Oggetti, autori, cataloghi (2001)

 

in, Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato 30 novembre 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Archivio Fotografico Toscano, 2001, pp. 37-42

 

 

 

Pensare / Classificare

 

                                                                                                     Che cosa significa la barra di divisione?

                                                                              Che cosa mi si domanda, alla fine? Se penso prima di classificare?

                                                                                    Se classifico prima di pensare? Come classifico ciò che penso?

                                                                                                  Come penso quando voglio classificare?

Georges Perec,  1985

 

 

 

Considero – come molti – un esito particolarmente significativo e un momento importante per la cultura fotografica in Italia la messa a punto da parte dell’ICCD del modello di strutturazione dei dati della scheda di catalogo relativa alle fotografie, e auspico una sua assunzione operativa generalizzata  al fine di porre termine al proliferare di modelli e tracciati a volte di indubbio interesse o valore, e certamente tra loro compatibili o integrabili, ma ormai sostanzialmente superati in termini gestionali  proprio dalla pubblicazione della scheda “F”, poiché ritengo che anche nell’ambito delle politiche di conservazione e tutela del nostro patrimonio culturale è indispensabile, al di là di ogni dirigismo, continuare a riconoscere un ruolo centrale alle istituzioni dello stato affinché risulti concretamente perseguibile l’obiettivo della condivisione diffusa dei dati e delle conoscenze.

Per queste ragioni, e nonostante l’avvenuta pubblicazione della prima parte delle norme possa costituire un limite imposto agli esiti operativi di queste riflessioni, ritengo più che mai importante sottoporre a verifica alcuni dei principi ordinatori sottesi alla loro redazione, per contribuire a meglio definire le modalità di trattamento dei dati che derivano da quella operazione critica standardizzabile che, per la caratteristica assenza di dati testuali, è la catalogazione delle immagini fotografiche, nella convinzione che la messa a punto e la condivisione di alcuni concetti di base abbia fondamentali conseguenze: metodologiche, strategiche e operative.

 

Come è buona norma in ogni progetto catalografico l’obiettivo primo e primario è quello della definizione della natura degli oggetti cui ci si intende applicare, ma poiché nel modello proposto dall’ICCD questa si lega indissolubilmente al  ruolo svolto dall’autore, le considerazioni che seguono tenteranno in particolare di analizzare e discutere le implicazioni di questo nesso, e ciò facendo giungeranno a lambire più spinose questioni intorno alla natura della fotografia e delle fotografie, non ridefinibili in questo contesto, ma certamente rilevanti specialmente quando il nostro riflettere e operare siano orientati alla catalogazione[1].

 

Nell’articolazione strutturale della scheda F il paragrafo og-oggetto è stato destinato a contenere le informazioni che consentono “la precisa e corretta individuazione, sia tipologica che morfologica del bene catalogato”, a partire dalla sua “connotazione funzionale”. Da questa è fatta derivare la necessità di distinguere non solo tra negativi e positivi, ma anche di aggiungere altre classi quali le diapositive (che sono però in tutta evidenza dei positivi) e i cosiddetti unicum, identificati come “immagini fotografiche «uniche», ottenute cioè senza mediazione di «negativi» e che, a loro volta, non possono essere utilizzate come « matrici»” (p.74), definizione estremamente pertinente,  ma certo non immediatamente corrispondente alla dichiarata individuazione del bene in termini di connotazione funzionale: è  chiaro infatti che anche queste tipologie di immagini – se considerate sotto il profilo funzionale – sono sempre (state) utilizzate quali positivi; non solo, questa incertezza definitoria aumenta se consideriamo le esemplificazioni proposte a chiarimento, tra le quali oltre al prevedibile percorso che va dai dagherrotipi alle polaroid (ma che non considera le immagini off camera) ritroviamo altri “prodotti unici (…) come fax o fotocopie”, a proposito dei quali risulta arduo sia sostenere la tesi dell’unicità (poiché in tutta evidenza derivano da matrici, anche se non «negative») sia, e ancor più, quella della natura fotografica, solitamente connessa all’idea di immagine ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.[2]

Le ulteriori indicazioni contenute nel manuale sembrano dapprima condividere e confermare quest’ultima classificazione più rigorosa e restrittiva, concordando con la  definizione etimologica della fotografia come “scrittura effettuata tramite la luce”, pur introducendo limitazioni che aprono impensati orizzonti metafisici nel momento in cui si stabilisce che questa “deve essere effettuata (…) per raggi luminosi …provenienti da oggetti appartenenti al mondo reale” (p.22), ma poco oltre questa formulazione  si amplia per comprendere “Nell’insieme «foto-grafia» (…) tutti quei segni che a seguito dell’azione di un pennello di luce (…) siano stati fissati vuoi nella trasmissione chimico-fisica di un sale d’argento, vuoi in una memoria di massa a seguito della trasmissione   dei pacchetti di elettroni accumulati in una CCD, vuoi, infine, sui supporti più vari a seguito di azioni di trasduzione e ri-oggettivazione dell’immagine virtuale” (p.26)[3].   Questa estensione dell’ambito catalografico a ogni immagine originata in maniera diretta o indiretta dall’utilizzo della radiazione luminosa in una qualsiasi delle fasi di produzione, sino a poter comprendere di fatto gli stessi prodotti di fotocomposizione, fotoincisione e fotolitografici, ha come conseguenza evidente  l’illimitata estensione del campo applicativo, dalla quale origina il rischio di una sostanziale inapplicabilità dello stesso progetto catalografico.

È questa onnicomprensività non tecnologicamente giustificata che porta di fatto e paradossalmente alla scomparsa dell’oggetto,  sommerso in una marea indistinta di prodotti apparentemente analoghi, consimili ma non identici. Questa è – a mio parere – la conseguenza più rilevante e preoccupante, sostanzialmente negativa di una impostazione di fondo che sotto una apparente riconsiderazione dell’orizzonte produttivo cela un atteggiamento ancora fortemente idealistico (forse postidealistico) che rifiuta la possibilità di definire e riconoscere la fotografia nella sua pura materialità per  assumere quale fondamento del proprio impianto concettuale “La scarsa rilevanza attribuita al mezzo e la conseguente accentuazione dell’intenzionalità di una comunicazione significante” (p.16)[4],  poiché  “va da sé che ciò che caratterizza una fotografia in quanto tale è unicamente la sua autorialità, ossia, la sua possibilità di trasmettere – in maniera più o meno diretta, convincente ed immediata – un’opinione, un concetto, un sentimento, un’emozione, una testimonianza dell’essere e dell’esistere che i referenti dell’immagine contestualizzano sotto il profilo storico.” (p.15)[5]

Il peso di queste definizioni tutte orientate verso la sola polarità autoriale non è di poco conto né appare privo di conseguenze,  poiché esse rimettono in discussione, senza fondarla teoricamente, una faticosamente acquisita identità ontologica di questa categoria di immagini, per le quali a partire dal Roland Barthes de La camera chiara “Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: «è stato», o anche: l’Intrattabile”[6], corrispondendo così alla sua natura semantica di indice nella doppia valenza di segno deittico e indiziario, studiata da numerosi autori a partire dalle riflessioni peirciane del 1895.[7] è questo statuto di esistenza ciò che fa si che “nello stesso istante dell’esposizione propriamente detta la foto possa essere considerata come un puro atto-traccia (un «messaggio senza codici»).   è in quel momento, e solo allora, che l’uomo non interviene e non può intervenire senza cambiare il carattere fondamentale della fotografia.” è in quel momento fondante che la fotografia si caratterizza “in quanto tale” proprio per la totale assenza di autorialità.  è qui che si attiva quello che Franco Vaccari aveva proposto di nominare inconscio tecnologico[8], con tutto quanto notoriamente ne consegue in termini di (scarsa) rilevanza del “piglio inventivo e autorevole dell’autore”[9]; è in questo contesto definitorio che si comprende l’immagine tecnica essenzialmente quale realizzazione di un apparato destinato a produrre simboli, apparato di cui i fotografi non sono altro che  “funzionari”  che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[10] e la fotografia è “l’immagine di una magica scena, automaticamente e necessariamente prodotta e distribuita da un apparato programmato nel corso di un gioco determinato dal caso, e i cui simboli rendono l’osservatore disponibile a comportamenti improbabili.”[11]

Se poi orientiamo la nostra attenzione agli oggetti, alle fotografie storiche o a quelle cosiddette documentarie (che certo costituiscono la stragrande maggioranza degli archivi e fondi da sottoporre a catalogazione) allora non dobbiamo dimenticare le riflessioni di Rosalind Krauss che, pur fondate su presupposti diversi ma solo in parte differenti da quelli citati, ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[12]

Invece nemmeno troppo nascostamente l’idea e la definizione di autorialità proposte dalla scheda F implicano la coincidenza tra autore e artista e l’identificazione della fotografia come opera (d’arte), in un tentativo tanto generoso quanto anacronistico di recuperare dignità a questa categoria di oggetti proponendo ancora una volta di assumerli  nell’empireo dei valori estetici tradizionali invece di riconoscerne lo statuto di novità storicamente determinata che porta alla definizione di un nuovo paradigma  per molti versi incommensurabile alle categorie antecedenti, che richiede strumenti analitici, e quindi anche storico critici nuovi, per i quali infine risulta necessaria e centrale la rinuncia a strumenti interpretativi fondati sulla valutazione estetica a favore del riconoscimento teorico e fattuale della categoria di bene culturale (frutto essa stessa di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri)produzione e diffusione tecnologica), inteso quale traccia  di un evento o contesto dotato di valore storico, per il quale si porrà semmai il problema della sua determinazione

 

Ad una prima considerazione della   “fotografia intesa fondamentalmente nella sua accezione di Bene Culturale” (p.7) si sovrappone immediatamente quella di “fotografia come bene storico-artistico” (p.14), derivata dalla  “necessità (…) concordemente avvertita come centrale e prioritaria da parte della Commissione di studio promossa dall’ICCD (…) di esprimere la volontà deontologicamente portante di passare (…) ad una concezione qualificativa” di questa tipologia di immagini per le quali  “come avviene per qualsiasi intervento di restauro (…)  il riconoscimento del valore artistico (…) è infatti a monte di ogni attività specifica di catalogazione, anzi si può dire che, come il restauro, anche la catalogazione – considerata nelle sue implicite valenze di tutela e di valorizzazione – si ponga «essenzialmente come momento metodologico del riconoscimento dell’opera (…) nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica.»” (p. 13)

Risulta qui fondamentale e condivisibile – in termini metodologici – il ricorso alle elaborazioni  prodotte dai teorici del restauro, intorno alle quali, credo, la cultura fotografica più  impegnata sul versante della tutela farebbe bene a riflettere per più ragioni, non ultima quella che in questo ambito più che altrove si è riflettuto (e si riflette tuttora) intorno al  problema fondante del rapporto materia / opera,  ma certo vanno anche adottate maggiori cautele affinché l’operazione sia fruttuosa: nella citazione sopra ricordata ad esempio, il pur rilevante e significativo richiamo brandiano[13], di fatto assunto a sostegno di tutto l’impianto teorico adottato, non può esplicitarsi  in una citazione dalla quale sia stata espunta  un’unica e sola parola  (“d’arte”)  per tentare di ridurne quelle implicazioni idealistiche che si ritenevano ormai ampiamente superate, salvo poi individuare nel  “riconoscimento del valore artistico” il solo fondamento delle attività di valorizzazione e tutela dei beni.

 

 

Il determinismo che nell’impianto della scheda lega intenzione dell’autore e definizione dell’oggetto ha imposto ai redattori  “una adeguata riflessione sull’identità autoriale nel campo specifico della fotografia.” (p.14), dalla quale è stata fatta conseguentemente derivare l’indicazione normativa necessaria alla definizione del corrispondente contenuto descrittivo: ecco allora che nel paragrafo au – definizione culturale “Si indicheranno i dati individuativo-anagrafici relativi ai diversi autori responsabili dell’opera in esame, ossia alle persone o agli enti che hanno contribuito al contenuto creativo o intellettuale dell’opera che si sta catalogando (…). Saranno pertanto riportati in questo paragrafo sia gli autori responsabili della realizzazione dell’opera fotografica, sia gli autori dell’opera presa a modello.” (pp. 92-93)

La derivazione disciplinare e normativa dal trattamento catalografico di stampe e matrici incise è in questo passo evidente[14], ma continua a risultarmi incomprensibile  il nesso logico concettuale che unisce le due proposizioni facendole derivare l’una dall’altra: se mi applico all’opera “che si sta catalogando”, cioè a quella specifica fotografia, a quella materia signata  che ne costituisce l’individualità, il suo “contenuto creativo o intellettuale” (per quanto eventualmente ridotto a pura applicazione tecnica) non può che essere attribuito al responsabile della sua produzione e non a quello del referente fotografato. Né la contraddizione appare sciolta quando si analizzi compiutamente la questione de l’altro autore detto anche l’inventore: si scopre qui una ulteriore distinzione (che non saprei dire altro che gerarchica) tra gli  “autori fotografi (…), anche quando non siano direttamente responsabili dell’opera in esame, ma ne siano soltanto gli «inventori» (quando cioè una loro immagine sia stata presa a modello da altro fotografo)” e  “gli altri artisti, autori «inventori» delle opere riprese nelle fotografie oggetto di catalogazione” (ibidem). Anche qui si pongono almeno due ordini di problemi: in primis la definizione di “opera”, non immediatamente scontata e circoscrivibile a meno di ridurla nuovamente alla sola connotazione “artistica”, ma anche – e specialmente – cosa si intenda per  “prendere a modello”. Ci si vuol riferire a quanto tutta una nobile tradizione trattatistica ha inteso in termini di rimandi canonici a schemi compositivi o iconografici oppure più brutalmente, come pare suggerire il secondo caso, si pensa alla “riproduzione” di una fotografia o più generalmente di “un’opera (pittura, scultura, disegno, monumento, etc.) di altro autore (cosiddetto «inventore»)” (p.102)? Poiché è certo che nella prima accezione nessuno si sognerebbe mai di attribuire valore di coautore all’ideatore originario, nessuno indicherebbe Velásquez come “altro autore” delle Meninas di Joel-Peter Witkin, mentre proprio il nuovo riconoscimento di valore nato dalla “volontà deontologicamente portante  di passare da una definizione stantia e ormai ampiamente superata di fotografia, intesa in chiave esclusivamente servile e documentativa di un altro da sé referenziale, nella maggior parte dei casi già di per sé stesso esteticamente definito” (p.14) avrebbe dovuto impedire il formarsi della concezione stessa di qualsivoglia  “altro autore”  rintracciabile al di fuori della storia di produzione dell’immagine in catalogazione.

Io credo invece che in questa, e solo in questa possano essere rintracciati i differenti artefici dell’opera, vale a dire, nella accezione utilizzata nella “Introduzione”,  “tutti quegli autori e quegli operatori che, al momento dello scatto – o nella fase successiva della tiratura degli esemplari – hanno contribuito, concettualmente, esteticamente e tecnicamente alla realizzazione e alla formalizzazione iconica di una determinata fotografia e alla sua diffusione” (p.15). Questa concordanza si rivela però ancora una volta illusoria e di breve durata poiché le successive indicazioni normative per contro  impongono tassativamente di non riportare nel paragrafo relativo alla definizione culturale, e quindi all’indicazione di responsabilità dell’autore, proprio “i dati relativi a personalità che siano intervenute nel ciclo produttivo (…) dell’immagine fotografica con altre funzioni, responsabili ad esempio (…) della stampa/tiratura, di altri interventi tecnici sull’immagine (ritoccatori, coloritori, etc.) (..) che saranno tutti indicati (…) nello specifico paragrafo pd-produzione e diffusione.” (p.93)

Qui, al di là delle macroscopiche contraddizioni interne, si registra ancora una volta il distacco da una concezione materiale e tecnologica del bene a favore di una interpretazione idealistica che ne privilegia i soli contenuti informativi di ideazione e progettazione, certo determinanti ma insufficienti e inadeguati per fondare e garantire quel processo di conservazione e tutela di cui la catalogazione costituisce presupposto e strumento strategico.

Per queste ragioni avrei preferito che nello strutturare la scheda F si fosse tenuto conto  di un’idea di fotografia, di produzione fotografica per cui quella connotata autorialmente non rappresenta che una delle tante tipologie possibili, tutte, per definizione e per principio riconoscibili quali beni culturali e quindi passibili tutte di essere oggetto di catalogazione, a partire da considerazioni e politiche di intervento che non possono che essere storicamente determinate.

 

 

Note

[1] Tutte le citazioni riportate nel testo col semplice rimando di pagina sono tratte da Strutturazione dei dati delle schede di catalogo. Beni artistici e storici. Scheda F / prima parte. Roma: ICCD, 1999. Poiché considero tale elaborato il prodotto collettivo del gruppo di lavoro che lo ha redatto e sottoscritto, ho ritenuto opportuno non operare distinzioni individuali neppure nei confronti dei due testi introduttivi firmati rispettivamente da Marina Miraglia e da Carlo Giovannella, che non solo fanno parte a pieno titolo del sistema normativo della Scheda F, ma anzi ne costituiscono l’esplicitazione dei presupposti teorici e metodologici.

 

[2] Per un chiarimento delle ragioni che porterebbero a considerare queste immagini come “un unico assimilabile a una dagherrotipia” cfr. p.24. È chiaro che in questo contesto non si affronta né si pone in discussione l’eventuale possibilità di riconoscere lo statuto di bene culturale e quindi di catalogare immagini di questo genere, si avanzano dubbi sulla validità dei presupposti e sulla conseguente congruità del modello.

 

[3] Sottolineatura nostra; come già fu alle origini mi pare che il problema sia ancora quello del fissaggio: può una sequenza numerica considerarsi “fissata” così come la dimensione e la posizione di una molecola di argento o di gomma bicromatata? Nello stesso testo sono comprese altre considerazioni opinabili quali l’impropria assimilazione, e conseguente fungibilità “teorica”, dei concetti di discretizzazione e digitalizzazione, il primo ad esempio considerato senza tener conto di una variabile fondamentale quale è il rapporto di scala, tale per cui un’immagine fotografica, comunemente considerata “continua” si rivela ben presto “discreta” se sottoposta a opportuno ingrandimento: basti qui ricordare Il cielo per Nini, la quinta delle “Verifiche” di Ugo Mulas, e certo risulta altrettanto sorprendente scoprire che la “camera chiara” possa essere annoverata tra i “processi di stampa” (p.25). Ora poiché sarebbe ingeneroso supporre una scarsa conoscenza dei termini del problema si può credere che si sia fatto un ricorso eccessivo all’uso metaforico del linguaggio. è proprio questo che va però evitato nel momento in cui si procede alla messa a punto di criteri e procedure per la catalogazione, che comportano – come è ben noto –  il massimo sforzo di standardizzazione e di uniformazione, di chiarezza quindi.

 

[4] Quelle considerazioni “hanno infatti indotto a prendere in  considerazione nella scheda F tutte le possibili «uscite» tecnologiche della fotografia virtuale, anche se queste non hanno più niente di fotografico sotto il profilo chimico.

Per analogia concettuale è stato giocoforza impegnarsi (…) per individuare quei momenti in cui (…) la fotografia stessa si è avvalsa di altri media per la propria visualizzazione. Intendiamo riferirci in modo particolare a tutte le tecniche fotoincisorie – nella loro accezione di tecniche miste (…) Per questi motivi (…) la scheda F prevede la possibilità di prendere in considerazione anche le fotoincisioni, specie in quei casi in cui l’invenzione fotografica veicolata si impone per il proprio carattere di autorialità.” (p. 17). Poiché io ritengo invece che, almeno in una prospettiva catalografica, il mezzo (la materialità tecnologica dell’oggetto) abbia una sua rilevanza,  la verifica della possibile estensione catalografica alle tecniche che stanno “al bordo dello specchio”  quali le varie modalità di fotoincisione doveva essere condotta con maggiore circospezione, analogamente a quanto andava fatto per la cosiddetta  “fotografia digitale”, lemma che – giusta l’osservazione di W.J.Mitchell citato da Roberto Signorini, Ancora più ambigua. Primi tentativi di riflessione teorica sulla fotografia dall’immagine-traccia all’immagine digitale, in corso di stampa –  ha un valore metaforico piuttosto che descrittivo e referenziale, il cui uso rimanda a  quanto accadeva negli anni immediatamente successivi al 1839 quando per descrivere le prime fotografie si ricorreva come è noto ad una terminologia presa in prestito dalle arti del disegno.

 

[5] Questa definizione sembra rimandare al concetto riegeliano di kunstwollen inteso quale “elemento essenzialmente artistico [che si pone] prima del risultato effettivo”,  Mario Perniola, L’estetica del Novecento. Bologna: Il Mulino, 1997, p.54; per Riegl si veda Sandro Scardocchia, a cura di, Alois Riegl: Teoria e prassi della conservazione dei monumenti.  Bologna:  Accademia Clementina – clueb, 1995. Definita l’autorialità in questi termini resta tra le altre cose irrisolta la questione della sua determinazione: quale è e chi determina lo statuto di questa “possibilità di trasmettere”? Si collocano in questo snodo tra gli altri i problemi posti dalle teorie della ricezione (storicizzazione del valore ma anche cooperazione interpretativa) che pongono la questione dei diversi attori dell’intenzione.

 

[6] Roland Barthes, La camera chiara.  Torino: Einaudi, 1980, p.78.

 

[7] Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: QuattroVenti, 1996, pp. 53 passim, da cui salvo diversa indicazione sono tratte le citazioni successive.

 

[8] Franco Vaccari,Fotografia e inconscio tecnologico. Modena:Punto e virgola, 1979 (nuova ed., Torino, Agorà, 1994).

 

[9] Devoto – Oli, Nuovo Vocabolario illustrato della lingua italiana. Milano: Selezione del Reader’s Digest,1997, ad vocem “autorialità”. Non dimenticherei neppure, a questo proposito, quanto ricordava Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, Id., “La photographie à l’envers” in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T.Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie.  Torino:  Einaudi, 1975, pp.73-75. La stessa problematizzazione del ruolo dell’autore si pone al centro di importanti ricerche contemporanee: si pensi alle opere di Richard Prince.

 

[10] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia.  Torino: Agorà, 1987, p.31.

 

[11] Photograph, in Andreas Müller-Pohle, Benrd Neubauer, eds., Flusser Glossary, “European Photography“ 50 (1992) , vol.13, n.2.

 

[12] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48.

 

[13] Non è questa la sede per affrontare i nodi di una possibile lettura fotografica delle teorie brandiane, ma certo la concezione della materia come “supporto” dell’opera, come “tramite dell’immagine” e come stimolo alla sua epifania offre stimolanti elementi di riflessione.

 

[14] Si veda Serenita Papaldo, a cura di, Strutturazione dei dati delle schede di catalogo e precatalogo. Beni artistici e storici Schede S-MI. Roma: ICCD, 1995. L’assunzione del concetto di “altro autore” pare costituire il retaggio della tradizione catalografica del GFN per la quale, com’è noto, il solo “autore” previsto era quello dell’opera fotografata; cfr. Paola Callegari  et alii, a cura di, La Fototeca Nazionale. Roma: ICCD, 1984.