La variante Sommer (2011)

in Dal Vesuvio alle Alpi. Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli Castel dell’Ovo – Museo di Etnopreistoria, 27 marzo -30 aprile 2011; Torino, Museo nazionale della montagna 25 novembre 2011 – 20 aprile 2012).  Torino: Museo nazionale della montagna, 2011, pp. 6-19

 

Ho sempre visto tutto in forma di figura,

anche le parole.

Claudio Parmiggiani

 

“Ci sono poche prove che possono essere portate della grande diffusione del nuovo mezzo, e dei differenti modi della sua ricezione [quanto il fatto che] mentre la nostra Regina ha inviato un apparato fotografico completo per uso del Re del Siam, il solo Re di Napoli, in tutto il mondo civilizzato, ha vietato la pratica delle opere della luce nei propri domini!”[1]  Questo scriveva Lady Elizabeth Eastlake, in quello che è forse il primo resoconto critico della letteratura fotografica, nello stesso 1857 in cui Sommer apriva a Napoli il proprio studio[2], negli anni fervidi del passaggio dalla prima fase pionieristica a quella che si sarebbe poi detta età del collodio, nella quale – abbandonata la carta – il negativo su supporto in vetro avrebbe aperto l’era dei grandi studi fotografici e della sistematica commercializzazione.

Questo giudizio derivato dalla disillusione postromantica per il nostro paese era certo ingeneroso, ma soprattutto infondato[3], sebbene resti un sintomo significativo di quale fosse la percezione delle condizioni culturali e politiche del Regno borbonico, e forse italiane nell’Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo. Va rilevato invece l’artificio retorico e implicitamente razzista (del resto ampiamente diffuso anche oggi) di collocare spregiativamente il reo a un livello inferiore a quello attribuito a persone e paesi che si consideravano modelli di arretratezza.  La Napoli di Ferdinando II (1830 – 1848), certo attenta alle suggestioni e ai simboli della modernità (si pensi alla ferrovia Napoli – Portici), fu invece uno dei centri italiani in cui  più precoce e qualificata era stata l’attenzione per le nuove, meravigliose invenzioni di Daguerre e Talbot:  la prima anticipata da Raffaele Liberatore sulle pagine de “Il Lucifero” già il 6 febbraio 1839; l’altra patrocinata dallo scienziato Michele Tenore, Direttore dell’Orto Botanico di Napoli e da più di un quindicennio in contatto con Talbot, che il 27 settembre dello stesso anno scriveva al Direttore di quel giornale per annunciare di aver ricevuto direttamente dallo studioso inglese alcuni “disegni fotogenici eseguiti da lui medesimo.”[4]  Insomma, dopo quel giovedì 28 novembre in cui il signor Raffaele Gargiulo “restò meravigliosamente dagherrotipato” ad opera di Gaetano Fazzini durante il “primo  sperimento”condotto a Napoli”[5], le vicende locali della fotografia dovettero avere sviluppo e attenzione ben più ampie di quelle supposte dalla Eastlake, specialmente per merito delle rilevanti presenze straniere in una città che costituiva una delle principali tappe del Gran Tour. “Amena più che ogni altra (…) per pittoresche circostanze – era infatti descritta questa città – [essa] darebbe all’artista o all’amatore che ne avesse genio l’agio di riprodurre per mezzo del Daguerre, le più belle vedute che la matita o il pennello de’ paesisti abbia mai tracciato sulla carta e sulla tela.”[6]

Le prime vedute al dagherrotipo di Napoli, e dei siti archeologici, entrarono molto presto, già nel 1840-1841,a far parte delle serie editoriali di Alexander John Ellis come di Noël Marie Paymal  Lerebours o dell’italiano Ferdinando Artaria e per tutto il quindicennio successivo – cioè fino a che tale tecnica non venne abbandonata – furono almeno una decina i dagherrotipisti in transito o presenti in città per periodi più o meno lunghi, mentre Francesco Gibertini pare essere stato il solo professionista locale.[7] Ancor più nutrita, e qualificata fu la frequentazione dei luoghi da parte dei calotipisti, a partire almeno dal 1846, con le presenze di Amélie Guillot-Saguez e di Richard Calvert-Jones, che a Santa Lucia si provò con una veduta urbana in due parti, dedicandosi anche a Pompei e Baja[8], ma soprattutto di Stefano Lecchi che, nella testimonianza del Reverendo George Wilson Bridges, era a Napoli per realizzare fotografie di Pompei proprio su incarico di Ferdinando II.[9]  Altri seguirono nei primissimi anni Cinquanta: Alfred-Nicolas Normand, Firmin Eugéne Le Dien, Paul Jeuffrain, Alphonse Davanne, i napoletani Arena e Pellegrino e il milanese Luigi Sacchi che verso il  1853 fotografò Pompei e Paestum,  ma anche una Veduta del Golfo di Napoli con Castel dell’Ovo poi non compresa nelle serie di Monumenti, vedute e costumi d’Italia pubblicata  nel 1852-1855.[10] Come si vede la scelta dei soggetti non presenta novità di rilievo. Pompei e Paestum, Mergellina e Santa Lucia, Ischia e Ravello: sono le mete che consigliava anche l’Handbook for travellers in Southern Italy, che Octavian Blewitt scrisse nel 1853 per la serie edita a Londra da John Murray, distribuita a Napoli da Detken, presso il quale sarebbero state poste in vendita negli anni successivi anche le stampe di Sommer.[11]

Dopo una prima, forse breve sosta a Roma nel mese di settembre, Giorgio Sommer aveva aperto il proprio studio napoletano nell’inverno 1857-1858. Poco sappiamo di quel suo avvio di attività; nulla a proposito delle tecniche adottate in quei primissimi anni, anche se pare verosimile ritenere che fin da subito adottasse l’innovativo negativo su vetro, come del resto avevano fatto gli Alinari solo pochi anni prima[12], magari utilizzando dapprima, al posto del collodio, un’emulsione all’albumina che consentiva una migliore resa dell’immagine pur scontando maggiori tempi di esposizione. Ciò che conosciamo  almeno un poco meglio è la sua capacità immediata di adeguarsi alle richieste di mercato avviando, accanto alle prime vedute in diversi formati, una ricca produzione di stereoscopie, e dedicandosi contemporaneamente al ritratto, una pratica che pare aver progressivamente abbandonato nei decenni successivi.[13] Risale a questo stesso periodo anche la collaborazione con Edmond Behles, che tanti problemi attributivi ancora pone agli studiosi[14], ma che qui vogliamo richiamare solo per quanto significa in merito alla questione della concezione autoriale del lavoro fotografico nel contesto della pratica professionale italiana dopo la metà del XIX secolo. Non si tratta tanto di richiamarsi alla questione del diritto d’autore riconosciuto alla fotografia, ancora di là da venire in quegli anni nel nostro paese, ma di considerare quale fosse il significato e il valore in termini di responsabilità intellettuale sotteso a una pratica di scambio di immagini che molti indizi ci dicono diffusa, anche se ancora poco nota e pochissimo studiata, ma che pare avesse implicazioni quasi esclusivamente commerciali.[15]  In questa prospettiva è ancora utile richiamarsi alle riflessioni di Rosalind Krauss che ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[16]

Un altro elemento problematico relativo ai primi anni della sua attività, riguarda la precoce circolazione delle sue immagini, che derivava credo dalla conquista di un’autorevolezza ben presto riconosciuta se già nel 1859 Domenico Benedetto Gravina, credo per il tramite dello stabilimento litografico Richter di Napoli, a lui si rivolgeva per l’illustrazione del suo Il Duomo di Monreale, certo una delle più rilevanti imprese della prima editoria fotografica italiana.[17] È una collaborazione questa che ci interroga anche sui tempi e sui modi della formazione di Sommer, sul farsi della sua prima cultura visiva come della sua maestria tecnica, per le quali non sembra sufficiente il riferimento all’apprendistato presso lo studio Andreas und Sohn di Francoforte. Certo avranno avuto un qualche rilievo le suggestioni che gli poterono derivare dalla frequentazione di alcuni membri dell’eterogenea colonia tedesca ben radicata a Roma negli anni della sua presenza in città, ma credo vada almeno presa in considerazione la possibilità che in quello stesso periodo abbia avuto contatti coi principali esponenti della Scuola fotografica romana, ancora molto attivi e presenti anche a Napoli, come si è detto, o – almeno – che abbia avuto occasione di conoscere e studiare le loro opere, di buona circolazione quando non addirittura predisposte per la diffusione seriale, come nel caso delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855. Sono domande a cui non siamo per ora in grado di rispondere, ma non per questo meno necessarie, nella convinzione che sia difficile attribuire il suo rapido percorso di formazione al contesto napoletano in cui, a prescindere dal valore discontinuo dei diversi operatori presenti, lui pare essersi proposto da subito quale professionista qualificato, non come un autore in fieri. Non solo: la qualità del lavoro che andava conducendo a Pompei almeno dal 1860, quando il 25 settembre fotografò Garibaldi in visita agli scavi[18], lo propose da subito quale interlocutore privilegiato del neo nominato Direttore del Museo Nazionale Giuseppe Fiorelli, cui si deve la prima applicazione a Pompei dei metodi dell’archeologia moderna, a scavo stratigrafico, e l’utilizzo del metodo della colatura di gesso nelle forme vuote lasciate dai corpi nella lava, di cui Sommer fotografò uno dei primi esiti nel febbraio del 1863[19].

Impronta di un’impronta. Matrice di una matrice sono questi negativi in cui la forma del vuoto lasciato dai corpi annientati dal calore della lava è l’immagine latente che il calco ha rivelato, in un processo concettualmente analogo a quello fotografico. Immagine di un’immagine quindi, ma in modo incommensurabilmente diverso dalla riproduzione di un dipinto, di una scultura o di un reperto. Il calco ha una diversa relazione col tempo; non è il reale che ritorna, ma una sua manifestazione seconda, differita, cui riconosciamo lo statuto di figura, ma che appartiene in maniera radicale e netta al regime dell’impronta, non dell’icona: come le sagome lasciate sui muri dal “vento-lampo della bomba”[20] atomica. Figure non tracciate da mano umana. “Ciò che rappresenta un ostacolo per lo sguardo si ricollega alla  (…) questione dell’impronta: non c’è nulla da guardare perché non c’è invenzione formale, e non c’è invenzione formale perché l’oggetto non è che un prelievo, una riproduzione, una semplice impronta della realtà. Non c’è nulla da guardare perché non c’è abilità, non c’è lavoro artistico, e non c’è lavoro artistico perché c’è solo un calco, un’impronta meccanicamente riproducibile della realtà. Non c’è nulla da guardare, come opera d’arte, perché c’è solo impronta: la non opera per eccellenza”[21], che era appunto ciò che si diceva, l’accusa che era mossa alla fotografia al tempo della sua comparsa e negli anni di Sommer, ancora.

Non considerando i lavori su commissione, l’archeologia – tra Roma e Napoli – sembra essere stata la sua prima area di interesse, cui si aggiunsero ben presto le vedute urbane, pur se non unanimemente apprezzate[22]. Roma, Napoli, di cui realizzò anche un panorama in cinque parti verso il 1865, poi Firenze, Milano (entro il 1869). E Torino, la prima capitale. Insolito soggetto per quegli anni, in cui la città sabauda era descritta quasi solo dai fotografi residenti, se si esclude la luminosa eccezione di Charles Marville[23], e di cui Sommer ci ha offerto una veduta stereoscopica della Contrada di Po e di Via della Zecca che restituisce le qualità prospettiche di questo spazio urbano che poi si sarebbe detto metafisico in maniera tanto più magistrale della già eccellente ripresa contenuta in Turin ancien et moderne, edito da Henri Le Lieure nel 1867. Sono anni questi in cui il suo catalogo si accresce rapidamente e, per la sua parte più connotata e consistente, si trasforma in repertorio iconografico napoletano: archeologia, veduta urbana e “tipi napoletani”, disponibili anche in versione colorata, nel formato carte de visite, destinati a soddisfare la diffusa richiesta del mercato turistico, specialmente nordeuropeo e che proprio per questo si ritrovano con minime variazioni e riprese al limite del plagio anche nel repertorio di altri fotografi attivi  a Napoli, come Giorgio Conrad, Achille Mauri e poi Gustavo Eugenio Chauffourier, in un andirivieni continuo tra grafica e fotografia, con forti influenze della tradizione tutta napoletana delle figurine da presepe. E il Vesuvio allora? Giustamente famosa è la sequenza relativa all’eruzione del 1872, sistematicamente ripresa a intervalli di mezz’ora, adottando una forma narrativa che suggerisce la durata piuttosto che sottolineare l’istantaneità della posa. Un trattamento antipittoresco, che segna uno scarto rispetto alle opere antecedenti relative allo stesso soggetto. La prima immagine nota [2204], in piccolo formato, in una copia firmata Edmond Behles, si riferisce all’eruzione del 1861, ma non è ancora una “vera fotografia”. Si tratta infatti della riproduzione di una stampa, analogamente a quanto accade per la pseudostereoscopia Scesa dal Vesuvio [753], questa firmata “Sommer e Behles Napoli & Roma”, che essendo formata da una coppia di riproduzioni necessariamente identiche mai avrebbe potuto sortire alcun effetto tridimensionale. “Lava con figure” potrebbe essere classificato il soggetto, comune anche a una ripresa stereoscopica [293] e ad altre fotografie successive [2546], così come alle immagini di altri autori, ancora Chauffourier e Mauri[24], che mostrano anche un’analoga se non perfettamente coincidente attrazione per le forme fantastiche, quella stessa che in Sommer accomuna le prime riprese in cui la lava è sontuosamente posta in primo piano [298] a quelle più tarde dei ghiacciai alpini [13307], entrambe forse debitrici della Colata di lava che James Graham fotografò intorno al 1860, utilizzando ancora il negativo di carta.[25]

Catalogo di fotografie d’Italia recita il suo primo titolo, pubblicato nel 1870, dove la geografia dei luoghi progressivamente si amplia, secondo percorsi e movimenti che sarebbe interessante poter seguire nel dettaglio, in particolare per quanto riguarda la Sicilia e altri importanti centri dell’Italia meridionale, soggetti che in parte contribuiranno all’apparato iconografico delle dispense relative agli Studi sui monumenti della Italia meridionale dal IV al XIII secolo che Demetrio Salazar pubblicò a Napoli, presso Richter & C. nel 1871 – 1877. La figura dello studioso risulta importante anche per il ruolo svolto nella fondazione del Museo Artistico Industriale, nel 1882,  con Gaetano Filangieri  e la collaborazione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, che ne fu Direttore,  e Giovanni Tesorone. Prendendo a modello come in altre realizzazioni italiane  il South Kensington Museum, lo scopo della nuova istituzione era quello di divulgare e sviluppare la cultura delle arti applicate nell’Italia meridionale, avviando, accanto al Museo, le Scuole-Officine in cui i giovani potessero ricevere un insegnamento tecnico specializzato nei settori della ceramica come della lavorazione dei metalli e simili. Questo progetto è da porre in relazione anche con la produzione e col fiorente mercato di oggetti artistici e copie cui a diverso titolo si dedicavano molti fotografi napoletani quali Achille Mauri (che vendeva “ceramiche artistiche, collezioni di bronzi e terrecotte, copie del Museo e dei Costumi di Napoli)[26], la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati, che realizzava copie di busti e statue in scagliola col metodo della “scultofotografia”[27] e specialmente Giorgio Sommer, il quale a partire almeno dal Catalogo del 1873 si definiva  “Artiste fabricant de vases etrusques de l’Abruzzi et terre-cuites” reclamizzando “le sue copie di statue, di vetri Riton, di lampade, candelabri, allegorie e ancora vasi fra i più belli conservati al Museo Nazionale di Napoli.”[28]  Questa nuova pubblicazione, nell’anno in cui fu tra i premiati all’Esposizione di Vienna, ma a breve distanza dalla prima edizione, deve essere messa in relazione non solo con l’accresciuto numero di soggetti disponibili, ma anche con la comparsa di temi napoletani nel catalogo Alinari dello stesso anno[29]. La novità dichiarata sin dal titolo era la presenza di immagini di Malta[30], una delle mete più frequentate dai viaggiatori inglesi, ma anche il repertorio italiano si era nel frattempo esteso sino a comprendere i laghi di Como e Maggiore, più un’appendice luganese, con stampe destinate a circolare nella forma dei fogli sciolti o raccolte in album[31]. Napoli è il semplice titolo di quello dedicato “Alla Sezione centrale di Torino [dal]la Sezione di Napoli in occasione del VII Congresso del Club Alpino Italiano”, che si aprì  a Torino il  9 agosto 1874. Dopo l’orgogliosa antiporta con l’ostensione delle “Grandi Medaglie d’Oro” ricevute negli anni precedenti, il frontespizio con la grande “N” ornata di figure costituisce una sintesi iconica e una dichiarazione programmatica a un tempo, con quella barocca iniziale che si staglia su uno sfondo di vegetazione lussureggiante da cui emerge un pino marittimo (La Pina) sullo sfondo del Golfo con Castel dell’Ovo e il Vesuvio fumante[32]. La sequenza dei soggetti, il sommario diremmo, è canonica e la si può ritrovare in altri e successivi esemplari[33]. Apertura con panorama. Il primo è dal Vomero: verso nord, poi a sud. Quindi dalla Certosa di San Martino e – in controcampo, secondo una soluzione cui ricorreva sistematicamente  – dal molo della Stazione marittima. Segue una serie – qui di quattro immagini – dedicata al chiostro e all’interno della chiesa della Certosa, il primo monumento incontrato in questo percorso visuale e quasi materiale di avvicinamento alla città. Di fatto anche l’unico; la sola architettura a essere indagata in quanto tale e non nella sua presenza urbana. Poi si inoltra in città: Piazza del Plebiscito, Marinella, Santa Lucia (ancora campo e controcampo), la Villa Nazionale, Piazza del Municipio, Posillipo e le altre località dei dintorni da Baja a Caserta. La composizione ricorre spesso a un impianto in diagonale, che è un modo per restituire una maggiore profondità prospettica.  Nel leggere il paesaggio dei dintorni di Napoli  Sommer  si richiamava senza soluzioni di continuità – anzi, quasi citando – all’iconografia immediatamente precedente, ma ricorrendo di volta in volta a modelli e fonti differenti, a seconda del tema svolto, secondo il soggetto. Direi che è una modalità comune all’operare di molti grandi studi fotografici: non la definizione spasmodica di uno stile, forse ancora culturalmente inconcepibile,  ma la sapienza e la strategia visiva necessarie per adottare di volta in volta le soluzioni più adatte a inserire la propria produzione in una precisa tradizione iconografica,  giungendo alla formulazione di un discorso qualificato e riconoscibile a un tempo, in cui sovente l’effetto prospettico è accentuato collocando “un oggetto ombrato che facesse da primo piano”[34] ovvero un gruppo di figure, sovente posizionate a sinistra,  figure nel paesaggio che arricchiscono il pittoresco della veduta.  Anche il Vesuvio, certo. Proposto però in modo niente affatto romantico, privo di ogni pur lontana eco di sublime, mostrato anzi in tutta la terribilità della sua forza distruttrice, con le Ruine di San Sebastiano causate dall’eruzione del 1872, seguite da un’immagine tratta dalla ben nota sequenza. Poi: le ceneri che ne rimasero. Un’illustrazione che si potrebbe dire esauriente se non completa, da cui però risulta clamorosamente assente ogni riferimento ai pittoreschi stereotipi delle figure popolane cui tanta attenzione aveva dedicato nel decennio precedente, mentre ancora manca qualsiasi ripresa ‘dal vero’ della varia umanità che animava le strade di Napoli. Solo, al fondo, unica concessione a un pittoresco ormai in crisi come argomento e modalità di racconto, la riproduzione di una popolare litografia raffigurante il Calesse per Resina e la riproposizione dell’icona fotografica dei Mangiamaccheroni: quasi un atto dovuto. Singolare l’immagine dedicata all’interno del Teatro San Carlo, palese riproduzione di una grafica, forse una litografia, certo neppure tratta a sua volta da una ripresa fotografica, come dimostra non tanto la presenza della folla degli spettatori quanto l’incerta resa prospettica dello spazio[35]. Analoga soluzione era adottata per raffigurare altri interni ‘difficili’ come la Grotta di Pozzuoli  e la Grotta Azzurra , riproducendo un repertorio di figure cui negli stessi anni facevano ricorso anche altri fotografi come Chauffourier (Pozzuoli) e Mauri (Teatro San Carlo)[36]. L’insieme raccolto in questo album, ben rappresentativo del suo repertorio, mi pare sia l’ulteriore conferma di come sia quasi una forzatura collocare Sommer tra i fotografi di architettura o di riproduzione di opere d’arte, mentre invece i suo generi preferiti erano la veduta urbana, il paesaggio e in misura minore il costume, in ciò distinguendosi dalla linea Alinari, Anderson e simili.

La visita al suo studio in quello stesso anno da parte di Edward Livingston Wilson, fondatore e editore di “The Philadelphia Photographer”[37], il solo periodico fotografico professionale pubblicato all’epoca negli Stati Uniti,  certifica la notorietà del fotografo in una città che conta ormai quasi cento studi attivi, confermata anche dalla frequente pubblicazione di sue immagini su periodici internazionali, sebbene ancora nella forma del disegno o dell’incisione “d’apres une photographie”.[38]  A questa ormai consolidata posizione di prestigio si deve forse la commessa da parte della Società La Ferrovia Funicolare del Vesuvio  per la realizzazione di una ricca documentazione del nuovo impianto, pubblicata nel 1881 in “un piccolo ma raffinatissimo volumetto”[39], cui certo fece seguito una campagna autonoma realizzata nel 1886 dopo la sostituzione delle due prime vetture con un nuovo modello a fiancate aperte, puntualmente registrata nel catalogo edito in quello stesso anno. Questo incarico, con le relazioni che sottende e lascia intuire, potrebbe aver costituito un punto nodale per lo sviluppo di alcuni progetti successivi, in particolare quelli legati alla documentazione di alcune strade ferrate svizzere di diversa rilevanza ma di analoga notorietà turistica internazionale, quali la ferrovia del Gottardo e le due brevi linee che dai dintorni di Lucerna portavano al Monte Rigi e al Monte Pilatus. L’impresa della Funicolare vedeva infatti coinvolte figure ben inserite in una rete complessa di rapporti internazionali di tipo finanziario e industriale, come l’imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, azionista di numerose società di costruzioni ferro-tranviarie presenti ad esempio anche in Lombardia, ed Enrico Treiber, progettista e direttore dei lavori, in relazione per il tramite della sorella Clara, a sua volta parente del segretario generale di una compagnia ferroviaria tedesca,  con la famiglia Pallme[40], attiva a Napoli nel commercio e nella produzione di vetri intagliati e ceramiche. Nulla più che una suggestione per ora. Come escludere però che questa possa essere stata la via che portò Sommer a divenire socio della Mittelschweizerischen Geographisch Commerciellen Gesellschaft [Società Geografico Commerciale della Svizzera centrale] di Aarau, fondata nel 1884, che aveva tra i propri scopi statutari quello di istituire un vero e proprio “Museo fotografico.  Fotografie di paesaggi,  città, porti, villaggi, templi, palazzi, case, monumenti, opere d’arte, statue, dipinti. Immagini di tipi e costumi, queste ultime possibilmente colorate. Vegetazione, frutta e immagini di animali. Navi, veicoli e macchinari di ogni tipo. Fotografie stereoscopiche. Grafica pubblicitaria e oggetti etnografici. Chiediamo che tutte le fotografie,  se possibile, non siano montate, così come tutte le singole immagini di grande formato. Sono benvenute anche incisioni su acciaio e rame, fototipie e cromolitografie, xilografie e litografie.”[41]

All’iniziativa di questo sodalizio potrebbe riferirsi la serie fotografica relativa alla ferrovia del Gottardo, realizzata certo dopo la conclusione dei lavori e immediatamente resa nota nel catalogo del 1886[42], mentre fu lo studio Adolphe Braun & C.ie di Dornach[43] a documentare il cantiere sino alla messa in esercizio della linea il primo giugno 1882, illustrando con grande attenzione non solo le opere strutturali (ponti e gallerie) ma anche i macchinari utilizzati e gli impianti di servizio. Il confronto tra le due serie fotografiche mostra, al di là delle differenti intenzioni, il riproporsi di scelte che paiono obbligate: non solo i luoghi sono necessariamente gli stessi (gli stessi anche delle innumerevoli guide che seguiranno[44]), ma sovente coincidevano anche i punti di vista, quelli che consentivano non di distinguersi rispetto al lavoro di altri Studi ma di mostrare nella maniera più efficace lo stupefacente andamento della linea ferroviaria, le sue andate e ritorni, le gallerie. Ma Sommer non li descrive per sé. Non gli interessa l’ingegneria civile dei ponti e dei viadotti,  ma il loro inserimento quasi naturale nel paesaggio alpino, cui si aggiunge così un di più di meraviglia.  L’andamento delle immagini raccolte nell’album Souvenir de la Suisse è strutturato secondo il percorso della ferrovia, con una direzione certo non casuale da nord a sud (quasi un invito), in cui accanto ai punti più significativi o spettacolari del tracciato si illustrano le strutture ricettive più importanti, come l’Hotel Bellevue di Andermatt, ripreso anche da Braun, secondo la consuetudine di molta fotografia alpina della seconda metà del XIX secolo.[45] La documentazione di questa ferrovia costituì per Sommer una prima occasione per fotografare non solo Lucerna e il Lago dei Quattro Cantoni, che ne costituivano la destinazione svizzera, ma anche le montagne del Vallese e dell’Oberland Bernese[46]; luoghi in cui sarebbe tornato ancora negli anni successivi e per almeno un decennio per arricchire il catalogo di nuovi soggetti, come quelli dedicati alla Pilatusbahn [n. 13535] e alla Wengeralpbahn [n. 14300], aggiornando in molti casi riprese già presenti in catalogo, regolarmente ripetute confermando punto di vista e angolo di ripresa, secondo una modalità operativa ormai ampiamente consolidata.

Rispetto alla sua produzione antecedente, la novità di queste fotografie svizzere sta più nei soggetti che nei modi: mentre per Napoli e dintorni l’adesione alla richiesta culturale, e quindi commerciale, si traduceva in una generale accentuazione del pittoresco, qui l’attenzione era rivolta al paesaggio trasformato dalla modernità. Fedele ai modelli narrativi utilizzati per circa trent’anni, la veduta, lo sguardo d’insieme prevalgono sulla ripresa propriamente architettonica. Anzi, proprio la volontà di sottolineare le relazioni tra i diversi elementi costituenti la scena urbana, di segnalare visualmente le connessioni tra emergenze e tessuto, e questo e quelle col paesaggio e l’orografia sembra essere l’elemento caratterizzante del suo lavoro, cui si aggiunge una costante sistematicità. Nella progressione ottica delle riprese, dal generale al particolare, come nella scansione spaziale di avvicinamento al soggetto che suggeriscono (o consentono di ricostruire) un percorso di avvicinamento, lo spazio e il tempo di un viaggio. Si veda la bella serie realizzata intorno al Vierwaldstättersee in cui il segno luminoso del campanile di Fluelen emerge progressivamente dal fondo della veduta come un’epifania, sino a collocarsi in asse perfetto con la cima del Bristenstock sullo sfondo; poi, con uno scarto netto, l’attracco del traghetto al molo della stessa località, con un’immagine che Bruno Munari avrebbe potuto scegliere per le sue Fotocronache.[47] È nelle possibilità di questo impianto narrativo che mi pare di poter leggere la novità, importante, di queste realizzazioni, non,  ad esempio, nella scelta del punto di vista e nel taglio dell’inquadratura, che molte volte ripropongono schemi consolidati, citando quasi letteralmente esempi antecedenti, come accade proprio con alcune immagini di Lucerna e dintorni, in cui è evidente il richiamo alle fotografia dei bernesi Fratelli Charnaux, che avevano ampia circolazione anche in cartolina.

Le riprese relative alla Svizzera formano due serie distinte, la cui numerazione, almeno in questo caso[48] riflette una cronologia. La prima, numerata intorno al 12100-12500, è  coeva alle riprese del Gottardo,  cioè databile agli anni 1882-1885, mentre la successiva (nn. 13100-13700) data almeno al 1889.[49] L’occasione per il ritorno credo possa essere individuata nella conclusione dei lavori della ferrovia del Monte Pilatus (1889), che costituiva – accanto a quella del Rigi – una grande attrazione turistica[50], come confermano i soggetti offerti dal Diorama Meyer, a Lucerna in Zürichstrasse. Lo spettacolo offriva quattro vedute: il panorama dalla sommità del Rigi,  la veduta della ferrovia del Rigi e i panorami dal Pilatus e dal Gornergrat con “rappresentazioni degli effetti luminosi di mattina e sera. Somiglianza perfetta di grandi proporzioni. Ogni rappresentazione di 25-40 metri ca. è il miglior risarcimento per i turisti in caso di tempo cattivo e il miglior ricordo delle vedute alpine.”[51] Con un buon secolo di anticipo lo spettatore si ritrovava inconsapevolmente immerso nella condizione postmoderna della società del simulacro: “I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dì nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia. I paesi, grazie a questi due portati della civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v’è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato, fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti ed ignorati! Tutto quanto si vede è già cosi conosciuto! già così saputo! già così veduto!”[52]

Sono quelli gli anni in cui il figlio Edmondo iniziava a collaborare col padre, sino alla costituzione di una vera e propria società nel gennaio del 1889, e certo si dovrà tenere conto nell’attribuzione delle fotografie realizzate dopo questa data delle condizioni stabilite dal contratto, che prevedeva che il figlio dovesse “viaggiare per smaltire i prodotti dell’azienda e per formare le collezioni di vedute.”[53] Il successo internazionale della Ditta Giorgio Sommer e Figlio venne ribadito dall’assegnazione del Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 e dalla crescente diffusione di loro fotografie su pubblicazioni locali e internazionali[54], mentre i cataloghi di vendita, ancora nel 1914 distinguevano tra “Grand Etablissement Photographique/ sous la direction de Mr. Giorgio Sommer” e  “Grande Fonderie Artistique en Bronze (…) sous la direction du Chev. Edmondo Sommer”: una complessa attività che si muoveva sul crinale sottile che distingue produzione e riproduzione e che ancora attende di essere compiutamente indagata.

 

Note

[1] “These are but a few of the proofs  that could be brought  forward of the wide dissemination of the new agent, and of the various modes of its reception (…) for while our Queen has sent out a complete photographic apparatus for the use of the King of Siam, the King of Naples alone, of the whole civilised world, has forbidden the practice of the works of light in his dominions!”. L’articolo Photography, comparve anonimo in “The London Quarterly review”, 101 (1857), January – April, pp. 241-255 (243) per essere successivamente attribuito a Elisabeth Rigby Eastlake (1809-1893), in più occasioni fotografata da Hill & Adamson,  moglie di Charles Eastlake, Direttore della National Gallery e primo presidente della Photographic Society of London (ora Royal Photographic Society of Great Britain). Il saggio venne riproposto anche in Beamont Newhall, ed.,  Photography: Essays and Images,. London: Secker &  Warburg, 1980, pp. pp. 81-95 (84), ma citando in modo impreciso la fonte, oggi consultabile integralmente mediante il browser Google Books. Per il dibattito napoletano intorno alle nuove scoperte si veda Giovanni Fiorentino, Tanta di luce meraviglia arcana. Origini della fotografia a Napoli. Sorrento: Franco Di Mauro Editore, 1992, che rappresenta un indispensabile riferimento per la ricostruzione del contesto delle origini della fotografia in questa città. Rilievo ben maggiore ebbe la Relazione intorno al dagherrotipo presentata da Macedonio  Melloni alla Regia Accademia delle Scienze nella seduta del 12 novembre 1839 e più volte ristampata nei mesi successivi a Napoli, a Parma, a Roma e persino a Parigi, con traduzione di Alfred Donné; cfr. Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839/ 1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 88-89. La Relazione è stata ripubblicata integralmente in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212-232.

[2] Cfr. Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in M. Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia, 1857-1891. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11-32, a cui si rimanda anche per la definizione del quadro generale della biografia, non solo professionale del fotografo. Si veda anche Giovanni Fanelli, L’ Italia virata all’oro  attraverso le fotografie di Giorgio Sommer.  Firenze: Pagliai Polistampa, 2007.

[3] Ancora in anni recenti si è affermato che “benché le prime tecniche di riproduzione fotografica (…) fossero state recepite immediatamente dagli ambienti scientifici napoletani, ciò non ha riscontro in una corrispondente attività di professionisti o dilettanti locali.”, Daniela del Pesco, Fotografia e scena urbana fra artigianato e industria culturale, in Giuseppe Galasso, Mariantonietta Picone Petrusa, D. del Pesco, Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento. Napoli: Gaetano Macchiaroli Editore, 1981, pp. 65-107 (67).

[4] Già Ugo di Pace aveva ritrovato al Museo di San Martino una lettera di Talbot a Tenore datata 29 gennaio 1840, Cfr. U. di Pace, …E Napoli scoprì la foto, “Paese Sera”, Napoli, 3 dicembre 1982, p. 15. La corrispondenza di Talbot è stata digitalizzata e trascritta nell’ambito del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot (d’ora in poi TCP), consultabile all’indirizzo http://foxtalbot.dmu.ac.uk/letters/letters.html [25-01-2011].

[5] “Il Lucifero”, 2 (1839), n. 43, 4 dicembre, p. 443, citato in Fiorentino 1992, p. 43 passim.

[6] A. De. L., Nuovo metodo per la pittura fotogenica, “Salvator Rosa”, 1 (1839),  n. 20, 24 marzo, pp. 154-155, citato in Fiorentino 1992, p. 31, che ha identificato l’autore in Achille de Lauzières, il quale mostrava così una precoce comprensione di quella linea che avrebbe collocato il dagherrotipo, e poi la fotografia nella consolidata tradizione di quel paesaggismo napoletano che proprio sull’oleografia dei luoghi e dei costumi avrebbe fondato la propria fortuna ancora per almeno due secoli a venire.

[7] Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie, in L’Italia d’argento. 1839/ 1859 Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003, pp. 252-255.

[8] Per la ricostruzione delle presenza napoletane di fotografi calotipisti si rimanda ai saggi e alle opere pubblicate in Éloge du negatif. Les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862), catalogo della mostra (Parigi – Firenze, 2010). Paris: Paris Musées, 2010. Per l’attività di Calvert Jones cfr. la lettera di Bridges a Talbot del 23 aprile 1846, in TCP n. 5632.

[9] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie, in Éloge du negatif 2010, pp. 25-35 (35, nota 45) in cui ricorda un calotipo di Lecchi relativo alla Casa del Fornaio di Pompei, firmato e datato 1846, che costituisce a oggi il più antico calotipo noto di autore italiano.  G.W. Bridges scriveva a Talbot:  “In Naples I met with a Sig. Lechie [sic], a Milanese – who is teaching the art at 600 francs – one only lesson: – a poor Optician in Toledo, paid that sum – & by some means obtained the whole process in writing: – from him I have it & have seen some very superior negative & possitives worked by it: – but have yet been too ill to try it myself. I give you the copy overleaf (…) Lechie’s skies are perfect – & he succeeds on paper of very inferior quality – no spots seeming to appear, or injure the process. (…) Certainly some few of his specimens are more perfect in detail than any I have seen – He is employed now by the King of Naples in copying at Pompeii – but I have some 4 or 5 taken there equal to his. – His advantage seems to be that he makes use of any inferior paper, & is more certain of good productions. – I saw him take 14 one morning at Pompeii without one failure.” (28 Aug 1847 , TCP n. 5985). Lo stesso Bridges si riprometteva di realizzare “a few [copies] which I shall take to the King of Naples, (of Pompeii) – who is infinitely pleased even with the negatives – especially those of the frescoes lately discovered” (lettera del 23 maggio 1847, TCP n. 5951).  Il nome di Lecchi era già noto a Talbot per il tramite di  Calvert Jones: “At Lyons, Avignon, and Marseilles I saw some Photographs which the Shopkeepers at the houses where they were exposed, represented as being paper Dags, but which, from certain identical stains on different copies, I discovered to be a kind of Talbotype; they appeared to be quickly done, as several figures appeared. They were done by an Italian, named Leuchi, who is prepared to reveal his method whenever a certain number (how many I know not) of persons shall have agreed to give him 100 francs each: I did not see him, but all the Photographers I have met with are delighted with my paper specimens.” (lettera del 1 dicembre 1845 , TCP n. 05453).

[10] Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, “Quaderni della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte”, 2. Torino: Provincia di Torino, 1998, cat. 41. Ben oltre gli anni in cui si iniziava a utilizzare il negativo di vetro Gustave de Beaucorps, realizzò ancora una serie di vedute al calotipo del Golfo di Napoli, una di Ischia e una di Ravello, datate  1859, cfr. Éloge du negatif 2010, pp. 40-41, 171, 173.

[11] Miraglia 1992, p. 18.

[12] Cfr. lettera di Leopoldo Alinari a Ernest Becker del 15 giugno 1858, in Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003, p. 129.

[13] Sino al 1862 avrebbe realizzato più di 1.000 ritratti, vale a dire una media di circa 200 ritratti l’anno, dato che può indicare non solo la sua riconosciuta abilità nel genere, ma anche la scarsità di alternative professionali locali. Per quanto riguarda la definizione dell’arco cronologico in cui Sommer si sarebbe dedicato a questo genere, che molti propendono a considerare conchiuso proprio nei primi anni Sessanta,  ricordiamo che il suo ben noto n. 11601 – Bersagliere, pubblicato in Miraglia 1992, p. 17 è datato “post 1873”, sebbene proprio la titolazione faccia propendere per una sua interpretazione come figura piuttosto che come ritratto, come conferma anche Fanelli 2007, p. 35, che ricorda come Il Bersagliere fosse compreso nella sezione “Costumi” del Catalogo del 1886. Quanto alle stereoscopie, la cui produzione secondo alcuni fu limitata allo stesso periodo,  si può affermare sulla base delle immagini note che proseguì almeno sino al 1880, data di realizzazione della serie dedicata alla Funicolare vesuviana.

[14] Pur senza pretendere di dirimere le questioni relative alla cronologia della collaborazione tra Sommer e Behles (questo fu, quasi sempre, l’ordine di citazione sui cartoni di supporto) proviamo a riordinare i dati sino ad ora resi disponibili dalle fonti bibliografiche: l’avvio del loro rapporto professionale, che Miraglia 1992 pone al 1857, andrà forse spostato al 1860, anno in cui Behles giunse a Roma (Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983,  ad vocem), se non addirittura oltre, considerando che una richiesta avanzata ai Musei vaticani per fotografare alcune sculture, datata 2 luglio 1863, venne firmata dal solo Sommer, mentre la successiva, datata 20 settembre 1864, fu sottoscritta da entrambi; si veda a questo proposito l’attenta ricostruzione fatta da Maria Francesca Bonetti, Giorgio Sommer – Edmondo Behles, Laocoonte, 1863-1867 , in Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007). Roma: L’Erma di Bretschneider, 2006, sch. n. 87, pp. 190-191. Ancora nel 1867 i due fotografi firmarono congiuntamente un’analoga domanda, mentre furono premiati separatamente all’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno (Miraglia 1992, p.31, nota 84.) Pare quindi ragionevole sostenere che la separazione dovette compiersi in quel periodo, e comunque prima del 1870, anno in cui Sommer pubblicò il suo primo catalogo. A ulteriore conferma si ricorda che nel 1871 fu il solo Behles, con cui i rapporti dovettero restare ottimi se Sommer chiamerà il figlio Edmondo, a inoltrare una nuova richiesta di autorizzazione per fotografare nei Musei Vaticani (Bonetti 2006).

[15] Già Miraglia 1992 aveva segnalato i rapporti commerciali di Sommer con Celestino Degoix a Genova e  Carlo Ponti a Venezia, ma vogliamo qui ricordare almeno la proposta ben più tarda (a suo tempo ricordata dalla stessa studiosa) avanzata da Achille Mauri sulle pagine de “La Camera Oscura” nel 1883 in cui chiedeva “ai vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale”,  Mariantonietta Picone Petrusa, Linguaggio fotografico e «generi» pittorici, in Galasso, Picone Petrusa, Del Pesco, 1981, pp. 21-63 (60, nota 175). Altra invece la questione delle copie illecite e delle contraffazioni, di cui pure è ricca la vicenda professionale di  Sommer e di altri fotografi napoletani, per la quale si rimanda alla stessa fonte.

[16] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48. Va inoltre immediatamente posta una questione che qui non possiamo che limitarci a formulare: si dice Sommer come si direbbe Alinari o Brogi, proponendo un’indicazione di responsabilità che non sempre e necessariamente può aver coinciso con l’effettivo operatore, ma che deve semmai essere intesa quale adesione a una linea interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio. Ancora troppo poco sappiamo dell’organizzazione del lavoro degli studi fotografici di medie e grandi dimensioni per procedere oltre in questo percorso, che dovrà prima o poi essere avviato, pena l’incomprensione critica non solo dell’effettiva cultura fotografica di questi operatori ma anche delle modalità della costituzione di quell’iconografia dei luoghi che ha determinato l’immaginario del Bel Paese.

[17] Domenico Benedetto Gravina, Il duomo di Monreale  illustrato e riportato in tavole cromo litografiche. Palermo: Stab. tipogr. di F. Lao, 1859-1869; nuova edizione con riproduzione integrale dell’originale del 1869: Caltanissetta: Lussografica, 2007.

[18]  Del Pesco 1981, p. 74.

[19] Stephen L. Dyson, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries. New Haven, CT:  Yale University Press, 2006, p. 48.

[20] Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra,. Milano: Bruno Mondadori, 2010, p. 121.

[21] Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009, pp. 17-18, che costituisce la riedizione in forma di saggio  del catalogo della mostra L’empreinte, curata dallo stesso Didi-Huberman nel 1997 presso il Centre Pompidou di Parigi. Particolarmente ricca di suggestioni è la lettura in parallelo dei saggi di Bailly e Didi-Huberman.

[22] Secondo la “Photographische Correspondenz”, 1865, p. 306 queste erano considerate “eccessivamente dure e tecnicamente al limite dell’errore”, citata in Miraglia, 1992 n.54 p. 29.

[23] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, [s.d.], in Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp. 37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p. 334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando “Charles François Bossu, dit Marville artiste photographe”, era in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie” ed è oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di riproduzione dei disegni della stessa Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese torinesi potrebbe essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville  si qualificava come “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, dicitura che ritroviamo sui cartoni di queste stampe, solo fino al 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori. La rivelazione del vero nome di Marville si deve a Sarah Kennel, conservatrice presso la National Gallery di Washington, che sta preparando una mostra monografica a lui dedicata.

[24] Picone Petrusa, 1981, tavv. 237, 245; Achille Mauri fotografo di Sua Maestà, catalogo della mostra (Bari,  2009–2010),  a cura di Clara Gelao. Firenze: Alinari 24 Ore, 2009, tav. 190.

[25] James Graham, Vesuvius. Lava of 1858-60 near the Observatory,  albumina, pubblicata in  Éloge du negatif, p. 195.

[26] Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo, in Achille Mauri fotografo 2009, pp. 19-31. (p. 30 nota 35).

[27] Del Pesco, 1981, p. 98 n. 44.

[28] Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981, p. V. Le relazioni tra le diverse attività di Sommer sono ancora, mi pare, tutte da datare con precisione e soprattutto da studiare, ponendo in relazione l’accrescimento del catalogo di fotografie con la produzione di bronzetti e simili che avrebbe avuto “un eccezionale incremento fra il 1879 e il 1886, tanto è vero che nel catalogo a stampa di quell’anno Sommer faceva precedere l’elenco delle proprie fotografie da un soggettario di ben 245 bronzi.” Miraglia 1992 p. 28 nota 52. Dal Catalogo del 1914 (Del Pesco 1981, p. 73) si ricava come oltre alla vendita di fotografie (anche al carbone, al platino e colorate) e diapositive, la ditta forniva cromolitografie di propria edizione, acquarelli, guache e dipinti a olio di Napoli, Pompei e dintorni. Veniva inoltre offerto un servizio completo di sviluppo e stampa di lastre e pellicole Kodak, di cui era rivenditore. Se a queste si aggiungono le attività della fonderia, dell’atelier di scultura, dei calchi in gesso, delle copie in argento e delle terrecotte, si ha un’immagine ben definita di un’azienda di medie dimensioni con una produzione molto diversificata, le cui diverse attività pare difficile poter separare. Una selezione di opere della Fonderia Sommer è visibile all’indirizzo  http://www.annona.de/alben/Sommer%20Bronze/ (8-2-2011).

[29] Catalogo generale delle riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari. Firenze: Barbera, 1873.

[30] Giorgio Sommer, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta.  Napoli: Rocco, 1873, che risulta essere il solo catalogo di uno stabilimento fotografico registrato nel repertorio di  Attilio Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899. Milano: Associazione tipografico-libraria italiana, 1901-1905, ad vocem.

[31] L’enorme diffusione delle stampe Sommer è confermata ancora oggi dalla presenza di numerosissimi esemplari non solo in collezioni pubbliche e private, ma anche dalla frequenza di presentazione in asta di fogli singoli e di album. Alla fine del decennio è databile, ad esempio, il bellissimo album Italia, con 130 albumine nel formato 21×27, presente nelle collezioni della Biblioteca Storica della Provincia di Torino, che apre proprio con Lugano e il Lago Maggiore, poi Como e Milano, Pavia e Torino (con veduta da Villa della Regina ante 1863), Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze (ante 1876), Pisa, Siena, Orvieto, Assisi, Tivoli, Roma, Napoli, Baja, Amalfi, Caserta, Paestum, i Mangiamaccheroni, Pompei, un calco datato 1873 (n. 1279), Palermo, Monreale, Messina, Taormina, Siracusa, mentre la chiusa è affidata al tempio della Concordia di Agrigento. Un album di viaggio per stranieri, tedeschi e svizzeri direi: che apre coi laghi e chiude con l’archeologia siciliana.

[32] L’esame delle litografie che ornavano al verso i cartoni di supporto e che venivano riprodotte fotograficamente nei frontespizi dei diversi album mostra  quale fosse la varietà delle soluzioni grafiche di volta in volta utilizzate.

[33] Si veda ad esempio l’album Napoli conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, realizzato tra 1880 e 1887, che consente di esprimere alcune considerazioni rispetto ai modi operativi di Sommer, in particolare per quanto riguarda le varianti di ripresa, rispetto alle quali, oltre all’ovvia peculiarità delle riprese stereoscopiche, si nota come la posizione del punto di ripresa restasse identica nel passaggio da un formato all’altro; solo da alcuni mutamenti nella scena, solo dalle diversità del referente si comprende la distanza, per quanto minima di tempo intercorso tra uno scatto e l’altro: quello necessario a sostituire gli apparecchi sull’immobile cavalletto (cfr. Ischia, 1880 ca, n. 1187 nel 20/25, n. 5232 nel 10/15), mentre le focali dovevano essere diverse, con un angolo di ripresa più ampio per il formato minore (cfr. Funicolare del Vesuvio n. 5231 nel 10/15, n. 8120 nel 20/25). Anche nella consueta pratica dell’aggiornamento delle riprese (non del repertorio), ritornando a distanza di tempo sullo stesso soggetto, i modi  restano immutati, nella fedeltà a un canone che pare indiscutibile e stabilito da tempo. Si considerino due versioni di una delle più note immagini della serie dedicata al Grand Hotel di Amalfi, già convento dei Cappuccini, dove la seconda (n. 2996, post 1891) ricalca pedissequamente  la prima (n. 2013, 1870 ca.) conservando identici i dati di ripresa (punto di vista, focale, ora e periodo dell’anno, come si evince dallo studio delle ombre portate)  con la sola variante dei due ospiti al tavolino, mentre è inevitabilmente cresciuta la yucca in secondo piano. Della versione, in verticale, appartenente all’album 1874, si ricorderanno gli Alinari (n. 11480, ante 1896) collocando però una graziosa popolana al posto del frate (Quintavalle 2003, p. 300). Analogo discorso può essere fatto per 1202 Foro civile (Pompei), 1881 ante, di cui è nota  una variante con inquadratura da un punto un poco più elevato e lievemente spostata a sinistra, con aggiunta del pennacchio al vulcano, ma di cui esiste anche una ripresa precedente, 1870 ca, effettuata dallo stesso punto e con le stesse condizioni di luce, che si distingue solo per la presenza di un uomo in cilindro poggiato al basamento. A proposito di questa pratica, comune del resto a tutti i grandi studi fotografici coevi,  è stato giustamente notato che “si determina una griglia che è sempre adattabile a nuovi eventi e quindi costantemente aperta. Insomma è come se dentro lo schema (…) si potessero sempre inserire nuove edizioni, diciamo così, del loro simbolico documento archeologico per immagini, e anche per questo forse, la necessità di cambiare gli scatti che si sono fatti in passato con scatti nuovi viene considerata come un dato di fatto normale.” Quintavalle 2003, p. 212.

[34] Luigi Delàtre, Le fotografie dei fratelli Alinari, “Monitore Toscano”, 8 (1855), 30 marzo, citato in Quintavalle 2003, p. 98.

[35] Soluzione analoga a quella adottata alcuni anni prima per la stereoscopia n. 876 dedicata al  Teatro della Scala – Milano, datata al verso 1869.

[36] Per Achille Mauri 19 – Interno del Teatro San Carlo, cfr. Achille Mauri fotografo 2009, p. 33 in basso. Non può però essere questa l’immagine che fu oggetto del processo intentato da Mauri nel 1903 alla ditta Richter di Napoli e al fotografo Giorgio Sternfeld di Venezia per la contraffazione della sua ripresa (poi ritoccata) del 1894, come si afferma in Leonardi 2009, p. 28. Per la ricostruzione degli elementi salienti della vicenda cfr. Elvira Puorto, Fotografia fra arte e storia: il Bullettino della Società fotografica italiana (1889 -1914). Napoli: A. Guida, 1996, pp. 69-71. Della Grotta Azzurra di Sommer sono note, oltre a una variante colorata a mano (n. 2217) una pseudostereoscopia (n. 243) firmata ancora Sommer & Behles.

[37] “A Napoli il maggior produttore (di fotografie) è il Sig. Sommer [che] ha delle sale di vendita molto vaste in una delle principali strade, in cui è realizzata un’esposizione molto bella. [Il suo stabilimento] è fornito di tutti i requisiti necessari a ottenere risultati ottimi in ogni quantità.”. Il testo, reso noto per la prima volta da Van Deren Coke, Giorgio Sommer, “Bulletin of the University Art Museum”, n. 9 (1975-1976). Albuquerque: University of New Mexico, è stato a suo tempo ripreso da Palazzoli 1981, p. VI, che qualificava però Wilson come un generico “viaggiatore americano”.  Di questo autorevole encomio mi piace sottolineare quel richiamo alla “quantità” che ben sintetizza l’orizzonte produttivo e commerciale in cui si collocava l’attività della Casa Sommer.

[38]Pres de Sorrente. – Dessin de A. de Bar, d’apres une photographie de Giorgio Sommer”, “Magazin Pictoresque”, 42 (1878) tratto dalla stampa n. 1153 – Vallate di Sorrento.

[39] Miraglia 1992 p. 29 nota 60.

[40] Roberto, figlio di Clara Treiber e Franz Josef Pallme, è stato un grande appassionato ed esperto di cinema muto. La sua collezione è oggi conservata alla George Eastman House – International Museum of Photography and Film di Rochester, mentre la raccolta di proiettori cinematografici, radio e strumenti scientifici costituisce il Fondo Roberto Pallme presso la  Fondazione Micheletti di Brescia.

[41] Cfr. Statuten der Mittelschweizerischen Geographisch-Commerciellen Gesellschaft, „Fernschau“,  1 (1886), pp. XV-XVI. La Società Geografico-Commerciale della Svizzera centrale, fu attiva dal 1884 al 1905. Per la ricostruzione delle vicende di questa collezione si rimanda a Fernschau: global: ein Fotomuseum erklärt die Welt (1885–1905), catalogo della mostra (Aarau, Forum Schlossplatz, 2006), Markus Schürpf, hrg. Baden: Hier + jetzt Verlag für Kultur und Geschichte, 2006, e più in particolare al saggio di Ricabeth Steiger, Fotografieren als Geschäft: die Reportagen und Reisebilder von Giorgio Sommer, ivi, pp. 72-79. L’iniziativa di questa Società va inquadrata nel più ampio dibattito tardo ottocentesco sulle funzioni dei Musei fotografici documentari che interessava in quegli anni tutti i paesi europei, Confederazione Elvetica compresa, oltre agli Stati Uniti.

[42] Giorgio Sommer, fotografo di S.M. il Re d’Italia, Largo Vittoria, Napoli, Palazzo Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia, Malta e Ferrovie del Gottardo. Napoli: Tipografia A. Trani, 1886.

[43] Cfr. Maureen C. O’ Brien, Mary Bergstein, eds., Image et Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000 oltre che, nello specifico, Kurt Zurfluh, Gotthard: als die Bahn gebaut wurde. Zürich: Offizin, 2003, in cui è pubblicata parte della campagna fotografica della Ditta Adolphe Braun, certamente non realizzata dal titolare, morto nel 1877, conservata presso la Collezione Walter Reinert di Lucerna. Le riprese vennero utilizzate per la pubblicazione delle Photographische Ansichten der Gottardbahn, Photographien von Ad. Braun & Cie. Dornach im Elsass, 1882 ca., di cui sono note diverse edizioni con un numero di tavole compreso tra 44 e 77, tra le quali un panorama in quattro parti.

[44] La funzione di attrazione turistica della nuova infrastruttura è confermata dalle innumerevoli guide pubblicate negli anni immediatamente successivi alla sua apertura, non di rado illustrate con incisioni tratte da fotografie, anche di Sommer: Woldemar Kaden, La ferrovia del Gottardo ed i suoi dintorni. Bellinzona: C. Salvoni, s.d. [1882 post]; Jakob Hardmeyer,  Die Gotthardbahn, mit 48 Illustrationen von J. Weber. Zurich: Orell Fussli & co, s.d.[1886 ca]; Guide-album illustrée du chemin de fer du Gothard. Milano: Administration de Guide-Album du Gothard, s.d. [1890]; George L. Catlin, A travers les Alpes par le chemin de fer du Saint-Gothard. Zurich: Art Institut Orell Fussli, 1900; Edmondo Brusoni, Da Milano a Lucerna: guida itinerario descrittiva della ferrovia del Gottardo, dei Tre Laghi, del Lago dei Quattro Cantoni e del Canton Ticino.  Bellinzona: Colombi e C. editori, 1901. A titolo esemplificativo segnaliamo come la ripresa n. 12130 – Amsteg, venne ripresa in Catlin p. 21 e Guide-album p. 27, la n.12164 – Bellinzona è stata la fonte per Catlin p. 34 e Guide-album p. 45, in cui vennero pubblicate anche n. 12127 – Fluelen p. 21, n. 12242 – Goeschenen  p. 33 e n. 12291 – Hospenthal  p. 68, mentre a p. 15 è pubblicata Arth Goldau di Braun. Il confronto tra le diverse immagini costituenti l’apparato illustrativo di queste guide, tutte incisioni tratte alternativamente da fotografie (pubblicate rigorosamente anonime) e da schizzi dal vero, mostra come ai due media originari corrisponda una diversa intenzione narrativa: l’adozione di una impaginazione verticale per le immagini disegnate risulta più efficace nella  restituzione del contesto “orrido e sublime”, mentre  sia Braun che Sommer escludevano il cielo e i profili delle montagne per concentrarsi il più possibile sulla presenza dei manufatti nel paesaggio in campo medio. Un vivace resoconto, certo debitore dell’immaginario romanzesco di Jules Verne, così descriveva un viaggio notturno su questa linea: “ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c’è più : si ha l’impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra. Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un’acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili.  Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all’orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota….. Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l’oscurità. Giù in  fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un’enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d’autunno, non ancora svegliato dall’alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.”, Ernesto Ragazzoni, Istantanee svizzere, “La Stampa”, 8 (1902), n. 213, 3 agosto, pp. 1-2 (1).

[45] Aldo Audisio, P. Cavanna, Emanuela De Rege di Donato, Fotografie delle montagne. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2009.

[46] Le montagne e i ghiacciai della regione furono oggetto di una prima campagna fotografica realizzata dai Fratelli Bisson,  presentata con grande successo all’Esposizione di Parigi del 1855; cfr. Les Frères Bisson photographes. De flèche en cime 1840-1870, catalogo della mostra (Parigi – Essen, 1999), Milan Chlumsky, Ute Eskildsen, Bernard Marbot, dir. Paris – Essen: Bibliothèque Nationale de France – Museum Folkwang, 1999; Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2004. Una nuova campagna fotografica venne realizzata alcuni anni più tardi e pubblicata in H[ereford] B[rooke] George, The Oberland and its glaciers explored and illustrated with ice axe and camera. London: Alfred W. Bennet, 1866, illustrato con ventotto stampe all’albumina di Ernest Edwards, autore anche di una interessante serie di Notes of the Photographer,  pubblicate in appendice, in cui descrive con grande chiarezza ed efficacia gli scopi, gli accorgimenti tecnici e le difficoltà dell’impresa.

[47] Bruno Munari, Fotocronache: dall’isola dei tartufi al qui pro quo. Milano: Editoriale Domus, 1944 (nuova ed. Milano: Verbaq edizioni, 1980; Mantova: Corraini, 1997).

[48] Risulta purtroppo difficile e quasi impossibile ricorrere alla progressione numerica dei soggetti per determinare la cronologia delle riprese. Analizzando le opere pubblicate nella non ricca bibliografia dedicata a Sommer, quelle presenti nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e quelle, numerosissime, disponibili in rete sembrerebbe possibile in prima approssimazione individuare  una certa progressione cronologica nella numerazione dei soggetti (n.1000 ca. per Roma, 1857-65; n.1100 ca. per Napoli 1860-1865), un nucleo dai nn. 1900 al 1990 ca. che riguarda Milano, Genova e Torino (1863 – 1873 ante), ma allo stesso periodo apparterrebbe anche la serie di Venezia, che ha una numerazione intorno al 3500 e quella su Como con numeri intorno al 7000 nel formato 21/27 (7100 formato album; 7200 stereo; 7300 carte de visite). Questa costruzione del codice di catalogo che pone in relazione soggetto e formato si ritrova anche in altri esempi (Torino, chiesa della Gran Madre, nn. 973, 1973, 3973), ma non rappresenta purtroppo una costante, né pare avere un andamento cronologicamente coerente, anche in conseguenza della sostituzione di nuove riprese dello stesso soggetto realizzate a distanza di tempo, ma entrate in catalogo con lo stesso numero, consuetudine del resto comune ad altri studi fotografici. Per analoghe considerazioni ed esempi si rimanda a Palazzoli 1981, Nota alle opere e alle analitiche schede delle immagini pubblicate in Miraglia, Pohlmann 1992.

[49] Se possiamo suggerire il 1889 come termine post quem, il 1894 è certamente quello ante quem della loro realizzazione. Presso l’Harry Ransom Center ad Austin è conservata una stampa di Sommer, Rigi Railway, Vitznau, Schnurtobelbrucke  (n. 964:0728:000), che porta la data June 8, 1894 analoga a quella apposta in calce, sul supporto secondario della stampa relativa al Maloja del Museo Nazionale della Montagna di Torino, datata “September 14 1894”. Poiché si deve pur presumere che le stampe per raggiungere l’acquirente dovevano essere immesse in un preciso circuito produttivo e distributivo, è ragionevole supporre che la loro data di pubblicazione, e ancor più di ripresa possa essere anticipata almeno di qualche mese. Superfluo a questo punto ricordare che questi soggetti risultano compresi in G. Sommer & Figlio fotografi di S.M. il Re d’Italia, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie Svizzera e Tirolo. Napoli: Tipografia Scarpati, 1899.

[50] I due tronchi della Ferrovia del Rigi furono inaugurati rispettivamente nel 1869-70 per la parte da Vitznau e nel 1875 per la tratta da Arth-Goldau. Si calcola che negli anni ’70 la meta fosse frequentata da circa 80.000 persone l’anno, cfr. Kaden 1882 post, p. 27. Si segnala che recentemente, presso la Galerie Fischer Auktionen di Lucerna, è stato presentato in asta un album di Giorgio Sommer dedicato proprio al Pilatus, datato 1890 ca., con  23 stampe all’albumina relative al Monte e alla sua ferrovia.

[51] In Guide-album 1890, p.n.n.

[52] Ragazzoni 1902, p. 1.

[53] Miraglia 1992  p.21

[54] Loro immagini vennero pubblicate nei primi numeri di “Napoli nobilissima” illustrati da fotografie (1892), cfr. Picone Petrusa 1981 p. 57 n. 68. Si segnalano inoltre le fotografie dell’Oberland Bernese firmate G. Sommer & Figlio pubblicate in “The Graphic”, 54 (1896), cfr. Anton Gattlen, L’estampe topographique du Valais.  Martigny – Brig: Éditions Gravures, Éditions Pillets – Rotten verlag AG, 1987-1992, II, p. 313; il volume di Jakob Christoph Heer, Der Vierwaldstätter See und die Urkantone. Zürich: J. A. Preuss 1898 (ed. francese e inglese: Zürich: Th. Schroeter, 1900), corredato da 800 illustrazioni in photogravure e xilografiche, con immagini di Sommer, dei Fratelli Wehrli, di Schroeder e dei fotoamatori  Hans Brun, J. Muheim, L. Zimmermann, A. Soldenhof, H. Felder; Hippolyt Haas. Neapel seine Umgebung und Sizilien. Bielefeld und Leipzig: Verlag von Velhagen & Klafing, 1904, riccamente illustrato da fotografie firmate Sommer & Figlio e Alinari; Augustus J. C. Hare. Cities of Southern Italy. New York: Dutton and Company, 1911, per il quale “The Editor takes this opportunity of thanking Messrs. G. Sommer, of Naples, and Signor R. Moscioni, of Rome, for permission to use certain of their photographs for the illustration of this work.” Anche alcune delle illustrazioni pubblicate in Gustavo Strafforello, La Patria: Geografia dell’Italia: Provincia di Napoli. Milano – Roma – Napoli: Unione Tipografico Editrice, 1896 erano tratte da Fotografie Sommer.

 

Lo spettacolo della verosimiglianza (2004)

in Infinitamente al di là di ogni sogno: alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 ottobre – 14 novembre 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 8-23

 

 

There was no tought in any of us for a moment of their beeing clouds.

They were as clear as crystal, sharp on the pure horizon sky ( … ).

Infinitely beyond all that we had ever thought or dreamed ¬–

the seen walls of Eden could not have been more beautiful to us“.

John Ruskin, 1885

 

Quando Ruskin descrive l’emozionante incon­tro richiamato in esergo, sono passati ormai più di cinquant’anni da quella sera del 1833 in cui – quattordicenne – si era trovato per la prima volta al cospetto delle Alpi, viste da Schaffausen[1]. L’incanto restava però, immu­tato, a testimoniare ancora – per noi – di un’intera stagione della cultura e del gusto che definiamo genericamente romantica, di quel Romanticismo che nelle parole di Baude­laire per il Salon del 1846 “non sta né nella scelta dei soggetti, né nell’esattezza del vero, ma nella maniera di sentire ( … ). Il romantici­smo è l’espressione più recente e più attuale del bello”[2]. È quello stesso sentimento di cui Ruskin parla, tracciandone un efficace e sintetico profilo genetico in cui si intrecciano auto­biografia e storia culturale: “In nessun periodo della storia umana sarebbe stato possibile im­maginare un più felice ingresso nella vita per un bambino che avesse un carattere come il mio. È vero però, che il carattere dipende an­che dal periodo storico. Pochi anni prima, meno di cento, non sarebbe potuto esistere alcun bambino che si interessasse tanto alle montagne e ai loro abitanti. Prima di Rous­seau non c’era l’amore ‘sentimentale’ per la natura, e prima di Scott non c’era l’amore an­sioso per ‘ogni aspetto e condizione’ dello spirito e del corpo. San Bernardo di La Fon­taine, guardando verso il Monte Bianco coi suoi occhi da fanciullo, vedeva la Madonna er­gersi al di sopra, e San Bernardo di Talloires non vedeva il lago di Annecy, ma i morti della zona tra Martigny e Aosta. Per me, invece, le Alpi e la loro gente sono belle rispettivamente per la neve e per la loro umanità, e non desi­deravo né per esse né per me, la visione di troni celesti ma solo la vista delle rocce e non sentivo il bisogno di vedere spiriti in cielo, ma solo nuvole”[3]. Romantico sentire sorto dalle radici del sublime settecentesco e nuovo rico­noscimento della fattualità degli elementi na­turali (le rocce, le nuvole) si incontrano senza contraddirsi in questo sguardo rivolto alle montagne, nelle ragioni che lo spingono a di­segnare e poi a far fotografare i ghiacciai e le vette alpine[4]  sin dall’estate del 1849. Sono, quelli, anni in cui l’esperienza della montagna era stata tradotta ormai da tempo in spettacolo per le popolazioni urbane, co­me dimostra la scelta di un tema alpino per l’inaugurazione a Parigi del Diorama di Bou­ton e Daguerre l’11 luglio 1822, quando una delle rappresentazioni proposte fu per l’ap­punto La vallée de Sarnen: “Jamais aucune représentation de la nature n’était arrivée, se­lon nous, à ce point de réalité qui peut faire croire (…) que la vue n’est pas reposée sur des imitations, mais sur les objets imités eux­memes”[5]. Era l’effetto di realtà, l’esito ultimo e allora apparentemente insuperabile della mimesi spettacolare offerta dal diorama che affascinava in questa esperienza, quello stes­so che circonderà di attonito stupore la prima comparsa del dagherrotipo, meno di vent’an­ni più tardi, rafforzato da quella maniera di restituire il sentimento attraverso la scelta del soggetto  di cui diceva Baudelaire, che ritroviamo ribadito e riproposto dalla coeva pittura di tema alpino e ulteriormente raffor­zato poi, letteralmente moltiplicato nella lar­ga diffusione garantita dalle nuove tecniche di riproduzione a basso costo, come la litografia e soprattutto la fotografia. Si vedano le due ri­produzioni di dipinti realizzate a Monaco di Baviera da Josef Albert[6] nei pri­mi anni Sessanta del XIX secolo scegliendo in un repertorio di paesaggismo romanticamen­te eroico, tra Julius Lange e Alexandre Cala­me[7].

Alla soglia degli anni Cinquanta la fotografia si avviava ad assumere le pratiche e le forme che oggi le riconosciamo come proprie, pas­sando compiutamente dall’unicità del proces­so dagherrotipico alla riproducibilità consenti­ta dal ciclo del negativo, avviato da Talbot e successivamente perfezionato dall’uso delle emulsioni al collodio su lastra di vetro, ulte­riormente amplificata con l’avvio delle prime stamperie fotografiche, come quella aperta nel 1851 a Lille (nel sobborgo di Loos-les-Lil­le), la più nota e importante della Francia di metà Ottocento. Qui Louis-Désiré Blanquart Évrard (Lille 1802-1872) avviò una produzione industriale di album fotografici applicando al trattamento dei positivi il processo di svi­luppo dell’immagine latente messo a punto da Talbot per il calotipo.[8] Le immagini pubblica­te, frutto di apposite campagne fotografiche o di raccolte di produzione eterogenea, erano montate su fogli titolati e riuniti in album non rilegati e venduti a dispense o unitariamente. L’attività di questo stabilimento fu brevissima e la stamperia chiuse improvvisamente nel 1855 per scarsa redditività, incapace di soste­nere la concorrenza delle stampe fotolitogra­fiche e delle fotoincisioni su rame o su ac­ciaio, ma ciò nonostante il ruolo svolto da Blanquart-Évrard fu determinante per la diffu­sione e la conservazione di una parte fondamentale della fotografia francese delle origini poiché qui vennero realizzate alcune delle opere più importanti della prima stagione del­l’editoria fotografica, ciascuna destinata a presentare i diversi campi di applicazione del­la fotografia: “études d’architecture, voyages, reproduction de gravures, souvenirs histori­ques”[9]. I soggetti spaziavano dal vicino Orien­te, conteso tra fascino esotico ed erudito inte­resse archeologico, tra l’Egypte, Nubie, Pale­stine et Syrie di Maxime du Camp (1852) e la Jerusalem di Auguste Salzmann (1854) [10], al pittoresco occidentale dei grandi fiumi e – ap­punto – dei paesaggi alpini, tra Les Bords du Rhine di Charles Marville (1853) [11] e i Souve­nir des Pyrenées di John Stewart[12], dello stesso anno, offerti in splendide tavole oggi rarissime[13] caratterizzate dalla dizione, appa­rentemente piuttosto ambigua, “Photo­graphié et édité par Blanquart-Évrard”, che pare contraddire la diversa attribuzione autoriale dei lavori mentre testimonia invece, or­gogliosamente il ruolo propositivo che l’imprenditore si attribuiva.

Già Alexandre Dumas con le sue Excursions sur les bord du Rhin del 1838, aveva dedica­to la propria attenzione alle leggende e alle tradi­zioni di questo fiume, una delle figure centrali della mitologia teutonica, e il tema continuerà a sollecitare interessi diversi, variamente con­nessi al fascino del pittoresco ancora negli an­ni delle ricognizioni di Marville, che qui ripren­de – da fotografo – un genere che aveva già frequentato da incisore, collaborando con Charles Nodier (1780-1844) alla serie dedi­cata a La Seine et ses bords del 1836. L’al­bum dedicato al Reno non rappresenta che uno dei titoli da lui realizzati per Blanquart­-Évrard, di cui fu il più assiduo collaboratore prima di dedicarsi alla documentazione dell’architettura e della città su commessa di archi­tetti e grandi restauratori come Paul Abadie e Eugene Viollet-Le-Duc, così come della stessa Municipalità, per la quale documentò il “Vieux Paris” (1865) prima delle trasformazioni hau­smanniane[14]. Diversamente da quanto accadrà nelle vedute parigine, questa ripresa ravvici­nata de La vallée suisse a St. Goarshausen Marville si distingue per una ecceziona­le e poetica attenzione ai dettagli del paesag­gio, al paesaggio di dettaglio forse, confer­mando uno sguardo riconoscibile anche in quella Barrière ouverte che era stata compre­sa nella prima serie degli Études photo­graphiques, pubblicati sempre a Lille nel 1853[15];  una lettura affettuosa, quasi intima degli elementi costituenti lo scenario alpino, dove ai tronchi affusolati in primo piano corri­sponde la delicatezza delle luci sulle foglie dei cespugli, un insieme di elementi a scala umana reso con dolcezza lontana da ogni furore senti­mentale, nonostante il peso mitico del tema.

Se la distanza di Marville dal paradigma ro­mantico si traduceva in differenti attenzioni di scala, quella posta in atto da John Stewart nel­la sua lettura dei Pirenei adottava strategie di­verse: in Environs d’Elsaut i modelli non sono certo quelli stabiliti e accolti dal gu­sto del pittoresco; semmai emerge un naturali­smo in bilico tra rilevamento geologico e at­tenzione analitica, in cui “scienza e arte con­vergono anziché divergere, e la ricerca esteti­ca della forma dilaga nell’idea goethiana e humboldtiana della morfologia della natura e del paesaggio”[16]. È quanto accade anche per Le pont de Sarrance, con la ripresa eseguita dal greto del torrente, quindi dal bas­so, ciò che porta a ridurre ai minimi termini e quasi a escludere lo scenario alpino, cioè pro­prio l’elemento drammaticamente connotativo delle coeve raffigurazioni pittoriche, nelle qua­li la presenza del ponte assumeva forte valore simbolico, strumento di salvezza che àncora l’uomo al mondo consentendogli di affrontare la terribilità della natura, mentre in questa ri­presa tutto è più domestico: stradale. Il tratta­mento del tema de Le torrent d’Arudy, pur orientato alla descrizione degli aspetti geologici del paesaggio rivela invece altre sug­gestioni: un interesse, un’attrazione quasi per le componenti materiche dello scenario natu­rale, dagli alberi alle rocce appunto, che Stewart condivide con molti autori coevi, non solo i fotografi della scuola di Barbizon o quel­li attivi nella campagna romana, mentre per­mane traccia del fascino di un tema proprio della poetica preromantica del sublime: quello della Gorge, della gola e dell’antro.

Quando Stewart pubblica le diciannove tavole del proprio album questi luoghi, i Pirenei ­- sebbene ormai ampiamente visitati e illustrati in album[17] con titolazioni a volte identiche, in cui il termine di Souvenir costituisce la formu­la più ricorrente – rappresentano la più recen­te novità in fatto di mete alpine, poiché “n’ayant pas comme les Alpes la chance de se trouver sur le chemin de l’Italie”[18] vennero am­piamente preceduti da Chamonix e – ancor prima – dall’Oberland bernese. Qui però, co­me scrisse Victor Hugo, “Il me semble, que les choses-là sont plus que du paysages. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser”.[19] Certo doveva risultare difficile corrispondere visualmente a queste percezio­ni, poiché il restituire fotograficamente questi paesaggi poneva problemi di ordine meno im­mediatamente letterario, ma pur sempre e squisitamente discorsivo: “Les vallées des Pyrénées, à peu d’exception près, s’étendent du nord au midi – ricordava Maxwell Lyte, amico e sodale di Stewart – conséquemment elles reçoivent seulement une lumière oblique le matin et le soir. Cet éclairage oblique est nécessaire pour produire des effets vraiment artistiques de lumière et d’ombres, et pour donner une valeur réelle aux différents plans. (…) La chaleur du soleil parait aussi, durant le jour, soulever habituellement des vapeurs qui, si elles ne peuvent se condenser en nuages, interposent néanmoins un voile bleu de brume, d’une nature antiphotogénique, entre nous et les montagnes. Sachant que ces obstacles existent, je m’arrange toujours pour être sur le terrain et à l’œuvre autant que possible de bonne heure, et par conséquent plus des neuf dixièmes de mes épreuves sont exécutées à la lumière du matin, entre cinq et huit heures; les autres sont prises, presque sans exception, à la lumière du soir.”[20]

Allo stesso ambito di scoperta romantica del paesaggio francese può esser fatto risalire an­che il viaggio che nell’ estate del 1854 Edouard Baldus[21] compie in Alvernia, uno dei luoghi topici di questa fase sin dai Voyages pittoresques et romantiques dans l’ancien­ne France del barone Taylor e di Nodier (1829), in compagnia del suo maturo allievo Fortuné Joseph Petiot-Groffier (1788 ­1855), allo scopo di descrivere i monumenti e i paesaggi di una regione ancora poco toccata dalle profonde trasformazioni dell’industrializ­zazione e della modernizzazione che interes­savano altre aree. La collaborazione dei due fu tanto stretta da produrre alcune stam­pe virtualmente identiche firmate di volta in volta Baldus o Petiot-Groffier e altre firmate da entrambi. Alla serie di riprese realizzate dal solo Baldus appartiene invece quella indicata nel Catalogue del 1863 col numero 73, col titolo di Chaine des Monts-Doré (paysage) Puy-de­-Dome[22]. Essa fu esposta nel 1855 prima all’Esposizione Universale di Parigi[23] e poi ad Amsterdam col titolo attuale Mont d’Or, e testimonia di una fase di passaggio – e di cre­scita – dello sguardo fotografico di Baldus, che qui si misura non solo con le emergenze architettoniche e le vedute magistrali dei pic­coli nuclei urbani della regione, come Saint­ Nectaire, ma anche – per la prima volta – con­sapevolmente con gli elementi naturali, realiz­zando una serie di immagini che fanno consi­derare “the Auvergne photographs as master­pieces of early landscape photography”[24]. Qui Baldus crea “a new kind of landscape – spare, precisely composed, intensely tactile, highly sensitive to the play of texture and tone, volu­me and silhouette, on the two-dimensional page”[25], affidandosi a quell’apparente traspa­renza documentaria di cui si è nutrita la fecon­dità della fotografia soprattutto delle origini, ogni volta tradotta nello spettacolo della vero­simiglianza, qui mantenuto in elegante equili­brio tra fascino del pittoresco e analiticità de­scrittiva. Come aveva immediatamente rilevato il critico Ernest Lacan: “si vous êtes poète, si vous aimez ( … ) le silence des solitudes alpestres ( … ) suivez M. Baldus au milieu des sites grandioses de l’Auvergne. Il est peintre, il sait choisir les points de vue et diriger votre admiration. Chacun de ses épreuves est un poème, tantôt sauvage, imposant, fantastique, comme une page d’Ossian; tantôt calme, mélancolique, harmonieux comme une méditation de Lamartine”[26]. L’ampia ripresa che Baldus dedicata al Mont d’Or sembra infatti compo­sta avendo in mente le parole di Taylor di po­chi decenni prima, quando descriveva il sito come “un angolo della creazione che rappre­senta ancora l’immagine del caos. Le rocce staccate o pronte a cadere in valanghe (…) i terreni messi a nudo dalla caduta di pietre (…) pochi arbusti, qualche abete sparso qua e là (…) vi compongono un quadro severo, terribi­le e misterioso”[27].

All’Esposizione Universale del 1855 il lavoro fotografico che destò maggior sensazione fu però certamente la veduta panoramica in do­dici parti del massiccio del Monte Bianco ri­preso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata da Friedrich von Mar­tens[28] utilizzando lastre albuminate che gli per­misero di ottenere quella “riproduzione im­mensamente esatta dei complicati dettagli of­ferti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”, che solo la fotografia poteva offrire e che tanto affascinavano il pubblico, pieno di ammirato stupore anche per le enormi difficoltà di realizzazione che si intuivano dietro lo splendido risultato: “Tutti coloro che hanno compiuto escursioni a quelle altezze – fu il commento di Ernest Lacan – possono apprezzare le difficoltà insite in una simile im­presa e la dedizione ch’essa esige. Oltre alla fatica di ascensioni lunghe e penose, e alle spese che impone il trasporto di apparecchia­ture pesanti, le condizioni variabili dell’atmo­sfera sono – troppo spesso – un ostacolo in­sormontabile. Molte volte si parte con un tem­po magnifico e un cielo limpido, ma dopo quattro, cinque, sei ore di salita si è sorpresi da un temporale, oppure d’improvviso, le nu­vole vengono semplicemente a nascondere il panorama nel momento in cui l’apparecchio è montato e pronto a funzionare. Allora bisogna rifare i bagagli e ridiscendere, rinviando l’ope­razione a un altro giorno”[29].

Anche i Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero[30], furono presenti all’Esposizione, dapprima con sole strabilianti immagini di architettura quindi con alcune vedute dell’Oberland ber­nese, all’epoca ancora in una fase di esplora­zioni pionieristiche, realizzate nel corso di un viaggio promosso da Daniel Dollfus-Ausset, glaciologo originario di Mulhouse e loro socio in affari, per il quale fotografarono i due ghiacciai del Finster-Aar e del Lau­ter-Aar, cui aggiunsero quelle terribili del ter­remoto che colpì il Vallese il 25 e 26 luglio. “Toutes, parfaitement réussies – sottolinea an­cora Lacan – donnent une idée exacte des accidents survenus au moment des convulsions du sol et des traces déplorables qu’ils ont laissées. Ces épreuves n’ont pas seulement un grand intérêt au point de vue de la science, elles ont encore comme œuvres d’art un mérite incontestable, ce sont de charmants tableaux d’un effet pittoresque et d’une grande beauté de détails”[31].  Poi, dopo il pittoresco terremoto, andranno sul Monte Bianco. Anzi vi andrà solo il ‘giova­ne’ Auguste-Rosalie a realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origi­ni, poi raccolte in due album dal titolo quasi identico di (Souvenir de la) Haute-Savoie. Le Mont Blane et ses Glaciers, ma ben distinti nelle intenzioni essendo l’uno il Souvenir du voyage de LL.MM. L’Empereur et L’Impéra­trice (1860) mentre l’altro, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato “A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie”.  L’insieme delle riprese eseguite nelle diverse ascensioni spazia dai passaggi sui seracchi, for­se il primo esempio di fotografia di tecniche di scalata, al panorama del Monte Bianco preso dal Mont Buet, dalla Mer de Gla­ce alle singole terribili vette; co­me sottolineava il pittore di corte August Marc, il giovane Bisson “rischiando la vita, ha percor­so tutte le vie praticabili e non praticabili del Monte Bianco per prendervi i cliché di quelle magnifiche vedute che gli amatori comprano e che egli vende a troppo buon mercato, se si pensa a tutti i pericoli a cui si espone”[32]. La pratica fotografica richiedeva ancora tempi lunghi, di preparazione piuttosto che di ripre­sa, soprattutto quando si operava con lastre di grande formato come Bisson, ma era proprio la qualità di resa delle luci e dei dettagli che queste consentivano ad emozionare i contem­poranei (e noi ancora). L’interesse di Bisson era rivolto alla sfida tec­nica dell’ascensione fotografica, ma senza di­menticare i problemi di ordine estetico, tanto che il 25 luglio 1861 partì da Chamonix con una nuova spedizione guidata ancora da Bal­mat, ma della quale faceva parte anche il pit­tore Gabriel Loppé, incaricato di fornire con­sulenza artistica al fotografo.[33] Considerando l’insieme delle campagne documentarie risul­ta evidente come la scelta dei temi e dei punti di vista più specificamente topografici, pur in tutta la novità non solo tecnologica della ri­presa fotografica, non si discostasse molto dalla tradizione, riassunta già nel 1777 dal re­pertorio di venti miniature incise da C. G. Geisser su di una sola lastra a partire da mo­delli iconografici diversi[34], mentre le riprese più ravvicinate o realizzate a quote più basse rivelano in maniera esplicita l’adesione a quel diffuso sentire romantico che Lacan aveva ri­conosciuto – come si è visto – nelle stesse ri­prese dei luoghi terremotati. Basti il confron­to tra una delle immagini dell’ album donato a Vittorio Emanuele II (L’Aguille du Dru et An­guille Verte) e il dipinto nella maniera di Ca­lame[35] pubblicato da Albert, in cui la corrispondenza iconografica è quasi letterale, con quel primo piano di tronchi e detriti che rappresentano l’esito en­tropico della maestà degli elementi naturali, delle guglie perfette così come degli alberi che ne costituiscono la cornice visiva, in una sim­bolizzazione sin troppo evidente sui temi del destino e del tempo, della morte infine [con le due figure che – nel quadro – si riparano, inermi, dal terribile scatenarsi degli elementi], mentre i nessi con l’altro dipinto sono meno puntuali ma non per questo meno significati­vi: se il tema della Via Mala dipendeva dal fascino sublime dell’ orrido, del cammino sull’orlo dell’abisso tra pareti incombenti, le fotografie di Bisson comprendono in più casi e quasi celebrano la nascente rete infrastruttu­rale, che muta profondamente la naturalità in­contaminata del paesaggio alpino nel preciso momento in cui ne favorisce la percezione e l’appropriazione, la conquista anche, da parte del nuovo viaggiatore, del futuro turista. Ma certo le immagini più affascinanti sono quelle dedicate ai ghiacciai, un apporto continua­mente rinnovato alle variazioni sul tema della Mer de Glace, un richiamo alla tradizione ico­nografica e una sfida portata dalla fotografia alle arti del disegno. Dalla Svizzera alla Savoia Bisson indaga osti­natamente il tema, svolgendolo nei suoi diver­si aspetti, scegliendo di volta in volta i punti di vista, le distanze più adatte al racconto; dalla maestà geografica della veduta ampia, quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione: marionette in uno scenario di fiaba. Certo il soggetto è dei più affascinanti, e dei più redditizi anche (crediamo) se in brevissimo arco di tempo i ghiacciai entrano a far parte del catalogo di più autori, rinnovando più anti­che fortune calcografiche.

Lo stesso Baldus presentò nel 1861, alla IV Esposizione della Société Française de Photo­graphie, tra le altre, due vedute della Mer de Glace e di Chamounix[36], interesse conferma­to dal catalogo del 1863 che comprendeva an­che una ripresa della Vallée de Chamounix ed una della Source de l’Aveyron, mentre devo­no essere state realizzate poco prima del 1860 anche le due stampe de­dicate rispettivamente alla Vallée de Chamo­nix vue du Chapeau  ed alla Mer de Glace prise du Montenvers  firmate da Victor Muzet, attivo a Grenoble in società con Bajat, che figura anche nel ruolo di edito­re[37], e comprese in una serie di Vues photo­graphiques de Dauphine (sic) et de la Sa­voié[38] per la quale nel 1860 ricevettero una non meglio precisata “medaille d’or”[39]. In questo caso però il maggior motivo di inte­resse non è dato tanto dalla ricorrenza dei soggetti quanto dalla sostanziale coincidenza delle riprese di Muzet con quelle realizzate da Auguste-Rosalie Bisson negli stessi anni, somiglianza che ha fatto erroneamente ritenere un passaggio di mano delle lastre negative o ­peggio – una appropriazione indebita da par­te del fotografo meno noto.[40] Se la Vallée de Chamonix venne realizzata da Bis­son nel corso della prima ascensione del 1859, come conferma la sua ripresa xilografi­ca ne “L’Illustration” dell’aprile 1860[41], è al­trettanto probabile che nello stesso torno di tempo, e per analoghe ragioni commerciali[42], venisse realizzata anche quella di Muzet, pub­blicata ancora senza alcun riferimento alla medaglia vinta nel 1860, presente invece nel­l’altro esemplare, così come possono essere riferite cronologicamente allo stesso periodo anche le due riprese della Mer de Glace qui pubblicate, che Bisson intitola però Grande Jorasse Mont Tacul, portando l’at­tenzione sulle cime dello sfondo piuttosto che sul primo piano, nelle quali appaiono sor­prendentemente simili anche la distribuzione e la forma delle diverse placche innevate, tan­to da lasciar supporre un lasso di tempo veramente breve, forse solo di qualche giorno, tra la realizzazione delle due riprese. Al di là della verosimile coincidenza cronologica, ciò che risulta per noi più interessante in quanto sin­tomo e traccia di un gusto condiviso, è la qua­si puntuale corrispondenza – in entrambi i ca­si – delle modalità adottate dai due fotografi, che non solo scelgono lo stesso punto di vi­sta, ma utilizzano anche ottiche di analoga lunghezza focale e formati di negativo non dissimili, come rivelano le relazioni prospetti­che tra i diversi elementi raffigurati e le stesse misure delle stampe a contatto[43]. Così se la valle di Chamonix trova il suo punto di osser­vazione privilegiato al Chapeau, giusto al di sopra dell’imbocco della Mer de Giace, la ripresa ravvicinata del ghiacciaio non poteva che essere realizzata dai pressi dell’ hospice del Montenvers, il rifugio costruito nel 1779 da Charles Bloir, già frequentato da numerosi viaggiatori illustri: da Goethe all’imperatrice Maria Luisa, da Byron e Shelley a Hugo e Du­mas, al già citato Ruskin. Se in queste fotografie il ghiacciaio costituisce la base da cui spiccano i volumi dei monti, in una restituzione che potremmo definire topo­grafica, in altri casi i fotografi cedono al fasci­no del sublime, introducendo la figura umana, la sua presenza nell’universo fantastico di for­me dei ghiacciai. Ancor più dei Seracs des Bosson  è significativa in questo sen­so la ripresa che Giorgio Sommer[44] dedica a Chamounix, Mer de Glace  in una data non meglio precisata, ma che non do­vrebbe essere troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta. Certo la rinnovata attenzione per questo soggetto doveva molto del suo vi­gore proprio al successo riscosso dalle foto­grafie realizzate da Auguste-Rosalie Bisson, ma Sommer riesce a costruire un’iconografia nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discosta nettamente dai modelli prevalenti, richiamando semmai i modi utilizzati da Jean Antoine Linck (1766 – 1843) in un disegno che aveva dedicato allo stesso soggetto circa mezzo secolo prima[45] o – per restare in ambi­to fotografico – la ripresa del ghiacciaio di Grindelwald, nell’Oberlad bernese, che Von Martens aveva realizzato verso il 1853[46]. Ora Sommer, forse memore dell’interpretazione di Byron, quasi immerge l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamen­te da queste onde immense, eternamente im­mobili, bloccate dal gelo ancor prima che dal­la fotografia, pietrificate e bianche, da cui emerge il dorso di favolosi cetacei: l’appari­zione magica della balena di Giona se non an­cora di Pinocchio (1880)[47].

Di tutt’altro tenore e senso l’opera che chiu­de questo ciclo di immagini, realizzata da Al­berto Luigi Vialardi[48], già autore nel 1863 di un Album del Monviso[49], quindi di una rara documentazione di quella grande opera infra­strutturale che è il Canale che poi sarà intito­lato a Cavour, destinato a razionalizzare e po­tenziare la rete irrigua della pianura risi cola piemontese, cui il fotografo lavorò fino ai pri­mi giorni del 1864 su commissione della stes­sa Associazione Irrigazione Ovest Sesia, pro­motrice dell’opera, dopo un primo affida­mento allo Studio Bernieri[50]. Ad ulteriore conferma della solidità della sua rete di rela­zioni istituzionali, anche il grande cantiere del traforo del Frejus (1868-1871) venne docu­mentato da Vialardi in un album destinato in maniera affatto nuova a trovare il proprio posto “nel boudoir dell’elegante signora, come nelle biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari” e di cui i giornali dell’ epoca diedero ampia­mente conto, segnalando le “nove stupende vedute fotografiche che rappresentano i due panorama [sic] dei cantieri nelle vallate di Bardonéche e Modane, le due entrate del gran tunnel, i due cantieri dei compressori, l’interno degli edifici dei compressori medesi­mi – di questi straordinari motori che per la prima volta entrano nel mondo industriale ­la macchina perforatrice con tutti gli operai in azione entro la galleria e per ultimo un esemplare litografico della topografia e della sezione longitudinale della montagna. Ad ogni veduta sta di fianco una relativa descri­zione particolareggiata”[51]. È il trionfo del­l’ingegneria, l’esito ormai italiano della politi­ca internazionale preunitaria, cavourriana. La fotografia si rivela il medium più aderen­te, più adeguato a celebrare questa importan­te realizzazione, il primo dei grandi trafori al­pini, un segno tangibile del mutato spirito del tempo: al fascino emotivo, potente e terribile della montagna si affianca – se proprio non si sostituisce – quello altrettanto forte, positivi­sta e industriale della straordinaria macchina: costruita dall’uomo.

 

Note

[1] Cfr. John Ruskin e le Alpi, catalogo della mostra (Tori­no, Museo Nazionale della Montagna, 1990), a cura di Ja­mes S. Dearden, Torino, Museo Nazionale della Monta­gna, 1990, in particolare alle pp.17 – 19. Per l’affascinan­te lettura del testo completo si rimanda a John Ruskin, Praeterita.  Orpington: George Allen, 1885 – 1889, I, pp.194-195, § 134, p.113 (ed it., Palermo: Edizioni No­vecento, 1992, traduzione di Maria Croci Giulì e Giusi de Pasquale).

[2] Charles Baudelaire, Salon del 1846, ora in Id., La cri­tica d’arte, a cura di Antonio del Guercio. Roma: Editori Riuniti, 1996, pp. 109 – 128 (110).

[3] Ruskin, 1885 – 1889: § 134, p.113. Per una accurata e sintetica ricostruzione delle variabili storiche del rapporto tra cultura occidentale e montagna si veda Paola Giaco­moni, “Dare del tu alle rocce”, in Montagna. Arte, scien­za, mito da Dürer a Warhol, catalogo della mostra (Rove­reto 2004), a cura di Gabriella Belli, Paola Giacomoni, Anna Ottani Cavina. Milano: Skira, 2004, pp. 19-40.

[4] 4 “The first sun-portraits [e qui Ruskin richiama l’originaria terminologia di William Henry Fox Talbot, che parlava di “sun pictures”] even taken of the Matterhorn (and as far as I know of any Swiss mountain whatever) was taken by me in 1849″, citato in John Ruskin e le Alpi, 1990, p. 18, cor­sivo di chi scrive. Come è noto l’affermazione di Ruskin non de­ve essere presa alla lettera, non essendo lui l’autore mate­riale di queste immagini, di volta in volta realizzate dai suoi camerieri personali John ‘George’ Hobbs (1849) e Frede­rick Crawley (1854 – 1856), ormai alle soglie dell’abban­dono di questa tecnica; cfr. Paolo Costantini, Italo Zan­nier, a cura di, I dagherrotipi della Collezione Ruskin.  Venezia: Arsenale Editrice, 1986. La veridicità letterale dell’affermazione in merito alla pri­mogenitura non pare invece essere contraddetta da quan­to sinora noto sulle prime riprese dagherrotipiche delle Al­pi, cfr. Le daguerréotype français. Un object photo­graphique, catalogo della mostra ( Paris 2003 – New York 2004), a cura di Quentin Bajac, Dominique Planchon De Font-Réaulx. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, cat. 136, p.227. In quella mostra sono stati presentati an­che altri dagherrotipi di ambiente alpino in particolare la Vue d’une vallée dans les Alpes, compresa in una serie che Marie Charles lsidore Choiselat (1815 – 1858) e Sta­nislas Ratel (1824 – 1904) realizzarono nell’agosto del  1845 durante una missione il cui itinerario era stato stabi­lito dal consiglio dell’Ecole royale des mines quale eserci­tazione conclusiva del ciclo di studi di Ratel e che costitui­scono, ad ora, le più antiche riprese note effettuate nelle Alpi, come ricordava anche uno dei viaggiatori: “Ces vues sont les seules qui soient encore sorties du fond de ces montagnes que les artistes ne visitent pas assez et où ils pourraient trouver des sujets que leur imagination n’avait pas besoin de grandir pour les rendre majestueux”. (citato in Q. Bajac, M.C.I. Choiselat, S.- Ratel, in Le da­guerréotype français, 2004,  cat. 155, p. 246).

[5] 5 “Le Miroir des Spectacles”, 12 luglio 1822, citato in Claudine Lacoste-Veysseyere, Les Alpes romantiques. Le thème des Alpes dans la littérature française de 1800 à 1850. Genève: Editions Slatkine, 1981, p.195.

[6] Josef William Albert (1825 – 1886), più noto come foto­grafo ritrattista, fu attivo a Monaco, anche come fotografo di corte di Massimiliano II e Luigi II, con studio in Brien­ner Strasse nel 1865-1878. A lui si devono anche rigorose vedute urbane e di architettura (il Glaspalast di Monaco, 1861; l’Esposizione di Vienna del 1873) oltre ad alcuni in­teressanti paesaggi, tra i quali Il fotografo in posizione a Hohenschwangau, 1857, in cui – oltre ad Albert all’appa­recchio – si vede una cabina portatile per il trattamento delle lastre al collodio, analoga a quella utilizzata dal valde­se David Peyrot alcuni anni più tardi e oggi conservata al Museo nazionale del Cinema di Torino, cfr. Michel Frlzot, a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie.  Paris: Bordas, 1994 pp. 115 passim; Helmut Gernsheim, Storia della fotografia. 1850 1880 L‘età del collodio. Mila­no: Electa, 1981, p.232; Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema Torino. Tori­no: Cassa di Risparmio di Torino, 1978, p.139. Una foto­grafia di Richard Wagner realizzata da Albert nel 1880, servì l’anno successivo per la realizzazione di un noto ri­tratto ad olio dipinto da Franz von Lenbach, cfr. Carola Muysers, Das bürgerliche portrait im Wandel.  Zürich – ­New York – Hildesheim: Georg Olms Verlag, 2001. Nel 1868 il fotografo mise a punto un procedimento commer­ciale di stampa planografica delle matrici fotografiche analogo alla litografia (collotipia), identico a quello proposto da Alphonse Poitevin, che da lui prese il nome di Alberty­pe. Nel 1876 fu tra i primi ad utilizzare la collotipia a colo­ri, ma a lui si deve anche lo studio di un processo di inver­sione (negativo/ positivo) della lastra al collodio mediante utilizzo di acido nitrico. Il tema degli studi (da Adolphe Braun a Dornach a Jean Jaques Heilmann a Pau, solo per citarne due) impegnati nella riproduzione fotografica dei dipinti e delle opere d’arte è troppo vasto perché possa essere in questa sede anche solo accennato, mi limito per­tanto a rimandare, a titolo esemplificativo, ad una recente approfondita analisi della maggiore impresa italiana attiva in questo settore: Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[7] Poiché i cartoni di supporto non ripor­tano sufficienti indicazioni, l’identificazione delle opere presenta alcune difficoltà e incertezze: il primo dipinto ri­prodotto, identificato come Via Mala, soggetto già affron­tato da W. Turner nel 1843, è firmato Julius Lange (Darm­stadt 1817 – München 1878), 1860, mentre per il secon­do, anonimo, non posso far altro che notare una sorpren­dente comunanza di temi e di modi con la produzione di François Diday (Ginevra 1802 – 1877) e soprattutto di Alexandre Calame (Vevey 1810 – Mentone 1864) intorno al 1850, per la quale rimando a Valentina Anker, Alexan­dre Calame. Vie et œuvre. Catalogue raisoné de l’œuvre peint. Friburg: Office du Livre, 1987, ma la prudenza del­la mia incompetenza suggerisce di non spingermi oltre.

[8] Le varianti di preparazione e di trattamento del materiale sensibile messe a punto da Blanquart-Évrard non ci con­sentono di definire le stampe realizzate dal suo stabilimen­to come “calotipi positivi”, ma credo sia altrettanto errata e fuorviante la consuetudine da molti adottata di indicarle tecnicamente come “carte salate”. Come è noto queste appartengono alla famiglia dei materiali sensibili ad anne­rimento diretto, mentre il procedimento utilizzato a Lille si fondava al contrario sullo sviluppo del positivo, quindi sul principio dell’immagine latente, allo scopo di ridurre tem­pi e costi di realizzazione e di vendita degli album. Per questa ragione ritengo più corretto  adottare la dizione “carta a sviluppo (metodo Blanquart-Évrard)”.

[9] “La Lumière”, 1854, citato in Isabelle Jammes, Blan­quart-Évrard et les origines de l’édition photographique en France: catalogue raisonnée des albums photo­graphiques édités 1851-1855,. Genève: Librairie Droz, 1981, p.67 ; si veda anche, Frizot, 1994, pp.  80- 89.

[10] Sulla paternità del corpus delle fotografie attribuite a Salzmann o al suo collaboratore Durheim, e sulla natura problematica del concetto di opera che ne deriva cfr. Abi­gail Solomon-Godeau, A Photographer in Jerusalem, 1855: Auguste Salzmann and His Times, “October”, n.18, autumn 1981, citato in Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Gra­zioli. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.43 n.19,  ma an­che – con una più estesa riflessione critica sulla discutibile applicazione alla fotografia di alcune categorie interpreta­tive derivate alla storia dell’arte – Abigail Solomon-Go­deau, Calotypomania. The Gourmet Guide to Nine­teenth-Century Photography,  “Afterimage”, vol. 11, n.1-2, Summer 1983, successivamente riedito in “études photographiques”, n. 12, novembre 2002, consultato in estratto.

[11] Charles Marville (1816 – 1879), realizzerà anche una serie di Vedute di Torino. Turin: Maggi, (editore e libraio presso il quale erano in vendita anche le stampe di Luigi Crette, Vialardi e Guido Gonin) oggi nota attraverso l’e­semplare conservato presso la Biblioteca centrale della Fa­coltà di Architettura del Politecnico di Torino e studiata per la prima volta in  Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-­38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglla, Culture fotografiche e società a Torino 1839 1911. Torino: Allemandi, 1990, p.334, aveva già anti­cipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Char­les Cordier per realizzare la campagna fotografica dedica­ta alla Sculpture Ethnographique, commissionatagli dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota “Mission Héliographique”) e quindi pubblicata in fasci­coli. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Vic­tor Emmanuel Roi d’ltalie”. L’occasione per la realizzazio­ne di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale di Torino e della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che faceva seguito all’impegno analogo per le col­lezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima. La data­zione delle riprese italiane potrebbe forse essere ulterior­mente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville usava la qualifica di “Photographe du Musée Im­perial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, nel periodo in cui collaborava con Blanquart­Évrard, vale dire sino al 1855.

[12] John Stewart (1800 – 1887), inglese, membro della So­ciété Française de Photographie e genero di Sir John Her­schel (1792 -1871) uno dei padri fondatori della fotogra­fia, fu – come molti fotografi coevi – anche uno sperimen­tatore, apportando interessanti innovazioni nel trattamen­to dei negativi di carta e del loro ingrandimento. Attivo prevalentemente in Francia, si trasferì nel 1847 a Pau, do­ve realizzò molte delle sue vedute utilizzando la tecnica del calotipo (o sue varianti) ed entrò in contatto con autori della generazione successiva come Jean Jacques Heilmann (1822 – 1859), e l’altro inglese Farnham Maxwell Lyte (1828 – 1906), ma anche con Adolphe Godard, Jo­seph Vigier ed Henri-Victor Regnault, che accompagnerà in un viaggio in Inghilterra. Dopo la collaborazione con Blanquart-Evrard le sue immagini vennero pubblicate da Theophile Marx e da Heilmann, che nel 1854 aveva aper­to a Pau un’analoga Imprimerie photographique, da cui uscirono immagini anche di Maxwell Lyte, cioè dell’insie­me di autori poi identificati come “école de Pau”. Sebbene Heilmann e Maxwell Lyte utilizzassero anche il nuovo pro­cedimento al collodio, ciò che li contraddistingue comples­sivamente è appunto il ricorso al negativo di carta nelle sue diverse varianti, poiché – come ricordava Maxwell Ly­te sulle pagine del “Journal of the Photographic Society of Edinburgh” del dicembre 1854, v. II, p.95, “I must still en­tertain my old opinion that paper is the process for views”. Numerosi esemplari di queste opere sono conser­vati alla Biblioteca di Pau e presso gli Archives départe­mentales des Pyrénées Atlantiques, cfr. Paul Mironeau, Christine Jullat, Lucie Abadia, Pyrénées en images. De l’oeil à l’objectif 1820 -1860. Pau: Musée national du Chateau de Pau, 1996; Alexandre Allain, Les collec­tions photographiques des bibliothèques municipales et l’exemple de Lille, Memoire d’étude. Paris: École Natio­nale Supérieure des Sciences de l’lnformation et des Bibliothèques, 2000.

[13] Il solo esemplare completo dell’album di Marville così come quello più ricco di Stewart sono oggi conservati alla Biblioteca di Lille, cfr. Allain, 2000, p.  31. Una delle tavole di Stewart, Le pont d’Orthez, è pubblicata in Frizot, 1994, p. 88 e può essere utilmente confrontata con la ripresa dello stesso soggetto realizzata e pubblicata da Heil­mann col titolo Vieux pont d’Orthez, cfr. Collection M. + M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michèle e Michel Auer. Hermanace: Editions M.+ M., 2004, p. 71 n.30. Un album anonimo di Souvenir des Pyrenées, composto però di 24 tavole, è conservato nella collezione Edward Alexander Parsons dello Harry Ransom Humanities Re­search Center dell’Università del Texas, ad Austin.

[14] Queste trasformazioni sono state recentemente studiate da Rosa Tamborrino, Parigi: i! piano di Hausmann, “Storia dell’Urbanistica Piemonte”,  IV”, Roma, 2000.

[15] Frizot, 1994, p.  87.

[16] Giacomoni, 2004, p. 33.

[17] Rimandando ai testi citati alle note successive per una disamina puntuale della produzione iconografica sul tema dei Pirenei, voglio qui ricordare che le illustrazioni per il Voyage aux Pyrénées di Hippolyte Taine, 1855, vennero fornite da Gustave Doré servendosi anche di fotografie, realizzate verosimilmente dagli autori della “scuola di Pau”.

[18] Philippe Comte, in Les Pyrénées Romantiques, catalo­go della mostra (Pau, Musée des Beaux Arts, estate 1979), a cura di Marguerite Gaston. Pau: Musee des Beaux-arts, 1979, p p.n.n.

[19] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres­Castet: Editions du Faucompret, 1993, p.69.

[20] Farham Maxwell Lyte, lettera pubblicata nel “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, citata in Ber­nard Marbot, Des ciels dans les paysages photographi­ques, dossier della mostra Quand passent les nuages. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 1988.

[21] Edouard Baldus (1813 – 1889), nato a Grunebach in Prussia, come pittore espone a Parigi ai Salon del 1847, 1848 e 1851 ma risulta attivo come fotografo almeno dal 1848, segnalandosi immediatamente come uno degli auto­ri più importanti della fotografia francese, membro della Mission héliographique promossa dal governo francese nel 1851; cfr. Malcom Daniel, The Photographs of Édouard Baldus.  New York –Montreal:  The Metropolitan Museum of Art -Ca­nadian Center for Architecture, 1994, p. 231. Ove non diversamente indicato, tutte le informazioni rela­tive all’attività di Baldus sono tratte da questo studio.

[22] Le pagine del catalogo, oggi conservato nella biblioteca del Victoria and Albert Museum di Londra, sono riprodot­te in Daniel, 1994, p.  231 passim.

[23] Ch. P. Magne, Exposition universelle de 1855,  “L’Il­lustration – Journal Universel”, XXXI, n.644, p.331, cita­tato in Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Il Monte Bianco dei Fratelli Bisson. Ascensioni fotografiche 1859-1862. Milano: Longanesi, 1982, p. 9.

[24] Daniel, 1994, p.  39.

[25] Ivi, p. 40.

[26] Ernest Lacan, “La Lumière”, 1855, poi ripubblicato in Id., Esquisses photograpiques.  Paris: Gaudin, 1856, pp.26-29, citato in Daniel, 1994. p.  262, nota 91.

[27] Citato in Bruno Foucart, La montagna nella pittura francese dell’Ottocento, in Le seduzioni della monta­gna. Da Delacroix a Depero, catalogo della mostra (Grenoble, Tori­no, 1998), a cura di Marisa Vescovo. Milano: Electa, 1998, pp. 29 -36.

[28] Noto anche come Vincent Frédéric Martens, (Venezia? 1809 – Parigi 1875), di famiglia originaria del Wurten­berg, studia all’Accademia di Belle Arti di Venezia e quindi a Basilea, perfezionandosi come incisore. Naturalizzato francese, dopo aver partecipato ai Salon dal 1834 al 1848 con vedute urbane e marine, si dedicò costantemen­te alla fotografia mettendo a punto anche un nuovo appa­recchio di ripresa panoramico per dagherrotipi. Nel 1851 espose a Londra una serie di immagini realizzate a partire da negativi su vetro albuminato (metodo Niepce de St. Victor), che la stampa inglese definiva “Talbotypes”, cfr. Collection M. + M. Auer, 2004, p. 86.

[29] Ernest Lacan, 1855, citato in P. Cavanna, Le prime ascensioni fotografiche. I Fratelli Bisson, “ALP”, 10 (1994), n.112, pp.116-119. Sulle pagine del parigino “La Lumière”, allora certo la più autorevole pub­blicazione periodica dedicata alla fotografia, il critico ave­va dato ampio conto della produzione fotografica presen­tata all’Esposizione, segnalando in particolare le opere di documentazione architettonica e artistica di Baldus e dei fratelli Bisson, poste in opposizione dialettica.

[30] Louis Auguste (1814-1876) e Auguste Rosalie (1826­1900) già attivi indipendentemente come dagherrotipisti, aprono nel 1852 uno studio in società che due anni dopo avrà sede in Rue Garancière, 8 nel palazzo di Sourdèac, proprietà di Henri Plon, stampatore dell’Imperatore; la lo­ro produzione, caratterizzata dall’utilizzo di lastre di gran­dissimo formato (mediamente 40×50 ca, ma con formati variabili dal 30×40 sino al 50×70 e 60×75), che stampano ed editano in proprio è dedicata in un primo momento al­la sola architettura, in aperta concorrenza con Baldus. Sul­la scia della Mission Heliographique del 1851, cui non sono chiamati a partecipare, avviano in proprio la pubbli­cazione della raccolta di Reproductions photographiques des plus beaux types d’architeture et de sculture d’a­près les monuments les plus remarquables de l’Anti­quité, du Moyen Age, et de la Renaissance (1855-1858)  per passare quindi alle riprese di montagna ed in partico­lare del massiccio del Monte Bianco, che Auguste Rosalie fotograferà più volte tra 1858 e 1862, poi ancora nel 1868, realizzando una serie molto nota di immagini, raccolte in due album pubblicati come Bisson Fréres al nuovo indirizzo di Boulevard des Capucines 35. In quello stesso stabile in cui operava anche Gustave Le Gray dal 1848, “al pianoterra i fratelli Bisson, finanziati dai Dolfus di Mulhouse, aprirono un sontuoso negozio dov’erano alli­neati, davanti a un pubblico sorpreso ( … ) vedute della Svizzera in dimensioni fino allora sconosciute” ricorda Na­dar, Quando ero fotografo. Roma: Editori Riuniti, 1982, p.137, (traduzione di Stefano Santuari). Dopo il fallimento dello studio nel 1863, acquistato da Emile Placet, fotografo e fotoincisore che continuerà a ti­rare stampe dai negativi Bisson, Louis Auguste ne divenne il direttore mentre Auguste Rosalie proseguì la propria at­tività realizzando stereoscopie per conto della Maison Léon et Levy, ma intorno al 1870 entrambi i fratelli ab­bandonarono la pratica fotografica.

[31] Citato in M.-C. S.-G., Bisson frères, http://exposi­tions.bnf.fr/napol/grand/048.htm, senza indicazione del­la fonte (Ernest Lacan) sottolineatura di chi scrive. I due ghiac­ciai in realtà costituiscono i due bracci del ghiacciaio del­l’Aar, ripreso anche in dagherrotipo da Camille Bernabé (Lyon 1808 – 1860 post) già nel 1850, da un “padiglione” fatto co­struire nel 1846 proprio da Daniel Dollfus-Ausset, che fu anche il committente di queste prime immagini, esposte (con le stampe Bisson?) nel 1856 alla Société des amis des arts di Strasburgo e autore, con Henri Hogard, di un volu­me di Materiaux pour servir à l’étude des glaciers. Stra­sbourg: Simon, 1854. Interessante come sempre la testimonianza relativa alla realizzazione del dagherrotipo: “On à dû séjourner pendant huit jours par le froid, la pluie et la neige, avant d’avoir obtenu une heure de temps favorable pour faire les trois vues de ce glacier”, citato in Marie ­Sophie Corcy, Camille Bernabé, Glacier de l’Aar, in Le daguerréotype français, 2003,  sch. 275, p.341.  Nel 1852 Von Martens di ritorno da Losanna gli fece visita e così poi ne scrisse: “J’ai vu chez lui très beaux portratits au collodion, de belles vues sur verre, et une délicieuse vue de montagne sur plaque d’argent.”, citato in Collection M. + M. Auer, 2004, p.  69 n.25. Segnaliamo qui, come traccia di possibili legami e percorsi di ricerca, che anche Alexandre Calame aveva visitato i ghiacciai dell’Aar in compagnia di Dollfus-Ausset, cfr. Anker, 1987, p. 108 che trascrive una lettera di Eduard Desor a Calame del 12 gen­naio 1846.

[32] Citato in Cavanna 1994.

[33] Cfr. Cavanna 1994. Sull’insieme delle riprese alpine di Auguste-Rosalie si veda Falzone del Barbarò, 1982, mentre dell’album donato a Vittorio Emanuele II è stato realizzato un facsimile Souvenir de la Haute-Savoie. Le Mont Blanc et ses Glaciers, MM. Bisson frères Photographes  de l’Empereur. Excursions dirigées par Auguste Balmat, testo introduttivo di Angelo Schwarz. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1982. Gabriel Loppé (1825-1913) era anche fotografo (Musée d’Orsay), cfr. Marie-Noel Borgeaud, Gabriel Loppé: Peintre, Photographe & Alpiniste. Grenoble: Glénat, 2002.

[34] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), C.G.Geisser,  “Vin­ght [sic] vues sur un méme feuille“, 1777, in Immagini e immaginario della montagna 1740 – 1840, catalogo della mostra,  (Torino, Museo nazionale della montagna, 15 febbraio-2 aprile 1989). Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1989, sch. 138, p. 103.

[35] Già Theophile Gautier aveva posto in relazione le due differenti letture, sebbene con ragioni diverse: “Le monta­gne sembrano finora aver sfidato l’arte. È mai possibile in­quadrarle in un dipinto? Ne dubitiamo, perfino dopo le te­le di Calame. (. .. ) L’artista può solo far intravedere, ultimo e sublime piano, la silhouette ghiacciata d’argento di una montagna nei fumi azzurri dell’orizzonte ed è proprio ciò che rende tanto preziose le belle prove fotografiche dei si­gnori Bisson”, citato in Foucart, 1998, p. 34.

[36] Daniel, 1994, p. 245.

[37] I dati sono desunti dalle iscrizioni e dai differenti timbri a secco delle due stampe: men­tre i negativi sono sempre numerati e firmati dal solo Mu­zet (1828 – 1885 post) i timbri parlano alternativamente di “Muzet et Bajat Photographes / Grenoble” o più semplicemente di “Bajat à Grenoble”, senza ulteriori specificazioni, ciò che parrebbe indicate piuttosto il ruolo di editore di que­st’ultimo, confermato anche dalla pubblicazione dell’al­bum litografico di G. Margain, Grenoble et ses environs. Vingt Vues dessinées d’après nature et lithographiées. Avec texte explicatif, 1865 ca, indicato come in vendita ” Chez Bajat, Place S.te Claire “. Sia le Vues photo­graphiques sia quelle dessinées d’après nature uscivano però da Maisonville & Fils & Jourdan Editeurs. Scarse sono le notizie relative a Muzet, che alcuni indicano attivo a Lione (sotto la firma Muzet et Joguet, autori di ste­reoscopie, 1860 ca, dove risulta attivo anche Bajat nel 1842). In questa occasione non ci è stato possibile verifi­care il legame tra Muzet e la Société Dauphinoise des Amateurs Photographes, di cui la Biblioteca municipale di Grenoble conserva oggi 25.000 lastre prevalentemente dedicate a temi alpini, cfr. Allain, 2000, p. 47.

[38] Un’altra stampa con veduta di una cascata e mulini, ap­partenente alla stessa serie, è conservata all’Harry Ran­som Humanities Research Center all’Università del Texas ad Austin, collezione Gernsheim.

[39] Il dato si ricava dal timbro a secco della veduta della Mer de Glace, presente anche nella stampa conservata ad Au­stin.

[40] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Fotografia e alpinismo. Sto­rie parallele. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1995, p.7 che ri­prende un’analoga osservazione di Falzone del Barbarò, 1982, p. 12. La stessa interpretazione è stata ancora recen­temente ribadita senza riconoscere non solo che le due riprese, come si è detto, sono sottilmente diverse ma an­che, come doveva risultare evidente dal confronto diretto, che la stampa di Muzet è firmata ben due volte sulla lastra, una in negativo (in chiaro) per effetto di una scrittura so­vrapposta all’emulsione, l’altra in positivo (in scuro) quale esito di una incisione dell’emulsione stessa, cfr. G. G. [Giu­seppe Garimoldi], Auguste Rosalie Bisson, in Le catte­drali della terra. La rappresentazione delle Alpi in Ita­lia e in Europa 1848-1918, catalogo della mostra (Milano,  Museo della Permanente, 24 gennaio – 19 marzo 2000), a cura di Letizia Scherini. Milano: Electa, 2000, sch. 103, p. 181 e didascalia p. 134.

[41] Per la ripresa di Bisson, molto nota, cfr. N.V, [Nicola Vassallo], Louis-Auguste (nato 1814) e Auguste-Rosa­lie (nato 1826) Bisson, Album del Monte Bianco, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), III, sch.1435, pp.1326-1327, n.14; Souvenir de la Haute­ Savoie, 1982, t.nn.; Falzone del Barbarò, 1982: t. 12 e t.14.

[42] Giova ricordare che anche Edouard Baldus, presentò al­la IV Exposition de la Societé Française de Photographie del 1861 due immagini di analogo soggetto, cfr. Daniel, 1994, p. 230, e che questi temi riscuoteranno larghissimo successo ancora negli anni e decenni successivi, enorme­mente diffusi con la produzione stereoscopica, in partico­lare con la serie realizzata tra 1863 e 1868 da William En­gland (1830 – 1896) per l’Alpine Club di Londra.

[43] Per la Vallée de Chamonix si ha rispettivamente (in mil­limetri, altezza per base) 305x 406 per Bisson e 327×388 per Muzet, mentre i valori della Mer de Glace corrispon­dono a 236×384 e a 243×354.

[44] Giorgio Sommer (Francoforte sul Meno 1834 – Napoli 1914), attivo a Roma nel 1857-1872, con Edmond Beh­les (1841 – 1921) , quindi a Napoli 1873 – 1891. Ipotiz­zando che possa aver visitato la Savoia negli stessi anni in cui lo troviamo a Torino (1863 – 1865 ca, prima che la Mole in costruzione emergesse dalla tessitura urbana a nord di Piazza Vittorio, come mostra un suo panorama della città da Villa della Regina, cfr. Miraglia, 1990, tav. 85), che il rinnovato interesse – ora fotografico – per il soggetto molto dovesse alla recente pubblicazione del pri­mo album Bisson, e considerando che l’indicazione di responsabilità posta in calce all’immagine si riferisce al solo Sommer e non alla coppia Behles – Sommer, scioltasi ­come ha ipotizzato Miraglia, fra il 1865 e il 1867, credo che si possa verosimilmente collocare in que­sto arco di tempo la realizzazione della ripresa e della stampa qui presentata. Per un’attenta e affettuosa presen­tazione critica della figura di questo fotografo rimando a Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in Un viaggio fra mito e realtà. Giorgio Sommer foto­grafo in Italia 1857 – 1891, catalogo della mostra (Ro­ma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993), a cura di Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann.  Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11 – 32 (in particolare alle pp. 12, 26 n. 11, 31 n.84).

[45] M.T.V. (Marie-Christine Vellozzi), J.A. Linck, “Crevas­se sulla Mer de Glace et Grands Charmoz”, s.d., in Im­magini e immaginario della montagna, 1989,  sch. n. 163, p.133.

[46] Garimoldi, 1995, p.  49. Un ricchissimo repertorio di ico­nografia alpina prefotografica è costituito dalla collezione Paul Payot depositata al Conservatoire d’Art et d’Histoire di Annecy e pubblicata in Mont-Blanc. Conquete de l’Imaginaire.  Montmélian: La Fontaine de Siloé, 2002.

[47] Per i riferimenti letterari al tema cfr. Mario Domenichel­li, Il monte e la balena: il sublime dell’origine nel ro­manticismo, in Alpi gotiche. L’alta montagna sfondo del revival medievale, atti delle giornate di studio (Torino 1997), a cura di Cristina Natta-Soleri, Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1998, pp. 123 – 131, che pensa piuttosto a Poe e Melville.

[48] Alberto Luigi Vialardi (1833 -1912), membro dei CAI, tra i più noti fotografi torinesi della sua generazione, risul­ta essersi dedicato alla professione per un brevissimo arco di tempo, compreso tra il 1863 e il 1869, sebbene di lui siano note alcune immagini di Figurini del personale del­la Real Casa, datati 1871 e conservati presso la Bibliote­ca Reale di Torino. Lo svolgersi della sua attività, e il suo stesso avvio forse, sembrano essere strettamente connessi al ruolo nuovo di capitale nazionale, e poi alla sua perdita, svolto da Torino immediatamente dopo l’Unità, così come gli incarichi da lui assunti, quasi certamente determinati dalla buona conoscenza e dai buoni rapporti con il milieu burocratico statale che gli derivavano dall’essere stato se­gretario presso il Ministero delle Finanze e autore di un Annuario del Debito Pubblico (1862) che allora godette di una certa fama, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglla,1990,  pp.430-431.

[49] N.V, [Nicola Vassallo], Alberto Luigi Vialardi, Album del Monviso, 1863, in Cultura figurativa e architettoni­ca,  sch.1436, pp.1329-1331. Una stampa della stessa se­rie, annotata e colorata a mano, è conservata anche nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna, cfr. Sche­rini, 2000, p. 135, sch. 104. Gli altri membri della spedizio­ne furono Giuseppe e Luigi di Rovasenda e Luigi e Mel­chiorre Pulciano, quest’ultimo noto ingegnere e restaura­tore che sarà particolarmente attivo in area saluzzese. Da una cronaca coeva citata da Vassallo si apprende come ­nonostante il significato anche politico dell’impresa – l’aspetto più innovativo della spedizione fosse considerato “lo sperimento della fotografia” e in particolare l’uso delle nuove lastre al collodio secco, sebbene l’autore ritenesse che Vialardi avesse “fors’anco abusato del nuovo sistema secco del tanino [sic] proposto dal maggiore Russel, col non sviluppare le prove ottenute che al finire del viaggio”, contrariamente a quanto era invece indispensabile fare uti­lizzando il collodio umido, come nel caso di Auguste-Rosa­lie Bisson. (V.G.,  “L’Opinione”, 21 agosto 1863).

[50] All’album di Vialardi dedicato al cantiere del Canale Ca­vour conservato presso l’Archivio Storico della Associazione Irrigazione Ovest Sesia di Vercelli, si devono aggiunge­re le immagini di Bernieri e di Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara ed in alcu­ne collezioni private. Le fotografie di Vialardi divennero di fatto l’immagine ufficiale della grande opera, diffuse sotto forma di piccole vedute a volte assemblate in un unico car­tone, corredate di tavola topografica relativa al percorso del canale. Undici di queste fotografie, montate in cornici dorate, vennero inviate alla Esposizione Internazionale di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865.

[51] “La Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980, p.365. Ricordo qui che già le immagini dell’Album del Monviso erano corre­date di ampie didascalie che mostravano un’attenzione particolare per il tema, recente e scottante, della defini­zione dei confini con la Francia. I resoconti relativi all’at­tività di Vialardi che  Cassio ha ricavato da fonti gior­nalistiche coeve sono interessantissimi, sebbene risulti assolutamente incomprensibile il riferimento – contenuto in un articolo della “Gazzetta del Popolo” del 1864 – ad un inesistente “traforo del Moncenisio” che sarebbe stato realizzato nel 1863; lungo quel percorso gli unici lavori che comportarono la costruzione di gallerie (artificiali) fu­rono quelli relativi alla realizzazione della ferrovia a cre­magliera nel 1868.

Un’astratta fedeltà: le campagne di documentazione fotografica 1858-1898 (2001)

in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898.Torino: Umberto Allemandi, 2001, pp. 79-98

 

 

Quando, nel 1865, Antonio Perini pubblica il suo album dedicato alle collezioni della Regia Armeria si premura di esplicitarne le ragioni e i modi: “Per far conoscere i pregi di tanti capolavori – afferma nell’introduzione –  la descrizione è inefficace, mentre nessun altro mezzo è più opportuno della fotografia, la quale con fedeltà pressoché matematica riproduce eziandio i meno spiccati dettagli.”[1] Questo richiamo ai pregi caratteristici del nuovo mezzo è interessante non tanto per la sua eccezionalità quanto, al contrario, per il suo essere conferma di un pensiero preciso e di un atteggiamento di chiara coerenza metodologica che era comune ai migliori esponenti della cultura fotografica dei decenni immediatamente successivi alla sua invenzione. La “fedeltà” cui si richiama Perini non è altro che la riproposizione pressoché letterale di quella  “precisione quasi matematica” di cui aveva parlato Arago[2] a proposito del dagherrotipo in occasione della sua presentazione nel 1839, ora confermata e accresciuta della consapevolezza che derivava ai fotografi dalla riflessione attenta sulle possibilità linguistiche offerte dalle diverse tecniche a disposizione, ben esemplificata dal lucidissimo testo che Benjamin Delessert[3] premette ai propri fascicoli di riproduzioni fotografiche delle incisioni di Marcantonio Raimondi, nel 1853.

La documentazione archivistica non ci ha restituito sinora le ragioni che portarono Perini a lavorare a Torino, impedendoci quindi di ricostruire appropriatamente la genesi, le motivazioni e le condizioni del suo operare: non siamo quindi in grado per ora di stabilire se si sia trattato  di un esempio precocissimo di strategia celebrativa e comunicativa da parte della Direzione dell’Armeria, attuato facendo ricorso ad una tecnologia più innovativa ma considerata ancora per certi versi inaffidabile, oppure – come appare più probabile – di un’iniziativa dello stesso fotografo editore; questa seconda ipotesi però, oltre a testimoniare l’ormai raggiunta notorietà della collezione sembra corrispondere meglio all’intenzione espressa dallo stesso Perini nella presentazione del facsimile del Breviario Grimani (1862), di voler operare “non tanto per servire alla dotta curiosità dei ricercatori, quanto perché se ne potessero giovare le arti del disegno”, proponendo armi e armature quali modelli d’arte, illustrati con una sequenza che risulta priva di caratterizzazioni tematiche o tipologiche sebbene sia aperta dall’efficace confronto visivo, di preciso valore critico,  tra la statua di Bartolomeo Colleoni che il Verrocchio realizza per Venezia e l’armatura equestre B5;  una proposta di lettura che rivela, oltre le analogie formali, il permanere del significato politico del monumento equestre, implicito anche nella sua forma apparentemente più neutra di puro artificio ostensivo. Tale suggestione sottile, verosimilmente da attribuirsi allo stesso Perini sebbene la statua del Colleoni non risulti compresa nel sommario delle figure, contrasta radicalmente con le scelte operate nella preparazione delle tavole successive, con gli oggetti collocati in uno spazio astratto, completamente scontornati, privi di sostegni o appoggi e senza alcuna traccia di sfondo, soluzione che concentra tutta l’attenzione sull’opera e ne cancella il contesto, lo spazio della Galleria Beaumont, la cui descrizione è demandata alla prima tavola, ancora fuori numerazione. Così facendo, con la mascheratura e con il ritocco il fotografo rifiuta di fatto il valore di traccia della fotografia e ripropone con nuovi strumenti la tradizione rappresentativa delle arti del disegno, solo apparentemente liberata da ogni intenzionalità interpretativa: accade cioè che l’autore si affidi alla fotografia per la sua riconosciuta possibilità di fedeltà oggettiva nella descrizione dell’opera, disconoscendo però le conseguenze del suo stesso operare nel trattamento generale della tavola, in quel vuoto assoluto intorno all’opera che costituisce l’elemento di continuità con le raffigurazioni precedenti. Sulla stessa pagina convivono lo spazio concreto, referenziale, del corpo dell’armatura e lo spazio astratto, disegnato, del segno manuale del ritocco, secondo una formula che ritroveremo ancora, sostanzialmente immutata, in altre rilevanti imprese successive.

Proprio la volontà di garantire la fedeltà al modello, piuttosto che la possibilità di “riproducibilità” offerta dal nuovo mezzo,  è ciò che porta a scegliere e poi a privilegiare sempre più la fotografia quale tecnica di “riproduzione”. è questa necessità di verosimiglianza che aveva indotto Primo Feliciano Meucci a disegnare nel 1860-61 “varii oggetti della Galleria (…) valendosi del prisma[4] attalché l’effigie ne riuscì più che perfetta”, ma anche ad adottare per alcune tavole una modalità descrittiva “a figure piene” e non a linee di contorno come era nella tradizione neoclassica, tanto da portare l’allora Direttore Actis a sottolineare come in quelle prove “la somiglianza al vero [fosse] insuperabile.”[5]

Nei lunghi mesi in cui Meucci lavorava a produrre le sue prime lastre incise, la fotografia aveva già fatto la propria comparsa quale tecnica di riproduzione degli oggetti dell’Armeria. Risale infatti al 1860 circa la prima documentazione fotografica, oggi nota dagli esemplari conservati all’Accademia Albertina: un insieme di trentasei riprese, integrate da altre non riferibili ad opere della stessa collezione,  in parte anonime e in parte realizzate da Francesco Maria Chiapella[6] da cui è stato ricavato un insieme di sessantuno stampe, verosimilmente commissionate o acquistate a scopo didattico, come lascia supporre la presenza di più copie della stessa lastra e la scarsa cura della presentazione e del montaggio, quasi sempre con supporti a profili irregolari. Esse costituiscono la prima testimonianza della fortuna fotografica del tema e dell’inversione di tendenza nella scelta del mezzo di traduzione, ulteriormente confermata, pur con accenti diversi, dalle copie fotografiche di alcuni disegni di Pietro Ayres, tra cui uno dell’armatura Martinengo B5, che Balbiano d’Aramengo[7] realizza negli stessi anni, riproduzioni alle quali sembra potersi riferire la lettera di Seyssel d’Aix ad Ayres del 15 aprile 1866 in cui richiede di verificare i tempi necessari all’esecuzione di 12 disegni per  la realizzazione “della prima parte dell’Album Fotografico per l’illustrazione della R. le Galleria”.[8]

In questa prima campagna fotografica di Chiapella e di autore anonimo l’elemento caratterizzante, specialmente evidente per confronto con le successive, è dato dalla scelta dei soggetti: vengono infatti fotografate molte armi da fuoco (un terzo del totale), con particolare attenzione agli aspetti decorativi in genere e in particolare per i due archibugi M12 e M11, quest’ultimo soggetto anche di un grande disegno acquerellato sostanzialmente coevo ora attribuito a Meucci,  la cui  ricca lavorazione a intarsio in avorio, argento e oro “di sorprendente bellezza, cioè fogliami, volute, animali, chimere, isolati o posti a contorno od ornamento di figure e di storie.”[9] costituiva un caso esemplare di modello didattico.

Mentre con Chiapella e poi Perini, e non considerando il progetto Seysell a cui collabora Balbiano d’Aramengo,  le opere si configurano come “illustrazione” delle eccellenze del patrimonio dell’Armeria, al più corredate di notizie tratte dal precedente catalogo, il lavoro di Isaia Ghiron, Iscrizioni arabe della Reale Armeria. Firenze: Le Monnier, 1868, con otto tavole con stampe all’albumina di sciabole, archibugi, armature ed elementi delle stesse, costituisce il primo esempio di studio analitico di un importante settore del museo corredato di sistematica documentazione fotografica, sulla scia di produzioni editoriali analoghe e ormai di una certa diffusione: basti pensare al volume  che nel 1865 Angelo Angelucci, aveva dedicato a Le armi di pietra donate da S.M il Re Vittorio Emanuele II al Museo Nazionale d’Artiglieria. Torino: Tip. Cassone & Comp., corredato da una tavola f.t. con 3 stampe all’albumina anonime.

Sono gli anni in cui si afferma la notorietà dell’istituzione: mentre la tavola di apertura dell’album di Perini con la veduta della Galleria Beaumont avrà funzione di contestualizzazione delle opere presentate nei fogli successivi, la ripresa dello stesso soggetto realizzata dal francese Charles Marville nel 1858-1859 è la prima a testimoniare fotograficamente l’inserimento della prestigiosa sede museale tra i luoghi rimarchevoli della città, insieme con Palazzo Reale e Palazzo Madama, piazza San Carlo, la chiesa della Gran Madre di Dio, il Monte dei Cappuccini e la basilica di Superga; scelta ancora anomala e suggerita forse dal concomitante impegno del fotografo francese nella documentazione del patrimonio artistico della Biblioteca Reale[10].

Quando nel 1874 si apre a Milano l’Esposizione Storica d’Arte Industriale la “Classe V – Armi e Armature”, curata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli (dalla cui collezione provengono molte delle armi esposte) e da Walter Craven[11], comprende numerosi esemplari provenienti dalle collezioni della Regia Armeria, per la prima volta esposti al di fuori della sede torinese. Scopo dell’iniziativa, legata all’istituzione a Milano di un Museo d’Arte Industriale, era quello di “formare il gusto degli operai”[12]  e di “accrescere il corredo di buoni disegni che devono essere la prima dotazione del Museo levando copia degli oggetti esposti più rimarchevoli e più degni di studio e d’esempio ai nostri artefici”[13], ragione per cui viene richiesta l’autorizzazione a riprodurre gli oggetti esposti “in fotografia o a matita”, con l’intenzione di vendere poi le fotografie a prezzo di costo[14]. Frutto di questa partecipazione e della concessione alla riproduzione delle opere è la realizzazione di una “stupenda collezione delle fotografie” costituita dalle “riproduzioni degli oggetti di quest’Armeria [e] delle fotografie delle altre armi e armature state costì esposte da altri proprietari”[15],  che risulta pervenuta in Armeria in data 2 maggio 1875, ma di cui si è perduta sinora ogni traccia.[16]

Di pochi anni più tarda deve essere la cartella dedicata A S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II Re d’Italia/ Omaggio/ di A. Pietrobon/ di/ Venezia[17], forse prodotta dal fotografo, già attivo a Firenze, per ottenere il privilegio regio di cui si fregiava nella città toscana, ma che il confronto ha consentito di verificare come realizzata con stampe ricavate dalle lastre realizzate da Antonio Perini per l’album del 1865.  In questa nuova versione, che comprende anche una Veduta generale della sala d’armi firmata in lastra all’angolo inferiore sinistro, “A. Pietrobon & C./ Torino”,  gli oggetti non sono identificati né con sigla né con numero, ma i cartoni riportano al verso un’identificazione più tarda corrispondente al catalogo Seyssel d’Aix del  1840, evidentemente assegnata dopo l’ingresso dell’album nelle collezioni reali; sebbene non si tratti di una produzione ex novo va rilevato come l’edizione Pietrobon oltre a confermare il prestigio e la notorietà della collezione, si segnali per la presenza di stampe di grande qualità ed efficacia, specialmente per il bel viraggio nero violaceo all’oro che valorizza l’uso  accorto delle luci che fu di Perini.

È questo il decennio che segna anche l’avvio del progetto del nuovo catalogo della Regia Armeria, affidato nel 1873 al maggiore Angelucci,  e proprio per la sua illustrazione pare riaprirsi il confronto, in forme più pragmatiche, tra incisione e fotografia, forse influenzato dall’esperienza della partecipazione all’Esposizione milanese. Sappiamo dalla corrispondenza tra Seysell d’Aix e lo stesso Angelucci che sin dal 1874 almeno si pensava ad un catalogo illustrato da tavole fotografiche fuori testo, sul modello di esempi noti e di precedenti realizzazioni torinesi di diverso impegno: da Ghiron allo stesso Angelucci al Le Lieure di Turin ancien et moderne, sebbene forti fossero le perplessità rispetto alla permanenza ed alla stabilità dell’immagine[18]  e soprattutto proibitivi i costi: “Anche in me nacque il dubbio ch’esse non sieno durevoli – scrive il Direttore – ma disgraziatamente v’è un male ben maggiore, cioè la spesa a cui montano di 200 fotografie per n.° 2000 esemplari al prezzo ristretto di otto centesimi caduna che forma la piccola bagatella di lire trentaduemila.”[19] Ecco allora farsi avanti l’ipotesi di utilizzare la fotografia non in forma diretta ma quale modello intermedio per la realizzazione delle incisioni, scelta che porta a commissionare a Giovanni Battista Berra, titolare dell’importante studio Fotografia Subalpina “di fotografare mezz’armatura di Antonio Martinengo riposta in una delle nuove vetrine ed  i moschetti a ruota di Eman.le Filiberto che proverò poscia di far incidere sul legno dal Salvioni o dal Monaret.”[20] Le riprese vengono realizzate nei giorni immediatamente successivi, decidendo però di sostituire i moschetti con “due dei nostri più ricchi elmi” e le stampe, giudicate “discrete” sono inviate all’incisore “Meunier di Parigi, quello stesso che fece i clichets [sic] dell’opera di Lacombe [Les Armes et les Armures] onde conoscere se bastano per bene incidere sul legno e quanto costerebbe cadun clichet.”[21] Pochi mesi dopo risultano spese L. 2500 per 400 incisioni su legno “da stamparsi nel nuovo catalogo” e L. 200 per “fotografie per l’esecuzione di dette incisioni”[22].

Successivamente a queste commesse Berra otteneva da Valfré di Bonzo “la facoltà di fotografare l’insigne collezione”, forse utilizzando in parte le riprese su lastra al collodio già realizzate, e nel settembre 1882 a compimento del proprio impegno offre “in attestato di omaggio la raccolta delle fotografie da me testè condotta a termine”[23], cioè i due volumi dedicati alla Regia/ Armeria/ di/ Torino[24], con stampe all’albumina[25], che il fotografo dona anche alla Biblioteca del Re. Non possiamo escludere che questa scelta sia stata dettata a Berra da un intento puramente promozionale, destinato a consolidare definitivamente il proprio ruolo di preminenza nell’ambito degli studi fotografici torinesi impegnati nella documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, ma va ricordato che questi soggetti godevano di ampio interesse in quegli anni e che le stampe relative erano commercializzate dal suo studio anche in forma non rilegata, come dimostra la raccolta completa proveniente dall’archivio di Adolfo Coppedé[26].  Mentre l’apertura del primo volume con la veduta della Galleria verso il Medagliere riprende modelli precedenti (Perini riproposto da Pietrobon), la sequenza successiva comporta una presentazione ordinata di armature equestri, viste quasi sempre di lato o in leggero scorcio, di riprese frontali di armature pedestri complete, corazze con elmi, alcune armi da fuoco e da taglio e finimenti, mentre il secondo volume è dedicato agli elmi, alle parti di armatura e infine agli scudi;  quasi a confermare il permanere di un interesse “neomedievale” e una scelta orientata dal gusto per i balli e le cerimonie in costume ancora presente nella società umbertina, solo due delle 130 tavole sono dedicate alle armi da fuoco.

La rappresentazione degli oggetti, identificati in lastra mediante iscrizione manoscritta su striscia in carta posta in testa all’immagine, risulta puramente documentaria, con evidenti intenzioni di oggettività descrittiva, senza il ricorso a suggestioni narrative di alcun genere, quelle che avrebbero consentito e imposto inquadrature di maggio effetto scenografico, riscontrabili in alcune delle riprese non utilizzate. Gli oggetti sono ripresi frontalmente su sfondo neutro ma visibile, comunemente costituito da un panno unito che separa dal contesto dell’Armeria anche le grandi armature equestri, combinato a volte ad un uso accorto del fuori fuoco e dei diversi valori di illuminazione, senza interventi successivi di scontornatura o mascheratura, che sono invece presenti sui negativi che saranno riutilizzati nel 1937; le luci sono morbide e ben controllate ad evitare i riflessi del metallo; i supporti sono mantenuti visibili, sino al chiodo a cui è appeso lo scudo: l’oggetto vive nello spazio reale in cui avviene la ripresa.

A testimoniare la fondatezza dei dubbi di Seysell in merito ai problemi di stabilità dell’immagine, alcune tavole dell’esemplare conservato in Armeria (es. I, 45) hanno una seconda prova, presumibilmente identica, sovrapposta alla prima, forse per ovviare a una debolezza intrinseca della stampa rilevata dopo la rilegatura, ciò che farebbe pensare ad una data di realizzazione lievemente posteriore all’esemplare conservato in Biblioteca Reale, in cui il forte sbiadimento generalizzato ha reso evidentissimi i pesanti ritocchi operati sui positivi, non visibili invece nell’altro esemplare.[27]

La realizzazione di queste fotografie si colloca in un momento in cui alle originarie spinte del revival neogotico si sovrappongono progressivamente  e si mescolano – come si è accennato – interessi antiquariali, collezionistici ed eruditi accanto a più generali questioni di gusto: pur non potendo qui affrontare il merito del problema, basti pensare all’interesse per le armature testimoniato dalle fotografie realizzate da Charles Clifford nel1850-1860 e conservate nella collezione di Mathew Digby Wyatt,  alle collezioni di  Gian Giacomo Poldi Pezzoli a Milano e di Frederick Stibbert  a Firenze naturalmente[28], ai già citati Coppedé così come alle raccolte veneziane di Mariano Fortuny y Madrazo, che aveva tra le proprie collezioni anche le fotografie di C. Chevaliers dell’armeria del castello di Pierrefonds (1870ca).  Per il Piemonte ricorderemo qui le armature della collezione reale  prestate per il ballo in maschera del Duca di Teano nel 1875[29] , le collezioni e i temi delle opere di Edoardo Calandra, ma anche la figura di Vittorio Avondo, collezionista poi donatore ai Musei Civici di armi da taglio e da fuoco, già dal 1865, e nel cui castello di Issogne erano presenti armature fotografate da Ecclesia[30] nel 1882,  appena prima dei personaggi in costume che animavano il Borgo Medievale. A queste  si ispireranno le fotografie ambientate realizzate dallo Studio di Riproduzioni Artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[31], effettivo tramite tra il gusto sabaudo dei caroselli e dei balli in costume e il nascente pittorialismo storicistico di Guido Rey.

Dobbiamo ritenere che proprio in virtù del lungo rapporto di collaborazione tra Fotografia Subalpina e Direzione dell’Armeria Raffaele Cadorna abbia poi deciso di affidare allo Studio Berra, il titolare era morto alcuni anni prima, nel 1894, la realizzazione del grande progetto celebrativo e documentario che prenderà corpo con i tre volumi editi nel 1898, pubblicazione fondamentale per definire visivamente l’identità delle collezioni avendo quale supporto identificativo il Catalogo pubblicato da Angelucci nel 1890, forse già prefigurata dieci anni prima, come lascerebbe intuire una lettera dello stesso Cadorna  a Berra, datata 1888, in cui il Direttore rileva come “a rendere più praticamente utile e ad un tempo più pregevoli i due volumi delle accurate fotografie (…) occorrerebbe che in qualche modo si facesse risultare quale oggetto rappresenti ogni singola fotografia”[32], lettera corredata da un’annotazione a matita blu, forse più tarda, che recita: “Fototipia Turati a Milano”.

Le indicazioni progettuali fornite dal Direttore sono estremamente precise e comportano la realizzazione di album con stampe in fototipia “interamente conformi a quelli stati recentemente pubblicati dal Museo d’Artiglieria di Parigi (…) Ogni serie di album si comporrà di una prefazione ed in media di 40 tavole di fototipia caduna[33]  oltre ad un indice delle tavole stesse recante le indicazioni corrispondenti alle classificazioni descritte nel catalogo Angelucci (…) è riservata al Direttore dell’Armeria la indicazione degli oggetti a riprodursi, il loro ordine e la composizione dei gruppi per ogni serie [mentre] la Fotografia Berra si assume l’incarico di provvedere sotto la esclusiva sua responsabilità, ad ogni lavoro e provvista occorrente alla compilazione di quella serie di album”[34], svolgendo di fatto il ruolo di editore.

Secondo questi primi accordi il progetto doveva essere compiuto per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino” e affidato per la stampa allo stabilimento torinese Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56. L’accordo prevedeva inoltre che le lastre realizzate in quell’occasione dovessero essere conservate dallo Studio Berra, ma ad esclusiva disposizione della Real Casa.

Di questa prima fase di produzione, non interrotta alla morte di Cadorna nel 1897, rimangono una prima serie di riprese realizzata da Berra nel 1896 e stampate da Alberto Charvet, che ci ha lasciato puntuali indicazioni di lavoro in cui tutta la sua esperienza di fotografo ed editore è rivolta alla determinazione della resa più efficace nella raffigurazione di oggetti complessi e difficili come le armature e le armi: “Pessima modellazione – Errore grave l’aver posto drappi bianchi sotto l’armatura – riflessi di luci secondarie”, commenta a proposito della prima ripresa delle armature C25 e C13, e l’annotazione rasenta addirittura il sarcasmo quando a proposito dell’armatura B6 parla di “Grave distorsione – ingrandimento delle parti più avanzate – Nessuna modellazione (Pennaccio [sic] uso baldacchino da letto).”[35]

La lettura di queste prime prove di stampa e il rinvenimento di alcune delle relative riprese, oltre a costituire un’importante testimonianza del livello qualitativo dell’editoria d’arte torinese allo scadere del XIX secolo, consente di valutare una soluzione formale di presentazione distante dai modelli precedenti e sostanzialmente diversa da quella finale: non solo, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Cadorna gli oggetti riportavano su etichetta “la indicazione della lettera di alfabeto col numero corrispondente al catalogo Angelucci”, fornendo un’utile indicazione che appesantiva però le immagini, ma soprattutto le parti di armature erano sempre presentate poggiate su supporti, a volte coperti di tessuti in broccato, secondo un gusto che risulta prossimo a realizzazioni di molto precedenti, quali ad esempio la raccolta di tavole dedicate a L’Arte Antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, che lo stabilimento dei Fratelli Doyen aveva pubblicato nel 1882[36].

Le pungenti critiche di Charvet determinano però l’incrinarsi dei rapporti con lo stabilimento Berra e in particolare col suo direttore Giovanni Assale, accusato dallo stampatore  di essere “privo di quelle cognizioni pratiche necessarie in un simile e non troppo facile lavoro. Questi dissidi richiesero l’intervento del Cav. Cantù. Ma per quanto le negative fotografiche fossero poi fatte sotto la direzione del prelodato Signore, non erano eseguite con quella perfezione e con quella cura prescritte e richieste dalla grave esigenza della fotografia e fototipia”[37], ragione per cui Charvet propone o di “fare le negative fotografiche per conto delli Berra” o di “rimediare alla imperfezione delle negative col ritoccarle, fare un positivo su vetro, ritoccare questi e fare altra negativa per contatto”, ma tali proposte non vengono accettate  e “Il Cav. Cantù d’accordo col fotografo  ha persuaso l’Onorevole Direzione Reale Armeria [sic] che io non ero capace di fare la buona fototipia.”

La divergenza si era infatti trasformata in causa civile e il direttore dell’Armeria Luigi Avogadro si era visto costretto a rivolgersi “ad alcune persone intelligenti nella materia e tra esse (…) al Sig. Cav.re Cantù, Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”[38], che firmerà anche  la litografia con l’immagine del cavaliere in armi in antiporta dell’edizione definitiva dei volumi[39].

Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione del lavoro sin dalla fase di ripresa ci rimane testimonianza nelle parole di Assale che  nel gennaio del 1897 conferma  che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”[40], ma anche nelle prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione dello stesso fotografo –  ricorda tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare si fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”[41],  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”[42]

Già dall’agosto del 1897 Luigi Cantù sottopone a verifica le prime prove di Charvet e le confronta con quelle dello stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, forse nel frattempo contattato dallo Studio Berra[43], prove che saranno  giudicate dal Direttore “assai superiori per merito artistico a quelle del Charvet le quali (…) sono sbiadite e difettose.”[44]

La verifica del nuovo ciclo di stampe avviene a ritmo serrato sino al luglio dell’anno successivo, mentre procede la causa tra fotografo e stampatore, che nel gennaio 1898 aveva presentato un memoriale difensivo direttamente al Re[45].

Avviandosi ormai alla conclusione del progetto, ma necessitando ulteriori finanziamenti per il suo compimento, Luigi Avogadro rileva come “Quantunque siasi limitato assai il lavoro delle riproduzioni fotografiche alle sole armi ed oggetti di maggior pregio artistico e storico qui conservate, raggruppandone anzi molti a guisa di trofei, si dovette tuttavia eseguire ben n.° 200 riproduzioni [sic] tavole mentre nel primitivo progetto erano state preventivate a calcolo approssimativo solo 120 tavole”[46] , rendendo così ragione di una modalità di presentazione delle opere e di impaginazione solo raramente adottata nei due volumi fotografici di Berra del 1882 e qui invece sistematicamente applicata nella presentazione di armi e di parti di armature. Forse anche in conseguenza di questo vincolo le nuove tavole con le immagini definitive ritornano a una concezione più astratta e didascalica, per nulla narrativa: armature e armi non sono mai ambientate e – ove possibile – neppure poggiate. Ancora una volta vince la presentazione astratta da ogni contesto, secondo la consuetudine illustrativa già adottata da Perini.

Le armi vivono in uno spazio assoluto, autoreferenziale, in cui solo la presenza dei piedistalli delle armature complete riporta alla pesante materialità dell’oggetto e anche la disposizione degli oggetti nello spazio di ciascuna tavola risponde ad una logica che è tutta compositiva,  mai referenziale. L’autonomia rappresentativa della fotografia sembra ancora una volta essere esclusa, lo strumento è trasparente, l’illusione è quella di accedere alla pura forma dell’oggetto nella sua essenza di opera: solo le frange delle rotelle cascano irrimediabilmente verso il basso.

La ripresa fotografica acquista invece tutta la sua potenzialità funzionale nelle tavole di apertura dedicate agli spazi dell’Armeria ed a loro allestimento, nel campo e controcampo della Rotonda come nella minuziosa sequenza delle vetrine e panoplie della Galleria Beaumont: per la prima volta la referenzialità fotografica registra le tracce dell’immaginario d’origine, “fatto per appagare la vista del visitatore”, ormai positivisticamente trasformato dal Maggiore Angelucci per consentire al visitatore “lo studio dei monumenti che gli si parano dinanzi.”[47]

 

Note

[1] Armeria Reale/ di/ Torino/ Venezia mdccclxv/ Stabilimento fotografico di Antonio Perini proprietario ed editore/ Calle largha S. Marco ponte dell’Angelo n.403, con 54 tavv. fotografiche all’albumina da negativi al collodio descritte nel testo + 3 tavv. non elencate:  1 veduta generale della Galleria Beaumont su carta salata, 1 monumento equestre a B. Colleoni e – in chiusura –  1 elmo figurato. Ricordiamo qui che anche Angelucci, nella presentazione del suo catalogo dichiarerà (pur optando per un mezzo diverso) di aver voluto “illustrarlo con numerose incisioni che valgano a mostrare l’esattezza delle descrizioni”, Angelo  Angelucci, Catalogo della Armeria Reale. Torino: Tip. Candeletti, 1890, p. viii, sottolineatura nostra. Come ha ricordato Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p.338, su segnalazione di Claudia Cassio: “Potrebbe essere un pagamento a saldo per il suo lavoro all’Armeria Reale, l’erogazione di 40 lire nel secondo quadrimestre del 1867, riportata nei registri contabili dell’archivio dei Duchi di Genova”, ma non è escluso che allo stesso acquisto si possa riferire l’imprecisa registrazione di una spesa di sessanta lire per un “Album fotografico del Sig. Pasini [sic] in Venezia”, ASAR, f.2, Corrispondenza … dal 9mbre 1856 al Xmbre 1877, n.119, 17 giugno 1873.

Antonio Perini, veneziano (1830-1879) era ben noto all’epoca per aver dato “impulso alla riproduzione de monumenti (…) di quadri, di opere antiche.” (G. Jankovic, citato da Alberto Prandi, nella scheda relativa al fotografo in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.171-172). In particolare fu il primo a pubblicare nel 1862 il facsimile del Breviario Grimani conservato alla Biblioteca Marciana, presentandolo all’Esposizione di Londra di quell’anno, e così avviando la fortuna editoriale del Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae appartenuto al cardinale Domenico Grimani, poi proseguita con la pubblicazione in facsimile realizzata sempre a Venezia da Ferdinando Ongania nel 1880, con 112 eliotipie e 4 cromolitografie, negli anni del monumentale impegno dell’editore per l’illustrazione della Basilica di San Marco. Perini pubblicherà poi, quasi alle soglie della morte, il Fac-Simile delle miniature di Attavante Fiorentino contenute nel codice Marciano Capella “Le Nozze di Mercurio colla Filologia” che si conserva nella Biblioteca Marciana. Venezia: Stabilimento fotografico di A. Perini, 1878, che si affianca ad altre analoghe imprese, ancora di Ongania, cfr. Paolo Costantini, Ferdinando Ongania editore veneziano e l’illustrazione della Basilica di San Marco, “Fotologia”, 1, giugno 1984, pp.4-10.

Nel 1915 Ulrico Hoepli scriverà alla Direzione per avere notizie del volume dedicato all’Armeria, che descrive composto di 61 tavole, del quale non riesce ad avere traccia neppure da altri librai specializzati e ne chiede eventualmente la disponibilità di una copia. A stretto giro di posta (4 gg.) la Direzione risponde identificando il volume con l’album Perini che però viene descritto formato da “55 fototipie”, cioè con una errata indicazione della tecnica e della consistenza (ASAR B1391).

[2] François Arago, Rapport sur le Daguerreotype. Paris: Bachelier,1839 (facsimile, Milano: Labor, 1964). Per il ruolo svolto dal fisico francese nella definizione stessa delle applicazioni e implicazioni connesse alla nuova scoperta si veda François Brunet, La naisssance de l’idée de photographie. Paris: Presses Universitaires de France, 2000.

[3] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa afferma: ” les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Mar-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches; tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine; ces  procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p.27. Sul dibattito in area anglosassone intorno alle questioni filologiche poste dalla riproduzione fotografica di opere d’arte si veda Anthony Hamber, “A higher branch of the art”. Photographing the Fine Arts in England 1839-1880. London – Amsterdam, Gordon & Breach, 1996, mentre un significativo esempio italiano è stato studiato pochi anni fa da Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp.41-47.

[4] Vale a dire della camera chiara o lucida, messa a punto da W. Wollaston nel 1807.

[5] Lettera del Direttore Actis, [10 ottobre 1861], ASAR f.73. Ancora una volta si confermano le ragioni del fascino esercitato dall’oggettività fotografica sulla cultura ottocentesca sin dalla prima comparsa delle nuove immagini; si pensi a quanto affermava già il “Messaggere Torinese” nel riportare la notizia del primo annuncio del dagherrotipo, nel numero del 23 febbraio 1839: “Il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli ” cfr. Miraglia 1990, op. cit.,  sottolineatura nostra, ma anche alle riflessioni a proposito della “mania di abbellire innata in ogni artista” che John Alexander Ellis antepone nel 1849 al proprio progetto di Italia in dagherrotipo (cfr. Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Colombo, 1983,p.12), o – per limitarci all’Italia – alle più tarde e analoghe riflessioni di Pietro Estense Selvatico, cfr.  Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96.  Risulta chiaro da queste testimonianze quanto fosse il valore di verosimiglianza piuttosto che quello della riproducibilità a far progressivamente preferire la fotografia alle tecniche calcografiche nella documentazione del patrimonio artistico e architettonico.

[6] Per la datazione di queste stampe si rimanda all’attenta analisi di Miraglia 1990, op. cit.,schede nn.124-125, p. 338, confermata e precisata dalle ricerche condotte da  Paola Manchinu – che ringrazio – per questa occasione: la concessione “d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.” fu infatti concessa a Chiapella il 15-9-1860, ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.23.  Dalla stessa fonte si ricava che “in Torino non possono essere concessi più di quattro Brevetti di R.o Stemma per ogni arte, mestiere, industria, ecc.”

Del fotografo va ricordato, oltre alle imprese note, l’album non datato A.S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II/Fotografie/ di Francesco Maria Chiapella conservato alla Biblioteca Reale di Torino, costituito da venticinque tavole con stampe all’albumina, che contiene, oltre alla riproduzione di un ritratto del re, una serie eterogenea di saggi fotografici che spaziano dalla riproduzione delle incisioni del ciclo decorativo di Paul de la Roche per il Louvre a sculture e dipinti di soggetto risorgimentale, dalle vedute dei dintorni torinesi (il Monte dei Cappuccini, Alpignano, Collegno) ad alcune residenze sabaude (Valentino, Moncalieri, Stupinigi), da porre in relazione con l’album richiamato in Miraglia 1990, op. cit.,scheda n.60. p.330, e databile 1857-1860.

[7] Appartiene alla nutrita schiera (F. Barbaroux, M. Beria d’Argentine, Edoardo de Chanaz, Radicati Talice di Passerano tra gli altri) di esponenti della nobiltà piemontese che si dedicano professionalmente (in modi ancora tutti da definire) alla pratica fotografica, specialmente nell’ambito del ritratto in formato carte de visite, ma evidentemente non solo, come dimostrano queste riproduzioni inedite e il suo album, su commissione del Duca d’Aosta, di riproduzioni di disegni del carosello storico realizzati dal pittore Cerruti Bauduc, prodotto nel 1864 alla vigilia della conclusione della sua breve attività professionale (1856ca-1865). Cfr. Miraglia 1990, op. cit., scheda p.354.

[8] ASAR, fasc.1, Nuova Direzione, n.7. La mancata realizzazione dell’opera non consente di verificare nel concreto la coerenza del progetto, ma basti qui ricordare che nell’accezione ottocentesca il termine “Album fotografico” poteva riferirsi anche ad una raccolta di disegni riprodotti fotograficamente, analogamente a quanto accadeva, ad esempio, con gli album della Società Promotrice delle Belle Arti. Va comunque sottolineata la coincidenza temporale e (parziale) di intenti tra l’edizione Perini e il progetto del Direttore. Sebbene l’album Perini risulti acquistato solo nel 1873 (cfr. nota 1), è inimmaginabile che la prima documentazione fotografica sistematica delle collezioni dell’Armeria non fosse nota al nuovo Direttore; non escluderei anzi che proprio dall’esempio di Perini si possa essere formata in Seyssel d’Aix l’intenzione di illustrare a sua volta le armature a cavallo con un “Album fotografico”, sebbene concepito ancora come raccolta di riproduzioni di disegni, forse per non rinunciare, come ipotizza Venturoli, alla “romantica” chiave interpretativa fornita dalle tavole di Ayres. Ringrazio Paolo Venturoli per la segnalazione di questo e di altri notevoli documenti conservati presso l’Archivio storico dell’Armeria.

[9] Angelucci 1890, op. cit., pp.410-414. Studio Bertieri di Torino realizzerà una serie di riprese del fucile M11 presentate all’Esposizione di Firenze del 1899, come testimonia una stampa conservata nell’Archivio fotografico dell’Armeria.

[10] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, s.d., [1859ca],citato  in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Miraglia 1990, op. cit., p.334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della notissima “Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie”. Potrebbero essere identificate con questa ripresa – oggi nota attraverso l’esemplare conservato presso la Biblioteca centrale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino – le dieci “Fotografie di Maggi della R. Armeria”, ricordate in un Quadro dimostrativo” datato 1 aprile 1888, ASAR, Strumenti, 47. Va ricordato che l’Armeria non sarà compresa – ad esempio – nell’album di Henri Le Lieure, Turin ancien et moderne, 1867ca, mentre verrà più tardi documentata da Brogi e quindi da Alinari. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, (circa 150 stampe di riproduzione in formati diversi edite nel 1864 ca,  che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese italiane potrebbe essere ulteriormente anticipata  alla metà del decennio precedente considerando che egli usava la definizione di “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, prima del 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori.

[11] Esposizione storica d’arte industriale in Milano, Catalogo Generale. Milano: Stabilimento Tipografico Fratelli Treves, 1874, pp.135 e segg., Le opere dell’Armeria occupano le vetrine dalla n. li alla n. lxv

[12] Antonio Beretta, presentazione al Catalogo Generale, 1874, cit. s.n. Il testo del Presidente dell’ Associazione Industriale Italiana costituisce una precisa testimonianza del progetto culturale sotteso a queste manifestazioni, ben sintetizzato dalla sua definizione dei Musei quali “raccolte pubbliche di buoni modelli.”  Per un utile confronto con le diverse strategie dell’analogo torinese si veda Carlo Olmo, L’ingegneria contesa. La formazione del Museo industriale, in Pier Luigi Bassignana, a cura di, Tra scienza e tecnica. Le Esposizioni torinesi nei documenti dell’Archivio storico AMMA 1829-1898.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1992, pp.103-122.

[13] Dalla lettera di richiesta di autorizzazione alla riproduzione degli oggetti esposti inviata al Direttore dell’Armeria dal Presidente del Comitato Esecutivo dell’Esposizione, ASAR, f. 892, Milano, 12 luglio 1874.

[14] ASAR, f. 1278, Esposizione 1874.

[15] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.140.

[16] ASAR, f.2, Nuova Direzione, nn.130,166, 167.

[17] 50 stampe all’albumina  montate su tavole sciolte che riportano in calce a destra la scritta litografata “A. Pietrobon – Torino. Alberto Pietrobon partecipò alla spedizione italiana in Persia del 1862 guidata dal ministro Marcello Cerruti, come assistente di Luigi Montabone (1827 ca.-1877), cfr. Michele Falzone del Barbarò, L’album persiano di Luigi Montabone, “Fotologia”, 3 (1986), n. 6, dicembre, pp. 24-33.

Di Pietrobon è nota anche una serie di N° XXV / Fotografie delle pitture di Gaudenzio Ferrari nell’/ interno della Chiesa della Madonna delle Grazie in / Varallo  realizzate nel 1887 ma che entrano a far parte delle collezioni reali “con foglio dell’Amm.ne R.C. [Real Casa] 3 marzo 88” ,BRT Y-31 (22).  Si tratta di stampe all’albumina di qualità palesemente inferiore alle tavole che costituivano il lavoro per l’Armeria.

Come risulta dal confronto tra fonti archivistiche e bibliografiche, prima della sede veneziana Pietrobon esercitava a Firenze in Via Solferino, 4 sotto l’insegna di “Arte e Natura”, potendosi fregiare del titolo di fotografo del Re, concesso in data 24 giugno 1865. Verosimilmente la produzione dell’album torinese era destinata ad ottenere la concessione anche per la nuova sede. Cfr: ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.24, Concessioni fatte da S. M. d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.; Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p.67.

[18] Sulle iniziative in merito alla soluzione del problema della stabilità delle stampe fotografiche dopo la metà del XIX secolo si veda Sylvie Aubenas, La photographie est une estampe. Multiplication et stabilité de l’image, in Michel Frizot, a cura di, Nouvelle histoire de la photographie.  Paris:  Bordas, 1994, p.224-231.

Esemplare dell’attenzione italiana per questi temi l’intervento di Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, iv, 1870, p.58, ora in Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p.130,   in cui celebra e descrive il “mirabile processo” messo a punto in Inghilterra nel 1864 da Woodbury (e non Woodburg, come recita il testo) “mezzo immediato e prontissimo di riproduzione dei lavori artistici e soprattutto degli oggetti di scultura i quali specialmente, per essere monocromi, non vanno soggetti a veruna alterazione di colore, di tinta”, così che l’opera risulta “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”. Con questo processo, noto anche come woodburytipia, si poteva ottenere “tutta la sfumatura graduata del modellato e dell’ombreggiatura proprio delle migliori fotografie, serbandone di più l’inalterabilità, epperciò preferibile a queste ultime soggette a svanire, come è notissimo.” (ibidem)

Ancora alla fine del decennio un acuto osservatore e buon fotografo come il biellese Domenico Vallino, così si esprimeva sulle  possibili applicazioni della fotografia alla stampa col sistema della fotolitografia, prendendo spunto dal recente testo di Lugi Borlinetto, I moderni processi di stampa fotografica. Milano: Pettazzi, 1878: “I miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci  sono una fanciullaggine rispetto alla moltiplicazione dei prodotti dell’ingegno a’ giorni nostri e la fede nella scienza la quale verrà a sostituire la fede teologica, riceve oggidì in questi miracoli il suo nutrimento. Dopo la stampa a mano, la stampa a macchina, la stampa celere, la litografia, l’incisione, ora si aggiunge un’arte novella per moltiplicare il pane eucaristico della nuova fede. Alludo alle recentissime applicazioni della fotografia alla stampa e queste si chiamano: fotolitografia, fotogliptia, foto-incisione, fototipia, eliografia ecc. ecc.”, D.Vallino, Un’arte novella, in “L’Eco dell’Industria”, 28 febbraio, 7 marzo, 10 marzo 1878.

[19] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.93, 3 febbraio 1874.

[20] Ibidem.

[21] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.95, 10 febbraio 1874.

[22] ASAR, f.2, Nuova Direzione,n.120, 24 giugno 1874.

[23] ASAR, f.1207, Lettera di G.B. Berra, Torino 25 settembre 1882.

[24] È questo in realtà il titolo dell’edizione conservata presso la Biblioteca Reale, mentre l’altra porta la dedica “Alla Direzione della Reale Armeria di Torino/ Omaggio dell’Autore Cav.re G. B. Berra Pittore e Fotografo” con una formula che ricorda quella dell’album realizzato dallo stesso fotografo per la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1880: “A S.M. Umberto I/ che più di tutti/ ama la grandezza/ della Patria/ Questo ricordo/ della IV Esposizione Nazionale/ di Belle Arti/ offre con riconoscente ossequio/ il pittore fotografo/ G.B. Berra/ Torino agosto 1880”. Ricordiamo qui che nella stessa occasione sei foto Berra di Rivara sono presentate da D’Andrade e viene realizzata la cartella a tavole sciolte in fototipia di Doyen in cui compaiono anche armi e armature.

Su Berra si veda Miraglia 1990, op. cit.,p.358, pur con imprecisioni  dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”: è infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che muore nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguito dalle due figlie.

Dopo essersi segnalato in occasioni diverse quale autore di riproduzioni di opere d’arte, nel 1882 Berra viene incaricato, con Vittorio Ecclesia, di fotografare i circondari di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Biscarra e da Crescentino Caselli, su incarico della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità, cfr. P. Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931,  “Architettura & Arte” , n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23. 

[25] Le stampe costituenti le due serie di volumi conservate rispettivamente in Armeria e presso la Biblioteca Reale si presentano in diverse condizioni di conservazione. A oggi si conservano 113 lastre al collodio 21×27; qualche lastra presenta ritocchi e mascherature non rilevabili nelle stampe coeve, segno certo di una riutilizzazione successiva per ora non precisamente identificata.

[26] Le foto Berra anche nel fondo Coppedè ora all’AFT, 15 album e oltre 170 fotografie sciolte acquisiti nel 1986, vedi la Scheda descrittiva del Fondo in “AFT”, 3 (1987), n. 5, giugno, p.12, che contiene anche due brevi saggi orientativi sul clima culturale e sull’attività della famiglia: Carlo Cresti, Eclettismo come costume di vita, pp.13-21, e Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, pp.22-31.

Gli album appartennero ad Adolfo e dovevano servire quali raccolte di modelli decorativi. Mariano, Gino, Carlo e Adolfo: Dinastia fiorentina di intagliatori (il padre Mariano), pittori (Carlo) e  architetti gli altri due, ma di humus di iperbolico virtuosismo artigianale fecondato dalle architetture effimere dei padiglioni espositivi e dalla scenografie del melodramma e del nascente cinematografo.

[27] Il volume secondo dell’esemplare BRT non solo è costituito da 65 (invece di 63) tavole, con titolo, manoscritto in calce che coincide alla lettera con le scritte autografe presenti sulle lastre conservate presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza, ma anche la sequenza presenta un ordine diverso: il volume si apre infatti con armature a piedi (tavv.1-22) ed  elmi (23-60) per chiudere con finimenti (61-63), il rostro romano (64) e l’elsa “di Donatello” (65).

La catalogazione delle lastre superstiti ha consentito in alcuni casi di analizzare anche le varianti di ripresa (laterale/ scorciata; fuori fuoco o con sfondo neutro) o la documentazione di oggetti poi non compresi nella versione  definitiva degli album, ma comunque messi in circolazione autonomamente (Zuccotto da parate E93, presente nell’esemplare conservato presso la Biblioteca Reale di Torino ma anche tra le stampe del Fondo Coppedè).

[28] Firenze: in occasione dell’inaugurazione della facciata del duomo nel 1887 Umberto I e Margherita giungono a Firenze, festeggiati tra le altre cose da un corteo storico e un gran ballo in costume medievale nelle sale di Palazzo Vecchio, organizzato da Frederick Stibbert, che si presentò vestito della copia di un’armatura inglese del 1370, proveniente dalla sua collezione privata (56.000 pezzi) ospitata nella villa di Monturghi, alle porte di Firenze, con un gusto che richiama piuttosto l’eclettismo imaginifico che sarà di Fortuny o e poi di D’Annunzio (del dandy insomma) che non l’attenzione filologica dello studioso, cfr. Frederick Stibbert. Gentiluomo, collezionista e sognatore, catalogo della mostra ( Firenze 2001), a cura di Kirsten Aschengreen Piacenti. Firenze: Polistampa, 2001. Il gusto della celebrazione in costume, al limite (a volte tranquillamente superato) della giocosità carnevalesca, ma certo intriso anche di celebrazione storicista. Si pensi agli analoghi torinesi.

[29] Ne da notizia in due successive lettere al marchese di Montereno, gentiluomo di corte di S.A.R. la Principessa di Piemonte, il Direttore Luigi Seyssell, chiedendo contestualmente l’invio delle fotografie realizzate in quell’occasione. ASAR, F.2, Nuova Direzione, nn.159, 161, 28 febbraio, 2 maggio 1875.

[30] Vittorio Ecclesia, Castello d’Issogne in Valle d’Aosta, con un testo di G. Giacosa. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1882 post], 20 albumine 27/27 (dell’opera esiste anche un’edizione con 18 stampe in formato 13/18).

[31] Cfr. P.  Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

[32] ASAR, f.1207, 7 marzo 1888.

[33] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898, in cui segnala la necessità di un ulteriore finanziamento connesso proprio al maggior numero di tavole realizzate.

[34] Convenzione tra Raffaele Cadorna, Direttore e Conservatore della Reale Armeria e le titolari dello Studio Berra, Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, Torino, 30 luglio 1896, ASAR C387.

Lo scambio di documenti e cataloghi col Museo d’Artiglieria di Parigi si era avviato all’inizio del decennio ed era proseguito sino al 1896, ASAR, B 1502, circa gli stessi anni in cui si realizzava anche il catalogo illustrato dell’Armeria Imperiale di Vienna (ASAR B1503), Wendelin Boeheim, Album Hervorragender Geganstande aus der Waffensammlung. Wien, J. Löwry, K.U.K. Hofphotograph, 1894 (I)-1898 (II).

[35] Su Alberto Charvet si veda Miraglia 1990, op. cit., pp. 371-372. L’archivio storico dell’Armeria conserva una cartella di Prove fotografiche e stampe di armature (…) da cui si ricava conferma della realizzazione di “nuove negative”, cioè del rifacimento parziale delle prime riprese. Di questa prima fase di produzione si sono conservate 19 lastre e 138 fototipie.

[36] In quell’occasione la Regia Armeria non aveva concesso alcun oggetto della propria collezione: Lettera del Ministro della Real Casa al Direttore, Roma, 11 marzo 1880, ASAR, f.895.

[37] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898; da questo documento, salvo diversa indicazione,  provengono anche le citazioni successive.

[38] Per le sinora scarne notizie su Luigi Cantù, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino dello stesso 1898, membro del Circolo degli Artisti, tra i futuri promotori della Società Fotografica Subalpina e vicino alla famiglia del Duca di Genova, si veda Miraglia 1990, op. cit., p. 368; Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra, (Torino, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997), a cura di Dario Reteuna. Torino: FIF,  1997, p.60; Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999, pp.14-16. Non si esclude che possa riferirsi ad una ulteriore fase intermedia la prova eliotipica di “Armi antiche” firmata da Carlo Bazzero e conservata tra le carte dell’Archivio dell’Armeria.

[39] Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino. Milano: Eliotipia Calzolari e Ferrario, s.d.  [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna; tre volumi per complessive 198 tavole in fototipia (1/69 – 70/129 – 130/198). Questa edizione si caratterizza per l’antiporta disegnata da Luigi Cantù e per le impressioni in oro al piatto anteriore e al dorso, mentre la successiva del 1902 è priva di immagine all’antiporta e di veline alle tavole, le impressioni sono in argento e il dorso è muto. Una collezione completa in tavole sciolte, da esporre, venne inviata nello stesso anno alla Esposizione di Bologna a favore della Cassa Soccorso Studenti (ASAR, B 1288). Altre copie delle stesse tavole venivano inviate a studiosi dietro richiesta (ASAR, B 1554) o vendute sciolte: ciò spiega la presenza del gran numero (100-150 esemplari) di copie sciolte e mute dei soggetti di maggior successo, quali le armature. Della campagna fotografica realizzata in questa occasione si sono conservate 216 lastre (comprese quindi le varianti) alla gelatina bromuro d’argento nel formato 24×30, per le quali nel giugno del 1898 si registra  il pagamento di L. 1480 “Con mille ringraziamenti e cordiali saluti (…) alle sorelle Berra, fotografe.”, ASAR,  B1554.

[40] ASAR, f. 1207, lettera di G. Assale al Direttore.

[41] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[42]ASAR, f.1207, nota di L. Avogadro del  2 giugno 1897.

[43] “nel restituirle vi unirò la prova del Calzolari”, scrive Cantù ad Avogadro il 3 agosto, ASAR, f.1207, biglietto di Cantù ad Avogadro,  3-8-1897. In vista della partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 lo Stabilimento milanese chiede l’autorizzazione a “esporre a Parigi qualche saggio delle eliotipie eseguite per la Reale Armeria” sotto forma di tavola composita, di cui inviano copia fotografica, costituita dal montaggio di differenti immagini dall’antiporta col cavaliere in armi disegnato da Cantù, a due armature equestri (tra cui la B3 Martinengo), la targa da parata F3, elmi ed armi varie; come si ricava dalla corrispondenza successiva, in quell’occasione la ditta fu insignita di Medaglia d’oro ASAR, f. 1210.

[44] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[45] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898. La vertenza venne chiusa il successivo 18 marzo col riconoscere allo stampatore un compenso complessivo a saldo di L.1500 e alle sorelle Berra la possibilità di rientrare in possesso delle lastre conservate da Cantù; ASAR, f.1207, Copia della transazione della vertenza giudiziaria tra il Sig. Charvet e lo Stabilimento Berra, 18-3-1898.

[46] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[47] Angelucci 1890, op. cit., p. viii.

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.