album Italia, con 130 albumine nel formato 21×27, presente nelle collezioni della Biblioteca Storica della Provincia di Torino, che apre proprio con Lugano e il Lago Maggiore, poi Como e Milano, Pavia e Torino (con veduta da Villa della Regina ante 1863), Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze (ante 1876), Pisa, Siena, Orvieto, Assisi, Tivoli, Roma, Napoli, Baja, Amalfi, Caserta, Paestum, i Mangiamaccheroni, Pompei, un calco datato 1873 (n. 1279), Palermo, Monreale, Messina, Taormina, Siracusa, mentre la chiusa è affidata al tempio della Concordia di Agrigento. Un album di viaggio per stranieri, tedeschi e svizzeri direi: che apre coi laghi e chiude con l’archeologia siciliana.

[32] L’esame delle litografie che ornavano al verso i cartoni di supporto e che venivano riprodotte fotograficamente nei frontespizi dei diversi album mostra  quale fosse la varietà delle soluzioni grafiche di volta in volta utilizzate.

[33] Si veda ad esempio l’album Napoli conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, realizzato tra 1880 e 1887, che consente di esprimere alcune considerazioni rispetto ai modi operativi di Sommer, in particolare per quanto riguarda le varianti di ripresa, rispetto alle quali, oltre all’ovvia peculiarità delle riprese stereoscopiche, si nota come la posizione del punto di ripresa restasse identica nel passaggio da un formato all’altro; solo da alcuni mutamenti nella scena, solo dalle diversità del referente si comprende la distanza, per quanto minima di tempo intercorso tra uno scatto e l’altro: quello necessario a sostituire gli apparecchi sull’immobile cavalletto (cfr. Ischia, 1880 ca, n. 1187 nel 20/25, n. 5232 nel 10/15), mentre le focali dovevano essere diverse, con un angolo di ripresa più ampio per il formato minore (cfr. Funicolare del Vesuvio n. 5231 nel 10/15, n. 8120 nel 20/25). Anche nella consueta pratica dell’aggiornamento delle riprese (non del repertorio), ritornando a distanza di tempo sullo stesso soggetto, i modi  restano immutati, nella fedeltà a un canone che pare indiscutibile e stabilito da tempo. Si considerino due versioni di una delle più note immagini della serie dedicata al Grand Hotel di Amalfi, già convento dei Cappuccini, dove la seconda (n. 2996, post 1891) ricalca pedissequamente  la prima (n. 2013, 1870 ca.) conservando identici i dati di ripresa (punto di vista, focale, ora e periodo dell’anno, come si evince dallo studio delle ombre portate)  con la sola variante dei due ospiti al tavolino, mentre è inevitabilmente cresciuta la yucca in secondo piano. Della versione, in verticale, appartenente all’album 1874, si ricorderanno gli Alinari (n. 11480, ante 1896) collocando però una graziosa popolana al posto del frate (Quintavalle 2003, p. 300). Analogo discorso può essere fatto per 1202 Foro civile (Pompei), 1881 ante, di cui è nota  una variante con inquadratura da un punto un poco più elevato e lievemente spostata a sinistra, con aggiunta del pennacchio al vulcano, ma di cui esiste anche una ripresa precedente, 1870 ca, effettuata dallo stesso punto e con le stesse condizioni di luce, che si distingue solo per la presenza di un uomo in cilindro poggiato al basamento. A proposito di questa pratica, comune del resto a tutti i grandi studi fotografici coevi,  è stato giustamente notato che “si determina una griglia che è sempre adattabile a nuovi eventi e quindi costantemente aperta. Insomma è come se dentro lo schema (…) si potessero sempre inserire nuove edizioni, diciamo così, del loro simbolico documento archeologico per immagini, e anche per questo forse, la necessità di cambiare gli scatti che si sono fatti in passato con scatti nuovi viene considerata come un dato di fatto normale.” Quintavalle 2003, p. 212.

[34] Luigi Delàtre, Le fotografie dei fratelli Alinari, “Monitore Toscano”, 8 (1855), 30 marzo, citato in Quintavalle 2003, p. 98.

[35] Soluzione analoga a quella adottata alcuni anni prima per la stereoscopia n. 876 dedicata al  Teatro della Scala – Milano, datata al verso 1869.

[36] Per Achille Mauri 19 – Interno del Teatro San Carlo, cfr. Achille Mauri fotografo 2009, p. 33 in basso. Non può però essere questa l’immagine che fu oggetto del processo intentato da Mauri nel 1903 alla ditta Richter di Napoli e al fotografo Giorgio Sternfeld di Venezia per la contraffazione della sua ripresa (poi ritoccata) del 1894, come si afferma in Leonardi 2009, p. 28. Per la ricostruzione degli elementi salienti della vicenda cfr. Elvira Puorto, Fotografia fra arte e storia: il Bullettino della Società fotografica italiana (1889 -1914). Napoli: A. Guida, 1996, pp. 69-71. Della Grotta Azzurra di Sommer sono note, oltre a una variante colorata a mano (n. 2217) una pseudostereoscopia (n. 243) firmata ancora Sommer & Behles.

[37] “A Napoli il maggior produttore (di fotografie) è il Sig. Sommer [che] ha delle sale di vendita molto vaste in una delle principali strade, in cui è realizzata un’esposizione molto bella. [Il suo stabilimento] è fornito di tutti i requisiti necessari a ottenere risultati ottimi in ogni quantità.”. Il testo, reso noto per la prima volta da Van Deren Coke, Giorgio Sommer, “Bulletin of the University Art Museum”, n. 9 (1975-1976). Albuquerque: University of New Mexico, è stato a suo tempo ripreso da Palazzoli 1981, p. VI, che qualificava però Wilson come un generico “viaggiatore americano”.  Di questo autorevole encomio mi piace sottolineare quel richiamo alla “quantità” che ben sintetizza l’orizzonte produttivo e commerciale in cui si collocava l’attività della Casa Sommer.

[38]Pres de Sorrente. – Dessin de A. de Bar, d’apres une photographie de Giorgio Sommer”, “Magazin Pictoresque”, 42 (1878) tratto dalla stampa n. 1153 – Vallate di Sorrento.

[39] Miraglia 1992 p. 29 nota 60.

[40] Roberto, figlio di Clara Treiber e Franz Josef Pallme, è stato un grande appassionato ed esperto di cinema muto. La sua collezione è oggi conservata alla George Eastman House – International Museum of Photography and Film di Rochester, mentre la raccolta di proiettori cinematografici, radio e strumenti scientifici costituisce il Fondo Roberto Pallme presso la  Fondazione Micheletti di Brescia.

[41] Cfr. Statuten der Mittelschweizerischen Geographisch-Commerciellen Gesellschaft, „Fernschau“,  1 (1886), pp. XV-XVI. La Società Geografico-Commerciale della Svizzera centrale, fu attiva dal 1884 al 1905. Per la ricostruzione delle vicende di questa collezione si rimanda a Fernschau: global: ein Fotomuseum erklärt die Welt (1885–1905), catalogo della mostra (Aarau, Forum Schlossplatz, 2006), Markus Schürpf, hrg. Baden: Hier + jetzt Verlag für Kultur und Geschichte, 2006, e più in particolare al saggio di Ricabeth Steiger, Fotografieren als Geschäft: die Reportagen und Reisebilder von Giorgio Sommer, ivi, pp. 72-79. L’iniziativa di questa Società va inquadrata nel più ampio dibattito tardo ottocentesco sulle funzioni dei Musei fotografici documentari che interessava in quegli anni tutti i paesi europei, Confederazione Elvetica compresa, oltre agli Stati Uniti.

[42] Giorgio Sommer, fotografo di S.M. il Re d’Italia, Largo Vittoria, Napoli, Palazzo Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia, Malta e Ferrovie del Gottardo. Napoli: Tipografia A. Trani, 1886.

[43] Cfr. Maureen C. O’ Brien, Mary Bergstein, eds., Image et Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000 oltre che, nello specifico, Kurt Zurfluh, Gotthard: als die Bahn gebaut wurde. Zürich: Offizin, 2003, in cui è pubblicata parte della campagna fotografica della Ditta Adolphe Braun, certamente non realizzata dal titolare, morto nel 1877, conservata presso la Collezione Walter Reinert di Lucerna. Le riprese vennero utilizzate per la pubblicazione delle Photographische Ansichten der Gottardbahn, Photographien von Ad. Braun & Cie. Dornach im Elsass, 1882 ca., di cui sono note diverse edizioni con un numero di tavole compreso tra 44 e 77, tra le quali un panorama in quattro parti.

[44] La funzione di attrazione turistica della nuova infrastruttura è confermata dalle innumerevoli guide pubblicate negli anni immediatamente successivi alla sua apertura, non di rado illustrate con incisioni tratte da fotografie, anche di Sommer: Woldemar Kaden, La ferrovia del Gottardo ed i suoi dintorni. Bellinzona: C. Salvoni, s.d. [1882 post]; Jakob Hardmeyer,  Die Gotthardbahn, mit 48 Illustrationen von J. Weber. Zurich: Orell Fussli & co, s.d.[1886 ca]; Guide-album illustrée du chemin de fer du Gothard. Milano: Administration de Guide-Album du Gothard, s.d. [1890]; George L. Catlin, A travers les Alpes par le chemin de fer du Saint-Gothard. Zurich: Art Institut Orell Fussli, 1900; Edmondo Brusoni, Da Milano a Lucerna: guida itinerario descrittiva della ferrovia del Gottardo, dei Tre Laghi, del Lago dei Quattro Cantoni e del Canton Ticino.  Bellinzona: Colombi e C. editori, 1901. A titolo esemplificativo segnaliamo come la ripresa n. 12130 – Amsteg, venne ripresa in Catlin p. 21 e Guide-album p. 27, la n.12164 – Bellinzona è stata la fonte per Catlin p. 34 e Guide-album p. 45, in cui vennero pubblicate anche n. 12127 – Fluelen p. 21, n. 12242 – Goeschenen  p. 33 e n. 12291 – Hospenthal  p. 68, mentre a p. 15 è pubblicata Arth Goldau di Braun. Il confronto tra le diverse immagini costituenti l’apparato illustrativo di queste guide, tutte incisioni tratte alternativamente da fotografie (pubblicate rigorosamente anonime) e da schizzi dal vero, mostra come ai due media originari corrisponda una diversa intenzione narrativa: l’adozione di una impaginazione verticale per le immagini disegnate risulta più efficace nella  restituzione del contesto “orrido e sublime”, mentre  sia Braun che Sommer escludevano il cielo e i profili delle montagne per concentrarsi il più possibile sulla presenza dei manufatti nel paesaggio in campo medio. Un vivace resoconto, certo debitore dell’immaginario romanzesco di Jules Verne, così descriveva un viaggio notturno su questa linea: “ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c’è più : si ha l’impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra. Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un’acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili.  Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all’orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota….. Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l’oscurità. Giù in  fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un’enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d’autunno, non ancora svegliato dall’alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.”, Ernesto Ragazzoni, Istantanee svizzere, “La Stampa”, 8 (1902), n. 213, 3 agosto, pp. 1-2 (1).

[45] Aldo Audisio, P. Cavanna, Emanuela De Rege di Donato, Fotografie delle montagne. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2009.

[46] Le montagne e i ghiacciai della regione furono oggetto di una prima campagna fotografica realizzata dai Fratelli Bisson,  presentata con grande successo all’Esposizione di Parigi del 1855; cfr. Les Frères Bisson photographes. De flèche en cime 1840-1870, catalogo della mostra (Parigi – Essen, 1999), Milan Chlumsky, Ute Eskildsen, Bernard Marbot, dir. Paris – Essen: Bibliothèque Nationale de France – Museum Folkwang, 1999; Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2004. Una nuova campagna fotografica venne realizzata alcuni anni più tardi e pubblicata in H[ereford] B[rooke] George, The Oberland and its glaciers explored and illustrated with ice axe and camera. London: Alfred W. Bennet, 1866, illustrato con ventotto stampe all’albumina di Ernest Edwards, autore anche di una interessante serie di Notes of the Photographer,  pubblicate in appendice, in cui descrive con grande chiarezza ed efficacia gli scopi, gli accorgimenti tecnici e le difficoltà dell’impresa.

[47] Bruno Munari, Fotocronache: dall’isola dei tartufi al qui pro quo. Milano: Editoriale Domus, 1944 (nuova ed. Milano: Verbaq edizioni, 1980; Mantova: Corraini, 1997).

[48] Risulta purtroppo difficile e quasi impossibile ricorrere alla progressione numerica dei soggetti per determinare la cronologia delle riprese. Analizzando le opere pubblicate nella non ricca bibliografia dedicata a Sommer, quelle presenti nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e quelle, numerosissime, disponibili in rete sembrerebbe possibile in prima approssimazione individuare  una certa progressione cronologica nella numerazione dei soggetti (n.1000 ca. per Roma, 1857-65; n.1100 ca. per Napoli 1860-1865), un nucleo dai nn. 1900 al 1990 ca. che riguarda Milano, Genova e Torino (1863 – 1873 ante), ma allo stesso periodo apparterrebbe anche la serie di Venezia, che ha una numerazione intorno al 3500 e quella su Como con numeri intorno al 7000 nel formato 21/27 (7100 formato album; 7200 stereo; 7300 carte de visite). Questa costruzione del codice di catalogo che pone in relazione soggetto e formato si ritrova anche in altri esempi (Torino, chiesa della Gran Madre, nn. 973, 1973, 3973), ma non rappresenta purtroppo una costante, né pare avere un andamento cronologicamente coerente, anche in conseguenza della sostituzione di nuove riprese dello stesso soggetto realizzate a distanza di tempo, ma entrate in catalogo con lo stesso numero, consuetudine del resto comune ad altri studi fotografici. Per analoghe considerazioni ed esempi si rimanda a Palazzoli 1981, Nota alle opere e alle analitiche schede delle immagini pubblicate in Miraglia, Pohlmann 1992.

[49] Se possiamo suggerire il 1889 come termine post quem, il 1894 è certamente quello ante quem della loro realizzazione. Presso l’Harry Ransom Center ad Austin è conservata una stampa di Sommer, Rigi Railway, Vitznau, Schnurtobelbrucke  (n. 964:0728:000), che porta la data June 8, 1894 analoga a quella apposta in calce, sul supporto secondario della stampa relativa al Maloja del Museo Nazionale della Montagna di Torino, datata “September 14 1894”. Poiché si deve pur presumere che le stampe per raggiungere l’acquirente dovevano essere immesse in un preciso circuito produttivo e distributivo, è ragionevole supporre che la loro data di pubblicazione, e ancor più di ripresa possa essere anticipata almeno di qualche mese. Superfluo a questo punto ricordare che questi soggetti risultano compresi in G. Sommer & Figlio fotografi di S.M. il Re d’Italia, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie Svizzera e Tirolo. Napoli: Tipografia Scarpati, 1899.

[50] I due tronchi della Ferrovia del Rigi furono inaugurati rispettivamente nel 1869-70 per la parte da Vitznau e nel 1875 per la tratta da Arth-Goldau. Si calcola che negli anni ’70 la meta fosse frequentata da circa 80.000 persone l’anno, cfr. Kaden 1882 post, p. 27. Si segnala che recentemente, presso la Galerie Fischer Auktionen di Lucerna, è stato presentato in asta un album di Giorgio Sommer dedicato proprio al Pilatus, datato 1890 ca., con  23 stampe all’albumina relative al Monte e alla sua ferrovia.

[51] In Guide-album 1890, p.n.n.

[52] Ragazzoni 1902, p. 1.

[53] Miraglia 1992  p.21

[54] Loro immagini vennero pubblicate nei primi numeri di “Napoli nobilissima” illustrati da fotografie (1892), cfr. Picone Petrusa 1981 p. 57 n. 68. Si segnalano inoltre le fotografie dell’Oberland Bernese firmate G. Sommer & Figlio pubblicate in “The Graphic”, 54 (1896), cfr. Anton Gattlen, L’estampe topographique du Valais.  Martigny – Brig: Éditions Gravures, Éditions Pillets – Rotten verlag AG, 1987-1992, II, p. 313; il volume di Jakob Christoph Heer, Der Vierwaldstätter See und die Urkantone. Zürich: J. A. Preuss 1898 (ed. francese e inglese: Zürich: Th. Schroeter, 1900), corredato da 800 illustrazioni in photogravure e xilografiche, con immagini di Sommer, dei Fratelli Wehrli, di Schroeder e dei fotoamatori  Hans Brun, J. Muheim, L. Zimmermann, A. Soldenhof, H. Felder; Hippolyt Haas. Neapel seine Umgebung und Sizilien. Bielefeld und Leipzig: Verlag von Velhagen & Klafing, 1904, riccamente illustrato da fotografie firmate Sommer & Figlio e Alinari; Augustus J. C. Hare. Cities of Southern Italy. New York: Dutton and Company, 1911, per il quale “The Editor takes this opportunity of thanking Messrs. G. Sommer, of Naples, and Signor R. Moscioni, of Rome, for permission to use certain of their photographs for the illustration of this work.” Anche alcune delle illustrazioni pubblicate in Gustavo Strafforello, La Patria: Geografia dell’Italia: Provincia di Napoli. Milano – Roma – Napoli: Unione Tipografico Editrice, 1896 erano tratte da Fotografie Sommer.