Genealogie del bianco (2005)

in Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

La realtà è solo materia grezza

per la creazione dell’immagine

che vive autonoma,

esprimendosi tutta in sé stessa,

in estreme sintesi formali.”

Paolo Monti, 1957

 

 

“Ho avuto un attimo di speranza quando, giorni fa, incidevo su una lastra di vetro affumicata – scriveva Paul Klee nel 1905 – Dunque il mezzo non è più la linea nera, bensì quella bianca. (…) Dipingere col bianco corrisponde al modo di dipingere della natura.” E ancora, nel dicembre 1910: “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica.”(Klee 1990, p.181)

Dal confronto con la scrittura della luce, nella rimeditazione dell’antica pratica del cliché-verre (già di Corot e Fontanesi, tra gli altri) il pittore trovava la forza necessaria per avanzare in quella che lui stesso chiamava (in italiano) la  “Terra incognita” di quel nuovo “genere di forma rigorosamente astratto.”

La scoperta del negativo come modo di percezione delle apparenze del mondo, la scoperta delle fotografie come ombre bianche, luminose, consentiva di riconoscere il segno come pura manifestazione di energia, autonoma, slegata da ogni intenzione descrittiva. Il nero del segno rivelato come luce proprio dal processo fotografico, dal meccanismo intrinseco della sua riproducibilità, della sua natura di matrice. In questo eccesso accecante di tenebra risiedeva la possibilità dell’astrazione, dell’allontanamento dalla figura in favore di quella “sensibilità pura” che poi sarà di Malevič: “Il bianco Suprematismo non conosce più il concetto di materia, ancora in auge presso l’uomo medio. Le sue forme sono fenomeni che si ordinano in base a nuovi rapporti emotivi.” (Malevič 1922, p. 203)

Lo “zero delle forme” proprio del credo suprematista sembra trasmettere la propria eco lontana al  processo di mutamento che allora si avviava  nella cultura fotografica, in particolare in quell’ambito che si è soliti definire della fotografia artistica, a partire dagli anni del primo dopoguerra, quelli che vedono un progressivo (e timido, in Italia) allontanamento dagli stilemi pittorialisti in favore di una corrispondente apertura alle suggestioni, se non proprio alle provocazioni moderniste.

Non potendo operare contro la natura referenziale di traccia della fotografia, non potendo rinnegare la sua necessità documentaria, molti autori sembravano dunque volgersi verso qualcosa che potremmo definire uno “zero del significato”,  riducendo il peso narrativo del contenuto referenziale a favore di una crescita dell’autonomia del significante, della forma.

Come puntualmente rilevava Italo Mario Angeloni, uno dei più autorevoli critici militanti dell’universo fotografico italiano tra le due guerre, nelle immagini che iniziano a comparire sulle pagine degli annuari e delle riviste italiane intorno al 1920 “C’è un studiata cura di sopprimere quanto formava il bagaglio inutile della vecchia fotografia aneddotica. (…) è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925, p. 68)

“Sintesi” è la parola chiave, il concetto rivelatore utilizzato pochi anni dopo anche da Marziano Bernardi, autorevole critico d’arte del quotidiano “La Stampa”, che nel suo commento al secondo Salon fotografico tenutosi a Torino nel 1928 riconosceva come nella critica fotografica “Ormai (…) s’usa un linguaggio per nulla diverso da quello pittorico: e si accenna a valori, toni, rapporti, a piani, volumi, cromatismo. (…) Ma v’è di più. Ed è il singolare e significativo uniformarsi della fotografia (specie la fotografia dei giovani) a quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta.”[1]  Cosa poi s’intendesse quale perfetta “realizzazione sintetista” ci è svelato da un testo di poco successivo, ancora di Angeloni, in cui l’immagine di un paesaggio invernale veniva restituita come “esigua ed infinita parola di bianco e di ombre che ti conduce verso il raccoglimento del sogno.” (Angeloni 1926, p.  243).

Accanto alla “sintesi”: il sogno.

Che è un altro modo per dire sentimento e – sovente – sentimentalismo, in una contraddizione apparente ma forse solo nostra, allora superata dalla comune possibilità di trasformare “la realtà in visione idealizzata”, scegliendo di comporre immagini fortemente  antiprospettiche, prive d’orizzonte e punti di fuga, in palese contrapposizione coi presupposti stessi della tradizionale visione ottica occidentale; allo scopo di ridurre il peso della referenzialità in favore del   riconoscimento del loro puro valore di immagine.

In questo contesto si può comprendere come la scelta del soggetto giocasse un ruolo importante, determinante, inducendo al confronto con porzioni di mondo che consentissero di misurare le proprie capacità espressive.

Ne sono prova le sollecitazioni che spingevano a considerare “il contributo della microfotografia alle arti decorative”, in cui si lasciava intravvedere la possibilità per “gli artigiani di tutte le specialità [di] trovare nel materiale messo a loro disposizione (…) quantità di nuove ispirazioni.” (Il contributo, 1929) o le analoghe riflessioni ospitate sulla rivista “Natura”, che nel 1929 pubblicava un importante articolo dedicato alla Fotografia moderna, poi pubblicato “se pure con certe riserve” anche sulle pagine del “Corriere Fotografico”. (Boggeri 1929a, 1929b)

È oggi sufficiente uno sguardo d’insieme, sintetico e quantitativo alla produzione di quegli anni per constatare, per comprendere quale fosse il soggetto privilegiato di queste prove, di queste un poco ingenue sperimentazioni che non saprei definire altro che discorsive, se non proprio linguistiche: gli autori dell’allora “giovane fotografia” guardavano al bianco del mondo alpino (anche in virtù di un diffuso intreccio di passioni) per  raccogliere la sfida di un confronto che nasceva dal bisogno, se non dalla volontà di far coincidere materia e colore, di ridurre ogni distanza tra forma e contenuto, sino alla rivelazione fascinosa del segno di puro valore espressivo, sebbene  – qui, sempre – velato da uno sguardo ancora crepuscolare.

Vengono alla mente le ben altrimenti consapevoli riflessioni di Alfred Stieglitz, la sua necessità ad un certo punto del proprio percorso di dare forma al progetto che si sarebbe tradotto in Music: a sequence of ten cloud photographs n.8, del 1922: “Volevo fotografare le nubi per scoprire cosa avevo imparato di fotografia in quarant’anni. Attraverso le nubi mettere per iscritto la mia filosofia della vita – mostrare che le mie fotografie non erano dovute alla qualità del soggetto  – le nubi erano a disposizione di chiunque, liberamente – nessuna tassa da pagare finora. (…) Il mio scopo è di fare fotografie che sembrino tali sempre più, al punto che non saranno viste, a meno che uno abbia occhi e guardi – e pure nessuno che le abbia viste una volta, le dimenticherà mai. Spero che questo sia chiaro.” (Stieglitz 1923)

Sarebbe ingenuo, di più, antistorico attendersi la stessa consapevolezza negli autori italiani dei primi decenni del Novecento, lo stesso livello di riflessione critica in una realtà come la nostra in cui lo spazio della ricerca era limitato e ridotto alle pratiche amatoriali, in cui la fotografia era  “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è – nelle parole di Guido Rey – il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini.” (Rey 1925, p.  6)

Entro questi limiti ben definiti, anche se non netti, è comunque possibile seguire le tracce di più percorsi, a volte nettamente individuati, individuali, altre talmente sovrapposti da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che è collettivo, che elabora infinite variazioni sul tema, che si muove incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica. Un autore che si dedica alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  possa funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosce l’estraneità al genere del “paesaggio.”

Quello spazio bianco su cui condurre le prove, non era una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di  più: soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza nello scenario alpino, luogo di antiche frequentazioni e passioni condivise per quelle generazioni. Un intreccio tra alpinismo e fotografia che legava le due pratiche sin quasi dalle origini, aperto da sempre alle suggestioni fantastiche.

Lo sguardo che scopriva le montagne aveva trovato le proprie origini in quel romantico sentire cresciuto dalle radici intrecciate del sublime settecentesco e  del nuovo riconoscimento tutto positivo della fattualità degli elementi naturali (le rocce, le nuvole, i ghiacci), in una oscillazione feconda e mai risolta tra fascino del pittoresco ed analiticità documentaria, quasi cartografica; quella stessa che incantava John Ruskin e buona parte poi della cultura ottocentesca; quella che spingeva i più grandi autori a misurarsi con l’impervio compito – quasi insormontabile – della fotografia di montagna, non solo delle montagne, ancora sulla soglia dell’età del collodio, subito dopo il 1850. Non per caso il lavoro  che destò maggior sensazione all’Esposizione universale di Parigi del 1855 era stato la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco, lunghezza totale due metri, realizzata  da Friedrich von Martens, con la “riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”. Il pubblico dei visitatori era stato attratto anche dalle vedute dell’Oberland bernese  realizzate dai Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero, che alcuni anni dopo, intorno al 1860,  saliranno – anzi sarà solo il “giovane” Auguste-Rosalie a farlo –  sul  Monte Bianco per realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origini, poi raccolte in due album di Souvenir, uno dei quali, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato « A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie ». (Infinitamente, 2004)

Già l’interesse di Bisson comportava esplicite preoccupazioni estetiche, come testimonia il coinvolgimento del pittore Gabriel Loppé  nella nuova spedizione del 1861,  e come mostrano le affascinanti immagini dedicate ai ghiacciai. Esse costituiscono l’adattamento fotografico di  un’ostinata variazione sul tema che si svilupperà mutando ogni volta il punto di vista, scegliendo le distanze più adatte al racconto:  dalla maestà geografica della veduta quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione. Marionette in uno scenario di fiaba che ha perso per strada ogni semplice intenzione descrittiva. Il soggetto era certo dei più affascinanti, e dei più redditizi anche, come dimostra il suo ricorrere nei cataloghi di numerosi fotografi ottocenteschi,  confermando – ci pare – la sua aderenza, la sua disponibilità all’immaginario, quella stessa che doveva aver condizionato la ripresa che Giorgio Sommer dedicò a Chamounix, Mer de Glace in una data non meglio precisata (Infinitamente, 2004, pp. 52-53), ma non troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta del XIX secolo,   offrendo un’interpretazione nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discostava nettamente dai modelli prevalenti, e  – forse memore dell’interpretazione di Byron –  quasi immergendo l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamente da quelle onde immense, eternamente bloccate dal gelo ancor prima che dalla fotografia, pietrificate e bianche, da cui sembra emergere il dorso di favolosi cetacei: l’apparizione magica della balena di Giona se non ancora di Pinocchio (1880).

È qui, nel concedersi al fantastico che la fotografia si allontanava, ancora inconsapevolmente, da quella missione documentaria che la cultura ottocentesca le aveva affidato. Non più “ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia”, non più “il segretario e il taccuino di chiunque abbia bisogno di un’assoluta esattezza materiale”, come pretendeva Baudelaire,  ma la scoperta, e la rivendicazione poi, che la fotografia potesse essere strumento e tramite di un dialogo con la natura che doveva andare oltre la pura descrizione: “Il me semble – scriveva Victor Hugo –  que les choses-là sont plus que du paysage. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser (…).”[2]

In questo mutato scenario prendeva forma una possibilità nuova. Da qui iniziava a definirsi lo spazio per il racconto del fotografo, per la fotografia come strumento generatore di immagini e non di semplici (se mai lo sono) documenti. Da qui si avviava la possibilità stessa dell’espressione della soggettività sub specie fotografica, pur continuando consapevolmente ad affidarsi all’ apparente trasparenza documentaria del mezzo, ogni volta mettendo in scena lo spettacolo della verosimiglianza, in costante, fecondo equilibrio tra invenzione narrativa ed insopprimibile analiticità descrittiva.

Lo scopo ambizioso era di ottenere la “documentazione dell’inesistente”[3], conquistando una  coraggiosa equidistanza tra la sublime fotografia alpina che fu di Vittorio Sella e degli altri grandi fotografi del XIX secolo e le più invasive manipolazioni pittorialiste, da cui comunque alcuni dei nuovi autori furono in certa misura tentati.

In questo percorso di rivendicazione un ruolo determinante ebbero, come si è detto,  la scelta del soggetto e delle condizioni di ripresa, la riduzione degli elementi denotativi, l’azzeramento della scena costituito dal bianco su bianco delle masse nevose su cui disporre i segni neri e sintetici di qualche tronco o ramo, di qualche traccia di sci. Qui riconosciamo il progressivo volgersi dell’attenzione dai dettagli del paesaggio al paesaggio di dettaglio; la capacità di vedere e descrivere un universo conchiuso, autonomo. Non una sineddoche:  paesaggi d’invenzione. Reinventati dallo sguardo che li scopre e li mostra, nuovi, per la prima volta; poiché ciò che veniva mostrato non era la trasposizione fotografica del luogo ma la raffigurazione del rapporto che con esso intratteneva l’autore. Una fotografia di fatto “soggettiva”, sebbene ancora lontana dalla consapevolezza critica che al termine sarà data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra (Subjective, 1984).

Il primo passo era stato compiuto dal movimento pittorialista,  in tutte le sue differenti declinazioni. Basti pensare all’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo caratterizzava a  livello internazionale e di cui costituivano indizi rivelatori non solo elementi apparentemente secondari come il trattamento finale, la presentazione dell’opera, ma specialmente la manipolazione delle apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.

Mentre si moltiplicavano le scene arcadiche e crepuscolari, però, guerra e fotografia si alleavano per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo. Non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si ampliava e si ridefiniva la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente” (Leoni 2001, p.  8), ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affiancava, sostituendosi in parte, una visione zenitale e planimetrica, in cui l’immagine fotografica si approssimava all’astrazione cartografica conservando intero il proprio carico di referenzialità[4].

Per questa sola ragione la ripresa aerea ha contribuito a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[5], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. (…) Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.” (Stein 1938, p.  86-87)

Lo statuto di queste fotografie era, ancora una volta, ambiguo e ciò ha determinato conseguenze importanti sul loro impatto estetico[6]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[7], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[8], ma la loro assoluta capacità di restituzione ottico geometrica ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica: l’esito supremo dell’applicazione strategica dell’oggettività fotografica conduceva all’astrazione.

Negando ogni confronto comune e il conforto che nasce dall’esperienza diretta, il terribile Paesaggio di rumori di guerra (per riprendere il bel titolo di un piccolo disegno di Depero, del 1915) di queste immagini si trasformava in figura astratta e imponeva suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico ben oltre gli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.

è appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree di due architetti fotografi come Giuseppe Pagano e Carlo Mollino, o ricordare che Lazlo Moholy-Nagy ricorse alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[9]. Più pertinente alla cultura fotografica italiana  era stata la riflessione che Antonio  Boggeri svolse nel  1929 a proposito del concetto di “fotografia moderna” sulle pagine della rivista milanese “Natura”, lucidamente sviluppata nel Commento all’annuario Luci ed Ombre dello stesso anno. “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove” (Boggeri 1929a) “in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”. (Boggeri 1929b)

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, della “fotografia pura o integrale”, segnava anche il punto di svolta di un percorso collettivo di ricerca[10] sorretto da istanze non sempre chiaramente espresse se non – più spesso –   ingenuamente formulate. Solo la rilevanza del fenomeno, solo la verifica della sua incidenza, della “evidente affinità di tendenze e di metodi” che già Boggeri riconosceva anche a livello internazionale, ci consentono oggi di ritrovare in quelle opere un senso e un valore  che vanno oltre le semplicistiche dichiarazioni di poetica, oltre le coeve letture critiche di tono crepuscolare.

Solo Mario Gabinio non ne fu toccato, ma in ragione della sua sostanziale marginalità rispetto alla rete degli amateur photographers torinesi. Lo scarto radicale e stupefacente che impose al proprio guardare all’avvio degli anni Trenta, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista, ma rielaborando semmai suggestioni del divisionismo[11],  restò sostanzialmente ignorato sebbene molte delle opere pubblicate sulle riviste di quegli anni avessero più di un’analogia con esemplari della sua produzione anche significativamente antecedenti.[12]

I nomi che circolavano erano quelli degli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, vale a dire Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, dal 1923 direttori e proprietari del “Corriere Fotografico” e di un altro piccolo gruppo di autori, prevalentemente provenienti dall’Italia settentrionale, dal Piemonte al Trentino, che determinavano con le loro opere il tono medio della produzione italiana tra le due guerre, segnata dallo scarto drammatico tra cultura “salonistica” e scenario politico e civile, distacco che procederà, pur con ragioni successivamente diverse sin quasi agli anni del secondo dopoguerra.

Sebbene incominciassero ad affacciarsi, già intorno alla metà degli anni Venti, accenni ad un “nuovo mondo” seppur non ancora ad una “nuova visione”, lo stesso linguaggio critico si abbandonava ancora all’esaltazione della “poesia delle soffici luminosità”, del “temperamento raccolto e sognante” di Francesco Agosti come del romanticismo di Peretti Griva, celebrando la “religiosa passione espressiva” delle immagini di Carlo Baravalle, in cui i “segni del travaglio meccanico” erano ormai scomparsi. Il piemontese Angeloni notava che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[13] Questi richiami non dovevano certo dispiacere a quegli autori, specialmente ai torinesi che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino del CAI, nel maggio 1927, e addirittura, nel gennaio dell’anno successivo dell’intera  Prima Mostra d’arte fotografica del Gruppo Piemontese per la fotografia artistica.[14]

Fu questa la più ricca stagione delle mostre e dei Salon torinesi e della notorietà internazionale dei membri del gruppo: Photograms of the Year 1929 (Photograms 1928) aveva pubblicato un’immagine di Bricarelli[15] e Audax di Giulio (t. XXV), che Gian Luigi Brezzo aveva già giudicato “superbo” presentandolo sulle pagine dell’annuario di Luci ed Ombre per il 1929 (Brezzo, 1929 p.  778).

Cesare Giulio,  autore di “abbacinati paesaggi di neve”[16] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, era certo stato tra i primi e più coerenti nell’adottare le formule della nuova fotografia, autore di immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, era confermata anche da certi suoi titoli (Trasparenze, ante 1932) analoghi a quelli di autori a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)[17].

L’appartenenza di queste fotografie al genere del paesaggio, inteso come “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura.” (Bernardi 1927, p.  10) era – come si è detto –  messa in discussione: “non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (ivi, p.  11).

Sono fotografie che danno “pittoricamente l’impressione del silenzio e della solitudine”, che offrono  “null’altro che una fulminea sensazione di velocità”, nella definizione di Marziano Bernardi de La scia di Cesare Giulio, giudicata “efficacissima per la trovata dei due solchi che diagonalmente tagliano il ripido nevaio.” (ivi  p.  17). La stessa immagine, forse la più nota ed emblematica di tutta questa stagione[18], venne pubblicata come “study in space and movement (…) a skier whose trail through the snow describes a beautiful curving line”, nell’annuario del 1931[19] della rivista londinese “The Studio” (tav. 81), una vera summa della fotografia modernista con immagini di Herbert Bayer, Francis Bruguiere, Florence Henri, Germane Krull, Man Ray e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli.

Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata dell’artisticità dell’immagine rappresentavano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo ancora  imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese, esplicitamente richiamata a commento di un’opera di Riccardo Moncalvo presentata in Luci ed Ombre del 1934[20]. L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931 e, ancora, l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck[21], il regista che nel bellissimo libro fotografico dedicato al suo Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, aveva riproposto con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vennero assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”. (Le stelle 2004, p.  127)

A conferma di “quanto potentemente [avessero] influito i modi del cinematografo sulla fotografia moderna”  (Pellice 1932, p.  XIV) basti verificare come le campiture di neve delle piste fossero state trasformate in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili,  più veloci,  portate sino all’estremo limite della scomparsa della figura: restavano solo le nuvole bianche sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (quando la neve è polverosa). Le ombre in movimento, le tracce e le forme che modulano il bianco erano quelle che ritroviamo in molta fotografia modernista, al limite della citazione, quasi del plagio.

Gli esempi sono numerosissimi[22], in particolare nella produzione di Giuseppe Ghedina (Cortina d’Ampezzo) e dei Fratelli Pedrotti (Trento e Bolzano), attivi anche nel campo del cinema di montagna sin dal 1932 quando Aldo filmò la Prima ascensione direttissima della Paganella. Già Floriano Menapace (2001 p.  53) aveva indicato come  “la vera fonte estetica dei Pedrotti fossero il cinema  e i ritratti fotografici degli attori”, con riferimenti espliciti a Fanck e Luis Trenker, mentre meno convincente appare  il richiamo alle influenze  futuriste (ma di un futurismo ormai semplice “cultura della modernità”) “dopo aver conosciuto Depero e il suo impegno entusiasta per l’avanguardia” di cui ha parlato Giovanni Lista (2001 p.  193), riconoscendo nei “solchi lasciati dagli sci e dalle slitte sui campi di neve, la volontà di una resa astratta capace di trascendere il riferimento ai dati della realtà esteriore e (…) una connotazione calligrafica che traduce i temi formali tipicamente futuristi dei tracciati d’energia e delle linee in movimento continuo.” (ivi  p.  202) Lettura affascinante, ma non convincente. Si potrebbe forse suggerire un percorso diverso, ricordando ad esempio come Enrico Pedrotti, di formazione tardo pittorialista, avesse pubblicato su “Galleria” nel 1934, in un numero in cui comparivano  anche immagini di Erich Angenend, autore vicino alle poetiche della Nuova Oggettività e per lungo tempo punto di riferimento di molta fotografia italiana.[23]

Quando, allo scadere del regime fascista, nel 1943 venne pubblicata Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia per la cura di Ermanno F. Scopinich in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, lo scenario appariva ormai in profonda trasformazione e  Peretti Griva, storico autore di “paesaggi trascendentali” caparbiamente pittorialisti, stampati al bromolio trasferto,  era il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Risultava assente anche un autore internazionalmente noto come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto, eredità diretta delle prove dei decenni tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[24] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53)

Il Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti si presentava – nella lettura di Zannier (1981 p.  14) come  “una bianca superficie, interrotta soltanto da due esili segni verticali (due pioppelle), che scandiscono lo spazio dell’immagine, di una estrema purezza grafica, inconsueta allora”, sebbene fosse una prova di tono piuttosto narrativo, lontana dalle tensioni astratte presenti nelle opere dei migliori autori del decennio precedente.  Fotografia uscì a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresentò un ulteriore tentativo, non compiutamente risolto, di far procedere il dibattito che avrebbe dovuto consacrare la svolta modernista, timidamente avviato dopo il 1923 dal “Corriere Fotografico”, poi proseguito e affinato sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Gio Ponti,  Edoardo Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi.

Federico Vender, presente con quattro immagini, era in quegli anni uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano e internazionale almeno dal 1934. Il suo sguardo orientato alla trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, era caratterizzato dal ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui, come in Giuseppe Cavalli, liberato ormai dalla necessità del soggetto e caricato consapevolmente di senso e intenzione, esito della “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[25]. Era dalla considerazione critica di questa sequenza di opere e autori che sarebbe derivata, ormai alla soglia degli anni Sessanta, la possibilità di riconoscere “la costante più vera della nostra fotografia, pur in mezzo a tante contraddizioni e ripieghi: la verità della forma.” (Turroni 1959, p.  17)

La condizione nuova in cui viveva il paese, uscito da poco più di un decennio dalla guerra civile, il punto di vista collocato in una fase di profondi cambiamenti non potevano però non portare, contestualmente, a formulare un severo  giudizio etico: “Nell’immediato dopoguerra la stabilizzazione conformista non accenna minimamente a frangersi in vista di uno sbocco libero, di una finalità narrativa. (…) Questo voluto narcisismo era necessario ai fini di un ulteriore approfondimento del linguaggio? No. Si trattava in sostanza di indifferenza, di pigrizia morale” (ivi, p.  24) giustificabile solo pensando al lungo “periodo di rassegnazione” trascorso.

Erano anni in cui il confronto ideologico all’interno della più viva scena fotografica italiana, incerta tra eredità fotoamatoriale e nuove spinte all’impegno professionale, si manifestava anche attraverso la costituzione di numerosi circoli fotografici militanti: dopo una gestazione quinquennale (e una guerra di mezzo) nel 1947 venne pubblicato su uno dei primi numeri della rivista “Ferrania” il manifesto di palese derivazione crociana de La Bussola, fondata da Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Mario Finazzi, cui si aggiunsero Ferruccio Leiss, Luigi Veronesi ed altri in seguito, mentre sul finire dello stesso anno si costituì La Gondola, per iniziativa di Paolo Monti. Ancora per iniziativa di Cavalli veniva fondata nel 1953 l’Associazione Fotografica MISA,  emanazione ‘giovanile’ de La Bussola, che nella sua prima mostra,  a Roma nel 1954, presentò opere di Piergiorgio Branzi, Mario Giacomelli, Francesco Giovannini, Giuseppe Möder ed altri, affiancati da autori più ‘anziani’ come Cavalli e Vincenzo Balocchi.

Di poco successiva fu l’istituzione del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, costituito nel 1955 a Spilimbergo da Italo Zannier, Fulvio Roiter, Gianni Borghesan, Toni Del Tin, Carlo Bevilacqua, Aldo Beltrame (poi anche Gianni Berengo Gardin), gruppo che si professava di stretta osservanza neorealista, sebbene nella sua produzione si riconoscessero influenze diverse, che avrebbero portato Franco Russoli a parlare per loro di “realismo lirico”[26], individuando la presenza di elementi che implicavano un richiamo alla fotografia soggettiva, quindi ad ambiti di ricerca prossimi ad un autore apparentemente lontano come Paolo Monti.

Per ben vent’anni, luogo privilegiato di confronto e di scambio, di divulgazione consapevole della nuova cultura fotografica italiana fu la rivista “Ferrania”, fondata in quello stesso 1947 che si rivela essere stato un anno chiave per la nuova fotografia nostrana, quale strumento promozionale della più importante industria italiana di prodotti fotografici. Nelle parole di Italo Zannier, che nel 1956 vi pubblicava il suo primo saggio, dedicato ad una lettura neorealista di Giacomelli in contrapposizione all’idealismo del maestro Cavalli, la rivista era “una cronaca colta, che offriva il più attendibile panorama di una cultura visiva nel  passaggio dal residuo pittorialismo al modernismo (…) sino allo sperimentalismo (…) e inoltre il neorealismo sociologico (…) magari privilegiando quello più dolce e lirico dei veneziani Roiter, Del Tin, Bonzuan.” (Zannier 2004, p. 114).

Le opere pubblicate sulle sue pagine ci consentono di ricostruire le intricate vicende di una stagione conflittuale, segnata dalla contrapposizione “tra fotografia d’«arte» e fotografia «vera»”, tra le diverse declinazioni del realismo e la fedeltà “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[27]

Questa doppia posizione si traduceva visivamente nel radicale contrasto tonale tra l’ high key, proprio dei formalisti dichiarati, sovente ridotto a formula stilistica progressivamente esangue, assunto quale elemento significante dell’idealismo artistico, e le “ricorrenze tonali di un nero profondo” (Camisa 1958, p.  105) che contraddistinguevano la nuova fotografia impegnata nel dialogo col vero, per quanto trasfigurato.

Chi in quegli anni si assumeva il compito di riflettere sulle tendenze della fotografia italiana,  ancora una volta non poteva fare a meno di utilizzare un lessico, di richiamare definizioni critiche derivate dal più vasto mondo della cultura artistica, ora consapevolmente accolte.

“Esistono dei termini, delle ‘definizioni’ della forma espressione, validi indipendentemente dalla loro derivazione pittorica – affermava Alfredo Camisa – Anche se non perfettamente propri, alcuni di essi aderiscono al nostro pensiero: e non sta a noi crearne di nuovi. Espressionismo è uno di questi termini. Espressionismo indica rivolta contro ogni residuo naturalistico, espressione di qualche cosa che è dentro di noi: non la traduzione di un brano di natura (…) ma la visione interna fuori da ogni relazione (…) fondata su uno stato d’animo. La forma può apparire sconvolta, lacerata…” (Camisa 1958, p.  106)

La difficoltà di procedere oltre, di giungere a distinzioni nette tra le diverse tendenze e atteggiamenti emergeva però immediatamente: “la definizione stessa che ne abbiamo tentato – riconosceva Camisa –  indica comunque come il ‘passaggio’ dall’espressionismo ad altre forme espressive sia difficilmente individuabile: non sarebbe ad esempio concepibile una fotografia realista ed ambientale che fosse solamente tale e non espressionista”, tracciando così un percorso  che da Monti e Giacomelli si ampliava sino a toccare Berengo Gardin, Branzi, Möder, Zannier e lo stesso Camisa. Questa prima distinzione non era però ancora sufficiente a descrivere l’intero arco della produzione postbellica, cui andava aggiunta la “fotografia lirica-realista, in pieno splendore nel decennio 1945-1955”.  Nella sua “delicatezza di toni, nella ricercatezza e nella compiutezza formale” era facile riconoscere “la derivazione da quella tendenza lirica pura dei nostri maggiori maestri dell’anteguerra. (…)  Una tendenza di grandi orizzonti, di semplice comprensione e di facile presa, anche se , spesso, al limite del manierismo e di un puro compiacimento formale”, in cui venivano fatte rientrare le opere di Bevilacqua, Giovannini, Roiter “ed alcune immagini di Bonzuan.” (Camisa 1958, p.  107)

Riconosciamo qui quella difficoltà o incertezza interpretativa, quella stessa impossibilità feconda di applicare troppo rigide classificazioni che ritroviamo in un’altra lettura delle opere di Mario Giacomelli, i cui paesaggi erano giudicati  “espressionisti eppure placati in una pura scansione ritmica (…) di un significato lirico ispirato.” (Turroni 1959, p.  65)

Dal luglio 1957 aveva fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Piero Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum ed un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali.” (Colombo 1958)

Il notevole spettro di interessi e l’apertura di un redattore come Donzelli erano testimoniati dalla pubblicazione degli Esperimenti di fotografia astratta di Franco Grignani, presentati da Gillo Dorfles (settembre 1958) come delle formalizzazioni di Edward Weston (1886-1957), cui venne reso omaggio a poca distanza dalla morte, mentre su quelle pagine Zannier proponeva i suoi “aforismi e fotografie” di architettura, dimostrando un’attenzione per la cultura visiva statunitense, da Ezra Stoller a Minor White, che andava ben oltre l’impegno realista del suo Gruppo Friulano.

Quando, nell’ottobre del 1959 alla Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni si tenne l’ennesima “Prima Rassegna della Fotografia Italiana”, offrendo un panorama estremamente articolato e ricco di oltre cinquecento fotografie dei  migliori autori, il compito non tanto di recensire l’evento quanto “di trarne un insegnamento” venne affidato ancora a Camisa, ma il bilancio che ne fece non fu certo positivo.

Era ancora ben presente infatti l’anacronistico permanere e prevalere del dilettantismo, quello stesso stigmatizzato da Turroni, qui più precisamente individuato e definito nella “mancanza di consapevolezza critica nell’impiego del mezzo fotografico e [nella] conoscenza delle funzioni del [suo] linguaggio.” (Camisa 1959, p.  76).

“Fra i dilettanti presenti a Sesto (…) mostrano particolari lacune (…) Giacomelli e Gardin [presente con Il trenino della Val Gardena], che pure sono fra i migliori dilettanti nostri; entrambi, e in particolare il secondo, difettano per la disparità delle immagini selezionate e dello stile. Per un difetto, cioè, tipico del dilettantesimo fotografico…” (ivi, p.  77)

Era il punto di snodo. L’avvio di una nuova stagione della fotografia italiana.

Note

 

[1] Bernardi 1928, pp.  641- 642. Lo stesso concetto sarà ripreso ancora alcuni anni più tardi in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro “Concetti per fotografi moderni” Mario Bellavista invitava infatti a “fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.” (Bellavista 1934, p.  10)

[2] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Sorbé 1993 , p.  69.

[3] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo nel 1922 al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. Non esistono per ora elementi certi che consentano di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, su cui cfr.il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”. Anche Gio Ponti, nel suo  Discorso sull’arte fotografica, 1932, riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.  (Ponti 1932, pp. 285-286).

[4] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche, il periodico “La Fotografia Artistica” riprendeva – 12 (1915, n. 2,  febbraio, pp.  25-26; marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 3 (1913), in cui si descrivevano le diverse applicazioni senza però fare alcun cenno alla guerra incombente.

[5] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri 1978, p.  11-12.

[6] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cit. in Zandonati 2000, p.  16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[7] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, p.  42.

[8] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicate per cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1992.

[9] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.  126.

[10] “Sulle riviste di quegli anni l’idillio regna sovrano. Colpisce un amore uguale in tutti, quello di una determinata espressione formale. A occhi non smaliziati, non «iniziati», le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.” (Turroni 1959, p.  36)

[11] Tronchi in controluce, del 1936 riprende temi e problemi di rappresentazione affrontati alcuni decenni prima da  Vittore Grubicy de Dragon.

[12] Mi riferisco ad esempio al suo Paesaggio invernale, 1915-1920, che presenta molte analogie con le Fantasie di ghiaccio di Piero Oneglio pubblicata sul “Corriere Fotografico” nel dicembre del 1924. Il motivo delle ombre di tronchi sulla neve ritorna anche in un’immagine di Stefano Bricarelli per  “Motor Italia”, 11 (1932) marzo, p.  45 a corredo dell’articolo L’Eden degli sciatori nelle nostre Alpi, ma anche in Photograms of the Year, 1940 (tav. LI),  in una fotografia dell’americano Gustav Anderson.

[13] Angeloni 1926, p.  242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini.” (Bernardi 1927, p.  10)

[14] Oltre a Maggi, soggetto anche di un ritratto di Ottaviano Ecclesia, i curatori della mostra, aperta il 21 gennaio 1928 al Circolo della Stampa di Torino,  erano, i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”). Oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe. In occasione dell’esposizione del Fotogruppo Alpino nel maggio 1927, nella sala del Gruppo Piemontese erano presenti opere di Agosti, Baravalle, Bologna, Bricarelli, Placido Eydallin, Giulio, Oneglio, Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Hess e Reviglio.

[15] Gondole, t. X. Lo stesso Bricarelli aveva redatto un breve profilo della fotografia italiana per Photograms of the Year del 1923 che conteneva ben cinque opere di autori italiani.

[16] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[17] Il richiamo alle forme musicali, oltre all’esempio di Stieglitz, verosimilmente ignoto in Italia, era esplicitamente avanzato da numerosi autori: “Io sono solito ad associare una visione fotografica a una sensazione musicale, la quale, a guisa di pietra di paragone, può darsi mi dia una norma per stabilire l’intensità dell’emozione avuta.” (Peretti Griva 1934, p.  17)

[18] Come conferma uno degli album conservati presso l’Archivio Fotografico del Museo Nazionale della Montagna di Torino, questa immagine notissima costituiva l’esito del taglio in stampa di una più ampia ripresa (n.3795).

[19]Le due più importanti riviste italiane di architettura dedicarono recensioni a questo annuario, pur con valutazioni profondamente diverse: per il redattore di “Domus” si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931),  n.47, p.67 –  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume costituiva l’occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.”, 4 (1931),  n.47, novembre, p.54. Nel marzo dello  stesso anno si apriva a Torino la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, a breve distanza dalla redazione del manifesto La fotografia futurista, di Marinetti e Tato, pubblicato nell’aprile del 1930 in occasione del Primo Concorso Fotografico Nazionale di Roma. All’edizione torinese, ricca di ben 170 opere di 22 autori diversi ma poco più che segnalata da due brevi note di cronaca cittadina comparse sui quotidiani locali, non partecipò nessuno dei fotografi vicini al Gruppo Piemontese, ma fu certamente visitata da alcuni di essi: Carlo Matis, ad esempio, possedeva una copia del catalogo.

[20] “Riccardo Moncalvo disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette”, scriveva Angeloni a proposito di Inverno presentando l’annuario di quell’anno (Angeloni 1934, p.  591)

[21] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.   116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione fu stata la Germania, efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Giger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, p. 100 passim.

[22] Penso in particolare a certe immagini del torinese Alberto Rossi, di cui Mollino pubblicò un Ritratto di Marlene Dietrich (1949, p.  295) o alle opere di Ettore Santi, di Clavières, datate 1930, perfettamente assimilabili alle foto di scena di Fank.

[23] I rimandi non dovevano però essere a senso unico: si confronti ad esempio  Levico: lago gelato, 1956 (Menapace 1981, p. 121) dei Pedrotti con Gelo astratto, di Angenend,  “Ferrania”,  13 (1959),  n.1, gennaio, p.4.

[24] Immagini dei Fratelli Pedrotti vennero pubblicate anche da Carlo Mollino (1949, p. 365) insieme a due fotografie di Riccardo Moncalvo (Nella tormenta  e Sotto zero, tavv. 362-363, entrambe del 1937, qui datate 1946).

[25] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

[26] Zannier 1997, p. 11. Alla luce di questa interpretazione è interessante leggere un’immagine come Finestra a Claut, 1953, di Zannier che offre suggestioni ben lontane dal realismo, e che fa venire alla mente le parole di Minor White: “L’elastica linea tra realtà e fotografia è stata tirata inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno lasciato il mondo delle apparenze; perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’obiettivo, la sua autenticità. (…) Mentre vengono fotografate rocce, il soggetto della sequenza non sono le rocce; mentre sembrano apparire simboli, essi sono indicatori di senso. Il significato appare nello spazio tra le immagini, nel sentimento che suscitano nell’osservatore. (…) Le fotografie possono essere lette senza riserve. L’accidentale è stato messo da parte. La trasformazione della materia originale in realtà fotografica è stata intenzionale; la stampa è stata manipolata per influenzare l’affermazione; ed era stato previsto che appena l’oggetto si fosse rivelato, il Sé dell’osservatore si sarebbe manifestato. Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente.”, (Minor White 1991, pp. 10-12).

[27]  Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

 

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Domenico Riccardo Peretti Griva, Come deve essere giudicato il valore artistico di una fotografia?, “Galleria”, 2 (1934), n.8, agosto, pp. 16-18

 

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

 

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

 

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp. 285-288

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1929

Redazionale, Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Redazionale, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

 

Redazionale 1984

Redazionale, Giuseppe Vannucci Zauli, “La Nazione”, 5 marzo 1984

 

Redazionale 1993

Redazionale, L’ultimo eroe [Carlo Betti], “Il Resto del Carlino”, 13 ottobre 1993

 

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Russo 2004

Antonella Russo, a cura di, “Vera fotografia” italiana 1936 – 1984. Arte, costume e società nelle immagini di una collezione privata. Milano: Skira, 2004

 

Schwarz 2001

Angelo Schwarz, a cura di, Guarda, ascolta. L’originale avventura tra musica e fotografia dei F.lli Pedrotti. Trento: Provincia Autonoma di Trento – Temi Editore, 2001

 

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

 

Sorbé 1993

Hélene Saule Sorbé, Pyrénées. Voyage par les images. Serres-Castet: Editions du Faucompret, 1993

 

Stein 1938

Gertrude Stein, Picasso [1938]. Milano: Adelphi, 1973

 

Le stelle 2004

Le “stelle” parlano al vostro cuore: la fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 dicembre 2004 – 6 febbraio 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Stieglitz 1923

Alfred Stieglitz, The Clouds, “The Amateur Photographer & Photography”, 56 (1923), n. 1819,  p. 255, ora in Nathan Lyons, Fotografi sulla fotografia, Torino, Agorà Editrice, 1990, pp.136-138

 

Subjective 1984

Subjective Fotografie, catalogo della mostra (Essen, 1984), a cura di Ute Eskildsen, Robert Knodt, Christel Liesenfeld. Essen: Museum Folkwang, 1984

 

 

Turroni 1959

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz Editore, 1959

 

Zandonati 2000

Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, A. Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp. 9-20.

 

Zannier 1958

Italo Zannier, Architettura, “Popular Photography”, 2 (1958), n.6, dicembre, pp. 56-60

 

Zannier 1979

Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier 1997

Italo Zannier, Il Gruppo “La Bussola” e la fotografia italiana del dopoguerra, in Forme di Luce 1997, pp. 5-19

 

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp.  112-116

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

 

Zanzi 1927

Emilio Zanzi, Montagne, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p.87

 

Scenderò nei vostri cuori a corda doppia: il racconto del cinema per immagini fisse (2004)

in  Le “stelle” parlano al vostro cuore: la fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1 dicembre 2004 – 6 febbraio 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004, pp. 17-31

 

 

Non so cosa avesse in mente William Wadsworth Hodkinson nel 1914. Fu quando pensò ad una montagna coronata di stelle per il marchio della neonata casa di distribuzione della Paramount: un colpo da maestro per chiunque avesse dovuto promuovere un’impresa destinata a vendere sentimenti & sogni.

Il cinema non aveva ancora vent’anni e già si avviava a diventare industria, consumo di massa; già sentiva il bisogno  vitale di legare a sé lo spettatore, l’agognato acquirente dei propri prodotti con lo strumento irresistibile della fascinazione, con l’astuta costruzione di icone, di immagini a forte carica simbolica.

Qui: la montagna, le stelle. Passi per queste ultime, per quell’intreccio di richiami che contengono, in cui la bandiera americana incontra lo splendore inarrivabile e freddo del firmamento siderale, profezia più che promessa del sistema hollywoodiano. Ma la montagna? Certo, l’aggettivo (paramount / supremo) conteneva il sostantivo e con questo il marchio, ma soprattutto questo ne era, a sua volta, la più efficace e sintetica raffigurazione, carica di secoli di tradizione iconografica, non ancora tragicamente interrotta, se mai lo fu – in quell’anno, e negli USA poi – dal sipario della Grande guerra. Come ci ha mostrato Hobsbawm, in quel 1914 si era solo alle soglie del “secolo breve”; i conti col XIX secolo erano tutt’altro che chiusi e l’immaginario collettivo poteva ancora facilmente comprendere e condividere tutto il carico simbolico e fantastico che si era accumulato intorno al tema della montagna almeno a partire dalla seconda metà del Settecento, portando poi uno spirito raffinato e sensibile come John Ruskin, ormai ben oltre la metà dell’800, a rievocare la sua prima visione dello spettacolo alpino come qualcosa “incredibilmente al di là di ogni sogno”,  rinnovando lo stupore fiabesco e terribile che aveva toccato i primi esploratori come  Pierre Martel, colui che per primo aveva utilizzato il toponimo di Monte Bianco, nel 1744, cui le sorgenti dell’Arveyron erano apparse fatte di “volte interamente di ghiaccio, di uno stile simile a quello delle grotte di cristallo inventate dalla favolistica come dimora delle Fate.” (Joutard, 1993: 87)

Non solo la montagna veduta però, con la sua geologia fantasmagorica sarà fonte di meraviglie e racconti. Anche la civiltà alpina, con le sue Storie e storie e poi il fiorente sviluppo dell’alpinismo (anche lui frutto maturo del XIX secolo) forniranno infinita materia per narrazioni tra evento e metafora, tra cronaca ed etica: come le fiabe.

Purezze di ambienti e di sentimenti; sacrifici necessari o liberamente scelti; ascensioni e ascesi: figure e percorsi comuni alle più antiche culture del mondo si offrivano,  disponibili ad alimentare la fame insaziabile di storie della nascente industria; un intero universo in cui lo scenario alpino era immediatamente leggibile, e utilizzabile quindi come elemento connotativo della psicologia dei personaggi, sino ad assumere un vero e proprio ruolo drammaturgico: la montagna (forse ancor più di altri luoghi) non è mai stata semplice scenario, fondale indifferente.

Insieme al cinema e alla sua industria  nasceva il materiale illustrato con funzione promozionale, specialmente manifesti dapprima, adottando forme di pubblicizzazione di altri spettacoli a basso costo come il music-hall, il teatro popolare e il circo. Nei primi anni di questa vicenda il soggetto del manifesto si riferiva piuttosto allo spettacolo in sé che non ai suoi contenuti, anzi era specialmente il pubblico con la sua vivace reazione alle prime proiezioni ad essere raffigurato (Bozza, 1995: 12), mentre la presentazione del soggetto, le suggestioni della trama erano piuttosto affidate alle fotografie di scena, distribuite sotto forma di cartoline o di vere e proprie stampe fotografiche, montate su eleganti supporti, destinate a svolgere in parte la funzione che poi sarebbe stata affidata alle fotobuste. Una collezione di scene cruciali offerta al potenziale spettatore, a ciascuno di noi; ai non proprio infiniti modelli di lettore per cui sono state pensate e prodotte, consapevolmente costruite per far leva sui meccanismi del nostro immaginario, per suggerire attrattive e senso di quel titolo, per indurci a varcare la soglia che separa la banalità del quotidiano dall’amniotico spazio sognante del cinematografo.

Attenzione però. Le foto di scena non sono il film, anzi potremmo quasi arrischiarci a dire che intrattengono con questo un rapporto analogo a quello che il ritratto ha con la persona: ne rileva alcuni aspetti, dice di ciascuno solo alcune cose. Queste fotografie sono il racconto di un racconto, forme diverse di narrare quella vicenda complessa che è costituita dalla trama del film, con quegli interpreti, sotto la direzione di quel regista, che si svolge in quei luoghi, e così via. Esse sono da sempre un racconto parallelo alla narrazione filmica, da cui le distingue non solo l’intenzionalità ma anche la logica espressiva;  si pensi all’uso di inquadrature diverse, anche molto lontane dai vincoli propri della ripresa cinematografica quali ad esempio il ricorso al formato verticale.  Sono immagini che presuppongono la  “reinvenzione dell’inquadratura e della recitazione degli attori”, si veda qui La roccia incantata di Giulio Morelli (1950),  necessariamente mutate nel passaggio dalla mobile durata del film  all’immobile istantaneità della fotografia, così come dalla diversa fruizione cui sono destinate: come ha ricordato icasticamente Angelo Schwarz “Guardare un film e guardare una fotografia non sono la stessa cosa”. (Schwarz, 1995: 43).

È da questa necessità comunicativa, ancor più che dalle forti limitazioni tecniche che nascono l’impossibilità di utilizzare il semplice fotogramma estratto dalla ripresa filmata e la volontà di concepire un prodotto specifico; ed è ancora per questo che le foto di scena e di cast non sono e non possono essere un puro duplicato del fotogramma stesso, ma comportano e impongono un’ulteriore messa in scena, che è fotografica; un racconto per immagini fisse destinato a dialogare, in modi più o meno efficaci e felici, con le altre componenti grafiche della fotobusta o del manifesto: dalle figure al carattere ed al corpo dei testi. Per queste ragioni ciò che più ci ha interessato in questa occasione non è stato tanto il cosa viene narrato, che è poi quasi un’invariante: drammi, sentimenti, tragedie del cuore, avventure e prodezze, ma il come. Come viene orchestrata questa narrazione che è anticipo e promessa di un ben più complesso narrare, verificandone a titolo esemplificativo i meccanismi e i generi sulla copiosa collezione di materiali cinematografici promozionali (manifesti, locandine, fotobuste, fotografie di scena e di lavorazione, albi e pubblicazioni a stampa varie) del Museo nazionale della Montagna di Torino, che ha negli anni dedicato una particolare attenzione a questi temi anche mediante la produzione di mostre e cataloghi, per indagare “il cambio di approccio alla montagna, all’alpinismo, all’esplorazione.” (La cordata delle immagini, 1995: 59)  Questi strumenti si sono rivelati indispensabili anche per la realizzazione del nostro progetto, che ad essi idealmente si riferisce adottando però il punto di vista parziale e settoriale della verifica delle modalità d’uso della fotografia in queste strategie di comunicazione, cioè di quella tipologia di immagini che più si approssima e quasi si confonde con quella cinematografica godendo però del credito di un maggior realismo, verificandone gli esiti nello specifico contesto del cinema di montagna. Abbiamo così provato a indagare i modi e i significati della reinvenzione dell’universo alpino, sovente ridotto alle sue componenti più connotate e paradigmatiche, per far emergere ricostruzioni che mostrano nell’artificiosità retorica del discorso non solo un’efficace funzionalità pubblicitaria, ma anche una più sottile e precisa capacità di rivelare le molteplici forme che le diverse idee di montagna hanno assunto nell’immaginario collettivo degli ultimi cento anni, offerte agli sguardi e alle attese degli spettatori immersi nel buio della sala.

Con l’affermarsi della montagna quale luogo accessibile, liberato da vincoli sacrali, e poi dell’alpinismo si definisce quella dicotomia ancora attuale che porta a distinguere la montagna immaginata, concepita e vissuta come scenario, da quella praticata: nella dura fatica quotidiana dei valligiani così come nella frequentazione sportiva e agonistica. È quella stessa distinzione che ritroviamo nella produzione cinematografica a soggetto, quando la scena e i personaggi che la animano si trasformano esplicitamente in spettacolo, luogo e ambiente di diverse trame possibili, contesto adeguato alla messa in scena di passioni forti, distillate. Una dura e maestosa scenografia in cui si muove  un manipolo di attori: protagonisti, comprimari e comparse ma sempre eroi, del bene o del male, disposti di volta in volta a coprire ruoli drammatici, romantici o più raramente comici, dove argomento o ambientazione alpina contemplano funzioni diverse, coerenti ai differenti generi. A ciascuno di questi corrispondono modi specifici di comunicare, ulteriormente distinguibili per cronologia e nazionalità; tutti elementi concepiti per meglio far presa sull’immaginario di uno specifico pubblico, per soddisfare le sue attese, per quanto indotte.

Per questo insieme di ragioni la nostra scelta ha privilegiato il cinema in montagna, i lungometraggi a soggetto, piuttosto che il cinema di montagna, più tecnico e documentaristico, che in virtù di differenti mezzi e finalità di produzione e per essere esplicitamente destinato ad un pubblico specializzato e attento, competente e informato ci è parso utilizzare una minore varietà di strutture narrative e di strategie di comunicazione.

L’attenzione ai modi del comunicare ed alla loro efficacia è stata valutata in termini di esperienza piuttosto che di verifica di ipotesi critiche, badando alle forme di costruzione di senso ed ai sistemi di valori, anche affettivi, sentimentali su cui si fondano e rimandano, ciò che ci ha portati a considerare non tanto le singole produzioni né le diverse tipologie di autori coinvolti (dagli art director, ai fotografi di scena ai grafici, cui andrebbe dedicata una storia a sé) quanto piuttosto a istituire confronti diretti da cui far emergere la presenza di stereotipi, la messa in atto (non la messa a punto) di luoghi topici del racconto riferibili a precisi orizzonti culturali, proponendo una riflessione che parte dall’empirica immediatezza dell’evidenza visiva.  Il nostro è stato un procedere per gradi, dotato di una sistematicità che si vuole solo strumentale, destinata a comprendere  non a classificare. Poiché la necessità era quella di stabilire utilitaristicamente un percorso  di lettura, in prima approssimazione abbiamo considerato le differenze tra i materiali che presentano un uso esclusivo della fotografia e quelli che la combinano con la grafica, senza tener conto delle diverse tipologie di prodotto, dai manifesti alle pubblicazioni promozionali,  per porci alla continua ricerca di senso attraverso le permanenze e le innovazioni visuali legate ai temi ed ai diversi contenuti del racconto cinematografico, sin quasi a sfiorare il concetto stesso di “genere”, ma senza porci qui il problema della necessità critica della sua utilizzazione, in favore di una maggiore libertà, e arbitrarietà quindi degli accostamenti e dei confronti. Una questione di sguardi.

Tra fiaba e mitologia i primi materiali promozionali, come la bella serie di cartoline dedicate al Guillaume Tell di Lucien Nonguet (1904), mostrano scenografie alpine di puro artificio melodrammatico: villaggi, foreste e dirupi da teatro di posa, offerti in tutta la loro convenzionalità rappresentativa, in relazione strettissima coi fondali dipinti e le attrezzerie varie, le rocce in gesso e cartapesta che si utilizzavano negli studi fotografici ottocenteschi quali elementi connotativi per la realizzazione del ritratto, qui offerti come pura invenzione attingendo alle convenzioni  di una precedente forma di rappresentazione, il teatro, e il teatro musicale in particolare, quasi a rivendicare una familiarità, una consuetudine, a suggerire una novità meno perturbante. Questo ordine di preoccupazioni sarà ben presto abbandonato e ribaltato anzi, tanto che le foto promozionali giocheranno sempre consapevolmente con tutti i codici della verosimiglianza per sottolineare la meraviglia del cinema, per costruire una finzione col massimo grado di realtà apparente,  confermata proprio dal mezzo utilizzato per veicolare l’informazione, da quella fotografia che tutta la cultura del secolo XIX aveva considerato massimamente oggettiva. Le prodezze narrate, così mostrate, non potevano che essere vere, sebbene inverosimili, contribuendo a trasformare l’interprete protagonista in divo, qualcuno cui era concesso di agire e vivere al di sopra della mediocre quotidianità, disponibile alla mitica proiezione del sogno dello spettatore. Le prime fotobuste non per caso presentano – si veda quella di The Valley of Silent Men (Frank Borzage, 1922) – un trattamento grafico complessivo che richiama proprio le forme di presentazione delle più lussuose stampe fotografiche coeve, con l’immagine a pieno campo racchiusa da un’elegante cornice grafica che richiama le decorazioni degli esemplari reali, mentre le informazioni testuali, con l’esclusione di quelle relative alla casa di produzione, sono sovrapposte alla figura; non solo titolo e interprete, però: al tempo del muto la locandina riporta anche la didascalia della scena raffigurata, generando una relazione testo – immagine che la colloca in una concatenazione di formule illustrative che  dal romanzo d’appendice  giunge sino al  fotoromanzo, mentre negli esempi successivi la distinzione tenderà a farsi più netta, con l’assumere d’importanza  – per trattamento e contenuti – della cornice grafica. È questa a costituire una delle tipologie ricorrenti dei materiali promozionali, in particolare proprio delle fotobuste, cioè  dell’insieme degli stampati pubblicitari esposti dagli esercenti in occasione della proiezione del film, di formato non superiore ai 50×70 cm, in cui  accanto alle indicazioni testuali vengono riprodotte una o più fotografie di scena (Schwarz, 1995: 43). Al contrario di quanto accade con il manifesto (o la locandina, che ne deriva) che ha una funzione sintetica, determinata dalla necessità di “inventare una nuova struttura di figurazione dotata di logiche e interrelazioni proprie” (Bertetto, 1995: 25), in grado di emergere visivamente dal sovraccarico contesto urbano, fornendo una “rappresentazione concentrata-esemplare del film” di cui costituisce un “correlato visivo-formale [una sua] intensificazione emozionale e visiva” (idem) le fotobuste si pongono rispetto all’insieme della narrazione filmica come “una sorta di indice analitico” (Sturani, 1995: 50) e da queste differenti funzionalità deriva un’ulteriore autonomia e specificità delle due forme narrative, pur comprese all’interno di uno stesso progetto promozionale, in cui ogni elemento è strategicamente dotato di significato. Tale diversità si coglie in particolare  nella diversa risoluzione dei problemi posti dalla rappresentazione del tempo, nei diversi modi utilizzati per restituire compiutamente la durata propria del racconto cinematografico, ciò che impone di far ricorso a più immagini, siano esse nettamente distinte tra loro come nelle fotobuste sia che la loro utilizzazione avvenga mediante diverse forme di assemblaggio, dal collage all’accostamento seriale. Lo svolgimento nel tempo si traduce sempre in articolazione nello spazio e dello spazio, aggiornando ulteriormente soluzioni iconografiche di tradizione millenaria. Quando invece è una sola immagine a prevalere ad essa è affidato il compito di suggerire le caratteristiche complessive del film avvalendosi quasi esclusivamente di elementi connotativi, non potendo quasi mai – nella cinematografia qui considerata – affidarsi alla presenza risolutiva dell’effigie del divo. Vediamo allora entrare in gioco, sapientemente utilizzati, una serie infinita di rimandi e richiami alle culture visive più diverse: dalle raffinatezze calligrafiche della tradizione pittorialista ai richiami, quasi citazioni, ai grandi modelli della fotografia del XIX secolo, non solo di montagna; dalle letture ironicamente familiari dell’universo di segni urbani alle soglie della Pop Art (si veda la perfetta foto di scena di Bus Stop, Joshua Logan,1956) sino alla più recente appropriazione di formule descrittive derivate dalla produzione televisiva nelle sue più diverse accezioni (Hot Dog, Peter Markle, 1984; Cinquième saison, Bahram Beizai, 1997).

Anche il ritratto, pur nella sua apparente povertà di elementi costitutivi, rivela un universo di riferimenti precisamente orientati: si veda il primissimo piano di Trenker/ Carrel in Der Kampf ums Matterhorn / La grande conquista (Mario Bonnard, Nunzio Malasomma, 1928) accostabile ai migliori esempi fotografici presentati nel 1929 a Film und Foto la grande esposizione di Stoccarda che sancì l’affermazione delle poetiche moderniste, ma anche quello di poco successivo di Leni Riefenstahl sulla copertina dell’ “Illustrierter Film-kurier” dedicato a Das blaue licht/ La bella maledetta (Leni Riefenstahl, 1932), cui sembra a sua volta  rifarsi il disegno della copertina per  Die Geierwally / Wally dell’avvoltoio (Hans Steinhoff,1940). Non è difficile procedere in questo modo sino alle produzioni più recenti e provare a rintracciare ulteriori modelli e riferimenti: dal ritratto in studio alla fotografia antropologica, dal riaffiorare di elementi neorealisti alla patinata vacuità da soap opera. Un elemento forte pare riproporsi nel tempo, costante: lo sguardo. Indispensabile per la connotazione del personaggio, ma anche palese rispecchiamento del gesto compiuto dallo spettatore. Anche le più consuete immagini domestiche, di produzione casalinga e privata possono però essere utili allo scopo quando sia necessario presentare drammi e vicende familiari (Seine Tochter ist der Peter, Heinz Helbig, 1936) o commedie sentimentali di vario  tono e ambientazione (Everithing happens at night, Irving Cummings, 1939;  Sans Lendemain/Tutto finisce all’alba,  Max Ophüls, 1940) in cui il ritratto ambientato da album privato può coniugarsi coi modelli proposti dai settimanali per famiglie del secondo dopoguerra (è l’amor che mi rovina, Mario Soldati, 1951). Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, quasi all’infinito. Per questo è più opportuno limitarsi a rilevare indizi, ad avanzare ipotesi provando ad esempio a notare il senso di spaesamento che emerge dalle immagini tanto simili utilizzate per due film francesi così diversi quanto Le fugitif  (Robert Bibal) e La Symphonie pastorale (Jean Delannoy) , ma entrambi del 1946; a confrontare il diverso trattamento di elementi analoghi (la coppia, la neve) utilizzati per definire l’erotismo nei manifesti di Downhill racer/ Gli spericolati  (Michael Ritchie, 1969), con l’incombenza iperrealista dei volti in primissimo piano,  e di Narayama Bushiko / La balada de Narayama (Shoei Imamura,1983,  remake di un film di identico titolo del 1958) con l’efficacissimo contrasto ottenuto dal sovrapporsi privo di mediazioni dell’algido, etereo paesaggio innevato con la potenza tragica dell’abbraccio dei due corpi nudi nell’inserto in primo piano.

Quest’ultimo esempio appartiene ad una specifica tipologia d’immagini, che prevede l’uso di una sintassi per accostamento di elementi diversi, con soluzioni che spaziano dalla pura sovrapposizione ellittica, come in questo caso, alla costruzione di percorsi visivo narrativi ad andamento circolare sino alla costruzione di vere e proprie sequenze, adattando alle esigenze della comunicazione cinematografica schemi della  più diversa provenienza, dalle pagine dei primi grandi periodici illustrati di inizio Novecento come il “Daily Mirror” o lo sportivo “La vie au Grand Air” (Lemagny, Rouillé, 1988: 76- 77) alle più mirate e radicali sperimentazioni delle avanguardie storiche: dai collage dadaisti di Raoul Hausmann a quelli surrealisti di Georges Hugnet (Krauss, Livingstone, Ades, 1985: 212 – 213) sino ai fotomurali ampiamente utilizzati negli allestimenti razionalisti degli anni Trenta. In questo periodo il fotomontaggio sembra essere una delle forme privilegiate di comunicazione del film sia nelle sue produzioni d’avanguardia (basti ricordare Walter Ruttmann) sia – e forse soprattutto – nelle diffusioni rivolte al grande pubblico come la copertina firmata Alexandre, del numero speciale di “VU” del Natale 1934, interamente dedicato al cinema (Frizot, 1994: 445) o le decine di “Film-Kurier” prodotti in area tedesca. Per verificare l’esito di questa diffusione osmotica tra avanguardie e produzioni di massa basti qui considerare la bellissima doppia pagina del fascicolo dedicato a Das blaue licht, 1932, con quella concitata giustapposizione di personaggi e azioni che ruotano intorno al testo centrale, avvinti gli uni agli altri da una catena di sguardi, controllatissima, che avrebbe fatto la gioia del John Baldessari di A Movie: Directional Piece Where People are Looking, 1972-1973 (Van Bruggen, 1990: 84), ma anche i due interessanti manifesti realizzati per l’inglese Climbing High (Carol Reed, 1938)  e lo svedese Rötägg / Neiges Sanglantes  (Arne Mattsson, 1946) che adottano un’accorta delimitazione delle scene ottenuta con sottili tracciati geometrici piuttosto che ricomponendo il contorno delle figure; ne deriva una migliore leggibilità complessiva, una sottolineatura delle scene salienti che orienta in maniera più chiara lo sguardo dello spettatore. Questo è certamente lo scopo che ha guidato art director e grafici nell’adozione di uno schema per scene più o meno nettamente separate sin dagli esempi più precoci quali The Gold Rush /La febbre dell’oro (Charlie Chaplin, 1925) per il quale va segnalato un fenomeno che poi sarà ricorrente: l’adozione di soluzioni narrative diverse a seconda delle edizioni:  dalla fotobusta  foto/grafica, con differenti proporzioni (foto prevalente per l’Italia; grafica prevalente per il Messico), al manifesto con più scene accostate ma non sovrapposte (Italia), cui però corrispondono locandine a immagini sovrapposte a formare una nuova scena altrimenti inesistente, insieme sintesi e nuovo racconto, con belle costruzioni interne. La separazione delle singole foto conduce poi quasi naturalmente ad adottare una forma di presentazione lineare delle stesse, palesemente derivata dalla successione di fotogrammi della pellicola cinematografica, pur senza ancora  giungere a produrre una vera e propria sequenza. La perfetta definizione e leggibilità delle singole scene obbliga comunque l’occhio dell’osservatore a muoversi dall’una all’altra, come nello scorrere un testo, introducendo in maniera molto evidente il fattore temporale nella staticità del foglio stampato, come accade nella doppia pagina del fascicolo dedicato a Le fugitif (1946) in cui – volutamente – non risulta possibile identificare chiaramente l’inizio o la fine del racconto per lasciare a chi guarda la libertà della definizione dell’ordine e della stessa direzione di lettura di questa struttura circolare: occasione e stimolo ad esercitare la memoria o viceversa la propria capacità di immaginare storie a partire da semplici indizi, per investigare sulla trama del film che ci si appresta a vedere.

Molte sono in quegli anni le sperimentazioni visive in ambito anche fotogiornalistico, si pensi ai fotoracconti realizzati da Luigi Crocenzi per “Il Politecnico” di Elio Vittorini nel 1946-1947 (Zannier, 1986: 191) certo influenzati dal cinema, ma che a loro volta suggerirono modelli che è facile riconoscere in alcune fotobuste, come quelle de  Il cammino della speranza (1950) di Pietro Germi. Il confronto tra grafica pubblicitaria e fotografia si fa esplicito per giungere sino alla citazione a chiave con 13 Jours en France di Claude Leluch e François Reichenbach (1968) nel cui manifesto spunta, tra una ben orchestrata serie di immagini disposte geometricamente a cornice del titolo, la fotografia di una mano che regge una striscia di provini ottenuti con una photomatic, l’apparecchio automatico per fototessera: il più comune esempio di sequenza fotografica. L’uso più pertinente di questa formula narrativa lo ritroviamo però nel bel manifesto dell’edizione giapponese di Des Hommes et des montagnes di Jean-Jacques Languepin e Gaston Rébuffat (1953), in cui la netta sequenza di scene acrobatiche sulla sinistra costituisce un commento a parte, un approfondimento quasi alla scena centrale così come accade nel manifesto del più recente Pau i el seu germà /Pau et son frère di March Recha (2001), in cui vengono utilizzati congiuntamente due modi propri del racconto fotografico quali la sequenza e il mosso, condotto questo sino ai limiti della riconoscibilità dell’immagine.

Negli esempi sin qui considerati il ruolo della grafica è limitato al lettering o confinato nello spazio più o meno angusto della cornice, ma naturalmente esistono altrettanti esempi di uso combinato con la fotografia e solo la nostra empiria ci ha costretti a separare nettamente le due categorie. È evidente sin d’ora però, e ancor più lo sarà proseguendo il nostro discorso che questa distinzione schematica ha puro valore strumentale. Ciò che ci interessa però non è tanto l’ovvia constatazione della compresenza dei due diversi linguaggi quanto, di nuovo, e ancora, comprenderne le funzioni, il senso. Non pare esserci di molto aiuto per questo la fotobusta messicana di State Secrets /Panico en las Montañas di Sidney Gilliat (1950) col bellissimo raddoppiamento retorico di una scena cruciale restituita col disegno e con la fotografia sul medesimo supporto, mentre più utili indicazioni ci vengono da produzioni antecedenti come Der ewige Traum /Rêve Eternel di Arnold Fanck (1934) o La montagna di cristallo di Edoardo Anton[elli] e Henry Cass (1948) con le fotografie dei due protagonisti sovrapposte a collage su di uno sfondo di cime stilizzate, ad accentuare qui le atmosfere sognanti o melodrammaticamente antirealistiche richiamate dai titoli, impostazione che ritroviamo sostanzialmente immutata anche per The White Tower / Det Hvide Taarn di Ted Tetzlaff (1950)  con la comunione di sguardi dei due protagonisti, rivolti all’impresa degli scalatori disegnati in secondo piano. Qui la diversa natura delle figure pare voler significare il pensiero e il ricordo, il riandare con la memoria ad un episodio decisivo per i loro destini, mentre il volto femminile, assorto, tratteggiato nello spazio uniforme del cielo oltre le montagne di cartapesta de Im schatten des Berges /Les Risque Tout di Alois Johannes Lippl  (1940) assume il significato evidente di una evocazione della protagonista femminile quale deus ex machina dell’intera vicenda. Al contrario, nessuno potrebbe immaginare mai – credo – il conflitto psicologico intorno al quale si sviluppa la vicenda narrata da Urzeczona/ Spellbound di Alfred Hitchcock (1945) a partire dagli indizi forniti dall’elegante manifesto polacco, con la sua grafica leggera, sottilmente ironica, quasi frivola,  che richiama le sole componenti sentimentali della vicenda, trasformando il dramma onirico in commedia. L’utilizzo del montaggio a collage della fotografia su di un campo prevalentemente grafico è in effetti quasi una costante delle tecniche di comunicazione del cinema comico e leggero in genere, ma identico pare essere il meccanismo di funzionamento, identica la riduzione del realismo complessivo della scena raffigurata, che è la conseguenza più evidente e precipua di questa commistione di linguaggi, come mostra in modo paradigmatico il manifesto di 101 dalmatians / La carica dei 101: questa volta la magia è vera di Stephen Herek (1996), esito di un’operazione di merchandising che “serve  – come ammette la stessa Crudelia De Mon – a vendere macchie”. (Morandini, 2001: ad vocem).

Tutti i materiali qui presi in considerazione sono riconducibili alle categorie qui sommariamente delineate, ma per procedere oltre è necessario affinare i criteri, entrare maggiormente nel dettaglio, vedere come queste diverse formule si trasformino compiutamente in retoriche adattandosi e trasformandosi in relazione ai generi e sottogeneri del cinema  “con le montagne”.

L’alpinismo allora, come primo banco di prova. Lo spettacolo puro della montagna celebrato dal gesto inequivocabile della fotografia di scena (e della locandina grafica che ne deriva) di Im kampf mit dem berge di Fanck (1921);  quello spettacolo che era nato con Rescued from an Eagle’s Nest di E.S. Porter, interpretato da David Griffith nel 1907, primo esempio di cinema di finzione a soggetto montano, prima produzione che istituiva anche scenograficamente quella logica di commistione tra riprese in esterni e ricostruzioni in studio che sarà una costante di gran parte di questa cinematografia, costituendo anche elemento discriminante nella identificazione del vero e proprio cinema di montagna. Anche per noi questa differenza può costituire un discrimine, ma non tanto per i suoi risvolti produttivi quanto, come di consueto, per il suo significato, per il diverso meccanismo di coinvolgimento dello spettatore. È per questo che il primo e più interessante degli aspetti emersi dall’osservazione di questi materiali è risultato essere quello dei gesti ricorrenti e – in quanto tali – emblematici, tali da identificare la pratica alpinistica e la figura stessa dell’alpinista nell’immaginario collettivo. Scopriamo così, inaspettatamente, che non è tanto la scena del raggiungimento della vetta ad essere destinata ad attrarre  l’attenzione quanto la sequenza di azioni che conduce alla sua conquista; è l’azione per che affascina, che tocca l’immaginazione dello spettatore, che innesca il meccanismo di identificazione, e il desiderio.

Lo spettacolo della montagna è la montagna spettacolare certo: quella dei grandi panorami e dei silenzi, delle nevi eterne e quiete (o terribili), delle luci taglienti sui crinali, delle bufere, delle piccole silhouette stagliate su scenari immani. Ma questo non basta. Perché lo spettacolo sia completo occorrono il gesto e il dramma, il pericolo, la morte magari: come nell’arena dei gladiatori, e dei tori. Occorrono il sacrificio e la caduta, perché maggiore sia il valore della conquista, in piena coerenza con le radici religiose dell’etica occidentale. C’è sempre un prezzo da pagare, preferibilmente in anticipo. Ecco allora immagini acrobatiche di arrampicate in solitaria, superamento di tetti e salti di crepacci. Lo sforzo si fa terribile, mentre scemano le forze; l’eroe è allo stremo nel momento in cui più gli sarebbe necessario disporre di tutte le proprie energie per sconfiggere l’antagonista (persona o destino che sia). Sempre sul ciglio del burrone. Infine la vittoria sarà raggiunta, e la veloce discesa in corda doppia radicherà per sempre nei nostri cuori il ricordo delle emozioni di questa vicenda. Quando, nel 1928, François Mazeline  pubblica sotto forma di romanzo illustrato l’adattamento della sceneggiatura di Der Kampf ums Matterhorn di Fanck col titolo Le drame du Mont-Cervin, “le fotografie del film” che corredano il testo esauriscono già tutto questo repertorio di scene e costituiscono il prototipo di tutte le produzioni successive, anche quelle meno sensazionalistiche e quasi eticamente “neorealiste”, come  Les étoiles de midi (1959) a proposito del quale il regista Marcel Ichac parlava  – anche polemicamente – di “accent de vérité  si precieux (…) Au lieu de trasposer en montagne une quelconque histoire de rivalité amoureuse ou d’espionnage, pourquoi ne pas raconter des aventure vécues par des alpinistes ? (…) Les tendances actuelles du cinéma sont favorables à ces tentatives. » (Ichac, 1959)

A maggior ragione questi episodi ricorrono nei film girati prevalentemente in studio, nel regno delle montagne d’invenzione con facili location esterne, come nel “picturesque mountain village of Cortina” (Cliffhanger, 1993), della finzione condivisa, della messa in scena inverosimile, fatta di rocce finte e di scaltre riprese dal basso, ad escludere imbarazzanti orizzonti, a rendere monumentale la figura e l’azione, con una montagna resa teatrale e un poco patetica, quando non ridicola, anche nell’era attuale degli effetti speciali massicciamente utilizzati “to simulate reality without the audience noticing the difference” (idem). Se pensiamo a ciò che accadeva alle origini quando – come ricordava Samivel – dopo la visione di Traversata del Grépon di André Sauvage (1925 ca) “i direttori delle sale avevano ricevuto lettere di protesta da certi spettatori che, del tutto sconcertati dall’asperità dei paesaggi di alta montagna in genere (…) accusarono André Sauvage per aver girato su “rocce di cartapesta.”  (citato in Le montagne del cinema, 1990: 108), scopriamo che ora il pubblico è disposto a credere; a farsi illudere dall’inverosimiglianza, ad esserne ammaliato anzi, abbandonandosi volutamente (e voluttuosamente) alle seduzioni della finzione sino a figurarsi almeno per un poco nei panni del protagonista, non a caso posto sempre in bella evidenza in manifesti e fotobuste, e non solo per il puro richiamo divistico. Come spiegare altrimenti l’imbarazzante spettacolo offerto dal buon Spencer Tracy (The Mountain, Edward Dmytryk, 1956) o dall’erculeo Stallone (Cliffhanger, Renny Harlin, 1993) in quei manifesti e locandine inutilmente verticali a sottolineare – oltre all’autonomia dall’inquadratura cinematografica di riferimento – le sovrumane difficoltà dell’impresa, quelle stesse che tanto spassosamente avevano attratto Enrico Sturani? (1995: 48b – 50) Nel cinema di finzione infine non è la verosimiglianza che conta, per definizione; la scelta dichiarata dell’artificio costituisce anzi un  elemento essenziale al mantenimento del meccanismo di  identificazione e al suo rinnovamento: è la percezione della rassicurante convenzionalità del falso (per quanto iperrealistico) che consente di condividere idealmente le peripezie della vicenda così com’è il riconoscimento dell’incommensurabile diversità e distanza dall’audacia e dal tecnicismo dell’alpinista vero che impedisce ai più di partecipare emotivamente al racconto, interponendo il filtro freddo dell’ammirazione.

I mezzi adottati per coinvolgere lo spettatore (la spettatrice? Non sappiamo) giungono sino alla diretta chiamata in causa: “Hang on / Accrochez Vous” intimava sempre Cliffhanger, ma già l’anno prima  aggrappati con le unghie a “20.000 feet / 8000 metri” correvamo il rischio di morire “in 8 secondi” per un’improvvida scarica di adrenalina, determinata infine dalla semplice visione di K2 The Ultimate High / K2 L’ultima sfida  (Franc Roddam, 1992) o anche solo del suo fantastico manifesto dove è raffigurata “una vertiginosa parete (inesistente, si capisce, sul K2): parallelamente vi pende una corda, un uomo è aggrappato a quella corda. C’è tutto il brivido e la drammaticità dell’azione alpinistica” (Cassarà, 1995: 29), forse.  La situazione più emblematica rimane però quella che si svolge sul ciglio del burrone, sulla soglia dell’abisso: dal salvataggio al limite alla tragica caduta e all’eventuale riemergere, inatteso, in una gamma infinita di soluzioni narrative che muove dal tragico al comico. Già uno dei primi manifesti, uno dei più antichi verrebbe da dire nonostante il breve arco di tempo che ci separa da quel 1908, raffigura quel dramma: ne L’enfant de la montagne è mostrato il momento topico dell’uomo che precipita nell’abisso, il fulminante attimo della sua caduta: infotografabile (La cordata delle immagini, 1995: 8). Essere sul ciglio del burrone comporta l’affacciarsi o lo scomparire dalla scena; esso è la soglia, lo spazio limite, il punto di catastrofe dell’azione, la sua massima tensione statica con forti implicazioni psichiche: dalla sua soluzione dipende l’esito del racconto.  Nei casi più drammatici questa condizione rappresenta la visualizzazione retorica della suspense, è – non solo nominalmente – la sospensione degli eventi incarnata nella sospensione del corpo (dell’attore, di colui che agisce: dell’agente); raffigura l’attimo che precede il precipitare (letterale) dei corpi e – con loro – degli eventi. Dopo tutto è dato.

Nel “Film-Kurier” di Die weisse Hölle von Piz-Palü /La tragedia di Pizzo Palù di Fanck e G.W. Pabst (1929) la figura sul ciglio del burrone è una donna, ma nel disegno del manifesto francese per la riedizione sonorizzata del 1938 (L’enfer blanc) il personaggio è maschile, raffigurato al  culmine del dramma. Di nuovo: la corda appena spezzata, il volto deformato dal terrore. Nulla  di più distante dal metafisico stupore di Stan Laurel (Swiss Miss/ Les montagnards sont là, John G. Blystone, 1938) qui comicamente preoccupato, non preoccupante, che ritroviamo identico anche nel manifesto grafico dell’edizione francese, disegnato da Grinsson (La cordata delle immagini, 1995: 107). Tra tragedia e comicità l’elemento che accomuna le scene – ancor più della figura appesa, a volte non visibile – è la tensione della corda, palese visualizzazione della condizione psichica dei protagonisti e (si spera) degli spettatori.

Le immagini promozionali del cinema dedicato allo sci volentieri abbandonano le formule più esplicitamente narrative per misurarsi con le astrazioni e  sperimentazioni formali delle avanguardie, trasformando le campiture di neve delle piste in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili: più veloci.   È quanto realizza magistralmente Arnold Fanck nel libro fotografico dedicato a Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, pubblicato in sei fascicoli settimanali venduti a prezzi popolari.  Sulle pagine del volume vengono riproposti, con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vengono assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”, in contrapposizione non sempre chiara ma con l’evidente intento di legittimare artisticamente il proprio operato. Già il manifesto di un precedente film (1922) di Fanck, Das Wunder des Schneeschuh’s (La cordata delle immagini, 1995: 64) utilizzava graficamente il mosso per significare la velocità della discesa, con derivazioni evidenti dalle cronofotografie di Jules- Etienne Marey, magari mediate dalle fotodinamiche dei fratelli Bragaglia, piuttosto che dalla grafica e pittura futurista, ma in questi fascicoli la ricerca dell’astrazione pura è portata all’estremo limite della scomparsa della figura stessa dello sciatore: restano solo le nuvole di neve sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (“quando la neve è polverosa”);  le tracce e le forme che modulano il bianco, analogamente a quanto accadeva in molte opere della coeva fotografia modernista.

Una particolare attenzione per la qualità compositiva dell’immagine sembra accomunare i film dedicati allo sci ed i loro materiali promozionali anche nei decenni successivi: basti confrontare qui le diverse formule di resa del mosso adottate per i manifesti di Czarna Blyskawica/ Der schwarze Blitz (Hans Grimm, 1958) o di Downhill racer/ Gli spericolati (Michael Ritchie, 1969) come anche di Snow Job/ The Ski Raiders  (George Englund, 1972) che riprende la formula di Fanck, oppure considerare con attenzione i materiali promozionali di Le grand élan / Avventure al Grand Hotel (Christian- Jaque, 1940)  commedia di poche pretese sugli sport invernali le cui foto di scena anticipano però di più di un decennio le celebrate acrobazie fotogeniche di Leo Gasperl (Presenze, 1997: 132 – 139). La commedia sciistica, la ‘scicommedia’ è però soprattutto occasione di leggere trame sentimentali,  di vicende (piccolo)borghesi destinate a far sognare, da cui deve essere necessariamente bandita ogni distrazione acrobatica, ogni modello estraneo e mediamente irraggiungibile, così le immagini utilizzate per manifesti e fotobuste tornano a pescare i propri modelli nella produzione familiare delle fotoricordo o delle riprese da rotocalco rosa, parenti prossime del fotoromanzo. Si veda la fotobusta di un altro film di Christian-Jaque, Adorables creatures / Quando le donne amano, del 1952 o il più casereccio Siamo tutti inquilini (Mario Mattoli, 1953) in anni, almeno per l’Italia, di incipiente boom economico, quando le vacanze sulla neve si apprestano a divenire pratica di massa. Perché ciò accada è necessario anche suggerire modelli efficaci: location alla moda (il Sestriere, su tutte, Gstaad, Davos o Aspen non erano così riconoscibili e note),  automobili, pellicce e locali notturni, vicende sentimental amorose oscillanti tra l’adolescenziale di Emmer e le piccole perdizioni da night club evocate da  Maurizio, Peppino e le indossatrici, firmato nel 1961 da Stanley Lewis (Filippo Walter Ratti) a poca distanza dallo spogliarello scandaloso di Aiké Nanà al “Rugantino” di Roma nel 1958 (nella sequenza memorabile di Tazio Secchiaroli) e di tutto quanto fu poi identificato come Dolce vita (1960), suggestioni cui non rinuncia – seppur pudicamente – neppure il manifesto di Europa dall’alto (1959) di un altrimenti misurato Severino Casara (La cordata delle immagini, 1995: 205).  Solo coi primi anni ’60 compaiono le gite in torpedone, sempre per merito dell’ineffabile Ratti. Sono le prime Vacanze sulla neve:  i fratelli  Vanzina non sono lontani.

Il cinema in montagna si è misurato però sin quasi dalle origini, anche con il tema drammatico della guerra, e proprio ad un personaggio fantastico del primo conflitto mondiale venne dedicato – nel pieno svolgersi della Grande guerra – Maciste alpino (Luigi Maggi, Luigi Romano Borgnetto, 1916) , facendo emergere a furor di popolo dalla selva di personaggi che popolavano la scena di Cabiria  (1914)  la figura del protagonista,  per dar corpo con le sue  “italiche gesta” al patriottismo necessario a sostenere una fase cruciale del conflitto, per risolvere individualmente l’incombente tragedia, con involontaria prefigurazione del superomismo casereccio della più tarda iconografia mussoliniana, ben riconoscibile in alcune delle fotografie promozionali, benissimo presentate, giocate tutte sull’alternanza tra protagonismo e scene corali. Tra queste emerge per spettacolarità quella bellissima del  trasporto di armi e vettovagliamenti in montagna, ripreso anche nella  serie promozionale di cartoline da xilografie, che questo film condivide con le coeve realizzazioni di Luca Comerio,  in particolare Adamello, guerra d’Italia a 3000 metri  e  che ritroveremo, quasi una citazione, nella locandina tedesca di  A Farewell to Arms/ In einem andern land (Charles Vidor, John Huston, 1957), a testimonianza del valore paradigmatico di una produzione segnata dalle eccezionali “doti di Segundo de Chomon, mago dei trucchi cinematografici [che] richiamano le coeve poesie di Ungaretti” (Brunetta, 1999: 265) e che fanno di Maciste alpino “il film più moderno rispetto alla produzione italiana del periodo.” (idem)

Ad un diverso modello, costituito semmai dai primi fotoricordi di guerra, consentiti dalla diffusione degli apparecchi portatili a pellicola o a piccole lastre, si rifanno invece le immagini utilizzate per la promozione de Le scarpe al sole (Marco Elter, 1935) o di alcune fotobuste italiane di A Farewell to Arms/ Addio alle armi (1957) caratterizzate tutte da una voluta, bassa spettacolarità e da inquadrature sapientemente casuali, sebbene in quest’ultimo esempio la distanza incommensurabile dai modelli di inizio Novecento sia data dall’inevitabile uso del colore. La connotazione documentaria, ora neorealista, segna anche i materiali promozionali di due film italiani come La mano sul fucile (Luigi Turolla, 1962) – con la significativa presenza dell’immagine del soldato morto in primo piano, ad illustrare didascalicamente l’assunto etico del film (“Il nemico a trecento metri è un bersaglio a cinque metri è un uomo”) – e Una sporca guerra  (Dino Tavella, 1964), con quel bordo frastagliato della foto: strappata,  spezzata come la carriera del protagonista.

Nulla di più lontano dagli spettacolari schemi narrativi hollywoodiani adottati da una produzione  come The Heroes of Telemark /Gli eroi di Telemark  (Anthony Mann, 1965). Nelle immagini realizzate a collage per le fotobuste i due protagonisti sono posti in primissimo piano, senza che prospettiva e valori di illuminazione gli consentano di condividere lo stesso spazio, lo stesso luogo in cui – alle loro spalle – si svolgono vicende diverse, raccordate senza soluzioni di continuità: un’organizzazione spazio temporale che genera – anche qui – una nuova, inedita scena di sintesi.

L’universo della montagna non si può esaurire però, non si è mai esaurito nelle sole pratiche alpinistiche o nelle divagazioni sciistiche né – fortunatamente – è stato ridotto a puro scenario delle tragedie belliche. La montagna è stata ed è ancora la gente che la abita, che vive la contemporaneità senza dimenticare di compiere gesti antichi, ancora necessari, pur tra mille contraddizioni irriducibili all’oleografia dell’immagine folklorica, pittoresca che pure per molto tempo si è data di loro.  Anche la raffigurazione della vita in montagna che ci è stata offerta dal cinema e dalle sue rappresentazioni ha toccato tutta la gamma di declinazioni possibili, con le più diverse accezioni e connotazioni simboliche, con riferimenti a diversi  e contrastanti sistemi di valori: dalla celebrazione epica a quella dell’identità culturale della piccola patria, con pericolose derive nazionalistiche o -peggio – regionalistiche, sino alle prevedibili variazioni pecoreccie del pornosoft, sino alla più recente rilettura dei valori più alti di un mondo arcaico e quasi in via di estinzione, riscoperti in polemica contrapposizione alle presunte degenerazioni della condizione  urbana.

I primi esempi considerati, due tra le numerosissime rivisitazioni della vicenda fondante di Guglielmo Tell (1904, Lucien Nonguet; 1934, Heinz Paul) trattano non a caso il tema delle radici storiche dell’identità e – pur senza troppo forzare l’ipotesi – non possiamo fare a meno di notare come le cartoline promozionali del primo illustrassero scene di impianto prevalentemente corale, senza per nulla celare il décor  palesemente teatrale, che inseriva queste immagini nella  tradizione dei tableau vivant (Pelizzari, 2004: 161) ma assimilandole formalmente a certa fotografia pittorialista coeva piuttosto che alla spettacolare verosimiglianza  dei set cinematografici. Così come accadeva nella serie di titoli dedicati a Tell, l’obiettivo che si ponevano i Volkische Film nati nell’Austria del primo conflitto mondiale, i film di Luis Trenker  degli anni Trenta come Der Rebell (1932) e Der Feuerteufel (1939) e – nel secondo dopoguerra – l’enorme produzione di Heimatfilm, e ancora oltre sino alla ripresa dei romanzi di Ludwig Ganghofer lungo tutti gli anni Settanta, è da sempre quello di celebrare le caratteristiche storico identitarie del “luogo dove si è nati, dove si hanno le proprie radici, per cui si è attaccati al suolo, agli antenati, alle tradizioni. La confluenza commedia – melodramma costituisce la norma. Le riprese fatte nella regione (…) generano un pittoresco destinato innanzitutto al mercato nazionale, adempiono infatti a una funzione ideologica, fatta di nostalgia rurale e di passatismo.” (De la Bretèque, 1999: 519) Da qui la pletora di chalet e stelle alpine, di costumi tradizionali, di cime (di monti, di pini) svettanti su cieli tersi; apoteosi tirolesi di reinvenzione alpestre segnalate immancabilmente dall’uso smodato di caratteri tipografici neogoticheggianti.

Anche quando le vicende si fanno più personali e sentimentali permane però l’elemento caratteristico della montagna poiché “i paesaggi che compaiono sullo schermo cinematografico descrivono anche i paesaggi interiori dei protagonisti” (Bliersbach, 2000: 132) e le vicende narrate continuano a mettere “in scena l’esperienza condivisa di perdite e privazioni (…) la disillusione dai grandiosi sogni di gloria.” (idem). Lo scenario in cui si muovono i personaggi raffigurati nei materiali promozionali di  Wetterleuchten um Maria (Trenker, 1957), drammone a tinte fosche in cui la Maria del titolo pare gradire oltre misura le amorose attenzioni del giovane guardiacaccia, che però le uccise il padre (!) è ancora quella  delle cartoline di soggetto alpestre di inizio Novecento, solo parzialmente aggiornato da una regia visiva influenzata dalla parallela produzione di fotoromanzi, in una trama fitta di rimandi che rielabora ancora una volta la tradizione illustrativa del feuilleton, anche quando si traduce in scena farsesca (Almenrausch und Edelweiss, Harald Reinl, 1957).    Sebbene non siano escluse improvvide comparse di figli naturali, come nella trama del film appena citato, la drammaturgia  heimat sembra aver pudicamente nascosto per lungo tempo le dinamiche del desiderio sessuale, ben presente invece sotto forma di tenero affetto, poco più che malizioso, già nell’italiano I trecento della 7° , Mario Saffico, 1943 (“…oltre l’amore…”), e ormai palese nella fotobusta di Penne nere (Oreste Biancoli, 1952) che con la sua rappresentazione icastica della valligiana “donna con gerla” (tema ricorrente in tanta pittura e poi fotografia di genere sin dalla seconda metà dell’800), costruisce un oggetto del desiderio su misura per lo sguardo urbano. È  già la sessualità palese di Riso amaro (1949) e del cinema delle “maggiorate”, cerniera e annuncio delle più esplicite trasformazioni dei decenni successivi, quando le produzioni tedesche riproporranno l’ambientazione alpestre in versione pornografica più o meno soft:  Geh, Zieh Dein Dirndl Aus / Sole, sesso e pastorizia (Siggi Goetz, 1973), efficacemente titolato negli USA Love Bavarian Style, risulta – come tutti i titoli di questo filone – particolarmente efficace proprio in virtù del confronto / contrasto, della deviazione da una tradizione narrativa da sempre intessuta di sentimenti epici, di sacrifici, di eroismi e passioni di ben altro tenore, cui si richiama invece il bel manifesto di Ljubezen na odoru (Vojko Duletic, 1973) con l’intimità forte della scena di sesso in esterni, appena toccata dalle essenziali informazioni testuali.  È una trasformazione di lettura, e di senso, una mutazione del  percorso di avvicinamento e di racconto, un senso di rispetto che possiamo rintracciare anche in un ultimo gruppo di film dedicati alla celebrazione e poi alla riscoperta – non sempre priva di semplificazioni ed equivoci –  dei valori etici fondanti della civiltà alpina, priva però di connotazioni passatiste: pensiamo al significato delle immagini bucoliche di Der verlorene Sohn / Il ritorno del figlio prodigo (Trenker, 1934) contrapposte alle deludenti visioni dei grattacieli newyorkesi, o alla retorica iperbolizzazione della purezza dell’universo montano prodotta con l’accoppiata (tutto meno che virtuosa o innocente) bambino/ agnellino (con possibile variante caprettino), che ritroviamo in molti manifesti del secondo dopoguerra come Barnen Från Frostmofjället / Les Orphelines de la Montagne (Rolf Husberg, 1945), Alpenglühn im Wetterstein (Max Michel) e Bonjour Jeunesse (Maurice Cam), entrambi del 1956, sino a Le rossignol des montagnes, 1961, di Antonio del Amo (La cordata delle immagini, 1995: 212).

Nelle produzioni più recenti l’intenzione si fa diversa ed anche le caratteristiche proprie delle immagini promozionali mostrano una palese inversione di rotta: a partire da un “film carico di simbolismi, capace di trasmettere nello spettatore un acuto disagio” (Le montagne del cinema, 1990: 189) come Si le soleil ne revenait pas (Claude Goretta, 1987) il racconto della dura vita in montagna cambia di senso e dalla rappresentazione stereotipata si passa alla misurata nostalgia critica per un mondo perduto,  di cui si celebrano gli ultimi testimoni,  come ne La dernière saison (Pierre Beccu, 1991), o – con progressivo slittamento di senso verso la riflessione filosofica – la significativa continuità delle presenze (Hirtenreise ins Dritte Jahrtausend /Transumanza verso il terzo millennio, Erich Langjahr 2003).  Ciò che accomuna queste forme di testimonianza rielaborata narrativamente è il ricorso coerente ad uno stile documentario, dove il realismo ricercato della fotografia si vela, lievemente, di oleografia.

 

 

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Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994

 

Hobsbawm 1995

Eric J. Hobsbawm, Age of Extremes – The Short Twentieth Century 1914 – 1991. London: Pantheon Books, 1994 (ed it., Il Secolo breve. Milano: Rizzoli, 1995, traduzione di Brunello Lotti)

 

Ichac 1959

Marcel Ichac, Les Étoiles de midi, “La Montagne et l’Alpinisme”, 5 (1959), n. 24, octobre, estratto

 

Joutard 1993

Philippe Joutard, L’invention du Mont Blanc. Paris: Gallimard, 1986 (ed. it L’invenzione del Monte Bianco. Torino: Einaudi, 1993, traduzione di Pietro Crivellaro)

 

Krauss, Livingston, Ades

Rosalind Krauss, Jane Livingston, Dawn Ades, L’Amour-fou: photography and surrealism. New York: Cross River Press, 1985 (nuova ed. Explosante-Fixe photographie & surréalisme. Paris: Hazan 2002)

 

Lemagny, Rouillé 1988

Jean-Claude Lemagny, André Rouillé, dir., Histoire de la photographie. Paris: Bordas, 1986 (ed. it. Storia della fotografia. Firenze: Sansoni, 1988, traduzione di Mario Bonini)

 

Luis Trenker 2000

Il mito della montagna in celluloide: Luis Trenker, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 2000-2001),  a cura di Aldo Audisio, Stefan König. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2000

 

Il Mereghetti 2002

Il Mereghetti – Dizionario dei film. Milano: Baldini & Castoldi, 2002

 

Le montagne del cinema 1990

Le montagne del cinema, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1990), a cura di Piero Zanotto. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1990

 

Il  Morandini 2002 2001

Laura, Luisa e Morando Morandini, a cura di,  Il Morandini 2002 – Dizionario dei film. Bologna: Zanichelli, 2001

 

Mormorio 1998

Diego Mormorio ,Tazio Secchiaroli. Dalla dolce vita ai miti del set. Milano: Federico Motta, 1998

 

Pellizzari 2004

Lorenzo Pellizzari, Tra Ferraia e Cinecittà, in Cesare Colombo, a cura di, L’Archivio 3M Ferrania. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 2004, pp. 160 – 215

 

Quaresima 1994

Leonardo Quaresima, a cura di, Walter Ruttmann: cinema, pittura, ars acustica. Trento: Manfrini Editori, 1994

 

Riccardo Moncalvo 1997

Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 1997), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997

 

Ruskin [1889] 1992

John Ruskin, Praeterita. Orpington: Gorge Allen, 1885–1889 (ed it., Palermo: Edizioni Novecento, 1992, traduzione di Maria Croci Giulì e Giusi de Pasquale)

 

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schwarz 1995

Angelo Schwarz, Il film ripreso dal fotografo, in La cordata delle immagini, 1995, pp. 39 – 44

 

Sturani 1995

Enrico Sturani, Appesi a un manifesto, in La cordata delle immagini, 1995, pp. 47 – 58

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zanotto 1982

Piero Zanotto, Luis Trenker – lo schermo verticale. Trento: Manfrini Editori, 1982