Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

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Arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia : prima Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, Palazzo del Giornale al Valentino, primavera 1923). Milano – Roma : Bestetti & Tumminelli, 1923

 

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Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Mario Gabinio, vita attraverso le immagini (1996)

in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di Pierangelo Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35

 

 

“Prime prove con macchina da L.10 su carta albuminata, 1889? .

La ricostruzione dell’attività di Mario Gabinio si apre con questa sua nota autografa apposta in calce ad un piccolo gruppo di immagini realizzate in Valle di Aosta, al Gran San Bernardo, raccolte in uno dei tanti album che l’autore realizzerà nei decenni successivi.  Essa racchiude, come quasi sempre accade  in questa vicenda, informazioni dettagliate, precise, sulle quali sembra possibile costruire ipotesi biografiche e critiche non arbitrarie, e dubbi, incertezze difficili da districare. Di lui rimane l’opera, conservata quasi  integralmente nel Fondo omonimo della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ma scarse testimonianze documentali o indirette della sua biografia, rari e contraddittori elementi paratestuali che siano in grado di suggerire o indirizzare la decifrazione del lavoro di questo fotografo che, alla sua morte, ha attraversato l’esatta metà della breve storia della fotografia riflettendone i mutamenti continui ma conservando anche, intatta, una coerenza di fondo, una presa di posizione precisa per quanto sommessa, che costituisce per noi una scelta di campo, una implicita dichiarazione d’intenti a favore della “documentazione artistica”.

Le prime testimonianze coeve disponibili parlano di Gabinio quasi solo in relazione alla sua ‘curiosa’ figura di escursionista-fotografo, accentuandone i lati pittoreschi e forse un poco esibizionisti[1], e per averne un ritratto meno angusto si deve attendere il ricordo redatto dal nipote Ivan Alessio nel 1939[2], certo più ampio ed articolato, il solo  a fornire -seppure in modo incompleto- un piccolo ritratto di quella che definisce “caratteristica e simpatica figura di artista e di cultore appassionato e tenace della fotografia (…) Fotografo non per interesse ma per passione (…) Alla ricerca continua del ‘meglio’ eseguiva molte fotografie per un solo soggetto (…) Ed erano lunghe soste sotto il sole od al freddo; erano studi lunghissimi per ottenere negli interni di chiese, e di palazzi monumentali, il voluto ed a volte difficilissimo effetto, per superarsi e vincere le difficoltà di ambiente che rendevano a volte difficile, quasi impossibile l’eseguire la riproduzione quale lui la voleva, nobilitante le bellezze e i pregi e nascondente o quanto meno attenuante i difetti e le disarmonie. Erano studi che continuavano nella solitudine della sua casa, nella camera oscura per provare e riprovare le varie carte fotografiche, i vari ‘bagni’ e i vari viraggi. Erano somme ingenti spese per ottenere dei contrasti su carte speciali, per ottenere gli effetti che il suo occhio di artista aveva visto al vero. (…) Malgrado il suo alto sentimento artistico e grandi capacità era modesto come la vita che conduceva; arguto assai sapeva con una buona battuta accattivarsi le simpatie di (sic) persone e allontanarle magari dall’inquadratura della fotografia che non le richiedeva. È scomparso con lui, se non un fotografo di eccezione, certo un appassionato ed originalissimo cultore di quest’arte.”

Questa testimonianza affettuosa e sottotono conserva, preziosa, le sole labili tracce di un atteggiamento nei confronti della pratica fotografica che è nostro compito ricostruire in forma compiuta analizzandola criticamente, cercandone le ragioni  nelle vicende coeve, nelle culture fotografiche che ne hanno accompagnato il suo svolgimento.

Si tratta allora di intraprendere un lavoro interpretativo che si proponga di superare la distanza che ci separa (in termini di tempo, di cultura) dal corpus di testi figurativi che costituisce l’opera di Gabinio, mettendo in atto una interpretazione cosciente del suo proprio “intendere intenzionale”, che “segue un certo progetto, deriva da una certa  precomprensione, da un qualche necessario pregiudizio” (Volli, 1994, p.40).  Si tratterà insomma di riconoscere i “tre tipi di intenzioni” definiti da Umberto Eco (1990, pp.22-25)  nella rassegnata consapevolezza di una irrimediabile povertà di elementi in grado di testimoniare l’intentio auctoris, costretti a  mettere  in atto una operazione di riconoscimento  delle caratteristiche dell’opera, di ciò che essa comunica (intentio operis) attraverso la formulazione di una serie di congetture e la definizione di tattiche interpretative ed ipotesi critiche che determinano il nostro “atto di lettura [da intendersi come] una transazione difficile fra la competenza del lettore (la competenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto in maniera economica.”[3]

Lo strumento, il percorso, a cui siamo ricorsi in prima approssimazione è quello dell’analisi cronologica, scelta certo arbitraria e forse poco aderente al discorso di Gabinio se pensiamo che i suoi esempi di strutturazione del testo (gli album) hanno criteri di aggregazione che sono -piuttosto- tematici ma, appunto, una delle nostre congetture, dei nostri pre-giudizi, è la modificazione del lavoro fotografico di Gabinio in modo parzialmente lineare, traducibile  in cronologia, e la sua aderenza, in forme ogni volta diverse, allo spirito del proprio tempo.

 

 

Non conosciamo le ragioni precise o  le eventuali influenze che portarono Gabinio ad occuparsi di fotografia o -meglio- ad acquistare la prima macchina fotografica, ma certo negli anni in cui questo accade, intorno al 1890, l’evento non riveste più alcun carattere di eccezionalità per un giovane della piccola borghesia urbana, ormai dotato di una sua risicata disponibilità economica imposta dagli eventi.[4] Con le semplificazioni della tecnica fotografica che caratterizzano l’ultimo decennio del XIX secolo la fotografia entra  nella sua prima fase di grande diffusione fotoamatoriale, e si inaugura un periodo della sua breve storia ricco di contraddizioni e fermenti, durante il quale la fotografia si accompagna sovente ad altri fenomeni sociali propri dell’epoca, in particolare alle diverse forme di associazionismo turistico in cui, superato il meccanismo della cooptazione secondo criteri di  censo tipico dei club d’élite ottocenteschi, l’aggregazione si fonda sulla condivisione di un programma, supera i confini di classe, e costituisce in molti casi un elemento di forte integrazione sociale.[5]

Esempio tipico di questa connotazione nuova delle strutture  associative è la torinese Unione Escursionisti (U.E.T.), fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, ambedue impiegati delle Ferrovie dello Stato con la passione per la montagna, con lo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”[6] Il successo è tale che al 1898 -quando L’U.E.T. si presenta con una propria sezione nel padiglione della Didattica alla Esposizione Nazionale di Torino, il socio Ercole Bonardi illustrandone brevemente le vicende sul giornale dell’Esposizione può affermare orgogliosamente che “ormai fra gli Escursionisti c’è gente di tutte le condizioni, dal piccolo negoziante all’impiegato, al professionista, al Consigliere comunale, al Deputato”. [7]

Gabinio ne entra a far parte nel 1894 e durante alcune escursioni alpine realizza le sue prime fotografie di un certo interesse, segno ormai di una buona padronanza del mezzo come dimostra il Panorama in tre parti dalla vetta del Rocciamelone realizzato nel luglio di quell’anno forse seguendo le suggestioni di immagini analoghe viste alla “Esposizione Fotografica Alpina” che si era tenuta l’anno precedente nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, di Torino, dove sei dei ventotto autori  presenti esponevano appunto panorami.[8] Allo stesso 1894 risale anche una serie di fotografie affatto diversa: le 21 lastre relative alla “Regia Scuola Normale Femminile di Ginnastica in Torino” frequentata dalla sorella Ida; sono il primo esempio compiuto di serie organica di immagini nella produzione di Gabinio, verosimilmente realizzate su commissione per illustrare tutti gli aspetti della scuola,  dalle divise delle allieve, agli esercizi ginnici all’istruzione didattica.[9]

Questa realizzazione costituisce però un semplice intermezzo nella produzione di quegli anni: Gabinio è ancora -per quanto ci è dato di sapere- un fotografo occasionale, attivo per brevi periodi, sempre in estate e prevalentemente  in occasione di gite in montagna; in questo periodo l’attività  fotografica è sempre motivata dall’escursione e non viceversa, come risulta dalla stessa scelta dei soggetti: il paesaggio e la veduta sono ancora scarsamente presenti e l’attenzione è rivolta al rito sociale,  all’esperienza di gruppo della gita, con notazioni tra il celebrativo e l’ironico nella documentata conquista di cime sin troppo accessibili.  Solo durante le ascensioni realizza le prime, vere vedute alpine; qui la montagna è presentata quale entità geografica pura, spoglia di presenze umane, forzando la veduta al panorama in un tentativo di estrema oggettivizzazione. Questa alternanza è ben documentata nelle prime immagini pubblicate da Gabinio nella  Guida Reynaudi dedicata a Ceresole Reale, edita nel 1896[10], certo una opportunità importante che gli viene offerta, il primo riconoscimento dell’interesse del suo lavoro ed uno stimolo a proseguire in modo meno occasionale, maturando il proprio interesse per una attività condivisa con altri membri dell’Unione Escursionisti, quali Treves e Belli, le cui opere sono nel frattempo presentate all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895.[11]

Testimoniano questo nuovo impegno sia l’adozione di un formato maggiore (18 x 24) sia le sperimentazioni condotte  in fase di ripresa (ripetizione in diurna e notturna, utilizzazione del lampo di magnesio) ed in fase di stampa, mediante il ricorso a carte ed a viraggi differenti (A25/44), alla ricerca di una propria forma espressiva che si risolverà infine in un sostanziale rifiuto delle manipolazioni proprie della fotografia pittorica, per un’immagine che si presenti con un “aspetto armonico ed artistico” ma in grado di “dare tutti i dettagli”, così come viene teorizzata ad esempio  da Jules Brocherel[12] e proposta -almeno in quegli anni- da un nume tutelare come Sella;  una fotografia insomma che riesca a coniugare artisticità della composizione e ricchezza di informazione, qualità estetica e valore documentario, ricorrendo coscientemente a tutti gli elementi tecnici, e quindi linguistici, che ne costituiscono lo specifico. Al modello costituito dal fotografo biellese Gabinio fa esplicito riferimento in alcune immagini dei primi anni del secolo;  in particolare il confronto assume le caratteristiche di una vera e propria citazione nel caso  dell’immagine  di Pian della Mussa , nelle Valli di Lanzo (B123/1/30) visto da ovest con tre escursionisti di spalle in primo piano, datata 17 luglio 1900, che riprende esplicitamente Il Monte Rosa dal Monte Moro di Sella, datata 1895, presente nella collezione Gabinio[13]. La presenza di figure in primo piano è un motivo iconografico che ritorna più volte nella sua produzione, specialmente nella variante che prevede le figure in atteggiamento esplicitamente ostensivo, disposte in pose precise, realizzate con l’apparecchio di grande formato, nelle quali  il gesto esplicito dell’indice puntato,  del braccio teso,  non pare rivolto ai compagni presenti, non appartiene al  tempo della ripresa ma a quello della sua osservazione futura, è una comunicazione posticipata, un espediente narrativo, particolarmente evidente nelle vedute di ampio respiro (B122/2/42) e nei panorami.

Se i compagni di escursione sono sovente presenti nelle fotografie di montagna non altrettanto si può dire per le persone che in quelle valli vivono, riprese sempre in rigide pose e sovente ridotte al rango di “tipi”, con uno sguardo che oscilla tra il lombrosiano ed il pittoresco, condiviso con l’amico Reynaudi, lontanissimo in questo caso dall’esempio proposto da Sella e Vallino con l’album Monte Rosa e Gressoney, 1890,  in cui l’attenzione per “la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire (…) l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie, la fisionomia propria di questa popolazione” si traducono in “quadretti graziosissimi”, riconoscendo e ritrovando nelle vicende dei luoghi che si sarebbero aperti di li a poco al turismo una contraddizione che doveva essere in primo luogo loro, di cittadini, di estranei, di rappresentanti di quella imprenditoria illuminata che possedeva gli strumenti per comprendere e subire il fascino di una cultura altra, ma insieme anche la forza e la determinazione economica e politica per porre concretamente in atto quel progresso che l’avrebbe cancellata. L’atteggiamento di Gabinio riflette una minore  coscienza  di questa distanza, che pare piuttosto appartenere ai soggetti fotografati (A18/56), una curiosità senza dramma e senza pietas, piuttosto orientata verso la fotografia di genere (B125/49).[14]

Sembra di leggere qui  una traccia di quella  ritrosia che si intuisce dalla scarna biografia del fotografo, quel tenersi al margine che impedisce un confronto schietto con l’altro, con l’estraneo, il diverso, un atteggiamento che invece non ritroviamo quando col soggetto fotografato intercorrono rapporti di amicizia o di parentela, come accade nei numerosi gruppi realizzati in occasione delle gite dell’Unione Escursionisti (B123/2/35, B123/2/36, B123/2/64, A25/8)  ed in alcuni bellissimi ritratti che appartengono alla sua prima produzione, noti soltanto attraverso le lastre: si tratta di immagini di singoli o coppie (coniugi, sorelle o amiche) fotografati in esterni davanti ad un rozzo telo disteso al muro, nella migliore tradizione della fotografia ambulante e domiciliare, o di prove di ripresa effettuate nello spazio angusto del balconcino della casa di Corso San Martino, con la modella avvolta in un lungo mantello,  poggiata in precario equilibrio su di uno sgabello che consentisse migliore spazio all’inquadratura, ma anche affettuose riprese della sorella Ida mentre allatta il primo figlio, i gruppi di famiglia ed i ritratti della madre, alcuni dei quali conservati in album, di cui già aveva sottolineato il valore Giorgio Avigdor (1981), esempi tutti della qualità fotografica che il ritratto ottocentesco raggiunge tanto più quanto si allontana dalla pratica codificata, e presto sclerotizzata, della ripresa di studio,  come mostrano anche le opere di due altri dilettanti piemontesi delle generazioni precedenti Gabinio, quali Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Negri.

Ma i risultati più interessanti si ritrovano in immagini quali  il doppio ritratto di  C.Canavese e C. Varesi, 1900c.  (A23/23) in cui le figure rigidamente in posa, staccate l’una dall’altra, sembrano per sempre immobili, trasformate in caratteri, nei due tipi distinti del pedone e del velocipedista, pur mantenendo invariata la loro individualità, sottolineata dal titolo che ne riporta esplicitamente i nomi, ed ancora in quello di G.E Canale, 1900c.  (A23/26) in cui la figura del doppio rimanda invece al confronto tra i modi della rappresentazione, fotografica e pittorica, suggerendo un ambito di riflessione che non coinvolge tanto la questione della fotografia come arte  ma piuttosto quella del realismo e della possibilità delle due tecniche (dei due linguaggi) di affrontare il tema della verosimiglianza fisionomica, indagando contestualmente lo scarto tra produzione e riproduzione, accessibile solo a partire dalle possibilità metalinguistiche della fotografia.

Meno rilevanti quantitativamente ma altrettanto significative sono le immagini in cui la presenza umana  diviene elemento di lettura e di articolazione dello spazio restituito fotograficamente, come nelle vedute animate di alcune vie e piazze di Torino viste attraverso le quinte dei portici urbani, secondo  una soluzione ripresa da modelli riferibili al vedutismo  ottocentesco [15] che ritroviamo anche nella fotografia del Santuario di Santa Maria in Doblazio a Pont Canavese, 1907? (A36/50) in cui compare per la prima volta in Gabinio l’uso della disposizione scalare delle figure in relazione ai segni emergenti della scena, in un gioco di rimandi, un dialogo tra ‘emergenze’  a scale diverse tra le quali è destinato a muoversi lo sguardo dell’osservatore, attratto da un evento puramente visivo, in cui il dato di cronaca è bandito ed il soggetto è propriamente il tempo sospeso della fotografia, di quella fotografia, che concatena arbitrariamente e rende leggibili accadimenti altrimenti autonomi (A15/65, B90/5).

 

Un uso meno palesemente orchestrato, più diretto, della presenza umana lo ritroviamo in alcune delle immagini di quello che è certamente il lavoro di Gabinio all’epoca più noto, realizzato nei primi mesi del 1900 e presentato, sotto l’egida dell’Unione Escursionisti, alla I Esposizione Internazionale promossa dalla Società Fotografica Subalpina che si tiene dall’11 febbraio al 19 marzo nei locali della Società Promotrice di Belle Arti,  in via della Zecca 25[16] . Per l’occasione il Comune di Torino  bandisce un concorso dedicato alla “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente” (Brayda, 1900) che Gabinio si aggiudica con la serie dedicata a Torino che scompare (A14/ –), realizzata non “appena bandito il concorso del Municipio, vale a dire nella prima quindicina di gennaio p.p. in condizioni d’ambiente e di luce difficilissime.(…) Con quel senso artistico che lo distingue [Gabinio] ha saputo fissare un centinaio di impressioni curiose, tipiche, interessantissime, rivelando certi angoli ignorati della nostra Torino che, poco ancora, non avremmo conosciuto più” (Fiori, 1900, p.4). Il lavoro, costituito da un centinaio di riprese su lastra 9×12 dalle quali vengono ricavate 84 stampe, prende forma ed è realizzato in pochi giorni, segno di una raggiunta padronanza tecnica e di una maturità espressiva che deriva da precedenti esperienze, sulle quali occorrerà ritornare.  Per la scelta  dei soggetti, l’esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituisce una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana, piuttosto propensa alle realizzazioni di tono celebrativo[17]. Le vedute dei canali nella zona del Balôn si alternano ai tetri cortili delle case a ballatoio di via Porta Palatina, vuoti di presenze, alle vedute urbane della “città quadrata”, riprese in tagli verticali che sottolineano lo spazio angusto di “quella parte della città che si stende tra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città -nelle parole di  Edmondo De Amicis- invecchia improvvisamente di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s’intrica, si fa povera e malinconica. (…) Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia di cielo, che s’aprono in portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz’uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione”[18];  la scena è più ariosa ma le condizioni generali non certo migliori nelle altre zone documentate, i cosiddetti “orti delle Benne” nella zona delle Basse di Dora, le case delle lavandaie al Borgo Rubatto, sulla sponda destra del Po, ed il ghetto di Borgo San Salvario;  qui la presenza umana all’interno dell’immagine è accettata piuttosto che cercata, quale ulteriore elemento di connotazione del luogo. Sono fotografie che è giusto definire dirette, senza compiacimenti o cadute nel pittoresco, prive di nostalgia; immagini che si propongono quali puri documenti di una condizione urbana in via di auspicata trasformazione, per opera  di quel “piccone demolitore” che compare nel titolo di una veduta di via Genova (A14/101, attuale via San Francesco d’Assisi), lo stesso a cui farà riferimento Pietro Gribaudi nel 1908 analizzando quella fase del rinnovamento urbano torinese (Comoli Mandracci, 1983, p. 215). La consonanza tra la lettura che ne offre Gabinio e l’opinione diffusa negli ambienti culturali torinesi è ben documentata, oltre che dalla assegnazione del premio di duecento lire da parte del Comune di Torino, anche dalla accoglienza favorevole che la stampa locale riserva a questo lavoro rilevandone l’importanza “come ricordo di luoghi cari che più non rivedremo e come studio di monumenti e linee architettoniche” (Fadilla, 1900) poiché “interessanti e belle per ora, queste fotografie saranno preziose più tardi, quando le cose fotografate saranno cancellate dalla memoria”[19]. Ma il riconoscimento più importante viene certamente da Riccardo Brayda che sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” pubblica in due puntate l’articolo Torino che scompare. (Da fotografie del signor M.Gabinio), che costituisce una analisi dettagliata dell’opera e l’occasione per una riflessione sulle perdite provocate da una politica urbanistica poco attenta al patrimonio architettonico: “Fra queste fotografie non mancano i quadretti assai originali, come taluni che riproducono i canali e le modeste abitazioni che in essi si rispecchiano (…) Questi soggetti ricordano un motivo che i torinesi hanno veduto riprodotto parecchie volte nelle passate Esposizioni di Belle Arti: “l’Adigetto di Verona”. A chi non conosce quella remota regione di Torino, pare impossibile che possano trovarsi colà tanti soggetti pittorici, i quali dovrebbero invogliare molti artisti del pennello a riprodurli. Colpite con assai buon gusto sono certe scene del Mercato degli stracci in quel sobborgo, e pittoresche le riproduzioni dei modesti casolari che si trovano tuttora nelle regioni di San Salvario e nel Lungo Po, edifizi dei quali non è lontana la demolizione. Il Gabinio, compreso nell’importanza del suo concorso, non volle soltanto limitare il suo studio alla riproduzione di motivi pittorici; ma con molta cura, e superando non poche difficoltà tecniche, ci lascia memoria di antiche costruzioni e di particolari architettonici, i quali, malgrado abbiano carattere storico ed artistico, dovranno sparire per causa degli sventramenti e degli allargamenti di alcune vie di Torino. Degne di nota sono le riproduzioni degli avanzi del Cisternone della Cittadella [fotografato nel 1896-97], della casa del Vescovo [fotografata nel dicembre del 1898], e, tra le costruzioni medioevali, quella di via Sant’Agostino (…). Fra  le costruzioni del settecento, è notevole una minuscola cappella accanto al vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, opera d’arte non priva di merito artistico, ma che fu lasciata in completo abbandono, e che presto, per la comodità della circolazione, dovrà essere abbattuta. Alcune fotografie riproducono molto chiaramente i particolari del cortile del palazzo (…) situato in quella parte di via Genova che è compresa tra la ex-piazzetta di S. Martiniano e la chiesa di S. Francesco, è assai modesto nella sua architettura esterna, ma è dotato all’interno di un cortile originale, che rivela quella grandiosità solenne che si osserva e si ammira nelle fabbriche del settecento e che difficilmente riescono ad ottenere i moderni architetti. Originali sono gli archi poligonali invece che in curva, sovrastanti allo spazio tra le colonne binate del piano terreno, grandiose le logge del piano superiore, che fortunatamente ci furono conservate intatte. (…) Ho parlato volontieri di questo edifizio, come altra volta ebbi a descrivere il distrutto palazzo Gibellini, pure in via Genova, perché troppo soventi ho udito ripetere che a Torino non c’è nulla da vedere”[20]. L’aderenza del testo al progetto fotografico di Gabinio non mostra semplicemente una consonanza di sentire ma  ci permette di riconoscere in questo tracce più che evidenti della presenza fattiva di Brayda, un risultato visibile, concreto, di quell’opera di “inarrivabile volgarizzatore dei fasti piemontesi” (Barraja, 1912) che l’ingegnere conduce da alcuni anni anche nell’ambito dell’Unione Escursionisti, con la quale collabora a partire dal 1898, guidando gli associati in  quelle gite artistiche che costituivano uno degli scopi del sodalizio,  in un ruolo che era stato sostenuto precedentemente dall’architetto Gottardo Gussoni e dal professore Ercole Bonardi. Le mete corrispondono puntualmente agli interessi di Brayda e toccano molti  dei luoghi canonici della riscoperta del medioevo piemontese, da Avigliana a Vezzolano, da Asti a Verres, da Bussoleno e Susa a Villarbasse, alla torinese Casa del Vescovo, tutti puntualmente ripresi da Gabinio con una attenzione specifica per i valori documentali ed architettonici, in immagini in cui non prevale mai -come accade nelle coeve fotografie di montagna- il semplice ricordo della gita, la foto di gruppo con l’architettura a fare da sfondo.[21] La presenza di Brayda  risulta determinante per la formazione del fotografo, ed in particolare per la maturazione di quell’interesse per le architetture storiche che si svilupperà  pienamente nel corso degli anni Venti, ma la sua egemonia all’interno dell’associazione solleva forti perplessità, manifestate pubblicamente con una lettera aperta del presidente Fiori, pubblicata sul numero di maggio 1902 del bollettino sociale “L’Escursionista”, in cui -dopo gli apprezzamenti di rito- viene evidenziato il rischio che le troppe gite artistiche snaturino la fisionomia originaria dell’Unione: “Per qualcuno cessammo proprio completamente d’essere escursionisti [diventando] un’associazione di artisti; ed è appunto questo concetto che crediamo sia poco opportuno (…) [noi siamo] amici dei monumenti (dico amici e non studiosi)”[22]. Se la rete di relazioni istituite all’interno di questo sodalizio -in particolare le presenze di Ceradini e Gussoni oltre a Brayda- risulta un elemento fondamentale per la formazione di Gabinio non va però dimenticata l’importanza del panorama fotografico torinese coevo, ricco di figure rilevanti e particolarmente attive proprio nell’ambito della documentazione ingegneristica e del patrimonio artistico ed architettonico, primo fra tutti Secondo Pia che proprio pochi anni prima, nel 1890,  riceve una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi” [23] in occasione della Esposizione Italiana di Architettura di Torino diventando di fatto un modello per il giovane Gabinio,  allora agli esordi, e certo la sua emozione dovette essere forte quando, al banchetto conclusivo  dell’Esposizione del 1900  Edoardo di Sambuy, – di fronte a Pia ed ai rappresentanti più noti della Società Fotografica Subalpina di cui è presidente – elogia le fotografie di Gabinio “da esse traendo occasione per lanciare l’idea della fondazione di un archivio fotografico”.[24] Il tema della raccolta fotografica documentaria, che attraversa tutta la fotografia ottocentesca, diviene di particolare interesse negli anni a cavallo dei due secoli e costituisce oggetto di riflessioni ed esperienze diverse in ambito internazionale e italiano. Nel 1892 era stato istituito a Roma, per iniziativa dell’ingegnere Giovanni B. Gargiolli quello che diventerà il Gabinetto Fotografico Nazionale, iniziativa legata a filo doppio al nascente problema della tutela, come viene esplicitamente dichiarato nel contestatissimo Regio Decreto del 1893 relativo all’obbligo da parte dei fotografi di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche “per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”. Lo stesso Congresso Internazionale di Fotografia che si tiene a Parigi nel 1900 (23-28 luglio) affronta il tema, specialmente per iniziativa di G. Moreau ed Alfred Liégard, contribuendo a meglio definire culturalmente e metodologicamente i termini della questione, poi ripresi in Italia da Corrado Ricci e Pietro Toesca in due interventi del 1904, da confrontare con le riflessioni coeve di Giovanni Santoponte, il quale affrontando la questione dal punto di vista dello specifico fotografico esplicita la differenza tra  museo fotografico, da intendersi quale raccolta eterogenea di immagini, e archivio, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti  riferentesi ad una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”.[25] Anche l’Unione Escursionisti partecipa di questo clima e nei primi mesi del 1901 il nuovo presidente Anselmo Giusta propone l’istituzione di un museo  presso la sede sociale individuando nella fotografia, da buon dilettante, “il mezzo più semplice, più spiccio e maggiormente alla portata dei soci per illustrare quanto si riscontra in fatto di monumenti, chiese, cappelle, castelli torri, ecc.ecc. sia antiche che moderne;  ed è quello che abbiamo scelto di preferenza, senza escludere di proposito gli altri. (…) Oltre alla fotografia dell’insieme si dovrà aver cura di riprodurre anche i particolari delle costruzioni e  delle decorazioni, gli interni degli edifici, i loro arredi ecc.” (Giusta, 1901) Si associano qui, come in decine di altri casi simili, l’ansia catalografica e la fiducia, tutta positivista, ottocentesca, nella fotografia come schermo trasparente, come strumento principe per la riappropriazione sistematica della realtà, semplicemente ridotta ad immagine, impronta reale del vero,   ma si riconosce anche,  qui come nelle riflessioni di Brocherel e Masoero, nell’opera di Pia, l’ansia di una parte del mondo fotografico di costruire e vedere riconosciuto un proprio ruolo, una propria funzione sociale e culturale che altri, nello stesso ambito e negli stessi anni, perseguono attraverso il confronto ingenuo e sovente superficiale con le retroguardie del mondo dell’Arte.

In questo clima si colloca la ricca serie di fotografie di architetture storiche piemontesi, prevalentemente  medievali, realizzata da Gabinio a partire dal 1897-1898, in cui la composizione risulta articolata e complessa, tesa ad indagare il rapporto tra lo  spazio urbano dei piccoli centri  e la presenza incombente, il segno forte di un elemento come la Sacra di San Michele  (A42/32, A37/96) o la coerenza compatta del tessuto edilizio di un centro storico, restituita nei suoi aspetti di fascinazione spaziale e architettonica mediante l’uso del grande formato, che consente l’emergere del dettaglio ed il suo apprezzamento (A21/9); ed ancora l’interesse per la città in trasformazione, in cui la documentazione si traduce in  composizioni di più ampio respiro, formalmente dotate di una propria autonomia che deriva da una sapiente distribuzione degli elementi di attenzione tra i diversi piani, come accade nella  veduta del Ponte in ferro [ponte Maria Teresa] al primo inizio dei lavori/ pel nuovo ponte, 1903 (A22/16). Ma il suo interesse non si limita al patrimonio storico; se l’influenza della cultura storicistica torinese è determinante essa comunque non esaurisce l’orizzonte di interessi di Gabinio che anzi si cimenta con le architetture effimere dei padiglioni della Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album) realizzato forse su sollecitazione dell’amico  Mario Ceradini, in cui mostra di aver raggiunto ormai una padronanza tecnica ed espressiva assolute, producendo immagini in grado di competere vittoriosamente con quelle realizzate da Remo Lovazzano, fotografo ufficiale della manifestazione.[26] Appartiene allo stesso periodo anche la bella serie sui “Periodi di costruzione di un gasometro della Soc.ta’ It.na [Società Italiana Gas] – Torino” a Borgo Dora, 1898,(A17/13, 14) realizzata -crediamo- a partire da una committenza legata alla sua frequentazione nello stesso anno del corso di Meccanica presso le Scuole Tecniche Operaie San Carlo[27] e l’interessante documentazione del cantiere di ampliamento della Conceria Fiorio a Torino su progetto di Pietro Fenoglio, tra i primi esempi di applicazione del cemento armato in una architettura industriale.[28]

 

La montagna resta però, in questi anni, il tema maggiormente frequentato ed il soggetto utilizzato per condurre le Prove su carte diverse poi raccolte nell’Album n.25. Molte di queste immagini tendono alla oggettivazione del soggetto, isolato dall’inquadratura e descritto in sé, nelle sue componenti orografiche e geologiche,  senza relazioni che ne suggeriscano la collocazione geografica; la cima o il panorama alpino come assoluto o come pretesto – in contraddizione solo apparente- per la confezione di composizioni gradevoli, graziose, sovente a profilo centinato, che guardano in particolare alla produzione pittorica del paesaggismo piemontese di primo Novecento, ad Angelo Morbelli per indicare un nome.[29] Più frequenti sono però le immagini in cui risulta leggibile, coinvolta, la presenza del fotografo alpinista, la sua esperienza del luogo, la sua percezione dell’oggetto fotografato: in alcune ciò che prevale è il senso della distanza, la separazione tra punto di osservazione e oggetto dello sguardo, tra veduta e fotografia (A39/41) mentre altre, all’opposto,  sono giocate sul senso di prossimità, di accessibilità del sito, e allora la ripresa si sviluppa senza soluzione di continuità dal primo piano all’orizzonte, rimanda al percorso necessario da compiere per raggiungere la vetta (B123/1/37). Il fotografo mostra di essere nel paesaggio specialmente nelle vedute di bassa valle (A1/130, A1/132) che raccontano di spazi densi, in cui l’elemento naturale quasi sommerge i segni dell’antropizzazione, la strada, le baite; spazi letti come sistemi complessi e privi di gerarchie, restituiti in modo efficacemente preciso, analitico, sovente inseriti in un vero e proprio resoconto per immagini che descrive l’intero percorso dalla pianura alle vette, con quell’alternarsi mirato di inquadrature orizzontali e verticali che abbiamo visto utilizzato anche in Torino che scompare.

Le precise intenzioni descrittive, analitiche, si accompagnano qui alle prime evidenti preoccupazioni formali, compositive e tonali, che risentono in parte dei modelli coevi della fotografia artistica, come accade per la Cascatella sotto la Sacra di S. Michele, del 1899 (CN/4), riquadrata in stampa ad accentuarne le proporzioni verticali ed il calligrafismo, o in alcuni paesaggi più tardi (1905-1910) venati di un romanticismo mai lezioso, dove l’atto del guardare è retoricamente sottolineato dalla presenza di quinte poste in primo piano a delimitare la scena (A15/41); né finestra né specchio ma palese rappresentazione. Ciò che invece segna la distanza da quei modelli è l’assenza di flou e di manipolazioni in fase di stampa,  la ricchezza di dettaglio consentita dalla copia a contatto su carte ad annerimento diretto, per le quali anche i viraggi assumono una semplice funzione conservativa e di stabilizzazione del tono.

Il distacco risulta ancora più netto nella serie realizzata intorno al 1900 “Al Valentino – presso il ponte in ferro” (A22/1), in cui di un gruppo di alberi ripresi in controluce netto viene restituito il puro grafismo dell’intreccio dei rami, una massa intricata di segni contro il chiarore del cielo; immagini di cui è difficile trovare l’analogo nella produzione dei fotografi coevi, specialmente piemontesi. Qui la fotografia abbandona esplicitamente ogni intenzione di riproduzione per non documentare altro che se stessa e la fascinazione da cui è nata.  Questa serie costituisce il presupposto necessario per comprendere la successiva maturazione delle ricerche di Gabinio relative al tema del paesaggio, che si manifesta compiutamente intorno alla  prima metà degli anni Dieci, quando si allontana, per ragioni non note, dal gruppo dell’Unione Escursionisti, guadagnando l’indipendenza, la libertà di operare al di là di esigenze più o meno esplicite espresse o imposte  dall’appartenenza ad un gruppo. Si veda la Cascata secca (A41/21) del 1914, dove  la padronanza tecnica ed espressiva  di un linguaggio fotografico di derivazione ottocentesca gli consente di produrre un’immagine di grandissima qualità,  che supera di fatto ogni questione relativa alla fotografia pittorica; questa resta sullo sfondo, una suggestione forse non eliminabile per chi opera all’inizio del secolo con una formazione da autodidatta, ed emerge soltanto in alcuni elementi, nel modo di inquadrare certi soggetti, come nel  Paesaggio invernale al Frais (A42/7), 1910c., da confrontare con A Snow Track di Will A. Cady, presentata a Torino all’Esposizione del 1902, [30] o nella volontà esplicita di comporre il “quadretto” tipicamente grazioso ma senza osare poi il salto pittorialista ed anzi ibridando quella matrice con interventi strettamente connessi alle possibilità analitiche proprie del mezzo fotografico, confidando quindi tutto nel suo specifico: e sono le riprese scandite diacronicamente conservando meticolosamente immutato il punto di vista, dalla notte al giorno, dall’estate all’inverno. Uno strumento d’indagine, “un’opera fotografica, forse tecnicamente perfetta, o per qualche motivo speciale interessante, e che pur trovasi agli antipodi dell’opera d’arte”, per riprendere le distinzioni introdotte da Edoardo Di Sambuy per la  presentazione della manifestazione torinese, “evento cruciale per le vicende della cultura fotografica del nostro paese” (Costantini, 1994, p.95) che Gabinio visita il giorno 25 maggio sotto la guida dell’onnipresente Brayda, lasciando però nella sua opera tracce relativamente modeste. Quali possono essere le ragioni, le resistenze forse, che fanno sì che un dilettante attivo a Torino in questi anni non risulti segnato, profondamente, da questi celebrati modelli? Possiamo provare a definire il problema cercando di leggere le intenzioni dell’autore non solo attraverso l’opera ma anche utilizzando il filtro di alcuni dati, o indizi, legati alla sua biografia: il primo elemento da rilevare è la sua marginalità rispetto al mondo fotografico torinese, espresso in quegli anni da quella Società Fotografica Subalpina che nella preparazione della mostra del 1902 si rivolge a “pochi, ma valentissimi cultori”  ed ancora nel 1933 si riconoscerà “nata aristocratica”; [31] ed inoltre la formazione di Gabinio, l’ambito da cui proviene, ed al quale è ancora legato -quello dell’associazionismo alpinistico- non ha pretese di “modernità” e per quanto riguarda la fotografia si propone altri intendimenti e quindi si esprime con linguaggi differenti; riconosce i propri valori nei “dettagli” propugnati da Jules Brocherel e nelle dichiarazioni di Pietro Masoero a proposito dell’ “arte fotografica [che] deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”, [32] riconoscendo nel suo specifico quella modernità di linguaggio che altri cercavano altrove. Sarà per queste ragioni che il suo modo di fotografare non viene apprezzato dai critici dell’epoca così che, quando partecipa all’esposizione di fotografia organizzata dall’Unione Escursionisti nel 1906, il notista de “La Fotografia Artistica” lo segnala solo in quanto organizzatore della manifestazione, senza citare alcuna delle sue opere.[33] È  questa modesta occasione la sola esposizione a cui Gabinio partecipa prima degli anni Trenta né risulta che sia mai stato coinvolto in altre particolari realizzazioni collettive, quali le diverse iniziative legate agli aiuti per i terremotati di Reggio Calabria e Messina nel 1908.[34]

A  Torino si susseguono in questo lasso di tempo l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata nel 1907 da “La Fotografia Artistica”, con la partecipazione di 391 autori provenienti da 16 paesi diversi, in particolare Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania, e quindi la Mostra Fotografica organizzata in occasione  dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro, promossa nel 1911 nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, che vede 250 espositori con circa 2000 opere suddivise nelle due sezioni di “Fotografia artistica, industriale, illustrativa” e “Applicazioni della fotografia”, a cui va aggiunta l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino Italiano e curata da Guido Rey.[35] Le occasioni per un confronto, anche pubblico,  e per un relativo aggiornamento sono quindi accessibili, al di là della presenza torinese di un periodico autorevole come “La Fotografia Artistica” (Costantini, 1990), ma l’attività di Gabinio in questo periodo risulta -per ragioni non note- quantitativamente ridotta seppure di grande qualità, condotta in assoluta autonomia e quasi -si direbbe- in isolamento, in una condizione di autoemarginazione da qualsivoglia sodalizio fotografico.

 

Gli anni della Grande Guerra, per Torino anni di crescita industriale e demografica e di forti conflitti sociali, sono un lungo periodo di silenzio per  un personaggio ormai non più giovane (nel 1921 compie cinquant’anni) e forse sconcertato dai mutamenti in atto, che alla cronaca non ha dedicato mai -almeno fotograficamente- alcuna attenzione, neppure più avanti nel tempo, durante la collaborazione con la Rassegna Municipale “Torino”, che utilizza la fotografia quale strumento di isolamento e difesa, una protezione sicura che libera dalla necessità di avere contatti col mondo.

Il 1923 è un anno di svolta. In un quadro politico segnato dall’ascesa al governo di Mussolini, nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, la Camera di Commercio Torinese promuove la “Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia”, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  per onorare il terzo  centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615). Esempio complesso di esposizione fotografica, strutturalmente distante dai Salon che seguiranno per l’articolazione della materia, che prevede sezioni relative a tutti i settori di applicazione della fotografia, la manifestazione riscuote un grande successo di pubblico, segnato da più di 200.000 visitatori in due mesi. “Nonostante lo stato d’animo in cui vivono ancora molti nella crisi restauratrice, che involge problemi di spirito e di materia” alla sezione di fotografia artistica partecipano 227 autori internazionali con ben 3920 opere, tra le quali destano particolare attenzione quelle del cecoslovacco Frantisek Drtikol, nelle quali si rileva “uno stridore di contrasti, un urto fra l’acquiescenza alle forme consuete e la ribellione al passato, che impongono uno studio”.[36] Ma il 1923 è anche l’anno della pubblicazione del primo numero di Luci ed Ombre, annuario del “Corriere Fotografico”, da poco trasferitosi per proprietà e redazione a Torino per opera di Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, i fondatori del “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, che assumerà per oltre un decennio “un ruolo catalizzatore della ricerca fotografica in Italia”.[37]

Anche per Gabinio questo sembra essere il momento della ripresa, segnato da una novità importante: l’apposizione alle stampe, quasi sempre al verso,  della data esatta di realizzazione e in alcuni casi del titolo, ancora di tipo descrittivo, semplice elemento di identificazione documentale del soggetto. Sono, questi, sintomi  di un rinnovato e diverso interesse per il lavoro fotografico ed elementi importanti  per ricostruire datazione e modalità di lavoro per la prima volta in modo accurato e diretto. [38]A partire dal giugno 1922  le cadenze di ripresa diventano molto ravvicinate, anche 3-4 giorni di seguito, e quantitativamente consistenti, mentre i soggetti oscillano in un ventaglio ampio di temi torinesi, tra paesaggi fluviali  e prime architetture, ancora senza un chiaro progetto apparente. All’anno successivo va invece fatto risalire l’inizio di un’altra consistente serie, quella dedicata alle “Fioriture”, che proseguirà senza sostanziali modificazioni di senso negli anni successivi, certo su sollecitazione diretta degli esempi proposti dalle riviste, in particolare dal “Corriere Fotografico” che dedica più di un concorso tra i propri abbonati a questo tema, ospitandone poi i risultati migliori sulle proprie pagine. [39] È  certo un tema tra i più consueti e stereotipati, al quale Gabinio riesce però ad applicare un trattamento meno oleografico, non solo per il ricorso consueto alla stampa a contatto da lastra di grande formato ma anche per la specifica modalità di composizione, con le chioma fiorite a riempire l’inquadratura sino a saturazione (B96/88) oppure, all’inverso, costruendo l’immagine su percorsi di lettura dinamici,  guidati da un pullulare di segni che si intersecano secondo opposte direzioni (B96/79). Sostanzialmente differenti e distanti dagli esempi proposti dalle riviste sono poi alcune stampe del 1923 (P5/1) nelle quali il segno forte dell’albero o del ramo fiorito viene sostituito da una trama di elementi apparentemente minori, ciascuno privo di intrinseca rilevanza figurale, propri dei micropaesaggi marginali, in cui scompare la relazione consueta tra figura e sfondo e l’immagine vive propriamente delle sole relazioni interne definite dal fotografo.[40]

L’articolazione del tema diviene particolarmente complessa nella serie del 1924-1926 realizzata al parco del Valentino e intitolata “Il castello medievale, ingresso pustierla a nord-o”: sono circa venti stampe su carte diverse, corrispondenti a quasi altrettante riprese, in cui gli alberi e le architetture, sino a quel momento indagati separatamente, interagiscono tra loro per il tramite della luce, che incomincia a mostrarsi quale elemento narrativo autonomo. Il risultato finale (B52/118), molto più tardi pubblicato anonimo sulla rivista “Torino”, è il frutto di una ricerca ostinata e lunga, fondata sullo studio delle varianti minime di definizione della scena, condotta in momenti e stagioni diverse mantenendo costante l’inquadratura. La questione della definizione spaziale propria del paesaggio è indagata in Parco Michelotti sotto la neve, 1930c (P37/10), secondo  una impostazione che possiamo definire paradossalmente antifotografica: le divergenti linee di fuga dei viale e l’assenza di un centro precisamente individuato producono una ambiguità percettiva che rende irriconoscibili le tracce della costruzione prospettica propria dell’ottica fotografica, generando contemporaneamente un raddoppiamento speculare della figura secondo una formula  che ritroviamo in altre sue immagini di soggetti diversi realizzate nello stesso periodo (B71/14, B103/23). [41]

 

I primi anni Venti segnano anche l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico e le trasformazioni urbane di Torino, già indagato con Torino che scompare del 1900 e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, qui ora affrontato con sguardo più ampio e nuova sistematicità, mentre sparisce  di fatto quello che era stato fino al quel momento il tema principale della sua produzione fotografica, la montagna.

Tra i primi soggetti il Borgo Medievale al parco del Valentino, spazio effimero realizzato in occasione della Esposizione Generale Italiana del 1884 divenuto testimonianza consolidata della cultura architettonica storicista e del nascente restauro architettonico, che Gabinio indaga come microcosmo urbano reale, nei suoi rapporti spaziali e nelle sue architetture più vere del vero, senza cedimenti al pretesto decorativo o sottolineature della sua possibile funzione di loisir. È la stessa intenzione documentaria, di registrazione del dato reale che si ritrova nelle altre serie: quella dedicata ai monumenti che ornano piazze e giardini torinesi, dei quali ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, e quelle altrettanto ricche  dedicate alle chiese ed ai palazzi barocchi, alle vedute urbane, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.  Le campagne fotografiche sono condotte con ritmi molto intensi, anche 15 lastre al giorno, percorrendo la città per aree omogenee o limitrofe, combinando esaustività della documentazione ed economia degli spostamenti, seguendo cioè percorsi che sembrano determinati non tanto da una committenza precisa quanto da un progetto individuale, al quale non sembrano però essere estranei i precisi interessi e la rete di relazioni del nipote Ugo Alessio, che in questi anni frequenta l’Accademia Albertina diplomandosi professore di Disegno Architettonico nel 1925.[42] A molti di questi edifici vengono  dedicate serie costituite da numerose immagini, come accade per la chiesa dei Santi Martiri o per il Duomo, di cui -oltre alle importantissime riprese della navata principale realizzate prima della cancellazione totale della decorazione- il fotografo indaga l’architettura e la presenza urbana, con inquadrature singolari e sapienti, a volte tanto poco ortodosse quanto efficaci (B75/64), segnate da un accorto uso dei rapporti tra luce ed ombra per presentare l’articolazione dei volumi minori del fianco destro (P21/17) oppure ancora ricorrendo alle affascinanti riprese zenitali (B75/129), fino ai notturni dal campanile e della facciata, questi datati al maggio 1930 in occasione della ostensione della Santa Sindone,  nei quali ancora una volta si riconferma l’interesse del fotografo non tanto per la cronaca dell’evento quanto per le modifiche ambientali che questo induce (le transenne, le tracce del  flusso di movimento della folla).[43] L’interesse per l’architettura e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, quindi anche per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, risulta chiaro nelle opere dedicate al cortile a portico e loggiato del palazzo dell’Università torinese, nelle quali al rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa (ripetizione dello stesso punto di vista in punti corrispondenti sui due piani, perfettamente allineati secondo un asse verticale) si affiancano immagini più affascinate dal gioco chiaroscurale consentito dagli stessi elementi architettonici, tema su cui lavorerà a lungo ottenendo risultati soddisfacenti, come per Austerità (RA/80) presentata all’Esposizione di Fotografia di Stoccolma nel gennaio 1934 e per Università  (RA/79) esposta a Bruxelles nel 1935 nell’ambito del XIV Salon organizzato dalla Association Belge de Photographie et Cinematographie, esempi di quel possibile connubio tra documentazione (architettonica) e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento. “La fotografia architettonica non può essere fotografia artistica -afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal  Photographic Society di Londra,  nel 1925- essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”, affermazioni pesanti queste, alle quali tenta di far fronte J.R.H. Weaver quando afferma che “nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[44]

In questo periodo la posizione di Gabinio così come ci appare dalla lettura delle sue opere si mantiene in bilico tra le due posizioni ed è semmai orientata verso una concezione della fotografia quale riproduzione della realtà esterna, documento tanto più oggettivo quanto più tecnicamente corretto e magistralmente realizzato, con un orgoglio del fare che guarda alla tradizione dell’artigiano piuttosto che  all’artista, al mestiere del fotografo se non alla professione. “Rimettere in collezione” afferma l’iscrizione  apposta la verso di una stampa del 1925, suggerendo  la presenza di un repertorio prodotto con destinazione commerciale, al quale fanno pensare anche altri indizi sparsi quali i numeri d’ordine o le indicazioni di classificazione presenti in alcune stampe dello stesso periodo e le prime tracce di pagamenti ottenuti da committenti occasionali, incontrati forse durante le peregrinazioni fotografiche per le vie della città. Il lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, già affrontato da Alberto Charvet nel 1888 ancora in relazione con Brayda[45], qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento posto a sottolineare la posizione del punto di fuga.

Appartengono allo stesso periodo anche le fotografie dei piccoli caffè ed alberghi del vecchio centro, non i caffè ‘storici’ della tradizione torinese ma quelli che allora animavano le strade dell’antica città quadrata e contribuivano a definirne l’identità ambientale. Anche qui non è opportuno parlare semplicisticamente di nostalgia, è necessario invece riconoscere un’intenzione ed un sentimento più complessi, condivisi da una larga ed eterogenea porzione della scena culturale torinese della seconda metà del decennio. Le vedute urbane si muovono tra le strade anguste del nucleo antico (B103/4) e le sponde del Po, con il ponte ad articolare il dialogo tra la città e la collina con le sue presenze architettoniche (B77/122, B91/9) mentre la parte più aulica della città viene quasi trascurata. Sono gli stessi soggetti che si ritrovano nell’esposizione di “Vedute di Torino” promossa nel 1926 dalla “Società di Belle Arti A. Fontanesi”, a cui partecipano tutti gli esponenti del fronte figurativo torinese insieme ad architetti come Annibale Rigotti, Alberto Sartoris, membro della Commissione Ordinatrice, ed al giovane Aldo Morbelli, ancora studente,  con una serie di schizzi architettonici di temi e soggetti che si ritrovano nel lavoro che Gabinio compie negli stessi anni, noto anche ad un altro degli artisti presenti in mostra, l’incisore Francesco Mennyey, al quale il fotografo cede alcune vedute realizzate negli anni  immediatamente precedenti.[46] Sono i temi consueti della Torino antimodernista (“Noi moderni per i quali ogni arte è buona” dice Ceradini nel 1925)  contro i quali si scaglia Fillia nella recensione alla mostra: “[Nessuno] ha interpretato gli elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne (…) Sembra che il pittore sia un essere insensibile, fuori del tempo, legato alla tradizione borghese della città, senza contatti con la vita (…) Una Torino quasi gozzaniana, dunque, in utrilliane elegie” (citato in Dragone, 1976, p.112), la stessa che si ritrova due anni più tardi nella serie dedicata alla “Vecchia Torino” da Marcello Boglione[47], ancora una volta ripercorrendo i luoghi,  intersecando i passi di Gabinio.

Una più accorta e impegnativa attenzione per le architetture storiche, ed una ulteriore occasione di confronto e di riflessione per Gabinio, è costituita sul medesimo scorcio dell’anno 1926 dalla “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tiene a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e Giovanni Chevalley sotto la presidenza di Carlo Nigra, la mostra presenta “un complesso di materiali di eccezionale interesse e non sempre facili da riunire e ordinare (…) gran copia di disegni di antichi architetti piemontesi e disegni e fotografie di cospicui edifizi della regione subalpina dal romanico all’800”[48] tra cui una importantissima retrospettiva dell’opera di Secondo Pia. Le architetture che Gabinio fotografa in questi anni,  e le scarse annotazioni presenti al verso di alcune stampe confermano una attività professionale non altrimenti documentata e smentita dallo stesso ricordo di coloro che lo conoscevano (Alessio, 1939, p.34) e la presenza di precise committenze per ora ignote. Conclusa la documentazione del patrimonio storico architettonico urbano si dedica alle architetture religiose della collina ma soprattutto alle nuove realizzazione, infrastrutturali o simboliche che tentano di porre un argine alle tensioni sociali determinate dalla crescente disoccupazione  connettendole  alle celebrazioni per il decennale della vittoria (il ponte Vittorio Emanuele III ora Balbis al Pilonetto (B92/86 E SEGG), su progetto di Giuseppe Pagano e il Faro della Vittoria al Colle della Maddalena)  ed agli altri  importanti cantieri aperti in città alla fine del decennio quali il ponte Principi di Piemonte in zona Sassi, ancora di Pagano (B92/27 E SEGG),  e  la demolizione di parte dell’antico Arsenale, per i quali organizza documentazioni minuziose e concettualmente innovative che seguono ogni fase dei lavori alternando vedute di insieme e dettagli costruttivi, introducendo per la prima volta l’elemento dinamico nel proprio lavoro (P16/15-18).

Il consolidamento dell’attività professionale sembra dargli sicurezze nuove e nel 1928 Gabinio partecipa individualmente per la prima volta ad un concorso, quello dedicato a “Le belle fotografie di Torino”, promosso dal “Corriere Fotografico” tra i propri abbonati, vincendo uno dei premi minori con la veduta Dal campanile del Duomo verso piazza Castello,  che sarà successivamente pubblicata nel numero unico dedicato a Le Esposizioni e i festeggiamenti di Torino nel 1928 (Commissione Propaganda, 1928, p.11) ma soprattutto gli frutta i primi contatti con la redazione della rivista municipale “Torino” (Avigdor, 1981, p.170) con cui collaborerà fino alla morte, pur senza mai ottenere di poter firmare le proprie immagini.

L’Amministrazione Comunale torinese è in questi anni particolarmente attenta ai temi della fotografia sia come settore di formazione professionale sia come strumento di documentazione e propaganda della propria attività. Per iniziativa di Alfredo Laezza, segretario della Società Fotografica Subalpina,  nel 1929 viene istituita dalla Città di Torino la Scuola di Avviamento Fotografico G. Pacchiotti “a beneficio di coloro che intendono dedicarsi all’arte ed al commercio fotografico” introducendo per la prima volta nel programma dei corsi anche l’insegnamento di Storia dell’Arte[49], mentre risale al 1931 l’istituzione della Fototeca Municipale allo scopo di “seguire e fissare nella documentazione fotografica lo sviluppo urbanistico in genere e sotto l’aspetto estetico dell’edilizia in ispecie (…) sia ancora per seguire l’andamento e lo sviluppo di opere pubbliche eseguite dal Comune o dei lavori edilizi privati (…) analogamente a quanto viene praticato dai grandi comuni del Regno. [Specialmente] con l’occasione dell’imminenza dei lavori di risanamento dei quartieri adiacenti via Roma e dell’esecuzione di altre numerose ed importanti opere di pubblico interesse (…) è opportuno deliberare subito la formazione della raccolta delle fotografie interessanti la vita cittadina”.[50]

 

È  in questa prospettiva che va collocata l’importante documentazione fotografica realizzata da Gabinio nei primi anni Trenta, seguendo il cantiere di Via Roma nuova ma documentando anche singole realizzazioni architettoniche su commissione diretta delle società proprietarie (Società Reale Mutua Assicurazioni, Istituto San Paolo)  o di architetti come Armando Melis e Alberto  Ressa. È specialmente il tessuto urbano interessato dai lavori per il primo tratto (1931-1933) ad attirare l’attenzione di Gabinio, nuovamente intento ad indagare le mutazioni, il passaggio dall’antico al nuovo, dalla tradizione al moderno, gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi” come diceva Benjamin nello stesso 1931 analizzando Atget[51]. L’enorme cantiere è seguito passo passo con la preoccupazione -in lui consueta- di fornire una informazione esaustiva.   Le vedute d’insieme delle prime demolizioni si alternano alla documentazione delle preesistenze per lasciare quindi spazio agli scavi, in particolare quelli per la “metropolitana”, osservati con una sapienza di sguardo che coniuga felicemente documento e ricerca compositiva; una fotografia diretta, pura, che produce immagini eleganti e raffinate dalle quali traspare il fascino ambiguo esercitato da queste architetture nuove, quasi posticce, scenografiche (B71/44), meno interessanti dei padiglioni provvisori costruiti in piazza San Carlo (B103/21, 23).

Le fasi di realizzazione del secondo tratto (1935-1937) sono documentate in modo meno esaustivo. Gabinio è ormai ammalato ma -crediamo- in questi anni è più  interessato alla esplorazione del linguaggio  fotografico. La fotografia  pura si affianca alle manipolazioni che gli consentono di proporre una propria visione di Via Roma nuova adottando la tecnica del fotomontaggio (B68/30), assolutamente eccezionale per lui, in cui per un semplice gioco di ribaltamento, di rispecchiamento della figura, la prefigurazione della nuova strada assume quei caratteri di regolarità e decoro che il progetto prevedeva pur conservando miracolosamente intatte le proprie architetture. Qui la città viene reinventata o mostrata nella lacerazione delle sue ferite che le danno “quell’aspetto di Dunkerque” che nemmeno le demolizioni dell’ultima guerra le avrebbero inflitto (Gabetti, Olmo, 1976, p.28); come già accadeva per le immagini di montagna è al panorama che viene affidato il compito di restituire in modo esauriente, massimamente oggettivo, il quadro della situazione (B71/140-143).

Il lavoro più interessante prodotto in questi anni è però quello legato alla documentazione dei due importanti cantieri promossi dalla Reale Mutua Assicurazioni, la sede centrale in via Corte d’Appello (1932)  e la “torre littoria” (1933-34), compresa nella ricostruzione dell’isolato di San Emanuele, entrambi eseguiti su commissione della Società in concomitanza con altri professionisti torinesi quali Pedrini e Ottolenghi[52], ciò che conferma ulteriormente la relativa notorietà professionale raggiunta da Gabinio in quegli anni. Il dato per noi più interessante è però fornito dalle stesse fotografie, che denunciano esplicitamente il fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontato con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana (A31/64) che solo in rari casi si traduce troppo esplicitamente nella  ricerca retorica e ingenua dei Contrasti (CN/51). Qui la cultura fotografica che emerge non è di certo quella dei Salon torinesi o di Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorata ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che Gabinio conosce certamente per il tramite del nipote Ugo Alessio, che ospita dopo una prima, importante, recensione del volume Photographie prodotto dalla rivista parigina “Arts et métiers graphiques”, pubblicata nell’aprile del 1932, nel maggio dello stesso anno l’importante  Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, il quale riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”.[53] L’affermazione di questa autonomia è poi sostenuta e illustrata nella rubrica di fotografia che compare saltuariamente nei numeri successivi almeno fino ai primi mesi del 1933;  in perfetto accordo con la linea espressa dalla rivista, la selezione di fotografie industriali o di oggetti, di “cose”, non si rivolge tanto alla produzione europea di matrice costruttivista e razionalista quanto piuttosto alla sua declinazione statunitense, posta sotto l’influenza di Charles Sheeler e  conservando traccia del fascino che l’America aveva esercitato alcuni anni prima su Erich Mendelsohn.  Quanto autorevole fosse per Gabinio l’esempio costituito dalle fotografie pubblicate sulle pagine di queste riviste lo dimostrano alcune immagini della serie dedicata al palazzo dell’Opera Pia San Paolo di Torino (1934), in particolare quelle dedicate alla scala elicoidale, in cui sempre più chiaramente assistiamo alla riappropriazione da parte del fotografo del puro dato documentario, sul quale opera per variazioni tanto lievi quanto significative (B69/49), costruendo una realtà esplicitamente fotografica.[54]

 

Nuove visioni di Torino titola Gabinio nel 1931 una veduta di piazza Castello ripresa dalla cupola della chiesa della SS. Trinità (P13/5)  e definisce con questo solo titolo gli anni della sua svolta. È una sintetica dichiarazione di intenti. L’immagine non si discosta di molto dalle numerose altre sue fatte a partire dalla metà degli anni Venti; l’inquadratura è ancora ortodossa, perfettamente allineata all’orizzonte, ma le luci si fanno taglienti e ciò introduce  un’inquietudine nuova, inattesa, che dà senso al titolo: ciò che muta è l’intenzione dello sguardo se non ancora -ma per poco- la sua strutturazione in immagine. È per noi  il segnale dell’avvenuta conoscenza e dell’accettazione di una nuova concezione dell’immagine che si sta formando e diffondendo in quegli anni e della quale la “nuova visione” costituisce la parola d’ordine, il motto internazionale, che trova nell’esposizione Film und Foto di Stoccarda nel 1929 la propria celebrazione, diffuso in Italia da interventi quali  L’ora presente della fotografia di Wilhelm Kastner, pubblicato ne “Il Corriere Fotografico” dello stesso anno (Zannier, 1993, p.38) e ripreso nel 1931 da un altro torinese, Piero Boccardi, che presenta alla Mostra di Fotografia Futurista una  sua Visione torinese.[55] Se escludiamo alcuni panorami della città dal Monte dei Cappuccini, realizzati per incarico della Fototeca Municipale nei quali il tema ancora una volta è, al di la delle apparenze, la Torino che scompare, opere come Dall’alto, 1933, (RA/83) incarnano consapevolmente gli indirizzi dell’estetica  nuova: “L’importante è il come un oggetto viene considerato -afferma ancora Kastner- in quale posizione si trova rispetto all’apparecchio, da qual punto di vista lo si percepisce”,  al quale fa eco Antonio Boggeri sulle pagine di Luci ed Ombre dello stesso anno quando riconosce tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della nuova fotografia “la scelta del soggetto, la sua illuminazione e il punto di vista dal quale colpirlo” (citato in Luci ed Ombre, 1987,p.110), entrambi intenti a divulgare gli insegnamenti di Lazlo Moholy-Nagy.[56]

I suggerimenti e le suggestioni che gli provengono dalla cultura architettonica sono certo determinanti per il rinnovamento del suo linguaggio fotografico ma a questi deve essere accostato il preciso impegno scolastico che Gabinio assume verosimilmente in relazione alle necessità di aggiornamento che gli derivano dai suoi incarichi professionali. Nonostante abbia alle spalle una carriera quarantennale, sempre vissuta modestamente ai margini della comunità fotografica ma tutt’altro che povera di riconoscimenti, egli si iscrive nel 1928 ai Corsi promossi dalla Sezione Fotografica dell’Unione Escursionisti ALA (“Ad Liberas Alpes”, da non confondere con la più antica Unione Escursionisti Torinesi) che nel secondo semestre del 1933, per iniziativa di circa sessanta membri darà vita alla Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura,  che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana). Tra i vari  scopi l’Associazione   si prefigge di “guidare i Soci attraverso lo studio pratico della fotografia promuovendo manifestazioni culturali (…) esperimenti e dimostrazioni (…); promuovere mostre personali e collettive (…); creare gradatamente il più grande numero possibile di elementi idonei a presentare opere d’arte fotografica alle esposizioni nazionali e, principalmente, a quelle estere dove sempre più dovrà affermarsi l’arte fotografica italiana.” (citato in Avigdor, 1981, p.165) secondo un programma che risente palesemente delle direttive imposte dal regime fascista, qui ben rappresentate dalla figura di Mario Bellavista, consulente tecnico dell’associazione e rappresentante della società Gevaert. A dimostrazione dei consistenti appoggi di cui gode, la stessa Associazione pubblicherà a partire dal settembre 1934 il periodico “Pagine Fotografiche ALA”, stampato in migliaia di copie e distribuito gratuitamente.

Il II Corso, di perfezionamento, che vede tra i docenti oltre a Bellavista anche Alfredo Laezza, Oreste Castagneri e Domenico Riccardo Peretti-Griva, cioè una buona rappresentanza di esponenti della tradizione con alcune aperture “moderniste”,  si conclude nel 1933 con una premiazione da cui Gabinio risulta escluso pur figurando tra gli iscritti, né pare che si debba all’iscrizione all’ALA la sua partecipazione alla “I Mostra di Arte Fotografica del paesaggio e dei monumenti di Aosta e Provincia” del 1932, organizzata da Jules Brocherel e suddivisa in cinque sezioni, (archeologia, arte, folklore, scienza, turismo) che vede tra gli espositori anche Italo Bertoglio, Achille Bologna, Cesare Giulio e Mario Prandi mentre della Giuria fanno parte Cesare Schiaparelli, Emilio Zanzi e Antonio Valli. Gabinio, che partecipa a quattro sezioni risultando  primo classificato in quella dedicata all’archeologia, sceglie di presentare in questa occasione ancora immagini di taglio tradizionale, sia ingrandimenti da lastre realizzate a cavallo del secolo sia riprese nuove, datate al 1931 e 1932 ma compositivamente assimilabili ai canoni ottocenteschi (CN/22) e non a caso premiate e pubblicate. Le caratteristiche delle sue fotografie ricche di dettagli tornano ad essere apprezzate in questi anni di incerto abbandono del gusto pittorialista e Gino Sansoni recensendo la mostra arriva a contrapporre Gabinio “ottimo fotografo molto nitido e preciso, nemico di ogni ricercatezza” al “pizzico di leziosità” di Bologna e in genere di tutti quei fotografi che “per la meticolosa raffinatezza e ricercatezza dell’esecuzione, con l’abuso del ritocco, con l’esagerata sfocatura [si sono] un poco discostati dalla natura forte ed a volte aspra, dei soggetti  prescelti quali sono in maggior parte quelli offerti dalle Alpi aostane”[57], offrendo un esempio di felice sintesi tra estetica fotografica e retorica della razza.

Il successo ottenuto lo spinge certo a dedicarsi con sempre maggior impegno alla ricerca fotografica ed il suo linguaggio subisce proprio in questi anni una trasformazione radicale, ben riconoscibile sia nei lavori professionali sia nelle sperimentazioni personali sebbene -come vedremo- sussistano  una insicurezza di fondo ed un desiderio di  omologazione che gli impediscono di presentare pubblicamente le prove più avanzate, nella consapevolezza della distanza esistente tra queste ed il panorama offerto dalla produzione amatoriale ma anche nella volontà ostinata di voler entrare a far parte, ad ogni costo, della comunità dei fotografi da Salon.

Dopo la grande Esposizione del 1923 Torino vede un susseguirsi quasi ininterrotto di occasioni espositive, prevalentemente nate dalla collaborazione tra il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e la Società Fotografica Subalpina.

Nel dicembre 1925 apre il “Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale” con la partecipazione di 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalano Bragaglia, Sella e Wulz mentre il panorama straniero spazia da Drtikol a Mortensen, a Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo che sconcerta il critico de “La Stampa” Ugo Pavia, il quale dopo l’ennesima riproposizione del luogo comune delle fotografie che “possono essere scambiate per veri quadri” rileva la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  “questi artisti-fotografi futuristi, anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori” mentre giudica negativamente la partecipazione francese (“il materiale inviato è di scarso interesse artistico”) ciò che parrebbe una prima presa di distanza dal gusto pittorialista se non fosse per l’apprezzamento manifestato per l’opera di Léonard Misonne.[58]

Il 1928 vede un pullulare di manifestazioni che si affiancano alla “Esposizione per il IV Centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria” dove il padiglione della “Comunità dei fotografi” è progettato da Gigi Chessa[59], ma la ricchezza delle proposte risulta solo di ordine quantitativo ed il panorama proposto riconferma univocamente la tendenza pittorialista, negando le aperture che avevano caratterizzato il “I Salon”.

Per incontrare proposte diverse si deve attendere il 1930, quando al “Terzo Salon Italiano d’arte fotografica Internazionale”, vengono esposte -pur in un panorama quantitativamente ridotto rispetto alle edizioni precedenti- alcune opere che indicano direzioni nuove di ricerca come Uova, una natura morta di Achille Bologna, Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli e L’onda dell’americano K. Nakamura, un efficace studio di forme derivato dal movimento delle acque, che propone un atteggiamento inedito per il panorama torinese e sul quale Gabinio ha certamente riflettuto, profondamente diverso da quanto teorizzato poco tempo prima da Cesare Schiaparelli, per il quale “l’uomo, il fotografo che va in giro per diletto, si ferma più volentieri presso l’acqua morta. Perché? Perché la vista delle cose immote riposa l’anima e il corpo. E noi, dopo le diuturne e grandi e piccole battaglie della vita, cerchiamo il riposo. E poi è così suggestiva l’acqua che si ferma a dormire all’ombra delle piante nei silenziosi recessi! (…)  Da questo mistico sposalizio della forma della pianta colla superficie dell’acqua ferma, nasce in noi quel senso di intenerimento, di distensione dei nervi, di calma dello spirito che dà la vista delle cose solitarie, immobili e silenti, come l’audizione di un notturno o di una sinfonia in tono minore” (Schiaparelli, 1928, p.293). È  il contrasto tra la quiete piccolo borghese e l’inquietudine dei tempi nuovi, che produce, anche in ambito fotografico, il suo piccolo fuoco d’artificio con la “Mostra sperimentale di fotografia Futurista” che si tiene a Torino nel 1931 dopo la prima, ridotta,  edizione romana dell’anno precedente: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”. La presentazione di Giuseppe Enrie, fotografo torinese che nello stesso anno realizza una nuova ripresa della Sindone,  inquadra bene le spinte contraddittorie e le realizzazioni sovente ingenue che si ritrovano in questa tendenza alla quale molti (Bertieri, Castagneri, Enrie e lo stesso Parisio) sembrano aver aderito in modo episodico, ormai distante dalle tendenze rivoluzionarie espresse del primo futurismo e dalla prime fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, ma il Manifesto della Fotografia Futurista  che Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) lanciano in questa  occasione contiene comunque una serie di suggestioni affascinanti e ricche, che certo hanno contribuito al formarsi in Italia di una nuova concezione della visione: “Il dramma degli oggetti (…) Il dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi. La spettralizzazione di alcune parti del corpo umano (…). La fusione di prospettive (…). La fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso (…) Le drammatiche sproporzioni (…). Le amorose o violente compenetrazioni (…)” (citato in Fillia, 1932, p.101)  costituiscono altrettante nuove, e dirompenti, “possibilità fotografiche” contro le quali si scaglia Guido Lorenzo Brezzo nel testo di apertura dell’annuario del “Corriere Fotografico”  dello stesso 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica. Stabilito che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).” (citato in Luci ed Ombre, 1987, pp.134-135)

Ulteriori segnali di rinnovamento provengono dalle opere presentate al “Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra dilettanti” che si tiene sempre a Torino nel maggio-giugno 1933, con presenze interessanti come Ferruccio Leiss, Fosco Maraini, Alfredo Ornano e Bruno Stefani, oltre ai cecoslovacchi Jan Lauschmann e Jiri Jenicek. Per Italo Mario Angeloni, che la recensisce sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” “c’è in questa Mostra il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso” (Angeloni, 1933, p.252) ma anche, almeno per i migliori espositori italiani, la preoccupazione per  un problema: “quello della semplificazione”.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi,  sempre sulle pagine di Luci ed Ombre, Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”.[60] Sono termini (e forse concetti) che si prestano  a sottili slittamenti di senso, ciascuno dei quali connota -e distingue in parte- le diverse posizioni. Così l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire” e Luigi Andreis, poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale” rivelando infine l’ideologia nazional-popolare sottesa, che si traduce in  richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926 -ciò che sembra inserire rimandi ad un’estetica diversa e lontana da quella a cui si ispirava ad esempio Boggeri- la necessità di “inquadramento sindacale delle forze artistiche ed intellettuali” allo scopo di “creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.”[61]

 

La trasformazione del linguaggio fotografico di Gabinio nel corso degli anni Trenta risente e riflette queste diverse influenze, in qualche modo assumendole e conciliandole contraddittoriamente nella propria opera.

Già si è detto del ruolo, importante, della cultura delle riviste di architettura ma nelle sue fotografie troviamo anche riferimenti e rimandi espliciti ad opere presentate alle mostre torinesi. Un primo esempio palese è La macchina da caffè (B106/54), insieme autoritratto e registrazione analitica del fascino moderno del metallo cromato della macchina, che costituisce una citazione quasi letterale de La tazza di caffè che Giulio Parisio presenta alla “Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista” del 1931, visitata da  Gabinio forse in compagnia di Oreste Castagneri, presente con tre opere e suo docente alla Scuola Fotografica ALA, ma anche l’altra coppia di autoritratti, più tarda,  (B103/27, B106/75) pur richiamandosi alle distorsioni anamorfiche di Louis Ducos du Hauron  e di Léon Gimpel, vive dello spirito ‘sperimentale’ della fotografia futurista.  Meno semplice risulta ricostruire la sequenza di rimandi che lo porta a realizzare la fotografia dei Due lattonieri su di una scala (B102/101) dove  i riferimenti evidenti vanno cercati  ben oltre i confini torinesi e italiani, e sono Moholy-Nagy (Navigazione, 1926-27) e soprattutto Rodcenko (Sulla grande scala, 1927)  anche se -come rilevava Andreina Griseri in tutt’altro contesto- anche noi possiamo dire che semplicemente “poteva aver captato un esempio eccitante, un’idea decisiva, sul filo della concentrazione (…). Dire «poteva aver estratto» toglie ogni legame di necessità all’ispirazione, ogni derivazione precisa da fonti: era il legame che unisce chi appartiene ad una cultura complessivamente unitaria, parla il medesimo linguaggio artistico, e lavora verso direzioni non contrastanti.” (Griseri, Gabetti, 1973, p.66)

Queste realizzazioni convivono con altre di impianto meno radicalmente innovativo ma ormai saldamente ancorate al moderno, quel recupero della fotografia pura che per Gabinio è solo consapevolezza nuova di una forma espressiva mai abbandonata. I due ritratti della  Ragazza col gatto  (B111/19) e dell’Uomo al mercato (P38/19) sono esempi riusciti di quel processo di semplificazione riconosciuto come elemento sostanziale della nuova fotografia, mentre dai contemporanei ritratti del compagno delle ultime  escursioni (B120/107, B106/50)  trapela una attenzione, una cultura d’immagine che tiene conto delle più autorevoli esperienze della scena pittorica torinese, senza per questo porsi alcun obiettivo di imitazione o di rifacimento.

È una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che si ritrova anche nelle immagini dedicate alle acque,  tema a lui caro fin dalle prime fotografie di cascate alpine realizzate sul finire del secolo. Basta confrontare il fascino melanconico della Veduta della città dal Po (RA/47), sapientemente sottolineato da un appropriato viraggio, con la bella serie -realizzata nello stesso sito- dei gorghi alla diga Michelotti (B92/44-50) dove l’indagine assume la forma della variazione sul tema del contrasto tra la fissità della struttura metallica e  le forme continuamente cangianti dell’acqua, quelle stesse che  ritroviamo ancora in Po,  1935 (RA/76), rappresentazione di quell’”acqua catramosa, rapida in improvvisi luccichii”  che avrebbe descritto Giovanni Arpino molti anni dopo.

L’attivissima Associazione Fotografica ALA ha tra i propri scopi quello di “contribuire fattivamente all’ascesa culturale e organizzativa dell’amatore fotografo italiano che dovrà fascisticamente riuscire, in brevi anni, a conquistare quel posto che gli spetta nel campo delle competizioni artistiche internazionali”[62] e l’adesione consente a Gabinio di partecipare fin dal 1934 alle esposizioni di Sopron in Ungheria, Stoccolma e Vienna[63] con una decina di opere che rappresentano un panorama esauriente del suo nuovo corso, dalla riproposizione in senso luministico di soggetti già affrontati nel decennio precedente come Austerità (RA/80), alle immagini caratterizzate dalla ‘modernità’ del punto di vista come Dall’alto (RA/82) sino al tema per lui nuovo della natura morta, specialmente di frutta e verdure riprese al mercato, genere che gode di grande fortuna nella produzione pittorica di questi anni ma qui affrontato sulla scia di Achille Bologna, che realizza immagini con identico trattamento del soggetto: non composizioni in studio ma “oggetti trovati” e rielaborati fotograficamente in fase di ripresa e soprattutto di stampa. Il soggetto viene progressivamente isolato, reinquadrato mediante maschere in carta leggera, ricavate da fogli di quaderno, che consentono anche rotazioni dell’asse compositivo, per “forzare lo sguardo all’arresto” (Marbot, 1989, p.151)  ed esaltare il motivo, sottolineato ancora dagli ultimi e definitivi interventi legati alla scelta della carta ed ai viraggi di intonazione cromatica, alla ricerca di un preziosismo anche materico della stampa finale (RA/30) che costituisce per Gabinio una concessione tarda al pittorialismo.

La partecipazione prosegue nel 1935 (Bruxelles, Londra, Johannesburg, Ottawa, Parigi) ma le opere presentate testimoniano l’emergere dell’attenzione per soggetti diversi: dalla sontuosità quasi barocca delle Uve e delle Pesche si passa alle “cose più modeste e comuni” di cui parlava Boggeri nel 1929, “interpretate con desiderio di penetrarne la segreta personalità, la solitaria poesia” (citato in Luci ed Ombre, 1987, p.111). Sono le Maioliche (RA/21) e i Piatti (RA/19) presentati alla “Prima esposizione fotografica sociale ALA”, inaugurata il 15 marzo 1935 nei locali del Salone della “Stampa” alla presenza del Vice Segretario Federale Ing. Cavallari Murat, accompagnato da Alfredo Laezza, Cesare Schiaparelli ed Edoardo Rubino. L’insieme delle  189 opere di 41 autori diversi è caratterizzato dall’eclettismo delle tendenze e dal sincretismo delle opere: “C’era una infinita gamma di personalità che colpiva enormemente anche come problema psicologico. Molte delle opere esposte destavano una ben viva curiosità di conoscere personalmente l’artista, per ricercare in esso l’anima dell’autore” afferma Peretti-Griva nella breve presentazione al catalogo prima di passare in rassegna le immagini più significative, senza peraltro riferirsi esplicitamente ai singoli autori. “Ecco [di Gabinio] gli umili  piatti in fila, che attendono l’umile acquisitore dall’umile mensa, che stanno a individualizzare col linguaggio, talora terribile, delle cose inanimate, tutta una vicenda sociale”[64]. Già Avigdor ha fatto a suo tempo notare come Peretti-Griva sia “molto lontano dal cogliere la novità dell’operazione”, questo taglio diagonale della composizione che si richiama senza indecisioni alla nuova fotografia, ma la questione appare più complessa, e certo la nostra valutazione va fondata, per quanto possibile, sulla considerazione e sulla comprensione dello sguardo coevo, sulla compresenza di tendenze e interpretazioni che possono apparire contraddittorie e tenendo conto anche della concezione, nostra, di un moderno a tutto tondo che costituisce uno dei miti,  quindi  una delle mitologie del secondo Novecento.

“Quanto più la crisi dell’attuale ordinamento sociale dilaga -dice Benjamin nel 1931- e quanto più i suoi singoli momenti si oppongono rigidamente secondo una morta contraddittorietà, tanto più la creatività -che nella sua sostanza più profonda è una variante, figlia della contraddizione e dell’imitazione- diventa un feticcio, la cui fisionomia vive soltanto in virtù dei cambiamenti dell’illuminazione, determinato dalla moda. Il mondo è bello: questo è il suo motto. Questo motto smaschera l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la totalità del cosmo un qualunque barattolo di conserve, ma non è in grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si presenta e che così, anche quando affronta i soggetti più gratuiti, è più una prefigurazione della loro vendibilità che della loro conoscenza” (Benjamin, 1966, p.75). L’attacco portato alla fotografia pubblicitaria così come alla “Nuova Oggettività” ed a Renger-Patzsch in particolare, noto anche in Italia almeno per la sua partecipazione alla “Mostra internazionale della fotografia” di Milano del 1933,  riporta in primo piano la questione della relazione forma-contenuto o meglio le possibilità e intenzioni, di produzione e lettura critica, delle immagini in termini narrativi o puramente compositivi. Peretti-Griva, non riconoscendo la novità della forma e sottolineando il significato del contenuto, attribuisce a quell’immagine il valore di una “fotografia costruttiva”, avvicinandosi forse maggiormente, più di quanto noi non si sia in grado di fare, alle intenzioni di Gabinio, che nel 1932 aveva intitolato Umiltà un’altra fotografia di stoviglie (RA/20).[65]

Il problema della comprensione critica della sua produzione ultima è reso più complesso, meno facilmente risolubile, dall’analisi di altre serie fotografiche coeve, più esplicitamente derivate da una ricerca formale aggiornata sulle più avanzate esperienze europee degli anni Venti e mai proposte in esposizioni o concorsi ma da lui stesso raccolte in una cartella di “Saggi scelti” che porta la data del 23 aprile 1936. Sono, insieme a quelle già segnalate, fotografie tutte costruite su forti elementi di geometrizzazione del soggetto, ottenuti vuoi per astrazione di un dettaglio, come il particolare del portale della nuova sede della Cassa di Risparmio di Torino (B65/9), a partire dal quale realizza un puro esercizio stereometrico, un’analisi dei rapporti tra luce e volume in cui la materia perde la propria rilevanza e le relazioni contestuali sono annullate, vuoi giocando sulle relazioni grafiche tra linee del soggetto e margini dell’inquadratura, come nelle riprese dello scalone della chiesa della Gran Madre di Dio (B76/166, 169), che richiamano, forse attraverso la mediazione di Bologna e Bertoglio ma qui in modo più graficamente preciso, una delle serie più note di Rodcenko, realizzata nel 1930.[66] Accanto a queste, e nello stesso ambito di influenza tra costruttivismo e nascente fotografia pubblicitaria, vanno poi collocate fotografie come Lavori per la posa di cavi, 1930c. (B106/4) e le Reti metalliche, 1935c. (B106/52), così come il gioco di riflessi e rimandi iconici della Vetrina, 1930c. (B84/7), raro esempio di attenzione per i segni della cultura urbana letta nella sovrapposizione delle sue tracce, nella costruzione dell’immagine per compresenza di segni che deriva  dalla tecnica del collage e del fotomontaggio.

I segni più evidenti di una riflessione avanzata sulla fotografia, le reali “nuove visioni” prodotte da Gabinio, si ritrovano nel gruppo di immagini che hanno esplicitamente per tema la luce, progressivamente riconosciuta quale esplicito fondamento costitutivo del linguaggio fotografico. Le prime prove risalgono alla metà degli anni Venti e già indicano un passaggio significativo da una concezione della luce quale  segno simbolico, come nell’Interno della chiesa dei Santi Martiri (B77/11), alla luce come valore autonomo, segno autoreferenziale che ritroviamo nell’astrazione del ritmo luminoso ricavato dal buio di una casa a ballatoio (B83/24) e nelle due vedute dal Lungo Po (B91/64, 65) nelle quali, contrariamente a quanto accade per i più consueti notturni, la traccia luminosa dei lampioni sull’acqua si trasforma in puro elemento di modulazione della superficie fotografica, liberato da ogni contingenza, posto a confronto con un segno di luce tracciato dal fotografo di fronte all’obiettivo; una dichiarazione palese, nel corpo dell’opera, dell’autonomia dell’immagine fotografica. La ricerca prosegue con la ricca serie realizzata nell’atrio ottocentesco di palazzo Carignano il giorno di Natale del 1932 (RA/87, 88). Qui i raggi luminosi trasformano percettivamente lo spazio modificandone la figurabilità, si sovrappongono al disegno degli elementi architettonici facendone emergere alcuni e relegandone  altri in masse appena distinte, segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico, condotta analizzando le sottili variazioni introdotte dal modificarsi di uno solo dei due termini del discorso, la luce appunto, mentre la scena architettonica rimane sostanzialmente immutata e trattata secondo i più rigorosi canoni previsti dal “genere”: nessun punto di vista inconsueto, nessun taglio forzato, affinché tutta l’attenzione possa essere concentrata sulle modulazioni luminose.[67]

Questa ricerca prosegue ancorandosi liberamente a precise occasioni di committenza come in Sera sullo stadio, 1933-35 (RA/92),  o nella serie sul sottopasso al Lingotto, 1933 (B80/25, B80/36), nella quale cade ogni distinzione tra documentazione e sperimentazione formale, questa applicandosi a quella nella produzione di pura fotografia.   La raggiunta consapevolezza della propria padronanza linguistica è evidente nei diversi passaggi che conducono dalla ripresa alla stampa finale della veduta di Via Pietro Micca vista in controluce dall’alto, del 1933 (RA/84) che rimanda senza incertezze a opere quali  Unheimliche Strasse I  di Umbo (1928) e Kleiner Platz in Alt-Berlin di Raoul Hausmann (1931). L’originaria ripresa dall’alto di Palazzo Madama  viene tagliata per eliminare la striscia di cielo ed accrescere il peso delle masse nere, incombenti, dei palazzi così da accentuare l’isolamento della piccola figura in primo piano, presenza umana priva di fisionomia riconoscibile, ai margini della moderna città delle macchine.

E’ un esempio compiuto di quella fotografia contro cui si scaglia Alberto Savinio dalle pagine della “Stampa”: “Cominciò il diabolico settentrione a dare un’anima alla fotografia, un cervello, un cuore, e nacque la fotografia ‘pensosa’. Si scrissero libri interi di sole fotografie, i ‘soggetti’ si ridussero a uno schematismo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’alto. L’ombra portata conobbe i maggiori successi.”[68]

1 Giro di giostra/ Zeppelin, del 1934 (B106/21) costituisce il risultato più compiuto e complesso delle ricerche di Gabinio sul tema della luce, che qui si fa generatrice di un volume, di un solido di rotazione tutto virtuale, ricollegandosi idealmente alle prime prove degli anni Venti ma  con una ricchezza di intuizioni che richiama alla mente le esperienze, più fredde, condotte in ambito Bauhaus nel corso di Walter Peterhans o i notturni di Hilde Hubbuch. È questa un’opera che appartiene di diritto alla “nuova cultura della luce” di cui parla Moholy-Nagy: “Questo secolo appartiene alla luce. La fotografia è il primo mezzo per dare forma tangibile alla luce, anche se in una forma trasposta e -forse proprio per questo- quasi astratta.” (citato in La fotografia al Bauhaus, 1993, p.117)

 

 

Lo scarto tra queste ricerche, avanzate e segrete, e la produzione inviata ai Salon si fa stridente, il divario enorme. Nel 1936, se si esclude la partecipazione all’esposizione che si tiene alla City Art Gallery di Durban con Carezze di sole, la sua attività sembra dedicata esclusivamente  alla produzione professionale per conto della rivista “Torino” e solo l’anno successivo riprende la partecipazione ai Salon (Torino, Metz,  Parigi, Chicago) presentando le consuete nature morte di frutta e di oggetti.[69]

La sua morte, avvenuta il 19 aprile del 1938 per complicanze prodotte dalla nefrite cronica di cui soffriva da tempo, passa inosservata nel mondo della fotografia torinese e Gabinio viene ricordato solo dal necrologio pubblicato dal Club Alpino Italiano mentre le sue immagini continuano ad essere sporadicamente utilizzate, anonime, dalla rivista “Torino”.

 

 

L’oblio in cui giace la sua figura cade parzialmente nel 1974 in conseguenza della mostra Torino anni ‘20: documentazione fotografica da materiali di Mario Gabinio promossa dalla Fondazione Agnelli e curata da  Giorgio Avigdor ed Enrico Nori a partire da una segnalazione di Andreina Griseri, e dalla successiva pubblicazione del volume omonimo con scritti di Aldo Passoni ed E. Nori. La definizione del titolo e gli stessi commenti -tra il nostalgico ed il rancoroso- raccolti sul registro dei visitatori danno l’esatta misura del senso dell’operazione: il tema è Torino, la fotografia è una finestra trasparente e magica, aperta su di uno spazio antico, passato, col quale si può entrare in comunicazione solo attraverso lo strumento della nostalgia. Di Gabinio quasi nessuna traccia, se non le varie e fantasiose considerazioni aneddotiche fornite da Nori alle quali pone un argine il bel testo di Aldo Passoni che individua alcuni elementi chiave del suo atteggiamento (“Gabinio, che non ha il gusto della critica”) rilevando anche le connessioni con certa produzione figurativa coeva, da Boglione a Mennyey, a certe periferie di Umberto Boccioni e di Italo Cremona, la Torino disabitata, colta sulla soglia di radicali trasformazioni, che faceva pensare ad Atget, che altri invece interpretano come una “città che muore e che avrà la sua necropoli nelle fosse scoperte di via Roma” (Carluccio, 1974, p.9) in un saggio suggestivo ma fondato su di una coincidenza equivoca, quella tra l’opera di Gabinio e le immagini presenti in mostra, accortamente scelte e scenograficamente presentate per parlare in un certo modo di una certa Torino, non del fotografo. Lo ha ben compreso allora Paolo Fossati, che registra l’impossibilità di far coincidere il sentimento di Gabinio con l’angoscia della scomparsa cogliendo “un attimo di stupore che va ben oltre la nostalgia per un ‘vecchio’ ordine distrutto (…). Sicché la tesi che ora si accredita nel libro è fatta per non convincerci, un immobilismo di fondo, culturale e morale, di Gabinio di fronte alla città in sviluppo” (Fossati, 1975). È questa l’occasione anche per riconoscere e sottolineare -nelle parole di Andreina Griseri- il ruolo fondamentale svolto dai fotografi nel documentare la storia della città, letta da Gabinio “come una natura morta di oggetti (…) fedele ad un realismo di presenze sempre rapportate a un ambiente teso, spesso disabitato o quasi (…) [indagato] con un segno che rinuncia per fortuna nostra ad ogni inflessione dialettale, approdando ad un paradigma angoscioso.” (Griseri, 1974)

All’esperienza della mostra del 1974 si ricollega esplicitamente -mutandone però radicalmente l’impostazione-  la monografia scritta da Giorgio Avigdor alcuni anni più tardi (1981)  fondata anche sulla conoscenza diretta di documenti di prima mano, oggi purtroppo in larga parte non disponibili.

La competenza dell’autore, studioso di storia della fotografia e fotografo egli stesso, consente per la prima volta di delineare la complessità della figura di Gabinio collocandola nella necessaria trama di relazioni con le culture fotografiche del suo tempo, presentando  un primo corpus di immagini che rende evidente la complessità della sua opera e le profonde trasformazioni del suo linguaggio fotografico, pur nella consapevolezza che “certamente c’è molto altro da scoprire, da conoscere e quindi da dire…”.

 

Abbiamo raccolto l’invito.

 

Note

 

[1] “Va su per le ripide costiere con una sua gabbietta a fotografie (…) ha qualcosa in sé dello scoiattolo di montagna” (Piasco, 1896, p.83). “Per immaginarselo bisogna pensare ad un frammento di roccia miracolosamente staccato dal massiccio materno e divenuto parte vivente di quella gigantesca famiglia di culmini. Della natura primitiva trasformata in essere umano, non è rimasta che una figura vigorosamente delineata, con lineamenti disarmonici, che tuttavia non fanno impressione sgradevole, una rozzezza non priva di grazia (…) La sua poesia però è tutta nella macchina, compagna fedele delle grandi ascensioni”, (M.B. [ Mario Borani?], 1904, citato in Avigdor, 1981, p.29).

L’apparecchio a cui si fa riferimento potrebbe essere  la Simplex-Roll Camera di Krügerer, compresa nel lascito Marcellino Alessio del 1968; una detective-box in legno, reflex biottica (ma priva di obiettivo da ripresa), per pellicola in rullo nel formato 120 (1890 post), che costituisce un adattamento della precedente Simplex-Magazine del 1889, con magazzino portalastre. La matricola dell’apparecchio di Gabinio, il solo a noi pervenuto, porta il n.2427.   Nel  Fondo è conservato anche l’ingranditore ICA per il formato 9×12, a messa a fuoco automatica, matricola n.76997, dotato di obiettivo ICA Novar Anastigmatic 1:6,8, f =  13,5 cm, matricola n.669397, che Gabinio acquista forse dopo il  1930, anno in cui -con la morte della madre- si ritrova solo nell’appartamento di via Avogadro, 9.

 

[2] “Ogni volta che qualcosa di Torino “moriva” l’ultimo conforto (così egli soleva dire) gli veniva da lui portato (…).Seguiva con attenzione ogni mutamento edilizio ed urbanistico: il vecchio raffrontava poi al nuovo e di ogni risanamento sapeva cogliere il lato artistico e quello pratico insieme” (Alessio, 1939, p.37).  Questo articolo  deve essere messo in relazione col tentativo, condotto dai fratelli  Ugo ed Ivan Alessio  di vendere al Comune di Torino  le lastre ricevute in eredità dallo zio.  La proposta viene prima fatta alla Fratelli Alinari, che suggerisce di rivolgersi al Comune di Torino, e quindi  alla sezione torinese del CAI sottolineando opportunamente ogni volta i possibili motivi di interesse per ciascun destinatario, ma entrambi declinano. Dopo un primo rifiuto (7 giugno 1939) ed una lunga trattativa relativa alla valutazione economica, il podestà di Torino delibera l’acquisto dell’eredità Gabinio in data 17 giugno 1940, cfr. i documenti relativi in Avigdor, 1981, pp.174-179. Il perfezionamento dell’acquisto potrebbe non essere estraneo al ruolo svolto da Ivan Alessio, dipendente dell’Ufficio Tecnico Municipale ma soprattutto Comandante della Centuria Sportiva delle Camicie Nere della I Legione (Alessio, 1936).

 

[3]Eco, 1990, p.110. L’utilizzo semplificato e strumentale che qui viene fatto delle categorie analitiche definite da Eco presuppone ovviamente una accettazione della definizione generale di testo quale “trama comunicativa”, a prescindere dalle specificità dell’ambito  della comunicazione visiva ed in particolare dai problemi posti dalla interpretazione semantica e semiotica della fotografia.

 

[4]Al 1889, data delle prime immagini realizzate citate in apertura, Gabinio ha 18 anni  e  da due è entrato a far parte della Amministrazione delle Ferrovie dello Stato prima di poter terminare gli studi, in conseguenza della morte del padre, già funzionario delle ferrovie, avvenuta nel 1887. Le condizioni della famiglia, certo non floride, non sono comunque tali da impedire alla sorella Ida (1872-1931) di diplomarsi maestra di ginnastica ed al fratello Ernesto (1875-1944) di laurearsi in farmacia.

 

[5]Cfr. Maiullari, 1988; Banti, Meriggi, 1991; Per una analisi della principale e più nota di queste associazioni di massa, il Touring Club Italiano cfr. Ottaviano, 1986;  per i rapporti intensissimi tra TCI e fotografia cfr. Zannier, 1991.

 

[6]”L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Sono soci dell’Unione Escursionisti Torinesi  negli anni immediatamente successivi la fondazione architetti come Mario Ceradini ,  Gottardo Gussoni (direttore del periodico dell’associazione del primo numero, 1899, al 1907),  Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione è poi sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine dell’ “Escursionista” si  incontrano anche i nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

 

[7]Bonardi, 1898, p.232. L’interesse di Bonardi per la fotografia è discusso in Costantini, 1990, p.72 passim.

 

[8]Cfr. Rivoir, 1992, p.18, p.130. Il primo panorama alpino realizzato da Gabinio con mezzi ancora inadeguati è quello della valle del Gran San Bernardo (A17/85) datato 1889. Per una storia generale del panorama come genere cfr. Bordini, 1984. In particolare le connessioni tra montagna e panorama sono già ben presenti in De Saussure, 1776 (ibidem, p.31-32 e nota 7 p.40);  per le prime realizzazioni fotografiche cfr. Garimoldi, 1995, pp.15-18.

 

[9]Quindici di queste immagini, tratte dall’album di proprietà della “Società Ginnastica” che non ci è stato consentito di consultare in questa occasione, sono state pubblicate in Gilodi, 1978, pp.IX-XX. La serie completa di 21 lastre in formato 13x 18 è conservata nel Fondo Gabinio (Sc.182/Ri) mentre 12 stampe a contatto sono comprese nell’album  Ritratti =Gruppi =/ Ginnastica =/ 16. Sul tema dell’educazione fisica femminile a Torino nell’Ottocento cfr. Giuntini, 1995 da cui si ricava (p.426) tra l’altro che Ubaldo Valbusa, membro dell’Unione Escursionisti ed uno dei più assidui compagni di Gabinio, pubblica Ginnastica da camera, massaggio e nuoto. Torino: Lattes, 1910. Di  Valbusa va ricordata anche l’attività di fotografo alpino, cfr. Rivoir, 1992, p.126, p.134-135.

 

[10]Reynaudi, 1896. La collaborazione tra Gabinio e Reynaudi nasce certamente nell’ambito dell’Unione Escursionisti, della quale fa parte anche l’architetto Ceradini, che proprio  per queste guide disegnerà le copertine, presentate alla I Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna  di Torino nel 1902,   e realizzerà alcune tavole nel testo. Diamo di seguito l’elenco cronologico delle collaborazioni di Gabinio alle  guide Reynaudi, indicando tra parentesi il numero di immagini pubblicate nelle prime edizioni di ciascuna, rilevando però che  nelle edizioni successive molte di queste fotografie vengono ripubblicate anonime e con un diverso ordine di presentazione:  1896 (sei); 1903 (trentasette); 1905 (dieci); 1906 (una); 1910 (sei).

 

[11]Alla Esposizione partecipano tra gli altri Guido Rey, Giulio Roussette, Vittorio Sella, Luigi Primoli, Giovanni Varale di Biella   “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese, cfr. “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 1895. La partecipazione di Peliti a questa Esposizione non era sinora stata segnalata, cfr. Federico Peliti, 1993, p.19 passim.

 

[12]Brocherel, 1898,  dedica un intero paragrafo del capitolo XV al tema de “La fotografia sulle Alpi”, in cui accanto ad una serie di indicazioni tecniche si ritrovano attacchi sprezzanti al costume della nascente fotografia di massa ed una serie di prescrizioni  relative a “La veduta [che] deve riescire d’un aspetto armonico ed artistico e dare tutti i dettagli rilevanti”. Da segnalare inoltre l’invito -proprio della più avanzata cultura fotografica dell’epoca- a far si che “il dilettante cerchi sempre che il suo lavoro riesca di qualche utilità [sottolineatura nostra] alle scienze, e lo si può senza scemare la soddisfazione che si ripromette dalle sue non poche fatiche. La geologia, la glaciologia, la topografia, i bradisismi ed i fenomeni tellurici in genere abbisognano della fotografia.”, p.292.

 

[13]Compresa nell’album Autori diversi/ Vedute alpine, etc./ 1a parte/ 26 (A26/4); il passo del Monte Moro costituisce uno dei più noti  e celebrati punti panoramici  dell’arco alpino occidentale, cfr. Garimoldi, 1995, p.25. Gabinio possiede complessivamente quattordici  fotografie di Sella; di un’altra, non reperita, si ha traccia nell’unica  lettera inviata da Sella a Gabinio: “Biella 20 Ott. 98/ Eg.o  Collega/ Le mando le tre copie della/ fotografia n.1685 [Grivola, Grivoletta e ghiacciaio del Trajo, 1894]  e Le sono grato/ di spedirmi L.4.50 per cartolina-vaglia./ Con  saluti  cordiali/ suo dev.mo/ V. Sella”, (Fondazione Sella, Biella, Fondo Vittorio, Copialettere dal 3-5-1897 al 31-12-1898, p.50, n.421), verosimilmente da mettere in relazione con l’ascensione che Gabinio compie nello stesso periodo, documentata da una ricca serie di stampe.

Lo schema compositivo che prevede la collocazione in primo piano di una o più figure di fronte al panorama, di derivazione  romantica, è tipico della fotografia a cavallo dei due secoli (Sella, Rey, Lamy, Gabinio ed altri) e corrisponde ad una fase in cui l’esperienza del panorama non è più eccezionale senza essere ancora divenuta pratica massificata dal turismo.

Nella collezione Gabinio sono presenti , insieme a due riproduzioni da Vittorio Besso, anche 475 stampe originali di Anonimo e di Mario Balloira, V.Baretta, A.Basso, Avv. G. Belli, Giovanni Bollani, Bossola, Brogi, Bugelli, Giovanni Caracciolo, Avv. Carbone, Mario Ceradini, E.Chirali, Luigi Costa, Bobbio Crau, Giovanni Cravero, E.Curione, O.Debernardi, Ducretet, Giovanni Elia, L.Elia, O.Elia, Giuseppe Enrie, Giuseppe Facciotti, V.Ferrari,  Federico Filippi, Funch, Luigi Galleani, C.Galli, C.Giacchino, O.Giudice, Anselmo Giusta, Cesare Grosso, F.Guidetti, Gottardo Gussoni, Adolfo Hess,  Paolo Kind, Cesare Lucca, R.Marchetti, A.Mennyey, Luigi Minetti (Studio SLIFT), Felice Mondini, Agide Noelli, Peluffo, Angelo Perotti , Secondo Pia, Teresio Piasco, Benedetto Porro, Carlo Reynaudi, H.Rinck, Michelangelo Scavia, Vittorio Sella, Diana e Bianca Stella, Giuseppe Tavella, Tonelli, Emanuele Elia Treves, Trionfi, Ubaldo Valbusa, Wehrli (ed.), Ernesto Zoppis. E’ interessante notare che Gabinio possedeva anche un piccolo gruppo di lastre di autori diversi (Fondo Gabinio, lastre, scatola 58/Gs). Per le notizie relative ad alcuni di questi fotografi si rimanda al puntuale apparato di schede in  Miraglia, 1990, ad vocem.

 

[14]Questa immagine si inserisce perfettamente nel genere delle “Scene di vita e di lavoro” che tanto successo aveva nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo, “Il Progresso Fotografico” in particolare in cui vennero pubblicate sotto questo titolo immagini di autori tra loro diversissimi quali Von Gloeden e Tarchetti, cfr. Cavanna, 1990; Miraglia, 1990, p.75 passim.

 

[15]Si confronti ad esempio la  fotografia di Piazza Solferino, datata 1927, (B41/1)   con la veduta di Piazza S. Gioanni  litografata da D. Festa da un  disegno di Enrico Gonin del 1835, verosimilmente nota a Gabinio almeno dal 1902 , quando cura con Luigi Galleani la proiezioni delle diapositive a corredo della conferenza di Alberto Viriglio dedicata ad Una escursione attorno ed a traverso alla vecchia Torino, tenuta il 17 aprile al Politeama Gerbino per iniziativa dell’Unione Escursionisti e comunque pubblicata nel 1923 in un album tipografico di grande diffusione (Rossi, 1923, s.n.). Rare sono queste immagini nel Fondo Gabinio della Galleria Civica mentre  una serie significativa è stata pubblicata in Avigdor, 1981, tavv. 62-65.

 

[16]Sezione IV del IV Concorso,  cfr. “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio. L’Unione Escursionisti espone “nella categoria dei paesaggi e gruppi gran parte del materiale che era raccolto nella sede a ricordo di tutte le escursioni compiute” accanto a lavori di maggior impegno quali la serie di Gabinio e la riproduzione degli affreschi della sala del castello della Manta, realizzata da Gottardo Gussoni. Una immagine del padiglione dell’Unione Escursionisti è pubblicata in Avigdor, 1981, tav. VI, ma con datazione al 1898.

 

[17] Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville ed oltre alla ben nota produzione di Vittorio Besso, che non assume però esplicitamente la forma dell’album dedicato alla città in cui opera (Biella) numerose sono a partire dagli anni ‘70 dell’800 le produzioni documentarie commissionate dalle diverse municipalità, da committenti o sottoscrittori privati ma più sovente realizzate dagli stessi fotografi a scopo promozionale, cfr. Cavanna, 1992. La novità d’impostazione del lavoro di Gabinio, la sua qualità di “documentazione artistica”, è stata rilevata anche da Marina Miraglia (1990, pp.72-73; tavv. 163-166) sebbene a partire da immagini che appartengono ad una fase molto più tarda della sua produzione, riferibile piuttosto ai primi anni Trenta. Solo in questo contesto sono condivisibili le osservazioni relative alla capacità di Gabinio di leggere la “complessità e continuità dell’aggregato urbano” , mentre non pare verificabile l’ipotesi che egli abbia  puntato “il proprio obiettivo sulla classe dei lavoratori, riprendendone a distanza ravvicinata volti, espressioni, gesti e sorrisi. Sembra quasi che egli abbia colto (…) soprattutto la forza diversa del proletariato”

Colgo l’occasione per segnalare che anche la fotografia di Carlo Nigra Torino, fontana nella piazza del Borgo Medioevale, (tav.138) datata dubitativamente 1884?, va più correttamente collocata almeno al 1928, anno in cui la copia della fontana del melograno del castello di Issogne, realizzata per l’Esposizione romana del 1911, venne collocata nella piazza del Borgo.

 

[18]Edmondo De Amicis, La città, 1880, citato in Comoli Mandracci, 1983, p.209.

 

[19]Ferrari, 1900. Nel testo è contenuta anche una interessante “classificazione”: “Questa grande famiglia -dice Ferrari- come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”.

Nell’ambito dell’Esposizione la Sezione III, dedicata alle “Riproduzioni di monumenti, dipinti ed oggetti d’arte antica e moderna” comprende lavori di Ernesto Forma, Alberto Grosso, Charvet e Tamagnone di Torino oltre a Pietro Santini di Pinerolo, ma non risultano presenti Secondo Pia, Vittorio Ecclesia, due tra i principali operatori piemontesi del settore. Nella Sezione IV, dedicata un poco confusamente ad “Interni, vedute, paesaggi” si segnalano Guido Accotto, Annibale Cominetti ed appunto Gabinio, al quale Pietro Masoero dedica una lusinghiera segnalazione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”: “Un’altra esposizione collettiva è quella dell’Unione escursionisti di Torino, interessante nel complesso. È l’illustrazione dell’escursione in tutte le forme, e fra fotografie di poca importanza tecnica ve ne sono alcune molto buone. Tra queste le riproduzioni interessantissime di Mario Gabinio Torino che scompare.” (Masoero, 1900, p.282). Lo stesso Masoero, uno dei personaggi più interessanti della fotografia   italiana tra i due secoli, sarà la guida artistica dell’Unione Escursionisti nel corso della gita a Vercelli e Palestro del 1912, cfr. “L’Escursionista”, 14 (1912), n.6, maggio.  L’opera e la figura di Masoero sono state in parte presentate e discusse in Cavanna, 1985; Id. 1986; Costantini, 1990, p.22 passim.

 

[20]Brayda, 1900. Limitatamente alle sole architetture medievali Gabinio ripercorre lo stesso cammino tracciato da Secondo Pia negli anni immediatamente precedenti (1894-1896), ma risulta assente nel catalogo delle riprese di questo fotografo (Borio, Falzone del Barbarò, 1989, pp.130-132) il palazzo dei conti Ponte di Scarnafigi e Lombriasco in via Genova, al quale Brayda dedica così grande attenzione, ciò che sembra indicare per l’ingegnere qualcosa di più che il ruolo di semplice ispiratore nella genesi di Torino che scompare.

Le vicende legate alla demolizione della Casa del Vescovo (1900)  e l’intervento di poco precedente (1897) relativo agli affreschi di Sant’Antonio di Ranverso sono testimonianza precisa dei dissapori tra Riccardo Brayda ed Alfredo d’Andrade, originati certo da rivalità personali e professionali che datano dagli anni di formazione del progetto per il Borgo Medievale (1882-1884) ma soprattutto legati a due diverse concezioni della politica di tutela  e restauro del patrimonio storico torinese. Cfr. Bertea, 1914; Alfredo d’Andrade, 1981; Viglino Davico, 1984; Donato, 1993.

Nella pubblicazione della seconda serie di immagini sul numero del 1 aprile 1900, il redattore conferma il giudizio positivo sul senso da assegnare a questa campagna di documentazione: “Ci pare opera buona ed utile il registrare così, per via di documenti che potranno servire ai futuri storici dell’arte o della topografia torinese, alcune fra le cose più interessanti sia dal punto di vista estetico, sia da quello di una semplice curiosità: tanto più che siamo sicuri di porre non pochi fra i nostri lettori torinesi in grado di scoprire nella loro città bellezze pittoriche, le quali a moltissimi sono perfettamente ignote”.

Ancora nel 1934, in occasione dei lavori relativi alla realizzazione di via Roma nuova, la rassegna municipale “Torino” pubblica una rubrica fotografica intitolata La città che scompare nella quale peraltro non sono comprese immagini di Gabinio.

 

[21]Nello stesso periodo anche la Società Fotografica Subalpina organizza gite con identiche mete, sempre guidata da Brayda, ma non risulta che le due associazioni organizzassero iniziative comuni. Anche Francesco Negri, nel  1901, ripeterà la propria conferenza sul Santuario di Crea sia per  l’Unione Escursionisti sia per la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, cfr. Mattirolo, 1925, p.13, n.1.   Il connubio tra l’attivissimo Brayda e l’Unione è precocemente celebrato da Edoardo Barraja nell’articolo Alla scoperta del Piemonte ( il cui titolo è ripreso da una conferenza tenuta da Ercole Bonardi al Circolo Centrale di Torino) pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 1 gennaio 1899, (Barraja, 1899) corredato da una fotografia della casa del Vescovo  realizzata da Gabinio,  la cui collaborazione al periodico data dal 1898 al 1902 per il tramite di Brayda e Treves.

 

[22]Fiori, 1902, p.3. Con un articolo dallo stesso titolo, Gli amici dei monumenti, pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 23 febbraio 1902 Edoardo Barraja aveva presentato  la serata di proiezioni che si doveva tenere il successivo giorno 28 al Teatro Vittorio Emanuele per iniziativa dell’Unione Escursionisti e collega l’attività di questa associazione al più vasto fenomeno della rinnovata attenzione per l’arte (“la sua funzione nella società appare sempre più potente quale strumento di rigenerazione civile”) mostrando in particolare apprezzamento per l’attenzione portata al patrimonio artistico ed architettonico minore, ai cui problemi legali di tutela aveva dedicato sua tesi di laurea in Giurisprudenza, discussa nel 1901 (Gilibert Volterrani, Gilibert, 1977, p.10): “È pregiudizio purtroppo ancora largamente diffuso all’epoca presente -ha scritto e con ogni ragione Luca Beltrami- che il patrimonio artistico e storico del nostro paese possa compendiarsi tutto nei principali monumenti e nelle sole opere d’arte più salienti (…) ma tutto il resto delle memorie, le quali pur essendo meno appariscenti, sono gli elementi che compongono la vaga ed indefinita espressione di quell’ambiente artistico che avvolge i nostri monumenti e li completa, e ci conduce ad una vera comprensione dell’arte” (Barraja, 1902, G164P).  Appare qui una concezione del patrimonio artistico certamente più proficua di quella che sarà alla base della prima legge italiana di tutela (L.185 del 12-6-1902) da applicarsi ai soli “monumenti, agli immobili ed agli oggetti mobili che abbiano pregio d’antichità o d’arte”.

Nel rinnovato interesse per il patrimonio storico che si manifesta in questo periodo (“Solo in questi anni, e diremmo, in questi ultimi mesi, è venuto per buona sorte un salutare movimento contro la distruzione inconsiderata dei monumenti antichi (…) meno male però per la nostra città! La prosa del presente non è ancora riuscita a distrurre del tutto la poesia del passato”, Anonimo, 1902) va collocata verosimilmente l’iniziativa  per l’erezione di un monumento a Filippo Juvarra, proposta da Brayda e sostenuta dall’Unione Escursionisti, a cui aderiscono  il sindaco di Torino Severino Casana, Alfredo d’Andrade, Camillo Boito, Carlo Ceppi, Giacomo Salvadori di Wiesenhof, Stefano Molli, Melchiorre Pulciano,  Camillo Boggio, Pietro Spurgazzi, Mario Gabinio ed altri. Tale iniziativa si concretizzerà nella posa di una lapide commemorativa a Superga nel 1903.

 

[23]Citato in Cavanna, 1981, p.109. Questo giudizio positivo sarà ribadito da Masoero nella recensione delle immagini di Pia presentate all’Esposizione Fotografica di Torino del 1900: “Il Pia dona alla storia futura quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia” (citato in Cavanna, 1985, p.151). Questa celebrazione del ruolo del dilettante rimanda alle opinioni espresse da Brocherel nel 1898, cfr. nota  12.

 

[24]Al banchetto erano presenti oltre ad Eduardo di Sambuy anche Luigi Cantù, Guido Rey, Ercole Bonardi,  Felice Alman, Vigliardi-Paravia, Alessandro Pasta, Benedetto Porro, Achille Berry, Oreste Pasquarelli, Efisio Manno, Secondo Pia, Pio Foà, Gerardo Molfese, Annibale Cominetti, Oreste Bertieri, Adolfo Guallini, Giovanni Assale e Luigi Pellerano. “Finito il banchetto, dietro invito del presidente i commensali si recarono ad inaugurare la nuova sede della Società Fotografica Subalpina, in via Maria Vittoria 25″(Anonimo, 1900/ G159P, Anonimo, 1900/ G156P).

 

[25] Giovanni Santoponte, “Per un museo italiano di fotografie documentarie”, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48, citato in Cavanna, 1991, p.42.  Per la ricostruzione del dibattito italiano sugli stessi temi, a partire dagli interventi pubblicati ne “La Fotografia Artistica” cfr. Costantini, 1990, pp.58-72.

 

[26]Per Lovazzano cfr. Miraglia, 1990, tavv.147-150. L’Album di Gabinio intitolato Esposizione/ 1898 contiene anche alcune immagini fatte dal pallone frenato di Godard collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie simile viene realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli aveva vietato di fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898 ”, n.14, p.105. Forse in occasione della concomitante Esposizione di Arte Sacra Gabinio fotografa una copia del trittico con “L’Annunciazione” di Van Der Weyden (B101/19).

Mario Ceradini partecipa al concorso per il manifesto del “Cinquantenario dello Statuto/ Esposizione generale Italiana/ Torino/ Aprile 1898 Ottobre”, presentato col motto “Biancabella” e quindi realizza per l’Esposizione il chiosco della ditta Sangemini, entrambi fotografati da Gabinio (B110/6, A17/21). Per Ceradini cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.120-121, scheda a cura di Airis Rossana Masiero, in cui la presenza dell’architetto all’Esposizione non viene però segnalata.

Il trattamento riservato alla fotografia nella stessa Esposizione viene aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà (…) non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero (…) Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate (…) Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria.”, Brogi, 1898, pp.252-254.

 

[27] Avigdor, 1981, p.155, cita anche il primo premio in Meccanica ricevuto da Gabinio a conclusione del Corso, documentato da una medaglia conservata nella collezione Marcellino Alessio ma non ricordato in Serra, 1898 nelle sue “Memorie” raccolte in occasione del cinquantenario di fondazione delle Scuole, il cui obiettivo -simile a molte altre istituzioni consimili- era di “Educare le menti degli operai al bello ed al vero”. La primitiva denominazione di “Società di Tecnico Insegnamento” muta nel 1856 acquisendo la denominazione corrente e popolare legata all’ex-convento di San Carlo in cui le Scuole erano ospitate. Tra le presenze significative vanno segnalate quelle di Angelo Reycend, Pier Celestino Gilardi e Tancredi Pozzi, amministratori rispettivamente dal 1885, dal 1888 e dal 1892 mentre Cesare Reduzzi faceva parte del corpo insegnante; di quest’ultimo Gabinio fotograferà il Busto in bronzo della Signora Bonardi nel 1903 (A30/2-5).

 

[28] Album 23 nn.67-72, album 17 n.26. Il riferimento all’impresa costruttrice Viretti contenuto nel titolo di quest’ultima immagine fa supporre che questa ditta ne fosse il committente, forse per il tramite dell’architetto Gottardo Gussoni, collaboratore di Fenoglio dopo il 1895,  cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.148-149, scheda a cura di Airis Rossana Masiero. Per Fenoglio cfr. Nelva, Signorelli, 1979; Politecnico di Torino, 1995.

 

[29] Per Morbelli cfr. Anzani, Maggia, 1995. Il confronto che qui si suggerisce, ad esempio tra il Morbelli di Alta montagna, 1912 ed alcune immagini di Gabinio non pretende ovviamente di fondare relazioni dirette ma più semplicemente di dare conto di un clima culturale comune all’interno del quale si collocano le due esperienze, senza che sia per ora possibile definire i reciproci debiti, che andrebbero comunque verificati caso per caso.  L’individuazione di  relazioni evidenti tra le produzioni della fotografia e le “ricerche pittoriche in corso” a Torino nei primi anni del secolo è stata proposta ad esempio da Maria Mimita Lamberti (1996, p.16) in particolare a proposito della Ofelia di Felice Carena, esposta alla Biennale di Venezia del 1912.

 

[30]Pubblicata in Costantini, 1994, p.152, n.101.

 

[31] “Nata aristocratica la fotografia piemontese, pare ancor oggi segnata di quel nobile sigillo (…) ed è stata la quarta culla che ammirò il mondo in Torino, dove i destini vollero nascesse prima il Risorgimento, e poi l’automobile e la moda e la fotografia. Quante attività fotografiche ha già disseminato nel mondo la città nostra? Qui le prime conferenze, le prime proiezioni, il primo Istituto di educazione proiettiva, le prime battaglie per l’autocromia, per la fotografia artistica; qui i primi passi e certo le più aristocratiche creazioni della cinematografia”, Angeloni, 1933, p.189. Questo delirio retorico autocelebrativo costituisce un buon esempio del clima culturale dominante a Torino in quegli anni.  La marginalità in cui si collocavano i dilettanti fotografi dell’Unione Escursionisti è rivelata nella relazione anonima sulla Seconda Esposizione Sociale che si tiene nei mesi di marzo ed aprile del 1914: “Subito si nota nelle prove esposte (…) la grande preponderanza d’ingrandimenti e la mancanza assoluta di lavori al carbone, di gomme bicromatate e di altri processi foto-meccanici. Va considerato però che se tale lacuna sarebbe certamente sentita in una mostra fotografica che abbia prevalente carattere artistico e classico, diventa pressoché trascurabile nella modesta accolta di opere delle nostre esposizioni.”, De Marchi, 1914, p.4.

 

[32]Citato in  Cavanna, 1985, p.150.  Queste posizioni lo portarono ad esempio a criticare “l’esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, sebbene poi apprezzasse nella stessa occasione le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli, cfr. Costantini, 1994, p.99 passim.

 

[33]”La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, p.204;

 

[34] La notizia di un viaggio di Gabinio a Messina viene riportata per la prima volta da Enrico Nori (Passoni, Nori, 1974, s.n.) corredata da una serie di  informazioni non altrimenti documentate e di valutazioni infondate (la “dimestichezza con Galileo Ferraris”; “Dopo i cinquanta anni Gabinio comincia a fotografare solo Torino”; “Negli anni che restano [cioè gli anni Trenta] scatta ancora qualche fotografia: ma è solo tecnica, mestiere, abitudine e sopravvivenza”)  e viene quindi  ripresa da Avigdor, 1981, p.155, il  quale connette esplicitamente il viaggio alla documentazione del terremoto del dicembre 1908, seguito in questo da Miraglia, 1990, p.385, sulla base di quattro lastre poi passate al Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, forse corredate di una indicazione di attribuzione della quale oggi non rimane traccia.  La verifica condotta sulle copie moderne tratte da quelle lastre, gentilmente fornite da Giorgio Avigdor, non consente di formulare alcuna ipotesi attributiva poiché queste fotografie non si discostano  in nulla dalla corrente produzione coeva relativa all’evento. Va però fatto notare che nelle circa 12.000 stampe originali e nelle circa 4500 lastre che costituiscono il Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino non compare alcuna traccia non solo di immagini relative al terremoto ma neppure ad un viaggio in Calabria e Sicilia.

A sostegno dei terremotati e per iniziativa della Società Fotografica Subalpina la rivista torinese “La Fotografia Artistica” pubblica  nel gennaio 1909 il numero unico Pro Sicilia e Calabria, contenente 80 illustrazioni dovute a Felice Masino, Secondo Pia, Frank Perret di Napoli, Stabilimento Brogi, Luca Comerio, Generale Cerri, Giovanni Assale, Giovanni Alifredi, Arturo Ambrosio, L. Martinez di Catania, Modò di Acireale e Maraffa Abate di Palermo. Una simile iniziativa viene presa anche dalla Società Fotografica Italiana che “sotto l’alto patronato di S.M. il Re” mette in cantiere una monografia su Calabria e Sicilia che sarà posta in vendita a L.5.  Di intento più celebrativo sembra essere invece l’album Resurrecturae edito a Milano da Biagio Giarmoleo e conservato alla Biblioteca Civica di Torino, forse da mettere in relazione con la realizzazione  a Messina dell’Ospedale Piemonte, offerto alla città dal “Comitato piemontese in pro delle popolazioni colpite dal terremoto”, realizzato nel 1911 su progetto di Riccardo Brayda e Pietro Fenoglio. (Viglino Davico, 1984, p.51). L’edificio venne visitato da una comitiva dell’Unione Escursionisti in occasione della gita nel Mediterraneo compiuta nel giugno del 1910.

 

[35]Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, 1907; Brand, 1911; Garimoldi, 1995, p.109.

 

[36]Angeloni, 1924, p.46. In particolare il riferimento è all’opera Movimento di Drtikol, pubblicata anche nel catalogo dell’esposizione, a cui partecipa tra gli altri anche Alexander Rodcenko con il Ritratto del poeta Assico  ed un altro Ritratto non identificato (nn. 102, 103). L’insieme delle immagini presenti riflette l’eterogeneità delle tendenze della fotografia dei primi anni Venti, ancora segnate da influenze pittorialiste, specialmente forti in ambito torinese come non manca di rilevare Namias, escluso dalla Giuria,  sulle pagine de “Il Progresso Fotografico”, luglio 1923, p.220: “In questa Esposizione, pur così riuscita, è mancato al Comitato il volere o il potere di sottrarsi alle influenze locali”. Al termine della manifestazione il Consigliere Giuseppe Ratti, ideatore dell’iniziativa, propone che le eccedenze di bilancio siano destinate “alla costituzione di un primo fondo per la creazione di una scuola professionale di fotografia ed ottica sotto l’alto patronato della Camera [di Commercio] stessa”,   intitolandola al conte Teofilo Rossi di Montelera, ma questa iniziativa prenderà corpo solo molti anni più tardi, nel 1935, cfr. infra nota 49.

 

[37]Per la ricostruzione della vicenda e del ruolo svolto dalla rivista e dall’annuario il riferimento è Luci ed Ombre, 1987. La rivista venne fondata a Piacenza nel 1904 da Angelo Guido Dell’Acqua (deceduto a Genova nel 1932); in seguito alla morte di  Alberto Dell’Acqua  la rivista passa al gruppo torinese nel 1922.  Il titolo dell’annuario riprende la definizione che Sem Benelli aveva dato dell’Esposizione Internazionale di Fotografia del 1923, detta “della luce e dell’ombra” (Prolo, 1976, p.215) e richiama quello di una rivista di esoterismo che si pubblicava a Roma circa negli stessi anni (1923-1927): “Luce e ombra. Rivista mensile illustrata di Scienze Spiritualistiche”.

 

[38] La schedatura analitica prevede che si definisca come “data” quella di realizzazione del fototipo (positivo, negativo, diapositiva) oggetto di scheda, registrando in nota le eventuali differenze tra data di esecuzione della ripresa e data di esecuzione della stampa. Stabilito questo irrinunciabile principio, perfettamente consono al trattamento di tutte quelle immagini su cui non compare una annotazione autografa relativa all’esecuzione, i problemi si pongono -paradossalmente- proprio nel momento in cui ci si trova di fronte ad una informazione dettagliata e precisa fornita dall’autore stesso: la data apposta al verso.  Alcune verifiche incrociate hanno consentito di individuare casi diversi: 1) data di ripresa e di stampa coincidono. 2) la data indica per certo l’esecuzione della stampa. 3) data di ripresa e data di stampa sono diverse ma molto prossime nel tempo, nell’ordine di due/tre giorni. Questa verifica consente di attribuire con certezza la data autografa all’esecuzione della stampa analizzata ma di ottenere anche -per le considerazioni appena fatte- una ricostruzione più che attendibile del calendario delle riprese.

Dall’analisi si ricava che Gabinio in questo periodo dedica alla fotografia anche giornate non festive, ciò che lascia supporre l’interruzione o la  conclusione del suo rapporto di lavoro con l’Amministrazione delle Ferrovie, apparentemente non verificabile attraverso i documenti conservati presso l’Archivio Storico delle Ferrovie di Torino.

 

[39] Il gioco insistito di relazioni  tra il primo piano di rami (fioriti)  e lo sfondo di  paesaggio tenuto fuori fuoco che  rimanda nella struttura compositiva e nel trattamento a numerose immagini di Gabinio dello stesso periodo,  si ritrova ad esempio in Fiori di melo di Enrico Unterveger, primo premio al II Concorso Trimestrale del 1926 (Praj, 1950, s.n.) ma anche in Nube di primavera di Mario Balloira, commerciante torinese di articoli fotografici ed amico di Gabinio, pubblicata in La Società Fotografica Subalpina nel 1927, p.2  Altri confronti possibili si possono fare tra il Panorama di Torino dall’approdo fluviale di Sassi (A44/56) ed il Tramonto sul Po presso Sassi (CM/35), entrambe del 1922,  con  alcune delle immagini presenti negli annuari del “Corriere Fotografico” quali Crepuscolo di Cesare Schiaparelli, 1926, o Tramonto di Antonio Fasoli, 1927, ora ripubblicate in Luci ed Ombre, 1987, s.n. Tutte registrano il tentativo fatto da Gabinio in quegli anni di aggiornare una prima volta il proprio linguaggio, adeguandolo ai  sicuri modelli certificati dalla pubblicistica fotografica e dai Salon.

Una seconda serie di immagini di fiori, isolati singolarmente, risale invece agli anni 1933-34 e rimanda ad esempi precisi della fotografia in ambito Bauhaus, la cui conoscenza era mediata in Italia, ad esempio, dalle immagini di soggetto simile pubblicate nella rivista “Domus”. Particolarmente interessante è il confronto tra il Fiore di passiflora di Gabinio, 1933, e la fotografia di identico soggetto di Joost Schmidt, datata 1928c, ora in Bauhaus Fotografie, p.47, tav.50.

 

[40]Una attenzione simile per i paesaggi marginali, inconsueta per l’epoca, si ritroverà in una serie di fotografie di Raoul Hausmann dei primi anni Trenta come Grano presso Schönenberg, 1931, Senza titolo, 1927-31 e Acqua di torba, 1931 (Raoul Hausmann, 1994, p.130).

 

[41] La singolarità e novità di questa immagine sono verificabili nel confronto con la stampa al bromolio di identico soggetto realizzata da Domenico Riccardo Peretti-Griva e pubblicata in “Torino” Rassegna Municipale, 8 (1929), n.4, aprile, p.176.

 

[42] Per Ugo Alessio cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.200-206, scheda a cura di Airis Rossana Masiero e Elena Dellapiana. La commissione esaminatrice  con la quale Alessio si diploma nell’ottobre del 1925 con il progetto per una cappella, era composta da Eugenio Ballatore di Rosana, Giulio Casanova che controfirma il progetto Alessio, Agide Noelli,  Cesare Bertea e Mario Ceradini, questi ultimi buoni conoscenti e amici di lunga data di Mario Gabinio. Tra le collaborazioni professionali di Alessio interessa ricordare qui quella con Carlo Brayda, che rimanda ancora una volta ad una trama di relazioni che trova le proprie origini nell’Unione Escursionisti. Gabinio riproduce più volte disegni e progetti del nipote, a partire dal saggio di diploma del 1925 sino alle tavole di progetto per il Teatro Civico di Vercelli e l’Istituto Tecnico Industriale Q. Sella di Biella, realizzati in collaborazione con l’ing. L. Gariboldi (Fondo Gabinio, lastre, sc. 311/Pl).

 

[43]Nell’ampia produzione superstite la sola immagine di folla urbana presente compare in una fotografia di piazza Palazzo di Città ripresa dall’alto il 12 settembre 1925 in occasione di un evento non identificato. (P22/9).

 

[44]Weaver, 1925, p.36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confusi, del resto propri della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

 

[45]Brayda, 1888. La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Brayda, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, 1990, pp.371-372. Il tema “porte e portoni” è stato ripreso in anni più vicini a noi da Augusto Pedrini, 1955, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura, alla quale si accompagna una ricca produzione editoriale sugli stessi temi, con presentazioni di Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi, e la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri ed Architetti di Torino”. Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

 

[46] I rapporti tra Gabinio e l’architetto sono  documentati dalla riproduzione fotografica della tavola generale del progetto di laurea di Morbelli, Veduta assonometrica di un quartiere operajo/ presso la FIAT-Lingotto a Torino/ 1928,  presente nel Fondo (B101/31). Anche le relazioni con alcuni esponenti della famiglia Mennyey sono documentate da stampe presenti nel Fondo: due fotografie di paesaggi liguri sono infatti attribuite da Gabinio ad A.Mennyey mentre le stampe di Via Bertola, 1924 (B114/15), Albergo Fucina, 1926 (B83/16) e Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Borgo Dora, 1927c(B77/146) risultano “consegnate”, secondo quanto si ricava dalle indicazioni al verso, a [Francesco?] Mennyey, che all’Esposizione del 1926 presenta l’acquaforte Il Borgo Dora. Per Mennyey, alle cui incisioni già aveva fatto riferimento Aldo Passoni a proposito di Gabinio (Passoni, Nori, 1974, s.n),  cfr. Francesco Mennyey, 1975; L’incisione del Novecento, 1985, p.62.

Le relazioni di Gabinio con l’ambiente artistico torinese sono ulteriormente confermate dalle fotografie di quattro copriteiere ricamate di Maria Rigotti Calvi, datate tra il 1920 ed il 1926 (Rigotti, 1980, p.268) realizzate forse in preparazione della mostra ginevrina del 1927 “Expositions d’Artistes Italiens Contemporains”.

Va segnalata qui anche la straordinaria coincidenza di temi, soggetti e luoghi che avvicina la serie di fotografie che Gabinio dedica ai cortili di case a ballatoio nell’area interessata dalla ricostruzione di via Roma, realizzata nel 1930-31 (B83/19-21), a litografie ed acqueforti di  Ettore de Fornaris quali Vecchio cortile (1936-1937) e  Slums (1938-39), nelle quali anche il punto di vista fortemente scorciato dal basso rivela un preciso rimando ai modi della ripresa fotografica, cfr. 6 incisori a “La Stampa”,  1939, p.7; Il tema era già stato affrontato da De Fornaris, ma con diverso trattamento, in Vecchio cortile, ante 1932, cfr. Incisori contemporanei, 1932, tav.XI. La sua figura di artista e mecenate è stata affettuosamente presentata da Rosanna  Maggio Serra (1986, pp.11-17).

 

[47] Il fascino degli spazi e dell’ambiente della “Vecchia Torino” coinvolge anche Marcello Boglione che al tema dedica  sia l’omonima cartella di incisioni, realizzata nel 1928 con Ercole Dogliani, sia le più tarde vedute di Via Barbaroux e di Via Sant’Agostino, esposte nel 1938 alla personale alla Galleria  Martina a Torino, mostra che Ettore Zanzi definisce, nella sua recensione, “specialmente interessante per gli studiosi della storia urbanistica torinese: sono infatti numerose le tavole che documentano con esattezza obiettiva e, tuttavia, con genialità interpretativa, non pochi aspetti della nostra città vecchia e stanca, edifizi che stanno per essere demoliti, strade e vicoli che subiranno presto o tardi radicali trasformazioni.” (citato in Marcello Boglione, 1994, p.143) riproponendo valutazioni sostanzialmente identiche a quelle con cui era stato accolto Torino che scompare nel 1900. Gabinio conosce certamente alcune opere di  Boglione, e in particolare nella sua Veduta della torre littoria in costruzione da Piazza Castello (P14/12) riprende esplicitamente il disegno di identico soggetto pubblicato in “Torino”, 14 (1934), n.1, gennaio, p.43.

 

[48] Nella Sala VII sono ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli e “tutta una parete della sala è occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”. Nella Sala X sono presenti rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Giancarlo Dall’Armi ed Augusto Pedrini; nella Sala XI progetti di Bonsignore, Talucchi, Locarni, Ferri ed altri ed infine nella Sala XII progetti di Vittorio Melano, Angelo Reycend, Stefano Molli e Carlo Ceppi, cfr. La Mostra retrospettiva, 1926.

 

[49] Società  Fotografica Subalpina, 1949. Sulle prime scuole di fotografia istituite a Torino cfr. Costantini, 1990, p.142, n.229. La scuola professionale Teofilo Rossi di Montelera, già auspicata da Giuseppe Ratti nel 1923 viene istituita solo nel 1935 per iniziativa del Consorzio per l’Istruzione Tecnica. Riconoscendo la necessità di fornire una formazione a largo raggio il programma della scuola viene impostato per giungere alla “formazione del ‘fotografo totalitario’”,  dotato di cultura generale e di cultura professionale. A tale scopo accanto agli insegnamenti tecnici, tecnologici e merceologici sono attivati i corsi di Storia dell’Arte, Storia delle Tecniche Fotografiche, Estetica Fotografica e Storia dell’Arte Fotografica, cfr. Bellavista, 1935, p.189.

 

[50]Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par.35, Verbale n.4 del 24-1-1931. Questa attenzione per la documentazione fotografica potrebbe anche essere stata suggerita da Vittorio Viale, dal 1930   direttore del Museo Civico in cui istituisce un primo nucleo di Archivio Fotografico, dotato di un fondo spese di circa ottomila lire annue, che propone di trasformare in “Archivio fotografico dei monumenti degli oggetti d’arte del Piemonte”, in apparente  concorrenza col corrispondente archivio della Regia Soprintendenza. La proposta, presentata al “I Congresso piemontese di Archeologia e Belle Arti” che si tiene a Cavallermaggiore nell’agosto del 1932, intende anche ovviare alla dispersione del materiale fotografico di interesse documentario conseguente alla chiusura degli studi professionali per cessazione dell’attività, (Viale, 1932) prefigurando in un qualche modo proprio la vicenda Gabinio che vedrà ancora protagonista Viale sul finire del decennio.

Quando, dopo alterne vicende (Avigdor, 1981, pp. 174-179) il Comune di Torino decide di accettare la proposta di acquisto avanzata da  Ugo ed Ivan Alessio dopo la morte di Gabinio, la motivazione è individuata “in relazione essenzialmente all’interesse connesso alla conoscenza dello stato di fatto in cui si trovavano l’edilizia cittadina e parecchi servizi municipali, fra l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, da cui risultano evidenti le trasformazioni verificatesi sotto l’impulso innovatore del Regime.“, Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par. 40, verbale n.28 del 17-6-1940, corsivo nostro. La perizia relativa al valore delle 497 scatole di lastre, stimato in 9.500 lire, venne affidata a Viale, il quale ne opera una prima selezione, trattenendo per l’Archivio Fotografico dei Musei Civici solo quelle “di carattere artistico o archeologico”, corrispondenti a 1087 lastre e restituendo le altre -oggi non più reperibili- alla Divisione VIII Amministrazione Patrimonio e Lavori Pubblici, Archivio dei Musei Civici, cat. IX, cl.6, pr.425 del 18 ottobre 1941.

 

[51]Benjamin, 1966, p.71, che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  In un contesto diverso questa relazione è sottolineata anche nella recensione del volume di Camille Recht dedicato ad Atget pubblicata da “La Casa Bella”, nel 1931: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un”arte” della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica” (C.G., 1931).

 

[52] Le stampe di Gabinio relative ai due cantieri sono conservate anche nell’archivio storico della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino, insieme a quelle di Stella, Pedrini, Ottolenghi,  dell’ing. Pantanelli e di Luigi Costa, fotografo con studio in Corso Regina Margherita 102 a Torino, che firma con Gabinio anche l’album Nuovo Palazzo/ della Società’ Reale/ Mutua Assic.ni/ Torino/ Foto di M.Gabinio/ e L.Costa. Alcune di queste immagini vennero pubblicate in Architetture di Armando Melis, 1936, p.38;

 

[53]Ponti, 1932, pp. 285-286, corsivo dell’autore.  Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”, pubblicato nel 1931, che contiene due importanti saggi di G.H. Saxon Mills e di C. Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  (4 (1931), n.47, p.67),  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” (4 (1931),  n.47, novembre 1931, p.54). All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “La Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti.

 

[54]La fotografia di Gabinio, pubblicata in “L’Architettura Italiana”, 29 (1934), n.3, marzo, p.95, ricorda le foto di Thèrese Bonney di una scala di Robert Mallet-Stevens, a proposito delle quali Ponti  parla di “seduzione fotografica”  (“Domus”, 2 (1929), n.2, febbraio, p.38) e richiama in particolare quelle eseguite dalla Studio Cartoni per la palazzina al Lungotevere Arnaldo da Brescia di Giuseppe Capponi, pubblicate in “Domus”, 4 (1931), n.37, gennaio, p.23.

 

[55]Cfr. Mostra sperimentale, 1931. Il concetto di “nuova visione” formulato da Moholy-Nagy e sviluppato in ambito Bauhaus relativamente alla fotografia (La fotografia al Bauhaus, 1993) diventerà il titolo della prima edizione americana del suo volume Von material zu architektur, Bauhausbücher 14, edito nel 1928 da Albert Lagen a Monaco (The New Vision: from Material to Architecture New York: Brewer, Warren & Putnam, 1930) ed in questa forma avrà particolare fortuna critica, pur non riferendosi in nulla, come è noto, alla fotografia.

 

[56]Antonio Boggeri  ha occasione di conoscere le opere delle avanguardie fotografiche europee per il tramite delle riviste messe a disposizione da Marco Luigi  Poli, che alla Alfieri & Lacroix di Milano, dove entrambi lavorano, cura il supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia” (Monguzzi, 1981, p.2).

 

[57]Sansoni, 1932, in cui sono pubblicate anche tre immagini di Gabinio: Lyskamm (4500) e suo ghiacciaio al chiaro di luna, L’alba sul ghiacciaio del Trajo e Aosta – Le Porte Praetorie. È interessante rilevare l’operazione condotta in questa occasione da Gabinio che stampa su carta per ingrandimento alla gelatina bromuro d’argento lastre realizzate circa trent’anni prima destinate alla stampa a contatto su carte ad annerimento diretto. I risultati, tecnicamente discutibili, indicano non tanto la necessità di adeguarsi alla scomparsa dal mercato delle carte alla celloidina ed al citrato quanto piuttosto un desiderio di adattamento al gusto corrente, alla modernità dell’ingrandimento consentito dalle carte al bromuro. Alcune perplessità sul lavoro di Achille Bologna erano già state espresse da Cesare Schiaparelli nella recensione alla sua personale torinese del 1930 (Schiaparelli, 1930).

 

[58] Pavia, 1926. Il rimando improprio al cubismo ed al futurismo  (“Si rallegrino i futuristi: la teoria del ‘volume’ e quella della ‘sintesi’ è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo”) indica bene quale fosse il giudizio -e la distanza- che separava la cultura tradizionale dalle esperienze più aperte verso i valori del moderno, gli  stessi che avevano fatto si che lo stesso Felice Casorati venisse gratificato, nel 1919, dell’epiteto di “futurista” (Dragone, 1978, p.194)

 

[59] Sarà con questa architettura effimera che Edoardo Persico commemorerà l’artista sulle pagine di “Casabella” a pochi giorni dalla morte, nel numero di maggio 1935.

Nel corso del 1928, oltre a numerose altre minori, si tengono a Torino: gennaio – febbraio, “Prima mostra del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica” accanto alle personali di Léonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams; giugno, “Prima mostra provinciale d’arte fotografica dell’O.N.D.” promossa dalla Società Fotografica Subalpina; settembre,  “ III Mostra nazionale e I Esposizione internazionale di fotografia di montagna” organizzata dal Club Alpino Italiano; ottobre: “Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale” oltre naturalmente alla I Esposizione dei Maestri d’Arte professionisti Fotografi nell’ambito dell’Esposizione Celebrativa.

 

[60] I “Commenti” di M.Bernardi (1928) ed A.Boggeri (1929) sono stati ripubblicati in Luci ed Ombre, 1987, pp.100-101 e pp.110-111.

 

[61]Andreis, 1933, p.10. Andreis con Mario  Bellavista, Cesare Giulio, Giuseppe Borghi, Luigi Costa (collaboratore di Gabinio per le riprese alla “torre littoria”), Carlo Emanuele Rossi ed Ernesto Sacchetto sono i  membri della redazione di “Pagine Fotografiche ALA”, con direttore Giuseppe Portigliatti. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.121) Questo intrecciarsi di presenze non solo rende ragione dell’attenzione con cui “Galleria” segue le vicende ALA ma mostra bene quanto fosse oligarchico il gruppo “dirigente” della fotografia torinese negli anni del fascismo.  La stessa rivista ospita i Concetti per fotografi moderni, con cui Mario Bellavista si propone di definire una tipologia della fotografia fascista. Bellavista, interessante fotografo, è uno  dei personaggi più influenti della fotografia italiana del Ventennio: oltre a tenere corsi per numerose associazioni a Milano ed a Torino è direttore a Milano  del Laboratorio di Resinotipia di Namias, Direttore della Scuola ALA a Torino, direttore dell’Ufficio Tecnico Gevaert e  per la stessa Società realizza nel 1934-35 il “Corso radiofonico elementare di fotografia” che viene pubblicato in sunto anche sulle pagine di “Galleria” e della “Rivista Fotografica Italiana”.

 

[62] “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.1, febbraio, p.5. Il problema dell’aggiornamento e della crescita culturale dei fotografi induce le diverse associazioni sia a mettere a disposizione dei soci una ricca serie di periodici (37 titoli tra italiani e stranieri, presso la sede ALA) sia a promuovere corsi di grande interesse, come quello prodotto dalla Società Fotografica Subalpina nel 1934 che prevedeva, tra gli altri, interventi di Bellavista, Dalla dagherrotipia ai raggi infrarossi; Erizzo, Il Novecento in fotografia e in cinematografia; Bertoglio, Surrealismo e fotografia; Bologna, Tendenze fotografiche internazionali;  Movilia, Funzione politica e sociale della fotografia. Anche la ALA promuove “riunioni culturali” seguite da dimostrazioni pratiche, tra le quali segnaliamo quelle dedicate a La fotografia dell’infrarosso nella pratica e La fotografia notturna, entrambe tenute da Gabinio in collaborazione rispettivamente con Mario Balloira e Smeraldo Smeraldi. Questo impegno didattico sostenuto in età avanzata spezza temporaneamente la sua tradizionale riservatezza ma stupisce anche per i  temi trattati: tra le stampe del Fondo Gabinio sono presenti attualmente solo tre fotografie all’infrarosso (B53/59-61).

Nel 1936 la denominazione muta da “Associazione Culturale Fotografica ALA” a “Associazione Fotografica Italiana A.L.A” mentre l’anno successivo si riduce definitivamente ad “Associazione Fotografica Italiana” (AFI).  La nuova denominazione riflette una crescita ed un livello di influenza che superano l’orizzonte torinese creando forti polemiche con la Società Fotografica Subalpina. In questo contesto va collocata l’assenza dell’AFI dall’Unione Società Italiane Arte Fotografica (USIAF), con sede a Roma presso l’Associazione Fotografica Romana Dilettanti e ovviamente aderente all’Istituto Fascista di Cultura , la cui costituzione era stata però promossa proprio dalla Società Fotografica Subalpina, a cui spetta anche l’organizzazione del primo Congresso USIAF, che si tiene a Torino nel 1937. Alla Società torinese si deve anche l’organizzazione dell’assemblea costitutiva della FIAF (Federazione Italiana  Associazioni Fotografiche) che si tiene a Torino il 19 dicembre 1948. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.8 passim).

 

[63] Nel 1934 Gabinio partecipa alle seguenti esposizioni: “Internationell Fotografiutstallning” alla Liljevalchis Konsthall di Stoccolma con le opere Austerità, n.272, Carezze di sole, n.273, Pesche, n.274, Uva, n.275 (poi a Boston e Ottawa), Refezione al cantiere, n.276, Dall’alto, n.277; “Prima mostra internazionale fra le Società YMCA” (Young Men’s Christian Association) a Torino, con  Mezzogiorno ovvero Refezione al cantiere, n.202; “III Nemzetkozi Muveszi Fenykepkiallitas” di Sopron (Ungheria) con l’opera Carezze di sole; “III Internationale Photo-austellung” di Vienna con Umiltà, n.192, Carezze di sole, n.193, Pesche, n.194.

Le nature morte di Gabinio vanno confrontate con le corrispondenti di Achille Bologna ora pubblicate in Fotografia luce della modernità, 1991, pp.122,12,127, datate 1935c.

Nello stesso 1934 Federico Sacco pubblica il volume dedicato a Le Alpi che contiene, tra le altre, 38 fotografie di montagna di Gabinio. A partire da questo dato è stato ipotizzato (Avigdor, 1981, p.155) un ruolo fondamentale svolto dal geologo nella formazione culturale di Gabinio, a partire da una collaborazione databile al 1890. In realtà la collaborazione data a partire dal 1925 e si concretizza nell’utilizzazione di immagini provenienti dall’ampio repertorio di Gabinio relativo alla montagna.

 

[64]Domenico Riccardo Peretti-Griva, La nostra prima rassegna, in Prima esposizione fotografica, 1935, s.n. A suggerire altre e possibili tangenze e riferimenti troviamo in  catalogo Aringhe di Giulio Galimberti, che rimanda anche compositivamente a Le sardine di Emmanuel  Sougez, del 1932.  Una ulteriore selezione di immagini presenti in mostra (“la fotografia classica ottocentesca era accoppiata alle più audaci composizioni pubblicitarie”)  viene pubblicata anche dalla “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935),  n.3, marzo, con fotografie di Martino Brondi, Giovanni Calleri, Vincenzo Balocchi, Enrico Giorello, Enrico Aonzo, Gualtiero Castagnola, Mario Castino e Mario Gabinio (Piatti). Anche il redattore del “Corriere Fotografico” rileva che “Il torinese Mario Gabinio si fa notare per diverse belle nature morte e per una bella scena sul Po”  (citato in “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.4, aprile, p.38). Le opere presentate alla mostra sono: Piatti, n.112, Maioliche, n.113, Cipolline, n.115, Festa, n.116, Po, n.117, Valnontey, n.118. Nello stesso anno Gabinio partecipa anche al “XIV Salon International de Photographie” di Bruxelles con Università, n.352, Alluminio, n.353; “Fourth South African Salon of Photography” di Johannesburg: Carezze di sole, poi alla City Art Gallery di Durban, nel 1936; Mostra della Royal Photographic Society of Great Britain di Londra: Maioliche, n.86; “Second Canadian International Salon of Photographic Art” di Ottawa: Uva, n.63 (mentre Refezione al cantiere viene restituita); “XXX  Salon  international d’art photographique” di Parigi: Maioliche, n.166, Po, n.167,  Piatti, n.168;

 

[65] La rigida strutturazione compositiva di Piatti appare piuttosto come un’eccezione nella produzione di Gabinio di questi anni; in opere come Miscellanea (RA/23) o Maioliche (RA/21) come nella già citata Umiltà la forma appare piuttosto trovata che cercata, mai enfatizzata o insistita, e l’attenzione sembra piuttosto rivolta al “motivo” dell’accumulazione di oggetti, acutamente analizzato in Marbot, 1989, pp.154-155.

 

[66] Per La scala, 1930, di  Rodcenko cfr. Karginov, 1977, tav.182 e la variante di ripresa in Khan-Magomedev, 1986, p.247. Il gioco delle ombre portate sulla scalinata è il soggetto di Gradinata del tempio, 1930, di Achille Bologna e di Parigi, la Madeleine, 1932 , di Italo Bertoglio, entrambe pubblicate in Luci ed Ombre (1987, s.n.).

 

[67] Due immagini di questa serie vennero inviate a numerosi Salon internazionali con un titolo, “Carezza/e di sole”, che riprende esplicitamente quello di un’opera di Carlo Baravalle pubblicata in Luci ed Ombre, del 1927 (L’ultima carezza del sole), ancora una volta a suggerire non solo la condivisione di un gusto “crepuscolare” ma anche la caparbia capacità di assimilazione di Gabinio.

Le ninfee presenti nella citata immagine di Baravalle sono un altro dei temi con cui si confrontano numerosi fotografi in questi anni, attirati dalla mescolanza di richiami e suggestioni che questo contiene e, insieme,  dalle possibilità di ricerca formale che offre. Neppure Gabinio si sottrae a questa prova ma in Ninfee dopo la pioggia, 1933, (RA/1) riesce comunque a realizzare un’opera dotata di personalità propria, riconoscibile nel mantenimento di alcuni elementi caratteristici quali la perfetta leggibilità del dettaglio, la connotazione tridimensionale dello spazio pur in assenza della linea dell’orizzonte, ottenuta con la presenza di elementi minimi, che suggeriscono un punto di fuga (assente nelle opere di altri fotografi, forse sulla scia di Monet) e nell’ancorare la figura al luogo, che si ricava dalle scritte al verso, perché l’immagine sia -contemporaneamente- documento e forma.

 

[68] Savinio, 1935. L’articolo prende le mosse da una irridente condanna di Cézanne per estenderla a tutto l’ambito della ricerca fotografica contemporanea, a quel  “cézannismo fotografico [che] fu la vendetta burlona di Cézanne, il morto”, non senza aver prima esaltato il valore della scoperta della fotografia ed averne tracciato per sintetici tratti le influenze sulla produzione artistica tra Otto e Novecento, dalla letteratura alla musica. Sulla scia dell’antica condanna baudelairiana alla fotografia, “microscopio per tutti”, viene negato il “mistero dello sguardo”.

 

[69] Nel 1937 Gabinio partecipa al “XXXII Salon international d’art photographique” di Parigi con Moscato bianco e nero; “Salon international de 1937” di Metz, organizzato in occasione del trentaseiesimo convegno dell’Unione nazionale delle Società Fotografiche Francesi: Uva zibibbo e mele, n.269, Pesche reali, n.270; “V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti” di Torino: Uva nera e dorata, n.230, Mezzanotte alle Porte Palatine, n.231. Le fotografie Maioliche, Ferro zincato, Partita a carte e Persi moi [Pesche mature], inviate al Salon di Chicago, non vennero accettate.

 

 

 

Bibliografia citata

 

 

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Bologna 1932

Achille Bologna, Il corso di fotografia nella Scuola di Avviamento al Lavoro in Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 3, marzo, pp. 136-138

 

Bonardi 1898

Ercole Bonardi, Una società di escursionisti,  “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 231-232

 

Bordini 1984

Silvia Bordini, Storia del panorama. La visione totale nella pittura del XIX secolo. Roma:  Officina, 1984

 

Brand 1911 a

Brand, Inaugurazione della mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), nn. 6-7,  giugno-luglio, pp. 98-99

 

Brand 1911 b

Brand, La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911) n. 12,  dicembre, pp. 167-171

 

Brayda 1887 a

Riccardo Brayda, Ricordo di una passeggiata artistica a Sant’ Antonio dl Ranverso (Valle di Susa). Torino: Doyen, 1887

 

Brayda 1887 b

Riccardo Brayda, Stucchi ed affreschi nel reale Castello del Valentino.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1887

 

Brayda 1888

Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo.  Torino: Libreria e Fotografia Artistica Charvet-Grassi, 1888

 

Brayda 1898

Riccardo Brayda,  Torino scomparsa, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, p. 96

 

Brayda 1900

Riccardo Brayda,  Torino che scompare (da fotografie del signor Mario Gabinio),  “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 18 (1900), n. 11, 18 marzo, pp. 85-86

 

Brocherel 1898

Jules Brocherel, Alpinismo. Milano: Hoepli, 1898

 

Brogi 1898

Carlo Brogi, , La fotografia all’esposizione, “L’Esposizione Nazionale del 1898”, Torino, 1898, pp. 252-255

 

Carluccio 1974

Luigi  Carluccio, Entrare e vivere nella Torino di ieri e di oggi, “Piemonte vivo”, 8 (1974), n. 2, aprile, pp. 4-9

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’ Andrade. Tutela e restauro, 1981, pp. 107-125

 

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

Cavanna 1986

Pierangelo Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di S. Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo,  “L’Impegno”, 11 (1991), n. 3 dicembre, pp. 41-48

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Problemi di documentazione fotografica del territorio Piemontese nell’Ottocento, in Le “Ali” del mercato in provincia di Cuneo. Bra – Torino: Comune di Bra – Ministero per i Beni Culturali – Politecnico di Torino -L’Arciere, 1992, pp. 100-111

 

Chan-Magomedov 1986

Selim Omarovič Chan-Magomedov,  Rodcenko. The complete work.  London:  Thames and Hudson, 1986

 

Comoli  Mandracci 1983

Vera  Comoli  Mandracci, Torino.  Bari:  Laterza, 1983

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917.  Torino:  Bollati Boringhieri,  1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902 1994, pp. 94-179

 

De Marchi 1914

Guido de Marchi, Esposizione fotografica sociale, “L’Escursionista”, 16 (1914), n. 11, 25 maggio, pp. 4-7

 

X anniversario  1902

A proposito del X anniversario dell’Unione Escursionisti, “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 20 (1902), n. 8, febbraio, pp. 60-61

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del Medioevo fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra medioevo e rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale.  Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Dragone 1976

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 97-151

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra, (Torino, marzo-giugno).  Torino:  Città di Torino, Assessorato per la Cultura-Musei Civici, 1978

 

Eco 1990

Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione. Milano: Bompiani, 1990

 

Esposizione 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, catalogo della mostra, (Torino, giugno-luglio 1907), Torino: s.n., 1907

 

Ettore de Fornaris 1932

Incisori contemporanei. Ettore de Fornaris;  presentazione di T. Grandi. Torino:  Buratti, 1932

 

Fadilla 1900

Ugolino Fadilla, L’Esposizione Fotografica di Torino,  “Gazzetta di Torino”, 41 (1900), n. 64, 5 marzo

 

Ferrari 1900

Giulio Ferrari, Esposizione Fotografica. La fotografia artistica,  “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3

 

Fillia 1932

Fillia [Luigi Colombo], Il futurismo. Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento Futurista Italiano.  Milano: Sonzogno, 1932

 

Fiori 1900

Silvestro Fiori, L’Esposizione di fotografia,  “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio, p. 4

 

Fiori 1902

Silvestro Fiori, Gli amici dei monumenti,  “L’Escursionista”, 4 (1902), n. 6, 23 maggio, pp. 3-5

 

Fossati 1975

Paolo Fossati, Fotografia e città: la Torino di Mario Gabinio,  “Il Corriere della Sera”, 100  (1975), n. 68, p. 15

 

Fotografia 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabetti, Olmo 1976

Roberto Gabetti, Carlo Olmo, Cultura edilizia e professione dell’architetto: Torino anni ’20-’30, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 11-33

 

Garimoldi 1995

Giuseppe  Garimoldi, Fotografia e Alpinismo:  Storie parallele.  Ivrea: Priuli e Verlucca, 1995

 

Gilibert Volterrani 1977

Anna Gilibert Volterrani , Alfredo Gilibert, Valsusa com’era.  Susa: Editrice Delphinus, 1977

 

Gilodi 1978

Renzo  Gilodi, La Società Ginnastica di Torino. Sport e cultura nel tempo.  Torino:  SGT, s.d. [1978]

 

Giuntini 1995

Sergio Giuntini, L’educazione fisica femminile a Torino a fine Ottocento,  “Studi Piemontesi”, 24 (1995), n. 2, novembre,  pp. 419-427

 

Giusta 1901

Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche,  “L’Escursionista”,  11 (1901) , n. 3, 6 maggio, pp. 6-7

 

Griseri 1974

Andreina  Griseri, Obbiettivo sulla città,  “L’informazione industriale”, 30 (  1974), nn. 7-8, 30 aprile, pp. 34-35

 

Griseri, Gabetti 1973

Andreina  Griseri, Roberto Gabetti,  Architettura dell’eclettismo : un saggio su G. B. Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

In memoriam 1938

In memoriam Mario Gabinio,  “Rivista mensile del CAI”, 58 (1938), p. 463

 

L’incisione del Novecento 1985

L’incisione del Novecento in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, marzo – aprile 1985), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1985

 

L’ invention d’un regard 1989

L’invention d’un regard (1839-1818), catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 4 ottobre – 31 dicembre 1989),  a cura di Françoise Heilbrun, Bernard Marbot e Philippe Néagu. Paris:  Réunion des Musées Nationaux,  1989

 

Karginov 1977

German Karginov, Aleksandr Rodcenko.  Roma:  Editori Riuniti, 1977

 

Laezza 1927

Alfredo Laezza, a cura di, La Società Fotografica Subalpina nel 1927. Torino: Tip. Bona, 1927

 

Lamberti 1996

Maria Mimita Lamberti, Gli anni torinesi di Felice Carena, in Felice Carena, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte moderna e contemporanea, 30 gennaio-7 aprile 1996),  a cura di Fabio Benzi.  Milano:  Fabbri,1996,  pp. 9-22

 

Levi 1991

Marcello Levi, Mario Gabinio: immagini del primo Novecento, in XV Mostra Nazionale di Antiquariato di Saluzzo, catalogo della mostra (Saluzzo, maggio 1991).  Savigliano:  L’Artistica, 1991

 

Luci ed ombre 1987

Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Maggio Serra 1986

Rosanna Maggio Serra, a cura di, Arte moderna a Torino.  Torino:  Allemandi, 1986

 

Marcello Boglione 1994

Marcello Boglione (1891-1957). Un maestro dell’incisione all’Accademia Albertina, catalogo della mostra  (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-aprile 1994), a cura di Angelo Dragone, Franca Dalmasso,  Vincenzo Gatti.  Torino:  Regione Piemonte – Franco Masoero,  1994

 

Mario Gabinio 1982

Mario Gabinio. Trenta fotografie di montagna, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna,  marzo-maggio 1982), a cura di Aldo Audisio.  Torino: Museo Nazionale della Montagna Duca degli Abruzzi -Club Alpino Italiano, sezione di Torino, 1982

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,  L’Esposizione fotografica di Torino Note e appunti , “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), nn. 6, 7,  pp. 124-139, 277-291

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In memoria dell’avv. Francesco Negri : commemorazione letta nell’adunanza del 1 marzo 1925 alla Società piemontese di Archeologia e Belle Arti.  Torino: Anfossi, 1925

 

Melis 1936

Architetture di Armando Melis. Milano: Tip. Allegretti, 1936

 

Mennyey 1975

Francesco Mennyey. Monumentalità dell’incisione, in Francesco Mennyey:  acqueforti, catalogo della mostra, a cura di P. D. Ferrero.  Torino: Le Immagini – Studio d’arte contemporanea, 1975

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri, 1933-1981 : archetipi della seduzione grafica.  Milano:  Electa, 1981

 

Le montagne della fotografia 1992

Le montagne della fotografia, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 18 settembre – 22 novembre 1992) a cura di Silvana Rivoir. Torino: Museo Nazionale della Montagna – Club Alpino Italiano sezione di Torino, 1992

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli Angelo & Morbelli Alfredo, catalogo della mostra (Masnago e Casale Monferrato, giugno luglio 1995), a cura di Giovanni Anzani e Filippo Maggia.  Varese:  Lativa, 1995

 

La Mostra retrospettiva 1926

La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese,  “Il Momento”, 24 (1926), n. 128, 2 giugno, p. 5

 

Mostra Sperimentale 1931

Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra, (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino:  Tip. Fedetto,  1931

 

Nelva , Signorelli 1979

Riccardo Nelva , Bruno Signorelli, Le opere di Pietro Fenoglio nel clima dell’Art Nouveau internazionale.  Bari:  Dedalo,  1979

 

Ottaviano 1986

Chiara Ottaviano, Classe agiata e organizzazione del tempo libero, in Valerio Castronovo, a cura di, La cassetta degli strumenti. Ideologia e modelli sociali nell’industrialismo italiano.  Milano: Franco Angeli, 1986, pp. 169-196

 

Passoni, Nori 1974

Aldo  Passoni, Enrico Nori, Torino anni ‘20:  104 fotografie di Mario Gabinio.  Torino:  Editoriale Valentino, 1974

 

Pavia 1926

Ugo Pavia, Il “Salon” fotografico di Torino: gli espositori stranieri , “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

 

Pedrini 1955

Augusto Pedrini, Portoni e porte maestre dei secoli XVI e XVI in Piemonte. Torino: Pozzo-Salvati, Gros Monti & C., 1955

 

Peliti  1993

Federico Peliti (1844-1914). Un fotografo piemontese in India al tempo della Regina Vittoria, catalogo della mostra (Roma, maggio-luglio 1993; Torino, marzo-maggio 1994), a cura di Marina Miraglia.  Roma: Peliti Associati, 1993

 

Peretti Griva 1933

Domenico  Riccardo Peretti Griva, In difesa dei procedimenti interpretativi,  “Galleria”, 1 ( 1933), n. 8, agosto, pp. 4-6

 

Piasco 1896

Teresio Piasco, Otto giorni sulle Alpi Marittime, 5-12 luglio ‘96; riproduzione anastatica. Cuneo:  Vecchi libri, s.d.

 

Politecnico di Torino 1995

Politecnico di Torino, Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali, a cura di, Torino nell’Ottocento e nel Novecento. Ampliamenti e trasformazioni entro la cerchia dei corsi napoleonici.  Torino:  Celid, 1995

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283

 

Praj 1950

Praj, a cura di, Luci e ombre. Fotografie pubblicate dalla cessata rivista torinese “Il Corriere Fotografico“.  Torino, in proprio,  1950

 

Prima esposizione 1935

Prima esposizione fotografica sociale ALA, brochure della mostra (Torino, marzo 1935). Torino: Tip. A. Kluc, 1935

 

Primo salon 1925

Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale : Torino 1925-26,  brochure della mostra (Torino, Galleria centrale d’arte,  19 dicembre 1925 – 10 gennaio 1926).  Torino: Tip. Celanza, 1925

 

Prolo 1976

Maria Adriana Prolo, Il cinema – la fotografia, in Torino 1920-1936, 1976, pp. 211-217

 

Raoul Hausmann, 1994

Raoul Hausmann, catalogo della mostra, (Valencia, Institut Valencià d’Art Modern, febbraio – aprile 1994). Valencia: IVAM-Generalitat Valenciana, 1994

 

Reynaudi 1896

Carlo  Reynaudi, Ceresole Reale e la valle dell’Orco.  Torino: Roux e Frassati, 1896

 

Rigotti 1980

Giorgio Rigotti, 80 anni di architettura e di arte : Annibale Rigotti architetto, 1870-1968 : Maria Rigotti Calvi pittrice, 1874-1938.  Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1980

 

Sansoni 1932

Gino Sansoni, La Ia Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, “Aosta”, 4 (1932), nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, “La Stampa”, 69 (1935), 6 luglio, p. 3, ora in Id., Torre di guardia ,  a cura di Leonardo Sciascia.  Palermo: Sellerio, 1977, pp. 131-142

 

Schiaparelli 1924

Cesare  Schiaparelli, La scuola piemontese di fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 4, aprile, pp. 52-53

 

Schiaparelli 1930

Cesare  Schiaparelli, Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Secondo Pia 1989

Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale del Cinema, ottobre-novembre 1989), a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò.  Torino:  Allemandi, 1989

 

6 incisori 1939

6 incisori a “La Stampa”, brochure della mostra (Torino, Salone de La Stampa, aprile 1939), a cura di Marziano Bernardi. Torino: La Stampa, 1939

 

Serra 1898

Gian Giacomo Serra, Le Scuole Tecniche Operaie San Carlo in Torino.  Torino: Tip. Cassone, 1898

 

VI Mostra Biennale 1939

VI Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica (Torino, Circolo degli artisti,  maggio-giugno 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

VII Esposizione Annuale 1941

VII Esposizione Annuale Sociale di Fotografia Artistica AFI, (Torino, maggio 1941).  Torino:  Satet, 1941

 

Società  Fotografica Subalpina 1949

Società  Fotografica Subalpina, Catalogo della mostra del cinquantenario,  “Vita Fotografica”, 5 (1949), n. 9, aprile

 

Storiografia 1990

Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo durante XVIII e XIX secolo,  atti delle Giornate di studio (Torino, Fondazione Luigi Einaudi , 6 e 7 maggio 1988),  a cura di Maria Teresa Maiullari. Torino : Fondazione Luigi Einaudi, 1990

 

Thovez 1898

Enrico Thovez, Fotografia pittorica, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 219-222

 

Torino 1902 1994

Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino settembre 1994 gennaio 1995),  a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano:  Fabbri, 1994

 

Torino 1920-1936 1976

Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976

 

Torino che scompare 1929

Torino che scompare: l’Arsenale,  “Torino”, 9 (1929), n. 2, febbraio, pp. 91-93

 

Viale 1932

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte, in I  congresso Piemontese di Archeologia e Belle Arti, atti del convegno, (Cavallermaggiore, agosto 1932).  Torino:  Anfossi, 1932, pp. 158-161

 

Viglino Davico 1984

Micaela Viglino Davico, Benedetto Riccardo Brayda: una riproposta ottocentesca del medioevo.  Torino:  Centro Studi Piemontesi, 1984

 

Volli 1994

Ugo Volli, Il libro della comunicazione: idee, strumenti, modelli.  Milano: Il Saggiatore, 1994

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36

 

Zannier 1991

Italo  Zannier, Cento anni di fotografia Touring, in Fotografi del Touring Club Italiano, a cura di Elisabetta Porro.  Milano:  TCI,  1991, pp. 6-27

 

Zannier 1993

Italo  Zannier, Leggere la fotografia. Le riviste specializzate in Italia (1863-1990).  Roma:  Nuova Italia Scientifica, 1993