Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

“Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna” (2015)

in Cinzia Frisoni, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 26-11-2015/ 28-02-2016). Bologna:  Bononia University Press, 2015, pp. 13-28

 

Al titolo segue l’indirizzo, ma nessuna indicazione relativa al contenuto compare in copertina di quel primo fascicolo pubblicato da Pietro Poppi intorno al 1871[1].  Manca perciò ogni riferimento ai soggetti , ma sul genere non potevano esserci dubbi: a quelle date uno studio fotografico avrebbe potuto pubblicare solo un repertorio di riproduzioni di monumenti, quadri e disegni, certo non di ritratti o altro.

“Quale è l’importanza annua delle fotografie che si fanno nel vostro stabilimento? Vi occupate specialmente delle vedute di monumenti, e della riproduzione di quadri, disegni ecc.?”  si chiedeva nel questionario (“interrogatorio”) utilizzato per l’Inchiesta industriale promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1870 e realizzata attraverso la rete delle Camere di Commercio[2].  E ancora: “Credete voi che possano farsi qui fotografie di monumenti, quadri ecc. ugualmente bene, ed allo stesso prezzo che all’estero? Si fa esportazione dall’Italia di tali fotografie, e quale ne giudicate l’importanza?” Questi i quesiti posti  nello stesso anno in cui il Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”[3].

Sono domande che rendono immediatamente chiaro quale fosse già allora il settore che più connotava la produzione dei principali studi fotografici attivi in Italia, anche nella percezione delle burocrazie ministeriali. Poppi fu tra i molti che non risposero all’Inchiesta, sebbene non dovesse  condividere l’opinione di Michele Schemboche che “i fotografi che si danno all’industria della riproduzione dei monumenti (e sono queste le sole fotografie che trovino all’estero facile smercio) si trovano a Roma, a Venezia, a Firenze, città eminentemente artistiche”[4].  E Bologna certamente non lo era, e non solo nell’opinione degli incolti. Quella necessità, evidente, di rivolgersi specialmente a una clientela straniera doveva essergli ben chiara già in occasione del suo secondo catalogo (1879), stampato in francese;  consuetudine che venne mantenuta anche nel successivo del 1883, nel quale non solo si indicavano le località rappresentate, ma l’elenco comprendeva appunto “città eminentemente artistiche” come Roma e Firenze, nel tentativo di adeguarsi alle pratiche commerciali dei grandi studi, ben delineate da Giacomo Brogi:  essendo “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene (…) abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto”[5].

A Bologna l’edificio di via Mercato di Mezzo 56 era noto come Casa Campogrande. Fu  qui, in anni quasi concitati, che ebbero sede l’Officina di Fotografia di Dioneo Tadolini (dal 1857) e lo studio del polemico Emile Anriot (dal 1861-1862), posto “all’ultimo piano e non al primo”, come opportunamente precisava un avviso[6]. Qui Pietro Poppi, all’epoca ancora pittore ben presente nelle esposizioni locali[7], aveva aperto nel giugno 1863 una cartoleria in società con Adriano Lodi; attività formalmente chiusa quando, secondo la testimonianza per più ragioni affidabile di Carlo Malagola, in quell’edificio “lo Stabilimento Poppi [venne] fondato nel 1865 col titolo di Fotografia dell’Emilia”[8].   Senza dimenticare che nel frattempo Roberto Peli, dopo il distacco da Anriot e lo spostamento di quest’ultimo in Via San Mamolo nel 1864, aveva aperto un proprio studio (Nuova fotografia Peli), adottando come recapito proprio la cartoleria Lodi e Poppi. Si direbbero anni di tentativi incerti, di iniziative diverse destinate quasi a tastare il terreno, a verificare le possibilità del nuovo mercato delle fotografie che si andava definendo, come la società Peli, Poppi & C.[9], che stabilì la propria sede in strada San Mamolo 102, vale a dire nello stesso edificio in cui si era trasferito Anriot. Quasi per dispetto verrebbe da dire, specie considerando il fatto che la società ebbe breve vita[10].

Era il 1866. Lo stesso anno in cui lo “Stabilimento fotografico dell’Emilia” non solo era in piena attività ma ricevette il suo primo riconoscimento pubblico sotto forma di un articolo pubblicato ne “Il Monitore di Bologna”[11], in cui si lodava la riproduzione fotografica “dei 75 quadri, dell’Inferno (…) ormai celebri in Europa, del Sig. Gustavo Doré (…) per gentilezza usatagli dall’egregio Sig. Francesco Ratti, professore di questa nostra R. Accademia di Belle Arti”. Il brano offre con tutta evidenza informazioni per noi fondamentali: non solo ci informa di uno dei primi lavori di ‘riproduzione’ di opere d’arte,  qui condotto con largo anticipo sulla loro pubblicazione italiana[12], ma conferma i suoi legami con gli ambienti dell’Accademia bolognese  e suggerisce un elemento forte per la definizione del passaggio di Poppi dalla pratica pittorica a quella fotografica.  Certo, l’amicizia e la collaborazione con Roberto Peli. Certo, almeno in via ipotetica, la frequentazione delle lezioni che Anriot impartiva a pagamento, ma un ruolo centrale dovette svolgerlo proprio Ratti, docente di xilografia all’Accademia  più che interessato alle nuove tecnologie fotografiche[13]  e inoltre, dato per noi più significativo, vicino a Luigi Sacchi, con cui aveva collaborato all’edizione illustrata dei Promessi Sposi. Quello stesso Sacchi che dopo il passaggio alla fotografia documentò verso il 1852 le Arche dei Glossatori, il Palazzo Pontificio e la Fontana del Nettuno, inserendo poi queste ultime nella seconda serie dei Monumenti, vedute e costumi d’Italia[14].

Non si vuole qui suggerire alcuna derivazione di tipo artistico o stilistico; la formazione fotografica aveva significati e ragioni diverse da quella pittorica, ma forse possiamo accontentarci di credere che Poppi, sotto la spinta di concrete esigenze economiche, come molti in quegli anni del resto, abbia scelto di passare dalla pittura alla fotografia con il sostegno di Ratti e seguendone gli autorevoli insegnamenti tecnici,  magari confidando per breve tempo sull’esperienza maturata da Peli come assistente di Anriot. Nonostante la scarsa fortuna artistica di Bologna in ambito extralocale[15] anche la scelta di dedicarsi alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico non appare così inconsueta, considerando il buon successo delle Vedute Fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna  in cui Anriot nel 1864 aveva fornito  “un più libera lettura della città e dei suoi monumenti”[16] per poi lasciare pochi anni dopo Bologna e campo libero all’attività di Poppi.  La città non era stata compresa tra le mete delle Excursions daguerriennes e  si dovette attendere Richard Calvert Jones per averne le prime testimonianze fotografiche[17], quindi le prove di Sacchi e poi, in chiusura di decennio, il  primo panorama fotografico della città realizzato da Carlo Napoleone Bettini[18].

È proprio con Anriot allora che pare misurarsi Poppi agli inizi della propria attività professionale di fotografo, come mostrano alcune stampe databili a quei primissimi anni, relative ai maggiori monumenti bolognesi e note nei formati carte de visite e album[19]. Tra queste risultano per noi di particolare interesse una veduta di piazza Santo Stefano realizzata prima del 1869[20], inquadrata dallo stesso identico punto di vista ed esattamente con le stesse luci che ritroviamo in due riprese coeve di Anriot e di Giorgio Sommer[21], solo utilizzando un obiettivo di lunghezza focale minore e quindi comprendendo una porzione più ampia di piazza, e soprattutto le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio vedute dall’Albergo dei Quattro Pellegrini, di cui sono note oltre la lastra originale e la stampa per contatto, anche un’edizione in formato “Gabinét”,  derivata non da una specifica ripresa ma dalla rifilatura della stampa di formato maggiore.

Le Torri “prese dai tetti” aprivano il catalogo del 1871. Una scelta che non poteva essere più significativa dal punto di vista culturale e simbolico, ma che costituiva anche un eccezionale esito in termini di qualità specifiche dell’immagine, dove l’uso  di un obiettivo di grande apertura angolare, forse un poco decentrato, determinava una leggera deformazione ottica ma accentuava  il gioco dinamico delle diverse diagonali che costruiscono l’immagine, consentendo di mostrare le torri in tutta la loro altezza, a partire da quello spazio ristretto e quasi scavato da cui crescono. Considerando l’intera serie poi si chiarisce ancor meglio una delle modalità operative di Poppi, che circumnavigava il soggetto, riprendendolo da diversi punti di vista e pubblicandone edizioni diverse non solo per il formato[22] ma anche, secondo un uso non raro in quegli anni, con l’aggiunta di nuvole in ogni senso pittoresche a movimentare lo spazio vuoto del cielo.

Furono proprio i principali monumenti bolognesi a costituire la sezione  più rilevante di quel catalogo, pubblicato a breve distanza dal trasferimento dello studio nella nuova sede di Casa Rodriguez, in Strada San Mamolo 101, non lontano da quella della precedente società con Roberto Peli e dello studio di Anriot (San Mamolo 102). Di quel primo repertorio facevano parte anche i “Paesaggi” e i “Quadri della Regia Pinacoteca ed altri quadri classici”[23], con una scelta di temi già indicativa e che nei decenni successivi si sarebbe ulteriormente articolata ma mai smentita:  un buon numero di chiese bolognesi, e non solo le maggiori, con molte riprese dedicate ai loro elementi decorativi, poi i grandi palazzi storici; accanto a questi però anche le principali architetture contemporanee, come il Palazzo della Banca Nazionale (192)[24] e quello della Cassa di Risparmio (202);  poi le due torri (anche “intere”, n. 366 nel formato grande di 36×45) e i panorami (ben sette), le piazze, le porte e alcune ville (Frank, Hercolani, Marescalchi, Salina, Zucchini), occasione per realizzare i primi soggetti di paesaggio, anche con figure[25], la cui messa in repertorio costituisce forse la novità più rilevante, mentre la sostanza del trattamento (“Gruppo di cipressi”, “Dettaglio: Tronchi d’alberi”), rimanda ancora ai modi dei calotipisti attivi specialmente a Roma nel decennio antecedente l’Unità. Oltre a Ravenna, dove riprese anche alcuni paesaggi (638 Pineta, con un primo piano materico di calanchi), la sola altra località considerata era Roma, con uno sparuto gruppo di quattro riprese (Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Arco di Settimio Severo, Tempio di Veneree Arco di Tito)  Oltre a quelli già presenti nelle serie dedicate alle chiese, il catalogo conteneva anche una specifica sezione dedicata a “Bassi Rilievi, esemplari artistici” tra cui  un Cespo d’Accanto spinoso (691) e  una Miscellanea di 5 pezzi variati di rilievi e bassi rilievi.  La sezione degli Ornati veri e propri si sarebbe poi sviluppata a partire dal 1879 ma questi due titoli sono già di per sé indicativi: sia la Miscellanea, che escludeva  ogni intento documentario per proporsi esplicitamente come modello manualistico per la copia, sia le foglie d’acanto che anticipavano i soggetti “presi dal vero” pubblicati a partire dal 1888. Erano questi lavori, forse insieme ai “monumenti moderni” della Certosa, ad avere i destinatari e acquirenti più immediatamente identificabili nei professori e negli allievi dell’Accademia, negli artigiani e nei frequentatori delle scuole d’arte, nel solco di una tradizione incisoria e poi litografica particolarmente ricca e qualificata, che ormai a queste date pativa la concorrenza della fotografia. Meno semplice risulta comprendere l’immissione in un catalogo destinato alla vendita delle riprese dedicate alle architetture contemporanee, per le quali è difficile immaginare una richiesta da parte del turismo colto che frequentava Bologna, né erano destinate a un album antologico dedicato alla sua città, che non risulta Poppi abbia mai prodotto, sebbene fosse una tipologia che si andava diffondendo in quegli anni anche in numerosi centri minori.

Il secondo catalogo, del 1879[26], presenta novità significative: non solo affiancava in copertina il nome del titolare a quello dello studio ma fu pubblicato in francese e corredato di una sintesi in quattro lingue dei soggetti contenuti, con una nuova numerazione  che risulterà definitiva.

Oltre a Bologna i luoghi indicati erano Ravenna, Urbino, Ferrara “et leurs environs”; mancava  Roma che pure era presente con le solite quattro riprese.  Significative sono le qualifiche con cui Poppi si presentava per la prima volta: “peintre-photographe/ membre correspondant de la R. Académie/ Raffaello a Urbino”. La prima, adottata da molti, moltissimi fotografi coevi aveva qui un valore più sostanziale e aderente al vero, cioè all’immagine che lo stesso Poppi dava di sé, come risulta da una lettera del 31 agosto 1877 inviata al  Presidente della Accademia Raffaello di Urbino in cui scriveva della sua “modestissima qualità di pittore paesista e di fotografo” e gli stessi suoi contemporanei lo indicavano ancora, nell’ordine, “pittore, paesista, direttore dello Stabilimento fotografico”.[27]  Meno singolare invece l’associazione all’Accademia, di cui si fregiavano anche altri fotografi[28] e che gli derivava da una ricca campagna condotta in quella città, qui presentata in due distinte sezioni.

La tavola delle materie che apre il catalogo non indica espressamente Bologna, i cui soggetti sono divisi tipologicamente e comprendono anche la  “Gare du Chemin de Fer”(279), ma ben più rilevante rispetto all’edizione precedente era il numero di quelli non bolognesi, quasi triplicato con le campagne urbinati e ferraresi e con le prime riprese dello “château des Miracles”, vale dire della Rocchetta Mattei, della quale accentuò il già sovrabbondante aspetto fantastico, forse su suggerimento dello stesso proprietario. Molto ricca anche la sezione degli Ornati, poi in piccola parte accresciuta nei cataloghi successivi, con soggetti che vanno dal Plat portant un ail, une pomme, un artichaut avec leur feuilles (704) a un Chapiteau dans l’église de Saint Marc de Venise (733), che pone di nuovo qualche problema: poiché la campagna veneziana comparve per la prima volta nel catalogo del 1890 doveva trattarsi di un calco, come per altri numeri di quella sezione.  Se dalle pagine passiamo alle lastre e alle rare stampe superstiti scopriamo infatti con una certa sorpresa che anche il Candélabre par Michelange Buonarroti (694) o i diversi elementi del Monumento Tartagni in San Domenico (770) non erano tratti dagli originali ma dai calchi, ripresi in Accademia o, non di rado, nello stesso studio del plasticatore. Le ragioni di questo procedere non ci sono note né paiono facilmente comprensibili essendovi la disponibilità degli originali (il monumento nella sua interezza è rubricato al n. 101) né sussistendo problemi di resa delle policromie originali, quelli che ancora a date piuttosto tarde lo portarono a riprodurre le stampe di traduzione dei dipinti. Non semplici riproduzioni allora, ma impronte di un’impronta immesse a loro volta in circolo virtuoso di figure per servire  di modello per stampe litografiche, come fu il caso del Monument Tartagni: détail de la caisse, che costituì il modello per una litografia di Silvio Gordini  (774)[29].

La circolazione di quel primo catalogo in francese dovette sortire qualche effetto se già nel 1880 Poppi risultava tra i fornitori della “Bibliothèque photographique” di Adolphe Giraudon, insieme ai maggiori italiani come Alinari e  Brogi[30], e fu forse quella una delle ragioni che lo determinarono a confermare la scelta della lingua francese anche per l’edizione del 1883[31]. Nei pochi anni che intercorsero tra questa e la precedente si registrarono due eventi che ebbero certo influenza sul suo lavoro e sulla sua decisione di pubblicare un nuovo repertorio a soli quattro anni di distanza: nel 1879 il fotografo era stato chiamato a collaborare alla campagna documentaria promossa dalla Commissione Conservatrice locale per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione[32] e – soprattutto – entro il 1881 gli Alinari avevano realizzato la loro prima, consistente campagna fotografica bolognese, con ben 188 soggetti. Non solo: Poppi nel frattempo aveva potuto fregiarsi della qualifica di “pourvoyeur de S.A.R. le Duc de Monpensier”, Antoine Marie Louis Philippe d’Orléans, uno dei più noti (e discussi) aristocratici europei, e questa attribuzione di grande prestigio fu anteposta in copertina  a quella di membro corrispondente dell’Accademia Raffaello, sebbene poi del principesco palazzo di più di trecento stanze in quell’occasione non fotografasse che pochi elementi (nn. 253259)[33].

Anche per le altre città non mancavano elementi nuovi: espunta Ravenna, forse per un accordo con Luigi Ricci, comparvero alcune città padane e altre toscane tra cui Firenze, con ben 119 soggetti, in evidente concorrenza coi grandi studi e applicando alla lettera la strategia indicata da Brogi,  mentre altre sezioni vennero notevolmente accresciute come Riola di Vergato, anche perché “Dopo nuove costruzioni si sono eseguite negative che portano il nome d’altre descritte, ma il soggetto è variato” (995).  Negli anni di maggior successo dell’attività elettromeopatica  del suo proprietario, Poppi dedicò ben 68 nuove riprese alla Rocchetta, certo in accordo con Mattei che poteva disporre di fotografie da vendere ai numerosissimi pazienti che lo visitavano per sottoporsi ai suoi trattamenti (963); per analoghe ragioni l’intera serie di Riola comprendeva anche il vicino Albergo della Rosa (10051018), a cui vennero dedicate più di una decina di riprese con evidente funzione promozionale, secondo una pratica comune ad altri fotografi[34].

Nella sintesi obbligata dallo spazio disponibile al verso di una stampa in formato gabinetto che riproduce una pagina de La Terra di Lavoro illustrata dal Professore Aristide Sala[35], pubblicata l’anno prima, Poppi reclamizzava la sua “Gran collezione di vedute/ Monumenti, Quadri/ Architetture e Dettagli/ d’Ornati Classici/ delle città di/ Roma – Bologna – Firenze – Pistoja – Lucca/ Ferrara – Padova – Vicenza – Mantova – Parma – Carpi – Modena – Imola – Ravenna – Urbino”. Di questo sintetico elenco colpiscono l’ordinamento e le scelte: per prima è indicata la capitale, sebbene le riprese romane a quella data non fossero più di una quarantina[36], quindi l’ovvia Bologna,  alcune località toscane (oltre la specificità urbinate) e una sequenza, che diremmo  genericamente padana, che connotava il suo ambito operativo: da Ravenna a Mantova, la sola località lombarda citata, sebbene le fossero state dedicate solo tre riprese, mentre risultava esclusa dall’elenco una città ben più documentata come Bergamo. Le assenze erano altrettanto significative e corrispondevano ai programmi dell’immediato futuro: Milano (già con 7 titoli al 1883), Verona, Venezia e Chioggia, entrate in catalogo tra 1888 e 1890 e ancora Perugia, per  limitarsi ai centri maggiori.  Non ancora un’estensione a tutto il territorio nazionale (ciò che non sarà mai) ma certo un’offerta molto ricca e variegata, un repertorio a cui attinsero in particolare  molti architetti dell’eclettismo: dal piemontese Melchiorre Pulciano[37], che raccolse in album fotografici un ricco repertorio di temi architettonici e di ornato, con quaranta stampe di Poppi, al reggiano Guido Tirelli[38] come al romano Francesco Azzurri, progettista del nuovo Palazzo Pubblico di San Marino[39];  ma anche lo statunitense Russell Sturgis[40], la cui ricca collezione di fotografie comprendeva ben 135 esemplari del fotografo bolognese, per non dire dei legami con i più noti rappresentanti della cultura architettonica locale come Tito Azzolini[41], Raffaele Faccioli[42] e Antonio Zannoni[43], che a vario titolo ricorsero all’operato di Poppi. Com’è noto il rapporto fu particolarmente proficuo con Alfonso Rubbiani, a partire dai restauri della chiesa di San Francesco, quando l’architetto fece ampio ricorso alle stampe fotografiche, utilizzate non solo quale strumento conoscitivo nella tradizione metodologica stabilita da Eugène Viollet-le-Duc[44] e codificata in Italia giusto in quegli anni da Camillo Boito[45], ma quale supporto per verifiche metriche, costruzioni geometriche, indicazioni di restauro e simili, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Alfredo d’Andrade[46]. Potrebbero essere stati contatti professionali avuti nel corso della documentazione del cantiere di San Francesco a offrire a Poppi un incarico per lui inconsueto come quello relativo ai lavori ai fiumi Brenta e Bacchiglione a Padova, con otto immagini[47] realizzate tra il 1887 e  il 1890, caratterizzate da uno sguardo ampio, che ogni volta lega in una sola veduta tutto il cantiere, con una impostazione che ritroviamo anche nella coeva ripresa dedicata alla Frana alle Pioppe [di Salvaro] (10134)  in  cui paesaggio e cronaca dei lavori in corso si integrano compiutamente. Come accadde in altri simili casi quelle fotografie non entrarono a far parte del nuovo Catalogo generale pubblicato nel 1888[48], edito nell’anno in cui si sarebbero svolte in città le celebrazioni per l’ottavo centenario dell’ateneo bolognese e l’Esposizione Emiliana.

Era per Poppi il momento della sintesi e, diremmo, della sua affermazione definitiva: la lingua utilizzata tornava a essere l’italiano ma era soprattutto l’aggettivo qualificativo a connotare questo come il repertorio più compiuto, tutto fatto di “riproduzioni originali”, secondo una terminologia per noi inconsueta, ora riferibile con fatica alle architetture e ai paesaggi[49].  Diversamente dalle edizioni precedenti questo catalogo non presenta in copertina l’elenco dei soggetti principali, rimandato a un più opportuno e sistematico “Indice alfabetico” posto in apertura: è il sintomo e la testimonianza di una organizzazione più scientifica e quindi moderna del proprio lavoro (o – almeno – della propria immagine). Così Bologna compare solo al terzo posto e, dopo Ferrara, troviamo i “Fiori e foglie presi dal vero”. Ne risulta un singolare andamento, in cui i toponimi sono mescolati a categorie varie come “Ornati, scolture fiamminghe e statue” e “Paesaggi e costumi campestri”, insieme ai già noti “Personaggi illustri antichi e moderni”, una serie in cui la fotografia abdicava alla sua funzione sociale più diffusa per recuperare quasi archeologicamente il contenuto referenziale delle opere d’arte. A scorrere le stampe, le “Sculture Fiaminghe” si rivelavano essere una serie di più modesti “Puttini” alternativamente “volanti” o “posanti”, ripresi singolarmente o in gruppo a formare leziose scenette che dovettero avere però un certo successo se una di quelle fotografie (3005Puttini fiamminghi) fu fatta propria e riprodotta nel fotomontaggio pubblicitario preparato per la Mostra industriale di Lecce del 1886 da Pietro Barbieri, fotografo modenese attivo nella città salentina, di cui  Roberto Peli aveva rilevato lo studio[50].

Come prometteva il titolo, quello del 1888 risulta il catalogo più ricco:  non compaiono nuove tipologie ma soggetti nuovi. Non mutano le caratteristiche generali ma si amplia il repertorio e l’offerta diviene ancora più sistematica e articolata, in particolare per quanto riguarda le chiese, dove cresce il numero di dettagli decorativi e la riproduzione di dipinti. Poiché però anche la quantità costituisce un dato qualitativo va notato che l’accrescimento di riprese rispetto a un singolo edificio fu esponenziale; è qui che il lavoro mostra la propria logica e con un significativo salto di scala passa da tutti gli edifici importanti di una città a tutti gli elementi importanti di un edificio.  La sezione dedicata ai “Paesaggi” venne presentata in indice insieme alla novità costituita dai “costumi campestri”, con ben 97 soggetti, tutti estesamente descritti[51]  per solleticare e sollecitare i possibili acquirenti. Ciascuna descrizione meriterebbe di essere riportata per la sua singolarità ecfrastica, ma basti questo esempio : “Sul limitare di un rustico abituro, una contadina seduta, scherza amorosamente col bambino che tiene sulle ginocchia, il fratellino seduto a terra guarda allegro il fratellino minore”. Cercando di dare forma visiva a queste parole la mente corre alle opere coeve di un pittore come Gaetano Chierici[52], in particolare a una delle sue tante Gioie Materne, a cui la descrizione parrebbe adattarsi particolarmente bene, ma non corrisponde alla fotografia:  le parole e l’immagine parlano reciprocamente d’altro. L’espressione della contadina è difficilmente decifrabile; ancor meno quella del pargoletto, mentre ci è dato solo di immaginare l’allegria nello sguardo del fratello maggiore, che ci dà le spalle (10024).

A quella data le scene di genere non costituivano certo una novità in sé, ampiamente praticate in differenti declinazioni non solo dalla pittura coeva ma da numerosi fotografi, però con un’attenzione per la singola figura (ed erano i ‘costumi’ in senso proprio) ovvero per l’azione, ma staccata dal contesto e collocata in un spazio privo di connotazioni,  teatrale. Questa caratteristica generale e comune prevedeva però già allora alcune differenti intenzioni e atteggiamenti compositivi, riconoscibili in opere di autori  quali Federico Faruffini, Anton Hautmann o  Filippo Belli[53], forse prossime a quelle del padovano  Pietro Sinigaglia, del quale le fonti ricordano “varie scene campestri, come la mietitura, la falciatura, la vendemmia [che] hanno il merito intrinseco della fotografia, quello artistico di bella distribuzione delle persone e delle cose”[54], dove quel cenno alle qualità artistiche lascia intendere uno sguardo che ancora non si poteva definire folclorico né tantomeno proto etnografico, in cui cioè la figura fosse ripresa nello svolgimento di una sua attività consueta, senza cenni di posa.  Ancora più palesemente costruite, sino alla soglia del tableau vivant erano poi certe fotografie di Rive e Sommer  (San Martino a Napoli, Amalfi, con presenza di frati ad animare il contesto conventuale) che in termini di composizione e regia possono essere avvicinate a quelle di Poppi, essendo proprio questa relazione stretta tra ambiente e figure a connotare il genere, come accadeva anche per le immagini di ambiente veneziano e chioggiotto realizzate da Carlo Naya  per l’album L’Italie pittoresque, photographies d’après nature, 1870[55]. Volendo poi estendere lo sguardo oltre i nostri confini per verificare l’estensione del fenomeno a scala almeno europea, ma senza per questo lasciar intendere influenze o derivazioni, assai improbabili  allo stato attuale delle nostre conoscenze, potremmo richiamare un antecedente come Les  chasseurs di Humbert de Molard, 1851, o  le opere cronologicamente più prossime di un autore come Henry Peach Robinson, che confezionava circa negli stessi anni scene di genere di tipo aneddotico analoghe a quelle di Poppi[56].

Ciò che distingueva queste immagini dalle precedenti era l’adozione consapevole delle possibilità espressive consentite dalle nuove emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, vale a dire la rappresentazione dell’istantaneità  del movimento, pur non riuscendo ancora a nascondere il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli ‘attori’. I nessi più che evidenti con certa pittura coeva non erano però solo di ordine iconografico ma più sostanzialmente concettuale, realizzando il passaggio fondamentale, e radicale in un autore come Poppi, dalla riproduzione all’invenzione di immagini ex novo,  ritornando con altri strumenti narrativi alla pratica della sua precedente stagione pittorica, in anni di nascente pittorialismo. In alcuni casi l’intenzione ‘artistica’  era rivelata proprio dalla relazione tra testo e immagine, come per la ripresa sopra citata, ancora in bilico tra pittoresco ed etnografia, in cui le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico gli consentivano di allontanarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica del mondo contadino solo in virtù delle potenzialità documentarie proprie del medium, sebbene emerga chiara la  messa in scena e le figure rappresentate perdano la loro riconoscibilità anagrafica per mutare di statuto: da persona a icona. Ne sono un chiaro esempio tra i molti Tre contadinelle (10019), Cacciatore e due contadine (10054), o Dettaglio di casa rustica con gruppo di contadini (10041) tutte realizzate entro il 1888, che sono scene nel gusto di Giovanni Battista Quadrone[57]. Di qualità sostanzialmente diversa è invece un’immagine come Gruppo di contadini che lavorano (10022) che dietro al genericissimo titolo nasconde  una composizione e una regia estremamente innovative e sapienti, di cui non è possibile trovare l’eguale nella produzione italiana ed europea di quel periodo. Qui un tema iconografico tipico della pittura di genere è declinato con un linguaggio e con soluzioni narrative propriamente fotografiche: si consideri  la figura centrale della contadinella, bilanciata dallo schermo nero della porta aperta e resa con un mosso che la coinvolge tutta. Tranne i piedi. Il fotografo le avrà chiesto allora  di ondeggiare o di ruotare sull’asse del proprio corpo,  ma senza muoversi, mentre altri la osservano e una bambina seduta al margine destro non riesce a trattenere il riso.

Nei due anni successivi Poppi accrebbe la propria produzione di genere con una trentina di nuovi titoli, esito evidente di un buon successo, ma chi volesse verificarne i soggetti avrebbe una certa difficoltà a ritrovarla completa nella sezione apposita dell’Appendice del 1890. Sebbene la didascalia in lastra parli ancora e sempre di “Genere campestre” i soggetti dal n. 10129 al 10133 erano rubricati sotto il curioso titolo di “Studi di Nudo”; nell’ordine: un San Giovannino (10129) “seduto” o “in piedi” in un improbabile “deserto”, due varianti di ripresa del “Martirio di San Sebastiano” (10131) e un “S. Giovanni sdraiato sull’erba” (10133). Nulla a che vedere col “Genere” di cui sopra, se non forse per le persone ritratte; certo non per i personaggi evocati. Quel titolo apparentemente fuorviante ci consente però di suggerire un confronto tra queste immagini e alcune altre di un autore come Wilhelm von Glöden[58], in cui la differenza appare più di rimandi iconografici che di sostanza: dalla mitologica arcadia siciliana al cristianesimo in versione rurale dell’Appennino emiliano, conservando entrambi quel  “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” di cui aveva parlato Carlo Bertelli proprio a proposito di  Von Glöden, riconoscendone la capacità di  restituire la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica di poco successiva, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare”[59].

Quei Costumi campestri dal vero, come li descrive il verso di una carte de visite, fecero parte  della ricca serie di fotografie presentate da Poppi all’Esposizione Emiliana del 1888, articolata nelle tre sezioni di Agricoltura e Industria,  Mostra Internazionale di Musica e Nazionale di Belle Arti[60]. La coincidenza tra data di produzione e occasione espositiva rende particolarmente convincente l’ipotesi a suo tempo formulata da Fabio Marangoni (1999) che quelle serie fossero state realizzate pensando in particolare ai visitatori dell’Esposizione di Belle Arti; un pubblico che avrebbe potuto apprezzare anche la  serie dei “Fiori e foglie presi dal vero”, della quale alcuni esempi erano già indicati in cataloghi precedenti, ma compresi tra gli “Ornati”.  Il tema godeva da tempo di una notevole fortuna a scala europea, con produzioni di altissimo livello quali la serie di Fleurs photographiées  pubblicata da Adolphe Braun nel 1854[61], una novità assoluta nella produzione fotografica, gli Études de Feuilles di Charles Aubry, del 1864 o ancora gli “Studi” realizzati da Alphonse Bernoud verso il 1875, dopo il suo ritorno a Lione[62], una città che non solo vantava una lunga tradizione pittorica nel genere ma aveva un’importante industria tessile.  Poiché erano i disegnatori, insieme ai pittori certo, i primi e più importanti destinatari di quelle opere che sulla neutralità della descrizione botanica facevano prevalere gli aspetti compositivi e formali dell’inquadratura come le possibilità offerte dalla fotografia di accentuare una resa quasi materica delle foglie e dei petali (10326, 10343)

Sebbene realizzati tra 1888 e 1890 vanno qui considerati anche gli studi di nubi “presi dal vero”, sottolineatura quasi pleonastica se non fosse che le nuvole erano già presenti in molte sue riprese, specie d’architettura, ma come frutto di un intervento manuale sulla lastra negativa (945). Questi invece sono proprio cieli carichi di nubi  (10162), nei quali solo di rado e in forma letteralmente marginale compare il resto di un profilo urbano (10158, 10164). Sono nuvole piene, corrusche e solide, viste da un piano prospettico fortemente inclinato o quasi verticale, per molti versi sovrapponibili agli studi “di nuvoli” realizzati dagli Alinari qualche anno dopo, quando l’impresa era diretta da Vittorio[63].  In entrambi i casi l’esiguità dei soggetti e la mancanza di un qualsiasi intento classificatorio non consentono di collocare quelle piccole produzioni nel contesto del dibattito internazionale che proprio in quegli anni si andava consolidando intorno al tema[64], anche se non possiamo neppure escluderne un qualche effetto di suggestione, combinato con il fascino pittoresco del tema, da sempre condiviso da pittori, letterati e poeti e che, per ragioni diverse, non aveva mai cessato di attrarre neppure i fotografi sin dai primi anni ‘50 e che ancora nei primi decenni del ‘900 avrebbe coinvolto amateur italiani come Andrea Tarchetti[65] e Mario Gabinio[66].

Il 1888 fu un anno cruciale per Poppi e la Fotografia dell’Emilia: non solo la privativa e il premio “con gioiello da S.M. la Regina d’Italia” ricevuto all’Esposizione e la pubblicazione di una cartella di stampe con testo di Corrado Ricci ma anche l’importante commessa da parte della Repubblica di San Marino per la realizzazione di un album da presentarsi all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno successivo, ottenuta per intercessione di Carlo Malagola[67], Commissario per la Divisione VIII Arti Grafiche della stessa Esposizione,  membro della Commissione Artistica e della Giuria che gli aveva assegnato il premio[68].

Nel testo che accompagnava le  trentuno fotografie dedicate ai  Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV,  Ricci richiamava l’impossibilità metodologica di “tessere brevi ricordi biografici senza valore e sopra la sola fede di storie piene d’errori e di leggende”[69], ciò che poteva ben corrispondere anche all’uso ormai consolidato della fotografia quale strumento e fonte di mediazione documentaria di cui proprio quell’opera costituiva un importante esempio. Una eco, e un’ulteriore conferma di quelle posizioni si sarebbe poi ritrovata nelle parole di un altro storico dell’arte che più volte si avvalse delle riprese di Poppi come Francesco Malaguzzi Valeri, che introducendo il suo volume dedicato a L’architettura a Bologna nel Rinascimento, dichiarava che “la dottrina dell’arte nostra ha troppo bisogno di rinnovarsi originalmente con lo studio dei [sic] fonti a stralciare gli ultimi veli del fantastico e dell’accademico che ancor l’avviluppano”[70]. In anni in cui la storia dell’arte si definiva metodologicamente come disciplina anche in virtù di un ricorso sistematico alla fotografia quale fonte documentaria e strumento comparativo, l’offerta delle ditte fotografiche si ampliava estendendosi anche alle nuove realtà museali: così entrarono a far parte del Catalogo Poppi del 1888 anche 130 riprese dedicate agli ambienti e alle opere del Museo Civico Archeologico di Bologna, mentre la sezione dedicata ai “Quadri” si estendeva sino a comprendere opere conservate all’estero, come la “Maddalena nel deserto” (503) del Correggio (Maria Maddalena leggente, oggi perduta) ricavata però da un’incisione, come non era raro che accadesse in quegli anni non tanto per la difficoltà di raggiungere l’originale quanto per l’insoddisfacente traduzione tonale della cromia originale consentita dalle emulsioni non ortocromatiche.

Il lavoro su San Marino condotto nell’ottobre del 1888 in collaborazione con nipote Angelo Marzola venne illustrato da uno specifico catalogo firmato come “Fotografo governativo della Repubblica di San Marino”[71],  corredato di nota introduttiva di Malagola[72], autore anche delle didascalie alle trentasei immagini repertoriate, su di un totale di almeno settanta  realizzate nel corso della campagna. Sono fotografie accurate, corrette, con una inevitabile attenzione per il contesto paesaggistico ma prive di quella capacità di dialogo coinvolgente con le architetture rappresentate che è uno dei grandi pregi dell’operare di Poppi e che lo distingue immediatamente dalla produzione di altri studi e autori coevi, anche quando sente l’attrazione dei dettagli (185). Se “una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi – come scrisse  Rudolf  Wittkower – poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”[73], allora potremmo dire che Poppi, pur inevitabilmente legato allo stesso processo proiettivo, mostrava uno sguardo più nordico e padano, tra romanico e gotico e ovviamente non solo per le architetture fotografate (3430 – Bologna). Ne è testimonianza l’uso ricorrente del grandangolare, combinato con l’adozione di un punto di vista non di rado disposto in asse a uno spigolo dell’edificio, con  esiti non sempre controllati ma con risultati a volte eccezionali, come nella ripresa del Castello Estense a Ferrara (600),  che solo un residuo di consapevolezza storica ci impedisce di dire metafisica. Sono forse queste caratteristiche che fecero riconoscere a Renzo Grandi nel lavoro di Poppi “una percezione dei luoghi complessa e perfino inquieta e immaginosa”[74], non contraddetta da una sistematicità quasi maniacale, che lo portava a rifotografare a distanza di tempo lo stesso soggetto[75], in uno sforzo continuo di aderire alle mutazioni del reale nel tempo. Un’intenzione propriamente fotografica che lo induceva a  replicare rigorosamente le condizioni di ripresa (punto di vista e focale, e quindi inquadratura); indagando il soggetto con minime varianti, lavorando di campo e controcampo o riproponendolo scorciato dai due lati, come nella serie dedicata alla Porta dei Leoni di Palazzo Prosperi a Ferrara, a sua volta con varianti (6066076391).

E poi le luci: contravvenendo in non pochi casi alle buone regole che consigliavano riprese con illuminazione diffusa, Poppi apprezzava  e forse cercava  luci piuttosto radenti, in grado di dare maggior rilievo plastico agli elementi (2901 – Budrio – Palazzo Municipale), con ombre portate che a volte drammatizzano in modo quasi eccessivo la scena (1143).

E poi le persone: già nei primi esemplari noti gli spazi urbani appaiono occupati da figure in modi che è possibile riscontrare anche in Emile Anriot[76], ma qui ancor più marcati: Poppi amava riprendere i monumenti con la vita intorno. Persone ferme a guardare il fotografo, ancora curiose, magari celate nell’ombra di una porta, di un androne, protette da una grata di finestra. Più di frequente la presenza appare cercata e voluta,  (4960; 1721) non più come parametro dimensionale però: le figure occupano lo spazio e lo vivono; sono aneddoto non misura dell’opera (113). Nello spazio definito dal monumento accadono piccole storie, come nel caso delle due figure sulla scalinata della chiesa di San Fermo a Verona (4201),  messe in scena dal fotografo in modi analoghi a quelle di “Genere campestre”. Non si tratta – credo – di attenzione al colore locale nel “gusto di un Naya o di un Sommer” come sosteneva Zannier[77], ma di un portato della formazione pittorica di Poppi, quella stessa che lo induceva a dipingere a vernice grassa le nuvole nei cieli delle sue architetture anche in anni in cui la rapidità delle lastre alla gelatina  avrebbe consentito tecnicamente la loro ripresa. In fondo si trattava di risolvere un problema artistico: per ottenere l’effetto voluto, per arricchire la veduta, invece di utilizzare metodi fotografici come il fotomontaggio o la doppia esposizione, Poppi preferiva ricorrere alla manualità del gesto, infine pittorico.

 

 

Note

 

[1] Poppi 1871.

[2] Inchiesta 1873, p. 2.

[3] Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”, lettera del 6 maggio 1870; in una successiva missiva del 12-08-1870 indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti” il Ministro precisava: “a ciò fui mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”.

[4] Inchiesta 1873, p. 10. Dopo l’attività di Anriot e di Poppi si dovrà attendere l’Appendice del 1881 per avere un primo, ricco catalogo bolognese; cfr. Sesti 1993.

[5] Citato in Tomassini 2003, p. 169.

[6] Citato in Cova 1987a;  la vicenda professionale di Anriot, ancora poco nota, lo colloca nel  gruppo non minuscolo dei fotografi itineranti di quegli anni: prima di giungere a Bologna aveva operato a Fiume e a Zara nel 1858-1859, cfr. Seferović 2009; dopo, come noto, si sarebbe trasferito a Roma.

[7] Suggestiva la lettura proposta da Varignana 1993, pp. 64-65, di un dipinto come Piazzetta dell’Aurora e via dell’Asse, post 1864, “che si direbbe realizzata, come già faceva Basoli, con l’aiuto della camera ottica”.

[8] Lettera ai Reggenti di San Marino del 18 marzo 1889, citata in Marangoni 1999, p. 54-55.

[9] La nuova società fu attiva parallelamente alla Fotografia dell’Emilia, che risulterebbe aver cessato la propria attività nel 1869, cfr. Cristofori 1992c.

[10] Varignana 1985, p. 44; Cristofori 1992c, p. 276.

[11] “Il Monitore di Bologna”, 17 aprile 1866, n. 105, citato in Cristofori 1992c; si veda anche Marangoni 1999, pp. 52-53, che riporta ampi stralci del brano. La porzione di Archivio Poppi acquistato nel 1940 dalla Cassa di Risparmio di Bologna è consultabile all’indirizzo https://digital.fondazionecarisbo.it/category/fondo-poppi?query=&sort=title&order=asc&page=1&size=20&filterField=

[12] Camerini 1868. Questa, come altre iniziative, si collocava nel contesto delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, a cui è riferibile anche l’opera di Carlo Saccani che a Parma, nello stesso 1866, pubblicava la parte dedicata all’Inferno de La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata, riproducendo fotograficamente i disegni di Francesco Scaramuzza, preparatori del grande ciclo di tele  avviato in un primo tempo su commissione di Luigi Carlo Farini, cfr. Bersani 1992.

[13] Fu presente come tecnologo e inventore di nuovi procedimenti fotografici sia all’Esposizione industriale ed Agraria del 1869 che all’Esposizione Emiliana del 1888.

[14] Luigi Sacchi 1998, sch. 34; Mormorio 2000, p. 104.

[15] Basti in tal senso la testimonianza di John Ruskin in una lettera inviata al padre da Pisa: “Al Camposanto ho fatto la conoscenza di due artisti che, sebbene fossero francesi, parlavano proprio come esseri umani; (…) Sono due anni, ormai, che studiano i dipinti antichi, quelli degni di nota, e mi hanno prodigato suggerimenti assai utili; sostengono che dovrei fermarmi un mese a Padova, e mi assicurano che non c’è niente a Bologna; una notizia, questa, che mi procura gran gioia, giacché non amo quella città”  (in Ruskin 1985, lettera del 21 maggio 1840), che ritornava però nei deliri dei primi stadi della sua malattia, quando gli compariva in sogno la Beata Vigri, “the only woman painter ever canonized”; cfr. Viljoen 1971, p. 105, citato in Bradley, Ousby 1987, p. 413.  Nonostante gli apprezzamenti di Jacob Burckhardt (Der Cicerone, 1855) quella ridotta considerazione dovette permanere a lungo se il catalogo Alinari del 1863 comprendeva solo la Testa del Nazareno di Guido Reni e la Santa Cecilia di Raffaello (tra i primi dipinti riprodotti anche da Poppi). Ancora nel  settembre del 1896 Sigmund Freud, che pure acquistò due fotografie di Poppi,  poteva scrivere alla moglie: “città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali [ma] Chiese ed arte qui [sono] per fortuna meno coercitivi”, citato da Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa http://amicidellacertosa.com/articoli.html [25-07-2014].

[16] Poi raccolte nel 1868 per Nicola Zanichelli nel volume Edifizi, vedute, quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna, rappresentate colla fotografia, cfr. Cristofori 1992a, p. 270.

[17] Gray 1992;  Tromellini, Spocci 1992a.

[18] Benassati 1992a, in cui forse per un refuso sfuggito all’acribia della redattrice e curatrice si indica come data di esecuzione un improbabile termine post quem: “esec. 1833 [sic]-1859”. Un altro esemplare dello stesso panorama, non montato, appartiene alla collezione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, cfr.  Bonetti, Maggia 2007, pp. 34-35.

[19] Scorcio di Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà ed il mercato delle erbe, 1865 circa.

[20] L’attribuzione della ripresa si deve a Angela Tromellini e a Roberto Spocci che hanno confrontato le diverse stampe conservate presso la  Soprintendenza Beni Architettonici e le collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna con l’esemplare compreso in una cartella della Biblioteca Reale di Torino, che contiene altre sette stampe anonime  ma di identico formato e montaggio oltre che caratterizzate da una certa omogeneità di impianto, cfr. Tromellini, Spocci 1992b. Nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio è conservata una stampa  derivata da un’altra ripresa effettuata con luci analoghe ma con inquadratura meno accurata e spostata a destra, tale da comprendere anche la casa accanto. Nonostante il fatto che le imperfezioni comuni ed evidenti nel trattamento delle lastre al collodio da cui derivano le stampe comprese nella cartella conservata alla Biblioteca Reale sembrerebbero testimoniare non solo un’autorialità comune ma anche una plausibile scarsa perizia iniziale di Poppi o del misterioso fantasma della Fotografia dell’Emilia, la presenza nella stessa cartella della fotografia della Piazza di S. Domenico/ in Bologna, certamente di Anriot, ci fa ritenere che quella cartella non fosse di produzione editoriale ma semmai l’esito di una collazione, come sembrano confermare sia gli scarsi nessi tra le stampe e il bel raccoglitore con piatti in lacca cinese a motivi floreali sia una serie analoga  passata in asta da Gonnelli a Firenze nel 2013   http://www.gonnelli.it/it/asta-0013/anriot-andeacute-mile-bologna-.asp [23 07 2015], in cui erano comprese sia stampe di Anriot sia le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio di Poppi.

[21] Si confronti la stampa di Anriot compresa nelle Vedute Fotografiche con gli analoghi soggetto di Poppi e Sommer pubblicati rispettivamente da  Tromellini, Spocci 1992b e da Frisoni 2008, p. 64. Il punto di ripresa e la scelta dell’ora, della luce più adatta pare quasi obbligato o – almeno – largamente condiviso, come dimostra il confronto tra queste immagini, a loro volta utilizzate come modello per la realizzazione del dipinto di Alfredo Domenichini, Il complesso delle chiese stefaniane e il palazzo Isolani, 1875, olio su cartone,  55×45,5 cm. conservato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

[22] Di quest’immagine venne prodotta anche  la versione in carte de visite, ottenuta apparentemente per riproduzione della stampa maggiore.

[23] A conferma della funzione selettiva di queste pubblicazioni ricordiamo che il catalogo non comprendeva le riproduzioni dal Dorè ed escludeva  le opere dei primitivi presenti nella Pinacoteca bolognese,  “coerentemente al gusto del tempo e agli ancora vigenti dettati accademici”, Varignana 1985, p. 44-45, quelli stessi che forse lo avevano portato a riprodurre anche La Sposa pompeiana di Modesto Faustini, presentata alla Esposizione triennale della Società Protettrice per le Belle Arti di Bologna del 1867 e acquistata dall’Accademia, cfr. Benassati 1992b che fraintendeva però il nome dell’autore attribuendo il dipinto ad un altrimenti ignoto “Faustino Modesti”. Come ricordava Diego Martelli nel 1867, prima che a Bologna l’opera era già stata esposta a Brera, ricevendo quegli apprezzamenti che avrebbero potuto indurre Poppi a realizzarne la riproduzione.

[24] In Poppi 1890 il repertorio si arricchirà di 15 riprese dei “Dipinti degli archi dei portici del Palazzo della Banca Nazionale,  del Prof. Lodi (1865)” (80808094) mentre in Poppi 1896 compariranno alcuni dei nuovi edifici costruiti su Via Indipendenza come il Palazzo Arena del Sole, il Palazzo Cavalieri Finzi e Treves e la  Casa Stagni.

[25] Si vedano le riprese relative alle cave di gesso di Monte Donato, che fu un tema ripreso molti anni dopo da Luigi Bertelli (1833-1916), Cave di Monte Donato, 1902 ca. MAMbo – Bologna, amico di Poppi di cui sono noti alcuni modesti lavori derivati da sue fotografie, cfr. Cristofori 1992b.

[26] Poppi 1879.

[27] Per entrambe le citazioni si rimanda a Marangoni 1999, pp. 61-62.

[28] Oltre a Luigi Ricci, a sua volta in rapporti con Poppi, ricordiamo almeno Federico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli e il cremonese Aurelio Betri.

[29] Si veda Benassati 1992c, che aveva correttamente ipotizzato la derivazione dalla ripresa di Poppi, allora non nota non essendosi conservata la lastra nel Fondo omonimo, di cui è stata reperita una stampa nella collezione di Melchiorre Pulciano.

[30] Come risulta da una serie di lettere e bollettini di spedizione conservati presso la collezione di Robert Marchesin, oggi donata agli Archives départementales du Cher, a Bourges; cfr. Le Polley Fonteny 2003, p. 71 e p. 84 nota 7.

[31] Poppi 1883.

[32] Mozzo 2004, p. 862.

[33] Restano da comprendere le distinte ragioni per cui il Duca consentisse di pubblicare immagini anche di sale non di rappresentanza come  il “gabinetto che mette al fumoir” (253D) o il salotto e la sala da pranzo di “S.A.R. l’infante Donna Eulalia” di Spagna (3497, 3498, ante 1896) e, per altro verso,  quali ne fossero i possibili acquirenti. Potrebbe riferirsi indirettamente alle relazioni col duca anche l’ingresso in catalogo delle riproduzioni (nn. 520-521) di  alcune incisioni di un autore minore come François Claudius Compte-Calix che (nel 1863?) aveva dipinto il ritratto di una delle figlie del duca: la piccola Marie-Christine.

[34] Una analoga attenzione commerciale per le strutture alberghiere si ritrova ad esempio in Sella, Vallino 1890.

[35] L’esemplare fa parte di una serie di otto albumine, di identico formato, riunite  in una custodia cartonata rivestita di tela rossa, con l’ex-libris della “Bibliotheca/ Regis/ Umberti”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.

[36] Come segnalava Becchetti 1983, p. 335, la campagna romana venne commissionata o, almeno, utilizzata per l’apparato illustrativo di Schutz 1885, in cui “molte tavole fototipiche recano oltre ‘Phot. Dell’Emilia. Bologna’ anche gli anni di esecuzione che vanno dal 1880 al 1882.” Il dato è confermato dalla documentazione conservata presso gli archivi dei Musei Vaticani, dai quali risulta – come mi ha comunicato Cristina Gennaccari, che ringrazio per la preziosa segnalazione – che  Poppi fu autorizzato in data 30 ottobre 1880 a lavorare per un mese “per riprodurre colla fotografia alcuni affreschi” nelle “Camere e Logge”, intendendosi verosimilmente le Stanze e Loggia di Raffaello. Forse per ragioni legate ai diritti editoriali dell’opera di Schutz quelle immagini entrarono a far parte dei cataloghi di Poppi solo a partire dal 1888. Restano però ancora non pochi problemi aperti, come suggerisce il fatto che la lastra n. 2126 dedicata al  Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, immessa in catalogo nel 1883 è una semplice variante di ripresa, eseguita quindi nello stesso momento, della lastra n. 5196, databile al  1875 ca e attribuita a  Pompeo Molins,  che verosimilmente deve essere considerato l’autore di entrambe, come ha indicato Jean-Philippe Garric, nel corso della sua comunicazione dedicata alla Collezione Parker, condivisa con Francesca Bonetti,  presentata al seminario internazionale Les capitales photographiques , che si è tenuto a Parigi il 17-18 settembre 2015,  promosso da Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) in collaborazione con altre istituzioni internazionali.

[37] Melchiorre Pulciano (1833-1923), collaboratore di Edoardo Arborio Mella e autore di alcune chiese e di edifici civili in stile ‘neomedievale’ o eclettico, attivo anche nell’ambito del restauro. Nel 1915 redasse il testo storico critico dedicato al Palazzo Barolo di Torino per la serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”, del fotografo Gian Carlo dall’Armi.

[38] L’Archivio dell’Ing. Guido Tirelli (1883 – 1940), costituito dai disegni di progetto e da una ricca raccolta fotografica che comprende anche 54 stampe di Poppi, è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia consultabile all’indirizzo https://collezionidigitali.comune.re.it/cris/fonds/fonds00211/fondsinformation.html?orderall=ASC&startall=440&sort_byall=11&open=all  [03 01 2023].

[39] Francesco Azzurri (1827-1901), Presidente dell’Accademia di San Luca dal 1890, acquistò una serie di fotografie di Poppi nel 1889 e negli anni successivi il fotografò documentò diverse fasi della costruzione del Palazzo, sino alla sua inaugurazione, cfr. Marangoni 1999, pp. 196-197. Altre fotografie di Poppi appartennero anche a Giacomo Santamaria, attivo a Milano tra eclettismo e liberty e a Gino Coppedè, queste ultime oggi conservate nel Fondo omonimo dell’Archivio Fotografico Toscano a Prato.

[40] Russel Sturgis (1836-1909), architetto e influente critico di architettura, fu tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel corso del suo secondo Grand Tour acquistò numerose fotografie che andarono ad arricchire la sua già importante raccolta iniziata nel corso del primo viaggio in Europa nel 1858-1861; alla sua morte le circa 20.000 stampe che la formavano furono acquisite dal dipartimento di Architettura della Washington University. Può essere un interessante indizio, sebbene singolare, del successo commerciale (e culturale) dei diversi fotografi ed editori considerare che a fronte di 135 fotografie di Poppi la collezione ne conserva 1008 di Alinari, 370 di Brogi, 274 di Naya, 175 di Moscioni e 113 di Sommer, per limitarci alle maggiori presenze italiane; cfr. Hanlon 1997, consultabile on line : https://library.wustl.edu/spec/russell-sturgis/  [03 01 2023]. A conferma di una buona attenzione per la sua produzione da parte di viaggiatori internazionali segnaliamo che alcune stampe Poppi di soggetti bolognesi sono comprese nell’album Venice Spezzia [sic] Bologna, dell’International Center of Photography di New York;  tra questi anche il Gioacchino Murat di Vincenzo Vela nella tomba di Letizia Murat Pepoli, che fu a sua volta una delle prime estimatrici di Poppi pittore, di cui nel 1857 acquistò  il dipinto Campagna lambita da corrente di fiume, cfr. Grandi 1983.

[41] Le prime committenze risalivano al 1882, quando Poppi intervenne a documentare il restauro del castello di San Martino in Soverzano di Minerbio (Bo) e proseguirono almeno sino al 1894 col  Museo di San Petronio.

[42] Numerose fotografie di Poppi sono comprese nel fondo conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe, della Pinacoteca Nazionale di Bologna.

[43] L’ingegnere possedeva alcune stampe Poppi relative a edifici da lui realizzati, poi donate dalla moglie nel 1939  alla Biblioteca dell’Archiginnasio “per ricordare l’attività del marito nel campo dell’edilizia”.   cfr. Roncuzzi Roversi-Monaco 1992.

[44] E. Viollet-Le-Duc, voce Restauration. in Viollet-Le-Duc 1860, pp. 33-34.

[45] Boito 1893, pp. 28-30.

[46] Cavanna 1981.

[47] Se ne conoscono le stampe all’albumina, in grande formato (37×41 circa, montate su cartoni 44×52 cm), firmate Pietro Poppi e conservate presso la Biblioteca Civica di Padova. Non si può naturalmente escludere che tale incarico derivasse da contatti intrattenuti in occasione della campagna documentaria sul patrimonio architettonico patavino effettuata prima del 1883, ma l’affidamento a Poppi costituisce comunque una singolarità, sia rispetto alla sua produzione consueta (almeno per quanto ci è noto) sia per la presenza in città di buoni professionisti come Ferdinando Farina o Costante Agostini ma soprattutto per la disponibilità nella vicina Verona di uno specialista di grande livello come Moritz Lotze; cfr. Lotze 1984; Vanzella 1997. Altrettanto eccentriche risultano le cinque riprese dedicate al ponte San Michele sull’Adda (ponte di Paderno), completato nel 1889, ma in questo caso l’eccezionalità dell’opera ingegneristica ne determinò l’immissione in catalogo con l’Appendice 2a del 1896 (nn. 1441-1445).

[48] Poppi 1888. Lo spazio disponibile non ci consente di analizzare compiutamente altre produzioni di Poppi non confluite in catalogo, come quella condotta presso l’Istituto Aldini Valeriani nel 1878 o quella commissionata dopo il 1895 dalla Fernet-Branca per documentare la diffusione bolognese delle nuove insegne pubblicitarie con l’aquila disegnata da Leopoldo Metlicovitz, cfr. Tromellini, Cecchini 2003.  Colgo l’occasione per ringraziare Angela Tromellini per la segnalazione delle preziose stampe di Poppi.

[49] Tanto affascinante quanto complesso, e impraticabile qui, anche solo il proposito di accennare all’evoluzione terminologica del linguaggio intorno alla fotografia, ma ricordo a puro titolo di suggestione che l’Adalgisa, uno dei grandi personaggi di Gadda, tra i numerosi interessi del suo compianto Carlo (il marito) comprendeva anche “i ritratti dei paesaggi della Libia”, Carlo Emilio Gadda, L’ Adalgisa: disegni milanesi. Firenze: Le Monnier, 1944.

[50] Laudisa 1995, p. 85.

[51] Alcune riprese di soggetto analogo erano presenti già nel catalogo del 1871, come “Cava con donne” (261) o Sasso [Marconi] – “La torre – casa con figure in costume di codeste montagne” (272). La serie venne poi ulteriormente accresciuta nel 1890 e 1896 rispettivamente con 26 e 16 nuovi soggetti.

[52] Si veda Gaetano Chierici 1986.

[53] Fusco et al. 2011, pp. 93, 116, 126.

[54] F. F., Corrispondenza, [10 ottobre], “Cronaca. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Economia e industria pubblicato da Ignazio Cantù”, 2 (1856), disp.7, pp. 331-333,  Milano: Tipografia di Giuseppe Redaelli. citato in Vanzella 1997,  p. 32 come F. Falzago, Fotografia di Padova nel 1856, datato 15 ottobre 1856.

[55] Voir l’Italie 2009.

[56] Si vedano a titolo di esempio Wayside Gossip, 1882 e He Never Told His Love, 1884, entrambe nelle collezioni della Royal Photographic Society di Londra.

[57] Si veda Giovanni Battista Quadrone 2014.

[58] Si consideri ad esempio il Ritratto di ragazzo con flauto, 1900 ca. in Arte in Italia 2011, p.177. Von Glöden fu a sua volta autore di una nutrita serie di “Scene di vita e di lavoro”, ampiamente pubblicate all’epoca in periodici quali “Il Progresso Fotografico” e oggi quasi dimenticate, cfr. Zannier 2008; ricordiamo inoltre che le sue fotografie, come quelle di Poppi, comprendevano tra i propri possibili destinatari anche gli Istituti d’Arte, cfr. Wilhelm von Gloeden 2000.

[59] Bertelli 1979, pp. 68, 84-87.

[60] Expo Bologna 1888 2015.

[61] Adolphe Braun 2000 ; per Charles Aubry cfr. McCauley 1994. Diverso era l’intento e la concezione delle nature morte realizzate da Roger Fenton intorno al 1860 come delle 47 albumine di Pietro Guidi per la  Flora fotografata delle piante più pregevoli e peregrine di San Remo e sue adiacenze per Francesco Panizzi, del 1870.

[62] Fanelli, Mazza 2012, pp. 154-155.

[63] Quintavalle 2003, p. 408.

[64] La pubblicazione della prima opera fotografica dedicata al tema fu  Hildebrandsson, Osti 1879, con 16 stampe all’albumina,  mentre proprio nel 1890 venne edito il primo atlante sistematico (Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890),  cfr. Lebart 1996, disponibile on line: http://etudesphotographiques.revues.org/288  [05 08 2015].

[65] Si veda Andrea Tarchetti 1990.

[66] Si veda Mario Gabinio 1996.

[67] L’accurata ricostruzione delle vicende che portarono a questo incarico si deve a Marangoni 1999, pp. 159-198, poi sintetizzate in Marangoni 2001.

[68] Marangoni 1999, pp. 133-159.  Poiché il valore dichiarato degli “oggetti esposti” era di L. 1000,  considerando che il prezzo di ciascuna stampa oscillava tra le L. 1,50 cadauna per le sciolte e L. 0.70/1.00 per quelle in album, Poppi avrebbe dovuto esporre più di 600 fotografie, numero che pare troppo elevato anche per uno spazio espositivo molto grande (7×2.90 m. a parete e 7×0.90 in ingombro a terra per le vetrine), il maggiore di quella sezione. Possiamo quindi supporre che esponesse la gran parte dei “campionari” del suo repertorio. La documentazione dell’Esposizione Emiliana, di cui la ditta Poppi era “unica concessionaria del Comitato esecutivo”, comparve in catalogo solo nella Appendice Ia del 1890, ma alcune di quelle immagini vennero pubblicate sul giornale della stessa Esposizione.

[69] Avvertenza, in Ricci, Poppi  1888, p. 3, che più oltre, a proposito del Sepolcro di Rolandino Passeggerio riconosceva che  “la Tavola V ci dispensa da una lunga descrizione”, p. 10. A conferma del ruolo autoriale ed editoriale di Poppi ricordiamo che la pubblicazione era registrata anche nella Appendice I del 1890.  I rapporti tra i due, forse inizialmente mediati dal padre di Corrado, Luigi, con cui Poppi intratteneva rapporti professionali,  proseguirono negli anni successivi quando Ricci divenne Direttore delle “Regie Gallerie” di Parma (1893) e poi di Modena (1894); in quella occasione Poppi rispose alla richiesta di Ricci di integrare la serie di vedute di Modena proponendo una nuova campagna affidata al nipote Angelo Marzola. Ancora nel 1896 Poppi gli avrebbe chiesto di verificare la correttezza delle descrizioni dei soggetti d’arte compresi nell’Appendice 2a; ricordiamo infine che per sua iniziativa 49 fotografie di Poppi entrarono a far parte del”ricetto fotografico” di Brera verso il 1899. La collaborazione editoriale di Ricci con i fotografi fu sempre costante, sia nell’ambito dei propri progetti editoriali, quali l’ “Italia Artistica” sia redigendo testi e saggi introduttivi come fu per Cassarini 1894 e per Pedrini 1929.

[70] Malaguzzi Valeri 1899, nota introduttiva non titolata, pp.n.n. Il volume raccoglieva, rielaborandoli in parte,  anche alcuni contributi specifici già pubblicati nell’ “Archivio storico dell’arte” a partire dal 1893 a loro volta illustrati da fotografie di Poppi. Al verso del frontespizio si segnalavano le  “Fotografie dello Stabilimento Poppi di Bologna/ Eliotipie e Fototipie dello Stabilimento Danesi di Roma”. In realtà le 79 figure nel testo sono zincotipie mentre le venti f.t. sono eliotipie (o fototipie, i termini sono sinonimi). Segnaliamo che nelle zincotipie si riscontrano interventi di modifica quali scontornature degli elementi architettonici (capitelli) e aggiunta di nuvole ai cieli. Il volume è stato studiato da Rubbi 2010.

[71] Album di fotografie della Repubblica di San Marino/ in Bologna presso Pietro Poppi Fotografo governativo della Repubblica di San Marino. Bologna: s.e.,  1889. Come accadeva non di rado, il contratto non prevedeva  altro compenso che la copertura delle spese viaggio, vitto e alloggio; fu però concesso a Poppi di porre in vendita alcune copie dell’album durante l’Esposizione parigina.

[72] Ricordiamo qui che anche il figlio del Console di San Marino a Bologna, Guido Malagola, si sarebbe pochi anni dopo dedicato alla fotografie en amateur realizzando non solo una interessante serie di ritratti del bel mondo internazionale che ruotava tra Venezia e Londra ma anche immagini di tipo documentario, alcune delle quali furono utilizzate per illustrare un volume dedicato a  San Marino (Ricci 1903).

[73] Citato in Bertelli 1984, p. 7.

[74] Grandi 1983.

[75] Le ragioni potevano essere di volta in volta diverse: dalle mutate condizioni dell’edificio all’utilizzo di nuove emulsioni (dal collodio alle prime gelatine poi alle lastre ortocromatiche) sino alla necessità di rifare lastre per una qualche ragione rovinate.

[76] Si veda Modena, Facciata meridionale del Duomo, in E. Anriot, Edifizi, vedute quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna rappresentati colla fotografia. Modena: Nicola Zanichelli, 1868, tav. 65. in quel periodo le vedute animate erano invece consuete nei formati minori, e specialmente nelle riprese stereoscopiche.

[77] Zannier 1980.

 

 

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Massimo Cova, La fotografia a Bologna nel 1888, “Saecularia Nona: Università di Bologna 1088-1988”, 7 (1988). Casalecchio di Reno : Grafis, 1988, pp. 68-71

 

Cova 1989

Massimo Cova, Due professionisti dell’epoca del collodio: Pietro Poppi e Giorgio Sommer,  in  Alle origini della fotografia: Un itinerario toscano: 1839-1880, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Vecchio, Sala d’Arme, 28 settembre-26 novembre 1989), a cura di Michele Falzone del Barbarò, Monica Maffioli, Emanuela Sesti.  Firenze: Alinari, 1989, pp. 145-147

 

Cozzi 1987

Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 22-31

 

Cresti 1987

Carlo Cresti, Fondo Coppedè: Eclettismo come stile di vita, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 13-21

 

Cristofori 1992a

r.c. [Roberta Cristofori], Anriot, Emilio (1826 – ?), in Benassati,  Tromellini 1992, p. 270

 

Cristofori 1992b

r.c. [Roberta Cristofori], Bertelli, Luigi (1832 – 1916); Fotografia dell’Emilia (attiva 1865 – 1940), in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/14, I/15, pp. 118-119

 

Cristofori 1992c

r.c. [Roberta Cristofori], Poppi, Pietro (1833-1914), in Benassati,  Tromellini 1992, pp.  276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Le collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna: Le fotografie, 1 : Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, a cura di Franco Cristofori, Giancarlo Roversi.  Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Dall’Armi 1915

Gian Carlo dall’Armi, Il Barocco Piemontese. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915]

 

Emiliani, Zannier 1993

Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il Tempo dell’Immagine: Fotografi e Società a Bologna: 1880-1980.  Torino: SEAT, 1993

 

Expo Bologna 1888  2015

Expo Bologna 1888: l’Esposizione Emiliana nei documenti delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 8 aprile – 8 giugno 2015), a cura di Benedetta Basevi, Mirko Natoli, “Quaderni della Biblioteca di San Giorgio in Poggiale”, 1. Bologna: Bononia University Press, 2015

 

Fanelli, Mazza 2003

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Lucca: Iconografia fotografica della città, con la collab. di Gilberto Bedini, 2 voll. Lucca: Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; Maria Pacini Fazzi Editore,  2003

 

Fanelli, Mazza 2012

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Alphonse Bernoud. Firenze: Mauro Pagliai Editore, 2012

 

Ferretti 1980

Massimo Ferretti, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nelle riproduzioni d’arte. In: L’Immagine della regione: Fotografie degli archivi Alinari in Emilia e in Romagna, catalogo della mostra (Modena, Fondazione del Collegio San Carlo, 20 novembre-20 dicembre 1980). Modena – Firenze: Istituto per i Beni Artistici Culturali Naturali della Regione Emilia-Romagna, Comune di Modena –  Istituto Alinari, 1980, pp. 37-51;  ora in Fotologia”, n. 23-24, 2003, pp. 2-11, con minime varianti al testo

 

Fotografia Italiana 1979

Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier.  Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Fotografia pittorica 1979

Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Frisoni 1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte sacra in San Francesco: recupero di una documentazione fotografica, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, 1998, pp. 35-41

 

Frisoni 2008

Cinzia Frisoni, Leggere, interpretare, formalizzare: esempi di morfologie delle schede, “Acta Photographica”, 3 (2008), n. 1, gennaio-giugno, pp. 63-69

 

Gaetano Chierici 1986

Gaetano Chierici: 1838-1920, catalogo della mostra ( Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 15 Febbraio – 31 Marzo 1986), a cura di Elio Monducci. Reggio Emilia: Tipolitografia, 1986

 

Giovanni Battista Quadrone  2014

Giovanni Battista Quadrone: un iperrealista nella pittura piemontese dell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi-Ometto, 19 settembre 2014 – 11 gennaio 2015), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Torino: Adarte, 2014

 

Grandi 1983

Renzo Grandi, Pietro Poppi, in Dall’Accademia al vero: La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio-aprile 1983), a cura di Renzo Grandi. Bologna: Grafis, 1983, pp. 212-213

 

Gray 1992

Michael Gray, Il reverendo Calvert Jones in Italia, in Benassati,  Tromellini 1992, p. 69

 

Guidotti 1996

Paolo Guidotti, Gli stemmi del Palazzo dei capitani della montagna a Vergato: una memoria visiva di secoli di storia dell’Alto bolognese (restauro 1992-1994);  “Accademia Clementina di Bologna: Saggi studi ricerche”. Bologna: CLUEB, 1996

 

Hanlon 1997

David R. Hanlon, Inventory of the Sturgis Photographic Collection: a complete listing of mounted photographs, loose prints and the contents of travel albums collected by Russell Sturgis at Washington University.  St. Louis, Mo. : [Washington University], 1997

 

Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890

Hugo Hildebrandt, Wladimir Köppen, Georg Balthasar von Neumayer, Wolken-Atlas – Atlas des nuages – Cloud-Atlas – Moln-Atlas. Hamburg: G. W. Seitz, 1890

 

Hildebrandsson, Osti 1879

Hugo Hildebrandt Hildebrandsson, Henri Osti, Sur la classification des nuages employée à l’observatoire météorologique d’Upsala.  Upsala: Berling, 1879

 

Inchiesta 1873

Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Atti del Comitato dell’inchiesta industriale, III, Deposizioni scritte. Cat. 13, § 2, incisione, Litografia e Fotografia. Roma : Stamperia Reale, 1873

 

L’insistenza dello sguardo 1989

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989),  a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Laudisa 1995

Ilderosa Laudisa, Ritratto di una città: Storia della fotografia leccese dell’Ottocento. Lecce: Edizioni Del Grifo, 1995

 

Le Polley Fonteny 2003

Monique Le Polley Fonteny, Alinari e Giraudon: una storia parallela, in  Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 71-86

 

Lebart 1996

Luce Lebart,  Les archives du ciel, “Études photographiques”, 1 (1996) n. 1,  novembre, pp.56-72

 

Lotze 1984

Lotze: Lo studio fotografico 1852-1909, catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio, 26 luglio-30 settembre 1984), a cura di Pierpaolo Brugnoli, Sergio Marinelli, Alberto Prandi. Verona: Comune di Verona – Museo di Castelvecchio, 1984

 

Luigi Sacchi 1998

Luigi Sacchi: Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, catalogo della mostra (Torino, Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte, 8-28 maggio 1998), a cura di Roberto Cassanelli. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Maffioli 1996

Monica Maffioli, Il BelVedere: Fotografi e architetti nell’Italia dell’Ottocento. Torino, S.E.I., 1996

 

Maffioli,  Quintavalle 2003

Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002, pubblicato in occasione della mostra omonima (Firenze, Palazzo Strozzi, 2 febbraio-2 giugno 2003).  Firenze: Alinari, 2003

 

Malaguzzi Valeri 1893

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa della Madonna di Galliera in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 6 (1893) n. 1, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1894

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il portico di San Giacomo in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 7 (1894) n. 5, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1895

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il convento di S. Michele in Bosco. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1895

 

Malaguzzi Valeri 1896

Francesco Malaguzzi Valeri, La Chiesa della Santa a Bologna, “Archivio storico dell’arte”, serie II, 2 (1896), n. 1-2

 

Malaguzzi Valeri 1899

Francesco Malaguzzi Valeri, L’architettura a Bologna nel Rinascimento. Rocca S. Casciano: Licinio Cappelli Editore, 1899

 

Malaguzzi Valeri 1928

Francesco Malaguzzi Valeri, Il palazzo Zacchia-Rondinini Reggiani, “Cronache d’Arte”, 4 (1928) n. 3, pp. 45-64

 

Marangoni 1999

Fabio Marangoni, Pietro Poppi (1833-1914) fotografo bolognese dell’Ottocento. Tesi di laurea in Storia dell’Arte Contemporanea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in D.A.M.S., relatore Stefano Susinno, a.a. 1998-1999

 

Marangoni 2001

Fabio Marangoni, L’Album delle fotografie della Repubblica di San Marino e regesto dei cataloghi della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 7 (2001), febbraio, pp. 38-47

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996

 

Martelli 1867

Diego Martelli, Esposizione triennale di Belle Arti in Bologna,  “Gazzettino delle Arti del Disegno”, 1 (1867), nn. 39, 40, 4, 17 novembre, pp. 306-307, 316-317

 

Matarazzo 2004

Carmela Matarazzo, Le testimonianze del quadraturismo bolognese nelle campagne fotografiche di Poppi, Croci, Alinari e Villani, Tesi di laurea, Corso di laurea in D.A.M.S., indirizzo Arte, relatore Marinella Pigozzi, a.a. 2003-2004

 

McCauley 1994

Elizabeth Anne McCauley, Industrial Madness. Commercial photography in Paris, 1848-1871. New Haven, London: Yale University Press, 1994

 

Melani 1907

Alfredo Melani, L’Arte nell’industria: lavori di legno e pastiglia, lavori di metallo, lavori di pietra, marmo. Milano: Vallardi, 1907-1911.

 

Moggi, Maffioli, Sesti 1994

Guido Moggi, Monica Maffioli, Emanula Sesti, a cura di, Fotografia e botanica tra ottocento e novecento. Firenze: Alinari, 1994

 

Mormorio 2000

Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000

 

Mozzo 2004

Marco Mozzo, Note sulla documentazione fotografica in Italia nella seconda metà dell’Ottocento tra tutela, restauro e catalogazione, in Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di, Arti e storia nel Medioevo, 4: Il Medioevo al passato e al presente. Torino: Einaudi, 2004, pp. 847-870

 

Novara 2006

Paola Novara, L’ attività di Luigi Ricci attraverso i cataloghi del suo laboratorio. Ravenna : Fernandel scientifica, 2006

 

Paoli 2000

Silvia Paoli , Pietro Poppi, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia.  Milano: Electa, 2000, p. 164-165

 

Papone 1999

Elisabetta Papone, Il mare di vetro: Genova e le Riviere tra veduta e documentazione nell’archivio di Alfred Noack, in  Scoperta del mare: Pittori lombardi in Liguria tra’800 e ‘900, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 9 luglio-24 ottobre 1999) a cura di Giovanna Ginex, Sergio Rebora. Milano: Mazzotta, 1999, pp. 199-213

 

Pedrini 1929

Augusto Pedrini, Il ferro battuto sbalzato e cesellato nell’arte italiana : dal secolo undicesimo al secolo diciottesimo.  Milano: Ulrico Hoepli, 1929

 

Pettina 1905

Giuseppe Pettina, Vicenza. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1905

 

Poppi 1871

Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna/ Palazzo Rodriguez, via S. Mamolo N. 101 primo. S.l. : s.n. [Bologna: Tip. Fava e Garagnani], s..d. [1871]

 

Poppi 1879

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne : Imprimerie Fava et Garagnani, 1879

 

Poppi 1883

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne (Italie): Établissement Typographique successori Monti, 1883

 

Poppi 1888

Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, s.d. [1888]

 

Poppi 1890

Appendice I al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1890

 

Poppi 1896

Appendice 2a al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna : Premiata Tip. L. Andreoli, 1896

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Recine 2006

Francesca Recine, La documentazione fotografica dell’arte in Italia dagli albori all’epoca moderna. Napoli: Scriptaweb, 2006

 

Ricci 1903

Corrado Ricci, La Repubblica di San Marino. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903

 

Ricci, Poppi 1888

Corrado Ricci, Pietro Poppi, Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV. Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, 1888

 

Roncuzzi Roversi-Monaco 1992

Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Il ritratto della città, in Benassati,  Tromellini 1992,, pp. 83-87

 

Rubbi 2010

Valeria Rubbi, L’ architettura del Rinascimento a Bologna: passione e filologia nello studio di Francesco Malaguzzi Valeri.  Bologna: Editrice Compositori, 2010

 

Rubbiani 1886

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di S. Francesco in Bologna; con atlante di nove tavole. Bologna: Nicola Zanichelli, 1886

 

Rubbiani 1887

Alfonso Rubbiani, Le tombe di Accursio, di Odofredo e di Rolandino de’ Romanzi glossatori nel secolo XII. Bologna: Nicola Zanichelli, 1887

 

Rubbiani 1899

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di San Francesco e le tombe dei Glossatori in Bologna: Ristauri dall’anno 1896 al 1899. Note storiche ed illustrative di A.R. Bologna: Tip. Zamorani e Albertazzi, 1899

 

Ruskin 1985

John Ruskin, Viaggi in Italia (1840-1845), a cura e con prefazione di Attilio Brilli. Firenze: Passigli, 1985

 

Schutz 1885

Alexander Schutz, Die Renaissance in Italien. Eine Sammlung der werthvollsten erhaltenen Monumente in chronologischer Folge geordnet. Hamburg: Strumper & C., 1885

 

Secchiari 1997

Simonetta Secchiari, a cura di, Corrispondenti di Corrado Ricci: Indice inventario. Ravenna: Società di Studi Ravennati, 1997

 

Seferović 2009

Abdulah Seferović, Photographia Iadertina: od dagerotipije do digitalne slike. Zagreb: Kapitol, 2009

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890 (nuova ed. Ivrea : Priuli e Verlucca, 1983

 

Sesti 1993

Emanuela Sesti, I cataloghi dei Fratelli Alinari a Bologna fra Ottocento e Novecento. in  Emiliani,  Zannier 1993, pp. 89-92

 

Tomassini 2003

Luigi Tomassini, L’Italia nei cataloghi Alinari dell’Ottocento: gerarchie della rappresentazione del “bel paese” fra cultura e mercato, in Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 147-216

 

Tromellini, Cecchini 2003

Venga a prendere un caffè da noi: dal mitico caffè chantant “Eden” ai moderni bar della città: 1861-1969, in Bologna d’archivio: 150 antiche fotografie della Cineteca, (catalogo della mostra, Bologna, Cineteca Comunale, 16 marzo 2003),  a cura di Angela Tromellini e Margherita Cecchini. Bologna: Cineteca, 2003

 

Tromellini, Spocci 1992a

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Calvert Jones, Richard (att. 1840-1846),  in Benassati,  Tromellini 1992, sch. II/44-II/47,  pp. 192-193

 

Tromellini, Spocci 1992b

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Fotografia dell’Emilia (att. 1865-1940), attr. Piazza e Chiesa di S. Stefano in Bologna, in Benassati,  Tromellini 1992,  pp. 188-189

 

Vanzella 1997

Giuseppe Vanzella, a cura di, Padova: I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana 1985

Franca Varignana, Pietro Poppi: fotografia della città, “Fotologia”, 1985, n. 3, luglio, pp. 40-51

 

Varignana 1993

Franca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Emiliani, Zannier 1993

  1. 55-85

Varni 2011

Angelo Varni, a cura di, Palazzo Caprara Montpensier: sede della Prefettura di Bologna. Bologna : Bononia University Press, 2011

 

Vetruzzini 2007

Barbara Vetruzzini, Fotografi e fotografia a Pisa: Il Grand Tour e la rappresentazione della città, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 23 (2007), n. 45, giugno, pp.40-53

 

Viljoen 1971

Helen Gill Viljoen, ed.,  The Brantwood Diary of John Ruskin: together with selected related letters and sketches of persons mentioned.  New Haven : Yale University Press, 1971

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris : Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. [1860]

 

Voir l’Italie 2009

Voir l’Italie et mourir: Photographie et peinture dans l’Italie du XIXe siècle, catalogo della mostra (Paris, Musée D’Orsay, 7 aprile-19 luglio 2009), Guy Cogeval, Ulrich Pohlmann, dir. Paris: Skira Flammarion, 2009

 

Wilhelm von Gloeden 2000

Wilhelm von Gloeden: Fotografie ritrovate dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze: 1899-1902, catalogo della mostra (Firenze, San Pancrazio, marzo-aprile 2000), a cura Annarita Caputo. Firenze: Pagliai Polistampa, 2000

 

Zannier 1980

Italo Zannier, Il grande catalogo di Pietro Poppi, in  Cristofori, Roversi 1980, pp. 41-49

 

Zannier 2008

Wilhelm von Gloeden: Fotografie: nudi paesaggi scene di genere, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Ragione, 24 gennaio-24 marzo 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 ore, 2008

 

Zucchini 1914

Guido Zucchini, Bologna. Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1914

 

 

 

 

Di un Viaggio in Italia, passando per il Piemonte  (2008)

in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932,  II, Le province di Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbania, Vercelli. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp.  319-331

 

L’immagine è semplice: al muro di fondo, basso, coronato di fogliame, con belle pietre squadrate all’angolo destro (il solo visibile) sono poggiati in bell’ordine alcuni oggetti: una scopa di saggina, una vanga, una forca a tre rebbi sul filo dello spigolo. A terra, un poco sulla destra, un annaffiatoio in metallo. Nessuna presenza ulteriore, nessun indizio che consenta di definire meglio il contesto, sebbene la disposizione niente affatto casuale degli attrezzi lasci intendere una certa cura, se non proprio un’ intenzione estetica a orientare le capacità descrittive proprie della tecnica fotografica.  Questo “angolo di muro soleggiato con attrezzi da giardino”, come lo descrisse John Herschel, porta la data del 2 maggio 1840 e la firma prestigiosa di William Henry Fox Talbot[1]. “Wall in Melon Ground, come l’autore identificava il proprio negativo, realizzato ancora con la tecnica del disegno fotogenico, è il primo esempio noto di natura morta fotografica con oggetti quotidiani, poi ripreso dallo stesso autore in The Open Door, 1844,  per la quale Larry J. Schaaf ha parlato di influenza evidente della pittura olandese del Seicento. Insieme costituiscono il prototipo se non proprio il modello, da ricercarsi semmai nella storia della pittura, di una vasta genealogia di immagini, e di modi di vedere, di cui è agevole ritrovare traccia ancora nelle fotografie di Paul Scheuermeier, e oltre.  

Nella produzione degli autori che hanno utilizzato il negativo di carta[2], e ancora in Talbot, si trovano anche i primi esempi del genere poi ampiamente frequentato delle scene di lavoro. Penso a Carpenters at Lacock Estate, del 1842-1845 (Bernard 1981, t. 1), ma anche a The Woodcutters – Nicole and Pullen Sawing and Cleaving, circa degli stessi anni (Schaaf 2000, p. 226), con la posa che mostra strumenti e gesti, con declinazioni e variazioni sul tema che dipendono e riflettono l’insieme complesso e ogni volta diverso costituito dai nessi tra il contesto di realizzazione, le ragioni e la cultura non solo visiva di ciascun autore. Sin dalle origini della fotografia infatti si ritrova “una miriade di esempi di significative convergenze tra l’occhio e i suoi prolungamenti e le teorie e le pratiche antropologiche”  (Faeta 2006, p. 11), che nello stesso periodo andavano definendo compiutamente le loro metodiche, anche mediante il ricorso sempre più consapevole e strutturato all’uso della fotografia[3].  Per gran parte del XIX secolo fu però un’intenzione che chiameremo genericamente ‘artistica’ a orientare l’attenzione dei fotografi verso temi e soggetti di carattere popolare, producendo immagini da vendersi a pittori e incisori, come agli epigoni del Grand Tour.  Per limitarsi all’Italia basti ricordare le opere di professionisti come Celestino Degoix a Genova, di Caneva e altri della Scuola romana, di Bernoud, Conrad  e Sommer a Napoli (anche nelle successive riproduzioni romane di Cesare Vasari), di Incorpora a Palermo[4]. In questa prima fase, che perdura per tutta la cosiddetta età del collodio, almeno sino al penultimo decennio dell’Ottocento, l’ambito resta quello della fotografia di genere, in relazione di mutua dipendenza con molta produzione pittorica coeva. Con una forte inclinazione per lo stereotipo e per il bozzetto pittoresco quindi, ma pure con una sua certa sistematicità e con l’inevitabile capacità intrinseca di restituirci almeno qualcosa, una qualche traccia di mondi e di modi di essere altrimenti inconoscibili.

Ben più complessa è stata la trama dei rapporti tra cultura fotografica e demologia[5] nei decenni che chiudono l’Ottocento, quando molta fotografia amatoriale rivolse la propria attenzione al mondo popolare, specialmente contadino, mentre la produzione dei grandi studi persisteva in una produzione di accattivante maniera;  valga per tutti l’esempio degli Alinari che nella serie di riprese napoletane del 1896-1897 rischiarono “di trasformare la realtà di una crisi sociale in un sistema di bozzetti di singoli mestieri.” (Quintavalle 2003, p. 410)  Le nuove possibilità offerte dalle emulsioni sensibili alla gelatina bromuro d’argento e il conseguente smisurato ampliarsi della pratica fotografica amatoriale tra la borghesia, per quanto piccola, e la nobiltà terriera inducevano e consentivano una produzione nuova, attenta all’intorno, alle figure del quotidiano e dei mestieri, che si distingueva in modo sempre più marcato (e sovente esplicito) dalla precedente fotografia professionale  di genere. Si sarebbe tentati di dire che con gli amateur la costruzione dell’icona passava in secondo piano, resa semmai implicita a favore di una narrazione della tranche de vie  che comportava di rivolgere l’apparecchio, e  lo sguardo prima verso quel mondo popolare con cui per ragioni e con ruoli diversi ciascun nobile, o borghese persino non poteva non entrare in contatto. Tutti incontravano qualche donna con la gerla, una qualche (bella) lavanderina[6]; tutti conoscevano un vecchio pescatore col corpo segnato dalla fatica e dalla salsedine; un massaro, un pastore  almeno.  Tutti li fotografavano anche senza chieder loro una posa: osti, elettricisti, falegnami e farmacisti, i molti sacerdoti attivi in tante piccole comunità del nord, ma anche i rappresentanti della più colta e letteraria “fotografia signorile”[7], meridionale e non solo. Quasi etnografi loro malgrado, in una singolare concordanza di tempi, che non può essere coincidenza, con quanto la cultura antropologica italiana, specialmente nell’ambito della cosiddetta “scuola fiorentina”, andava elaborando a proposito di uso documentario della fotografia.

Enrico Morselli, commissario per la Sezione di Antropologia dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884,  raccomandava  di usare la fotografia “dal punto di vista antropologico” innanzitutto per ritrarre l’uomo “di faccia e di profilo” con intenti antropometrici, quelli stessi che accomunavano Bertillon e Lombroso, riconoscendo però che “alle fotografie scientifiche sarà utile aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale”[8]. Era  proprio in questa seconda accezione, lontana dalla crudele e metodica scientificità di cui gli studiosi si riservavano – almeno in questa prima fase[9] – l’appannaggio,  che la cultura dell’epoca coglieva una possibilità di dialogo, un possibile ruolo da assegnare ai dilettanti, esplicitamente invitati da Giulio Fano a rilevare nelle varie regioni di appartenenza quei tratti caratteristici della cultura e delle manifestazioni popolari che erano a rischio di estinzione per la forza “livellatrice” della “civiltà di fine di secolo (…) sotto l’influenza imperiosa, eminentemente  suggestiva della moda”[10].  La questione venne ripresa e precisata da Lamberto Loria, anch’egli membro della Società Fotografica Italiana, che raccomandava non solo che  le immagini fossero ottenute “per quanto possibile di sorpresa (…) perché nelle persone fotografate non abbiano a mostrarsi (…) atteggiamenti intenzionali”, ma anche che esse venissero integrate “di quelle indicazioni di luogo, di tempo e di misura che sono indispensabili a dare all’oggetto illustrato il suo vero carattere.”[11]  Sul rifiuto della  posa convenivano negli stessi anni anche alcuni fautori della fotografia artistica (in una delle molte accezioni che il termine assunse a cavallo tra Otto e Novecento). Così sulle pagine del “Progresso Fotografico”, nel 1906, si stigmatizzava l’opera di un amateur  “gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce talvolta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto” (Redazionale 1906),  e pochi anni più tardi  Stefano Bricarelli riconosceva a proposito della buona riuscita di scene animate che “una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…). Condizione questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata” (Bricarelli 1913). A questa convergenza di modi, pur con ragioni sottilmente diverse, corrispondeva anche un’unità di intenti che diremmo di conservazione contraddittoriamente nostalgica delle tracce di quel “mondo umile ma pur tanto artistico [i cui] costumi agonizzano sotto i colpi dell’industrialismo dominante”[12], che aveva caratterizzato sin dal periodo post unitario i programmi  e l’opera di organismi quali il Club Alpino Italiano (1863) e poi il Touring Club Italiano (1894), così come di molte altre forme minori di associazionismo ricreativo e culturale.

In questo contesto va collocata e compresa anche la serie fotografica dedicata ai Villaggi e montagne della Val d’Ala che il musicista Leone Sinigaglia, di cui è nota l’attenzione per i canti popolari piemontesi[13],  aveva presentato all’Esposizione di Fotografia Alpina[14] organizzata dal CAI nel 1893 a Torino, ma l’esempio più illustre e compiuto di questa etnografia ideologica, di questa demologia, è il volume che Vittorio Sella e Domenico Vallino[15] dedicarono al Monte Rosa e Gressoney, pubblicato nel luglio 1890 con un ricco apparato di  tavole fuori testo da fotografie di Sella ed immagini nel testo dovute ad entrambi gli autori. “Il traffico più attivo – si legge nell’introduzione all’Album – cancellerà la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire, il dialetto svizzero-tedesco, l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie; porterà un livello medio di civiltà, percorrendo il cammino che il filosofo chiama evoluzione naturale, che l’artista deplora, per la monotonia che ne deriva al quadro della vita umana” (Monte Rosa 1890, p.5). Erano quelli i caratteri che i due autori indagavano e descrivevano con affettuosa attenzione, ripercorrendone le vicende storiche e le forme culturali, esemplificate nella rappresentazione di ambienti e strumenti di lavoro. A questo accompagnando la registrazione delle forme dialettali  attraverso la raccolta dei termini relativi agli strumenti di lavoro, ma anche con la trascrizione di “alcune delle ultime canzoni cantate dalla gioventù, le quali forse non lo saranno più alla fine del secolo [poiché] l’afa che sale dalla pianura, con le maggiori facilitazioni di traffico, non tarderà ad intisichire anche questo fiore presso le sorgenti del Lys” (Monte Rosa 1890, p.53). Il corredo di immagini rivela però intenti più incerti, mostra oscillazioni continue tra il preteso rigore analitico della descrizione e le concessioni al pittoresco dei “quadretti graziosi” e delle “figurine moventesi nel paesaggio verdeggiante”, non senza ricorrere alla pratica del fotomontaggio per risolvere compositivamente un’immagine solo apparentemente documentaria, per rendere più efficace la messa in pagina di una sequenza narrativa. (Dragone 2000, pp.274-275).

Si producevano così testimonianze a futura memoria, quasi un’archeologia del presente, segnate però da quella tensione irrisolta tra razionalità e pittoresco che ritroviamo in molta della fotografia ‘artistica’ di soggetto popolare dei successivi decenni. Non è difficile infatti cogliere in molta di quella etnografia pittorialista un tono passatista: per molti di questi autori non si trattava di comprendere analiticamente una cultura in radicale e definitiva trasformazione, ma di illustrare, celebrare e magari conservare in effigie i reperti di un’arcadia in dissoluzione, proprio negli anni dei primi significativi conflitti sociali. L’attenzione non era ancora rivolta al territorio in mutazione, alle nuove strutture produttive, industriali o agricole, alla città che sale della modernità nascente, ma a ciò che resisteva al cambiamento, residuale e tradizionale, primitivo quasi. “L’etnografia generale – nelle parole pronunciate da Loria in apertura del I Congresso di Etnografia italiana del 1911 – può e deve servire allo studio del nostro popolo perché come il selvaggio ha analogie con l’uomo primitivo, così le nostre classi meno evolute, rimaste indietro nel cammino della civiltà, conservano ancora, nascosti e sopiti, taluni degli istinti e dei caratteri delle genti selvagge”[16].  Era questo il terreno insicuro su cui si muovevano negli stessi anni le pratiche della fotografia artistica e di quella documentaria o scientifica, con confini non immediatamente tracciabili e per molti versi inesistenti, che rappresentano piuttosto l’esito di una storiografia che ha postulato una dicotomia allora non chiaramente percepita né unanimemente condivisa. Se Rodolfo Namias lamentava quanto “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica [avesse] sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie [tanto che] nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra” (Namias 1907), per il  francese Alfred Liégard,  promotore della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie (…). Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document (…).  Il me semble qu’ à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons qui s’appelle l’appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.” (Liégard 1905). Nessuna contrapposizione allora, ma la consapevolezza pur non criticamente attrezzata delle possibilità inscritte nello statuto della fotografia, della sua capacità di mostrare al di là delle intenzioni e dello sguardo dell’operatore, di costruire immagini disponibili a diverse interpretazioni e letture: dal realismo al  simbolismo[17]. Era questa scrittura fecondamente ambigua che aveva attratto Verga, Capuana e De Roberto, quella con cui aveva signorilmente giocato Giuseppe Primoli; quella a cui si era dedicato Francesco Paolo Michetti nel più generale richiamo ideale alla semplicità del sentire proprio di molta cultura ottocentesca, alla sua diffidenza  e resistenza, quando non al rifiuto dell’industrialesimo. È quanto abbiamo già potuto riconoscere nel progetto di Sella e Vallino; è uno degli elementi che nutriva il neoclassicismo, per alcuni metafisico,  di molti autori della scuola di Taormina e di Wilhelm von Gloeden in particolare, di cui intorno al 1900 venivano pubblicate immagini di soggetto popolare sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” e quindi sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, tra 1909 e 1914[18]. Erano queste, insieme alla torinese “La Fotografia Artistica”, le testate che  divulgavano e attraverso cui si confrontava la produzione fotografica italiana, e internazionale in parte, che in modi diversi si richiamava alla fotografia pittorialista con più o meno esplicite attenzioni per il mondo popolare, senza dimenticare il rilevante ruolo svolto dagli editori di cartoline. Penso a Cesare Schiaparelli[19] e ad altri autori minori biellesi come Franco Bogge; penso a Luciano Morpurgo, che nel 1917-1923 realizzò una importante serie dedicata al pellegrinaggio al Santuario della Trinità a Vallepietra, nella Valle dell’Aniene, attratto negli anni precedenti da soluzioni marcatamente pittorialiste[20], ma specialmente ad Andrea Tarchetti,  notaio vercellese le cui Scene di vita e di lavoro ebbero ampia diffusione sulle pagine di quelle riviste[21]. Anche la sua descrizione della vita rurale mostra un approccio sempre in biblico tra bozzettismo e documentazione:  il documento si mescola alla scena di genere e a volte ne emerge con fatica, quasi solo per l’incapacità strutturale della fotografia a escludere il reale, in un processo che direi inverso a quello di molta fotografia etnografica, inevitabilmente segnata dalla cultura visiva del suo tempo. Le fotografie di Tarchetti, segnalate ai lettori quale esempio di eccellenza, venivano pubblicate da “Il Progresso Fotografico” come tavole fuori testo, dal 1904 stampate dallo Stabilimento eliografico Brunner & Co. di Como, avviato proprio in quell’anno da Jacques Brunner come filiale della Brunner & Co. Kunstanstalt di Zurigo, da anni tra i più qualificati stampatori europei, a cui si era rivolto nel 1890 anche Vittorio Sella per la realizzazione dell’album dedicato al Monte Rosa.

Lo stabilimento Brunner, noto editore anche di cartoline, era quindi uno dei luoghi in cui si concentrava e transitava molta della produzione fotografica italiana ed europea destinata alla pubblicazione; una delle sedi in cui migliore era la possibilità di conoscerla. Non è necessario abbandonarsi ad un rigido meccanicismo per immaginare quanto possa aver contato per il giovane Scheuermeier, nel formarsi una propria cultura visiva, lo stretto e duraturo legame con i cugini Brunner, per i quali – come è noto – lavorava sin dal 1895 come fotografo il fratello Willy, che Paul accompagnerà in un memorabile viaggio in Italia nel 1909 “Da Como fino in Sicilia secondo i desideri dei clienti e le necessità dell’azienda” (Scheuermeier 1969, p. 335). Se lo scopo del viaggio fu quello di “reperire nuovi soggetti” allora possiamo veramente riconoscerlo come l’asse portante del suo percorso di formazione fotografica, non solo e non tanto per l’acquisizione sul campo dei necessari rudimenti tecnici, quanto per l’assimilazione dei canoni di rappresentazione che comportava l’assistere alla scelta dei soggetti e delle vedute destinate all’edizione in cartolina. In assenza di specifiche indicazioni di prima mano credo che l’orizzonte entro cui può essersi formata la cultura visiva che si rivela nei modi e nelle scelte compositive delle sue immagini[22], sia da individuarsi nel contesto qui sommariamente delineato per l’ambito italiano; certo non troppo dissimile da quello europeo quale ci viene restituito dai periodici fotografici e dai cataloghi delle esposizioni coeve.

A questi possiamo aggiungere i modelli forniti dalle organizzazioni tassonomiche di oggetti tipiche dei cataloghi illustrati delle grandi collezioni museali come dei campionari industriali e artigianali,  ma soprattutto – credo – il riferimento costituito dalle riprese del suo maestro Jaberg, che già aveva fatto uso di fotografie nel corso delle sue ricerche in Piemonte (Gentili 1997, p. 19) e che fu suo costante punto di riferimento anche metodologico nel corso dei lunghi anni di peregrinazioni per la preparazione dell’AIS.

Quando attraversava la frontiera con l’Italia nei “primi drammatici giorni” del luglio 1920,  dopo le rilevazioni nel Cantone dei Grigioni, Scheuermeier possedeva certo la preparazione tecnica e il supporto logistico[23] necessari a condurre al meglio la campagna fotografica prevista a corredo e supporto dell’indagine linguistica. Possedeva anche una sua propria cultura visiva, mentre gli scopi e il metodo si sarebbero precisati e affinati nel corso del lavoro[24].

Inattese forse, e solo in parte dovute al clima incerto di quegli anni di primissimo dopoguerra,  furono invece le reazioni alla sua presenza di “straniero con la macchina fotografica”, impreparato  “ad avere sulla [sua] scia la voce sussurrata che [fosse] una ‘spia’ ” (Scheuermeier 1969, p. 342), obbligato quindi a rivolgersi al viceconsole svizzero a Como al fine di ottenere per suo tramite i permessi necessari a superare le prescrizioni di polizia[25].

Stupisce al contrario la grande disponibilità delle persone ad accondiscendere alle imposizioni registiche di Scheuermeier, tranne rare eccezioni:  “A Bagolino non mi è stato possibile fotografare un uomo in calzoni corti (…)  – scrive a Jaberg nel dicembre 1920 – tutti se ne scappavano, non ho potuto metterne neanche uno davanti alla macchina fotografica.” (in Caltagirone, Sordi 2001, p. 22) e ancora:  “con estrema difficoltà e solo grazie alle esortazioni dell’informatore mi è stato possibile portare delle ragazze davanti all’apparecchio fotografico. Tutte scappavano per timore che se ne facessero cartoline.” (ibidem). Scrivendo poi a Jud da Cuneo nel settembre del 1922, a proposito di una veduta di Via Roma con persone in posa in primo piano: “Un altro fotografo sfortunato: la gente fa attenzione alla sua posizione.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 48).

Questa sintetica notazione, quasi di sfuggita, individua il nodo problematico della relazione tra operatore e soggetto, tra fotografo e fotografato e, più in generale,  richiama tutte le implicazioni poste dalla scelta tra messa in posa e istantanea, tra osservazione partecipata e “immagine rubata”, riflettendosi anche sul rapporto complesso tra rappresentazione e autorappresentazione. Cosa poteva significare per quei ‘contadini’ la richiesta portata da quell’estraneo, straniero e colto che era Scheuermeier? Che funzione poteva svolgere nel loro sistema sociale e simbolico? Che ruolo era consentito loro di assumere (o di recitare) al momento della ripresa? Non ci è dato saperlo, se non provando a misurarci – non qui, non ora – con l’esercizio poetico dell’interrogazione a distanza di quelle decine di sguardi rivolti all’operatore.

Mettere in posa equivale a mettere in scena, a ricostruire una rappresentazione formalizzata dell’azione e del gesto collocandola in un contesto strutturato di indagine, con evidenti corrispondenze con l’uso del questionario.  Non esistevano infatti a quella data ragioni tecniche per escludere l’uso dell’istantanea, ma la  posa gli consentiva di riunire sinteticamente la maggiore quantità di informazioni possibili; soprattutto svincolava il tempo della ripresa dal tempo del lavoro, dalla stagione e dal calendario, recuperando infine gesti e strumenti ormai fuori dal tempo: inutilizzati. Sebbene restasse memoria del suono del loro nome.[26]

In questa scelta Scheuermeier ha rivelato una sorprendente modernità, ormai dimentica delle concezioni tardo ottocentesche. Se “l’istantanea riconduce al quadro critico dell’osservazione non esplicitata o dichiarata [poiché] le istantanee sono immagini che rinviano al loro autore, e segnalano un intento di esclusione dell’oggetto rappresentato dal procedimento creativo” (Faeta 2003, p. 114), mettere in posa vuole dire dichiarare il proprio esserci. Solo così è possibile porsi quale “presenza sociale in quel mondo” (Counihan 1980, p. 28), se non proprio agire da osservatore partecipante, come andava facendo circa gli stessi anni (1915 – 1918) Bronisław Malinowski, che ricorreva alle fotografie non solo come strumento di controllo e verifica delle note di lavoro ma anche quale mezzo di comunicazione non verbale con l’altro, come sarebbe stato in parte per Scheuermeier e soprattutto per Ugo Pellis[27]. Una relazione comunicativa in cui l’immagine genera la parola, anticipando per certi versi  la pratica recente della photo-elicitation.

La fotografia indica, la parola nomina: “ogni fotografia è dotata di un foglio di accompagnamento, che contiene una descrizione e la terminologia dialettale dell’oggetto rappresentato e dell’attività in questione.” (AIS-Introduzione,  p. 254). Esattamente: questo e non altro; ma è su questa relazione che si fonda la possibilità del discorso etnografico. La nota di accompagnamento, poi la didascalia, identifica e nomina, mette cioè in relazione quell’immagine, esito del taglio operato nel continuum spazio temporale, quindi anche geografico e culturale, col proprio contesto d’origine, espresso dalla testimonianza linguistica. Non sempre però questo processo si svolge in modo piano. In alcuni casi l’immagine sembra perdere la propria capacità referenziale o – meglio – non viene riconosciuta come icona, poiché l’informatore mostra scarsa “comprensione di figure e foto, che spesso, stranamente, coglie con difficoltà o non riconosce” (Sanga 2007, p. 38). Questo tipo di reazione, ben nota anche agli antropologi  (Lanternari 1981, p. 749) ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, su cui altri  studiosi[28] hanno poi ironizzato dimostrando la maggiore complessità del problema e richiamando l’attenzione sulla rilevanza determinante del contesto culturale. Al di là delle questioni ontologiche è infatti questo a consentire di definire la fotografia quale “segno di ricezione”, il cui riconoscimento è condizionato dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché: una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica” ha chiarito Jean-Marie Schaeffer[29], sebbene poi questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”

È proprio nel rapporto dialettico tra i differenti reciproci saperi che si definiva lo spazio di relazione di Scheuermeier con i suoi informatori, l’ambito di sviluppo del suo crescente interesse per la cultura materiale,  per le tecnologie e per l’uso di attrezzi e utensili. Fondamentali anche in questo le sollecitazioni di Jaberg che in una lettera del novembre 1920, dopo essersi complimentato per la qualità delle fotografie (“Davvero molto abili gli scatti con cui ha fissato il trasporto di legname a Borno”) lo invitava a concentrare la sua attenzione sulla “diffusione di singoli tipi (per esempio tipo ‘gerla’, tipo ‘cestone’). Sono mol­to istruttive anche le immagini della raccolta delle castagne. Allora, se si presenta l’occasione, ritrag­ga un po’ più in grande anche i vari attrezzi.” (in La Lombardia dei contadini 2007, p. 364). E ancora, nel gennaio successivo: “In questi ultimi giorni mi sono occupato degli at­trezzi per la trebbiatura. A questo riguardo le sue osservazioni ai margini  e le sue fotografie sono state preziosissime. Anche se dovesse perdere del tempo con queste osservazioni di cultura materiale ne vale veramente la pena; non vorremmo rinunciarvi per via della fretta. At­tendo con ansia la prossima spedizione delle sue fotografie (…). Vorrei anche rielaborare i materiali sulla sedia. Su questo punto si trovano specie per i Grigioni osservazioni preziose e anche due foto; in Italia, al contrario, mancano quasi del tutto le riprese d’interno che potrebbero documentare anche altri tipi di mobilio (letto, armadio ecc.), oppure dei gruppi di sedie, sgabelli, ecc. Non vorrebbe verificare se la macchina fotografica e la luce invernale lo consentono? Noi siamo intenzionati a redigere al più presto un inventario delle foto che permetterà a noi e a Lei di vedere meglio dove ancora dobbiamo rivolgere  l’obiettivo avido di sapere. D’altronde il solo materiale fotografico fino ad ora prodotto costituisce già di per sé una collezione unica in area romanza”[30].

Nell’arco di pochi mesi l’entità e la qualità della produzione fotografica di Scheuermeier erano già tali da costituire una raccolta eccezionale, in grado quasi di riorientare e condizionare  gli obiettivi e l’andamento di tutto il progetto. Prima di colmare “il buchetto piemontese” tra Ticino e Sesia (ma con una curiosa incursione a Pettinengo, nel Biellese) riprendeva il dialogo necessario col suo maestro in una lunga lettera datata Como, il 17 gennaio 1921: “Mi rallegra che Lei possa utilizzare anche le mie osservazioni, sia quelle di carattere etnografico, sia quelle di carattere generale. Mi rendo conto benissimo che nella concitazione della rilevazione queste possano risultare non proprio sistematiche ed equilibrate. (…) Per questo motivo accompagno sempre le fotografie con una spie­gazione il più possibile comprensibile. Nelle descri­zioni delle foto mi affido in gran parte alla mia esperienza diretta, mentre per le osservazioni al margine dei questionari mi attengo spesso alle sole affermazioni dell’informatore  (…).  La mia posizione al momento è quindi la seguente: nella rilevazione assumere obiettivamente ciò che viene spontaneamente dall’informatore, secon­do il suo carattere, e ciò che posso cogliere con lo sguardo veloce passando in gran fretta, per lo più di notte. Nel resto limitare alle foto gli studi approfonditi sulla cultura materiale con descrizione. In queste [foto] tutto dovrà essere registrato in maniera sistematica e io non posso far altro che rallegrarmi del nuovo indice per argomenti delle riprese fotogra­fiche come aiuto graditissimo per evitare delle man­canze. Finora ho fotografato soprattutto ciò che era nuovo e particolare e che non avevo ancora visto altrove.  (…) È d’accordo, insieme con Jud, sul mio modo di procedere? È sufficiente la quantità delle osser­vazioni etnografiche alla quale mi sono finora atte­nuto? Nel caso non fosse d’accordo in qualche punto, La prego di segnalarmelo al più presto; altrimenti devo presumere di poter proseguire come ho fatto finora” (in Gentili 1997, pp. 21-22). La procedura si precisa empiricamente, lasciando intravedere – mi pare – l’emergere di due pratiche ancora distinte, cui corrisponde la netta separazione degli strumenti della ricerca: il questionario per l’indagine linguistica, la fotografia per l’indagine etnografica sulla cultura materiale, sebbene Scheuermeier si mostrasse ancora poco consapevole di un suo possibile uso comparativo. Jaberg rispose a stretto giro di posta, il successivo 23 gennaio: “Credo che in linea di principio abbia ragione anche nella scelta delle fotografie; io mi comporterei in modo un po’ diverso, nel senso che non attenderei sempre nuove forme di cultura materiale o qualcosa di assolutamente sorprendente, ma fotograferei a grandi intervalli anche cose che mi sembrano identiche con altre viste in precedenza. Piccole differenze non vengono spesso rilevate, non si riesce a tenere ben separato ciò che è importante da ciò che non lo è, specialmente se si vive troppo vicino agli oggetti; e, inoltre, ci si inganna anche nel ricordarli. Quali fruitori del materiale dell’Atlante e di quello iconografico, si è contenti di ricevere esplicite conferme anche di cose identiche. Neanche qui sono completamente affidabili le conclusioni ex silentio” (in Sanga 2007, p. 33). Con tutta la cortesia necessaria e il rispetto dovuto all’immane lavoro sul campo che si stava conducendo, Jaberg precisava e modificava nettamente gli indirizzi operativi proprio alla vigilia del periodo in cui Scheuermeier si apprestava a percorrere tutta l’Italia settentrionale, dalla Liguria all’Istria, per giungere infine in Piemonte solo l’anno successivo. Fu quello il momento in cui si chiariva l’esigenza di evitare il ricorso soggettivo alla documentazione fotografica a favore di una rilevazione più sistematica, certo connessa al “rilievo crescente che veniva assumendo l’indagine sulla cultura materiale” (Gentili 1997, p.20), allentando anche la relazione di stretta interdipendenza col questionario.  Questo atteggiamento nuovo comportava, letteralmente, un allargamento di campo, ulteriormente evidente nelle campagne degli anni Trenta, quando la presenza di Paul Boesch lo sciolse dal vincolo della descrizione degli oggetti, ma provocò anche un certo disorientamento. Era lo stesso modo di procedere che mutava.

Ancora nell’ ottobre del 1921 Scheuermeier appariva quasi fotografo suo malgrado, tanto da proporre una riduzione del tempo dedicato alle riprese, così obbligando nuovamente Jaberg a prendere posizione:  “La Sua minaccia di rallentare la documentazione fotografica a favore della ricerca linguistica, mi amareggia. D’altra parte mi rendo conto che il tutto Le richieda molto tempo e che Lei sia ansioso di procedere con il lavoro.” (in Gentili 1997 p. 24) Quando nel 1931 si sarebbe soffermato a riflettere sulla prima parte di quell’esperienza, il quadro di riferimento era ormai radicalmente mutato e la prevalenza dell’approccio visuale risultava chiara: “Nessun questionario (…) potrà servire dappertutto. Il miglior metodo sarà sempre di andare sul posto a vedere gli oggetti e i lavori e di fissarne l’immagine in fotografie e schizzi accompagnati da descrizioni particolareggiate.” (Scheuermeier 1932, p. 97). In modo ancora più esplicito avrebbe descritto il procedere nella conferenza berlinese del 1934:  “Nel frattempo [che Paul Boesch disegnava] io con il mio informatore percorrevo, casa e stalla, cucina e cantina, villaggio e campagna, e fissavo in immagini fotografiche che venivano tutte fornite di una descrizione tutto ciò che mi appariva interessante. (…) D’altra parte il mio dovere più importante, quello di raccogliere le risposte al mio questionario sistematico, finiva per dover essere svolto nelle pause tra tutte queste attività, e soprattutto nel tempo in cui gli impegni relativi al disegnatore e alle fotografie non mi distraevano più.”  (Scheuermeier 1936,  cit. in  Caltagirone, Sordi 2001, p.29)

Parafrasando una sua notissima affermazione si può dire che “l’acchiappadialetti” partì linguista e ritornò fotografo, accogliendo serenamente la contraddizione interna tra rilevamento linguistico, concepito e restituito in uno spazio bidimensionale e sincronico, dove la variabile temporale se non proprio esclusa non era esplicitamente considerata, e ripresa fotografica, indissolubilmente legata al qui ed ora dello scatto. Solo con la messa in scena, destinata a restituire un tempo ‘altro’, a produrre una “autenticità rappresentata” (Marano 2007, p. 107) le due forme di rappresentazione sarebbero tornate per quanto possibile ad avvicinarsi.

Sono proprio le fotografie in cui sono presenti figure che maneggiano oggetti a costituire la maggior parte delle riprese. Tutte – salvo rarissime eccezioni – frutto di una posa ricercata e accurata, certo non attribuibile a presunte limitazioni tecniche. In questo grande insieme è però necessario distinguere due categorie diverse: nella prima le persone erano chiamate a mostrare più che a mostrarsi: esponevano gli oggetti, essendo a volte attorniate da altri con simili caratteristiche tipologiche o funzionali. Nella seconda ne veniva mostrato l’uso, accennando il gesto corrispondente, come nella migliore tradizione delle scene di lavoro. Il carattere più rappresentativo che descrittivo di queste immagini è però rivelato da alcuni elementi indiziari: si pensi allo sguardo in macchina dei soggetti ripresi, che rende esplicito l’artificio. Anche i gesti presentano lo stesso carattere. Essendo stabiliti e letteralmente fissati prima dello scatto non definiscono un istante, rimandando semmai all’azione del lavoro in un senso molto lato, evocativo. Per questo riesce difficile concordare con Scheuermeier quando afferma che “le fotografie possono mostrarci  l’uomo al lavoro”[31]. Non è qui in questione il valore della fotografia come documento quanto la corretta determinazione del contenuto documentario di ciò che lui fotografa, poiché nell’accezione e nell’uso consueto che ne ha fatto l’immagine fotografica funziona piuttosto da tableau vivant: è la parola che dà movimento, che racconta l’azione, nominandola. Non è l’iconografia, né il suo trattamento ciò che distingue la produzione fotografica di Scheuermeier: è la relazione col testo, col progetto che questo uso significa e a cui dà corpo; poiché infine erano le parole e le cose a interessarlo, non i gesti[32].

Quelle cose con cui costruiva le sue misurate nature morte di oggetti, morbidamente illuminati per essere pienamente leggibili in ogni dettaglio[33], solo a volte ripresi un poco da lontano e di scorcio, con scarsa attenzione per ciò che accadeva ai margini dell’inquadratura[34]. Nella maggioranza dei casi la ripresa è invece frontale, gli oggetti ordinatamente disposti secondo le consuetudini dei cataloghi illustrati. Lo si vede nelle immagini realizzate a Ronco[35] e a Vico Canavese[36] nell’ottobre del 1923, o nella serie più tarda di Montanaro del 1932[37], dove c’è ancora una luce di gusto pittorialista a illuminare gli interni[38]. Questa è però un’eccezione: in quegli ultimi anni le riprese si fanno in certa misura più complesse e articolate, prive di un unico centro di interesse e (quindi) di un ‘fuoco’ compositivo[39]. Sono meno costruite, più immediatamente referenziali; a volte il campo si allarga sino a far scomparire il soggetto dichiarato: “l’informatore dà da mangiare alle mucche”[40]  dice il testo, ma l’informatore non si vede, sta ormai oltre la soglia della stalla, mentre una ragazza si affaccia a guardare, imprevista.

Nella produzione di Scheuermeier sono complessivamente pochi i ritratti veri e propri, quelli in cui la persona si mostra doppiamente consapevole: di essere fotografata, certo, ma anche di costituire il solo elemento di attenzione del fotografo, di essere cioè compiutamente soggetto. Nascono sempre da legami personali. Sono alcuni informatori, a volte con le loro famiglie, ritratti nei modi propri di molta fotografia locale ancora in quegli anni: in esterni, con un fondale magari bianco[41] a isolarli dal contesto quotidiano o per proiettarli in un ambito più letterario e alto. Anche stereotipato però, com’è per quella “sposa lombarda”, la “classica «Lucia» (…) figlia dell’informatrice di Galliate” che costituisce il soggetto della cartolina inviata a Jakob Jud nel febbraio del 1921[42], e a cui Scheuermeier dedicò una particolare attenzione[43]. Sono i suoi diversi assistenti (a loro volta fotografi[44]) ripresi sul campo, comunque in posa, a volte mettendo argutamente in scena il dialogo tra le due culture, come nell’efficace ripresa realizzata a Borgomanero nel 1928 in cui “lo studente Walser di Zurigo (…) parla con il marito dell’informatrice”[45]. In altri casi la figura perde la propria identità di persona, ma non per questo diventa semplice elemento della scena: è il caso ad esempio della donna di Vico Canavese col suo carico di steli di granturco, incorniciata dall’arco in pietra[46], o del vecchio con la pipa seduto in controluce accanto al vano della porta, sempre a Vico[47]; proprio la sua presenza non necessaria, che anzi nasconde alla vista parte degli attrezzi fotografati, rivela l’intenzione estetica di Scheuermeier.  Questa raggiunge a volte sorprendenti effetti espressivi, come nel fienile di Rochemolles, dove la luce sottolinea il comune profilo nodoso dell’attrezzo e del contadino[48].

Un cenno a parte meritano i ritratti legati all’amorevole histoire romancée dell’incontro con la signorina Nicolet, tutti scalati negli ultimissimi giorni dell’agosto 1923 in valle Antrona. Le fotografie si rivelano come non mai catalizzatore e memoria di sguardi, e di sentimenti[49]: alla  “immagine riflessa” di lui viene fatta corrispondere “l’altra immagine riflessa” di Nellie che interroga lo specchio della lanca come un candido Narciso, mentre l’aspro fondale alpino è tenuto sapientemente fuori fuoco, secondo la migliore sintassi pittorialista. In questo felice momento della sua vita Scheuermeier si consentiva di intrecciare il rigore analitico dell’indagine con la tensione che nasce dal desiderio: “Sguardo nella stalla attraverso la porta (…) Dietro la kasínα dla zónt, dove ci si intrattiene nelle sere d’inverno per lavorare e chiacchierare. Un uomo sulla bánca che corre tutto intorno alle pareti. (…) dietro [biancovestita a illuminare il buio del fondo] la signorina Nicolet; dietro di lei un letto vuoto”[50]. Questa fotografia, come altre ma certo per ragioni più nette, non venne pubblicata nel Bauernwerk, per il quale non solo venne utilizzata una porzione ristretta dell’intera produzione di Scheuermeier, ma le stesse immagini selezionate furono a volte modificate per essere più pertinenti al testo, più funzionali all’uso comparativo previsto dal progetto finale[51].

Diverse sono le ragioni e gli esiti dell’attuale riedizione, che ripristina invece  nella loro interezza e articolazione le primitive sequenze di realizzazione, rivelandone i nessi non solo tematici con le specificità di ciascun punto di indagine. Vengono così recuperati e resi comprensibili  l’originario ritmo e tono narrativo, a quella data destinati ai suoi soli lettori privilegiati.  Jakob e Jud naturalmente, ma ancor prima gli informatori di Scheuermeier, che potevano misurarsi con la memoria di quell’incontro, con gli esiti delle loro strategie di autorappresentazione, quasi sempre implicite, ma soprattutto con le ragioni e il possibile senso dello sguardo portato dall’altro, dall’estraneo, “colpiti forse dall’onore che un signore sconosciuto veniva a fare alle loro povere cose.” (Scheuermeier 1963, p. 295).

Anche per Scheuermeier la rielaborazione dell’esperienza ha costituito il nucleo centrale e problematico del progetto. In particolare la traduzione, l’adattamento e (certo in parte) la reinvenzione del gesto e dell’oralità in scrittura verbale e iconica, sia nella fase interlocutoria del questionario, sia – specialmente – nella sistematizzazione successiva, a sua volta scandita in almeno due fasi distinte. Mentre nella redazione della singola didascalia testo e immagine funzionavano come due voci dello stesso coro, di cui l’etnografo era il maestro concertatore, nella messa in pagina editoriale l’operazione comportava un ulteriore distanziamento dal contesto di riferimento e di produzione; l’immissione in un nuovo e diverso sistema significante, in una nuova narrazione, in un ulteriore contesto d’uso che presumeva a sua volta una gamma solo parzialmente definibile a priori di contesti di ricezione[52]. A maggior ragione ciò accade nelle attuali edizioni sistematiche per serie locali o regionali.  Al determinante recupero delle inedite sequenze documentarie originarie  corrisponde un mutamento di posizione, della distanza critica da cui possono essere nuovamente studiate e osservate. Muta la nostra comprensione del procedere di Scheuermeier sul campo.

 

Note

[1] Schaaf 2000, pp.82-83. Nessuna immagine di lavoro venne invece inclusa in The Pencil of Nature, per la cui approfondita analisi si veda Signorini 2007.

[2] Il confronto qui si pone, ovviamente, con la coeva produzione di dagherrotipi, che avevano più rigidi parametri d’uso e un ambito di applicazione mediamente più descrittivo che narrativo: dal ritratto alla veduta urbana. Tra i non molti esempi di pose di lavoro si possono segnalare Terrasse de Lerebours, eccezionale dagherrotipo panoramico coi lavoranti della stamperia omonima realizzato da Noël-Marie Paymal Lerebours verso il 1845 (Bajac e De Font-Réaulx 2003, pp. 168-169) dove argomento e schema iconografico sono analoghi al coevo Il Laboratorio di Reading, di Talbot e Nicolaas Henneman, 1846 ca, carta salata da negativo (Gernsheim 1981, p. 186),  e il bellissimo dagherrotipo colorato di anonimo autore americano, 1850ca, con il fabbro e l’assistente al lavoro all’interno della fucina (Bernard 1981, p. 24). Non si conoscono invece dagherrotipi italiani di ‘lavoro’, cfr. Italia d’argento 2003.

[3] Antoine étienne Renaud Augustin Serres, famoso docente di anatomia comparata, propose ad esempio sin dal 1844 – 1845 di realizzare collezioni di fotografie antropologiche, ma anche la realizzazione di un Musée Photographique des Races Humaines, a Parigi. (Faeta 2006, p. 10) Quelle iniziative si collocavano esemplarmente nel clima di entusiastica accettazione delle potenzialità documentarie del nuovo mezzo appena inventato (1839), analogamente a quanto accadeva in altri ambiti di studio: dalla botanica alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico, dando immediatamente corpo alle previsioni espressa da Arago nel corso della sua presentazione del dagherrotipo nel luglio del 1839 (Arago 1839).

[4] La bibliografia di confronto è sterminata, rimando qui ad alcuni testi e ai loro apparati, utili per un primo confronto: Auer 2003; Cavanna 2003; Michetti 1999; Miraglia 1985; Miraglia, Pohlmann 1992; Morello 2000; Roma 1840 – 1870 2008.

[5] Sulle differenze profonde tra atteggiamento demologico ed etnografico ha richiamato l’attenzione Faeta 2006, p. 18, cui rimando.

[6] Il solo Francesco Negri [Lavandaie, 1905 ca] si distinse per la scelta inconsueta del punto di vista, che anticipava di molto, ma certo occasionalmente, la futura sintassi modernista con una eccezionale ripresa dall’alto in diagonale (Negri 2006, p. 103).

[7] La felice definizione è tratta da Sguardo e memoria 1988. Per orientarsi metodologicamente nell’ormai sterminata bibliografia italiana di riscoperta, non sempre ideologicamente limpida e  scientificamente attrezzata, di fondi fotografici e autori locali di interesse etnografico sono imprescindibili le indicazioni contenute in  Faeta e Ricci 1997, da leggersi in parallelo al più recente Faeta 2006.

[8] Morselli 1882, p. 7 che riprendeva e ampliava le Istruzioni di  Giglioli, Zannetti, 1880,  che si rifacevano a loro volta alle suggestioni di Paolo Mantegazza. La distinzione introdotta da Morselli, ma non era il solo, mi pare significativa non tanto per l’ovvia contrapposizione tra misurabile/ non misurabile, vale a dire tra metodo ed empiria, ma anche per la consapevolezza di quante fotografie di contenuto potenzialmente etnografico fossero prodotte proprio nell’ambito della nascente fotografia artistica. Analoga attenzione per i due opposti modi della descrizione – anche se in ambito testuale e non visuale – si ritrova ancora nella tesi di dottorato di Gregory Bateson del 1936. (Bateson 1988, p.7)

[9] I modi della ripresa artistica, attenta alla restituzione del contesto, saranno poi di fatto prevalenti, per un mutato statuto della ricerca antropologia ed etnografica, recuperando la scientificità attraverso la sua applicazione metodologicamente avvertita e definita. (Faeta, Ricci 1997; Marano 2007).

[10] Fano 1901, p. 88. Il Direttore del Laboratorio di Fisiologia del Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze aveva avanzato questa proposta sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”  sin dal 1898, riproponendola quindi nel corso del  II Congresso Fotografico Italiano di Firenze (1899),  dove invitava la Presidenza a nominare un’apposita commissione di studi, proponendo anche l’istituzione di un’apposita rubrica sullo stesso “Bullettino”,  il tutto in collaborazione con la Società Italiana di Antropologia, Etnologia e Psicologia Comparata, anch’essa con sede a Firenze, ma l’iniziativa ebbe scarso successo (Panerai 1991). Riprendendo un’intuizione di Ruskin 1880, la possibilità di utilizzare l’opera della crescente ‘armata’ di fotografi dilettanti, che non potevano non aver realizzato “quelque chose d’intéressant à un point de vue quelconque, une épreuve qui venant s’ajouter à d’autres, apportera un élément utile à une collection”, venne sostenuta anche da G. Moreau in occasione del Congresso internazionale di fotografia di Parigi del 1900  (Moreau 1901). Qui alla fiducia positivista nella obiettività del mezzo si accompagnava la chiara percezione della funzione sociale della fotografia e la possibilità che ne derivava di utilizzarla quale fonte, per le proprie valenze quantitative di serie potenzialmente infinita piuttosto che qualitative di singolo elemento documentario, secondo una impostazione metodologica che venne ripresa da Corrado Ricci nel 1904 con la proposta istituzione di un Archivio Fotografico Italiano da realizzarsi agli Uffizi, mentre Loria avrebbe aperto nel 1906 – sempre a Firenze – un primo piccolo Museo di Etnografia Italiana, finanziato dal conte Giovanangelo Bastoni.

[11] Loria 1900; Loria 1912. Il dibattito intorno alla fotografia documentaria procedeva anche in altri ambiti come dimostra la relazione presentata da Carlo Errera nel 1908. Ancora nel 1911 il III Congresso Fotografico Italiano ospitava una sessione internazionale specificamente dedicata alla documentazione fotografica.

[12] Favari 1899. Per un approfondimento su alcune figure della scena milanese si veda ora Paoli 2007.

[13] Sulla scia degli studi pionieristici di Costantino Nigra, Sinigaglia trascrisse a partire dal 1901 una grande quantità di Vecchie canzoni popolari del Piemonte, poi in parte trascritte  per canto e pianoforte tra il 1914 e il 1927 (Leydi 1998; Sinigaglia 2003).

[14] In queste occasioni  erano frequentemente esposte immagini di argomento demologico: ancora nel 1895 all’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino il biellese Giovanni Varale, partecipava con “impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, mentre negli anni e decenni immediatamente successivi altri autori piemontesi rivolgevano la propria attenzione ad analoghi soggetti, specialmente nelle prime fasi della loro produzione. Penso ad alcune immagini di Mario Gabinio tra 1900 e 1910 (Gabinio 1996; Gabinio 2000) o a quelle di Cesare Giulio prima del 1920 (Giulio 2005),  mentre nelle prove di poco più tarde di Stefano Bricarelli o di Domenico Riccardo Peretti Griva il tema del lavoro dei contadini diventa puro motivo, se non mero pretesto per esercizi di stile tardo pittorialisti.

[15] Sulla figura di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi della seconda metà del XIX secolo rimando a Sella 2006 e alla bibliografia ivi citata. Per quanto riguarda il meno noto Domenico Vallino, autore a sua volta di due Album di un alpinista (1877, 1878) dedicati rispettivamente alle valli di Andorno e Gressoney e alla Valsesia, rimando a Cavanna 1995. Sarà proprio la valenza etnografica di queste immagini a spingere Alessandro Roccavilla a rivolgersi a Vallino quando nel 1911 viene chiamato da Loria a collaborare alla realizzazione dell’Esposizione di Etnografia Italiana di Roma (Albera, Ottaviano 1989; Bellardone, Cavatore 1991) proponendo anche un diorama dedicato all’antica cerimonia del Battesimo in alta Valle Cervo (Roccavilla 1922). Segnalo qui che alcune immagini della serie dei Costumi biellesi , in parte pubblicate ne Il Biellese 1898, vennero riutilizzate con attribuzione e titolazione errate nel numero autunnale della rivista “The Studio” del 1913 interamente dedicato a L’art rustique en Italie, a corredo del contributo fornito da Roccavilla. Con una disinvolta operazione di dislocazione geografica, quelli che erano I piccoli Valìt (Valle di Andorno) nel 1898 (p.71)  divennero così Peasants butter-making, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.28), mentre il soggetto secondario della ripresa relativa a Miagliano, Case operaie Poma (Il Biellese 1898, p.130) assunse sulla rivista il ruolo di protagonista: Peasant women washing clothes, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.17; entrambi interessanti esempi dei problemi posti dall’uso delle fonti secondarie.

[16] Loria  1912, in Puccini 2005, p. 33.

[17] Come ha chiarito lucidamente Faeta (1988, p. 12) sintetizzando una lunga serie di riflessioni sulla fotografia (da Benjamin a Vaccari e Barthes passando attraverso Bourdieu) “In particolare rispetto all’ideologia mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”

[18] Le sue Scene di vita e di lavoro, allora  notissime e certo pubblicabili senza problemi di censura o autocensura sono state poi quasi dimenticate, a favore della più nota e intrigante serie di nudi maschili; si vedano  Faeta 1988; Gloeden 2008.

[19] Schiaparelli 2003; anche la cartolina spedita da Galliate nel febbraio del 1921, Pascolo Biellese. Sulla via del ritorno, edita da Bonda a Biella, (Canobbio, Telmon 2007, p. 40) mostra quanto il gusto di Scheuermeier fosse prossimo a questa declinazione piemontese del paesaggismo pittorialista.

[20] Palestina 1927  2001. Di Morpurgo, a sua volta editore di cartoline, ricordo qui – a testimonianza di una lunga vicenda di intrecci ancora da studiare compiutamente – la sua Proposta per una più vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari, da realizzarsi mediante la raccolta di documentazione visiva, presentata nel 1930 al I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari di Trento (Di Castro 2001, p.47).

[21] Tarchetti 1990; le sue immagini venivano edite in cartolina dall’editore vercellese Larizzate presso il quale Scheuermeier acquistò nel marzo del  1921, Nelle risaie vercellesi. Mondatura del riso, con l’iscrizione al verso “ho sbrigato il questionario 65 Desana in un nido di riso.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 41) Come rivelano le didascalie, solo il cattivo andamento della stagione precedente consentì a Scheuermeier di documentare almeno la pulitura, la sola fase della coltivazione del riso ad essere descritta. Neppure a livello locale le donne e gli uomini della risaia avevano allora il loro cantore, nessuno che li celebrasse se non occasionalmente in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accadeva ad esempio con le immagini partecipate dell’Agro Romano che  in quegli stessi anni realizzavano  Luciano Morpurgo e  Arrigo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.  Le testimonianze fotografiche delle genti di risaia dei primi anni Venti si limitano alle  foto di gruppo, che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere, fornendo al più indicazioni sull’abbigliamento da lavoro.

[22] Le prime riflessioni sulla cultura visiva di Scheuermeier, con la proposta individuazione di analogie con autori coevi si devono a Marina Miraglia (Scheuermeier 1981) poi riprese e ampliate in Silvestrini 1997 e 2001. Per la loro discussione critica, sostanzialmente condivisibile, si rimanda a Roda 1999 e Scianna 2007.

[23] Come noto la sede Brunner di Como svolse il doppio compito di supporto tecnico logistico per tutto il corso delle rilevazioni sia fornendo a Scheuermeier i nominativi dei propri clienti, a cui ricorrere quali “punti d’appoggio” nelle diverse località, sia nel processo di sviluppo e stampa delle fotografie. I negativi erano infatti spediti alla Ditta per lo sviluppo e per la stampa dei positivi. Questi erano restituiti a Scheuermeier  per il successivo riordino e per la descrizione, sempre corredata dei dati tecnici di ripresa (tempo e diaframma, secondo una consuetudine ampiamente diffusa all’epoca specialmente tra i dilettanti), ma anche – almeno in parte – per essere poi inviate agli informatori in segno di ringraziamento, come accadde la sera del 16 ottobre, a Ivrea, passata a preparare le “fotografie per gl’informatori di Val Vogna, Ronco, Borgosesia” (in Canobbio, Telmon 2007, p.62) dove era stato nelle settimane precedenti. Questa pratica consolidata, che vedeva Brunner anche nelle implicite vesti di mecenate, se è vero che i prezzi delle copie erano appena sufficienti a coprire le spese  (Lettera a Jaberg del 24 settembre 1921, in Gentili 1997, p. 24), dovette avere alcune singolari eccezioni, come mostra la fotografia che venne scattata al nostro “Explorator nella nebbia” alla Capanna Milano in Val Zebrù nel settembre 1920, (dove era in vacanza col cugino Rudy Wiss), poi edita come cartolina da U. Trinca di Sondrio (n. 1495), a sua volta cliente di Brunner. (Gentili 1999,  nn. 15, 42)

[24]  La produzione fotografica di Scheuermeier è consultabile all’indirizzo http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, conducendo la ricerca nella sezione “Immagini”, ricercabili per numero del fototipo, località, autore o data.

[25] Erano le limitazioni ‘militari’  relative alle cosiddette “zone di guerra” in cui si trovavano postazioni o fortificazioni. Il Ministero della Pubblica Istruzione rispose l’11 di agosto del 1920 senza far cenno esplicito alle fotografie, ma con una raccomandazione diretta a Provveditori e Direttori di istituto che sostanzialmente gli consentiva libertà di azione.  “Più che dai delinquenti, ebbi delle seccature da parte dei tutori dell’ordine” ricorderà con amara ironia ormai a molti anni di distanza dall’esperienza sul campo (Scheuermeier 1969, p.338), raccontando le tragicomiche vicissitudini occorsegli con brigadieri, cardinali e pubblici ufficiali, oltre che con i primi fascisti locali.

[26] Si veda http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 339, ripresa a Galliate il 27 febbraio 1921: “Questo tipo di zangola qui è da tempo in disuso e la donna è dovuta andare fuori a procurarsela. Lei stessa non ha più idea alcuna della lavorazione del latte. (…) Anche il setaccio (…) poggiato sul secchio, viene usato ancora solo raramente per colare il latte: tutte cose vecchie.” E ancora, per la ripresa successiva, a proposito di un costume “scomparso da circa 40 anni”: “Ciascun indumento ha una provenienza diversa ed è stato scovato dopo una lunga ricerca per poter fare la fotografia.”

[27] La procedura d’indagine utilizzata da Pellis prevedeva di affiancare al questionario una raccolta di ben 2500 immagini da mostrare contestualmente (Pellis 1926, in Ellero 1999, p. 13). Non è questa la sede per affrontare sistematicamente la questione, ma va almeno ricordato il differente modo di intendere la fotografia tra Scheuermeier e Pellis, certo meno attento alle qualità compositive delle riprese e più propenso all’uso libero dell’istantanea.

[28] “è qui che entra in scena il famoso melanesiano: egli costituisce l’ossessione della letteratura semiologica  e deve reggere da solo tutto il peso dell’alterità radicale – il che mi pare troppo per un solo uomo.”, Schaeffer [1987] 2006 , pp. 48 passim. Il fatto che, in un determinato contesto di ricezione, non sia riconosciuto il contenuto referenziale di un’immagine fotografica  comporta che questa possa perdere il suo specifico statuto di segno (non è più significante) oppure che ne sia mutato il valore (da icona a simbolo, ad esempio), ma ciò può accadere  senza la perdita della sua primaria natura indicale. Non è la comprensione del ricevente che stabilisce la natura della cosa.

[29] Ibidem.

[30] Gentili 1997, p. 20-21, corsivo di chi scrive. L’affermazione mostra bene quale fosse a quella data l’interesse quasi esclusivo, oltre che dichiarato dell’indagine. La lettera è stata ripubblicata in La Lombardia dei contadini 2007, pp. 370-371 con significative varianti di traduzione.

[31] Scheuermeier 1936, p. 357, traduzione di Carla Gentili che ringrazio per la cortesia e la disponibilità a discutere  un passaggio particolarmente delicato delle riflessioni metodologiche di Scheuermeier.

[32] Per questa ragione, credo, non gli importava che a compierli fossero semplici figuranti, coinvolti per ragioni diverse: a Montanaro nel 1932, ad esempio: “la scena si è svolta pressappoco così, quasi naturalmente” (http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6119, corsivo dell’autore; Canobbio,  Telmon 2007, pp. 228 passim), ma si veda  anche  http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 325, Galliate, 1921: “Tutte queste operazioni vengono eseguite per lo più da pettinatori professionisti. (…) Il nipote e la nipote [dell’informatrice] si sono messi al loro posto durante la pausa di mezzogiorno.” Anche a Sauze, nel 1922 a versare il grano nel ventolatoio non era un contadino ma “lo studente Hobi di Zurigo” (Canobbio, Telmon 2007, p.97) uno dei molti inviati da Jaberg e Jud  durante tutto il tempo della ricerca.

[33] Basti notare con quanta cura disponeva un panno bianco a terra per rendere meglio leggibile il fuso nella ripresa realizzata a  Villafalletto nel 1922: http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 837.

[34] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 808.

[35] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 1241.

[36] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 1245 – 1251.

[37] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 612, 6120.

[38] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6123.

[39] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6093.

[40] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6095.

[41] “Uno sfondo bianco permette ai soggetti di diventare simboli di sé stessi” avrebbe detto Richard Avedon nel 1987 (in Livingstone 1994, p. 59), ma questo solo espediente non è certo sufficiente e non può prescindere dalla duplice intenzione, non necessariamente convergente, tra soggetto fotografante e soggetto fotografato.

[42] Canobbio, Telmon 2007, p. 42. L’immagine venne pubblicata anche in Scheuermeier [1943-1956] 1980, II, F. 495), ma con inversione sinistra/ destra.

[43] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini n. 330, 340 a, b.

[44] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 833, Villafaletto, settembre 1922, nella quale compare lo stesso Scheuermeier.

[45] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 2170. Nel Bauernwerk (I, 1943, F. 53) l’assistente, certo non un testimone della cultura contadina, scomparve dall’immagine a seguito di un accuratissimo intervento di ritocco, mentre nell’edizione italiana (Scheuermeier [1943-1956] 1980, I, F. 53) venne fatto, discutibilmente, ricomparire. Anche la figura a fronte (F.54) è il risultato di una elaborazione: il taglio in stampa della ripresa http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1173 realizzata a Borgone nell’agosto del 1923, di cui costituisce la parte destra, pubblicata nella sua interezza nel vol II, F. 150 con l’indicazione “Ceppomorelli (Piemonte)”.

[46] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1247.

[47] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1248.

[48] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 813.

[49] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagini nn. 1180-1182.

[50] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1187.

[51] Cfr. la nota 44.

[52] Per le definizioni di contesto d’uso e di contesto di ricezione formulate da Heintze 1990 si veda Marano 2007, pp. 44-46.

 

 

 

Bibliografia

 

AIS-Introduzione

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Albera, Ottaviano 1989

Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’esposizione romana del 1911. Torino:  Regione Piemonte, 1898

 

Antropologia visiva 1980

Antropologia visiva: La fotografia, a cura di Sandro Spini, “La ricerca folklorica”, 2 (1980), ottobre

 

Arago 1839

François Jean Dominique Arago, Rapport de M. Arago sur le Daguerréotype, lu à la séance de la Chambre des Députés le 3 juillet 1839 et à L’Académie des Sciences. Séance du 19 août.  Paris:  Bachelier, 1839 (trad. it. con testo a fronte a cura di Gianfranco  Arciero. Roma: Arnica, 1979)

 

Art rustique 1913

L’art rustique en Italie, “The Studio», numero d’automne. Paris: Editions du “Studio”, 1913

 

Auer 2003

Collection M.+ M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michel Auer, Michèle Auer.  Hermance: Editions M+M, 2003

 

Bajac, De Font-Réaulx 2003

Quentin Bajac, Dominique de Font-Réaulx, dir., Le Daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 2003). Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003

 

Bateson 1988

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Bellardone, Cavatore 1991

Patrizia Bellardone, Giuseppe Cavatore, a cura di, Alessandro Roccavilla e “La Rivista Biellese”.  Biella: Edizioni leri e Oggi, 1991

 

Bernard 1981

Bruce Bernard, Photodiscovery. Milano: Garzanti, 1981

 

Il  Biellese 1898

Club Alpino Italiano, Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

Bricarelli 1913

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Caltagirone, Sordi 2001

Fabrizio  Caltagirone,  Italo Sordi, Gli “approfondimenti etnografici” e la cultura materiale negli inediti di Paul Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2001, pp.27-32

 

Canobbio ,Telmon 2007

Sabina Canobbio, Tullio Telmon, Introduzione, in Il Piemonte dei contadini 2007,  pp. 13-20

 

Cavanna 1995

  1. Cavanna, Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

 

Cavanna 2003

  1. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra ( Modena, 2003 – 2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, pp. 40-116

 

Counihan 1980

Carole M. Counihan,  La fotografia come metodo antropologico, in Antropologia visiva 1980, pp. 27-32

 

Di Castro 2001

Daniela di Castro, Luciano Morpurgo (1886 – 1971), fotografo, scrittore, editore, in Palestina 1927, pp. 43-58

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895.  Torino:  Banca CRT, 2002

 

Ellero 1999

Gianfranco Ellero, Due linguisti fotografi: Paul Scheuermeier e Ugo Pellis, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 117-130

 

Ellero, Michelutti 1994

Gianfranco Ellero, Manlio Michelutti, Ugo Pellis fotografo della parola. Udine : Società Filologica friulana, 1994

 

Ellero, Zannier 1999

Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di,Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano – Spilimbergo: Federico Motta Editore – CRAF,  1999

 

Errera 1908

Carlo Errera,  Sulla convenienza di ordinare un Archivio fotografico della regione italiana in servizio degli studi geografici,  “Atti del Sesto Congresso Geografico Italiano”(Venezia, 26-31 maggio 1907), I. Venezia : Premiate officine grafiche C. Ferrari 1908, pp. 40-47

 

Faeta 1988

Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, 9, 1988, maggio, pp. 88-104

 

Faeta 2003

Francesco Faeta, Strategie dell’occhio: saggi di etnografia visiva. Milano: Franco Angeli, 2003

 

Faeta 2006

Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: Uno sguardo antropologico.  Milano: Franco Angeli, 2006

 

Faeta, Ricci 1997

Francesco Faeta, Antonello Ricci, a cura di, Lo specchio infedele. Materiali per lo studio della fotografia etnografica in Italia, ” Documenti e ricerche”. Roma: Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, 1997

 

Falzone del Barbarò 1981

Michele Falzone del Barbarò, Paul Scheuermeier ricercatore e studioso, in Scheuermeier 1981, pp.24-31

 

Fano 1901

Giulio Fano, Sull’applicazione della fotografia agli studi etnografici, in “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 1899).  Firenze:  Ricci, 1901, pp.87-90

 

Favari 1899

Pietro Favari, L’Illustrazione fotografica dell’Italia per il T.C.I.,  “Il Dilettante di Fotografia”, 10 (1899),  n.15, novembre, p. 896

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra ( Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Gabinio 2000

Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, Villa Remmert, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000

 

Gentili 1997

Carla Gentili, Scheuermeier nel Trentino, dalla linguistica all’etnografia, in Il Trentino dei contadini, 1997, pp. 15-25

 

Gentili 1999

Carla Gentili, Dall’Italia per l’Atlante. Le cartoline di Paul Scheuermeier a Jacob Jud: 1920-1928, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 171-220

 

Gernsheim 1981

Helmut  Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981

 

Giglioli, Zannetti 1880

Enrico Hillyer Giglioli, Arturo Zannetti, Istruzioni per fare osservazioni antropologiche ed etnologiche.  Roma: Tip. Eredi Botta, 1880

 

Giulio 2005

Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna,  2005

 

Gloeden 2008

Wilhelm von Gloeden. Fotografie: Nudi Paesaggi Scene di genere, catalogo della mostra (Milano, 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 Ore, 2008

 

Heintze 1990

Beatrix Heintze, In Pursuit of a Chameleon: Early Ethnographic Photography from Angola in Context, “History in Africa: A Journal of Method”, 17 (1990), pp.131-156

 

L’Italia d’argento 2003

L’Italia d’argento 1839-1859: Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli.  Firenze:  Alinari, 2003

 

Lanternari 1981

Vittorio Lanternari, Sensi, “Enciclopedia”, vol.12.  Torino: Einaudi, 1981 , pp.730-765

 

Leydi 1998

Roberto  Leydi, a cura di, Canzoni popolari del Piemonte: la raccolta inedita di Leone Sinigaglia.  Vigevano : Diakronia, 1998

 

Liégard 1905

Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10

 

Livingstone 1994

Jane Livingstone, L’arte di Richard Avedon, in Mary  Shanahan, a cura di, Evidence 1944-1994 : Richard Avedon.  Milano: Leonardo Editore – Eastman Kodak, 1994 , pp. 11-102

 

La Lombardia dei contadini 2001

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, I,  Lombardia orientale. Le province di Brescia e Bergamo, a cura di  Giovanni  Bonfadini, Fabrizio Caltagirone, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2001

 

La Lombardia dei contadini 2007

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, III,  Lombardia occidentale, a cura di  Fabrizio Caltagirone, Glauco Sanga, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2007

 

Loria 1900

Lamberto Loria, Relazione sulla proposta pubblicazione fotografica: tipi, usi e costumi del popolo italiano, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n. 1, pp. 19-22

 

Loria 1912

Lamberto Loria, Il primo Congresso di etnografia italiana: Parole dette nella Seduta inaugurale. Perugia: Unione Tipografica Cooperativa, 1912

 

Marano 2007

Francesco Marano, Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale. Milano: Franco Angeli, 2007

 

Michetti 1999

Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Electa, 1999

 

Miraglia 1985

Marina Miraglia, Cesare Vasari e il  ‘genere’ nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bollettino d’Arte”, 70 (1985), serie VI, nn. 33-34, settembre-dicembre, pp. 199-206

 

Miraglia, Pohlmann 1992

Marina Miraglia, Ulrich  Pohlmann, a cura di, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia. Roma: Carte Segrete, 1992

 

Mirisola, Vanzella 2004

Vincenzo Mirisola, Giuseppe Vanzella, Sicilia Mitica Arcadia: Von Gloeden e la ‘Scuola’  di Taormina.  Palermo:  Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Moreau 1901

Georges Moreau, Douzième Question: Veu à émettre pour qu’il soient créé des dépôts d’archives photographiques, in Exposition Universelle de 1900. Congres International de Photographie.  Paris:  Gauthier-Villars, 1901, pp. 132-135

 

Morello 2000

Paolo Morello, Gli Incorpora, 1860-1940.  Palermo – Firenze:  Istituto superiore per la storia della fotografia – Alinari, 2000

 

Morselli 1882

Enrico Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia, in Esposizione Generale Italiana în Torino 1884. Programmi.  Torino: Stamperia Reale Paravia, 1882

 

Namias 1907

Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n.  2, febbraio, p. 30

 

Negri 2006

Francesco Negri fotografo 1841-1924,  a cura di Barbara Bergaglio, P. Cavanna.  Cinisello Balsamo:  Silvana Editoriale, 2006

 

Palestina 1927  2001

Palestina 1927 nelle fotografie di Luciano Morpurgo, catalogo della mostra (Gerusalemme,  The Israel Museum, marzo – giugno 2001), a cura di Gabriele Borghini, Simonetta Della Seta, Daniela Di Castro. Roma: U. Bozzi, 2001

 

Panerai 1991

Cristina Panerai, Fotografia e antropologia nel «Bullettino della Società Fotografica Italiana»: una promessa disattesa, “AFT”,  7 (1991), n. 13, pp. 64-69

 

Paoli 1991

Silvia Paoli, Le tematiche sociali nella fotografia milanese dell’Ottocento, in “AFT”, 7 (1991), n. 13, pp. 55-63

 

Paoli 2007

Silvia Paoli, «Ora l’istantaneo è reso duraturo, perpetuo, una macchinetta vince il tempo. ..». La fotografia istantanea a Milano tra Otto e Novecento: Giuseppe Beltrami, Luca Comerio, Italo Pacchioni, in Elena Degrada, Elena Mosconi,  Silvia Paoli, a cura di, Moltiplicare l’istante: Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema, “Quaderni Fondazione Cineteca Italiana”. Milano: Il Castoro, 2007, pp. 23-35

 

Pellis 1926

Ugo Pellis, La prima messe, “Rivista della Società Filologica Friulana”, 1926, p. 99

 

Il Piemonte dei contadini 2007

Paul Scheuermeier: Il Piemonte dei contadini 1921-1932, I, La provincia di Torino, a cura di Sabina Canobbio,  Tullio Telmon.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 2007

 

Puccini 2005

Sandra Puccini, L’itala gente dalle molte vite. Lamberto Loria e la Mostra di Etnografia italiana del 1911.  Roma: Meltemi, 2005

 

Quintavalle 2003

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Redazionale 1906

Redazionale, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10, ottobre, p. 145

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Malinowski e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2004

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Bateson & Mead e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2006

 

Roccavilla 1922

Alessandro Roccavilla, Il battesimo nell’Alta Valle del Cervo, “La Rivista Biellese”  2 (1922), nn. 7-8, pp. 21-22

 

Roda 1999

Roberto Roda, Il contadino fotografato: da Scheuermeier ad Avedon e oltre, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 131-145

 

Roma 1840 – 1870   2008

Roma 1840-1870. La fotografia, il collezionista e lo storico, catalogo della mostra ( Roma – Modena, 2008), a cura di Maria Francesca Bonetti. Roma: Peliti Associati, 2008

 

Ruskin 1880

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture.  Orpington (Kent): G. Allen, 1880

 

Sanga 2007

Glauco Sanga, Gli interlocutori di Scheuermeier, in La Lombardia dei contadini  2007, pp. 27-44

 

Schaaf 2000

Larry  J. Schaaf, The Photographic Art of William Henry Fox Talbot. Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2000

 

Schaeffer [1987] 2006

Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire.  Paris: Editions du Seuil, 1987 (traduzione italiana a cura di Marco Andreani, Roberto Signorini. Bologna: CLUEB, 2006

 

Scheuermeier 1932

Paul Scheuermeier, Observations et expériences personnelles faites au cours de mon enquête pour l’atlas linguistique et ethnographique de l’Italie et de la Suisse méridionale, “Bulletin de la Société de Linguistique”, 33 (1932), n. 1, pp. 93-110

                                                                               

Scheuermeier 1936

Paul Scheuermeier, Methoden der Sachforschung. Zur sachkundlichen Materialsammlung für den Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, “Vox Romanica”,  I, (1936), pp. 334-369 

 

Scheuermeier [1943-1956] 1980

Paul  Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, a cura di Michele Dean e Giorio Pedrocco, 2 voll. Milano: Longanesi, 1980 (ed. originale, Bauernwerk in Italien der italienischen und ritoromanischen Schweiz, Vol. I.   Erlenbach – Zürich:  Eugen Rentsch Verlag, 1943; Vol II.  Bern: Stimpfli & Cie, 1956)

 

Scheuermeier 1963

Paul Scheuermeier, Regioni ergologiche della vita agricola italiana, in Il mondo agrario tradizionale nella Valle Padana, “Atti del convegno di studi sul folklore padano” (Modena, 17-19 marzo 1962).  Modena:  Enal, Università del tempo libero, 1963, pp. 291-307

 

Scheuermeier 1969

Paul  Scheuermeier, Della buona stella sul nostro Atlante, 1969, traduzione di Carla Gentili in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 329-346

 

Scheuermeier 1981

Paul Scheuermeier: fotografie e ricerche sul lavoro contadino in Italia: 1919-1935, catalogo della mostra (Roma, 20  maggio -20 giugno 1981), a cura di Marina Miraglia. Milano: Longanesi, 1981

 

Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999

Scheuermeier le Alpi e dintorni, “Atti del Seminario permanente di Etnografia Alpina”, 4° ciclo (SPEA 4, 1997), a cura di Carla Gentili, Giovanni Kezich, Glauco Sanga,  “Annali di San Michele”, 12 (1999)

 

Schiaparelli 2003

Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, catalogo della mostra (Occhieppo Superiore – Torino, 2003), a cura di Gian Paolo Chorino. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Scianna 2007

Ferdinando Scianna, Il film muto di Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2007, pp. 45-47

 

Šebesta 1980

Giuseppe Šebesta, Fotografia e disegno nella ricerca etnografica, in Antropologia visiva 1980, pp. 37-44

 

Sella  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella.  Torino: Fondazione Torino Musei – GAM,  2006

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890]; (reprint, Ivrea: Priuli & Verlucca, 1983)

 

Sguardo e memoria  1988

Sguardo e memoria: Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, catalogo della mostra (Roma, 1988-1989), a cura di Francesco Faeta,  Marina Miraglia.  Milano – Roma:  Arnoldo Mondadori – De Luca Edizioni d’Arte, 1988

 

Signorini 2007

Roberto Signorini, Alle origini del fotografico. Lettura di  The Pencil of nature di William Henry Fox Talbot.  Bologna: CLUEB, 2007

 

Silvestrini 1981

Elisabetta Silvestrini, Cultura materiale tra linguistica ed etnografia, in Scheuermeier 1981, pp. 16-23

 

Silvestrini 1997

Elisabetta Silvestrini, La fotografia di argomento demologico in area svizzera , in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 42-48

 

Silvestrini 2001

Elisabetta Silvestrini, Paul Scheuermeier: Itinerario fotografico nella Lombardia orientale, in La Lombardia dei contadini 2001,  pp. 23-26

 

Sinigaglia 2003

Leone  Sinigaglia, La raccolta inedita di 104 canzoni popolari piemontesi con accompagnamento per pianoforte, revisione a cura di Andrea  Lanza.  Torino: Giancarlo Zedde, 2003

 

Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna e Mimmo Vetrò.  Vercelli:  Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Il Trentino dei contadini 1997

Paul Scheuermeier:  Il Trentino dei contadini : 1921-1931, a cura di Giovanni Kezich,  Carla Gentili, Antonella Mott. San Michele all’Adige: Museo degli usi e costumi della gente trentina, 1997

 

 

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.