Di bianchi e di ombre  (2007)

in Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale della montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Duca degli Abruzzi – CAI Torino, 2007, pp. 10-29

 

“noi moderni

siamo stufi

delle panoramiche”

Italo Mario Angeloni, 1934

 

“Senza l’intervento energico di mia madre (…) a 12 anni mi sarei fatto fotografo”[1]  ricordava Cesare Giulio nel 1934, imbastendo la sua propria mitografia per le pagine di “Galleria”, allora la sola rivista fotografica italiana di respiro internazionale. Così non fu: divenne impiegato contabile, e invece di fare il fotografo fece fotografie.

Anche la scelta dell’età indicata non pare casuale. Per lui, nato nel 1890, corrispondeva all’imponente evento torinese dell’Esposizione di Arte Decorativa e Moderna, dove la fondamentale sezione fotografica offriva la più ampia occasione di confronto con gli autori più affermati del pittorialismo internazionale.  Inverosimile credere che quella mostra potesse interessare un ragazzino, e del resto Giulio non ne fa cenno, ma questa corrispondenza  a posteriori appare significativa.

Le sue prime prove datate risalgono al 1911, intorno ai vent’anni quindi, e sono le tipiche immagini dei fotoamatori torinesi amanti della montagna: vedute alpine e gruppi, molti gruppi. Com’era stato anche per la generazione precedente: quella di Mario Gabinio.[2]  Non solo quelli però: tra le sue primissime[3] riprese anche un Sentiero brinato che sembra essere ben più di una pura evocazione dell’analogo soggetto di Demachy pubblicato nel 1906[4]; un vero e proprio esercizio di stile, una precoce verifica delle proprie capacità condotta misurandosi con un tema e un trattamento stilistico allora considerati come raffinati  modelli.

Nulla sappiamo della sua formazione, nulla che ci sia rimasto della sua biblioteca (se mai è esistita), ma non doveva essere difficile costruirsi una cultura fotografica,  necessariamente autodidatta, nella Torino degli anni de “La Fotografia Artistica” e della piena maturità del gruppo di autori che si riuniva sotto l’egida della Società Fotografica Subalpina, le cui esposizioni costituivano un importante occasione di diffusione del gusto pittorialista. Proprio al magistero riconosciuto di uno degli esponenti più in vista della SFS, Cesare Schiaparelli, sembra aver guardato Giulio nelle sue prime prove come Pecore al pascolo, 1922, in cui anche l’impaginazione centinata dell’immagine richiama i modelli pittorici da quello utilizzati, mentre negli anni successivi si tratterà piuttosto di prestiti reciproci, a testimonianza della comune appartenenza a una scena fotografica allora molto solida e connotata.[5]

I fogli dei primi album di Giulio, accuratamente composti e impaginati, a volte da lui decorati con certa ingenua maestria, confermano la consuetudine della fotografia diaristica, l’abitudine di tutto un gruppo di amici che “ad ogni ora, quasi ad ogni mutar di paesaggio, facevano scattare, obbligandoci a posare per il gruppo, sul sentiero, innanzi a casolari, sulle vette, sul prato, ovunque insomma.”[6] Ancora quasi vittima delle circostanze si direbbe, ma alcuni indizi lasciano intendere come le sue intenzioni potessero già allora, forse ancora confusamente essere un poco diverse, oltre le apparenze e le poche testimonianze rimaste: penso all’uso di più formati (dal 4,5×6 al 9×12) ma soprattutto all’accuratezza compositiva di certe immagini di quegli anni.

Le fotografie del primo anteguerra sono esplicitamente debitrici del repertorio offerto dalle riviste italiane dell’epoca, aggiungendo tra i riferimenti oltre a Schiaparelli anche il nome di Andrea Tarchetti[7], alle cui Scene di vita e di lavoro sembrano avvicinarlo non solo i modi compositivi e di trattamento, ma anche una più generale, non occasionale attenzione per quel mondo popolare, rurale e alpino, cui la cultura fotografica piemontese aveva dedicato una certa attenzione almeno a partire dalla pubblicazione, nel 1890[8], del volume di Vittorio Sella e Domenico Vallino.  La resa del soggetto appare in quei primi anni ancora in bilico tra la convenzionalità retorica del ritratto della Zia Paolina, 1911, e la potenza realistica della giovane valligiana ripresa in interni (Tipi: Valle dell’Orco, 1914). Entrambe le figure emergono dal nero del fondo, ma con esiti e significati differenti: se nella prima questo cancella ogni connotazione di luogo e di tempo, nella seconda identifica l’incombente condizione di vita della ragazza. Nelle opere di poco successive, forse meno sentite, l’iniziale attenzione per il mondo popolare, tra etnografia ingenua e attrazione per il pittoresco, progressivamente si stemperava avvicinandosi al bozzettismo dichiaratamente  ‘artistico’ di Peretti Griva e di Bricarelli[9], stilisticamente marcato dall’uso di obiettivi a fuoco morbido (Costume, 1919), dove l’uso del flou rappresentava la più immediata strategia di distanziamento dalla ripudiata  referenzialità documentaria.

Ancor meno sappiamo della biografia di un uomo che ha lasciato quasi solo tracce fotografiche della sua esistenza, ma l’analisi cronologica della sua accurata, ma non sempre ordinata sequenza di numerazione dei negativi mostra una significativa soluzione di continuità: le prime serie, già molto lacunose sino al secondo migliaio per ragioni non note, si interrompono all’equinozio di primavera del 1915 per riprendere solo nel  1919[10], dopo un lungo silenzio di immagini. Degli anni della grande guerra, di un suo eventuale coinvolgimento, di una sua reazione affidata alle immagini nulla ci rimane.

Con la ripresa postbellica la sua intenzione si fece più esplicita. Non bastandogli più quella “stomachevole collezione [di] scipite fotografie che riproducevano il paesaggio soltanto”, si propose infatti di realizzare “qualcosa di più alpino, di più commovente al cuore dello scalatore, quando non solo narrasse ma che piuttosto cantasse.” (Giulio 1934, p. 7). È di quell’anno la realizzazione di un album dedicato al Monte Rutor, organizzato come un vero e proprio racconto fotografico: quasi tutti paesaggi di dettaglio, corredati di brevi testi ‘poetici’ siglati da un non meglio identificato G.R. Tra le molte spicca un’immagine della cascata, terribile e incombente sulle minuscole figure di due alpinisti in controluce: “Formazione Cascata Rutor con negativo n° 1546 e personaggi n° 1544” recita l’iscrizione sulla busta del negativo, confermando l’impressione netta che si tratti di un fotomontaggio;  per accrescere l’efficacia narrativa dell’immagine Giulio aveva aggiunto le due sagome, adottando una pratica che era stata già di Vittorio Sella[11]. Superato di netto ogni vincolo documentaristico l’autore si concedeva all’invenzione e usava ogni mezzo per costruire il proprio racconto per immagini, come gli accadde più volte di fare nei decenni successivi, come aveva già fatto in una delle sue prime prove (Alpe Cruvin, 1912), imbastendo la regia di una fulminante e ironica commedia in un solo atto e in una sola scena, poi accuratamente montata su supporti diversamente colorati per sottolinearne l’intento esplicitamente artistico.

Tra i soggetti obbligati di quegli anni il paesaggio, non ancora quello alpino e invernale però, poco adatto alle sperimentazioni cromatiche e materiche dei viraggi, delle colorazioni, delle stampe ai pigmenti con cui si doveva misurare chi volesse mettere a punto i propri strumenti espressivi nel confronto coi modelli più noti e celebrati. Molte le riprese in controluce, tutte costruite sul contrasto nettissimo ed efficace tra la pura bidimensionalità del nero del soggetto principale, solo identificabile dal profilo, e la massa cangiante delle amate nuvole, quelle che costituirono i suoi “primi tentativi estetici” , il suo “tema favorito.  (…) La nube, ora leggera, vaporosa, ora cavalcante attraverso i cieli in un maestoso cumulo, aralda di tempesta, è sempre stata a me cara come ai sognatori romantici di un tempo” (Giulio 1934, p. 7), quasi vivente di vita propria, pronta a migrare da immagine a immagine (Le belle fotografie di Torino, 1928; Minaccia di nubi, 1928).

Sono quei primi paesaggi (1913-1915 ca) a essere virati in toni antinaturalistici, forzati e teatrali sebbene ancora propriamente fotografici  (Quattro paesaggi in controluce, 1913 ca; La valle della Dora Baltea nei pressi di Ussell, 1914), mentre le più marcate manipolazioni proprie delle stampe in ozobromia (Annecy, 1927; La Dora Baltea, 1927-1928; Villaggio alpino, 1928; Lago Maggiore – S. Caterina del Sasso, 1929 ca); condotte a volte sino alle coloriture a pastello di dubbio esito, datano alla fine degli anni Venti, sorprendentemente coeve delle prime e già molto apprezzate immagini di sci, espressivamente così distanti: tutte affidate ai virtuosismi della grafia e della modulazione monocroma. Ciò che accomunava questi opposti esiti, quelle che a noi appaiono poco comprensibili oscillazioni del gusto era forse la convinzione che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero”, come aveva scritto già nel 1898 Enrico Thovez e come sostenevano gli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921. Le loro divergenti direzioni espressive, tra ispirazione pittorialista e sintesi modernista, proseguirono ben dentro quel decennio, a documentare una fase della cultura fotografica – non solo italiana – che troppe volte una storiografia  approssimativa ci ha restituito come un procedere lineare e quasi deterministico. Giulio praticò le manipolazioni fotochimiche sino al 1929 circa, quando  lasciarono definitivamente il posto al lavoro sull’inquadratura, sovente condotto in fase di stampa, di riconsiderazione critica del negativo: taglio su taglio (Val Gimont: sciatori, 1925-1926; Dormillouse presso Colle Chabaud, 1931-1932). Ciò su cui interveniva non era più il continuum spazio-temporale del mondo, ma una porzione d’immagine, ponendo in essere una riscrittura, una revisione del testo iconico che allontanava l’esito fotografico dalla sua natura di traccia, favorendone l’efficacia comunicativa di icona. Non per  questo era scisso il legame con la contingenza originaria, che la fotografia manteneva inevitabilmente e (qui) volutamente in ogni suo frammento, affinché “il piccolo quadrato della positiva [potesse esprimere] quanto non solo aveva visto ma quanto aveva sentito” l’autore (Giulio 1934, p. 7).  “Entro questo rettangolino – proseguiva – io scopro interamente il quadro con somma facilità e con tutti i suoi essenziali elementi, sicché quando scatto io vedo già innanzi agli occhi il negativo. Io non so se questo sentire è di tutti! Intuire, conoscere già il risultato del negativo, nell’inquadratura, nella posa, come stampa e infine come prova finale ingrandita. Mai forse, posso dire, di avere scattato a caso, senza sapere ciò che volevo cogliere dal soggetto che mi interessava.” (Giulio 1934, p. 9)

La legittimità della rielaborazione anche compositiva del negativo, certo la più importante eredità culturale della stagione pittorialista, veniva riconosciuta ed esaltata in quegli anni anche dai critici italiani più avveduti: “il fotografo artista può sempre trovar modo, coll’ingrandimento, di operare un sapiente lavoro di analisi e di scelta, il quale (…) può approdare a vere e proprie scoperte. O, meglio, riscoperte. Ecco un esercizio, un senso, tipicamente – perché insostituibilmente – fotografici. Ecco una sintesi di secondo grado, sulla lastra che approfondisce di infinite prospettive linee, ombre e piani, al modo che gli armonici di una nota le prestabiliscono intorno un ronzio metafisico, cui l’orecchio del musicista soltanto sa carpire l’armonia contemporanea del basso d’accompagnamento, o la cadenza successiva della melodia.” (Pellice 1932, p. XI)

Era il 1920 quando Giulio, ormai alla soglia dei trent’anni, ebbe occasione di partecipare alla sua prima esposizione quale membro della Società Unione Giovani Escursionisti; un evento in tono minore, certo, ma forse non senza conseguenze se alcune stampe di quegli anni riportano la scritta “vietata la riproduzione”; se il negativo n.3262 risulta “ceduto a Brunner”, cioè ad uno dei massimi editori di cartoline. Ben più rilevante fu la partecipazione, con ben cinque opere, alla “Prima esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia” che si tenne sempre a Torino nel 1923[12], e il diploma di medaglia d’argento che ricevette.  Credo però che l’elemento per lui più significativo – ben più che il confronto inconcepibile con alcuni esponenti delle avanguardie europee presenti in quell’occasione, come Rodchenko o Drtikol – sia stato il riconoscersi per la prima volta parte di una ben definita scena artistica se non ancora di un vero e proprio gruppo.  Pochi anni dopo la novità della sua presenza, già autorevole,  sarebbe stata prontamente segnalata da Italo Mario Angeloni, che nella recensione alla  mostra sociale 1925 della SFS parlava di Giulio come di  “uno dei migliori fotografi delle profonde visioni alpine”, autore di  “alcune superbe istantanee rapite alle altitudini supreme” (Angeloni 1925), una delle quali (Armonie invernali)  venne pubblicata sulle pagine del “Corriere Fotografico”.  La partecipazione, nel dicembre dello stesso anno, al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale, promosso dal Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e dalla Società Fotografica Subalpina, gli frutterà inoltre la pubblicazione sul successivo annuario di Luci ed Ombre. “Nel bel quadro invernale Le Alpi del Prà di Cesare Giulio – scrisse Guido Lorenzo Brezzo in quell’occasione – i morbidi toni e le delicate trasparenze s’accordano per esprimerne il senso fondamentale: l’incubo dell’ombra che discende. Fissate la grande massa grigia, e vi parrà di vederla calare e allargarsi, invadere il piano e sommergerlo, e sentirete entrarvi nelle carni qualcosa come l’orrore della tenebra e il brivido del gelo.” (Brezzo 1926, p. 15) A  questa fobica lettura si sarebbe affiancata l’interpretazione di Angeloni che parlava invece di  “frigidi raccoglimenti che placano nella visione il nostro spasimo cittadino” (Angeloni 1927), dimostrando entrambi, sebbene implicitamente, l’assoluta irrilevanza del dato referenziale e il prevalere di un’intenzione, autoriale e poi critica, potenzialmente simbolica, che avrebbe ben presto portato al riconoscimento dell’autonomia del significante, della forma. “è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925b, p. 68)

Quasi un manifesto di queste posizioni estetiche fu La scia, presentata al Circolo degli Artisti nel maggio 1927 alla seconda mostra del Fotogruppo Alpino.  Questa “pittoresca visione di neve soffice segnata da un arabesco tracciato da un audace sciatore, puntino nero nella bianca immensità” (Zanzi 1927), questa “fulminea sensazione di velocità” (Bernardi 1927, p. 17) già riprodotta sulle pagine di Luci ed Ombre (1927, p. VII), venne poi pubblicata in Modern Photography, il prestigioso annuario della rivista londinese “The Studio” del 1931, vera summa della fotografia modernista, accanto a immagini di Florence Henri, André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli[13], costituendo per Giulio la vera consacrazione internazionale.

Piero Ghiglione, gran viaggiatore e alpinista[14], ne fece uso per illustrare il proprio volume dedicato a Lo sci e la tecnica moderna (1928) affrontando in quell’occasione una questione che certo accomunava le due pratiche e a cui Giulio non doveva essere insensibile: “Il vero stile. È stile il principiare le curve proseguendo con altre. (…) è vera arte, in malvagia neve o dirupato pendio, cogliere l’attimo opportuno per disegnare  curve prestigiose: il provetto, che vuol far dello stile, trova sempre la soluzione adatta ed estetica dei più difficili problemi.” (Ghiglione 1928, p. 257). Quasi una descrizione letterale di un’intera famiglia di immagini di Giulio e non solo, ma ciò che più preme sottolineare sono le conseguenze di un dato apparentemente secondario: la differente titolazione di queste fotografie.  La scia venne pubblicata col titolo didascalico e puramente referenziale di Presso la Punta Gimont  (t.10), coerente col diverso contesto e uso. Questa sola mutazione ne determinava la trasformazione radicale dello statuto; da opera tornava ad essere documento, da icona disponibile per una lettura simbolica si riduceva nuovamente a traccia, senza nulla mutare delle proprie apparenze formali. Risulta chiaro allora come la perdita di rilevanza del referente a favore della interpretazione autoriale fosse indotta  proprio dalla variazione del titolo, elemento fondante – per la sua funzione connotativa –  della costituzione dell’opera, come avrebbe riconosciuto Mario Bellavista nel diciottesimo dei suoi Concetti per fotografi moderni: “Il titolo fa parte dell’immagine. Anzitutto perché costituisce un’interpretazione dell’immagine fotografica; in secondo luogo perché facilita la lettura e quindi la comprensione dell’immagine da parte dell’osservatore.”[15]  Anche per questa fotografia il confronto col provino conferma l’adozione di un sapientissimo taglio in fase di stampa, una reinterpretazione della ripresa originale in cui l’autore aveva riconosciuto “qualche buon effetto di luce e caratteristiche di modernità per quanto spontanee” (Giulio 1934, p. 7), dove aveva ritrovato “la semplicità del motivo [che considerava] sempre il maggior valore dell’opera.” (Giulio 1936, p.3)

Un’altra delle sue più note immagini di quegli anni, Audax, 1928, è invece frutto di un taglio (da Fra rupi e ghiacci – Monte Bianco, 1928) e di un fotomontaggio (dal neg.  3793), integrati da sapienti interventi manuali a tempera e pastello. Di queste virtuosistiche manipolazioni che ne contraddicevano l’aspetto di magistrale istantanea, non  parvero accorgersi i generosi commentatori coevi che parlavano di  “an impressive rendering of snow and sunshine” (Mortimer 1928, p. 24), di “spettacolo troppo vasto e invincibile dell’orizzonte senza confini. [Dove] le sue figure dominano vittoriose la scena.” (Boggeri 1929 b, p. 15)   Ancora alcuni anni più tardi si sarebbe parlato a proposito di un suo lavoro (Linee, 1930)  come di “un buon esempio di una verità ormai largamente intesa nel mondo fotografico più attento: essere cioè assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta come questa con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.” (Rossi 1933, p. XV)  Del resto lui stesso avrebbe dichiarato di detestare “l’artificio come illusione”, intendendo con questo riferirsi – credo – non tanto alla legittimità delle manipolazioni, praticate lungo tutta la sua carriera, ma al loro scopo e finalità: la sua invenzione era realistica, non fantastica, destinata a rafforzare l’effetto di realtà, magari spettacolarizzandola. Come aveva ben detto Brezzo “Guardando il superbo Audax di Cesare Giulio, mi viene in mente che invece di indire, come si fa per amore di novità ad ogni costo, concorsi fotografici a soggetto essenzialmente moderno, assai meglio sarebbe richiedere trattazioni essenzialmente personali di soggetti ordinari. Sarebbe facile allora distinguere i vuoti cervelli balzani dai veri artisti. Ma per questo bisognerebbe ricordare che in arte ciò che importa non è il nuovo, che del resto sarà vecchio fra una settimana, ma la personalità.” (Brezzo 1929, p. 778) Questa distinzione risulta importante per comprendere la cultura fotografica torinese e italiana di quegli anni, per collocare correttamente la presenza di Giulio, il suo raffinato minimalismo. Non possiamo dire che sia stato un modernista, categoria allora sospetta e quasi rifiutata, quasi quanto quella denigratoria e generica di astrattista se non addirittura di futurista[16], nonostante la presenza torinese di Fillia[17]. Egli fu piuttosto uno dei massimi esponenti, con Bricarelli e Baravalle almeno, di quella importante fase di transizione e di maturazione che per pura necessità classificatoria potremmo provvisoriamente chiamare secondo pittorialismo e che costituì il necessario antecedente e tramite con le ricerche formaliste del secondo dopoguerra[18]. Significativa in tal senso mi pare l’elezione di Giulio nel 1927 a membro del Consiglio direttivo del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, ricostituito sulla base della riconosciuta “opportunità ed anzi la necessità di dare al movimento fotografico artistico un preciso indirizzo, seguendo l’azione dei gruppi pictorialists inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti”[19], identificabili in “quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta”[20], sebbene poi ciò si traducesse nell’assenza di un confronto, nel rifiuto quasi  dei precetti e dei modelli proposti dalle più avanzate esperienze europee.

Il suo impegno militante si esprimeva in quegli anni anche come membro e attivo organizzatore del Fotogruppo Alpino, di cui sarà Presidente dopo Adolfo Hess (1929), mentre si avviavano le sue prime esperienze internazionali con la partecipazione nel 1928  al Salon di Parigi. Questa attività  ebbe nell’anno successivo  uno sviluppo esponenziale[21]: Boston, Edimburgo, Goteborg, Parigi, Elboeuf, Saragozza, Barcellona e Londra, al cui Salone ottenne il quinto premio assoluto. “Le scene alpine e di nevi di Giulio Cesare – scrisse un anonimo recensore in quell’occasione[22] – appartengono alle cose migliori del genere esposte finora in questo paese. La loro finezza e la delicatezza delle ombre sulle nevi, e l’inclusione delle figure, sono meritevoli di alta considerazione”. Che la fotografia italiana, torinese in particolare, fosse in quegli anni sottoposta a un processo di aggiornamento orientato dal ‘gusto europeo’ venne riconosciuto pur con giudizi diversi da numerosi osservatori che ne comprendevano “la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva” (Rossi 1933, p. XIV), ma anche “il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso.” (Angeloni 1933, p. 252), svelando contemporaneamente il conflitto critico tra chi si nutriva, magari superficialmente, delle suggestioni delle nuove poetiche europee e i sospettosi esponenti della tradizione pittorialista.

Qui, ancora una volta, l’opera di Giulio si rivela paradigmatica.  La sua economia di mezzi, la riduzione dei segni e dei toni costituivano l’aggiornamento piuttosto che il superamento del pittorialismo imperante, esito della scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni, non ultima la grafica giapponese.[23] L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fank[24].  La sua cultura fotografica era quella dei Salon, di Luci ed Ombre. Ai suoi livelli più alti, certo, ma anche con tutti i limiti che la caratterizzavano; una specie di autarchia culturale che le limitazioni imposte dal regime fascista non sembrano sufficienti a giustificare; una sostanziale prudenza espressiva, lontana ad esempio dai rischi delle ultime prove di  Gabinio[25], mediate dalla conoscenza delle immagini diffuse dalle riviste di architettura come “La Casa Bella” e  “Domus”, che furono il vero strumento di aggiornamento visuale della cultura fotografica nostrana.  Quella di Giulio era una  cultura che rifiutava le proposte ‘futuriste’ – pur adottandone non raramente le soluzioni formali – così come rifiutava la macchina e tutto l’universo della produzione industriale che già allora caratterizzavano monoliticamente Torino[26].

Questa che noi leggiamo come una contraddizione interna, questa tensione irrisolta tra tradizione e innovazione narrativa e linguistica, era la condizione comune a gran parte della fotografia italiana tra le due guerre (Stefano Bricarelli, Giulio Parisio o il più giovane Riccardo Moncalvo  tra gli altri). Degli autori come dei critici loro compagni di strada.  Oggi – scriveva “Il Corriere Fotografico” nel 1933 – la veduta fotografica si prende in ogni senso: dall’alto, dal basso, dritta, inclinata […] oggi tutto vuol essere semplice […] l’esagerazione di una parte del soggetto può concorrere alla messa in valore od all’equilibrio delle altre parti […] Nel nuovo anno la Rivista sarà larga di ospitalità alle moderne manifestazioni dell’arte fotografica italiana e straniera senza un sistematico quanto ingiustificato ostracismo, ma pur senza una deplorevole e non meno esiziale indulgenza. In arte c’è chi tutto riceve dall’esterno, riservandosi, al massimo, la libertà di una visione propria, più o meno geniale, del soggetto; altri invece rivendica e si arroga il diritto di nulla accettare di quanto pretende essere segnato dal marchio dell’arte, ma di modificare nel senso della sua impressione il freddo decalco che l’occhio di cristallo, la lente, ha raccolto. La prima è percezione, apercezione la seconda, quella rivela e testimonia, questa traduce ed esprime.” (De Albroit, 1933) Che i due piani potessero sovrapporsi sino a coincidere pare non fosse neppure concepibile, tanto che nello stesso testo, mentre si sottolineavano le forti qualità compositive di una fotografia di Giulio, date dalla “visione dall’alto di cinque Barche a riposo  che si staccano bianche sul fondo nero delle acque”, non si sapeva  rinunciare alla facile analogia narrativa della chiusa: “par che attendano, dopo breve sosta, l’usata fatica.”

Questo era il contesto in cui si esprimeva ed era accolto Cesare Giulio, autore di un’opera (Armonia bianca Candori, 1934) modernamente interpretata come “un cielo senza cielo: cielo silenzioso di neve immacolata e intatta, con abeti sottili e ombre diafane d’abeti per nuvole” (Brezzo 1934, p.  XIV), ma anche come la restituzione di uno scenario “donde romantici atteggiamenti di conifere levano un ritmo di melanconia.” (Angeloni 1934). Le riserve antimoderniste erano esplicitamente espresse dall’editoriale di Luci ed Ombre del 1934, che scetticamente enumerava i caratteri del nuovo: “Modernità di cifra, vale a dire quella scheletricità geometrica di linea[27] congiunta spesso ad uniformità di superfici luminose, che, sorta dalla natura del soggetto macchina, viene spesso usata per assimilare a quello qualsiasi altra specie di soggetto. (…) modernità di prospettiva e di taglio, ché il taglio non è se non una prospettiva artificiale. Le aberrazioni in questo campo sono senza numero né misura. I futuristi le giustificano appellandosi, legittimamente fino a un certo punto, alla nuova esperienza della navigazione aerea[28], ma dimenticando che, anche quando ogni cittadino che si rispetta possederà un proprio aeroplano, rimarrà pur sempre l’importuno senso della gravità ad avvertirci che tutte le prospettive che s’allontanano dalla perpendicolare sono anormali, e che per non  essere assurde debbono trovare una ragione fisica od estetica.” (Brezzo 1934, pp. XI- XIV)

In questo ambiente certo non particolarmente stimolante Giulio riuscì però a realizzare opere di grande rilevanza e interesse, nuove e compiute, adottando nei confronti dei suoi prediletti soggetti alpini strategie diverse, una varietà di toni che muoveva dalla celebrazione del virtuosismo de La scia, 1927 o Audax, 1928, al divertissement ironico di Topolino sciatore, 1932; dal fascino delle riprese in panning (Sciatori provetti, 1938) che sarebbe stato poi di Gasperl, Mollino e Moncalvo[29],  all’astrazione del gesto elegante di Kristiania, 1931, dove il progressivo lavoro di sottrazione condotto in ripresa e poi sul negativo si traduce in esiti puramente e modernamente fotografici, sino all’estremo limite della scomparsa della figura in controluce:  “in modo che la sbuffata della neve originata dal telemark o dal cristiania strappato, resti come un vapore nel raggio del sole.” (Giulio 1936, p. 4) Solo comune denominatore la levità delle forme e dei gesti: nel mondo di Cesare Giulio non c’è dramma né fatica; anche i paesaggi vivono sospesi in un tempo di commossa contemplazione. Il fotografo scava intorno al tema, si muove per affinamenti progressivi sino a lasciare fuori campo il soggetto comunemente inteso, il corpo, l’albero, mentre altri elementi apparentemente secondari conquistano la scena. Penso alle ombre, a quelle tracce che furono il segno distintivo di un’intera generazione di fotografi e che qui progressivamente si trasformano in pura rappresentazione materica di una superficie, sebbene non rinunciando ad una interpretazione metaforica (Progresso, 1936); sono realizzazioni concrete per quanto involontarie di quel “dramma degli oggetti”, di quel “dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi” che aveva invocato il Manifesto della Fotografia Futurista.  Allo stesso ambito, certo nutrito da più ampi riferimenti internazionali, vanno poi condotte opere come  Palestra bianca[30], 1936, e Formiche[31], 1937, che proprio nell’efficace novità del punto di vista, delle possibilità compositive offerte dalla nuova visione scorciata dall’alto trovavano le ragioni della loro realizzazione e del loro immediato successo.

Questa diversità di approcci e di soluzioni narrative e stilistiche la ritroviamo anche negli altri temi e soggetti che il ricco archivio di Giulio ci offre, consentendoci di affrontare un altro dei nodi critici significativi di questa vicenda espressiva, come di quella stagione culturale. Mi riferisco alla fitta  rete di rimandi, suggestioni e prestiti che lega l’opera di Giulio a quella di altri autori coevi, non solo torinesi. Già in altre occasioni[32] mi è accaduto di suggerire  quasi la figura di un ‘autore collettivo’,  a indicare la rilevanza del fenomeno. Le infinite variazioni sul tema della grafia delle tracce, delle modulazioni del bianco costituiscono il comune denominatore di molta della produzione  – non solo italiana, a dire il vero – del periodo tra le due guerre mondiali, con esiti portati al limite della citazione  reciproca, quasi del plagio. Opere che nascevano dalla convinzione che il paesaggio potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da rielaborare per  scrollarsi di dosso il gravame della referenzialità; fotografie che negli esiti migliori la critica coeva riconosceva come estranee al genere, al di là delle apparenze.[33] Per questi autori lo scenario alpino non era semplicemente una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di più: un soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza quale ovvia conseguenza di antiche passioni e frequentazioni. Ma non era il solo; né il confronto si riduceva ai modi di trattamento del soggetto. Anche altri elementi dell’opera, come il titolo, erano messi in gioco e collettivamente ripresi, in un flusso continuo di scambi tra autori e opere che si tradusse nell’elaborazione collettiva del linguaggio della modernità fotografica italiana, quello che sarebbe stato illustrato e certificato quasi dall’annuario di Domus del 1943[34].

Già alcuni esercizi di stile di Giulio della fine degli anni Venti, quali i grappoli d’uva, tra  le rare nature morte da lui tentate, sono assimilabili alle analoghe prove coeve di Bologna e Gabinio e certo numerose furono per le occasioni di incrociare i propri passi con quelli del più anziano e appartato collega,  almeno in occasione di importanti eventi pubblici quali le cerimonie per la beatificazione di Don Bosco o per l’ostensione della Sindone del 1931, che entrambi fotografarono, o durante il lungo e complesso cantiere della ricostruzione di Via Roma. Sebbene non sia documentata alcuna conoscenza diretta, nonostante la comune appartenenza al CAI, alcune opere restano a testimoniare un dialogo: penso ad esempio alla ripresa delle acque del Po alla diga a valle del ponte Vittorio a Torino (1928) realizzata da Giulio  nel 1928, di cui non è nota alcuna stampa, in strettissima relazione  con Po che Gabinio espose a Torino, alla I Esposizione fotografica sociale dell’ALA del 1935, con Giulio membro della giuria di accettazione.[35]  Ben più stretti e documentati furono i rapporti con Stefano Bricarelli, con cui condivise la partecipazione a diversi Salon e Mostre come l’appartenenza al Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e al Fotogruppo Alpino. Questa consuetudine lasciò tracce evidenti sia in alcune prove degli inizi di Giulio come Costume del 1919, o nella più tarda San Fruttuoso, 1932, e in genere nei paesaggi non alpini, mentre la freccia dei debiti cambiava direzione nelle elaborazioni bianco su bianco, come le Tracce o i Ricordi di Sestrière di Bricarelli[36].

Il luogo, ideale e materiale a un tempo di questi confronti era certo la biblioteca del Club Alpino Italiano, ricchissima di volumi illustrati dedicati alla montagna e allo sci, ma specialmente gli uffici del “Corriere Fotografico”,  sede anche del Gruppo Piemontese, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.” La dispersione di questo preziosissimo materiale può consentirci solo di immaginare la varietà e la ricchezza delle fonti disponibili, in piccola parte ricostruibili come corpus a partire dai fondi e dalle donazioni fatte alla Biblioteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino da alcuni dei protagonisti di quella stagione come Italo Bertoglio e Carlo Matis[37]. Tutta la ricca vita associativa torinese era però occasione di scambi e  confronti.   Un altro dei suoi interlocutori era Mario Bellavista, fotografo, critico militante, consulente tecnico dell’ALA e rappresentante della società Gevaert, con cui era in contatto almeno dalla fine degli anni Venti[38] anche per la comune partecipazione a mostre, a partire da quella di Monza del 1927. Al “dramma delle ombre” che costituiva il tema di una delle sue immagini più note ed efficaci, Imbarco, pubblicata in Luci ed Ombre del 1933 (t. XX) possiamo allora legittimamente accostare Genova. La partenza del “Città di Livorno”  di Giulio, che è del 1932, cioè verosimilmente coeva, mentre altre suggestioni nascono dall’analisi delle pubblicazioni dell’epoca. Si confronti Elettricità/ Nubi  del 1936 con Alta tensione di Bruno Stefani (1931-1932),  un autore cui lo accomunano anche certi modi di resa dei paesaggi italiani e l’insistita ricerca sul tema dei fiori e (ancora) delle ombre[39]: è quanto accade in Fiori di campo e Dalia , entrambe del 1932, certamente da porre in relazione col concorso fotografico dedicato alla “Fotografia di un fiore” indetto nel giugno di quell’anno  da “Natura”, con cui collaboravano sia Giulio che Stefani,  con la casa di prodotti fotografici Tensi[40].

Altri esempi potrebbero succedersi, innumerevoli. Dalle più immediate consonanze col lavoro dei Fratelli Pedrotti e di molti torinesi come Carlo Matis, Piero Oneglio, Ettore Santi[41], alle non occasionali reminiscenze che si ritrovano in Federico Vender e in Giuseppe Cavalli, di cui Giulio non anticipa solo l’adozione sistematica e coerente del tono alto, ma anche l’attenzione per certi soggetti specifici, come i panni stesi al sole, occasione di verificare contemporaneamente la tenuta della composizione e la rapidità dell’istantanea.[42]

Un sentire comune, una virtuale comunità di fotografi estesa ben oltre la stretta appartenenza ai gruppi e poi ai circoli, indifferente forse anche alle conoscenze dirette, personali, di cui ancora troppo poco sappiamo.  Un’attività che si nutriva di reciproci prestiti,  sollecitata dalle suggestioni di ciascuno, dalla volontà – e dal piacere, credo – di sottoporre a verifica i problemi posti dagli altri, di sondarne l’efficacia espressiva delle soluzioni sino a farle proprie, in modi non troppo diversi dall’oggi.

Mi chiedo infine quali fossero i rapporti di Giulio con lo schivo Ferruccio Leiss: Torino, Milano e poi Venezia. Non sappiamo se ci fu mai l’occasione di un incontro, di una riflessione condivisa, di una stimata amicizia nata dalle numerose partecipazioni comuni alle mostre del periodo 1930-1936.  Nel 1935 però, a Vipiteno, misurandosi con temi per lui lontani e inconsueti come gli interni e le luci artificiali Giulio realizzò una serie di riprese da cui trasse Arabeschi, palese rielaborazione della notissima immagine di Leiss pubblicata in Luci ed Ombre del 1933 (t. IV). Il titolo attribuitogli da Leiss, Pioggia d’ombre, ricalcava a sua volta quello di un’immagine di Giulio pubblicata sullo stesso annuario solo due anni prima (t. XI) e presentata al VII International Kerst Salon di Anversa del 1933, cui prese parte lo stesso fotografo (da poco) veneziano. Questa stessa fotografia venne scelta nel 1946, anno della morte di Giulio, da Mario Finazzi, che per la collana “Immagini” da lui diretta per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo,  pubblicava  Montagne, “dedicato ai poeti, agli alpinisti, ed a coloro che – come i primi e i secondi -travalicano la realtà per attingere al sogno”[43].

Una continua intersezione di tracce, ancora tutte da seguire.

 

Note

[1] Giulio 1934, che così proseguiva: “Avevo allora concluso con un mio compagno di scuola un colossale baratto, a base di figurine Liebig e francobolli con una certa scatoletta di cartone contenente nientemeno che un completo armamentario fotografico.”

[2] Gabinio 1996.

[3] La n. 49 del suo archivio negativi, numerato con progressione cronologica quasi sempre coerente. Per la formazione e la consistenza del fondo fotografico rimando al testo in catalogo di Emanuele de Rege, che voglio qui ringraziare per la sua costante disponibilità e per il confronto continuo e attento sulle questioni relative alla corretta comprensione dell’opera di Giulio.

[4] Demachy, Puyo 1906,  f.t. Il volume era certamente noto a Torino dove era in vendita da Lattes, una delle più importanti librerie editrici dell’epoca.

[5] Penso a La zia Paolina di Giulio, 1911 ca, che appartiene alla stessa tradizione iconografica del più tardo Ritratto di vecchia di Schiaparelli, 1930 ca, cfr. Chiorino 2003, p. 52. Lo stesso Schiaparelli utilizzò immagini di Giulio a corredo della propria conferenza tenuta nel salone della Società Patriottica e degli Artisti di Milano, il 15 giugno 1928; cfr. Schiaparelli 1928, p. 292.

[6] Giulio 1934, p. 7.

[7] Tarchetti  1990. Dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie vennero pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” e in parte diffuse in cartolina, mentre dal 1909 al 1912 ne comparvero dodici ne “La Fotografia Artistica”. Tra le Scene comuni ai due autori, e quasi coeve, anche quelle dedicate alla trebbiatura del grano. Segnalo che parte della sua produzione fotografica è consultabile all’indirizzo https://caisidoc.cai.it/risultati-della-ricerca/advancedsearch  (09 12 2022).

[8] Sella, Vallino1890; Cavanna 1995.

[9] Si confronti ad esempio Costume, 1919 di Giulio con Processione a Oulx  di Bricarelli, del 1912 (Bricarelli  2005, p. 45)

[10] Nello specifico, alcune inspiegabili incongruenze di numerazione non consentono una maggiore precisione: i nn. 1492-1500 portano la data del settembre 1918, ma i nn. 1394-1398 sono datati maggio 1919.

[11] Cfr. Sella 1982;  Paesaggi verticali 2006.

[12] L’arte della fotografia 1924, p.35.

[13] Aurora Umbrarum Victrix di Bricarelli (t.22) e La spiaggia di Achille Bologna (t.76), mentre La scia  di Giulio venne pubblicata alla t.81. Nessun italiano era stato accolto nella fondamentale raccolta antologica del numero 16 di “Arts et Metiers Graphiques”, Photographie, 1930, dedicato alla fotografia; gli inglesi di “The Studio” si dimostravano in questo meno selettivi,  più sensibili anche alla produzione amatoriale di livello alto. Questi volumi erano noti in Italia almeno attraverso le segnalazioni e recensioni che comparvero in alcuni periodici, sebbene non fotografici. “La Casa Bella”, 4 (1931) n.10, ottobre, pp. 58-59, riportava parte del testo introduttivo di Philippe Soupault al secondo numero dell’annuario francese, dove l’autore si premurava di “sottolineare con maggior forza che una fotografia è prima di tutto un ‘documento’ e che bisogna considerarla tale (…) I fotografi ormai devono scordare l’arte per orientare la loro attività in una direzione che si dimostrerà infinitamente più feconda.” (citato in Paoli 1998, p.106 nota 27). Sulle stesse pagine Edoardo Persico avrebbe successivamente recensito i due annuari di “The Studio” (1931, n.11:, p.  54; 1932, n.10, pp. 58-59) traendone l’occasione per riflettere sullo statuto della fotografia “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole” (1931, p. 54), mentre per l’anonimo collega di “Domus”, 4 (1931), n. 47, p. 67, si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici.” Numerose segnalazioni comparvero anche su “Natura”, che aveva tra i propri collaboratori Antonio Boggeri, allora alle dipendenze della  Alfieri & Lacroix (Monguzzi 1981, p. 2), che editava il periodico. Nello stesso numero dell’ottobre 1932 ad esempio si susseguirono un redazionale di presentazione di Photographie (pp. 58-59)  e una interessante recensione di Modern Photography (pp. 78-79), da attribuirsi forse a Luigi Poli, direttore responsabile della rivista e  curatore del supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia”. Il breve testo dedicato al nuovo annuario di Photographie dopo averne rilevato “la presentazione tipografica di rara eleganza e di spiccata modernità”  prendeva le distanze dal saggio di apertura, firmato da André Bacler, il quale delineava “l’evoluzione più recente della fotografia, volendo dimostrare come dopo un periodo di confuse ricerche e di stravaganti effetti essa sia per ritornare alla sua vera funzione di indagine tecnica e documentazione scientifica. Con questa conclusione non s’accordano però i cento e più esempi fotografici riportati dal volume, così diversi l’uno dall’altro da smentire agevolmente l’affermazione che la fotografia sia anzitutto un mestiere. C’è in alcuni, anzi nei migliori, una così fervida fantasia, in altri ancora, sempre ammirevoli, una così delicata ispirazione  poetica da giustificare, al di là di ogni sottigliezza verbale, il nome di arte.” Anche a proposito di Modern Photography si sottolineava con qualche perplessità l’opinione espressa nella prefazione “che la fotografia va oggi considerata soprattutto come documento, qualunque sia la forma e il mezzo scelto per esprimersi. La macchina fotografica è quindi, secondo l’autore, sempre e soltanto uno strumento sia pure governato dall’intelligenza e dal gusto di chi lo usa, e cade in errore chi voglia assegnarle qualità metafisiche o poetiche, le quali saranno sempre privilegio dell’artista. Quanto alla personalità, deduciamo da tali premesse, s’immagina che un fotografo possa imprimerla alle sue prese attraverso la scelta del soggetto, al modo di vederlo, di presentarlo, di farlo suo.” La cultura italiana dell’epoca, anche la più avveduta, pareva non essere ancora in grado di accogliere l’autonomia estetica e poetica della fotografia pura e diretta, prodotto dalla nuova ‘oggettività’ modernista, vincolata da un idealismo tra l’ottocentesco e il crociano.

[14] Alpinisti 2002, p. 46, scheda di Roberto Mantovani.

[15] Bellavista 1934, p. 11. Anche per altri commentatori Giulio era “tra i rari compositori che si impongono il valore del titolo come forza collaboratrice della forma. (…) Ecco qui in questo Sul limite dell’ombra l’artista ha segnato il dramma eterno della luce.” (Angeloni 1939).

[16] “Cesare Giulio ne I piccioni di San Marco serve alla moda facendo della prospettiva futurista, ma non lo condanno; anzi, tutt’altro, molto lo lodo, non perché abbia fatto una cosa alla moda, ma semplicemente perché ha fatto una cosa bella, che la mancanza di spazio m’impedisce d’analizzare come meriterebbe.”, Brezzo 1930, p. 777. Lo stesso critico, nel testo di apertura di Luci ed Ombre dell’anno successivo e  facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, dichiarava che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista.” (Brezzo 1931) Lo sforzo di omologazione era strenuo e non conosceva ostacoli:  “l’astrattismo di Bricarelli, alla Tav. 17 [di Luci ed Ombre: Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse… Qui se il pericolo non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice 1932, p. XVI). Nello stesso annuario del 1930 comparve un’immagine di Bricarelli con la Basilica di san Marco ripresa dall’alto, ed anche Federico Vender si sarebbe prodotto in una veduta dall’alto di Piazza San Marco a Venezia, 1936, cfr. Menapace 2003.

[17] Fillia (Luigi Colombo) avvicinatosi alla fotografia per il tramite di Maggiorino Gramaglia (Lista 2001, p. 266) non fu però tra i promotori né tra i partecipanti  alla Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista che si tenne a Torino nel 1931, nel cui catalogo del resto non si faceva cenno al Manifesto redatto da Marinetti e Tato l’anno precedente, da lui invece pubblicato nel suo Il futurismo: Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento futurista italiano. Milano: Sonzogno, 1932, con l’aggiunta di un suo testo dedicato alla fotografia,  non segnalato in Lista 2001.

[18] Cfr. Miraglia 2001, p. 18; Bianco su bianco 2005.

[19] Il corriere fotografico, 24 (1927), n. 3, marzo.

[20] Bernardi 1928, pp.641- 642. Come è noto lo stesso concetto venne ripreso alcuni anni più tardi da  Mario Bellavista in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro Concetti per fotografi moderni invitava infatti a “Fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.”, Bellavista 1934, p. 10.

[21] Ancora maggiore risulterà nel decennio successivo quando, sotto l’egida della Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura, che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana) Giulio parteciperà a più di sessanta esposizioni: 10 salon (32 opere) nel 1930-31; 9 salon (20 opere) nel 1931-32; 8 salon (24 opere) nel 1932-33; 3 Salon (15 opere) nel 1933-34;  2 Salon (8 opere) nel 1934-35; 8 Salon (26 opere) nel 1935-36; 9 Salon (17 opere) nel 1936-37; 15 Salon (31 opere) nel 1937-38. Cfr. “Pagine fotografiche ALA”, settembre 1938, p. 57, che rimanda a sua volta a “The American Annual of Photography”. Boston: Tennant and Ward, 1938.

[22] “Amateur Photographer” 1929.

[23] “Gli Abeti in inverno del Giulio, un bianco-nero finissimo, un pezzo di paese che, vero com’è, pare, tanto è bello e fantastico, un perfetto disegno di qualche maestro giapponese” aveva scritto  Emilio Zanzi nella  “Gazzetta del Popolo” dell’ 8 maggio 1927, recensendo “Montagne – La II mostra del Fotogruppo Alpino” (Zanzi 1927). A proposito di un’opera di Riccardo Moncalvo altri avrebbero detto che “disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette.”, Angeloni, 1934a, p. 591.

[24]Le stelle 2004, p. 127. Analoghe soluzioni, pur con campi ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, pp. 100 passim. Questa genealogia del bianco che poneva in relazione diretta il Bergfilm tedesco con le sperimentazioni dei fotografi italiani era già stata individuata e nettamente tracciata da Nico Ferrini, che sulle pagine di “Natura” aveva accostato a Kristiania di Giulio proprio alcuni fotogrammi dei film di Arnold Fank. (Ferrini 1932) Anche la manualistica italiana dedicata allo sci contemplava la pubblicazione di intere pagine di fotogrammi da filmati tecnici (cfr. Ghiglione 1928), ma ciò che ricercava era la chiarezza didascalica della sequenza dei gesti  e dei comportamenti, non l’efficacia comunicativa della resa espressionista (ben più che futurista) dell’ebbrezza bianca.

[25] Gabinio 1996.

[26] In parte diverso il caso di Bricarelli, che nel novembre del 1926 aveva fondato “Motor Italia” con un piccolo gruppo di soci. La destinazione funzionale di molte delle proprie immagini  lo spingeva ad  abbandonare ogni intenzione semplicemente “artistica”, a rinunciare all’autonomia salonistica  delle singole opere preferendo agire per serie. Avendo in mente la carta stampata,  metteva in pratica un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva non dimenticava però la necessità di realizzare immagini formalmente risolte, quindi anche comunicativamente efficaci; si veda Bricarelli 2005.

[27] L’anno successivo concetti analoghi vennero espressi da Alberto Savinio che avrebbe parlato, a proposito della nuova fotografia di soggetti ridotti a uno “schemati­smo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’ alto.” (Savinio 1935)

[28] Il riferimento polemico è al Commento di Antonio Boggeri che apriva l’annuario del 1929: “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove”, Boggeri 1929a.

[29] Gasperl 1939, prefazione di Gianni Alberini, con 77 fotografie originali e una tavola fuori testo di Carlo Mollino 1950, con 212 disegni originali dell’autore e 200 fotografie; Moncalvo 1976 tav.  XXIII.

[30] Di quest’ultima  – trovandosi nell’identica condizione – si sarebbe certamente ricordato Riccardo Moncalvo per il suo Grafismo nevoso, 1947, ma anche altre sue opere come Ritmo di larici, dello stesso anno, derivano immediatamente dalle più note fotografie di Giulio, certo uno dei punti di riferimento per il più giovane figlio d’arte, che aveva precocemente dimostrato una analoga sensibilità di trattamento dei soggetti alpini (Nella tormenta – Verso il Breithorn, 1937), cfr. Moncalvo 1976, tavv. LXXV, LXXXII, XCIII.

[31] Quale ennesima testimonianza della fittissima rete di suggestioni e scambi segnalo come il titolo fosse ricalcato su quello scelto da Bricarelli (Formiche della neve) per una sua immagine pubblicata in Luci ed Ombre del 1924 (tav. XL).

[32] Bianco su bianco  2005.

[33] Per Marziano Bernardi (1927, p. 11), “Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle.”

[34] Fotografia  1943; Paoli 1998.  Per ragioni critiche poco comprensibili, Peretti Griva era qui il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Cesare Giulio risultava assente, sebbene la fotografia a tono alto, di cui era stato certo l’esponente più qualificato nel periodo tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (tav. 39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[34] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53).  Non escluderei invece che  Roiter  potesse aver meditato proprio su Giulio, di cui ebbe modo di vedere alcune opere (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) nella piccola sezione postuma che gli venne dedicata nel 1949  all’interno della Sezione fotografica della “Mostra internazionale Scambi Occidente” organizzata dalla Società Fotografica Subalpina e dal Gruppo Fotografi FIAT, cui partecipò lo stesso Roiter con due opere (Allegretto con brio, Spasimi 210-211), insieme a  Paolo Monti (Inverno ad Anzola, Trasparenze 175-176), cfr. Scambi Occidente 1949. 

[35] Cfr. Gabinio 1996,  tav.190. Entrambi gli autori si erano già misurati, intorno al 1930, col soggetto della diga Michelotti sul Po.

[36] Per Tracce si veda Luci ed Ombre, 1932, tav. XXV. La pagina di album che contiene le diverse prove dei Ricordi di Sestrière dimostra quanto fosse rilevante in quegli anni l’influenza di Giulio, cfr. Bricarelli  2005, p. 86.

[37] Una prima ricostruzione di questo corpus è costituita dagli apparati messi a punto da Veronica Lisino, che ringrazio per l’acribia con cui ha condotto le ricerche bibliografiche e la dedizione con cui ha partecipato al lavoro redazionale.

[38] “Dune di neve/ senza il colle/ da rifare (inviata a Bellavista)”, recita la scritta al verso della stampa n. 5192, del 1930.

[39] Alta tensione fu pubblicata in Luci ed Ombre, 1932, tav. X.

[40] L’esito del concorso, pubblicato nel numero di maggio del 1933, vedeva al primo posto Italo Bertoglio, con un’immagine  che svela la forte influenza dei toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham, che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931; al secondo posto si collocò Stefani, mentre di Giulio,  non citato, non è nota la partecipazione effettiva.

[41] Per un confronto analitico con le opere di questi autori si rimanda a Bianco su bianco 2005.

[42] Si confronti ad esempio Chioggia canale [della] Vena  di Giulio, del 1929, con le più tarde Armonia di Vender e Per la via di Cavalli, entrambe del 1948, in Bianco su bianco 2005, pp. 114-115.

[43] Cfr. Finazzi 1946. Di Giulio vennero pubblicate – ad aprire il fascicolo – Scendendo dal M. te Bianco, Sciatori, Sommità, Solennità, Pioggia d’ombre, Palestra Bianca. Gli altri autori selezionati furono Antonio Piccardi (alpinista, primo sindaco di Dalmine dopo la Liberazione), Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e lo stesso Finazzi.

 

 

 

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Come la stampa fotografica internazionale giudica Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),   n. 4, aprile, pp. 253-254, tratto da “American Photography”, 23 (1930), n. 3, marzo. Boston: American Photographic Publishing Company

 

Amsterdam 1938

Vierde Internationale Focus Fotosalon, catalogo della mostra (Amsterdam, 1938). Amsterdam: Focus, 1938

 

Amsterdam 1939

Vijfde Internationale Focus Fotosalon, catalogo della mostra (Amsterdam, 1939). Amsterdam: Focus, 1939

 

Amsterdam 1947

Zevende Nationale Salon van Fotografische Kunst: de herdenking van het 25-jarig bestaan, catalogo della mostra (Amsterdam, 1947). [S.l., s.n.], 1947

 

Andreis 1937

Luigi Andreis, Gli artisti italiani al V Salone Internazionale di Torino,  “Galleria”, 5 (1937), n. 5, maggio, pp. 10-11

 

Andreis 1938

Luigi Andreis, Un commento di Luigi Andreis alle tavole di questo numero,  “Galleria”, 6 (1938), n. 1, gennaio, pp. 10-11

 

Angeloni 1923

Italo Mario Angeloni, La Fotografia Artistica alla Prima Esposizione Internazionale Torino – Maggio-Giugno 1923, in L’arte nella fotografia 1923, pp.39-50

 

Angeloni 1925a

Italo Mario angeloni, Commenti e documenti estetici del Primo Salon Italiano. Gli amici d’oltralpe e d’oltre mare, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 11, novembre, pp. 179-181

 

Angeloni 1925b

Italo Mario angeloni, La Mostra sociale 1925 alla “Società Fotografica Subalpina” – Recenti manifestazioni dell’attività fotografica in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 67-68

 

Angeloni 1926

Italo Mario Angeloni, Arte Consolatrice. Contemplando “Luci ed Ombre” 1926, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 11, novembre, pp. 241-243

 

Angeloni 1928

Italo Mario Angeloni, Volti e aspetti del mondo al II° Salon Italiano di Fotografia, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 11, novembre, pp.  719-721

 

Angeloni 1933a

Italo Mario Angeloni, Nell’imminenza del IV “Salon” torinese, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 4, aprile, pp. 189-190

 

Angeloni 1933b

Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italiani al “IV Salone Internazionale” di Torino, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 5, maggio, pp. 251-255

 

Angeloni 1934

Italo Mario Angeloni, “Luci ed Ombre” 1934,  “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, pp. 591-592

 

Angeloni 1939

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 12, dicembre, p. 270

 

Annuario 1926

Annuario  1926. Torino: CAI, 1926

 

Antwerpen 1934

Catalogus Van Het 7. Internationaal Kerstsalon, ingericht door de Fotografische Kring Iris, catalogo della mostra (Anversa, 1933-1934). Antwerpen: Borgerhout, 1934

 

L’arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia: Prima Esposizione Internazionale di Fotografia, Ottica e Cinematografia, catalogo della mostra (Torino 1923. Roma: Bestetti & Tuminelli

 

Audisio, Cavanna 2003

Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di, L’Archivio fotografico del Museo Nazionale della Montagna. Novara: De Agostini, 2003

 

Barcelona 1929

Catalogo de las obras expuestas en el Primer Salon Internacional de Fotografia: Barcelona 1929, catalogo della mostra (Barcellona, 1929). Barcelona: Delta, 1929

 

Bellavista 1934-1936

Mario Bellavista,Tre concetti per fotografi moderni,  “Galleria”, gennaio 1934 – novembre 1936

 

Berlin 1941

Ausstellung Italienische Fotografische Kunst: Verastaltet von der Unione Societa Italiane Art Fotografica in Rom …, catalogo della mostra (Berlino,1941). Berlin: O. Meusel, 1941

 

Bernardi 1927  

Marziano bernardi, Commento, in Luci ed Ombre 1927 , pp. IX-IXX

 

Bernardi 1928a

Marziano Bernardi, Fotografi artisti, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio: 2-3, tratto da “La Stampa”, 62 (1928),  21 gennaio

 

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, , pp. 641-643

 

Bernardi 1928c

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre 1928, pp. XI-XVI

 

Bianco su Bianco 2005

Bianco su bianco. Percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari , 2005

 

Biennale 1939

  1. Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Torino, 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

Birmingham 1931

Birmingham Photographic Society: 40th Annual Exhibition, catalogo della mostr (Birmingham, 1931). Birmingham: Stanford & Mann, 1931

 

Boggeri  1929a

Antonio Boggeri, Commento,  in Luci ed Ombre 1929, pp. 14-16

 

Boggeri  1929b

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 8, agosto, pp. 557- 564

 

Boggeri 1930

Antonio Boggeri, Caratteri della moderna estetica fotografica, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 8, agosto, p. 546,  tratto da “Natura”, 3 (1930), n. 7, luglio

 

Boggeri 1932

Antonio Boggeri, La fotografia alla Fiera di Milano,  “Natura”, 5 (1932),  n. 5 maggio, pp. 43-48

 

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi. Milano: Hoepli, 1935

 

Bombay 1935

  1. Indian Salon Of Photographic Art (First International) promoted by Camera Pictorialists of Bombay, catalogo della mostra (Bombay, 1935). Bombay: The Times of India Press, 1935

Bombay 1939

Third Indian International Salon, catalogo della mostra (Bombay, 1939). Bombay: The Times of India, 1939

 

Boston 1935

Catalog of the Fourth International Salon, catalogo della mostra (Boston, 1935). [Boston?, s.n.], 1935

 

Brezzo  1926a

Guido Lorenzo Brezzo, Commenti al Primo Salon Italiano. II. Paesisti di tutto il mondo, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 1, gennaio, pp. 4-7

 

Brezzo 1926b

Guido Lorenzo Brezzo, La fotografia di montagna alla Prima Esposizione del Fotogruppo Alpino, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 5, maggio, pp. 105-107

 

Brezzo 1926c

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre 1926, pp. 11-19

 

Brezzo 1927  

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp.  201-204

 

Brezzo 1928

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1928, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 11, novembre, pp. 717-719

 

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929,  “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 11, novembre, pp. 777-780

 

Brezzo 1930a

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre 1930”  “Il Corriere Fotografico”,  27 (1930),  n. 11, novembre, pp. 774-778

 

Brezzo 1930b

Guido Lorenzo Brezzo, Il “III Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale” , “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 12, dicembre, pp. 843-846

 

Brezzo  1931a

Guido Lorenzo  Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre 1931, pp. XI-XV

 

Brezzo  1931b

Guido Lorenzo  Brezzo, La Mostra Fotografica Internazionale alla Fiera di Milano, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931),  n. 5, maggio, pp. 307-309

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1924

s.b. [Stefano Bricarelli], Il fotografo in montagna. Gli sports invernali, “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 1, gennaio, pp. 5-6

 

Bricarelli  2005

Stefano Bricarelli: fotografie, catalogo della mostra (Torino,  2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005

 

Budapest 1936

  1. Nemzetközi Művészi Fényképkiállitás, catalogo della mostra (Budapest, 1936). Budapest: Hungaria Nyomda, 1936

 

Cai 1922-1948

Rivista mensile del Club Alpino Italiano. Torino, 1922-1948

 

Cai 1930

Quarta Esposizione di Fotografia di Montagna del Fotogruppo Alpino, catalogo della mostra (Torino, 1930). Torino:  Arti Grafiche Italiane, 1930

 

Cai 1932

  1. Esposizione Fotografia di Montagna al Circolo degli Artisti, catalogo della mostra (Torino, 1932). Torino: Foa, 1932

Cai 1934

  1. Esposizione Fotografia di Montagna al Circolo degli Artisti, catalogo della mostra (Torino, 1934). [S.l., s.n.], 1934

Cai 1940

  1. Esposizione di Fotografia Alpina, catalogo della mostra (Torino, 1940).Torino, S.P.E., 1940

Capetown 1936

Cape of Good Hope International Salon of Photography 1936, catalogo della mostra (CapeTown, 1936). [CapeTown?, s.n.], 1936

 

Casale 1930

Prima Esposizione Regionale di Fotografia di Montagna indetta dal Fotogruppo Alpino, catalogo della mostra (Casale Monferrato, 1930). Casale Monferrato: Tarditi, 1930

 

Casale 1942

I  Mostra di Fotografia Artistica … , catalogo della mostra (Casale Monferrato, 1942). [S.l., s.n.], 1942

 

Cavanna 1995

P. Cavanna, Gli Album di un alpinista. La montagna abitata di Domenico Vallino, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

Cavanna 2003

P. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003, pp. 40-116

Charleroi 1934

Catalogue du I Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Charleroi, 1934). Charleroi: R. Denuit, 1934

 

Chicago 1933

The International Salon of Photography in the Graphic Arts Building, catalogo della mostra (Chicago, 1933). [Chicago?: Chicago Camera Club], 1933

 

Chicago 1937

Eighth Chicago International Salon of Photography, catalogo della mostra (Chicago, 1937). [Chicago?: Chicago Camera Club], 1937

 

Chiorino

Gian Paolo Chiorino, a cura di, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Concorso 1925

I Concorso trimestrale del “Corriere Fotografico” – “Paesaggi d’inverno” , “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 3, marzo

 

Concorso 1927  

Il I° Concorso trimestrale 1927 del “Corriere Fotografico” “Neve e brina”, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p.  88

 

Concorso Annuale 1929

Il Concorso Annuale 1929 del “Corriere Fotografico”, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 2, febbraio, p. 33

 

Concorso Annuale 1930

Il Concorso Annuale 1929 del “Corriere Fotografico”, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 2, febbraio, p. 33

 

Cornoldi 1950

Antonio Cornoldi, a cura di, 60 canti della montagna. Roma: Edizioni Dalmatia di Luciano Morpurgo, 1950

 

Corriere Fotografico 1924-1934

“Il Corriere Fotografico”, Torino,Tipografia Lorenzo Rattero, 1924-1934

 

Corso 1935

Corso Superiore di Cultura Fotografica: 29 novembre 1934-XII/15 giugno 1935-XII, promosso dalla Società Fotografica Subalpina. [S.l., s.n.], 1935

 

Costantini, Zannier, 1987

Paolo Costantini, Italo Zannier, Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923-1934. Firenze: Alinari, 1987

 

De Albroit 1930a

Comirias  de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 1, gennaio, p. 9

 

De Albroit 1930b

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 8, agosto, p. 555

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, La XX Esposizione Sociale d’Arte alla Società Fotografica Subalpina, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 5, maggio, pp. 257-258

 

De Albroit 1933

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 1, gennaio, p. 33

 

Debrecen 1939

  1. Nemzetközi Művészi Fényképkiállitás Debrecen, catalogo della mostra (Debrecen, 1939). [Debrecen?, s.n.] 1939

Debrecen 1940

Négy Nemzet Kiállítása 1940: Olaszország Jugoslávia Svájc es Magyarország … , catalogo della mostra (Debrecen, Sopron, Budapest, Zurigo, 1940) [Debrecen?, s.n.], 1940

 

Demachy, Puyo 1906

Robert Demachy, Constant Puyo, Les procedés d’art en photographie. Paris: Photo-Club de Paris, 1906

 

Douai 1929

Catalogue des oeuvres exposées au Salon International d’Art Photographique, organisé par la Société photographique du nord de la France, Douai, catalogo della mostra (Douai, 1929). Douai: Laivre, 1929

 

Dublin 1931

Irish Salon of Photography: catalogue of the Third Salon, catalogo della mostra (Dublino, 1931). Dublin: Corrigan and Wilson, 1931

 

Elbeuf 1929

Catalogue des oevres exposées au Salon International d’Art Photographique organisé par le Cercle photographique elbeuvien, catalogo della mostra ( Elbeuf, 1929). Elbeuf: Allain, 1929

 

Ferrini 1932

Nico Ferrini, La vittoria dello sci, “Natura”, 5 (1932),  n. 1, gennaio, pp. 57-60

 

Fillia 1932

Fillia, Il Futurismo: ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento futurista italiano. Milano: Sonzogno, 1932

 

Finazzi 1946

Mario Finazzi, a cura di, Montagne, “Immagini”, 3. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1946

 

Firenze 1934

  1. Mostra Nazionale di Strumenti Ottici: Catalogo della mostra fotografica, catalogo della mostra (Firenze, 1934). Firenze: Tipocalcografia Classica, 1934

Foto Annuario 1936

Foto Annuario Italiano A.L.A. Torino:  Associazione Fotografica Italiana, 1936

 

Foto Annuario 1937

Foto Annuario Italiano A.L.A. Torino:  Associazione Fotografica Italiana, 1937

 

Fotografia 1943

Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, a cura di Ermanno F. Scopinich. Milano: Editoriale Domus, 1943

 

Fusco, Laeng 1952

Enzo Fusco, Gualtiero Laeng, Sci e sport della neve. Brescia: La Scuola, 1952

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio: dal paesaggio alla forma: fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino:  Allemandi, 1996

 

Gasperl 1939

Leo[ne] Gasperl, Scuola di sci: discesismo. Milano: Hoepli, 1939

 

Genève 1939

  1. Exposition Italienne d’Art Photographique (“Associazione Fotografica Italiana”, Turin): organisé par la Société Genevoise de Photographie, catalogo della mostra (Ginevra,1939). Genève: A. Excoffier, 1939

Ghiglione 1928

Piero Ghiglione, Lo sci e la tecnica moderna, Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1928

 

Giordano 1930

Giuseppe  Giordano, Un diffusore a sacco per luce-lampo, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 10-12

 

Giulio 1934

Cesare Giulio, Fotografie alpine, “Galleria”, 2 (1934),  n. 6, giugno, pp. 7-9

 

Giulio 1936

Cesare Giulio, Fotografia e sci,  “Galleria”, 4 (1936), n. 3, marzo, pp. 3-4

 

Göteborg 1929

Internationella fotografiutställningen i Göteborg, catalogo della mostra (Göteborg, 1929). [Göteborg?, s.n.] 1929

 

Gruppo  Fotografico 1926

Gruppo Fotografico Alpino, in “Rivista mensile del CAI”, 45 (1926),  pp.  15, 31

 

Gruppo Piemontese 1927  

La ricostituzione del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” , “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, pp. 49-50

 

Gruppo Piemontese 1928

Prima Mostra d’Arte Fotografica del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” e Mostre personali di Leonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams, catalogo della mostra (Torino, 1928). Torino:  Tipografia Lorenzo Rattero, 1928

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London 1931

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1931, catalogo della mostra (Londra, 1931). [London?, s.n.], 1931

 

London 1932

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1932, catalogo della mostra (Londra, 1932). [London?, s.n.], 1932

 

London 1935

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1935, catalogo della mostra (Londra, 1935). [London?, s.n.], 1935

 

London 1936

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1936, catalogo della mostra (Londra, 1936). [London?, s.n.], 1936

 

London 1937

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1937, catalogo della mostra (Londra, 1937). [London?, s.n.], 1937

 

London 1938

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1938, catalogo della mostra (Londra, 1938). [London?, s.n.], 1938

 

London 1939

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1939, catalogo della mostra (Londra, 1939). [London?, s.n.], 1939

 

Luci ed Ombre 1923

Luci ed Ombre. Raccolta annuale di fotografie artistiche italiane. Torino:  Edizioni d’arte E. Celanza, 1923

 

Luci ed Ombre 1923-1934

Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana. Torino:  Il Corriere Fotografico, 1923-1934

 

Luzern 1932

I  Internationale Ausstellung für Künstlerische Photographie, catalogo della mostra (Lucerna, 1932). Luzern: C. J. Bucher, 1932

 

Maggini 1934

Renzo Maggini, II Mostra di strumenti ottici ed Esposizione Nazionale di Fotografia,  “Galleria”, 2 (1934),  n. 6, giugno, pp. 18-19

 

Meano 1930

Cesare  Meano, Commento, in Luci ed Ombre 1930, pp. XIII-XV

 

Melbourne 1931

Catalogue of an Exhibition of International Camera Pictures, catalogo della mostra (Melbourne, 1931). [Melbourne?, s.n.], 1931

 

Milano 1931

Catalogo Mostra Fotografica Internazionale: 12. Fiera di Milano, catalogo della mostra (Milano, 1931). Milano: Azimonti, 1931

 

Milano 1936

Guida alla Mostra di Fotografia d’Arte, catalogo della mostra (Milano,1936). [Milano?, s.n.], 1936

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopelfulmonster, 2001

 

Modern Photography 1931

Modern Photography: The Studio Annual.  London: The Studio, 1931

 

Mollino 1950

Carlo Mollino, Introduzione al discesismo: tecnica e stili, agonismo, discesa e slalom, storia, didattica, equipaggiamento. Roma: Casa Ed. Mediterranea, 1950

 

Moncalvo 1976

La fotografia di Riccardo Moncalvo. Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1976

 

Mondo Fotografico 1929

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 5, maggio, pp. 342, 243 tratto da “Natura”, 2 (1929),  n. 5, maggio

 

Mondo Fotografico 1930a

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 9, settembre, pp. 649-650

 

Mondo Fotografico  1930b

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 11, novembre, pp. 797-798

 

Mondo Fotografico 1932a

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 6, giugno, pp. 326-328

 

Mondo Fotografico 1932b

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 8, agosto, pp. 439-450

 

Mondo Fotografico 1932c

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 12, dicembre, pp. 661-662

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri 1933-1981. Milano: Electa, 1981

 

Monte  Carlo 1937

Premier Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Monte Carlo, 1937).

Monte Carlo: Imprimerie Monegasque, 1937

 

Monza 1927  

L’arte della fotografia alla Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza 1927. Milano: Edizione A. Rizzoli, 1927

 

Mostra Annuale 1933

  1. Y., La XXI Mostra annuale della Società Fotografica Subalpina, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 5, maggio, p. 256

Mulhouse 1938

Catalogue des oeuvres exposées au Salon International d’Art Photographique organisé par le Photo-Club “Amical” – Mulhouse avec la collaboration du “Photo-Club de Mulhouse” a l’occasion de la 37. Session de l’Union National des Sociétés Photographiques de France, catalogo della mostra (Mulhouse, 1938). Mulhouse:  J. Iltegen, 1938

 

München 1939

Internationale Fotografisćhe Ausstellung (IFA) und Bundesausstellung des Reichsbundes Deutscher Amateur-Fotografen (RDAF), catalogo della mostra (München, 1939). Berlin:  Ala Anzeigen-Aktiengesellschaft, 1939

 

Notiziario Cai 1939-1941

“Notiziario  CAI”,  10-12 (1939-1941). Torino: CAI, 1939-1941

 

Notizie 1934

Notizie,   “Galleria”, 2 (1934),  n. 4, aprile, p. 13

 

Ottawa 1936

Third Canadian International Salon of Photographic Art, catalogo della mostra (Ottawa, 1936). Ottawa: The National Gallery of Canada, 1936

 

Paesaggi Verticali  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella. Torino:  GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2006

 

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. Fotografia e raccolte fotografiche, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, VIII: 1998, pp.99-128

 

Paris 1928

XXIII  Salon International d’Art Photographique de Paris, Société Française de Photographie. Paris: catalogo della mostra (Parigi, 1928). Paris: Braun & Cie, 1928

 

Paris 1929a

Catalogue des oeuvres exposées au Vingtquatrieme Salon International d’Art Photographique, organisé par la Société Française de Photographie et le Photo-club de Paris, catalogo della mostra (Parigi, 1929). Paris: J. Engelman, 1929

 

Paris 1929b

  1. Salon International d’Art Photographique de Paris, catalogo della mostra (Parigi, 1929). Paris: Braun & Cie , 1929

Paris 1930a

XXV Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi 1930. Paris: J. Engelman, 1930

 

Paris 1930b

XXV Salon International d’Art Photographique de Paris, catalogo della mostra (Parigi 1930. Paris: Braun & Cie1930

 

Paris 1931

XXVI Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1931). Paris: J. Engelman, 1931

 

Paris 1932

XXVII Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1932). Paris: J. Engelman, 1932

 

Paris 1935

  1. Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1935). Paris: J. Engelman

Paris 1937

XXXII Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1937). Paris: J. Engelman, 1937

 

Paris 1938

  1. Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1938). Paris: J. Engelman, 1938

Pavia 1926

  1. P. [Ugo Pavia], Il “Salon” Fotografico di Torino. Gli espositori stranieri, “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre 1932, pp. VII-XVIII

 

Photograms 1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor.London, Iliffe & Sons, 1928

 

Photographie 1930

Photographie, “Arts et métiers Graphiques”, 1930, n. 15 (ristampa in facsimile Neuchâtel, Imprimerie Paul Attinger, 1980)

 

Piemonte 1930

Piemonte,  “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pittsburg 1936

The Foreign Invitational Salon sponsored by the Photographic Society of America, catalogo della mostra (Pittsburgh, 1936). Pittsburg: Photographic  Society of America, 1936

 

Pittsburgh 1937

  1. Annual Pittsburgh Salon of Photographic Art, catalogo della mostra (Pittsburgh, 1937). [S.l., s.n.], 1937

Praj 1950

[Guido?] Praj, a cura di, Luci e Ombre. Torino:  s.n., [1950  ca]

 

Primo Salon Italiano 1925a

Primo Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, catalogo della mostra (Torino 1925-1926. Torino:  Celanza & C., 1925

 

Primo Salon Italiano 1925b

Il Primo Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 3, marzo, p. 33

 

Primo Salon Italiano 1925c

I Salons (sic) d’arte fotografica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 4, aprile, pp. 52-54

 

Ravelli 2001

Il Laboratorio dell’alpinismo. Francesco Ravelli e la fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Giuseppe Garimoldi, Alessandra Ravelli. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2001

 

Ravenna 1939

  1. Mostra Annuale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Ravenna, 1939). Ravenna: Arti Grafiche, 1939

Redazionale 1928

Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

 

Rochester 1931

Third Rochester International Salon of Photography, catalogo della mostra (Rochester, 1931). [Rochester?, s.n.] , 1931

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre 1933 , pp. IX-XVIII

 

San Diego 1931

Catalogue of the First Annual International Salon of Photography, catalogo della mostra (San Diego, 1931). [S.l., s.n.], 1931

 

San Diego 1932

Catalogue of the Second Annual International Salon of Photography, catalogo della mostra (San Diego, 1932). San Diego: Frye & Smith, 1932

 

Sansoni 1932

Gino E. Sansoni, La I Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, in “Aosta”, 4 (1932),  nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia,  “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935), n. 7 luglio, pp. 128-134

 

Scambi Occidente 1949

Mostra Internazionale Scambi Occidente: 10-26 settembre 1946: sezione fotografica, a cura della Società Fotografica Subalpina e del Gruppo Fotografi Fiat, catalogo della mostra (Torino, 1949). Torino:  [s.n.], 1949

 

Schiaparelli 1928

Cesare Schiaparelli, La Fotografia nelle sue varie estrinsecazioni artistiche. Conferenza, “Il Progresso Fotografico”, 25 (1928), n. 9, settembre, pp. 289-298

 

Schiaparelli 1930

Cesare Schiaparelli, Il III° Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Schmithals 1926

Hans Schmithals, Les Alpes. Zürich: Fretz Frères, 1926

 

Sella 1982

Vittorio Sella. Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, 1982), a cura di Claudio Fontana. Torino-Ivrea, Museo Nazionale della Montagna – Priuli & Verlucca Editori, 1982

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983)

 

Sfs 1931

Società Fotografica Subalpina, Esposizione Sociale Annuale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1931). Torino:  La salute, 1931

 

Sfs 1932

Società Fotografica Subalpina, 20. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica indetta dalla Società Fotografica Subalpina, catalogo della mostra (Torino, 1932). [Torino?, s.n.], 1932

 

Sfs 1933

Società Fotografica Subalpina, 21. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1933). [Torino?, s.n.], 1933

 

Sfs 1935

Società Fotografica Subalpina, 23. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1935). Torino: Tipografia Artigianelli, 1935

 

Sfs 1936

Società Fotografica Subalpina, 24. Esposizione Sociale, catalogo della mostra (Torino, 1936). Torino: Tipografia Artigianelli, 1936

 

Ski & Sci 1991

Ski & Sci. Storia mito e tradizione, catalogo della mostra (Torino, 1991), a cura di Aldo Audisio. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 1991

 

Sopron 1936

Katalógusa: Gyüjteményes Kiállításanak, catalogo della mostra (Sopron, 1936). Sopron: Rottig-Romwalter Nyomda, 1936

 

Stelle  2004

Le “stelle” parlano al vostro cuore. La fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Stockholm 1930

Internationell fotografiutställning i Skånska Gruvan å Skansen: Stockholm, catalogo della mostra (Stoccolma, 1930). Stockholm: Nordisk Rotogravyr, 1930

 

Tarchetti 1990

Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli, 1990

 

Terzo Corso 1935

  1. Corso Superiore di Cultura Fotografica: 19 dicembre 1935-XIV/30 maggio 1936-XIV, promosso dalla Società Fotografica Subalpina. [S.l., s.n.], 1935

 Torino 1928a

Il Secondo “Salon” Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 3, marzo, p. 130

 

Torino 1928b

Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1928). Torino:  Tipografia Lorenzo Rattero, 1928

 

Torino 1930

Terzo “Salon” Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1930-1931). [S.l.,s.n]

 

Torino 1933

Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti, catalogo della mostra (Torino, 1933). Torino:  Soc. Ind. Graf. Fedetto e C. , 1933

 

Torino 1937a

Quinto Salone Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti, catalogo della mostra (Torino,) 1937. Torino:  Ajani & Canale, 1937

 

Torino 1937b

VI (sic) Salone Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti.Torino 1937,  “Torino”, 17 (1937), n. 5, maggio, pp. 37-38

 

Torino 1941

I Mostra Intersociale Italiana d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1941). Torino:  Satet, 1941

 

Toronto 1931

Catalogue Scottish paintings, water colours and sculpture, British paintings, water colours …: Canadian National Exhibition Toronto, catalogo della mostra (Toronto, 1931). Toronto: T. H. Best Printing, 1931

 

Trondhjem 1930

  1. Internationale Fotografiutstilling i Norge: Trondelagsutstillingen, hall E, Trondhjem, catalogo della mostra (Trondhjem, 1930). [S.l.]: Trondhjems Kamera Klub, 1930

Turroni 1959

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz Editore, 1959

 

Vender

Federico Vender. Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco – Trento, 2003), a cura di Floriano Menapace, Italo Zannier. Arco – Trento:  Comune di Arco, Provincia Autonoma di Trento, 2003

 

Wilno 1930

Czwarty Miȩdzynarodowy Salon Fotografiki w Polsce, catalogo della mostra (Vilnius, 1930). Wilno, [s.n.], 1930

 

Zagbreb 1937

Katalog 5. Medunarodna Izložba Umjetničke Fotografije, catalogo della mostra (Zagabria, 1937). Zagreb: Tipografija D. D., 1937

 

Zannier 1979

Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zanzi 1927  

Emilio Zanzi, Montagne – La II mostra del fotogruppo alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p. 87, tratto da “La Gazzetta del Popolo”, n. LXXIX, 8 maggio

 

Zanzi 1928

Emilio Zanzi, Fotografi di tutto il mondo a Torino, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928),  n. 10, ottobre, pp. 643-647

 

Zaragoza 1930

  1. Salón Internacional de Fotografía de Zaragoza, catalogo della mostra (Saragozza, 1930). [Zaragoza, s.n.], 1930

 

Genealogie del bianco (2005)

in Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

La realtà è solo materia grezza

per la creazione dell’immagine

che vive autonoma,

esprimendosi tutta in sé stessa,

in estreme sintesi formali.”

Paolo Monti, 1957

 

 

“Ho avuto un attimo di speranza quando, giorni fa, incidevo su una lastra di vetro affumicata – scriveva Paul Klee nel 1905 – Dunque il mezzo non è più la linea nera, bensì quella bianca. (…) Dipingere col bianco corrisponde al modo di dipingere della natura.” E ancora, nel dicembre 1910: “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica.”(Klee 1990, p.181)

Dal confronto con la scrittura della luce, nella rimeditazione dell’antica pratica del cliché-verre (già di Corot e Fontanesi, tra gli altri) il pittore trovava la forza necessaria per avanzare in quella che lui stesso chiamava (in italiano) la  “Terra incognita” di quel nuovo “genere di forma rigorosamente astratto.”

La scoperta del negativo come modo di percezione delle apparenze del mondo, la scoperta delle fotografie come ombre bianche, luminose, consentiva di riconoscere il segno come pura manifestazione di energia, autonoma, slegata da ogni intenzione descrittiva. Il nero del segno rivelato come luce proprio dal processo fotografico, dal meccanismo intrinseco della sua riproducibilità, della sua natura di matrice. In questo eccesso accecante di tenebra risiedeva la possibilità dell’astrazione, dell’allontanamento dalla figura in favore di quella “sensibilità pura” che poi sarà di Malevič: “Il bianco Suprematismo non conosce più il concetto di materia, ancora in auge presso l’uomo medio. Le sue forme sono fenomeni che si ordinano in base a nuovi rapporti emotivi.” (Malevič 1922, p. 203)

Lo “zero delle forme” proprio del credo suprematista sembra trasmettere la propria eco lontana al  processo di mutamento che allora si avviava  nella cultura fotografica, in particolare in quell’ambito che si è soliti definire della fotografia artistica, a partire dagli anni del primo dopoguerra, quelli che vedono un progressivo (e timido, in Italia) allontanamento dagli stilemi pittorialisti in favore di una corrispondente apertura alle suggestioni, se non proprio alle provocazioni moderniste.

Non potendo operare contro la natura referenziale di traccia della fotografia, non potendo rinnegare la sua necessità documentaria, molti autori sembravano dunque volgersi verso qualcosa che potremmo definire uno “zero del significato”,  riducendo il peso narrativo del contenuto referenziale a favore di una crescita dell’autonomia del significante, della forma.

Come puntualmente rilevava Italo Mario Angeloni, uno dei più autorevoli critici militanti dell’universo fotografico italiano tra le due guerre, nelle immagini che iniziano a comparire sulle pagine degli annuari e delle riviste italiane intorno al 1920 “C’è un studiata cura di sopprimere quanto formava il bagaglio inutile della vecchia fotografia aneddotica. (…) è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925, p. 68)

“Sintesi” è la parola chiave, il concetto rivelatore utilizzato pochi anni dopo anche da Marziano Bernardi, autorevole critico d’arte del quotidiano “La Stampa”, che nel suo commento al secondo Salon fotografico tenutosi a Torino nel 1928 riconosceva come nella critica fotografica “Ormai (…) s’usa un linguaggio per nulla diverso da quello pittorico: e si accenna a valori, toni, rapporti, a piani, volumi, cromatismo. (…) Ma v’è di più. Ed è il singolare e significativo uniformarsi della fotografia (specie la fotografia dei giovani) a quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta.”[1]  Cosa poi s’intendesse quale perfetta “realizzazione sintetista” ci è svelato da un testo di poco successivo, ancora di Angeloni, in cui l’immagine di un paesaggio invernale veniva restituita come “esigua ed infinita parola di bianco e di ombre che ti conduce verso il raccoglimento del sogno.” (Angeloni 1926, p.  243).

Accanto alla “sintesi”: il sogno.

Che è un altro modo per dire sentimento e – sovente – sentimentalismo, in una contraddizione apparente ma forse solo nostra, allora superata dalla comune possibilità di trasformare “la realtà in visione idealizzata”, scegliendo di comporre immagini fortemente  antiprospettiche, prive d’orizzonte e punti di fuga, in palese contrapposizione coi presupposti stessi della tradizionale visione ottica occidentale; allo scopo di ridurre il peso della referenzialità in favore del   riconoscimento del loro puro valore di immagine.

In questo contesto si può comprendere come la scelta del soggetto giocasse un ruolo importante, determinante, inducendo al confronto con porzioni di mondo che consentissero di misurare le proprie capacità espressive.

Ne sono prova le sollecitazioni che spingevano a considerare “il contributo della microfotografia alle arti decorative”, in cui si lasciava intravvedere la possibilità per “gli artigiani di tutte le specialità [di] trovare nel materiale messo a loro disposizione (…) quantità di nuove ispirazioni.” (Il contributo, 1929) o le analoghe riflessioni ospitate sulla rivista “Natura”, che nel 1929 pubblicava un importante articolo dedicato alla Fotografia moderna, poi pubblicato “se pure con certe riserve” anche sulle pagine del “Corriere Fotografico”. (Boggeri 1929a, 1929b)

È oggi sufficiente uno sguardo d’insieme, sintetico e quantitativo alla produzione di quegli anni per constatare, per comprendere quale fosse il soggetto privilegiato di queste prove, di queste un poco ingenue sperimentazioni che non saprei definire altro che discorsive, se non proprio linguistiche: gli autori dell’allora “giovane fotografia” guardavano al bianco del mondo alpino (anche in virtù di un diffuso intreccio di passioni) per  raccogliere la sfida di un confronto che nasceva dal bisogno, se non dalla volontà di far coincidere materia e colore, di ridurre ogni distanza tra forma e contenuto, sino alla rivelazione fascinosa del segno di puro valore espressivo, sebbene  – qui, sempre – velato da uno sguardo ancora crepuscolare.

Vengono alla mente le ben altrimenti consapevoli riflessioni di Alfred Stieglitz, la sua necessità ad un certo punto del proprio percorso di dare forma al progetto che si sarebbe tradotto in Music: a sequence of ten cloud photographs n.8, del 1922: “Volevo fotografare le nubi per scoprire cosa avevo imparato di fotografia in quarant’anni. Attraverso le nubi mettere per iscritto la mia filosofia della vita – mostrare che le mie fotografie non erano dovute alla qualità del soggetto  – le nubi erano a disposizione di chiunque, liberamente – nessuna tassa da pagare finora. (…) Il mio scopo è di fare fotografie che sembrino tali sempre più, al punto che non saranno viste, a meno che uno abbia occhi e guardi – e pure nessuno che le abbia viste una volta, le dimenticherà mai. Spero che questo sia chiaro.” (Stieglitz 1923)

Sarebbe ingenuo, di più, antistorico attendersi la stessa consapevolezza negli autori italiani dei primi decenni del Novecento, lo stesso livello di riflessione critica in una realtà come la nostra in cui lo spazio della ricerca era limitato e ridotto alle pratiche amatoriali, in cui la fotografia era  “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è – nelle parole di Guido Rey – il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini.” (Rey 1925, p.  6)

Entro questi limiti ben definiti, anche se non netti, è comunque possibile seguire le tracce di più percorsi, a volte nettamente individuati, individuali, altre talmente sovrapposti da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che è collettivo, che elabora infinite variazioni sul tema, che si muove incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica. Un autore che si dedica alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  possa funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosce l’estraneità al genere del “paesaggio.”

Quello spazio bianco su cui condurre le prove, non era una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di  più: soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza nello scenario alpino, luogo di antiche frequentazioni e passioni condivise per quelle generazioni. Un intreccio tra alpinismo e fotografia che legava le due pratiche sin quasi dalle origini, aperto da sempre alle suggestioni fantastiche.

Lo sguardo che scopriva le montagne aveva trovato le proprie origini in quel romantico sentire cresciuto dalle radici intrecciate del sublime settecentesco e  del nuovo riconoscimento tutto positivo della fattualità degli elementi naturali (le rocce, le nuvole, i ghiacci), in una oscillazione feconda e mai risolta tra fascino del pittoresco ed analiticità documentaria, quasi cartografica; quella stessa che incantava John Ruskin e buona parte poi della cultura ottocentesca; quella che spingeva i più grandi autori a misurarsi con l’impervio compito – quasi insormontabile – della fotografia di montagna, non solo delle montagne, ancora sulla soglia dell’età del collodio, subito dopo il 1850. Non per caso il lavoro  che destò maggior sensazione all’Esposizione universale di Parigi del 1855 era stato la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco, lunghezza totale due metri, realizzata  da Friedrich von Martens, con la “riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”. Il pubblico dei visitatori era stato attratto anche dalle vedute dell’Oberland bernese  realizzate dai Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero, che alcuni anni dopo, intorno al 1860,  saliranno – anzi sarà solo il “giovane” Auguste-Rosalie a farlo –  sul  Monte Bianco per realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origini, poi raccolte in due album di Souvenir, uno dei quali, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato « A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie ». (Infinitamente, 2004)

Già l’interesse di Bisson comportava esplicite preoccupazioni estetiche, come testimonia il coinvolgimento del pittore Gabriel Loppé  nella nuova spedizione del 1861,  e come mostrano le affascinanti immagini dedicate ai ghiacciai. Esse costituiscono l’adattamento fotografico di  un’ostinata variazione sul tema che si svilupperà mutando ogni volta il punto di vista, scegliendo le distanze più adatte al racconto:  dalla maestà geografica della veduta quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione. Marionette in uno scenario di fiaba che ha perso per strada ogni semplice intenzione descrittiva. Il soggetto era certo dei più affascinanti, e dei più redditizi anche, come dimostra il suo ricorrere nei cataloghi di numerosi fotografi ottocenteschi,  confermando – ci pare – la sua aderenza, la sua disponibilità all’immaginario, quella stessa che doveva aver condizionato la ripresa che Giorgio Sommer dedicò a Chamounix, Mer de Glace in una data non meglio precisata (Infinitamente, 2004, pp. 52-53), ma non troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta del XIX secolo,   offrendo un’interpretazione nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discostava nettamente dai modelli prevalenti, e  – forse memore dell’interpretazione di Byron –  quasi immergendo l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamente da quelle onde immense, eternamente bloccate dal gelo ancor prima che dalla fotografia, pietrificate e bianche, da cui sembra emergere il dorso di favolosi cetacei: l’apparizione magica della balena di Giona se non ancora di Pinocchio (1880).

È qui, nel concedersi al fantastico che la fotografia si allontanava, ancora inconsapevolmente, da quella missione documentaria che la cultura ottocentesca le aveva affidato. Non più “ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia”, non più “il segretario e il taccuino di chiunque abbia bisogno di un’assoluta esattezza materiale”, come pretendeva Baudelaire,  ma la scoperta, e la rivendicazione poi, che la fotografia potesse essere strumento e tramite di un dialogo con la natura che doveva andare oltre la pura descrizione: “Il me semble – scriveva Victor Hugo –  que les choses-là sont plus que du paysage. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser (…).”[2]

In questo mutato scenario prendeva forma una possibilità nuova. Da qui iniziava a definirsi lo spazio per il racconto del fotografo, per la fotografia come strumento generatore di immagini e non di semplici (se mai lo sono) documenti. Da qui si avviava la possibilità stessa dell’espressione della soggettività sub specie fotografica, pur continuando consapevolmente ad affidarsi all’ apparente trasparenza documentaria del mezzo, ogni volta mettendo in scena lo spettacolo della verosimiglianza, in costante, fecondo equilibrio tra invenzione narrativa ed insopprimibile analiticità descrittiva.

Lo scopo ambizioso era di ottenere la “documentazione dell’inesistente”[3], conquistando una  coraggiosa equidistanza tra la sublime fotografia alpina che fu di Vittorio Sella e degli altri grandi fotografi del XIX secolo e le più invasive manipolazioni pittorialiste, da cui comunque alcuni dei nuovi autori furono in certa misura tentati.

In questo percorso di rivendicazione un ruolo determinante ebbero, come si è detto,  la scelta del soggetto e delle condizioni di ripresa, la riduzione degli elementi denotativi, l’azzeramento della scena costituito dal bianco su bianco delle masse nevose su cui disporre i segni neri e sintetici di qualche tronco o ramo, di qualche traccia di sci. Qui riconosciamo il progressivo volgersi dell’attenzione dai dettagli del paesaggio al paesaggio di dettaglio; la capacità di vedere e descrivere un universo conchiuso, autonomo. Non una sineddoche:  paesaggi d’invenzione. Reinventati dallo sguardo che li scopre e li mostra, nuovi, per la prima volta; poiché ciò che veniva mostrato non era la trasposizione fotografica del luogo ma la raffigurazione del rapporto che con esso intratteneva l’autore. Una fotografia di fatto “soggettiva”, sebbene ancora lontana dalla consapevolezza critica che al termine sarà data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra (Subjective, 1984).

Il primo passo era stato compiuto dal movimento pittorialista,  in tutte le sue differenti declinazioni. Basti pensare all’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo caratterizzava a  livello internazionale e di cui costituivano indizi rivelatori non solo elementi apparentemente secondari come il trattamento finale, la presentazione dell’opera, ma specialmente la manipolazione delle apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.

Mentre si moltiplicavano le scene arcadiche e crepuscolari, però, guerra e fotografia si alleavano per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo. Non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si ampliava e si ridefiniva la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente” (Leoni 2001, p.  8), ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affiancava, sostituendosi in parte, una visione zenitale e planimetrica, in cui l’immagine fotografica si approssimava all’astrazione cartografica conservando intero il proprio carico di referenzialità[4].

Per questa sola ragione la ripresa aerea ha contribuito a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[5], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. (…) Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.” (Stein 1938, p.  86-87)

Lo statuto di queste fotografie era, ancora una volta, ambiguo e ciò ha determinato conseguenze importanti sul loro impatto estetico[6]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[7], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[8], ma la loro assoluta capacità di restituzione ottico geometrica ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica: l’esito supremo dell’applicazione strategica dell’oggettività fotografica conduceva all’astrazione.

Negando ogni confronto comune e il conforto che nasce dall’esperienza diretta, il terribile Paesaggio di rumori di guerra (per riprendere il bel titolo di un piccolo disegno di Depero, del 1915) di queste immagini si trasformava in figura astratta e imponeva suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico ben oltre gli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.

è appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree di due architetti fotografi come Giuseppe Pagano e Carlo Mollino, o ricordare che Lazlo Moholy-Nagy ricorse alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[9]. Più pertinente alla cultura fotografica italiana  era stata la riflessione che Antonio  Boggeri svolse nel  1929 a proposito del concetto di “fotografia moderna” sulle pagine della rivista milanese “Natura”, lucidamente sviluppata nel Commento all’annuario Luci ed Ombre dello stesso anno. “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove” (Boggeri 1929a) “in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”. (Boggeri 1929b)

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, della “fotografia pura o integrale”, segnava anche il punto di svolta di un percorso collettivo di ricerca[10] sorretto da istanze non sempre chiaramente espresse se non – più spesso –   ingenuamente formulate. Solo la rilevanza del fenomeno, solo la verifica della sua incidenza, della “evidente affinità di tendenze e di metodi” che già Boggeri riconosceva anche a livello internazionale, ci consentono oggi di ritrovare in quelle opere un senso e un valore  che vanno oltre le semplicistiche dichiarazioni di poetica, oltre le coeve letture critiche di tono crepuscolare.

Solo Mario Gabinio non ne fu toccato, ma in ragione della sua sostanziale marginalità rispetto alla rete degli amateur photographers torinesi. Lo scarto radicale e stupefacente che impose al proprio guardare all’avvio degli anni Trenta, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista, ma rielaborando semmai suggestioni del divisionismo[11],  restò sostanzialmente ignorato sebbene molte delle opere pubblicate sulle riviste di quegli anni avessero più di un’analogia con esemplari della sua produzione anche significativamente antecedenti.[12]

I nomi che circolavano erano quelli degli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, vale a dire Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, dal 1923 direttori e proprietari del “Corriere Fotografico” e di un altro piccolo gruppo di autori, prevalentemente provenienti dall’Italia settentrionale, dal Piemonte al Trentino, che determinavano con le loro opere il tono medio della produzione italiana tra le due guerre, segnata dallo scarto drammatico tra cultura “salonistica” e scenario politico e civile, distacco che procederà, pur con ragioni successivamente diverse sin quasi agli anni del secondo dopoguerra.

Sebbene incominciassero ad affacciarsi, già intorno alla metà degli anni Venti, accenni ad un “nuovo mondo” seppur non ancora ad una “nuova visione”, lo stesso linguaggio critico si abbandonava ancora all’esaltazione della “poesia delle soffici luminosità”, del “temperamento raccolto e sognante” di Francesco Agosti come del romanticismo di Peretti Griva, celebrando la “religiosa passione espressiva” delle immagini di Carlo Baravalle, in cui i “segni del travaglio meccanico” erano ormai scomparsi. Il piemontese Angeloni notava che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[13] Questi richiami non dovevano certo dispiacere a quegli autori, specialmente ai torinesi che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino del CAI, nel maggio 1927, e addirittura, nel gennaio dell’anno successivo dell’intera  Prima Mostra d’arte fotografica del Gruppo Piemontese per la fotografia artistica.[14]

Fu questa la più ricca stagione delle mostre e dei Salon torinesi e della notorietà internazionale dei membri del gruppo: Photograms of the Year 1929 (Photograms 1928) aveva pubblicato un’immagine di Bricarelli[15] e Audax di Giulio (t. XXV), che Gian Luigi Brezzo aveva già giudicato “superbo” presentandolo sulle pagine dell’annuario di Luci ed Ombre per il 1929 (Brezzo, 1929 p.  778).

Cesare Giulio,  autore di “abbacinati paesaggi di neve”[16] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, era certo stato tra i primi e più coerenti nell’adottare le formule della nuova fotografia, autore di immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, era confermata anche da certi suoi titoli (Trasparenze, ante 1932) analoghi a quelli di autori a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)[17].

L’appartenenza di queste fotografie al genere del paesaggio, inteso come “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura.” (Bernardi 1927, p.  10) era – come si è detto –  messa in discussione: “non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (ivi, p.  11).

Sono fotografie che danno “pittoricamente l’impressione del silenzio e della solitudine”, che offrono  “null’altro che una fulminea sensazione di velocità”, nella definizione di Marziano Bernardi de La scia di Cesare Giulio, giudicata “efficacissima per la trovata dei due solchi che diagonalmente tagliano il ripido nevaio.” (ivi  p.  17). La stessa immagine, forse la più nota ed emblematica di tutta questa stagione[18], venne pubblicata come “study in space and movement (…) a skier whose trail through the snow describes a beautiful curving line”, nell’annuario del 1931[19] della rivista londinese “The Studio” (tav. 81), una vera summa della fotografia modernista con immagini di Herbert Bayer, Francis Bruguiere, Florence Henri, Germane Krull, Man Ray e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli.

Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata dell’artisticità dell’immagine rappresentavano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo ancora  imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese, esplicitamente richiamata a commento di un’opera di Riccardo Moncalvo presentata in Luci ed Ombre del 1934[20]. L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931 e, ancora, l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck[21], il regista che nel bellissimo libro fotografico dedicato al suo Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, aveva riproposto con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vennero assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”. (Le stelle 2004, p.  127)

A conferma di “quanto potentemente [avessero] influito i modi del cinematografo sulla fotografia moderna”  (Pellice 1932, p.  XIV) basti verificare come le campiture di neve delle piste fossero state trasformate in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili,  più veloci,  portate sino all’estremo limite della scomparsa della figura: restavano solo le nuvole bianche sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (quando la neve è polverosa). Le ombre in movimento, le tracce e le forme che modulano il bianco erano quelle che ritroviamo in molta fotografia modernista, al limite della citazione, quasi del plagio.

Gli esempi sono numerosissimi[22], in particolare nella produzione di Giuseppe Ghedina (Cortina d’Ampezzo) e dei Fratelli Pedrotti (Trento e Bolzano), attivi anche nel campo del cinema di montagna sin dal 1932 quando Aldo filmò la Prima ascensione direttissima della Paganella. Già Floriano Menapace (2001 p.  53) aveva indicato come  “la vera fonte estetica dei Pedrotti fossero il cinema  e i ritratti fotografici degli attori”, con riferimenti espliciti a Fanck e Luis Trenker, mentre meno convincente appare  il richiamo alle influenze  futuriste (ma di un futurismo ormai semplice “cultura della modernità”) “dopo aver conosciuto Depero e il suo impegno entusiasta per l’avanguardia” di cui ha parlato Giovanni Lista (2001 p.  193), riconoscendo nei “solchi lasciati dagli sci e dalle slitte sui campi di neve, la volontà di una resa astratta capace di trascendere il riferimento ai dati della realtà esteriore e (…) una connotazione calligrafica che traduce i temi formali tipicamente futuristi dei tracciati d’energia e delle linee in movimento continuo.” (ivi  p.  202) Lettura affascinante, ma non convincente. Si potrebbe forse suggerire un percorso diverso, ricordando ad esempio come Enrico Pedrotti, di formazione tardo pittorialista, avesse pubblicato su “Galleria” nel 1934, in un numero in cui comparivano  anche immagini di Erich Angenend, autore vicino alle poetiche della Nuova Oggettività e per lungo tempo punto di riferimento di molta fotografia italiana.[23]

Quando, allo scadere del regime fascista, nel 1943 venne pubblicata Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia per la cura di Ermanno F. Scopinich in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, lo scenario appariva ormai in profonda trasformazione e  Peretti Griva, storico autore di “paesaggi trascendentali” caparbiamente pittorialisti, stampati al bromolio trasferto,  era il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Risultava assente anche un autore internazionalmente noto come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto, eredità diretta delle prove dei decenni tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[24] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53)

Il Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti si presentava – nella lettura di Zannier (1981 p.  14) come  “una bianca superficie, interrotta soltanto da due esili segni verticali (due pioppelle), che scandiscono lo spazio dell’immagine, di una estrema purezza grafica, inconsueta allora”, sebbene fosse una prova di tono piuttosto narrativo, lontana dalle tensioni astratte presenti nelle opere dei migliori autori del decennio precedente.  Fotografia uscì a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresentò un ulteriore tentativo, non compiutamente risolto, di far procedere il dibattito che avrebbe dovuto consacrare la svolta modernista, timidamente avviato dopo il 1923 dal “Corriere Fotografico”, poi proseguito e affinato sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Gio Ponti,  Edoardo Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi.

Federico Vender, presente con quattro immagini, era in quegli anni uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano e internazionale almeno dal 1934. Il suo sguardo orientato alla trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, era caratterizzato dal ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui, come in Giuseppe Cavalli, liberato ormai dalla necessità del soggetto e caricato consapevolmente di senso e intenzione, esito della “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[25]. Era dalla considerazione critica di questa sequenza di opere e autori che sarebbe derivata, ormai alla soglia degli anni Sessanta, la possibilità di riconoscere “la costante più vera della nostra fotografia, pur in mezzo a tante contraddizioni e ripieghi: la verità della forma.” (Turroni 1959, p.  17)

La condizione nuova in cui viveva il paese, uscito da poco più di un decennio dalla guerra civile, il punto di vista collocato in una fase di profondi cambiamenti non potevano però non portare, contestualmente, a formulare un severo  giudizio etico: “Nell’immediato dopoguerra la stabilizzazione conformista non accenna minimamente a frangersi in vista di uno sbocco libero, di una finalità narrativa. (…) Questo voluto narcisismo era necessario ai fini di un ulteriore approfondimento del linguaggio? No. Si trattava in sostanza di indifferenza, di pigrizia morale” (ivi, p.  24) giustificabile solo pensando al lungo “periodo di rassegnazione” trascorso.

Erano anni in cui il confronto ideologico all’interno della più viva scena fotografica italiana, incerta tra eredità fotoamatoriale e nuove spinte all’impegno professionale, si manifestava anche attraverso la costituzione di numerosi circoli fotografici militanti: dopo una gestazione quinquennale (e una guerra di mezzo) nel 1947 venne pubblicato su uno dei primi numeri della rivista “Ferrania” il manifesto di palese derivazione crociana de La Bussola, fondata da Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Mario Finazzi, cui si aggiunsero Ferruccio Leiss, Luigi Veronesi ed altri in seguito, mentre sul finire dello stesso anno si costituì La Gondola, per iniziativa di Paolo Monti. Ancora per iniziativa di Cavalli veniva fondata nel 1953 l’Associazione Fotografica MISA,  emanazione ‘giovanile’ de La Bussola, che nella sua prima mostra,  a Roma nel 1954, presentò opere di Piergiorgio Branzi, Mario Giacomelli, Francesco Giovannini, Giuseppe Möder ed altri, affiancati da autori più ‘anziani’ come Cavalli e Vincenzo Balocchi.

Di poco successiva fu l’istituzione del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, costituito nel 1955 a Spilimbergo da Italo Zannier, Fulvio Roiter, Gianni Borghesan, Toni Del Tin, Carlo Bevilacqua, Aldo Beltrame (poi anche Gianni Berengo Gardin), gruppo che si professava di stretta osservanza neorealista, sebbene nella sua produzione si riconoscessero influenze diverse, che avrebbero portato Franco Russoli a parlare per loro di “realismo lirico”[26], individuando la presenza di elementi che implicavano un richiamo alla fotografia soggettiva, quindi ad ambiti di ricerca prossimi ad un autore apparentemente lontano come Paolo Monti.

Per ben vent’anni, luogo privilegiato di confronto e di scambio, di divulgazione consapevole della nuova cultura fotografica italiana fu la rivista “Ferrania”, fondata in quello stesso 1947 che si rivela essere stato un anno chiave per la nuova fotografia nostrana, quale strumento promozionale della più importante industria italiana di prodotti fotografici. Nelle parole di Italo Zannier, che nel 1956 vi pubblicava il suo primo saggio, dedicato ad una lettura neorealista di Giacomelli in contrapposizione all’idealismo del maestro Cavalli, la rivista era “una cronaca colta, che offriva il più attendibile panorama di una cultura visiva nel  passaggio dal residuo pittorialismo al modernismo (…) sino allo sperimentalismo (…) e inoltre il neorealismo sociologico (…) magari privilegiando quello più dolce e lirico dei veneziani Roiter, Del Tin, Bonzuan.” (Zannier 2004, p. 114).

Le opere pubblicate sulle sue pagine ci consentono di ricostruire le intricate vicende di una stagione conflittuale, segnata dalla contrapposizione “tra fotografia d’«arte» e fotografia «vera»”, tra le diverse declinazioni del realismo e la fedeltà “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[27]

Questa doppia posizione si traduceva visivamente nel radicale contrasto tonale tra l’ high key, proprio dei formalisti dichiarati, sovente ridotto a formula stilistica progressivamente esangue, assunto quale elemento significante dell’idealismo artistico, e le “ricorrenze tonali di un nero profondo” (Camisa 1958, p.  105) che contraddistinguevano la nuova fotografia impegnata nel dialogo col vero, per quanto trasfigurato.

Chi in quegli anni si assumeva il compito di riflettere sulle tendenze della fotografia italiana,  ancora una volta non poteva fare a meno di utilizzare un lessico, di richiamare definizioni critiche derivate dal più vasto mondo della cultura artistica, ora consapevolmente accolte.

“Esistono dei termini, delle ‘definizioni’ della forma espressione, validi indipendentemente dalla loro derivazione pittorica – affermava Alfredo Camisa – Anche se non perfettamente propri, alcuni di essi aderiscono al nostro pensiero: e non sta a noi crearne di nuovi. Espressionismo è uno di questi termini. Espressionismo indica rivolta contro ogni residuo naturalistico, espressione di qualche cosa che è dentro di noi: non la traduzione di un brano di natura (…) ma la visione interna fuori da ogni relazione (…) fondata su uno stato d’animo. La forma può apparire sconvolta, lacerata…” (Camisa 1958, p.  106)

La difficoltà di procedere oltre, di giungere a distinzioni nette tra le diverse tendenze e atteggiamenti emergeva però immediatamente: “la definizione stessa che ne abbiamo tentato – riconosceva Camisa –  indica comunque come il ‘passaggio’ dall’espressionismo ad altre forme espressive sia difficilmente individuabile: non sarebbe ad esempio concepibile una fotografia realista ed ambientale che fosse solamente tale e non espressionista”, tracciando così un percorso  che da Monti e Giacomelli si ampliava sino a toccare Berengo Gardin, Branzi, Möder, Zannier e lo stesso Camisa. Questa prima distinzione non era però ancora sufficiente a descrivere l’intero arco della produzione postbellica, cui andava aggiunta la “fotografia lirica-realista, in pieno splendore nel decennio 1945-1955”.  Nella sua “delicatezza di toni, nella ricercatezza e nella compiutezza formale” era facile riconoscere “la derivazione da quella tendenza lirica pura dei nostri maggiori maestri dell’anteguerra. (…)  Una tendenza di grandi orizzonti, di semplice comprensione e di facile presa, anche se , spesso, al limite del manierismo e di un puro compiacimento formale”, in cui venivano fatte rientrare le opere di Bevilacqua, Giovannini, Roiter “ed alcune immagini di Bonzuan.” (Camisa 1958, p.  107)

Riconosciamo qui quella difficoltà o incertezza interpretativa, quella stessa impossibilità feconda di applicare troppo rigide classificazioni che ritroviamo in un’altra lettura delle opere di Mario Giacomelli, i cui paesaggi erano giudicati  “espressionisti eppure placati in una pura scansione ritmica (…) di un significato lirico ispirato.” (Turroni 1959, p.  65)

Dal luglio 1957 aveva fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Piero Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum ed un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali.” (Colombo 1958)

Il notevole spettro di interessi e l’apertura di un redattore come Donzelli erano testimoniati dalla pubblicazione degli Esperimenti di fotografia astratta di Franco Grignani, presentati da Gillo Dorfles (settembre 1958) come delle formalizzazioni di Edward Weston (1886-1957), cui venne reso omaggio a poca distanza dalla morte, mentre su quelle pagine Zannier proponeva i suoi “aforismi e fotografie” di architettura, dimostrando un’attenzione per la cultura visiva statunitense, da Ezra Stoller a Minor White, che andava ben oltre l’impegno realista del suo Gruppo Friulano.

Quando, nell’ottobre del 1959 alla Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni si tenne l’ennesima “Prima Rassegna della Fotografia Italiana”, offrendo un panorama estremamente articolato e ricco di oltre cinquecento fotografie dei  migliori autori, il compito non tanto di recensire l’evento quanto “di trarne un insegnamento” venne affidato ancora a Camisa, ma il bilancio che ne fece non fu certo positivo.

Era ancora ben presente infatti l’anacronistico permanere e prevalere del dilettantismo, quello stesso stigmatizzato da Turroni, qui più precisamente individuato e definito nella “mancanza di consapevolezza critica nell’impiego del mezzo fotografico e [nella] conoscenza delle funzioni del [suo] linguaggio.” (Camisa 1959, p.  76).

“Fra i dilettanti presenti a Sesto (…) mostrano particolari lacune (…) Giacomelli e Gardin [presente con Il trenino della Val Gardena], che pure sono fra i migliori dilettanti nostri; entrambi, e in particolare il secondo, difettano per la disparità delle immagini selezionate e dello stile. Per un difetto, cioè, tipico del dilettantesimo fotografico…” (ivi, p.  77)

Era il punto di snodo. L’avvio di una nuova stagione della fotografia italiana.

Note

 

[1] Bernardi 1928, pp.  641- 642. Lo stesso concetto sarà ripreso ancora alcuni anni più tardi in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro “Concetti per fotografi moderni” Mario Bellavista invitava infatti a “fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.” (Bellavista 1934, p.  10)

[2] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Sorbé 1993 , p.  69.

[3] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo nel 1922 al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. Non esistono per ora elementi certi che consentano di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, su cui cfr.il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”. Anche Gio Ponti, nel suo  Discorso sull’arte fotografica, 1932, riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.  (Ponti 1932, pp. 285-286).

[4] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche, il periodico “La Fotografia Artistica” riprendeva – 12 (1915, n. 2,  febbraio, pp.  25-26; marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 3 (1913), in cui si descrivevano le diverse applicazioni senza però fare alcun cenno alla guerra incombente.

[5] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri 1978, p.  11-12.

[6] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cit. in Zandonati 2000, p.  16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[7] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, p.  42.

[8] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicate per cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1992.

[9] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.  126.

[10] “Sulle riviste di quegli anni l’idillio regna sovrano. Colpisce un amore uguale in tutti, quello di una determinata espressione formale. A occhi non smaliziati, non «iniziati», le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.” (Turroni 1959, p.  36)

[11] Tronchi in controluce, del 1936 riprende temi e problemi di rappresentazione affrontati alcuni decenni prima da  Vittore Grubicy de Dragon.

[12] Mi riferisco ad esempio al suo Paesaggio invernale, 1915-1920, che presenta molte analogie con le Fantasie di ghiaccio di Piero Oneglio pubblicata sul “Corriere Fotografico” nel dicembre del 1924. Il motivo delle ombre di tronchi sulla neve ritorna anche in un’immagine di Stefano Bricarelli per  “Motor Italia”, 11 (1932) marzo, p.  45 a corredo dell’articolo L’Eden degli sciatori nelle nostre Alpi, ma anche in Photograms of the Year, 1940 (tav. LI),  in una fotografia dell’americano Gustav Anderson.

[13] Angeloni 1926, p.  242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini.” (Bernardi 1927, p.  10)

[14] Oltre a Maggi, soggetto anche di un ritratto di Ottaviano Ecclesia, i curatori della mostra, aperta il 21 gennaio 1928 al Circolo della Stampa di Torino,  erano, i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”). Oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe. In occasione dell’esposizione del Fotogruppo Alpino nel maggio 1927, nella sala del Gruppo Piemontese erano presenti opere di Agosti, Baravalle, Bologna, Bricarelli, Placido Eydallin, Giulio, Oneglio, Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Hess e Reviglio.

[15] Gondole, t. X. Lo stesso Bricarelli aveva redatto un breve profilo della fotografia italiana per Photograms of the Year del 1923 che conteneva ben cinque opere di autori italiani.

[16] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[17] Il richiamo alle forme musicali, oltre all’esempio di Stieglitz, verosimilmente ignoto in Italia, era esplicitamente avanzato da numerosi autori: “Io sono solito ad associare una visione fotografica a una sensazione musicale, la quale, a guisa di pietra di paragone, può darsi mi dia una norma per stabilire l’intensità dell’emozione avuta.” (Peretti Griva 1934, p.  17)

[18] Come conferma uno degli album conservati presso l’Archivio Fotografico del Museo Nazionale della Montagna di Torino, questa immagine notissima costituiva l’esito del taglio in stampa di una più ampia ripresa (n.3795).

[19]Le due più importanti riviste italiane di architettura dedicarono recensioni a questo annuario, pur con valutazioni profondamente diverse: per il redattore di “Domus” si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931),  n.47, p.67 –  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume costituiva l’occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.”, 4 (1931),  n.47, novembre, p.54. Nel marzo dello  stesso anno si apriva a Torino la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, a breve distanza dalla redazione del manifesto La fotografia futurista, di Marinetti e Tato, pubblicato nell’aprile del 1930 in occasione del Primo Concorso Fotografico Nazionale di Roma. All’edizione torinese, ricca di ben 170 opere di 22 autori diversi ma poco più che segnalata da due brevi note di cronaca cittadina comparse sui quotidiani locali, non partecipò nessuno dei fotografi vicini al Gruppo Piemontese, ma fu certamente visitata da alcuni di essi: Carlo Matis, ad esempio, possedeva una copia del catalogo.

[20] “Riccardo Moncalvo disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette”, scriveva Angeloni a proposito di Inverno presentando l’annuario di quell’anno (Angeloni 1934, p.  591)

[21] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.   116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione fu stata la Germania, efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Giger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, p. 100 passim.

[22] Penso in particolare a certe immagini del torinese Alberto Rossi, di cui Mollino pubblicò un Ritratto di Marlene Dietrich (1949, p.  295) o alle opere di Ettore Santi, di Clavières, datate 1930, perfettamente assimilabili alle foto di scena di Fank.

[23] I rimandi non dovevano però essere a senso unico: si confronti ad esempio  Levico: lago gelato, 1956 (Menapace 1981, p. 121) dei Pedrotti con Gelo astratto, di Angenend,  “Ferrania”,  13 (1959),  n.1, gennaio, p.4.

[24] Immagini dei Fratelli Pedrotti vennero pubblicate anche da Carlo Mollino (1949, p. 365) insieme a due fotografie di Riccardo Moncalvo (Nella tormenta  e Sotto zero, tavv. 362-363, entrambe del 1937, qui datate 1946).

[25] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

[26] Zannier 1997, p. 11. Alla luce di questa interpretazione è interessante leggere un’immagine come Finestra a Claut, 1953, di Zannier che offre suggestioni ben lontane dal realismo, e che fa venire alla mente le parole di Minor White: “L’elastica linea tra realtà e fotografia è stata tirata inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno lasciato il mondo delle apparenze; perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’obiettivo, la sua autenticità. (…) Mentre vengono fotografate rocce, il soggetto della sequenza non sono le rocce; mentre sembrano apparire simboli, essi sono indicatori di senso. Il significato appare nello spazio tra le immagini, nel sentimento che suscitano nell’osservatore. (…) Le fotografie possono essere lette senza riserve. L’accidentale è stato messo da parte. La trasformazione della materia originale in realtà fotografica è stata intenzionale; la stampa è stata manipolata per influenzare l’affermazione; ed era stato previsto che appena l’oggetto si fosse rivelato, il Sé dell’osservatore si sarebbe manifestato. Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente.”, (Minor White 1991, pp. 10-12).

[27]  Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

 

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