La coda dell’occhio: Paolo Monti e la fotografia in Italia (2022)

Sommario

 

“Intenzioni fotografiche”   
Percorsi di formazione                                                     

Gli anni de La Gondola                                                                              

Le prime personali         

                                                            

Piccolo mondo antico                                                                 

“Fotografia inutile?”                 

                                                

“Non documento ma invenzione visiva”                            

Muri, Manifesti, Materie                                                          

Fotogrammi e chimigrammi                                                     

“Ritratti/ Artisti”                                                                          

A proposito di pubblicità     

                                                  

“Un certo Monti”                                                                          

Fotografare l’architettura contemporanea                        

La scultura                                                                                       

La pittura                                                                                          

I grandi architetti classici             

                                             

Storie,  luoghi, territori                                                                              

I censimenti emiliani           

                                                     

Note
Fonti archivistiche
Fonti bibliografiche

 

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“Intenzioni fotografiche”

 

Sulle pagine di un suo piccolo quaderno Paolo Monti registrava nel 1948 le proprie Intenzioni fotografiche[1], traendole in parte dall’edizione americana di “Popular Photography”; un chiaro indizio del ricercato, sistematico ampliamento dei suoi orizzonti culturali   e contemporaneamente della possibilità di accedere all’editoria straniera nella Venezia postbellica, quasi certamente per merito dei fratelli  Pambakian[2]. Le prime note riguardavano effetti di mosso e sfocato, cioè problemi espressivi e di linguaggio che molto avrebbe amato e approfondito nei decenni successivi. A  questi primi temi faceva seguito una serie di “soggetti fermi” da fotografarsi “con cavalletto e piccolissimi diaframmi”, tra i quali “vecchie porte e serrature (…) acciottolati (…) cortecce di vecchi alberi (…) grandi massi del Riale,” dei quali studiare il “peso architettonico delle varie forme – Ricordare le foto di Ansel Adams”. Seguivano poi indicazioni varie per la realizzazione di ritratti “con occhi completamente aperti e mossi” e “torsioni violente del viso”, che si direbbero poi non perseguite. E ancora: “gocce d’acqua su un cristallo” di volta in volta orizzontale o verticale e varie combinazioni di “sovraimpressioni” e “fotogrammi ottenuti per proiezione”.  Un elenco che mostra quanto le sue “intenzioni” fossero in quegli anni tanto eterogenee quanto sostanzialmente formali, anche per quanto riguardava  il confronto, importante, con la città di Venezia, da fotografare “a pelo dell’acqua (…) effetto di massa liquida omogenea mossa – con definizione del fondo (San Giorgio – Salute ecc.)”. Intenzioni  che avrebbe dovuto attendere almeno un lustro e un mutamento radicale di prospettiva per essere poste in atto. Almeno in questa preziosa fonte sopravvissuta (ma non possiamo sapere se vi fossero altri documenti analoghi, poi dispersi) non troviamo alcun cenno a una qualche possibile intenzione documentaria o narrativa della fotografia, così come il suo archivio risulta sostanzialmente vuoto di immagini che in un qualche modo – anche marginale – abbiano registrato i segni, gli eventi (o le loro tracce) del Ventennio fascista: quasi una rimozione se non proprio un’epurazione[3]. Del resto le pur ricche note biografiche fornite in più occasioni da Enrico Rizzi[4], che gli fu molto vicino e al quale si deve – con Giancesare Rainaldi – la costituzione dell’Istituto di Fotografia Paolo Monti, non offrono alcun elemento utile in tal senso.  Lo stesso dicasi per gli anni della Seconda Guerra Mondiale, trascorsi sempre in qualità di dirigente presso una società del gruppo Montecatini (nel quale era entrato nel 1936) nello stabilimento di Porto Marghera. Forse non in una raffineria, come si è detto altre volte, poiché il solo impianto di questo genere  era  di proprietà AGIP (già DICSA sino al 1934), ma più verosimilmente nella Società Veneta Fertilizzanti e Prodotti Chimici, ciò che renderebbe più comprensibile il successivo passaggio al ruolo di vice direttore del Consorzio Agrario Provinciale di Venezia nel 1945, proprio nei mesi (aprile, giugno, luglio) dei primi grandi scioperi di quel polo industriale.  Quali che fossero le ragioni di quel repentino distacco, il passaggio a Venezia si rivelò determinante in termini biografici, esistenziali. Il  1948 fu certo un anno per più versi cruciale sia  per la fondazione del circolo fotografico de  La Gondola (che segnava per Monti  il passaggio dal dilettantismo familiare, privato, alla pratica sociale del fotoamatorismo, certificata dalla prima pubblicazione di una sua fotografia su “Ferrania”[5],), sia per l’offerta culturale veneziana che in occasione della  XXIV edizione della Biennale d’Arte proponeva due mostre importanti come la retrospettiva di Picasso, presentata da Renato Guttuso  e quella dedicata alla Collezione Guggenheim, curata da Giulio Carlo Argan, nella quale erano esposte tra le altre  opere di Arshile Gorky, Mark Rothko e Jackson Pollock[6], mentre l’anno precedente a Milano, nella Sala delle Cariatidi,  si era tenuta la mostra Arte astratta e concreta[7], promossa  dagli artisti milanesi del gruppo Altana, che Monti potrebbe aver visto.

L’interesse per la fotografia pare si fosse manifestato per la prima volta in Monti ventenne[8] o ventiduenne (era nato a Novara nel 1908), a Venezia, “durante la notte del Redentore”[9], quando scattò le sue prime fotografie con una vecchia 3A Folding Pocket Kodak del padre Romeo, appassionato amateur. Venezia come destino verrebbe da dire facendo un poco di cattiva letteratura, ma il luogo della formazione fu per certo Milano, dove si laureò in Economia e Commercio all’Università Bocconi nel 1930 e rimase sino al 1934. In quel periodo  avrebbe quindi potuto vedere  la Mostra internazionale della fotografia curata da Antonio Boggeri e Luigi Poli per la V Triennale che si tenne nel maggio dell’anno precedente[10], la prima milanese, in cui accanto a fotografi stranieri provenienti da nove stati europei (Man Ray, Renger Patzsch,  Bayer, Maar e  Krull tra gli altri) esponevano quarantatre italiani tra i quali Balocchi, Bologna, Bertoglio, Leiss,  Peressutti e  Stefani[11].

Può quindi essere considerata  attendibile (pur con un qualche scarto cronologico) la testimonianza dello stesso Monti (1957) che collocava nel febbraio del 1934 la propria scoperta del fascino del formato quadrato e della fotografia modernista, vincendo anzi nel 1935 un premio al concorso indetto dalla società Ferrania, cui partecipò con alcune immagini scattate con una Rolleiflex da poco acquistata[12]. Se così è, devono essere retrodatate le sue prime fotografie note, dedicate proprio a Milano (tav. 003), realizzate ancora con la vecchia folding del padre e fatte sviluppare e stampare da Erberto Ruedi[13] o da G(iuseppe?) Mapelli. Solo l’ambiente veneziano avrebbe  poi offerto possibilità diverse: Silvia Paoli[14] ha ricordato una cartolina inviata a Mina Opizzi, legata a Monti dall’affettuosa amicizia di una vita, nella quale il fotografo scriveva di aver iniziato a stampare “il 31 maggio 1950”, smentendo così quanto avrebbe affermato nel corso di un’intervista concessa ad  Angelo Schwarz[15], nella quale assegnava quell’inizio al 1946, lamentando  anzi che allora “le conseguenze della guerra erano ancora pesanti e solo l’anno successivo furono disponibili materiali fotografici”[16]. In realtà sui portanegativi dei primi anni veneziani  compare più volte l’iscrizione “Foto Record/ San Marco 172 – Venezia / per Dott. Monti”, ciò che dimostra almeno che  la fase di  sviluppo era affidata al negozio dei fratelli Pambakian. Nel ricordo di Manfredo Manfroi “per stampare le centinaia di immagini che andava febbrilmente raccogliendo [Monti] si rivolse dapprima al laboratorio dei fratelli Mattiazzo, ma con risultati non soddisfacenti; la stampa era necessariamente di livello standard e non traduceva i ‘toni’ che Monti desiderava. La fortuita conoscenza dei Pambakian e degli altri di Fotorecord cambiò radicalmente le cose; per le stampe Monti si affidò a Bolognini[17] di cui aveva apprezzato la grande preparazione  e poi anche a Ferruccio Leiss”[18]. Nonostante la stima e l’ammirazione provata per questo “uomo solitario”, la sensibilità espressiva di Monti non poteva però corrispondere con quella di  questo maestro delle gradazioni intermedie: “Sono per natura, e forse per necessità psicologica spinto nella stampa fotografica a forti  contrasti dove il nero ha la sua parte, direi di rabbia. Leiss aveva capito, e quando gli diedi un negativo da stampare , malgrado le mie preghiere, mise tutto nei grigi, una musica di grigi. «Così va bene» mi disse gentilmente consegnandomi sorridendo la stampa. Aveva ragione, naturalmente, ma io non ne tenni conto e continuai con i miei neri, perché quello era il tono del mio vedere Venezia”[19]. Un nero che si poteva ritrovare però anche  in qualche notturno profondo nel libro di Leiss  dedicato alla sua città[20],  che nonostante le dichiarate differenze  doveva aver offerto a Monti non poche suggestioni.  In quella pubblicazione comparivano inoltre  alcuni  dei temi che avremmo ritrovato nella sua produzione: i riflessi dei palazzi sull’acqua,  le ombre portate che dialogano con la materia dei muri, le vere da pozzo[21], senza dimenticare che tra i suoi appunti di lavoro  ritroviamo anche le formule del rivelatore che  Leiss usava per i suoi “toni neri/ puri intensi”[22].  Accanto e più di Leiss sarebbero state però certe fotografie di Daniel Masclet a rivelare a Monti “per la prima volta, la bellezza del nero in una stampa fotografica”[23], poi confermata – anche come segno distintivo di un aggiornamento internazionale del gusto – dalle fotografie pubblicate sulle pagine degli annuari internazionali, specie statunitensi, oltre che da quelle raccolte da Steinert nelle prime due mostre della Subjektive Fotografie.  Alcune delle sue più precoci fotografie erano già caratterizzate da una composizione prospettica palesemente modernista (segno evidente di un aggiornamento non occasionale a quelle date[24], mentre quelle dell’amata Ossola (tav.004), come di altre località italiane, ormai ricavate dal 6×6, risultano molto accuratamente composte secondo le diverse  geometrie consentite e suggerite da quel formato,  ma – per certi versi – di più tradizionale impianto: quasi un ritorno all’ordine. Certo che il ricorso contemporaneo a due apparecchi  diversi sembra contraddire la considerazione retrospettiva di Monti a proposito del fatto che in quegli anni “il tempo della fotografia non [fosse] ancora venuto”[25].  Anche le fotografie riferibili con buona approssimazione a quel periodo sembrano contraddirlo: basti considerare le prime sfocature e Riflessi (tav. 005) o il gioco sottile dei Petali su fotografia (tav. 006),  che risalgono circa agli stessi anni, per comprendere come non ci fosse spazio alcuno per suggestioni tardo pittorialiste, affidandosi semmai alle specificità del mostrare fotograficamente, ciò  che suggerisce più di un legame con quanto andavano facendo  in quegli anni autori come Emmanuel Sougez (Fleurs et ombres chinoises, 1935ca),  Cesare Giulio (Dalia, 1932) e – a Milano – il coetaneo Franco Grignani (Fotogramma, flu [sic] oscillante (fiore), 1932)(tav. 008)[26].  Potremmo anche intendere questi esempi come testimonianza di tangenze occasionali, colte ex post dalla lettura critica, ma l’analogia tra la sfocatura (di ombre) di fiori di Monti (tav. 007),   e l’immagine di Grignani è talmente impressionante e puntuale, pur nella diversità delle tecniche adottate, da poter essere intesa almeno come segno della sua adesione a quel sentire nuovo che si andava appena diffondendo; senza dimenticare poi che proprio le sfocature sarebbero state per lui il tema ricorrente di una vita, assegnandogli addirittura lo statuto di “garanzia di autenticità”[27].  Non che tali fenomeni fossero del tutto assenti in certa produzione precedente:  basti pensare ad Aurora Umbrarum Victrix, 1930, di Stefano Bricarelli, o alla Pioggia d’ombre, 1933, di  Ferruccio Leiss e quindi di Giulio, o ancora  al loro utilizzo più aneddotico, con declinazioni  ‘romantiche’ da parte di Mario Bellavista (Tramonto, 1930)[28]; in ciascuno di quei casi però il riflesso e l’ombra non costituivano che una componente ‘astratta’ della scena e non – come accadeva in Monti – il tema principale della composizione, come mostra bene una fotografia quale Venezia, 1945-1950 (tav. 009 ): una piccola stampa ancora di formato cartolina, quindi realizzata con la folding paterna;  un’immagine molto potente e complessa dove l’ombra portata di un edificio sulla facciata di fronte costituisce la campitura  centrale e l’elemento principale della composizione; una fotografia che pur nella riconoscibilità dei suoi rimandi referenziali si rivela compiutamente astratta.

 

Percorsi di formazione

Il solo testo riferibile a quel periodo oggi conservato nella sua biblioteca personale, supponendo che ci sia giunta integra[29], è il manuale di Walther Heering, Le Rolleiflex: son principe, ses usages, ses avantages (1934), del quale Monti possedeva la seconda edizione, di tre anni successiva; il suo ‘primo’ libro fotografico forse.  Altro non troviamo. Nulla che ci possa orientare meglio nella comprensione di quegli anni formativi almeno sino all’Annuario Domus del 1943, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che è un bel segno di attenzione per la cultura fotografica italiana più contraddittoriamente in cerca di modernità. Considerando l’antologia di immagini lì pubblicate sembrano però poche quelle che avrebbero potuto interessarlo, delle quali  noi crediamo di trovare qualche traccia nelle sue fotografie (tav. 010). E sono Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti per i primi toni alti (tav. 011);  Solitudine di Giuseppe Vannucci Zauli per Donna di Pellestrina (tav. 012), ma soprattutto Casa a Ischia di Giuseppe Pagano[30], forse il richiamo più pertinente e più riconoscibile nelle fotografie delle architetture minori lagunari della fine degli anni Quaranta (tavv. 013, 014) e nella serie dedicata a Procida nei primi anni Settanta (tav. 215). Scelte eterogenee in quanto a poetica e soluzioni narrative, orientate ancora in direzioni diverse e magari divergenti. Sono testimonianze di un percorso di messa a punto dei propri mezzi espressivi che doveva essere particolarmente sensibile alle Considerazioni di Ermanno F. Scopinich[31] che aprivano l’Annuario, nelle quali auspicava che il  fotografo lasciasse “che la fotografia crei, sfrutti tutti i suoi mezzi ottici e chimici nella ricerca di nuove espressioni della forma e del colore”, accompagnate però dalla constatazione amara che “il fotografo italiano [e la sottolineatura era determinante] si dedica malvolentieri alla ricerca tecnica, sente ancora troppo poco la necessità della preparazione in questo campo.” Erano i temi intorno ai quali si dibatteva in quegli anni sotto l’egida dell’estetica crociana. Così  Alex Franchini-Stappo e Giuseppe Vannucci-Zauli in quello stesso 1943 ricordavano che “si tratta di stabilire se esistono  valori estetici in fotografia e quali siano. (…) in ogni vera fotografia deve essere l’illuminazione che parla, che esprime in primo luogo: l’oggetto fotografato un semplice sostegno materiale (scelto con riferimento al tempo) che permette alla luce di concretarsi in forme diverse che saranno la creazione del gusto e della fantasia dell’artista”[32]. La risultante “unità estetica” era data dal convergere di quegli elementi (illuminazione, momento, resa – intesa come “unità di stile”) che “non potrebbero esistere l’uno separato dall’altro, [e che] sono intimamente connessi l’uno con l’altro”.  A questi concetti si rifaceva  anche Il bello fotografico, 1945, firmato dal solo Vannucci Zauli, nel quale si  affrontava la questione del “documentario fotografico”, quello in cui “l’espressione dell’immagine non è legata a questi valori”, chiedendosi poi “se vi può essere il documentario artistico ed in cosa si distingue dal bello fotografico”, per giungere a questa conclusione: “Si dovrà perciò opporre al documentario non la fotografia artistica bensì la ‘fotografia’. Un’immagine potrà considerarsi fotografia (…) quando la tecnica usata, qualunque essa sia, ed il soggetto, si risolvono apprezzabilmente nei tre valori specifici nei quali viene a concentrarsi, se l’opera è riuscita, la sintesi: soggetto (l’artista), oggetto (fotografato), che è l’essenza del’arte. Nella fotografia documentaria invece, se un certo valore artistico vi è, esso non può essere che quello proprio della situazione che documenta”[33].

Come si è detto nella biblioteca di Monti non ci sono  (non c’erano ?) né l’Introduzione per una esteticaOtto fotografi italiani d’oggi, una raccolta che prefigurava gli orientamenti del gruppo fotografico La Bussola e che comprendeva  fotografie di alcuni dei suoi  futuri membri come Balocchi, Cavalli, Vender, Leiss e Mario Finazzi che ne fu il curatore. Ci sono invece le prime (e uniche) tre cartelle della collana “Immagini”, diretta ancora da Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, dedicate rispettivamente a  Giuseppe Cavalli, a Federico Vender e al tema delle Montagne,  con immagini di tono alto di Cesare Giulio, Antonio Piccardi, Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e Finazzi stesso[34]. Quasi un manifesto di quella fotografia chiara, luminosa, in tono alto[35], segnata da una grande attenzione per la geometria della composizione, che sarebbe stata la sigla stilistica dei “bussolanti” e che rispondeva pienamente alla poetica espressa nell’Introduzione per una estetica, per la quale, infine,  “l’oggetto fotografico deve essere un semplice sostegno materiale, un pretesto per creare una forma fotografica”[36], così anticipando le dichiarazioni programmatiche del Manifesto de La Bussola[37]. Erano quelle posizioni, quella  vera e propria genealogia[38] che sembrano perimetrare l’operare di Monti in quegli anni di direzione incerta, tra esercizi formali quasi calligrafici e interpretazioni delle architetture della Laguna, con immagini già in perfetto equilibrio tra geometrizzazioni di solidi volumi e fascinazioni della materia delle superfici che poco avevano in comune con la produzione di Cavalli e Vender. Fu  semmai Ferruccio Leiss a costituire  un riferimento, se non proprio un modello, anche se lo stesso Monti ricordava di aver visto “le sue prime fotografie nel 1948 quando a Venezia stava per nascere il gruppo La Gondola”[39], quindi in un momento seppur di poco successivo[40]  e quasi conclusivo di quella fase ricca di stimoli e suggestioni che furono i primissimi anni del secondo dopoguerra, quando  “dopo un anno di residenza a Milano, tornai a Venezia nel 1945 e incominciai a interessarmi della fotografia”[41].   Nell’interpretazione di Paolo Morello, “a Venezia, tra il 1948 e il 1949, Monti è rimasto a baloccarsi con vedutine da dilettante (…) [ma] è qui che comincia ad organizzare in modo nuovo lo spazio del fotogramma, a ricomporre i segni della città attraverso geometrie del tutto intellettuali.(…) È questa scoperta, all’inizio, della geometria come chiave di una decifrazione allegorica, come traccia visibile di un universo spaesante, a condurlo fuori dalle secche dell’impressionismo amatoriale”[42].

Sono gli anni che portarono alla costituzione del Circolo fotografico La Gondola e alla redazione di quelle  Intenzioni fotografiche che costituivano un primo schema di ricerca, quasi didascalico, fotoamatoriale, già  orientato però verso la  fotografia come specifica modalità espressiva: fotografia sulla fotografia quindi. Non sarà un caso allora che tra i suoi libri fosse presente anche Vision in motion di Lazlo Moholy-Nagy, pubblicato postumo giusto nel 1947[43]; un  libro bellissimo e pieno di suggestioni che dovette essere determinante per la sua formazione e per indirizzare molte delle sue scelte successive, dalla fotografia di architettura ai fotogrammi. Soprattutto direi che per Monti poteva essere importante quanto emergeva da tutto il volume, vale  dire la necessità di dotarsi di un metodo nella conduzione delle proprie ricerche, dalle sperimentazioni con gli sfocati, i mossi, il colore sino alle più tarde campagne documentarie sui centri storici. Le indicazioni dovettero però essere anche più immediate se proprio nelle Intenzioni comparivano spunti di ricerca che rimandavano direttamente al libro di Moholy-Nagy  (“negativo usato come positivo – fotogrammi ottenuti per proiezione”), nel quale era presente anche Billboard, 1941, di Frank Levstik: un manifesto corroso, trasformato in materia, pubblicato a piena pagina[44].

Riferimenti bibliografici e appunti personali di quel periodo rimandano a una ricerca formalista per larga parte contraddetta da altri  lavori coevi, tra fotografia umanista alla francese e neorealismo nostrano; segno evidente di quello che non possiamo non riconoscere come un periodo di (dis)orientamento, aperto a direzioni contrastanti. Ipotizzando che le date siano corrette, nella produzione di quegli anni convivevano infatti  i toni alti  di una fotografia come Controluce n. 13, 1948-1948, (tav. 015), che pare influenzata da Gino Bolognini più che dai formalismi de La Bussola, ai quali potremmo semmai riferire Conchiglia, 1948-1949 (tav. 016)[45], con le atmosfere rarefatte, dove gli “aspetti del reale si mutano quasi in immagini fantastiche”[46] di Ghetto nuovo, 1950 (tav. 017) e di Venezia: lo spazio notturno. Luna Park sul campo di Ghetto novo, 1951 (tav. 018), che richiamano alcune prove di Luigi Comencini o di Giuseppe Vannucci Zauli pubblicate nell’Annuario del 1943[47] e sembrano esemplificare proprio quello che Stappo e Zauli chiamavano il “Momento” (già quasi “decisivo”) ovvero quella “determinata fase del divenire del soggetto trattato [dove] lo Sviluppo nel Tempo  di esso viene considerato in funzione estetica”[48]. Appare invece incommensurabile la distanza con  le rivelazioni di Occhio quadrato, 1941, di Alberto Lattuada (incredibilmente, forse ideologicamente assente dall’antologia del 1943)  che pure usava il formato 6×6.  Troppo lontane, o forse solo incerte le posizioni di  Monti da quelle espresse dal futuro regista, che nella Prefazione chiariva come quello fosse  “il necessario momento di tornare ad esporsi in posizioni indifese, di abbandonare, sia pure per breve tempo, il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile, di rompere il guscio che fa da custodia a un preteso determinato modernismo e rinnovare il flusso d’amore che muove gli uomini verso l’unità” [49].  E ribadiva in chiusura: “Mi domando se sia il caso di ripetere che la fotografia è documento, è l’istantanea rivelazione della vita, è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale”.

Gli anni a cavallo del 1950 furono per  Monti  “l’inevitabile periodo delle domande e degli incerti tentativi”[50], delle oscillazioni del gusto quindi,  se possiamo immaginare che Trasparenze vivesse delle stesse suggestioni di Controluce n. 13 (un titolo tipicamente fotoamatoriale) o che in Livigno (tav. 019) avesse rimeditato le suggestioni offerte da Sul limite dell’ombra di Cesare Giulio  (tav. 020), l’autore a cui era stata dedicata una piccola sezione postuma (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) alla Prima Mostra Internazionale Scambi Occidente che si tenne a Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, dal 10 al 26 settembre 1949, alla quale Monti partecipò a titolo personale proprio con Trasparenze (n. 176) e Inverno ad Anzola  (n. 175), già presentata (n. 141) a giugno alla Prima Mostra Nazionale organizzata dalla FIAF nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[51]. Altri soggetti avevano caratteri più descrittivi, prossimi al modello TCI incarnato in quegli anni  da  un autore prolifico come Bruno Stefani; mi riferisco a Alpe di Siusi, della quale possiamo vedere il foglio di provini (tav. 021), una fotografia che forse non per caso  venne premiata a un concorso ENIT-Ferrania[52]. Al Giuseppe Cavalli di Gioco di grigi, 1948, rimandava esplicitamente (e citava quasi letteralmente) una delle Forme conservate in archivio, mentre altre prove della stessa serie (tav. 022) o Composizione con foglie e conchiglia,  1945-1950 (tav. 023) erano esercizi tonali tutti giocati su di una calligrafica composizione di forme che non rinunciava però a restituire la materia delle cose, delle superfici toccate dalla luce, mettendo in gioco quindi anche un primo conquistato virtuosismo tecnico nello sviluppo e nella stampa dopo la stagione delle collaborazioni (a volte insoddisfacenti) con gli amici fotografi veneziani; prove che sembrano tener conto dei lavori di  Emmanuel Sougez, tra i fondatori di Le Rectangle e poi del Groupe des XV, due dei sodalizi francesi più influenti sullo scenario italiano di quegli anni[53].  Altri riferimenti ancora si possono individuare in fotografie quali Il carrettino (tav. 024) , Giochi sulla neve o Zero gradi, 1951 (tav. 025)[54],  che  si affidavano alla consueta grammatica dei toni alti ma con un trattamento del soggetto e una sintassi che sembrano costituire una riflessione ulteriore sul postpittorialismo modernista di Cesare Giulio. Ma per Monti ( e sorprendentemente per noi) quelle fotografie avevano un significato metaforico: “Credi forse che un mondo più pulito non mi piacerebbe? Le uniche mie fotografie pulite sono quelle di neve e a queste va la mia simpatia”[55], scriveva a Ferruccio Ferroni nel 1954  e poi ancora , pochi mesi dopo:  “Ho poi stampato una lunga serie di negative di foto invernali che giaceva da almeno due anni negli archivi. Viste ora mi piacciono molto, sono ormai decantate e l’occasione dalle quali sono nate è talmente lontana che nessuna delle creazioni di allora è ancora viva, così che il loro valore attuale non può subire influenze personali”[56].

Su di un fronte che diremmo esteticamente opposto si collocavano Le astrazioni involontarie, 1950 ca, (tav. 026)[57] che non si direbbero tanto mediate dal movimento della Subjektive Fotografie quanto legate a suggestioni che provenivano direttamente dalle avanguardie storiche, mentre il titolo richiamava (se non rimandava) a quelle che negli stessi anni erano definite “astrazioni della natura”[58] da un autore come Minor White, che Monti avrebbe potuto considerare con un certo interesse. Immagini particolarmente felici e certo innovative per il panorama nostrano di quegli anni, che guardavano a  Man Ray [59] e –  credo – ancora più esplicitamente a Moholy-Nagy[60], ma che qui interessano ancor più per quel titolo (insistito, adottato più volte) che sembra sottolineare la (ontologica) contraddizione in termini della fotografia cosiddetta ‘astratta[61]’, ma anche  indicare un preciso programma di ricerca, un atteggiamento (fotografico) verso il mondo  se non proprio una poetica, che era quella dell’immagine ricercata e trovata, più di rado costruita in studio, com’era Composizione con metro metallico, 1949[62] (tav. 027), che si provava a coniugare geometria e materia delle superfici: una questione  che diremmo centrale per la ricerca di Monti in quel periodo.

Anche nella serie dedicata a Meme (alias Maria, Mariel, Maris, Muriel, Ingrid, Sonja ma anche Cinderella: un vero e proprio harem immaginario), insomma alla nipote Maria Elvira Cocquio, figlia di Carlo e di Augusta Binotti, sorella di Maria moglie di Monti, avviata quando era ancora bambina (nel 1944), negli anni della guerra, come una speranza, e proseguita sino ai primi anni Sessanta, le suggestioni, le prove, le soluzioni muovevano in direzioni diverse (e non sempre compiutamente controllate[63]), oscillando tra le riprese quasi da album ricordo delle prime prove e l’assunzione di una precisa funzione di modella da parte della ragazza (che compare quindi anche in fotografie non propriamente di ritratto, cfr. Uragano, Almanacco 1956),  specie a partire dai primi anni veneziani del fotografo, quando molti dei ritratti (termine da intendersi qui in una accezione molto ampia)  erano ambientati nella soffitta della casa ai Santi Apostoli (tavv. 028, 029), che fu anche il  luogo privilegiato dell’apparizione  ‘metafisica’ di una Venere in soffitta, 1950 ca, (tav. 031) che va letta in continuità con alcune riprese di Meme. L’insieme delle fotografie della nipote, distribuite lungo quasi un ventennio, “fatte anno per anno dai sei ai ventiquattro anni”[64], presentano una vasta e  variegata gamma di situazioni ed espressioni (tav. 030), ma in quelle del periodo adolescenziale si possono individuare almeno due serie anche psicologicamente distinte, ciascuna segnata da una precisa scelta tonale: nella prima – con ampi spazi concessi a un erotismo forte per quanto trattenuto – le immagini sono solari, chiare quando non addirittura in tono alto, e si presentano esplicitamente come ritratti non immemori del primo Weston pittorialista, mentre le seconde sono scure, inquietanti (ricordano le prove migliori di Maurice Tabard e di André Boiffard, tav. 034), con la figura vista attraverso un vetro deformante, irriconoscibile nella sua identità di persona (tav. 032) I titoli confermano a loro volta questa intenzione onirica e perturbante di ispirazione surrealista richiamando una  2a apparizione in un vetro del ‘700[65], ma anche offrendo un esplicito Omaggio ad E. A. Poe, 1950 (tav.033)[66]. Nessuna di queste suggestioni sarà però presente (o anche solo suggerita) nella prima occasione importante di pubblicazione di alcune immagini della serie, il portfolio sulle pagine di “Camera” dell’ottobre 1956, rispetto al quale in un primo tempo Monti aveva espresso alcune perplessità, poiché avrebbe preferito “essere presentato (…) come avvenne per Roiter con una scelta di fotografie varie dal ritratto al paesaggio, con particolari di natura, alberi ed altro e con qualche scena italiana che lei vide. Il fatto è che ad eccezione dei ritratti di Mariel io non so come lei ha valutato la mia opera di fotografo e questo mi mette in un certo imbarazzo anche per la serie dei ritratti  essendo io sensibilissimo a queste situazioni di incertezza. Non vorrei passare per il fotografo di un solo soggetto o meglio di una sola ragazza!!”[67] La pubblicazione su di una rivista così prestigiosa era “cosa talmente rara ed importante” e la scaletta del numero così interessante che Monti si prese qualche giorno di vacanza nella casa di Anzola d’Ossola, paese d’origine della famiglia, per scrivere l’articolo: “lunedì le spedisco le foto e lo scritto a Lucerna, massimo martedì perché dovrei stampare ancora due piccole foto della ragazza di molti anni fa che sono le prime della serie, quando ero un semplice schiaccia bottoni.”  Le immagini vennero così corredate da un ampio testo dell’autore e da un commento di Romeo Martinez,   che parlava di  “poétique du souvenir”, ricordando come  “le variazioni nel tempo su di un unico soggetto qual è  la serie dei ritratti di Mariel costituiscono un atto fotografico la cui realizzazione testimonia concetti visivi e segue da vicino l’evoluzione di un fotografo che teniamo in grande considerazione”[68].  Era proprio il testo di Monti a sottolineare il senso di indagine concettuale sul trascorrere del tempo di quel suo lavoro, richiamando la rivoluzione culturale determinata dalla fotografia in questo sforzo immane (e inane) di “dominarne il corso o almeno di rallentarne la marcia”.  Escludendo e quasi allontanando perentoriamente da sé ogni coinvolgimento (auto)biografico Monti presentava quel suo lavoro su (con) Mariel come “un’affettuosa testimonianza di quei momenti di ineffabile attesa; [lo] studio fotobiografico di un volto femminile e dei suoi aspetti nel tempo. Un po’ come un paesaggio di cui si fossero fotografate le variazioni stagionali in momenti e con luci diverse”[69]. Così posta, la vicenda biografica ridotta quasi a pura registrazione sembrava riguardare la modella e non lo sguardo voyeuristico del fotografo zio, che ne usava almeno per mettere alla prova le proprie capacità, espresse in diverse tonalità narrative. Una rimozione che Berto Morucchio pareva aver ben compreso quando riconosceva che l’oggetto della ripresa costituiva una “rivelazione – per via fantastica – del soggetto stesso” [70], cioè dell’autore.  Una rivelazione che Giuseppe Turroni  avrebbe colto nel momento in cui vedeva quei ritratti come “percossi da uno spirito corrosivo”, suggerendo infine che  “Monti scopre Venezia e Meme non è che un volto di questo tenero mistero”[71].  Un’interpretazione intrigante ma velata da una qualche omissione nel momento in cui non riconosceva il legame affettivo, parentale tra i due.  Una lettura che per molti versi risultava più semplicistica e superficiale di quella offerta solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”, quanto aveva riconosciuto che “Venezia è stata una tappa, una vita per Monti (…). Tentò, mi pare, un connubio tra impressionismo e astrattismo. Ne sortì, più tardi, una Venezia chiusa nella sua dolcezza dolente, nella sua mesta teatralità (Venezia è teatro, nelle strade nei gatti e nei volti biondi delle donne), quasi spenta, ristretta a un decadentismo che non era crepuscolare, non era romantico, non era quello della «morte» di Mann, non era, tanto meno, ‘italianisant’. Qualcosa, in Monti, aveva funzionato segretamente. La marcata tristezza ‘autunnale’ di Cardarelli aveva dato buoni frutti.” E qui tornano alla mente – quasi un ritratto per analogia – le parole che Portoghesi[72] dedicò alla venezianità di  Carlo Scarpa a pochi mesi dalla morte: “Venezia era per Scarpa un modo di guardare e di usare, un modo di connettere le cose tra loro in funzione di valori di luce, di tessitura, di colore, coglibili solo da un occhio abituato ad osservare (e osservando misurare) acqua, vetro e insieme pietre e mattoni esposti a una atmosfera inclemente che non consente alla materia di nascondere la sua struttura ma continuamente la costringe a scoprire, consumandosi, le proprie qualità più segrete.”  “Il mio destino di fotografo  – ebbe a dichiarare Monti – deriva dal fatto di essere venuto a lavorare a Venezia” e di aver compreso che la città non era ancora stata “vista in modo nuovo, in modo più che nuovo, in un modo intimo, in quello che ha di migliore”, perché gli autori che si erano misurati con quella città “non avevano visto certe cose”[73] che lui vedeva.  Forse però non di ‘cose’ si trattava, ma semmai di modi perché già nella Venezia dei primi anni Quaranta non solo Leiss aveva guardato alle presenze meno monumentali e – in ambito specificamente architettonico – Egle Trincanato aveva riportato per prima l’attenzione sulla Venezia minore[74], ma soprattutto Francesco Pasinetti[75] l’aveva raccontata ormai anche con la fotografia, rivolgendosi ad “alcuni aspetti, ignorati dai più, degli angoli più modesti e della vita popolare”, ampiamente illustrati nella monografia che il Touring Club dedicava a Venezia e la sua laguna giusto nel 1947, “in questa inquieta alba di pace che stiamo vivendo, tra il dolore delle passate  sventure e le trepide speranze di rinascita”[76]. Non solo la città però, come indicavano Laguna di Torcello (tav. 002)  e le successive Venezia, muro con bolzone, 1950 ca (tav. 014) e Pellestrina, 1950 ca (tav. 013), più direttamente orientate a una lettura per masse dell’architettura vernacolare delle isole, così come accadeva per le più tarde Porta murata  e Architettura lagunare, pubblicate su “Ferrania” nel 1955, mentre in Venezia, 1950 ca  e in Pellestrina. Laguna di Venezia. Muro di casa di pescatori, 1950 ca (tav. 035 )  si rivelava già matura quell’attenzione per la matericità delle superfici murarie che sarebbe stata  oggetto di importanti lavori successivi come Muro veneziano: disegno su un manifesto distrutto, 1950ca  o Muro con scritte, 1950 ca (tav. 036), dove risultano più marcate le suggestioni pittoriche provenienti dalle coeve ricerche informali, senza dimenticare i primi graffiti di Brassaï [77]. Di tutt’altra tonalità emotiva e conseguente trattamento stilistico una fotografia degli stessi anni come Reti e barche, 1948-1949  (tav. 037), che si potrebbe intendere come una prova tardo pittorialista giocata tutta sui toni alti, o la più veristica Chiatta (tav. 038), dove le nebbie lagunari che rendevano evanescenti figura e paesaggio costituivano pur sempre un dato di realtà. Dirompente, a loro confronto, e certo inattesa una prova come Venezia, 1950 ca (tav. 039[78];  uno spazio sventrato, un passaggio continuo esterno, interno e ancora esterno formato da una serie di inquadrature concatenate, racchiuse dalla materia sbrecciata dei muri, restituita per forti contrasti tonali, che deve certamente essere posta in relazione con Muro a Treviso, del 1947 (tav. 041); immagini  che – con poche altre[79] (tavv. 042, 043) – sembravano almeno fare i conti con le memorie della guerra. Per Monti, così come per la gran parte dei suoi compagni di strada, la tragedia che avevano appena attraversato non aveva lasciato tracce visibili nelle loro fotografie: si lavorava al presente e sul presente, non di rado estranei alla contingenza storica.

Se torniamo ad aggirarci per la sua biblioteca vediamo che al momento della fondazione de La Gondola i suoi acquisti, le sue letture erano quasi esclusivamente di manualistica tecnica e di genere,  orientate nei più diversi settori: dalla fotografia naturalistica  a quella pubblicitaria e di architettura[80]. L’aggiornamento culturale pare fosse demandato alla consultazione degli annuari che ereditavano la gloriosa tradizione di “Arts et Métiers Graphiques”, come Photographie 1947, che conteneva una fotografia di Brassaï (tav. 58) che potrebbe averlo interessato;  il ginevrino  Photo 49,  per certi versi il corrispettivo svizzero dell’Annuario di Domus del 1943, ma anche il  Photo Almanach Prisma 1948, più prossimo alla manualistica fotoamatoriale. A questi può essere accostato Photography and the art of seeing, che offriva numerosi esempi di fotografia modernista (Man Ray, Brassaï, Kertész, Laure Albin-Guillot, Sougez, Schall, Pierre Boucher) e prefigurava per certi versi quello che sarà identificato come  il “momento decisivo” alla Cartier-Bresson: “Né dobbiamo trascurare il fatto che il successo dell’operatore dipende in gran parte dall’aver scattato nel momento culminante della scena. Non si tratta però di un caso fortuito, ma di una capacità artistica che è il risultato di uno sforzo sintetico” [81]. Qualcosa  che nulla però avrebbe avuto a che vedere con la fotografia di Paolo Monti, che anzi ricordava semmai di essere stato a suo tempo molto attratto dalla “grande ondata del realismo assoluto, del neo-oggettivismo tedesco (…) un tipo di fotografia molto esatta, molto precisa, molto secca; un po’ la fotografia tremendamente a fuoco, incisa fino all’ultimo come quella di Weston”[82]. Alla manualistica, seppure d’autore[83], si affiancava in quegli anni una scelta eterogenea di titoli che spaziavano dalla fotografia umanista di Izis [84] a quella animalier di Ylla[85]; da La France de Profil di Claude Roy e Paul Strand, a Subjektive Fotografie di Otto  Steinert[86], che scavava nella più stretta contemporaneità, esattamente come faceva – sempre nel 1952 –  il numero monografico di  “Art d’aujourd’hui” dedicato alla fotografia. L’intento del  curatore  Paul Etienne [Paul Sarisson][87] era “di presentare […] in una Rivista per la difesa dell’arte non oggettiva, un’immagine che vorrebbe essere originale e che rispecchi fedelmente le possibilità attuali della fotografia al di fuori di certe ‘ricette’, come le sovrimpressioni o i fotogrammi, che pretendono di esprimere la soggettività con mezzi un po’ troppo facili[88],  ponendosi quindi in contrasto con una parte non secondaria di ricerche espressive della Subjektive, sebbene poi in quelle pagine trovassero ospitalità anche un muro di Masclet[89], movimenti di luce di Steinert, un oggetto ‘astratto’ di Bourdin e soprattutto la copertina di Denis Brihat a cui Monti deve aver guardato con un certo interesse. Di certo importante per la sua formazione fu il confronto con i lavori di Daniel Masclet, che dopo una prima stagione tardo pittorialista si era avvicinato alla poetica di Weston e poi progressivamente alla fotografia soggettiva. Masclet  compariva anche in un prezioso volume che attualmente brilla per la sua assenza dalla biblioteca di Monti, Il messaggio dalla camera oscura, scritto da  Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato a  Torino nei primi giorni del 1950. Frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi e costituì la prima vera sintesi storiografica prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti, sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo.  Come già in Film und Foto[90] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. “Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo” dichiarava Mollino, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sulla verifica stringente dei rapporti tra la fotografia e la cultura visiva in generale, e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[91], si mostrava sprezzante (ma “senza polemica”) nei confronti della produzione di quei fotografi che  imitavano in ritardo proprio quelle soluzioni tecniche ed espressive che gli stessi primi utilizzatori avevano da tempo abbandonato: “ Solarizzazioni alla Man Ray, chiarità di toni […] cominciano ora a imperversare” [92] scriveva, così che nessuna immagine dei bussolanti (che pure costituivano la ‘novità’ della fotografia italiana di quegli anni) fu compresa nel repertorio.

Tra i titoli dei primissimi anni Cinquanta posseduti da Monti spiccano per la loro eccentricità di argomento due testi di grande e diversa importanza  come Apologia della storia, 1950, di  Marc Bloch e  La scoperta del bambino, 1951, di Maria Montessori, ultima edizione di un testo pubblicato  per la prima volta nel 1909. Il saggio di Bloch, un  classico della riflessione storiografica  del Novecento,  costituisce per noi un indicatore prezioso dell’interesse non sporadico né superficiale di Paolo Monti per la storia e la storiografia, in una accezione che non è difficile riferire alla scuola delle “Annales” e più direttamente a Lucien Fevbre. Basti a questo scopo leggere quanto diceva a proposito delle fotografie che “possono essere documenti” nel corso dell’intervista concessa ad Angelo Schwarz nel 1978,  precisando immediatamente che “quando diciamo che la fotografia è documento il più delle volte crediamo di dire qualcosa di preciso [ma] c’è molta ambiguità in queste descrizioni (o definizioni?) (…)  Il documento allora, è la registrazione importante di una cosa a  cui noi siamo ancora interessati”, e poco oltre – quasi a voler chiarire ulteriormente  – richiamava il proprio interesse, la fascinazione esercitata dalla “bellezza di certe pietre come quella d’Istria che resiste attraverso i secoli, ma ci dice che gli uomini ci hanno camminato sopra e magari tanto l’hanno toccata con le mani che vi hanno lasciato i segni. E le scritte sui muri, la qualità di quei muri, le parti rovinate.”[93] Considerazioni riprese in uno scritto dell’anno successivo[94] che conteneva un’importante riflessione sullo statuto dell’immagine fotografica: “Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza (…) siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.” Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli. Un ‘documento’ nel quale la restituzione analogica del referente è inestricabilmente segnata da connotazioni sociali, storiche, culturali e non per ultimo tecnologiche, che concorrono a dare forma alla rappresentazione del reale, assegnando un senso più ricco e complesso al contenuto stesso[95].  La fotografia, una fotografia nutrita di suggestioni formali e materiche si rivelava essere lo strumento, quasi  un metodo storiografico per la comprensione delle culture di un territorio come quello che si rivelerà nelle grandi campagne documentarie della fine degli anni Sessanta, complice  (e regista) Andrea Emiliani, che a proposito  di Monti, parlava di “un grande disegno storiografico” [96] che avrebbe illuminato l’opera del fotografo nella seconda parte della sua vita. La presenza,  inattesa, de La scoperta del bambino potrebbe invece essere legata a un qualche tragico (e a noi ignoto) fatto biografico di Monti[97] se consideriamo che sono dello stesso anno La morte è una bambina (tavv. 047, 048), realizzata nel piccolo cimitero di Anzola d’Ossola, e  la serie comunemente nota come Angelo a Venezia (tav. 049)[98]. Immagini esplicitamente dolenti e tragiche quali non si ritrovano altrove nel lavoro del fotografo e consentono almeno di formulare l’ipotesi  che fossero originate da drammi esistenziali, rendendo meno convincente – per quanto legittima –  la lettura che le riconduceva alla  interpretazione montiana di Venezia come “figlia del terrore di gente in fuga disperata per la salvezza”[99].

Nel 1952  Monti aveva acquistato – come si è visto –  la prima antologia di Subjektive Fotografie, che proponeva certo riferimenti e modelli che furono importanti per orientare la sua produzione successiva, ma può essere interessante notare qui che molti dei presupposti di quel ‘movimento’  si ritrovavano già esplicitati in Perché fotografo. Come fotografo, 1948, di Mario Bellavista, Capo ufficio pubblicità e stampa in Montecatini negli stessi anni in cui vi lavorava Monti, che gli era quasi coetaneo[100]. Il libro (non presente nella biblioteca di Monti) era stato scritto nel 1947 (cioè l’anno de La Bussola) ma raccoglieva e sistematizzava riflessioni e proposte anticipate da lungo tempo sulle pagine di “Galleria” (Concetti per fotografi moderni, 1934-1936). Nel ricostruire la sua vicenda ‘artistica’ Bellavista indicava quali fossero i Nuovi orientamenti. Dal pittorico al fotografico, dai passaggi obbligati agli schemi liberi che potevano suonare ancora validi nel 1947-1948: “Libertà assoluta del soggetto (…) Libertà assoluta nella maniera di ritrarre il soggetto (…) Libertà assoluta nell’interpretazione personale (utilizzazione di qualsiasi mezzo, perfino delle manchevolezze tecniche negli strumenti e nel materiale fotografico, per conseguire l’effetto estetico più idoneo a rappresentare la sensibilità personale (…); Sintetismo (tendenza a esprimere con immagini di pochi segni nell’intento di conferire una nuova e maggiore potenza espressionistica al soggetto (…); Apologia del moto quale nuova bellezza (…); Surrealismo (…); Il soggetto in funzione realizzativa di visioni elaborate dallo spirito (…); Sincerità intenzionale (…); Contribuire a formare un nuovo volto alla fotografia (… ) favorire tutto ciò che consentisse alla fotografia di assumere caratteristiche proprie chiare, definitive, inconfondibili.”  Certo c’era di tutto e di più, comprese vaghe e generiche suggestioni dai diversi ismi delle avanguardie di inizio secolo, ma quel richiamo insistito alla “libertà assoluta”  era una indicazione importante e certo orientata a sollecitare la soggettività del fotografo, specie se confrontata col dogmatismo del Manifesto de La Bussola. Fotogrammi e solarizzazioni si accompagnavano in quegli anni alle indagini intorno alle possibilità espressive di quelle che nelle sue Intenzioni fotografiche  aveva chiamato  “istantanee lente”[101],  alcune delle quali – formalmente prossime a certe prove coeve di Franco Grignani[102] – sarebbe state utilizzate come copertine per “Domus” diretta da Gio Ponti[103] . Come avrebbe chiarito lo stesso Monti in un breve testo coevo[104], “è appena il caso di dire che parlando di natura morta non ci limitiamo al suo significato pittorico, ma intendiamo anche ogni genere di composizione ove entrino elementi siano o no tradizionali per giungere sino alla completa assenza di ‘oggetti ‘reali’, cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”. Un pensiero chiaro, una riflessione che all’epoca non riusciva a trovare interlocutori adeguati, viziata da disarmanti semplicismi dilettantistici[105] o apertamente polemici[106], mentre veniva riconosciuta (anche nei suoi esiti materiali, nelle opere) da un critico attento come  Berto Morucchio, che definiva “la sua evoluzione estetica (…)  come una dialettica, tormentata ma definita, dal naturalismo all’espressionismo, con vissute parentesi non oggettive (manifeste soprattutto nei fotogrammi e nelle esperienze espressive ‘sul particolare’)”[107].

Questa dialettica è ben riconoscibile nelle opere pubblicate o esposte in quell’arco di tempo[108], ancora prevalentemente orientate alle diverse accezioni del figurativo, con rare presenze di fotografia ‘sperimentale’[109], sebbene – come sempre in Monti – il confine fosse volutamente labile,  con le diverse “Astrazioni involontarie”, ritrovate e reinventate, a fare da cerniera, senza poter escludere che quella scelta prudente fosse anche la manifestazione di un segno – come dire – di sfiducia nelle possibilità di comprensione e accoglimento del mondo amatoriale, che certo guardava a lui ma al quale altrettanto lui si rivolgeva, trovando semmai più adeguato spazio sulle copertine di “Domus”. Monti lavorava caparbiamente  sulla fotografia con la fotografia, ma nelle occasioni pubbliche, compreso il suo affacciarsi sulla scena internazionale, pareva affidarsi a più rassicuranti soggetti. Non è dato per ora conoscere nel dettaglio  quali fossero quei quaranta “lavori anche professionali” spediti alla George Eastman House di Rochester nel 1957 su invito di Minor White, che dovevano comprendere però un vasto campionario della sua produzione, “dal ritratto ai fotogrammi passando per il paesaggio e le scene di vita italiana”[110] . È invece certo che delle tre opere selezionate  per la mostra del decennale curata da Beaumont Newhall nel 1959, due appartenevano al genere del  ritratto e vennero collocate nella sezione intitolata “Equivalents” (con esplicito richiamo a Stieglitz) che era definita dal curatore sulla base della potenzialità della fotografia di essere letta metaforicamente,  come un simbolo che può avere la capacità di “attivare un flusso di coscienza”[111].

Considerando la sua produzione di quegli anni, segnati dal passaggio al professionismo di cui diremo, e soprattutto pensando all’insieme delle opere presentate in pubblico, risulta tanto necessario quanto difficile porsi il problema delle influenze dirette e indirette, che appaiono altrettanto complesse e variegate. Certo l’esempio de La Bussola, non tanto in termini formali (se non sporadicamente) quanto di rivendicazione del valore autonomo della fotografia; poi i modelli internazionali, in un arco tanto ampio da comprendere i tedeschi di Fotoform e i francesi del Groupe des XV,  che per Monti rappresentavano “due tendenze che si possono ritenere esemplari della fotografia europea”[112], mentre sembra essere stata meno immediata e diretta l’influenza statunitense nonostante l’ammirazione per “la monumentale opera fotografica di Weston”[113]. Quindi, inevitabilmente,  le suggestioni e le poetiche espresse  dalle ricerche pittoriche più avanzate degli anni Cinquanta, cui non era difficile accostarsi a Venezia[114] come a Milano (senza dimenticare un canale di diffusione quale le riviste d’arte[115]). A ben considerare però si direbbe che per Monti questa gran messe di suggestioni visuali e culturali – specialmente europee, va sottolineato – sia servita soprattutto come occasione di riflessione e di analisi intorno a quei  problemi di interpretazione e restituzione visuale dei dati di realtà che gli erano propri. Da questo punto di vista risulta quindi piuttosto sterile e velleitario proporre accostamenti e filiazioni dirette, come pure è stato ampiamente fatto, per riconoscere invece una solida appartenenza a un contesto ampio di ricerche espressive, nelle quali Monti si collocava in maniera culturalmente e criticamente consapevole, non priva di un certo scetticismo di fondo, ben oltre le immediate (e magari superficiali) apparenze formali. Anche i possibili, inevitabili riferimenti a Man Ray (che considerava “uno dei fondatori della fotografia moderna”[116]) e ancor più a Moholy-Nagy  sono da intendersi in termini di modelli del fare, quasi metodologici, di apertura e coinvolgimento in molte se non in tutte le possibilità espressive praticabili con la fotografia (compresi gli sfocati, i movimenti di macchina), convinto che “le opere venivano prima delle teorie”[117]. Che dire poi del rapido e progressivo definirsi di una scelta orientata verso i toni bassi se non che questa oltre che corrispondere a un suo particolare sentire, e sentire del mondo, si era ormai affermata come lo stilema, il marchio inconfondibile della fotografia internazionale di quel periodo, celebrata e diffusa dalla maggior parte degli annuari fotografici internazionali che Monti possedeva in gran numero.

 

Gli anni de La Gondola

Gli anni della ricostruzione postbellica in Italia mostravano anche in ambito fotografico una vivace ripresa di iniziative variamente legate a forme associative[118] che si distinguevano per intenzioni e modi da quelle che avevano caratterizzato il ventennio precedente, seppure muovendosi in direzioni diverse e magari divergenti. Così tra 1947 e 1948 si collocarono la costituzione de La Bussola e poi de La Gondola, che nelle loro modalità aggregative sembravano guardare a modelli stranieri e specialmente francesi, ma anche al nostrano  Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che nell’inverno del 1921 era nato a Torino in seno alla Società Fotografica Subalpina con l’esplicita intenzione di essere “un fattore nuovo nella fotografia pittorialista in Italia, e suscettibile di esercitare una felice influenza sul suo sviluppo”[119],  riunendo gli autori del primo moderato modernismo, da Baravalle, Bologna, Bricarelli a Cesare Giulio e Francesco Agosti.  Certo sulla scia di quel primo sodalizio ma con aspirazioni culturalmente più modeste fu ancora a Torino, nella sede della Società Fotografica Subalpina, che nel dicembre del 1948 si riunirono le associazioni fotografiche che diedero vita alla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche – FIAF, a cui La Gondola avrebbe aderito quasi subito mentre La Bussola se ne sarebbe mantenuta lontana. Nel giro di poco più di un anno i due fronti contrapposti della “fotografia d’arte” e dei fotoamatori si erano ormai precisamente delineati.

Com’è ampiamente noto, fu dalle frequentazioni del negozio Foto Record dei fratelli armeni  Pambakian, che nacque per Monti l’occasione di conoscere Gino Bolognini e dare vita al  venezianissimo circolo de La Gondola[120], che al momento della sua costituzione comprendeva anche Alfredo ‘Giorgio’ Bresciani e Luciano Scattola. Di quel ristretto consesso piccolo borghese Monti venne nominato, di più, fu  riconosciuto come Presidente, nonostante fosse a tutti gli effetti un neofita, specie dal punto di vista tecnico; una scelta da attribuirsi verosimilmente alla sua solida formazione culturale.  Un sodalizio che condivideva “l’intenzione di dar vita a un nuovo circolo fotografico così come viene comunemente inteso”[121], ma rifuggendo quell’estetismo crociano ” cioè il soggetto non conta niente è il modo come lo si presenta che ha importanza, che aveva caratterizzato la Bussola stessa. Era venuto il momento di parlare con la fotografia anche ispirandosi ai paesaggi pittorici, tirandone fuori il sentimento drammatico, ed alla struttura urbana di Venezia: i muri, il colloquio tra le acque e le pietre che le corrodono, gli spazi attraverso le strettoie si prestavano a questo modo nuovo di vedere”[122]. Un circolo senza Manifesto quindi, ma con idee piuttosto chiare sia in termini di poetica che di politica culturale per la promozione della fotografia ovvero, come ebbe a scrivere Zannier a distanza di quasi un ventennio[123], “la Gondola è stato forse l’unico Circolo italiano a proporre con chiarezza un’avanguardia nostrana, da allineare accanto a quella europea, che per altro ha avuto il merito di farci conoscere attraverso alcune indimenticabili rassegne ospitate a Venezia.”  Se in termini di riconoscimento del valore estetico dell’immagine fotografica il confronto e – per una certa parte il modello – era costituito da Giuseppe Cavalli e dalla Bussola, in termini più ampiamente culturali l’esempio da seguire era certamente quello del Circolo Fotografico Milanese[124], poi dell’Unione Fotografica. Diverso l’intento della neonata FIAF, che aveva semmai tra i propri obiettivi quello di far conoscere la fotografia italiana in campo internazionale, come indicava la Prima Mostra Nazionale di Fotografia Artistica organizzata proprio nelle sale del Circolo Fotografico Milanese  nel giugno del 1949[125]. Anche i bussolanti avevano organizzato una serie di “mostre di ottimi francesi tedeschi italiani cinesi”[126] nel ridotto del Piccolo Teatro di Milano, ma il gruppo de La Gondola pareva avere una progettualità più strutturata, più precisamente orientata alla crescita culturale della fotografia italiana attraverso la conoscenza diretta delle opere più interessanti del panorama internazionale, specialmente europeo.  In questa volontà di progetto non doveva essere secondaria la funzione di Venezia, non tanto per le sue attrattive d’ambiente quanto per il modello costituito dalla Biennale d’Arte (1895) e dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, avviata per la prima volta nel 1932, ponendosi perciò tra il Festival Internazionale di Musica Contemporanea (dal 1930) e il Festival Internazionale del Teatro di Prosa (1934), mentre nei primi anni del dopoguerra (1948-1951)  si avviavano le attività veneziane di Peggy Guggenheim. Venezia città delle arti contemporanee. In quel contesto, e pur muovendosi in sedicesimo date le condizioni culturali ed economiche, sorgevano anche iniziative legate alla fotografia, come la Mostra Internazionale d’Arte Fotografica che si tenne nei padiglioni della Biennale ai Giardini, dal 14 agosto al 10 settembre 1947, in concomitanza con la Mostra internazionale della tecnica cinematografica. Una grande raccolta di immagini selezionate dai rispettivi circoli di appartenenza che suscitò più di qualche perplessità negli osservatori più attenti. “Una percentuale alquanto vasta di fotografie artisticamente e tecnicamente non valide” nel giudizio di Giuseppe Cavalli, che pure segnalava The Critic di Weegee, ma senza indicarne l’autore[127], mentre Alfredo Ornano[128] ammetteva di aver “provato un vero dispiacere percorrendo le sale (…): in locali così bene illuminati che in ogni angolo la fotografia vi si mostra in tutte le sue più delicate mezze tinte, si è radunato tutto il vecchiume d’Italia, tutte le fotografie che da 15 anni vediamo in esposizioni sociali e nazionali. E l’internazionalità è molto discutibile (…)”. Sola eccezione il gruppo di venticinque fotografie del gruppo de La Bussola, “le uniche in cornice e sottovetro”, precisava Cavalli.

Certo memori di quel precedente, la prima iniziativa pubblica de La Gondola, fu l’organizzazione nel 1951 della Mostra Fotografica Nazionale Retrospettiva 1940-1950[129],  alla quale sarebbe immediatamente seguita nella stessa Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian La prima mostra del paesaggio veneziano e lagunare[130].  Scopo della mostra retrospettiva – scriveva Monti nella presentazione – era di  “far conoscere a una larga cerchia di pubblico una severa e larga selezione di fotografie italiane dell’ultimo decennio, iniziando con questa un programma di periodiche manifestazioni che, riallacciandosi alle ultime degli anni precedenti la guerra, sia quasi di prologo alle mostre future”[131]. Si trattava insomma di “fermarsi a fare il punto della situazione e per non incorrere in giudizi affrettati, esaminare non tanto gli ultimi apporti dei vari autori quanto lo svolgersi nel tempo delle diverse tendenze [offrendo] in una rapida sintesi un’idea abbastanza precisa dell’attuale fotografia italiana. Diciamo ‘attuale’ e non ‘moderna’ perché molte opere risentono ancora di influssi che risalgono a molti, troppi anni or sono e per fotografia moderna noi intendiamo invece quella che è solo ‘fotografia’, mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative e tanto meno di imitarle nell’esteriorità del mezzo tecnico.”   Per quelle ragioni “più che premiare lavori singoli la giuria avrebbe voluto premiare interi complessi di opere [come poi avverrà a Castelfranco e altrove negli anni successivi] perché la personalità di un fotografo è data dal complesso del suo lavoro piuttosto che da opere isolate.  (…) In questa breve presentazione di proposito non abbiamo mai parlato di “fotografia artistica” e ci auguriamo che questa infelice espressione sia bandita ovunque si parli o si scriva di fotografia. Sulla questione se la fotografia sia arte o no, si è consumato fin troppo inchiostro – e sorte analoga ebbe più tardi il cinema – né noi vogliamo sciuparne altro”. La questione poetica al centro di quell’ impegnativo programma riguardava la rivendicazione della fotografia come “mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative”[132], vale a dire qualcosa di sottilmente diverso dai proclami de La Bussola  (“Noi crediamo alla fotografia come arte”)  e dalle posizioni di  Vannucci Zauli e Scopinich, e semmai prossimo a quelle avanzate  già a fine Ottocento da un fotografo come Pietro Masoero[133], segnando così una specie di ritardo sulle più avanzate posizioni critiche e sulle iniziative  di respiro europeo che caratterizzavano  in quegli anni il Circolo Fotografico Milanese e poi l’Unione Fotografica[134]. Considerando questo testo, oltre a notare l’accorto uso delle aggettivazioni (“una severa e larga selezione”)  bisogna prestare la dovuta attenzione alle intenzioni dichiarate dal titolo:  a pochissimi anni dalla fondazione dei due più noti circoli italiani e dalla nascita della FIAF  l’intento era unificante;  il tentativo era quello di fornire una rassegna critica dell’ultimo decennio, segnato per la gran parte dalla guerra e dalle sue conseguenze; voleva inoltre dire assumersi il rischio di fare i primi conti con la fotografia negli ultimi anni del fascismo. Evitare di far  tabula rasa delle esperienze del periodo bellico costituiva la condizione anche politicamente necessaria per proporre quella prima mostra come l’anello di congiunzione con le previste iniziative future, a partire dalla Mostra della fotografia italiana del 1952 e sino alle Biennali del 1957-1965, che furono l’occasione per far conoscere al pubblico italiano un  panorama ampio e variegato,  per molti versi mainstream, nel quale vennero mantenute sotto tono le esperienze europee legate alla fotografia astratta e concreta, più esplicitamente soggettiva.  I contatti e i confronti fattivi con la produzione fotografica internazionale si erano avviati per La Gondola con la I Mostra scambio “Le Club Photographique de Paris 30×40[135], a cui fece seguito nel 1955, sempre a Ca’ Giustinian, quella più opportunamente chiamata II Mostra Internazionale di Fotografia[136], che presentava “opere di famosi «cameramen » di Francia, d’America, d’Olanda e di Germania”[137], come Daniel Masclet, Otto Steinert e Martien Coppens. Tra gli scopi dichiarati vi era quello di “portare la fotografia alla Biennale Internazionale di Venezia”, ma la sua conduzione  venne aspramente criticata sulle pagine di “Ferrania” da Berto Morucchio, che stigmatizzava certe presunte “sofisticazioni della prefazione” (di Giorgio Giacobbi) e il ricorso a  “concetti frusti e mal articolati come questi, di autonomia e di individualità dell’arte [che]  è meglio tralasciare se non sono vissuti profondamente nella loro evoluzione storica”[138], ma soprattutto condannava la decisione di aver ristretto la partecipazione  italiana ai soli membri de La Gondola, “secondo la bonomia familiare che governa un club”. Una scelta che doveva però suonare come una rivendicazione se non come una piccola vendetta, datosi che i membri del gruppo veneziano erano stati esclusi sino a quel momento dalle più prestigiose occasioni internazionali.

Nella prima metà degli anni Cinquanta la fotografia italiana aveva goduto di  una buona circolazione internazionale, a partire dalla prima edizione (1952) di Fotografie als Uitdrukkingsmiddel, curata da Martien Coppens allo Stedeliijk Van Abbe Museum di Eindhoven, che in un prestigioso contesto  autoriale (Ansel Adams, Edward Weston, Fotoform, Magnum, gli svedesi del gruppo De Unga, tra gli altri) ospitava i fotografi de La Bussola e quelli dell’Unione Fotografica, compreso Roiter, addirittura  riservando la copertina del catalogo a Sul tetto di Federico Vender. Un panorama  qualitativamente diverso da quello  offerto dalla mostra londinese dello stesso anno organizzata dalla Royal Photographic Society (5-29 novembre) a cui pure parteciparono  “i tre maggiori enti che rappresentano oggi la fotografia italiana” , vale a dire la Bussola, l’Unione Fotografica e  la FIAF “che comprende quasi tutti i circoli d’Italia”. Purtroppo la presenza di circa cento lavori  ‘salonistici’ determinò un forte sbilanciamento dell’insieme, condizionandone negativamente la ricezione da parte del pubblico e dei critici britannici, più che perplessi dall’omogeneità e dalla scarsa qualità complessiva dei lavori presentati.  “Una serie di fotografie tutte di tonalità molto chiara, fissate su una parete bianca, diventa[no] una cosa strana assai all’occhio britannico” ricordava Harold Lewis  sollecitato in proposito dai membri dell’Unione Fotografica, che sentirono la necessità di prendere pubblicamente posizione in un articolo a firma collettiva pubblicato su “Ferrania”[139]. Anche nella Mostra della fotografia italiana che si tenne nel  maggio 1953 alla George Eastman House di  Rochester,  promossa dalla rivista “Fotografia” e curata da Beaumont Newhall[140], gli  autori presenti erano prevalentemente legati alla redazione della rivista milanese, così che l’iniziativa passò piuttosto in sordina nonostante la prestigiosa sede.  Non dissimile infine la compagine italiana nella quasi contemporanea  Post-War European Photography curata da Edward Steichen al MoMA (da 26 maggio al 23 agosto), con settantanove fotografi da undici paesi[141] e le presenze italiane  equamente suddivise tra i membri dell’Unione Fotografica e della Bussola, vale a dire molti degli autori  (Piero Di Blasi, Cavalli, Davide Clari, Donzelli, Vender e Veronesi) accolti da Steinert in Subjektive Fotografie 1, del 1951,  ancora una volta escludendo gli autori de La Gondola. La fotografia italiana fu poi l’argomento del numero monografico di “Camera” dell’aprile del 1956, per la cura di Romeo Martinez, che nei mesi successivi avrebbe pubblicato lavori di Paolo Monti[142] e di Mario de Biasi[143]. I testi introduttivi furono affidati a Fulvio Roiter[144] (del quale la rivista aveva ospitato immagini dal viaggio in Sicilia nel gennaio del 1954) e a Italo Zannier, entrambi concordando sul fatto che “l’arte fotografica italiana (…) è espressa quasi esclusivamente dalle opere dei fotografi dilettanti”[145],  ciò che aveva nociuto non poco al suo affermarsi. La selezione degli autori[146] era stata però piuttosto generica e inadatta a  fornire un quadro veramente significativo della produzione italiana sia in termini generazionali che di scelte espressive, ma l’occasione fu certamente importante, anche se il bilancio tracciato dai due autori era insoddisfacente. “A rigor di termini – scriveva Roiter –  dovremmo parlare solo di dilettantismo, perché è la sola forma di attività fotografica che, in questo paese, abbia  stimolato un ideale, definito una tradizione e incoraggiato una pratica i cui effetti sono tutt’altro che trascurabili. È strano, fuori dall’Italia il meglio della produzione fotografica viene dai grandi del mestiere che vivono di fotografia e per la fotografia.” Ciò detto e riconosciuto, i limiti determinati da tale situazione erano evidenti  poiché anche le “ intenzioni più meritevoli finiscono per insabbiarsi se viene a mancare  un sostegno indispensabile: l’energia che determina ogni piena realizzazione. (…) Non siamo contrari a questa forma di attività, né ai circoli fotografici; ci auguriamo solamente l’avvento in questo paese di un vero, onesto e proficuo esercizio professionale.” Quelle considerazioni (sarebbe troppo definirle analisi) suscitarono la risentita reazione di uno dei grandi esponenti della vecchia guardia come Stefano Bricarelli che dalle pagine del “Corriere Fotografico”, stigmatizzò la trasparente celebrazione autobiografica fatta da Roiter di quei “giovani dotati di ricca sensibilità e coraggio che si sono sganciati da queste istituzioni [i circoli] per affrontare, con successo, e da soli, una carriera così piena di rischi e difficoltà come quella del freelance fotografo”, convinto che “da questi semenzai esce anche la  più parte dei fotografi professionisti”.  Anche per “il suo degno epigono, Italo Zannier” non mancarono le critiche,  specie per l’aver considerato “Cavallli, Veronesi, Finazzi, Balocchi ecc.”  rappresentanti della ‘vecchia generazione’. Se così era – chiosava Bricarelli – “noi apparteniamo addirittura ai ‘primitivi’, e ci possiamo ormai considerare «au-dessus de la mêlée»[147] e quindi in grado di esprimere un parere spassionato che sarebbe il seguente. È  un vero peccato che un’occasione così favorevole per valorizzare la fotografia italiana – quale un Numero speciale ad essa consacrato da una Rivista dell’autorità di “Camera” – sia stata sprecata, non con le fotografie, che, la Dio mercé, un loro linguaggio positivo e persuasivo lo hanno conservato; ma con gli scritti che si direbbero fatti apposta per convincere, in quattro lingue, gli stranieri – già così propensi e pronti a sottovalutarci – che, dietro agli autori delle suddette opere, in fatto di fotografia in Italia nulla esiste o poco meno di nulla. (…) Diano retta a noi; continuino a produrre della bella fotografia e lascino l’impiccio e la responsabilità di scriverne a chi è in grado di farlo.” La tesi sostenuta da Bricarelli nel 1956 sarebbe stata condivisa e meglio articolata da Monti in occasione del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando (contro l’ironia  “facilissima” di Gilardi)  aveva sostenuto che “ l’unica salvezza della fotografia italiana è questo continuo passaggio di amatori al professionismo fin quando non ci saranno delle vere scuole che alleveranno dei veri fotografi [perché ] in mancanza di scuole fotografiche che siano veramente scuole fotografiche io mi domando che cosa sarebbe oggi la classe dei professionisti se non avesse avuto il continuo rincalzo di certi amatori. (…) Quanti sono gli amatori che hanno dato un certo lustro alla professione? Sono moltissimi”[148]. Ed era  certo lui la figura eponima di quelle vicende, il responsabile delle “rottura con un certo edonismo fotografico, nello stesso tempo è il suo passaggio al professionismo che ha   scosso le inibizioni di numerosi amatori dotati ma incapaci di passare il Rubicone. L’impresa di Monti ha significato per la nostra generazione l’emancipazione e la rivalorizzazione di un mestiere che era considerato socialmente ed economicamente inferiore.” (…) [ Monti]  resta comunque l’esempio di chi è riuscito a conservare la propria integrità a tutti i livelli della sua produzione, vale a dire che è riuscito a difendere in ogni momento la propria personalità di fotografo.”[149]  Fu ancora la Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian a ospitare la III Mostra Internazionale di Fotografia[150] organizzata dal Circolo La Gondola dal 24 giugno al 15 luglio 1956, con poche partecipazioni internazionali (solo Brett Weston, Erich Angenendt, Helmut Lederer, Toni Schneiders, André Thévenet, George Viollon e la Guilfond School of Art aderirono all’invito) e una discreta presenza italiana[151],  che escludeva però oltre al  nucleo storico dei  bussolanti (con l’eccezione di un atipico come Veronesi) anche i milanesi dell’Unione Fotografica, semmai attirando nella propria orbita alcuni giovani della MISA, quasi a voler certificare la fine del predominio di Cavalli[152]. Sulle pagine di “Ferrania” Zannier[153] ne offrì un’interessante recensione critica, segnalando in particolare “il numero eccessivo delle opere di taluni e sproporzionata in rapporto agli stranieri la partecipazione degli italiani, con una scelta non sempre giustificata[154]. Si notava l’assenza di nomi che in una selezione nazionale non avrebbero potuto mancare, mentre alcuni dei presenti mal figuravano in una Mostra cosi importante, di carattere internazionale.” Oltre i  giudizi espressi sui vari autori, più interessanti risultavano alcune osservazioni relative agli sviluppi futuri di quella “manifestazione (…) che certamente nei prossimi anni troverà una più valida giustificazione”, augurandosi che “ l’Ente Veneziano [la Biennale] non si limiti ad accordare all’Esposizione la meravigliosa sala di Palazzo Giustinian, ma partecipi soprattutto con il suo credito (e la sua carta intestata è forse sufficiente) (…)  al fine di concedere un panorama compiuto e selezionato della fotografia internazionale. Il suo interessamento donerebbe senza dubbio a Venezia la più bella mostra di fotografia del mondo.”  Se consideriamo poi la chiusa, solo apparentemente cronachistica, che “il giorno dell’inaugurazione, la sala dell’esposizione accoglieva molti nomi noti della fotografia nazionale ed internazionale: ospite di onore il direttore di una grande rivista svizzera [Romeo Martinez, in realtà redattore capo] che è parso essere per alcune ore il centro d’attenzione dei fotografi”, possiamo meglio comprendere come ormai il gioco fosse più che avviato e i presupposti per il varo delle Biennali di fotografia compiutamente definiti, resi poi subito concreti  con l’organizzazione della  I Mostra Internazionale Biennale di Fotografia[155] che si tenne nei mesi di aprile e maggio 1957 (negli anni dispari, per non sovrapporsi alle Biennali d’arte) a Ca’ Giustinian e al Museo Correr, organizzata da Martinez, Monti e Luigi Crocenzi[156]. La novità era rappresentata non tanto dalla sezione dedicata alla Fotografia europea,  con  partecipazioni esclusivamente a invito, ma da quelle riservate ai fotografi di Vogue e della Magnum[157], poiché scopo dichiarato era “fare di Venezia finalmente l’appuntamento mondiale dell’opera fotografica con il suo pubblico [per] mostrare (…)  che l’immagine fotografica non è solo un’operazione meccanica, ma anzi è il risultato di un arte molto sottile.”[158]  Una prospettiva e un obiettivo ribaditi da Monti che nelle pagine introduttive al catalogo si augurava che quella prima Biennale potesse “diventare il banco di prova per un giudizio critico molto aggiornato sulle  tendenze della fotografia attuale e sui risultati raggiunti. (…) Voglio esemplificare queste due principali tendenze della fotografia attuale in due nomi di grande prestigio: Otto Steinert e Henri Cartier-Bresson, per rappresentare polemicamente le due posizioni estreme del fotografo di fronte alla realtà”[159].  Era il  compimento di un progetto culturale già pienamente delineato nel 1952, quando Monti  nel presentare la Mostra della fotografia italiana  aveva  richiamato la necessità di “vedere, vedere e studiare le fotografie dei migliori fotografi del mondo in grandi Mostre internazionali a invito, possibilmente periodiche”[160], ma anche di “portare il nostro modesto contributo all’affermazione della fotografia italiana, finora quasi totalmente ignorata come arte figurativa nelle manifestazioni ufficiali”. Più interessante, e per certi versi inedita e sorprendente,  la speranza che la mostra  “fosse occasione, per la critica italiana, di un vasto studio sulla fotografia di reportage: essa ci porta una testimonianza della condizione umana nei più lontani paesi ed anche di quelli che noi crediamo di conoscere perché in essi viviamo.”  Una presa di posizione che diremmo programmatica essendo quel genere particolarmente inviso all’universo salonistico, nel cui ambito ci si lamentava che “la bella fotografia, che prima era in gran parte opera di dilettanti (…) è passata in forte proporzione nelle mani dei professionisti e specialmente dei foto-reporters”[161], mentre per molti versi il confronto con la realtà costituiva il fronte etico ed estetico della nuova fotografia italiana[162]. Non che mancassero riferimenti al reportage in precedenti testi di Monti, ma si trattava per lo più di riflessioni a margine ovvero di giudizi fortemente critici, specie nei confronti del “reportage giornalistico di tipo americano che, al di fuori dell’uso contingente cui è destinato, non può essere accettato senza qualche riserva anche nei suoi rappresentanti migliori, come Cartier-Bresson…”[163]. Ora invece in quelle immagini riconosceva “il fascino delle cose vere, delle cose viste, vissute, patite. La realtà e la vita ci vengono incontro perentorie, ci chiedono la nostra partecipazione, il nostro amore o il nostro sdegno, sempre la nostra comprensione di uomini. Tale è la suggestione di queste immagini che subito dobbiamo difendere il nostro desiderio di verità ed opporre la critica al sentimento: una domanda ci tormenta: “Cosa ha potuto vedere il fotografo e cosa non ha potuto? Fin dove è imparziale la sua verità?[164] Il problema cessa di essere tecnico ed estetico per diventare morale, sociale e politico perché è, infine, un problema di libertà (…) [ Cartier-Bresson] di fronte alla realtà attende che essa gli si riveli per darcene, secondo la sua definizione, «il momento decisivo», quello  che riassume un dramma umano, un aspetto sociale, persino una situazione politica”, mentre i reporter della Magnum appaiono “tutti riuniti nello sforzo di darci la più memorabile documentazione della nostra epoca.” Opinione condivisa da Zannier, per il quale “i reporters dell’agenzia «Magnum» [erano] venti artisti-fotografi di tutto il mondo destinati a scrivere la nostra storia più intima e fuggevole”, così che “se qualcuno sin’ora aveva dei dubbi sulle possibilità autonome e complete del linguaggio fotografico, nel visitare questa rassegna certamente è portato a rettificare le sue convinzioni”[165].  Quell’attenzione per il reportage rappresentava un altro segnale dell’affermarsi del fronte realista,  presentato a Spilimbergo nel 1957, giusto a dieci anni di distanza dai formalismi del Manifesto de La Bussola,  in una esposizione dedicata a 26 fotografi italiani[166] che di fatto concluse l’esperienza del Gruppo Friulano per una nuova fotografia.  A testimoniare le contraddizioni di quel momento il catalogo della mostra era introdotto da considerazioni critiche tanto autorevoli quanto di divergenti. Così all’entusiasmo di Bezzola che “la fotografia italiana – nella sua parte migliore s’intende – ha da tempo lasciato dietro di sé le battaglie per l’acquisizione delle varie esperienze tecniche ed estetiche; superata la pesante ipoteca delle arti figurative, superato il rischio del formalismo e del calligrafismo, essa va studiando i modi entro cui attuare una propria autonomia spirituale, affrancandosi da ogni dipendenza. (…) Oggi la nostra fotografia sta riscoprendo l’Italia e gli italiani”, si contrapponeva il disincanto di Monti:  “La presa di possesso di una certa realtà italiana sembra essere la principale preoccupazione di molti tra i migliori nostri giovani fotografi, e per realtà intendiamo anche alcune particolari situazioni sociali che particolarmente nel Sud d’Italia si presentano in aspetti molto allettanti come ‘occasione’ fotografica.  Non è un caso che il Mezzogiorno sia così spesso il soggetto di molte recenti fotografie, osservazione ché può ampliarsi nel constatare come le maggiori simpatie dei nostri fotografi vadano agli aspetti più mediterranei del nostro vivere. (…) Dovremo parlare di una acuta nostalgia per una civiltà remota ma tuttora viva che potremmo definire la civiltà dell’ulivo e del gregge? Un’altra evasione dunque della vita attuale, una fuga lontano dal fumo delle ciminiere? È  troppo presto per affermarlo, ma occorre pur dire che questa corsa verso il Sud può essere del tutto giustificata solo se servirà anche a farsi la mano per narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine.”[167] Insomma – chiosava Turroni – “una nuova morale fotografica è in atto; si  ricerca la verità in ogni settore della realizzazione artistica: dal réportage (influenzato dalla lezione nord-americana), all’astrattismo  e alla corrente lirica che, pur avendo dato in passato i migliori risultati (dico, storicamente attendibili) non s’è ancora esaurita e  può riservarci sorprese per il futuro, proprio dal fondo di quella provincia che, se sfrondata dall’abulia e dal conformismo, saprà sempre offrire nuove forze, verginità di intenti, freschezza di  risultati poetici, pregnanza di costrutti realistici.” Quel richiamo culturale  alla ‘provincia’ pareva un tentativo di mediazione con la produzione salonistica contro la quale si poneva coerentemente Zannier, che parlava di “gabbia d’argento che ha racchiuso i molti raccoglitori di etichette di partecipazione a mostre, di medaglie e diplomi (…). Certamente molti pregiudizi e dilettantismi sono scomparsi (…)  si è compreso che la funzione dell’immagine fotografica non trovava limite in sé stessa, nel rettangolo di carta emulsionata, ma la sua funzione –  specifica, vitale, necessaria – è di ‘comunicare’ con il grosso pubblico, di riproporre a quanti più uomini possibile, ciò che il fotografo aveva descritto visivamente in una inconfutabile rappresentazione della ‘realtà’. Ma gli ‘artisti fotografi’  troppo spesso disdegnano e rigettano uno dei mezzi più potenti a loro disposizione, il rotocalco, preferendo che la conoscenza delle proprie realizzazioni resti limitata nel loro stesso ambiente. Addirittura termini come «réportage»,  «fotoréporter», «documentarismo», ecc., vengono usati in senso del tutto dispregiativo e limitativo di un mestiere che si ritiene adatto e necessario solamente a tenere «aggiornato» il lettore. Ma quale altra funzione è da attribuirsi alla fotografia se non quella di «documentare», di «aggiornare»; perché temere o ignorare il vero significato di questi termini? «Documentare» non significa certo riprodurre «oggettivamente»; nessuna «obbiettività» è possibile se è l’uomo, con i suoi  mutevoli sentimenti, artefice dell’immagine. Se questo sarà poeta non potrà esprimersi fuori dalla poesia; come dimenticare sé stessi, la propria sensibilità e cultura? Così «aggiornare» non significa forse proporre la situazione, l’episodio, che il pubblico vuole conoscere, attraverso la propria personalità, la propria interpretazione? Perché negare quindi al réportage quella poesia di cui almeno potenzialmente può godere e ritenerlo succubo dei fatti, della cronaca più esterna e superficiale?”  Lucidissime considerazioni alle quali non corrispondeva però la selezione dei ventisei fotografi presentati in quell’occasione che comprendeva pochi reporter in senso proprio (De Biasi, Roiter, Berengo Gardin, Patellani), ma invece molti autori variamente ascrivibili al fronte ‘realista’ e quindi almeno potenzialmente prossimi alla funzione documentaria e civile del reportage, accanto a fotografi di diversa tradizione come Cavalli, Vender e Veronesi, mostrando così una concezione quantomeno incerta ed estensiva della definizione di quel genere. La questione è per più versi interessante e credo che per essere opportunamente compresa richieda una necessaria verifica terminologica storicamente collocata, poiché l’accezione allora utilizzata doveva avere un campo semantico più ampio e dai confini meno netti di quanto si intenda oggi se è vero che Monti qualificava come reportage alcuni  suoi lavori come quello “sulle città greche dell’Asia minore”, realizzato nel corso del  viaggio in Turchia con Martinez nel 1962, che noi collocheremmo più facilmente tra le fotografie di architettura o del patrimonio storico, ed  anche quello di “artisti nei loro studi”, ma non la serie milanese delle “domeniche degli altri”,  aggiungendo inoltre che “io dei reportage non ne ho mai fatti, ho fatto solo dei reportage su degli artisti, sui loro lavori, ma sono reportage un po’ diversi già combinati con loro eccetera”[168]Quindi non pare fossero sufficienti né  il soggetto né i modi dell’organizzazione strutturale del discorso a definire un lavoro come ‘reportage’, semmai una certa omogeneità tematica, mantenendosi così lontano dal “giornalista nuova formula” delineato da Federico Patellani nel 1943[169] come dai fotodocumentari di Zavattini e Aristarco e dalle foto storie  di Crocenzi,   per limitarsi infine “al racconto per immagini, e non importa se con una o più foto”[170]. A scorrere gli interventi italiani di quegli anni[171] si direbbe che la discussione intorno al valore e alla funzione del reportage fotografico non fosse altro che l’ennesima riproposizione sotto mentite spoglie dell’annosa questione del valore artistico della fotografia, qui centrato sul nuovo e quasi pervasivo genere, del quale Monti era particolarmente interessato a indagare gli aspetti problematici. Così riflettendo sul “facile senso universale di questa esposizione così tipicamente americana” che fu The Family of Man[172] riconosceva che “mentre ci dà una prova esemplare della forza documentaria ed emotiva della fotografia di reportage, ce ne indica i limiti insuperabili”, essendo necessario e urgente “indagare quali sono le vere, autentiche e autonome possibilità espressive e documentarie del reportage, sia in una teorica situazione di ideale e totale libertà di pubblicazione, che nelle varie situazioni politiche e sociali. Definire la posizione del reporter nel mondo attuale, i suoi rapporti con l’attività dell’editore, del redattore dei testi che accompagneranno le sue foto; necessità che il reporter intervenga nella impaginazione, cioè nella lettura successiva delle sue immagini, ecc. Problemi che non sono tecnici ma di fondo perché condizionano tutta l’attività del reporter quindi la sua validità e la sua efficacia come ‘testimone del nostro tempo’”[173], seguendo in questo i dettami fondativi dell’agenzia Magnum.  Per Monti quelle riserve riguardavano  le stesse “ambiguità della fotografia”  richiamate nel suo intervento a Sesto San Giovanni degli stessi mesi, quando riconobbe che “la fotografia ci dà soltanto l’oggi (…)  ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni, siano essi storici, sociali ecc., ci dà la fase presente, ci dà quello che è avvenuto ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente, non ci da mai quello che c’era prima”[174], ovvero, come avrebbe icasticamente notato in una serie di appunti degli anni successivi, “la foto può dare solo lo spessore della superficie”, considerando perciò “l’istantanea come menzogna e deformazione della realtà”[175]. Un buon esempio del pessimismo della ragione del nostro.

La successiva edizione della Biennale, ormai senza il CCF – Centro per la Cultura nella Fotografia di Crocenzi, fu segnata dalla presenza sempre più determinante di Martinez come curatore; ruolo  che si consolidò nelle successive edizioni, sino al 1965[176],  confermando l’obiettivo di “mostrare, in sintesi, gli aspetti e le funzioni della fotografia contemporanea, adottando una formula che escluda ogni competizione, lasciando questo compito alle migliaia di mostre legate o meno a dei concorsi, che riempiono il calendario fotografico mondiale. Così pure, per ora, non intende interferire nel campo dei dilettanti”[177]. Se la prima edizione intendeva offrire “un giudizio critico molto aggiornato sulle tendenze della fotografia attuale”[178], nelle edizioni successive l’attenzione per la fotografia “soggettiva” si ridusse sin quasi a esaurirsi,  mentre si confermava quella per la fotografia come mestiere. Quindi la moda (ancora “Vogue” nel  1959) e soprattutto il reportage (i fotografi di “Life” compresa la Bourke-White e i ‘realisti’ giapponesi nel 1959; la personale di  Robert Capa e una sezione dedicata al fotogiornalismo italiano nel 1961, ma anche l’archivio Publifoto nel 1963). A questi si aggiunse una particolare  attenzione, certo determinata da spinte industriali e commerciali, per il colore nella fotografia: “Life” nel 1959;  Ernst Haas , Arik Nepo e Magia del colore, dedicata alle tendenze della fotografia a colori in Germania, nel 1961[179], un’antologica nel 1963; La fotografia e la diffusione della cultura. Medio Evo Vivo, costituita da 300 fotografia a colori realizzate da Jacques Bauer e dedicate ai “tesori dell’arte Romanica e Gotica e in Francia”[180] e Applicazioni e funzionalità della fotografia, con le personali di  Paul Huf, John Bulmer, Horst Baumann e Franco Scheichenbauer nel 1965. Si distinguevano da questo panorama piuttosto compatto le personali di Man Ray e Albert Renger-Patzsch nell’edizione del 1961 e quelle di André Kertesz (ancora negli USA a quella data) e Arnold Newman (1963), accanto alla presentazione dei  Grandi Maestri di questo Secolo,  tra i quali va sottolineata l’inclusione  di due ‘pittorialisti’ come Alvin Langdon Coburn e Hugo Erfurth,  ma anche la clamorosa assenza di Alfred Stieglitz, Walker Evans[181] e Robert Frank[182]. Il notevole eclettismo di quelle scelte pareva corrispondere solo in parte alle intenzioni espresse da Monti nel testo introduttivo al catalogo[183]: “A questo servono le esposizioni di fotografia: selezionare per conoscere, giudicare e conservare il meglio”, avendo “la periodica necessità di fare confronti e di fissare qualche punto di riferimento, altrimenti l’invadente marea delle immagini destinate al consumo immediato ci impedirebbe di ‘vedere’ quello che merita di essere ricordato”, in un contesto come quello della nascente “civiltà dell’immagine destinata a sostituirsi quasi interamente e presto alla millenaria civiltà della parola.” Le produzioni della Biennale non erano però originali poiché la maggior parte delle mostre proveniva dalle diverse edizioni  della  Photokina di Colonia,  e quella carenza di elaborazione autonoma fu in parte  all’origine delle riserve espresse da Guido Bezzola[184], che  a proposito dell’edizione del  1959 parlava di “un insieme certamente interessante, ma non forse abbastanza organico per giustificare un titolo della risonanza di quello della Biennale di Venezia. (…) Secondo noi la Biennale è troppo esclusiva e astratta. Certamente è utile mostrare le opere di cui abbiamo parlato sopra, ma è nostro dovere rammentare a tutti che esiste anche una fotografia italiana” . Giudizio ben ponderato ma forse viziato dal suo proprio punto di vista di direttore di “Ferrania”, una pubblicazione che certo non poteva competere in termini di prestigio e notorietà internazionale con “Camera”. Soprattutto Bezzola non coglieva il senso generale di quel progetto, che non aveva mai inteso offrirsi come rassegna, anzi intendeva andare oltre le “questioni estetiche, (…) piuttosto insisteremo in qualche caso sulla utilizzazione delle fotografie che ne risultano condizionate nel loro crearsi. Non terremo conto delle varie sezioni della mostra – proseguiva Monti – perché molte considerazioni sono comuni ad autori di sezioni diverse” sebbene poi  (secondo il costume corrente) si dedicasse anche lui a giudizi puntuali ma sempre collocandoli in un contesto critico ampio. Era forse l’inevitabile consuetudine che gli derivava dal frequente ruolo di giurato avuto in molte, forse troppe, rassegne italiane di quegli anni,  a partire dalla presentazione della doppia personale di Carlo Bevilacqua e Fulvio Roiter al Circolo Artistico Friulano di Udine nel 1952, nella quale formulava un principio poi ribadito e sviluppato in occasioni successive, con un esplicito giudizio critico sui vari dirigismi: “Sulle riviste fotografiche si discute spesso del soggetto in fotografia e sulla pretesa necessità di abbandonarne alcuni a favore di altri. Secondo quei retori esisterebbero soggetti moderni e soggetti vecchi e superati, mentre una sola cosa può essere detta e cioè che qualsiasi soggetto è buono se l’opera è valida per virtù di stile”, distinguendo tra fotografia come “narrazione” [Bevilacqua] e come “immagine” [Roiter] per riconoscere infine a ciascuno di loro “una sicura intuizione delle possibilità del mezzo fotografico e il rispetto dei suoi limiti, entro i quali essi realizzano pienamente le proprie visioni”[185]. “La prima qualità che si pretende da un fotografo [è] di essere essenzialmente un visivo, cioè un uomo che vede dove tutti si limitano soltanto a guardare, e che costringe a vedere” , avrebbe poi ribadito nella presentazione di una successiva mostra in cui accanto a Roiter e Aldo Nascimben presentava i propri lavori[186].

 

 

Le prime personali

 Il  1952 fu l’ anno della sua prima personale, a Roma (e chissà perché non a Venezia o a Milano), corredata da una presentazione (il suo primo scritto edito)  che costituiva un chiara indicazione di poetica: “Nulla mi sembra più inutile di tante polemiche su cosa si deve o non si deve fotografare. Si può fotografare tutto, e con la più ampia libertà di intenti e di tecnica. (…) Tutto il mondo visibile mi attrae quasi senza alcuna gerarchia di valori, e non certo per farne un confuso inventario ma per tentare di scoprire, delle molte cose viste, un aspetto nuovo ed essenziale, quasi un segreto che volta a volta sarà umano, plastico o anche soltanto decorativo. Fotografare vuol dire creare delle immagini che staccate dalla realtà dalla quale trassero origine, mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova, conclusa nei limiti della inquadratura. E in questi limiti dell’immagine è indifferente che si rappresenti un volto sofferente, una radice corrosa o un fantastico riflesso d’acqua. (…)  Mi si potrà obiettare che alla varietà delle fotografie esposte si accompagna un certo grado di incoerenza formale: accetto la critica quale prezzo della mia libertà, non senza far rilevare però che per me è essenziale l’architettura interna della fotografia, e non il suo tono dominante, o la natura del soggetto”[187]. Difficile dire di più (o meglio) per illustrare e motivare le ragioni di una produzione ancora piuttosto  eclettica per  scelta di temi e per trattamento. La ragione non risiedeva però soltanto in quella rivendicata libertà espressiva e nella conseguente ‘liberazione’ da vincoli stilistici troppo rigidi, ma soprattutto dall’aver compreso che l’efficacia di ciascuna immagine  risiedesse nelle qualità della sua propria logica interna. Se quelli erano i termini,  allora si possono comprendere meglio, in modo più evidente e chiaro le fotografie della serie dei Muri e dei Legni (nella quale comprendere anche il lavoro condotto su di un Tronco bruciato, tav. 066, che ha suggestioni più scultoree però),  avviate negli anni immediatamente precedenti e proseguite per almeno un decennio, riconoscendo che “il carattere comune di questi lavori è il tentativo di raggiungere uno stile unitario anche attraverso quelle operazioni di  camera oscura che ad alcuni puristi della fotografia sembrano inammissibili manomissioni del negativo. A questo proposito dirò solo che io non sono un purista, ma unicamente un fotografo che accetta i limiti di questo entusiasmante mestiere”[188]. Quindi aggiungeva, in una lettera all’amico Ferroni dello stesso anno,  che “i momenti più emozionanti sono quelli della camera oscura. Lì, in quella luce da acquario, nel silenzio rotto solo dal contasecondi, è il vero nostro regno, dove nasce l’immagine creata. lo non credo, contro il parere di illustri come Cavalli e Cartier-Bresson, che la fotografia sia già tutta compiuta nel negativo. La fotografia è in noi, il negativo ci serve solo a disegnarla in fretta, col prodigioso concorso della chimica e dell’ottica”[189]. E già prima, in una lettera a Mario de Biasi in cui si complimentava per le attenzioni che gli aveva riservato Cavalli[190], scriveva di avere “delle foto che sono state macinate dentro per molto tempo e poi fatte finalmente ma non stampate. Dopo altri mesi, ecco che la stampa modifica ancora una volta l’idea primitiva. Ma quel che conta è poi il risultato finale. È per questo che tutte le discussioni sui soggetti e sui metodi di fotografare e sui famosi processi interpretativi (stupida espressione!) mi annoiano e mi irritano. Contano le opere sul tavolo, lucide e sode, e che da sole devono parlare e convincere.” Poi, a conferma, in una successiva lettera a Ferroni:  “Io talvolta stampo delle prese dopo un anno e oltre e dopo averli revisionati [i negativi] una decina di volte sotto l’ingranditore senza stamparli intanto penso e studio come dovrà essere la stampa, dove aumentare i neri, dove distruggere i particolari inutili per arrivare ad una sintesi dell’oggetto. Ed è qui che entra in campo la personalità diversa di ciascuno di noi, perché dove uno conserverebbe un tono, l’altro ne distrugge venti e dove uno ammorbidisce, l’altro contrasta”[191]. Poiché infine, “la stampa fotografica, immagine oggettiva ‘soggettivata’, è quindi una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà. Se ammettiamo, il che è innegabile, che con il suo ritaglio dello spazio, la sua messa in ordine delle forme, la sua resa dei valori tonali, la fotografia è molto diversa dalla realtà che l’ha generata ma di cui è comunque l’immagine, si capisce meglio cosa voglia dire astrarre”[192].  “Una riproduzione – rifletteva Monti – non può mai essere qualcosa di amorfo, c’è sempre una scelta. Le modalità attraverso le quali riprodurre una forma non sono così semplici da spiegare e tante volte bisogna stare attenti a non sostituire la forma,  diciamo così, della realtà con una nuova forma, invece di interpretarla. Per quanto mi concerne io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[193].  Significativo era qui il consapevole arrendersi all’evidenza del primo e fondante valore documentario della fotografia, che è quello relativo al rapporto  col soggetto messo in forma, ma anche la precisa coscienza di una strategia interpretativa che scomponeva l’atto fotografico nelle due fasi distinte della ripresa e della stampa, fasi che corrispondevano anche, con tutta evidenza, ad un mutare del rapporto stesso: se nella prima questo si instaurava col reale, nella seconda esso non poteva che darsi con la sua immagine; era mediato dall’atto fotografico primario e si inscriveva compiutamente nella autonoma elaborazione del fotografo, che “attraverso tecniche precise [offriva] una interpretazione, se non mentale, se non intellettuale, almeno tecnica”[194].

Cosa Monti potesse intendere con quella sua necessità di ricorrere alla fotografia per la messa in forma del mondo, quale potesse essere per lui il significato di quell’operazione, lo rivela la citazione (parziale) da un testo di Paul Claudel sulla metafisica della Creazione che nella sua forma più compiuta  recita: “Allora comprenderemo  il significato profondo di queste parole: caso, necessità, movimento, sviluppo, unità, diversità (…) poiché la materia non può sottrarsi al nulla che muovendo verso una forma”[195], come accadeva ad esempio nella stampa dal titolo un poco provinciale di Cubismo, pubblicata nel numero due del 1953 de “Il Progresso Fotografico” (tav. 067[196].  Quella drammatica possibilità venne poi identificata da Umberto Eco[197] come quella “intenzione formativa” che,  sulla scia di Luigi Pareyson (un percorso cattolico si potrebbe dire),  rappresentava l’elemento determinante per la definizione dell’opera.  Così posto il problema,  risulta evidente che il dato fondante non era rappresentato dal riconoscimento della  quidditas della cosa fotografata (muro, corteccia, manifesto o figura che fosse) ma dal processo di restituzione  operato dal fotografo;  vale a dire, generalizzando, dalla consapevolezza dell’atto fotografico quale operazione di astrazione di quella porzione di reale dal suo contesto, cioè nella sua trasformazione in soggetto e in opera come nuovo elemento di realtà, come realtà nuova non preesistente. A maggior ragione dovevano intendersi come oggetti nuovi quei lavori  che non erano in alcun modo ‘astrazioni’ ma semmai prelievi, rilevamenti di impronte come i fotogrammi;  una pratica lunga quanto la storia stessa della fotografia, già ampiamente ripresa dalle avanguardie storiche europee poi rinnovata e celebrata nel secondo dopoguerra anche in una serie di  iniziative espositive del MoMA di New York[198] . Tutte operazioni e pratiche che in quegli anni di feroce confronto col fronte realista erano fortemente, ideologicamente osteggiate,  tanto che nel presentare la Mostra della fotografia italiana a Firenze del 1953 Monti avrebbe ironicamente polemizzato con gli esponenti  dell’Unione Fotografica scrivendo:  “Ad alcuni insospettiti amici milanesi diremo che in questa mostra non ci sono solarizzazioni (…). C’è un solo fotogramma, dello scrivente, e speriamo che ci sia perdonato”[199].

La sua seconda personale venne allestita nel luglio del 1953 presso la Bottega “Il Ponte” di Venezia, a cura della Sezione Fotografica del Centro Studi Arte Contemporanea[200].  Nella presentazione Berto Morucchio  ne  riconosceva “il gusto sofisticato (…). Ecco nascere il suo mondo, con il suo alfabeto: racchiuso in un contrasto violento di luce e ombra, scarno di tristezza esaltata, da primitivo. Anche dove predomina la sollecitazione intellettuale sa essere umano, di un’umanità paradossale (…) così sa frenare il vecchio patetismo con l’intervento di una buona dose di scetticismo mentale che fa parte delle sue qualità oggettive. È una forza nuova della fotografia italiana”[201].  Qualche  mese più tardi Monti espose a  Lendinara[202] una serie di lavori (tra i quali il Ritratto di Fulvio [Roiter], tav. 068) introdotti dal testo redatto per la personale romana di due anni prima[203]; tra i più sensibili visitatori  vi fu Ferruccio Ferroni,  che subito ne scrisse  a Roiter: “Ho visto a Lendinara la mostra personale di Monti: un complesso di opere bellissimo e nuovo. Monti sa trascinarci nel suo mondo con irreprensibile genialità, mondo di allucinazione, che non sai se vivi nella realtà o nel sogno e, per uno strano gioco di prospettive, credi di aggirarti in piena coscienza fra le cose reali, ed invece proprio allora queste ti sfumano nell’irreale.”[204] E ancora, a Parmiani, “Mi sembra che sia una cosa magnifica, col suo mondo allucinato ed inquieto. Sotto la scorza di intellettualismo che un po’ traspare dai suoi lavori, si celano motivi lirici di bellezza incomparabile. Per me Monti è il poeta della inquietudine, in questo mondo in cui più nessuno sa vedere al di là di sé  stesso”[205]. Le ragioni di quel sentire erano esplicitate in una lettera dello stesso Monti a  Ferroni:  “Ma in segreto ti dirò – scriveva –  che molte mie fotografie io finisco per odiarle perché mi rimandano l’immagine stilizzata e quindi ben più evidente, di un mondo che io detesto nelle persone e nelle cose: direi che molte mie fotografie sono una reazione e una protesta e vorrei che arrivassero ad essere un insulto. Forse queste non sono le condizioni migliori per fare dell’arte, ma me ne frego proprio perché queste cose sono quelle che debbo fare, almeno per ora. (…) Chi guarda le mie foto non ha vie di mezzo: prendere o lasciare (…).  Molti non le possono vedere, ma ormai quando sono in giurie questi egregi signori non hanno il coraggio di scartarmi e devono digerire i miei rospi. Prosit!”[206] Inevitabile allora riconoscere quel disagio inquieto come la più radicata costante della sua espressione più personale e intima, per questo assente nei lavori professionali, ma anche una forte coazione a ripetere, una volontà di sfida quasi, se consideriamo che nel periodo 1952-1967 Monti prese parte a circa quattordici  mostre  personali e sessanta collettive[207], con opere che intendevano “partecipare [delle]  molteplici e divergenti esperienze attuali e anche proporre il semplice risultato di puri esperimenti tecnici che forse troveranno più tardi compiuta espressione”[208]. Il dato quantitativo[209]  indica in maniera netta la parcellizzazione, meglio la polverizzazione di quelle iniziative di livello eterogeneo e discontinuo, com’era nella buona tradizione del tanto vituperato salonismo fotoamatoriale, nella convinzione però che fossero “le uniche manifestazioni che possano indurre il pubblico, e specialmente i giovani, a farsi un’idea abbastanza precisa dei mezzi espressivi affidati oggi alla fotografia”[210].

Erano quelli gli anni in cui ogni borgo per quanto piccolo, ogni città per quanto grande ospitava o promuoveva  una Rassegna o una Mostra, certamente Nazionale e possibilmente Artistica,  a cui Monti – che pure stava affrontando l’impegnativo passaggio al professionismo – cercava di non mancare,  dimostrando una bulimia partecipativa non indifferente, non di rado gratificata dall’assegnazione del primo premio. Così a Spilimbergo nel 1954 per il Ritratto del pittore Gianni Dova, attribuito da una giuria composta da Elio Bartolini, Fulvio Roiter, Giannni Borghesan, Carlo Bevilacqua, Novella Cantarutti e Italo Zannier[211];  quasi una dichiarazione d’intenti  se consideriamo che i membri comprendevano alcune delle figure che di lì a poco avrebbero partecipato all’avventura del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia.  Certamente estranea a quel mondo, a quella compagnia di giro quasi, era Fiamma Vigo, che dirigeva la fiorentina Galleria Numero con Alberto Sartoris e che nel 1955  offrì a Monti una personale quale esito della selezione operata da una giuria costituita da Renzo Pavanello, “il più gran competente fiorentino in materia fotografica, il Dottor Baccioni e il signor  [Giovanni] Poggiali (tutti e due fotografi), il critico d’arte Alfredo Righi”[212], segretario dello  Studio Italiano di Storia dell’Arte diretto da Ragghianti e critico del “Nuovo Corriere” fiorentino, oltre alla stessa Vigo; un’iniziativa alla quale presero parte nomi estranei  al consueto e pur ampio panorama amatoriale nazionale.

 

Piccolo mondo antico

Nell’anno successivo alla fondazione de La Gondola Monti partecipò a titolo personale a due importanti mostre italiane che si tennero a  Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, e a Milano nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[213], che costituiva al momento la sede del più avanzato confronto critico intorno alla nuova cultura fotografica, specie per merito del gruppo di giovani riuniti intorno a  Pietro Donzelli che nei mesi successivi avrebbe proposto  mostre di Henriette Grindat, Chargesheimer e Fotoform. Come ha notato Zannier[214], fu proprio la mostra di Chargesheimer nell’estate del 1950 a decretare lo strappo che portò alla fondazione dell’Unione Fotografica nel dicembre di quell’anno, ma che ci fosse aria di fronda lo mostravano già  le recensioni dello stesso  Donzelli sulle pagine di “Ferrania”, molto critiche e pungenti nei confronti di  alcuni autori presentati  al CFM: la Hoepfner e la Heinrich ad esempio, ma anche gli autori de La Bussola, con l’eccezione di Veronesi.

Monti guardava con grande interesse a quegli autori e a quelle iniziative, riconoscendo, nel 1955, che “L’Unione Fotografica di Milano, appena costituitasi (1951), con una grande mostra fotografica  proponeva allo studio dei fotografi italiani le migliori opere europee, mai viste negli originali”. Il riferimento era alla Mostra della fotografia europea che si era tenuta a Brera, da pochi mesi riaperta dopo i disastri della guerra, nell’ aprile 1951[215], “al fine di dare un panorama abbastanza ampio della fotografia europea e del carattere di questi movimenti rinnovatori” [216], rappresentati da  significative presenze  internazionali quali  Bill Brandy, Bert Hardy, Boubat, Angenend, Hammarskiold, Maraini, Pim van Os, Ronis e Lorelle, Ortiz Echague, Fotoform e La Bussola, “oltre a una ventina di fotografi italiani”. Così Donzelli, che rivendicava il fatto che “tutte le tendenze e gli ismi sono stati esposti”[217] e che un’intera parete fosse stata dedicata “alle opere degli astrattisti e dei surrealisti. Opere non facili da comprendere per chi non ha, oltre una buona cultura, una naturale predilezioni per questi modi di espressione artistica [che con] il verismo ed il neorealismo (…) sono gli ismi meno accetti dalle giurie”, ancora orientate al gusto salonistico e tardo pittorialista. Nel luglio di quello stesso anno si apriva a Venezia, a Ca’ Giustinian, la Mostra fotografica nazionale retrospettiva 1940-1950, da intendersi quale primo momento di un più articolato e coerente percorso di messa in prospettiva storica della produzione nostrana, che quale tappa successiva prevedeva la Mostra della fotografia italiana che si tenne nella stessa sede nel maggio del 1952, presentando solo opere di autori de La Gondola e dell’Unione Fotografica (con l’esclusione quindi di quelli de La Bussola) [218]. Poiché “nessuna città come Venezia, ricca di rassegne d’arte di fama e importanza mondiale, ci sembra adatta a questo compito”, era inoltre indispensabile operare affinché Venezia potesse “diventare il più grande centro d’incontro dell’arte fotografica mondiale (…). Se non mancheranno iniziativa e coraggio il prossimo anno questa speranza può diventare realtà” [219].

Ancora a Ca’ Giustinian si tenne nel 1953 l’ecumenica V Mostra nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, organizzata sempre da La Gondola, con opere di 123 autori selezionati su 210 proposti. “Successo questo senza precedenti nel campo delle mostre nazionali italiane e che testimonia il crescente interesse per la fotografia in Italia, confermato anche dalla continua costituzione di nuovi Circoli fotografici (…). A questo proposito aggiungo che il Circolo Fotografico «La Gondola» non avrebbe avuto alcuna difficoltà a formare una giuria composta unicamente di propri soci, ma è sembrato più opportuno chiedere la collaborazione di due fotografi estranei al circolo a maggior garanzia per tutti di sereno ed obbiettivo giudizio, esigenza necessaria in qualsiasi mostra e quindi tanto maggiore in questa, che deve considerarsi la più completa rassegna annuale della fotografia italiana. (…) Per molti segni si può affermare che la fotografia in Italia desta un crescente interesse: ovunque si vendono come non mai libri di tecnica fotografica, riviste estere, annuari e libri di sole fotografie, pubblicazioni tutte nelle quali è assente purtroppo l’editoria italiana e persino nel campo dei volumi illustrati di interesse turistico. Le mostre nazionali sono in continuo aumento ed è solo da temere che il numero vada a scapito della qualità, si fondano anche nei centri minori nuovi Circoli, si tengono corsi elementari di tecnica fotografica. Anche l’attività all’estero, per opera della F.I.A.F., non è più limitata all’iniziativa di qualche isolato, ma prende rilievo da importanti manifestazioni collettive. Manca ancora – proseguiva Monti – l’interesse della critica d’arte e della stampa periodica che sembra ignorare la fotografia come arte, ma modificare queste condizioni attuali è compito soprattutto dei fotografi e delle loro associazioni. Mi sia permesso ora fare alcune brevissime osservazioni personali sulla fotografia italiana come mi è apparsa da oltre 2.000 opere recenti, esaminate in tre diverse giurie. La tecnica è quasi ovunque in evidente progresso anche nel senso che si ammette finalmente che una fotografia non deve essere altro che fotografia, cioè mezzo autonomo di espressione che non tollera sleali manomissioni. Un progresso più lento si può invece osservare nell’abbandono di quei modi espressivi che erroneamente si dicono «superati» e che fanno parte di una tradizione che si richiamava a modelli pittorici di nessun valore d’arte. Si vorrebbe poi vedere in molte buone fotografie una fantasia più risentita, direi più rischiosa e in molte altre un gusto più sorvegliato dell’inquadratura, una esattezza più raffinata e anche una più sicura intelligenza delle possibilità grafiche della fotografia. È  però indubbio che la fotografia italiana sta cercando le sue nuove strade, quelle dell’arte e della poesia, ed è mia convinzione che in questa ricerca la cultura sarà di grande aiuto, non la cultura libresca ma quella diventata vita e quindi mezzo di profonda comprensione e di continua scoperta del mondo e degli uomini. Nulla si addice meglio alla fotografia delle parole di Goethe a conclusione del suo saggio sull’occhio umano: «Non si vede che quello che si sa»”[220].

Una più selettiva Mostra della fotografia italiana (e la reiterazione del titolo è significativa) ebbe luogo a Firenze alla Galleria della Vigna Nuova, con trenta autori di diverso orientamento e appartenenza[221], che nelle intenzioni dei promotori doveva mostrare “quel che di meglio è stato possibile raccogliere nel campo recente della fotografia italiana d’arte[222], rispettando ed accentuando, beninteso, tutte le tecniche e tutte le tendenze, sempre che i valori estetici fossero vivi e presenti”[223]. Da qui  la selezione quantitativamente ridotta ritenuta indispensabile per consentire l’esposizione in una galleria d’arte, nella convinzione che “tutto debba essere tentato per portare la fotografia a contatto con gli ambienti artistici più qualificati a giudicarla alla stessa stregua e con la stessa severità delle altre arti figurative, cosa che all’estero si fa ormai da tempo”. Invece “in Italia sembra che la fotografia sia fatta esclusivamente per i fotografi, unica setta autorizzata a parlarne con competenza. E quanto profonda essa sia, molti articoli di riviste fotografiche stanno a testimoniarlo, tanto che verrebbe voglia di cavarne un’agile antologia che potrebbe avere una sua edizione nei classici del ridere”[224]. Si trattava di un’ulteriore conferma dell’esistenza di due fronti nettamente distinti e duramente contrapposti che vedevano collocarsi da un lato l’élite intellettuale (e fotografica, a prescindere dagli orientamenti personali) degli autori de La Bussola, della Gondola e dell’Unione Fotografica e dall’altro il persistente fotoamatorismo salonistico rappresentato dai circoli associati alla FIAF, sostenuto da riviste quali “Il Corriere Fotografico”. Qui venne ospitata una dura, acrimoniosa recensione critica della mostra fiorentina, esplicita sin dal titolo: La montagna e il topolino. “Noi (…) abbiamo trovato una bella piccola mostra, forse un tantino più curata delle solite, ma niente di più. (…) Insomma il torto è stato di aver voluto far tremare la montagna, e la montagna ha partorito un topo, lindo e grazioso fin che si vuole, ma sempre topo. (…) Particolarmente discutibili son i lavori presentati dai tre giudici [Cavalli, Francesco Giovannini, Monti], uno per ciascuno, tenuti ovviamente dagli autori per altrettanti do di petto. (…) Paolo Monti, che pure è uno dei nostri otto o dieci più valenti amatori e di cui abbiamo ammirato tanti pezzi magistrali, ha ceduto anche lui all’imperativo del ‘nuovo’ per forza, e ciò gli è costato una autentica stecca. Ha combinato – lo avreste mai creduto – un ‘Fotogramma’, cioè uno di quei vecchi giochetti, talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. (…) Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri”[225]. Insomma, niente che per Maurizio Nèvola potesse corrispondere al progresso riconosciuto da Monti, alla convinzione che “mentre qualche fama rapidamente declina, sorgono nomi nuovi di giovani e anziani che, più che promettere, affermano la loro personalità”[226], ed erano Roiter, Donzelli, Branzi.

Ulteriori occasioni di analisi, confronto e bilancio delle condizioni e  prospettive della fotografia italiana  vennero proposte da Monti in due articoli degli anni immediatamente successivi: quello dedicato a La Gondola, del 1954[227], e specialmente quello relativo al panorama più recente, del 1955. Nel primo, quasi prendendo a pretesto le caratteristiche del gruppo,  rifletteva col consueto scetticismo sulle possibilità della fotografia come “linguaggio universale”, e fatta salva la “conquista[ta] autonomia di questo linguaggio espressivo” ne rivendicava “la completa libertà di espressione”, considerandola elemento necessario soprattutto per l’attività di un club, poiché “in questo campo di sterminate esperienze, più che le enunciazioni teoriche valgono le opere singole nei loro concreti valori”, esprimendo così forti riserve culturali sui dirigismi de La Bussola. “Non mancano – proseguiva Monti – i continui inviti rivoltici nell’intento di farci accettare alcune posizioni particolari e mentre da destra ci sollecitano a fotografare bottiglie di latte proibendoci qualsiasi accenno narrativo, da sinistra si vorrebbe che i nostri obiettivi fossero giorno e notte puntati sull’uomo, questo innocente bersaglio di troppe indagini più o meno legittime e accettabili.” Si trattava insomma di rivendicare ancora una volta la propria libertà espressiva al di fuori di ogni imposizione anche minimamente e falsamente ideologica. Non che intendesse disconoscere (storicamente, criticamente) i meriti del gruppo riunito intorno a Giuseppe Cavalli, come del resto chiariva bene giusto in apertura del secondo articolo in questione[228], poiché “il merito di quel Gruppo sta proprio in questo: di aver diffuso una coscienza artistica che oggi fra i migliori è retaggio comune (…). Le critiche al preteso formalismo de La Bussola vennero naturalmente da coloro che confondono la verità dell’arte con la empirica bellezza della natura e il dramma della condizione umana con la sbracata retorica del verismo.”  Si trattava perciò di raccogliere “più che i modi espressivi, la lezione estetica” di quei lavori, come fecero appunto i membri della Gondola, che si diedero però – e qui la differenza era programmatica – al “continuo studio dei massimi fotografi stranieri, specialmente europei”, seguendo in questo piuttosto i modi dell’Unione Fotografica, anche se – proseguiva Monti – il loro era “più uno scopo di cultura (…) che non quello di una presenza costantemente attiva come produzione fotografica dei singoli”, esprimendo così anche un giudizio critico sulle opere degli autori di quel sodalizio.  Dopo una sintetica rassegna dei nomi a suo giudizio più significativi così concludeva, coerentemente: “Qualche critico ha creduto di vedere in questo fluido succedersi di movimenti una situazione piuttosto confusa della fotografia italiana. Ma qui saremmo tentati di scrivere un elogio della confusione perché tutto ciò che è vivo si accompagna naturalmente a un certo grado di disordine. E la fotografia italiana è certamente ben viva.” Un parere radicalmente opposto a quello espresso da  Pietro Donzelli[229] in un testo amaro e sconfortato, nel quale  parlava di “quella malata di noia e mancante di personalità che è la fotografia italiana” , scagliandosi contro “l’insolito fervore di mostre che si susseguono con confortante ritmo, incentivo di attività per i fotografi allettati da premi, anche cospicui, in denaro.” La critica proseguiva puntuale e impietosa lamentando l’ignoranza e il disinteresse di molti fotoamatori (rappresentati dalla FIAF) per la scena internazionale, da cui faceva derivare “la mancanza totale di opere degne come ritratti e paesaggio, espressioni chiave di una personalità.” E inoltre, a proposito di mostre e giurie,  “se i nostri amatori dimostrano poca fantasia la colpa è da attribuirsi anche alle giurie delle mostre e all’impreparazione della critica.[230] (…) A proposito delle giurie ricordiamo un fotografo che, per esperienza, quando deve preparare i lavori per una mostra li sceglie in funzione della giuria che dovrà esaminarli. Conosce i suoi polli perché ne segue da tempo l’attività e ne conosce i gusti. (…) È convinzione di alcuni critici [leggi Monti] che le giurie debbano comprendere anche letterati, pittori ecc. Non siamo dello stesso parere perché conosciamo l’opinione che questi generalmente hanno della fotografia, [ma] la fotografia, ormai riconosciuta come fatto artistico, deve avere una critica specializzata, precisa, documentata e costruttiva perché determinante ne sarà l’influenza nei confronti dell’evoluzione. (…) A giudizio dei nostri critici anche il neorealismo non è arte (…) perché lo ritengono uno strumento di propaganda al servizio di determinati partiti. (…) Se si è succubi di tali preconcetti non si deve quindi scrivere che l’arte non ha limitazioni per esprimersi. (…) Non possiamo affermare che la nostra fotografia sia in crisi perché nei confronti di altri paesi, che denunciano veramente una stasi creativa, non abbiamo ancora percorso il cammino da essi  compiuto nei confronti dell’evoluzione.”  La riflessione sullo stato della fotografia italiana venne ripresa da Donzelli in un contributo dell’anno successivo[231] – piuttosto pretestuoso e incerto nelle posizioni – nel quale si scagliava contro gli opposti manierismi dell’ high key  e della fotografia ‘sperimentale’ e la sostanziale mancanza di personalità e idee. Soprattutto però metteva in discussione l’eredità de La Bussola e il valore della “presunta scuola veneziana” attaccando duramente Monti,  pur senza mai nominarlo, per la sua avversione alla “sbracata retorica del verismo” [232].  Ciò detto (e forse non sorprendentemente) molte loro opinioni quasi coincidevano sia a proposito della validità dei principi del Manifesto del 1947 che delle due correnti della fotografia mondiale orientate secondo i poli opposti di The Family e Subjektive[233], minoritaria questa per la scena italiana secondo  Donzelli, che pure non comprendeva la retorica propagandistica della mostra di Steichen.  Anche per Tranquillo Casiraghi[234] “ancora non pochi sono gli autori di ottime opere che hanno il solo torto di essere fermi entro gli schemi di una fotografia di maniera”, mentre Alfredo Camisa parlava di “statico basso livello della massa della nostra produzione fotografica”[235]  presentata alle mostre e pubblicata sulle riviste di settore. Sebbene si trattasse di una tempesta in un bicchier d’acqua nell’ininfluente mondo della fotografia “d’arte”, ciò che quelle considerazioni lasciavano intravvedere era il maturarsi di un contrasto per più versi insanabile, pubblicamente giocato in punta di penna che si manifestava però in modo virulento nello spazio privato e protetto degli scambi epistolari.

Il 25 agosto del 1956 si inaugurava a Pescara la  I Mostra Internazionale di Fotografia Artistica, con  la presenza di quindici stranieri e venti italiani tra i quali molti autori della Bussola e della Misa. La novità risiedeva essenzialmente nelle modalità organizzative che prevedevano la chiamata per invito e quindi l’assenza di una giuria, sebbene poi emergessero anche in questo caso alcuni limiti strutturali, puntualmente evidenziati da Giuseppe Cavalli[236], per il quale “le Mostre ad invito devono (…) superare due ostacoli contro i quali non basta volere. Il primo si presenta ai promotori ed è la difficoltà di invitare tutti quelli che se lo meritano (…). Il secondo, anch’esso difficile, riguarda invece gli artisti, i quali, in questo genere di Mostre, fanno spesso constatare che non hanno mandato le loro opere migliori. (…) A cominciare da quelli della «Bussola», parecchi dei quali (non dico tutti: Veronesi e Giacomelli, per citarne due, sono saldamente omogenei ed efficaci) accanto a fotografie pregevoli ne espongono di evidente minor impegno.”  La disamina proseguiva nominalmente riconoscendo infine che, con l’eccezione di Steinert, “questo maestro di statura europea”[237], gli stranieri  apparivano “ in complesso qualitativamente inferiori, sia pur di poco, agli italiani”, che a loro volta “si sono battuti bene. Non dico capolavori, merce sempre più rara dappertutto, ma opere belle ce n’erano parecchie.” Un quadro quasi idilliaco e pacificato si direbbe, dal quale emergevano però indizi di tensioni diverse e non risolte, come mostra il commento riservato a Ferroni, che gli appariva “impegnato alla ricerca di una nuova cifra, [in] un periodo di incertezza. Ricerca disagevole, forse perché vien perseguita più subendo la suggestione di questo o quel «credo» che ascoltando con semplicità il sentimento proprio”, mentre Parmiani non solo “sembra che abbia osservato con simpatia i tedeschi”,  ma “richiama i surrealismi  cari ad alcuni fotografi germanici, meno cari alla nostra sensibilità latina. (…) In tono minore Paolo Monti; non entusiasmano molto le due foto naturalistiche, genere difficile, ove la magica resa della materia, che contribuisce a creare la suggestione di questi piccoli mondi misteriosi,  può essere raggiunta solo attraverso il dominio perfetto della tecnica (non è facile dimenticare, per es., certi risultati strepitosi del Weston). Bello, invece, il ritratto della vecchia seduta, anche se fa ricordare con insistenza l’altro, dello stesso autore, molto simile per costruzione e forse più efficace, di un prete”[238].   Più interessante il retroscena offerto dalla testimonianza di Giacomelli, il quale informava Camisa che  “Monti con Parmiani [erano] già a Pescara da diversi giorni in attesa della Mostra. Mi è stato riferito da alcuni amici di Pescara che il dott. Monti si è lasciato sfuggire alcune parole poco simpatiche e che il dott. Novaro, il quale ospita loro, va ripetendo con insistenza. Quando verrai a Senigallia ti racconterò tutto. In sostanza posso dirti per ora che ce l’hanno con noi due e faranno in modo che all’infuori di Branzi (questo non riesco a capirlo) finiremo per non figurare più alle mostre perché piano piano ci castreranno completamente.”[239]  Una questioncella sulla quale proprio Branzi avrebbe ironizzato anni dopo chiedendo all’amico Camisa “se Monti ha rifatto pace con quelli di Pescara, se quelli di Pescara hanno rilitigato con Monti, se è stato interpellato il Cavalli, se Finazzi abbia per caso strizzato sardonicamente gli occhi?”[240]. Di fatto un rivolgimento totale rispetto alla sintonia manifestata solo pochissimi mesi prima in occasione della II Mostra Nazionale di Fotografia promossa dall’Università popolare di Castelfranco Veneto (19 marzo – 3 aprile 1955) dove Giacomelli[241]  aveva ottenuto  il suo primo riconoscimento personale “per avere espresso in un complesso di opere un’alta manifestazione artistica della fotografia”. Ancora  molti anni dopo Monti avrebbe ancora ricordato la gioia e l’emozione provate per quella vera e propria “apparizione (….) perché di colpo la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato”[242], sebbene la sua opera fosse passata quasi inosservata ad un commentatore come Berto Morucchio, che in un quadro complessivamente poco soddisfacente (“dove è la voce nuova, il nuovo talento dai lineamenti ben spiccati?”)  lo segnalava semplicemente come un autore che “rivive con una sua sensibilità la lezione di Cavalli”[243]. Il legame di stima e rispetto che  legava Giacomelli a Monti era confermato in una lettera del primo a Camisa dell’aprile 1956 nella quale ricordava la propria partecipazione “alla Mostra Internazionale di Venezia (…). Mi sarebbe dispiaciuto immensamente se avessi dovuto assentarmi a tale manifestazione, anche per il sig. Monti il quale, mi ha sempre compreso dandomi le più belle soddisfazioni”. Poi  aggiungeva: “Di al sig. Monti di non volermene, perché io ho molta fiducia in lui, e lui già sa che a me piace andare d’accordo con tutti: è così bello! Se hai modo salutami tanto il dott. Monti e il dott. Morucchio”[244] . Qualche mese più tardi Giacomelli si sarebbe  però lamentato con lo stesso destinatario “dei cattivi apprezzamenti che il sig. Monti fa su di me. Ho sempre avuto fiducia in lui. L’ho sempre difeso. (…) Immagino che qualche suo pupazzo gli abbia riferito quanto a lui più gli giovava per vedermi disprezzato. (…) Vorrei dire al Sig. Monti che, se non sa dove attaccarsi, si attacchi al tram e non a me”[245]. Nel ricordo di Alfredo Camisa[246] “in giuria c’era Paolo Monti, che poi mi chiamò (…) Andai all’inaugurazione della mostra (non ero al corrente di certi rituali) e fu allora che scopersi che si era sparsa la voce che io non esistevo, che l’autore fosse un vassallo di Monti che prestava il suo nome per presentare opere di Monti stesso. Il mondo fotografico italiano si stava svegliando; fino ad allora, infatti, aveva dormito sotto le ali di Cavalli, ma si svegliò subito male, pieno di invidie e maldicenze.” “In cielo sfrecciavano due comete: quella un po’ stanca di Cavalli e quella inquieta di Monti – avrebbe ricordato Branzi[247] –  e noi giovani eravamo risucchiati dall’una o dall’altra coda. Di fatto interpretarono il ruolo di due sommi ‘pifferai’ caratterizzati da opposti accordi. Cavalli aveva una visione crociana dell’espressione artistica, una mentalità ed una cultura raffinate, ma anche un po’ contorte, da meridionale qual era. Monti, al contrario, in costante inquieta fibrillazione caratteriale, aveva una forte componente di espressionismo nordico e le sue immagini erano scarne, tendenti all’astratto e in qualche caso all’informale, con toni contrastati e fondi. Si muoveva in una dimensione culturale che potremmo definire calvinista, comunque più europea di quella forse un po’ provinciale di Cavalli.”

Lo scontro tra ‘montiani’ e ‘bussolanti’, con Cavalli ormai in posizione minoritaria rispetto all’emergere della figura di Monti e   in profonda crisi per le burrascose vicende della Misa, tra cui le dimissioni di Ferroni nel 1954[248],  andava progressivamente crescendo, come testimonia il passo di una lettera di Ferroni a Roiter del marzo 1955 a proposito della recente mostra di Castelfranco Veneto, nella quale aveva visto emergere  “la parola nuova che ci aspettavamo e che tanto fa pensare il Cavalli. La parola nuova di chi intende la fotografia liberamente, come mezzo di espressione del proprio mondo, libero ed alieno dalle astruse forme e dai toni più o meno alti”[249]. Il clima di quei mesi, le tensioni tra i diversi protagonisti di quelle scaramucce sono ben restituiti in una lettera di Monti a Ferroni del marzo 1955 nella quale scriveva: “L’ultima tua lettera dove leggo che praticamente sei stato messo all’ostracismo dai vari membri del Misa mi ha veramente nauseato: mai avrei pensato che Cavalli potesse giungere a tanta bassezza e se mi capiterà l’occasione vorrò parlarne e dargli una lezione come si merita. Ma anche quei quattro vigliacchetti del Misa mi fanno pena e se li incontrerò a Castelfranco il 19, alla inaugurazione della mostra, dirò loro che non basta essere buoni fotografi per essere considerati uomini e specialmente uomini onesti”[250]. Nei giorni della rivoluzione ungherese e della repressione sovietica (23 ottobre – 11 novembre 1956)  la disfida  assunse precise  connotazioni politiche; così in occasione della III  Mostra Internazionale di Fotografia Artistica di Ancona che si svolse in quello stesso novembre, Cavalli scriveva a Camisa[251]: “Perdonami se, per spiegarti le nostre idee, mi sono dovuto dilungare tanto, ma è bene che voi giovani da poco entrati nella Bussola sappiate quali sono i principi che hanno permesso al nostro Gruppo di esercitare tanta influenza sulla fotografia italiana. Si cerca oggi, anche con attacchi personali, di porre fine a questa influenza; ma la stessa guerra che viene fatta alla Bussola sta a dimostrare che siamo culturalmente vivi ed operanti; se fossimo morti perché dovrebbero prendersi la pena di combatterci? Passiamo dunque a Pedro Armendariz, pardon Martinez[252]. Tu ci hai fatto sapere che a Milano Monti se lo è lavorato per bene. Io posso dirti che dopo esserselo lavorato lo ha passato nelle mani di Parmiani il quale tra pranzi, cene e gite in macchina lo ha persuaso infine ad andare con lui ad una specie di riunione in Ancona. Tutto era stato accuratamente preparato. Da Pescara erano arrivati Novaro e Simoncelli i quali passando da Fermo avevano prelevato Crocenzi ed altri quattro o cinque comunisti[253] del CCF; da Milano era atteso Monti, da Bologna come ti dicevo giunse Parmiani con Martinez. Monti non si fece vedere. Il gruppo (al quale nel pomeriggio si aggiunse Ferroni) aveva in programma la ‘critica’ della mostra di Ancona; si recarono lì, infatti, e ad alta voce dissero peste e corna delle opere esposte a cominciare da quelle premiate (…)  conclusero tutti che la mostra era «da bruciare». Dopo di che andarono a pranzo e Crocenzi espose il suo progetto di fare un manifesto «realista» ecc.  A questo punto devo dirti che da qualche tempo il comportamento di Crocenzi mi lasciava molto perplesso; so che c’è stata una riunione a Cesena con lui, Monti, Parmiani e tutta la cricca la quale lo ha persuaso a mettersi in posizione a noi contraria; so da buona fonte, inoltre, che il CCF è stato dalla polizia schedato fra le organizzazioni comuniste (…)”[254].  E Giuseppe Möder in aggiunta: “La mostra in complesso può andare, sebbene più della metà delle opere sarebbe da togliere di mezzo. Mi ha detto Giacomelli che domenica scorsa sono calati come lupi famelici i vari Novaro, Simoncelli, Monti, Parmiani e hanno detto un sacco di male delle opere esposte. Novaro, che non ha avuto alcuna opera accettata, era il più furibondo. Andava dicendo che bisognava bruciare tutto. Con loro hanno portato il direttore di “Camera” e tu puoi immaginare che razza di terremoto. Hanno detto male di te, di me e di tutti. A me queste cose mi fanno ridere perché provo tanta pena per quella gente che invece di pensare a lavorare va facendo la donna di servizio. Mi stupisco poi quando pensano di passare per persone intelligenti e sapientone”[255].

Passato ormai al professionismo, Monti viveva comunque in pieno quel clima di scontri e scaramucce tipico della fotografia amatoriale e dei rapporti tra i Circoli, nel cui contesto sembrava ricercare una propria personale rivincita sui bussolanti, emarginando  (e prendendo il posto di) Cavalli come figura di riferimento. Quasi un conflitto edipico.  “E ora dovrei dirti della mostra di Salsomaggiore (…) – scriveva Camisa a Möder – A proposito di gesti polemici stupidi: hai saputo che Roiter aveva mandato, oltre che a suo nome, pure sotto falso nome e che ha fatto il diavolo a quattro accusando la giuria di settarismo perché gli hanno accettato e pubblicato sul catalogo una della foto sotto falso nome? Dimmi tu se una persona nella posizione di Roiter deve prestarsi a fare delle figure così cacine…)”[256]. Che quella prassi non costituisse un caso isolato è confermato anche da Giacomelli: “ Sì perché alcuni  lo facevano: mandavano le foto con il nome della moglie o del figlio. Dicevano «Vinco qua, vinco là» (…) quando gli ‘amici’ hanno visto che io vincevo dieci volte e loro una, quando erano nella giuria mettevano da parte le mie cose, mica le esponevano, le levavano, non le facevano accettare”[257].   C’era però anche chi si ritraeva da quei teatrini:  “Se mi sono appartato da qualche tempo e non partecipo troppo alla vita fotografica italiana – scriveva Möder – è perché ne sono nauseato.  Camorra dappertutto, beghe personali, gente che parla male del prossimo e via di questo passo. La fotografia italiana è diventata una giungla e un pessimo ambiente”[258]. Altri, infine, inevitabilmente esclusi da quel terreno di scontri incruenti, si lamentavano di quella “organizzazione burocratica” fatta di circoli e centri di studio della fotografia (leggi Crocenzi): “si diffondono manifesti, si tengono raduni e discorsi, chiamati lavori; si fa qualche mostra e si fotografa, anche” [259].  L’assenza di Monti dalla mostra Contemporary Italian Photography che l’Unione Fotografica era stata invitata a curare presso la George Eastman House nel 1957, ritenuta da alcuni “la prima presentazione in assoluto della fotografia italiana negli Stati Uniti”[260], credo debba essere letta in quel contesto: considerando che comprendeva ben 26 fotografi tra i quali De Biasi, Branzi,  Donzelli, Berengo Gardin, Giacomelli, Migliori, Roiter, Veronesi e Zannnier. Risaltava (in parte) l’assenza di Cavalli, ormai forse considerato meno ‘contemporaneo ’, ma ancor più quella di Monti (vicino a molti di loro) che avrebbe però avuto la propria rivincita l’anno successivo con la pubblicazione di alcune sue fotografie nella sezione Around the World in Fifty Photographs di  The picture history of photography from the earliest beginnings to the present day di Peter Pollack, che riconosceva l’appartenenza di Monti “a quella corrente di fotografi italiani che ha scoperto i valori del realismo sfrondato d’ogni sentimentalismo e ha rinnegato sdegnosamente la tendenza a presentare immagini magniloquenti di un’Italia esistente solo nei sogni. (…) Sue caratteristiche precipue sono l’ardimento con cui colloca le forme nello spazio e il contrasto con cui compone neri o grigi intensi e accenti di bianco puro. Monti non cede all’astrattismo totale (…)”[261].

Ora che i gruppi e i circoli fotografici erano in via di disfacimento si definiva un nuovo scenario, nel quale prevalevano le singole personalità e gli individualismi. Lo confermava, quasi tra le righe, anche Paolo Monti in un articolo per “Camera” firmato a due mani con Martinez, che costituì l’occasione per l’ennesimo bilancio della fotografia italiana del dopoguerra. Se era vero che  “La Bussola” si stava disfacendo dopo poco più di  dieci anni di esistenza, la sua influenza aveva “portato al desiderio di rottura manifestato soprattutto dalle giovani generazioni” e “il valore dei suoi insegnamenti non poteva essere negato nel suo insieme. Il conflitto tra la tendenza in corso di affermazione e quella che l’ha preceduta – antagonismo che ci sembra essere anche di ordine metafisico, sebbene questo aspetto della questione sia stato generalmente celato – non dovrebbe farci dimenticare che, senza il lirismo di Cavalli e Balocchi, il senso dell’astrazione e i grafismi di Veronesi, senza il mondo dei valori tonali di Leiss e Vender, la fotografia italiana avrebbe difficilmente superato l’impasse in cui si è trovata per troppi anni. In un’epoca in cui i successi di questo gruppo cominciarono a imporsi all’attenzione, così come nel campo delle competizioni, poco o nulla gli si poteva opporre”[262].  Nel preciso momento in cui ne riconoscevano storicamente la rilevanza, i due autori  decretavano la fine del ruolo egemone de La Bussola. Assegnandole un posto  nella storia indicavano la fine della sua attualità  di esperienza viva, ancora feconda.

 

“Fotografia inutile?”

Con questo titolo Guido Rey aveva presentato una propria conferenza al Teatro Carignano di Torino nel 1908, qualificando la fotografia come “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è  il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[263], ma considerando il dibattito che si svolse sulle riviste italiane nel secondo dopoguerra, e ancora ben avanti sino ai tardi anni Sessanta, pare che il modo di intendere la  pratica amatoriale non fosse mutato affatto.  “Gran parte della ‘fotografia italiana’ è il prodotto della giornata di festa di un medico, di un avvocato, di un ingegnere”, scriveva  Zannier[264] nel 1956, confermando da una posizione critica quanto ancora rivendicava  il Presidente FIAF Renato Fioravanti, che parlava di “piacevole connubio dell’arte con lo svago”[265]. Era ormai chiaro che quella fotografia vissuta  come hobby non poteva far altro che “relegarsi in un angolo per iniziati, per rimatori, per prosatori d’arte. (…) D’altronde, questo modus mentale rientra in un tenore di vita, e va riferito a un’intera classe sociale, quella della piccola borghesia, da cui proviene la maggioranza dei fotografi italiani, dilettanti o professionisti”[266]. Una concezione e una pratica che Piero Racanicchi avrebbe attribuito a  una specie di “domenicalismo”[267], contrapponendole a quelle adottate da coloro che intendevano l’arte “fondamentalmente [come] una ragione di vita. (…) Forse è proprio per questo inopportuno intendere l’arte come svago che oggi, in molti circoli fotografici, assistiamo al dilagare di un malcostume, che si identifica in un aspetto dell’intelligenza e dello spirito comunemente chiamato ‘incultura’. (…) I soci di questi circoli praticano purtroppo, nella maggioranza, la fotografia con uno spirito di avventura domenicale che sarebbe meglio impiegato in una  sana attività sportiva.”  Esito scontato di quei “sacri weekends  estetici” erano quelli che Cesare Colombo definiva  “ludi salonistici”[268], mentre Pietro Donzelli si chiedeva retoricamente quanto fossero “necessari i salon fotografici? Agli effetti commerciali e propagandistici senz’altro; un tempo lo erano anche artisticamente”[269].   Erano quelle  “le infinite mostre degli amatori fatte senza nessun particolare scopo” di cui scriveva Monti; quelle “che naturalmente finiscono in quel continuo concorso di vanità personale che noi conosciamo benissimo. Io devo dire  che per aver appartenuto molti anni alla categoria degli amatori non mi metto certamente la cenere sul capo; non ci penso nemmeno. Soltanto voglio aggiungere che l’ambiente amatoriale qualche volta è abbastanza antipatico; e le ambizioni assolutamente fuori luogo e le discussioni e le continue querele di quello che si fa e non si fa e i premi ecc, sono una cosa del tutto inutile. D’altra parte questa è la scorza che bisogna rompere per trovare dentro un midollo un po’ succoso”[270].  Monti si sarebbe provato a delineare una geografia culturale della nuova fotografia nostrana in una Lettera dall’Italia destinata al numero di marzo del 1959 di “Camera” poi rimasta inedita[271], nella quale lamentava innanzitutto gli esiti delle “regole internazionali della FIAP”, che con i loro vincoli danneggiavano molti dei partecipanti alle “molte e forse troppe” esposizioni  “nazionali ed internazionali (e perfino regionali)”, “senza avvantaggiare nessuno, obbligando i visitatori alla sopportazione di una morbida noia generale nella quale il giudizio critico lentamente annega.”  Oltre il letterario esercizio di stile, l’analisi critica di  Monti individuava due aree geoculturali nettamente distinte e contrapposte sul piano della qualità delle proposte: l’una che viveva ancora “il salonismo più convinto e convenzionale (…). l’altra la Lombardia, il Veneto, le Marche, Emilia Romagna e la costa adriatica fino a Pescara”, nella quale “la fotografia si è inserita o ha tentato vigorosamente di farlo,nelle correnti più vive della fotografia europea, e non è un caso se anche la miglior critica fotografica viene da quelle parti, e basti citare Morucchio e Turroni e i pittori Guidi e Breddo.” In quella geografia si collocava la produzione fotografica più attenta alle “scuole fotografiche europee”, da quella “impropriamente definita «soggettiva»” alla lezione dei grandi reporter conosciuti anche per il tramite della I Biennale internazionale di Venezia, nella quale – come si è detto – proprio Monti aveva avuto gran parte.

Con un duro giudizio retrospettivo Ando Gilardi[272] riteneva che  sulle pagine di “Ferrania” si fossero svolti “sfiancati dibattiti: grotteschi impasti di ingenuità e malafede, presunzione e, soprattutto, omertà intellettuale, per cui ciascuno fingeva di credere alla profondità dell’impalpabile discorso di un ‘inconciliabile’ avversario”, ma è esattamente per queste ragioni  che quella rivista costituisce la sede privilegiata in cui riscontrare limiti e meriti di quel momento culturale, specie a partire dal 1958 quando – accogliendo un suggerimento di Renato Fioravanti – “Ferrania” avrebbe dedicato il proprio numero di dicembre alla Fotografia italiana.  Gli editoriali del direttore Guido Bezzola costituiscono ancora oggi una guida efficace alla comprensione di quella produzione, segnata da un imperturbabile  conformismo (“anche in fotografia la moda impera”, 1958; “oggi come oggi spaventa un poco la diffusione del luogo comune fotografico”, 1959)  e dai rischi “del decorativismo inutile, del formalismo frigido ed esteriore, delle immagini fini a sé stesse” (1960). L’insoddisfazione si manifestava anche nel riconoscimento di un diverso statuto del numero antologico, che per Bezzola (1961) non poteva ormai essere considerato un annuario ma semmai “un censimento, un reperto, uno studio stratigrafico (…) Noi vorremmo che a un certo momento questi numeri natalizi assumessero il valore di fonte, di repertorio, di mezzo di consultazione per il futuro o i futuri storici della fotografia: e rammentiamo che le ricerche non si basano soltanto su ciò che le fonti dicono, ma anche su ciò che tacciono. Se domani, la grande fotografia italiana non troverà qui i suoi nomi maggiori, sarà anche questa una constatazione storica preziosa, a suo modo utilissima.”  Un giudizio senza appello si direbbe, seppur espresso con raffinata (e un poco perfida) eleganza; quella che avrebbe poi perso strada facendo se nella Lettera agli amici fotografi del 1962  riconosceva di trovarsi  “sull’orlo di una fase gravemente involutiva”, parlando senza mezzi termini di “panorama squallido”. “Vi assicuro – proseguiva – che la scelta è stata un lavoro improbo: i tavoli di redazione erano letteralmente neri, coperti di fogli tutti neri con poche macchie bianche, e da tanto nero emergevano i soliti, triti, logori, stanchi e ripetuti soggetti: il muro scrostato coi bambini poveri, le suore nere, le vecchie nere, i preti neri, il jazzista negro, le casine nere sulla montagna grigia, le piante grigio chiaro sulla montagna chiazzata di neve, i paesaggi contrastati alla giapponese, la ragazza con i capelli sugli occhi e così via”[273], tanto che – aggiungeva Turroni[274] –  “a occhi non smaliziati, non ‘iniziati’, le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.”  Considerazioni che richiamano alla mente quelle di poco precedenti formulate da Monti nel corso del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando riconosceva che  “la mostra che c’è qui a Sesto non si sarebbe potuta fare dieci anni fa (…),  forse bisognava farla, potendo, ancora più ampia, invitando tutti e facendo una specie di inventario generale della fotografia italiana, lasciando che tutti si sfogassero a mandare, senza giuria, quello che ritengono che sia lecito far vedere al pubblico. Avremmo avuto probabilmente uno spettacolo, un’alluvione veramente rivoltante di cose volgarissime.”  Considerazione interessante ma certo riduttiva poiché non teneva conto della presenza sempre più rilevante di figure nuove di professionisti che non provenivano dall’ambiente amatoriale né si sarebbero mai misurati con il piccolo universo agonistico di mostre e concorsi: non Gilardi, non quelli che nel 1954-1956 producevano i “fotodocumentari” di “Cinema Nuovo” come Mulas, Dondero, Pinna, Sellerio, Giancolombo, Cisventi, Bavagnoli e  Samugheo  (una protagonista  assoluta delle copertine di “ Ferrania”), né altri come Marirosa Toscani e Aldo Ballo, Giorgio Casali o Alfa Castaldi. Fu proprio a  Sesto San Giovanni che Gilardi si provò a delineare una possibile via d’uscita da quella situazione di stallo, a fornire una prospettiva culturale e politica che all’epoca suscitò più di qualche perplessità[275] sebbene le sue proposte fossero inserite in un discorso molto articolato e complesso, certo il miglior intervento di quei giorni, che solo in parte toccava la questione della fotografia dei dilettanti, rifacendosi semmai, ma in modo meno politicamente schierato, alle opinioni espresse nel 1954 da Albe Steiner in una famosa lettera a “Lavoro”, il settimanale della CGIL:  “L’osservazione attenta di quanto ci circonda – scriveva –  dal Sud al Nord d’Italia, in tutti gli aspetti di denuncia di quanto c’è di negativo e che va rinnovato, e di quanto c’è di positivo nella lotta e nella vita che i lavoratori conducono per questo rinnovamento, costituisce il nuovo soggetto, la fonte di ispirazione più fresca. (…) Il tipo di fotografia cambia se cambia il soggetto, cioè se cambia il contenuto. Pensare alla campagna nella forma solita cercando il bello, per esempio, nella ragnatela controluce o nella finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato (…) non è pensare alla campagna ma è rinunciare alla campagna. E non basta cambiare i titoli perché il più delle volte la fotografia parla da sé. (…) E ancora: i laghi non come sola poesia turistica di pochi mesi, non come salici piangenti e propaganda di grandi ville private, testimoni di tempi che furono e che oggi ancora si sfruttano come arma di dominio, non come le caratteristiche barche che ormai fanno acqua o come le Vecchie reti al sole, la Torre avita o Castello solitario o quel che è peggio Riposo al sole d’autunno. Ci sono paesi che hanno bisogno d’acqua, di case, di scuole, di strade, di luce, di asili, di ospedali, di pulizia, di fogne e si fotografano da decenni come se fossero il sogno e la quieta speranza dei cittadini. Ci sono città che si fotografano come nei film dei banditi come se fossero il miraggio di sempliciotti campagnoli. E a furia di fotografare così, c’è chi crede e chi fa confusione”[276].  A Sesto San Giovanni Gilardi si era rivolto a “coloro che fotografano non per sé stessi solamente, ma anche e soprattutto per la società in cui vivono: intendendo per società qualcosa più che un cenacolo, o una categoria più o meno numerosa di colleghi con i quali, intenzionalmente o meno, si giunge a stabilire una specie di omertà: ciascuno piglia terribilmente sul serio l’altro, anche quando fra di loro ferocemente polemizzano, trattando astrusamente di scuole correnti e tendenze, in una specie di reazione a catena intellettualistica. Dal punto di vista individuale è proprio il rompere quella tale reazione a catena chiusa che indica ai nostri giorni il passaggio dal dilettantismo al professionismo (…).  La società e il mondo in cui viviamo si offrono a varie scienze come immenso campo d’analisi e di registrazione: la fotografia rappresenta uno strumento ideale, moderno e inimitabile, per misurare l’uomo e la sua condizione servendosi delle immagini. Non si comprende perché il fotografo amatore qualificato debba trascurare anche una attività di questo genere, per limitarsi quasi sempre alla fotografia celebrativa. E ancor meno si capisce perché l’organizzazione ufficiale dei circoli e delle associazioni fotografiche non debba incoraggiare e organizzare attività di interesse sociale e scientifico. Probabilmente si fa grande confusione su ciò che si deve intendere per fotografia artistica e fotografia scientifica, almeno per quanto riguarda alcuni settori di quest’ultima: sociologico, etnografico, storico, eccetera. Ma proprio per questa ragione si isola il dilettantismo qualificato condannandolo ad una ripetizione senza fine di esercitazioni calligrafiche di sapore punitivo  non solo per chi le vede, ma forse anche per chi le esegue” [277].

Negli anni del boom economico e in un’Italia in profonda trasformazione,  “mentre sorgevano nuovi campi di attività fotografica (…) mentre nascevano nuovi mezzi espressivi (la TV ad esempio) (…) la fotografia del medio dilettante evoluto è rimasta ferma: ora, in un mondo che va avanti (o almeno si muove) molto in fretta, star fermi o andare adagio  significa retrocedere, il che è puntualmente accaduto” ricordava Guido Bezzola[278].   Il passaggio al professionismo di alcuni dei protagonisti della stagione amatoriale del secondo dopoguerra come Monti e Roiter e l’abbandono della pratica fotografica da parte di figure di primo piano come  Branzi , Camisa e Ferroni,   segnavano anche simbolicamente la fine di una stagione durata poco più di un decennio. Come ricordava Cesare Colombo[279], “le mostre dilettantistiche cominciano a essere disertate. (…) L’atmosfera FIAF non è più tollerabile” e l’ironia ormai si “esercita contro chi si ostina a collezionare entry forms ed ammassi di vermeille.”  Oltre alla diffidenza nei confronti dell’universo concentrazionario dell’associazionismo, era proprio quell’esitazione, il passo sospeso sulla soglia dell’impegno professionale (e magari artistico) il segno caratteristico del tempo e soprattutto della fine del ruolo attivo e propositivo dei gruppi, che nell’arco di pochi anni avevano perduto ogni loro funzione, sfaldandosi o ripiegando su sé stessi, mentre la scena fotografica si popolava sempre più di singole personalità autoriali, autonome. Sarebbe stato poi lo stesso Monti a rimettere ancora una volta in discussione la funzione culturale del fotoamatorismo proprio (e con una certa paradossale improntitudine) in occasione dell’ennesimo premio di fotografia, quando ricordava che “poche esperienze sono così noiose e mortificanti come il partecipare a giurie di mostre fotografiche (…). È impossibile parlarne senza rabbia quando per lunghe ore sfilano davanti agli occhi cento ritratti su fondo nero di donne, bambini, adolescenti, uomini (molti del genere vagamente jettatorio) e cento paesaggi funerei da pianeta morto”[280]. Fu quella una delle sue ultime occasioni d’incontro col mondo amatoriale[281]: quell’amaro sdegno era l’esito di una disillusione, della deriva che riconosceva in quel ristretto ambiente di circoli e consorterie, di dibattiti come di pettegolezzi e ripicche che pure era stato il suo e nel quale si era formata, anche per contrasto a volte aspro, la sua coscienza di fotografo. A quel  feroce giudizio, certo fondato su di una solida esperienza di partecipante e giurato, non era certo estraneo il duro scontro maturato tra i soci de La Gondola, opponendo i più giovani come Berengo Gardin[282], Giuseppe Bruno e Giancarlo Angeloni al segretario Libero Dell’Agnese;  in apparenza per questioni organizzative, in realtà per radicali contrasti sulla politica culturale e sulla concezione stessa della pratica fotografica.  “L’idea che qualcuno nutre –  scriveva Vittorio Piergiovanni a Monti[283] – di trasformare la rinnovata Gondola in un movimento di idee e di cultura fotografica non sarebbe tanto peregrina qualora si riuscisse a riportare il Circolo a quel livello di qualità, chiarezza e preparazione che dimostrava di possedere quando tu la lasciasti.”  In realtà – nonostante i soddisfacenti impegni professionali e alcune dichiarazioni apertamente contrarie – era Monti a guidare segretamente la fronda proponendosi nuovamente alla guida del Circolo, come ebbe modo di dichiarare Bruno in una riunione dei primi di gennaio del 1960 ripresa in un’allarmata e amara lettera di Dell’Agnese[284], che rivolgendosi a Monti  (si)  chiedeva “o Lei diffidando di me ha dato ordini precisi attraverso altre persone, ovvero diversi Soci ed un ex socio lavorano indipendenti al fine di presentarle il fatto compiuto e cioè che, per acclamazione, Lei è stato nominato Presidente (…). Ora, noi siamo gente pacifica che vede la fotografia come una distensione con rapporti di amicizia ma non una fonte di disgusti, di lotte, di ambizioni.” Più colorito un successivo resoconto di Bruno[285], secondo il quale “Quando il suo nome [di Monti] è stato proposto per la presidenza effettiva ed attiva della Gondola, ha fatto trasecolare parecchia gente, ed ha smosso la diarrea al vecchio presidente. Si sono fatte un sacco di congetture. Hanno agitato i fantasmi neri delle due dittature, sbandierato la sua fama d’iconoclasta, e volpi spelacchiate hanno sussurrato un interesse economico nascosto.”  In quel clima Monti venne nominato presidente ma a fatica e di strettissima misura, tanto che la votazione dovette essere ripetuta più volte sino alla definitiva del 26 gennaio 1960.  Congratulandosi in una nuova missiva[286] Piergiovanni  chiedeva però anche di “sapere (…) la buona notizia che tu e Roiter state per dare al nostro mondo fotografico.”  Ulteriori dettagli, forse non ancora sufficienti a svelare il mistero, erano contenuti nella diplomaticissima risposta di Monti a Dell’Agnese[287], nella quale gli riconosceva il merito di aver “salvato il salvabile con grande accortezza, evitando lo sfasciarsi completo e il naufragio della Gondola. Ora un grave compito, molto impegnativo attende tutti i responsabili della Gondola –  proseguiva Monti – e specialmente la presidenza qualunque essa sia. È  una manifestazione che è a conoscenza solo mia e di Roiter e sarà una grande affermazione in Italia: è soprattutto il riconoscimento da parte della cultura ufficiale di tutto il nostro lavoro dal 1947 al 1955, ma io desidererei che in essa figurasse anche la attività successiva fino al 1959 compreso. Posso dire che mai in Italia si è presentata una simile occasione ad un circolo fotografico; capirà quindi che di fronte a ciò tutte le beghe i pettegolezzi e le fessaggini di Tizio o di Caio non possono turbarmi. (…)  È  assolutamente assurdo dire che io voglia la presidenza, ma è vero che la desidero e che la accetterò se vi sarà una larga maggioranza e pertanto pongo la mia candidatura e ritengo che nessuno possa dimostrare che ciò sia illecito e fuori luogo.”

Quella  misteriosa “manifestazione” doveva verosimilmente essere l’iniziativa promossa da Carlo Ludovico Ragghianti che sul finire del 1959 aveva scritto a  Fulvio Roiter, anche come tramite per la Gondola, per segnalargli la costituzione da parte dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa di un Gabinetto Disegni e Stampe dedicato all’arte contemporanea italiana.  “È nota la nostra convinzione – scriveva Ragghianti – che la fotografia sia un’espressione artistica autentica e totale come le altre indicate. Sino ad oggi, in Italia, non esisteva nessuna raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica. L’Istituto, anche nell’intento di portare la fotografia nell’Università e nei musei, si propone di estendere le raccolte grafiche alla fotografia italiana.” Per la costituzione di quella raccolta Ragghianti sollecitava la generosa collaborazione dei fotografi ai quali garantiva:  “a) conservazione delle fotografie in una Sezione speciale; b) disponibilità per la consultazione degli studiosi e del pubblico; c) esposizioni permanenti e periodiche di gruppi e di artisti; d) pubblicazione di cataloghi scientificamente e criticamente elaborati, a cura dell’Istituto; e) eventuali manifestazioni d’arte fotografica, nel Gabinetto e nella sala di esposizione. Se questo programma è apprezzato nella sua obbiettiva utilità per il prestigio e per l’apprezzamento dell’arte fotografica rivolgo un appello ai Sodalizi fotografici ed agli Artisti fotografici, perché diano il loro prezioso contributo”[288].  A seguito del riscontro positivo di Roiter , Ragghianti ipotizzava che “nella prossima primavera, per esempio nel marzo o nell’aprile, l’Istituto mediante il suo Gabinetto potrebbe organizzare una mostra del gruppo La Gondola, vale a dire delle fotografie d’arte 1949-55 (e ulteriori, se ve ne siano di notevoli), destinate alle raccolte dell’Istituto; tale mostra sarebbe accompagnata da un catalogo critico illustrato a nostra cura e spesa; d’accordo che il formato medio delle fotografie d’arte dovrà essere di 30 x 40 cm almeno (noi possiamo predisporre un’incartonatura e una conservazione in mobili metallici adeguati); prevengo che la sala di Esposizioni (aperta al pubblico) del Gabinetto è capace di circa 100 pezzi montati in eleganti cornici vetrate.  Se Lei dunque ritiene di potere assumere la selezione delle fotografie d’arte, mi affido alla Sua sensibilità e al Suo discernimento. Il Catalogo critico verrebbe redatto, come d’uso, da un appartenente alla mia Scuola, ma ovviamente Lei dovrebbe mandare un breve scritto di motivazione e di presentazione. Sarebbe opportuno che tempestivamente ci fossero forniti anche i dati biografici, bibliografici, museali, espositivi degli Artisti, che potrebbero essere richiesti agli stessi. Sarebbe gradita anche qualunque nota di carattere estetico e tecnico relativo alle diverse elaborazioni visuali fotografiche. Per il momento non posso muovermi, ma probabilmente entro il mese dovrò venire a Venezia per la Commissione della Biennale (dove, come saprà, ho insistito perché accanto alle mostre di pittura e scultura vi sia anche una sezione destinata alla fotografia d’arte): in tal caso L’avvertirò della venuta e del mio indirizzo,e sarò lieto di conoscerLa personalmente e di prendere con Lei ulteriori accordi.”[289]  Le missive di Ragghianti vennero immediatamente trasmesse a Monti così che potesse farsi “un’idea precisa sul progetto. Spero molto che prima di Natale il prof. venga qui a Venezia: a tre ogni cosa prenderebbe una piega senza dubbio più interessante.”[290] Non abbiamo notizie di un eventuale incontro, ma il progetto venne condotto a termine e nel maggio del 1960 si aprì all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa la mostra dedicata a Il circolo fotografico La Gondola di Venezia. Nella sintetica scheda di presentazione Monti rivendicava il ruolo svolto dal gruppo nel superamento delle posizioni de La Bussola, anche attraverso l’organizzazione delle mostre internazionali, e indicava quali fossero stati gli autori  che ebbero maggiore influenza sul sodalizio:  “fra gli altri, i fotografi francesi Masclet, Thévénet, Ronis, Doisneau, Izis, Brassaï e soprattutto Cartier-Bresson; i tedeschi Steinert e Keetman; i nordici Hammarskiold, Hassner, Winsquit, Coppens, e lo svizzero Bischof; fra gli americani Weston, Smith, Strand e altri dello staff di Life[291]. Un insieme che nel suo eclettismo confermava l’assoluta libertà di orientamento nelle espressioni individuali che aveva da sempre caratterizzato il sodalizio.

Sarebbe stato Giuseppe Turroni ad assumersi il compito di tracciare un bilancio della Nuova fotografia italiana, riprendendo un progetto sviluppato da Mario Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo negli anni immediatamente precedenti, poi bruscamente interrotto per ragioni editoriali. Quell’ipotesi di lavoro, avviata nel 1956-1958 con la collaborazione di Alfredo Camisa, prevedeva la redazione di un volume antologico dedicato alla Nuova fotografia italiana; un titolo che  l’anno successivo sarebbe mutato in Fotografi italiani d’oggi prima che il progetto venisse affossato  dall’opposizione del Consigliere delegato Tito Legrenzi[292], poiché il materiale raccolto (e già impaginato in menabò) non era di suo gradimento: “io non ci arrischio sopra 5 milioni. Il libro non si fa”[293]. Al “tramortito” Finazzi il più pragmatico Camisa chiese di “avere in prestito per qualche giorno l’impaginato. Proprio in questi giorni un editore milanese [Arturo Schwarz]  ha preso in considerazione una analoga iniziativa (sia pure in forma e con intendimenti diversi: Fotografia italiana del dopoguerra), e l’Autore del testo [Turroni]  sta raccogliendo il materiale.”[294] Non è dato sapere se Turroni ebbe modo di studiare e profittare dell’impaginato (le foto erano nel frattempo state restituite ai rispettivi autori), ma è certo almeno che accolse il primitivo titolo modificando quello di lavorazione e Nuova fotografia italiana venne pubblicato allo scadere del 1959 quale decimo numero della collana “Enciclopedia di cultura moderna”, che sino ad allora aveva ospitato volumi dedicati prevalentemente alla poesia e in misura minore alla scultura, al cinema, al teatro e al jazz[295].  Le caratteristiche editoriali erano certo diverse[296] ma il profilo culturale e  critico era certamente analogo, con una selezione in cui non solo prevalevano i fotografi amatoriali (il doppio dei professionisti) ma che registrava assenze clamorose. Non solo Carlo Mollino, che col suo Messaggio dalla camera oscura aveva fornito un contributo fondamentale alla crescita della cultura fotografica italiana[297], ma anche tutti quegli autori che non erano mai transitati per mostre e salon, che con quel mondo non avevano mai avuto a che fare. Una prospettiva critica  amatoriale in sé, analoga a quella espressa da Monti,  che non sapeva liberarsi dal contesto  dei dibattiti e delle vicende salonistiche che tanta parte avevano avuto negli interventi al convegno di Sesto San Giovanni. Quindi non propriamente la “Nuova fotografia italiana”  pretesa dal  titolo, a meno di non voler leggere tra le righe (ma con una certa forzatura)  il tentativo di  dimostrazione dell’assioma sulla fecondità degli amatori come linfa che nutre, sebbene Turroni tracciasse poi un quadro tutto sommato sconsolante di quella stessa fotografia, nel quale “il ponte della forma è storicamente attendibile, e necessario. È la spia – proseguiva –  di tutte le sovrastrutture ideologiche e intellettualistiche, avallate dai tanti cenacoli e scuole e associazioni e unioni che pullulano nel nostro Paese e talora, coi loro manifesti e programmi, riescono persino a inibire la buona volontà creativa dei giovani (…). Comunque la storia della cultura – e anche della cultura fotografica – va avanti poco alla volta. (…) . Era tempo di morte per ogni sorta di dilettantismo. La forma diventava emblema di uno specifico fotografico che tendeva a farsi riflesso di un mondo, di un costume, di una cultura. La lezione di Monti sarà decisiva”[298]. In effetti il pensiero e la figura di Monti, al quale Turroni aveva dedicato un ben più sensibile ritratto critico solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”[299], costituivano un  riferimento costante per le sue riflessioni;  quasi un fil rouge che attraversava tutto il volume, nel quale (conseguentemente)   risultava l’autore più rappresentato, con ben venti fotografie che illustravano molta della sua produzione ma escludendo ogni suo lavoro professionale, con un solo esempio delle sue ricerche più sperimentali[300].  Non solo: il critico ne ricostruiva la vicenda artistica con omissioni che non possiamo che definire  tendenziose, non potendo immaginare che non conoscesse i primi lavori di questo autore tanto amato. Scriveva infatti:  “Notiamo [nelle prime fotografie] uno spirito razionale che rifugge dalle morbide contemplazioni dei cavalliani”[301], cancellando d’un sol tratto tutta la prima produzione a tono alto (tavv. 015, 023, 037).  Un’analoga mitografia sarebbe stata riproposta molti anni dopo da un critico e amico come Antonio Arcari,  che nel testo predisposto per il fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”[302]

 

“Non documento ma invenzione visiva”

Alla fine di maggio del 1959, con Romeo Martinez a fare da tramite[303],  Monti  incontrò il grafico svizzero Fritz Bühler per mettere a punto un progetto fotografico destinato a un volume  pubblicitario per la casa farmaceutica Sandoz di Basilea[304]; un incarico al quale doveva dare molta importanza, sul quale contava particolarmente tanto da redigere un vero e proprio Diario di lavoro, che ne registrava presupposti e tappe: un documento unico nella sua produzione sino a quella fase. Altri sarebbero seguiti, legati alle campagne emiliane, ma con intenti più programmatici e didattici, mentre qui troviamo riflessioni a un tempo tecniche ed espressive. Nelle settimane successive Monti si recò a Basilea per discutere il progetto coi referenti Sandoz e in particolare col Dott. W. Corti, che avrebbe dovuto essere  l’autore del testo, al quale  sembra riferibile il proposito di richiamarsi al  “Concetto della Metamorfosi: Empedocle, Ovidio ecc. – Magia della Chimica (…)”. Con Corti valutò anche le soluzioni suggerite dal volume di Gustav Schenk, Schöpfung aus dem Wassertropfen[305], nel quale si mostravano le infinite possibilità di restituzione visuale di un elemento liquido e semplice come l’acqua. Tra le sue fonti però doveva esserci anche l’opera di Georgy Kepes  (si consideri la stretta analogia tra  alcune immagini Sandoz e Fluid Forms, 1944[306]) e in particolare la selezione di fotografie per la mostra The New Landscape[307] che si tenne al Massachusetts Institute of Technology nel 1951, un’occasione per riflettere sulle corrispondenze formali tra la più avanzata produzione artistica e il nuovo universo visuale rivelato dalla strumentazione scientifica e tecnologica. La complessa elaborazione del progetto, puntualmente restituita nelle pagine del Diario, implicava la necessità di sondare  le risposte offerte da materiali e processi diversi sino a individuare la “possibilità di operare reazioni a colori nella glicerina – Comunque ci sono ottime occasioni di ottenere forme plastiche e lente[308],  ovvero di combinare “diversi fluidi nel liquido (…) con immissione di aria o gas, ecc. in modo da ottenere diverse formazioni sia cromatiche che morfologiche. (…) Non interessano solo le reazioni chimiche, ma i colori in quanto tali. Soprattutto non bisogna basarsi sulle possibilità dei soli colori fondamentali. Occorre agire con colori artificiali in concorrenza con quelli della natura. (…) coi cromogrammi su carta ottieni disegni astratti (…) sciogliere dei cristalli di alcuni coloranti in acqua- effetto fotografico? Da provare.”  Nel volgere di pochi giorni, già entro la metà di giugno, l’attenzione si concentrava soprattutto sull’uso di colori e coloranti (escludendo quindi altre materie e organismi come sangue, muffe, embrioni), in particolare per la possibilità che questi offrivano di “formare immagini astratte” e di sfruttare a tal fine “ tutte le possibilità del movimento-sfocato – movimento di macchina – doppie esposizioni – vetri deformanti – ecc.”,  mettendo quindi a frutto, qui con larga dovizia di mezzi, molte delle ricerche sperimentali da lui condotte in quegli anni Le prove svolte nel laboratorio fotografico dello stabilimento di Basilea proseguirono sino alla metà di agosto, quando Monti incontrò nuovamente Bühler, che si mostrò “in pieno accordo anche per quelle [foto] destinate alla copertina” del volume, che il fotografo aveva immaginato “parte negativa e parte positiva, a colori o solarizzata in stampa.” Poi accadde qualcosa: il 16 settembre  gli venne formalmente comunicato  il “divieto di fare per il momento nuove foto in fabbrica”. Forse la committenza non era soddisfatta di quanto prodotto sino ad allora,  forse era mutato l’organigramma interno e si attendeva un nuovo redattore scientifico che avrebbe potuto richiedere  “una nuova (o presumibilmente nuova concezione del volume) [che] comporta una revisione di tutte le foto eseguite. (…) COLLABORAZIONE MOLTO COMPLESSA E LABORIOSA – PARTECIPAZIONE DEL FOTOGRAFO – COME E QUANDO?  (…) 16/9 POMERIGGIO: FINITO IL LAVORO – ANNULLATO IL VOLUME/ FINE”.

Oltre lo smacco per la brusca conclusione di un’impresa affascinante, quel richiamo dubitativo al riconoscimento del ruolo del fotografo, al suo contributo autoriale, che forse Monti percepì come negato o almeno ridotto a  quello di semplice esecutore, dovette costituire un ostacolo insormontabile  per la sua etica professionale, per la sua deontologia. Monti si sentì relegato al ruolo di semplice esecutore, essendogli negata la “possibilità di formare”, di “divertirsi liberamente con questo mezzo straordinario di riproduzione, ma anche di creazione delle forme più varie e nuove. (…) Le fotografie professionali non possono che avvantaggiarsi dell’esperienza visiva di un fotografo che consuma almeno  una parte del suo tempo e della sua passione per l’esperimento, per la scoperta di nuove forme della visione”[309]. Non prelievi o astrazioni dalla natura quindi ma realizzazioni ex novo, sebbene qui il punto focale non fosse rappresentato dalla verifica delle operazioni fotografiche ma dalle variazioni sul tema delle combinazioni cromatiche sperimentalmente controllate, diversamente da quanto andavano proponendo altri autori italiani stimolati e sostenuti dalla produzione di pellicole fotografiche a colori da parte della Ferrania[310]. Si riferiva certo a quell’esperienza quando scriveva, nel 1963, di  “colore come nuovo mezzo espressivo (…). Il colore fotografico come favola, fantasia, invenzione (…) non documento ma invenzione visiva, da un realismo quasi magico all’astrazione”[311] (tavv. 072, 073). Quasi una didascalia a quelle lunghe sequenze di immagini realizzate per la Sandoz su pellicola di grande formato (9×12)[312] di fluidi a contrasto, di sfocature di vetri colorati, di colature di forte apparenza materica, di “melange di colori” di diversa natura e andamento, ma anche di più drammatiche diffrazioni ottenute fotografando fogli accartocciati di cellophane (1958-1959). Ne risultavano due distinti ambiti di indagine, come avrebbe lui stesso ricordato nella sua ultima intervista: “uno è il campo delle varie materie e l’altro campo è quello della diffrazione della luce, cioè il fenomeno della luce solare che si scinde nei suoi elementi passando attraverso delle piccole fessure. E così si possono fare delle fotografie che io metterei a livello della migliore arte astratta degli anni passati o dell’informale, con la differenza che non c’è niente di astratto, perché la fotografia non fa mai l’astratto, perché la fotografia fotografa sempre quello che esiste e quindi anche quando si fa una fotografia di una forma astratta si fa una fotografia reale perché non è che sia disegnata, è davanti all’obiettivo”[313].   Così chiudeva il cerchio, mostrando tutta la convenzionalità delle etichette e delle terminologie, e producendo immagini che solo per povera convenzione terminologica possiamo definire astratte, essendo consapevoli che l’atto fotografico implica sempre una registrazione. Ciò che quelle immagini mostrano (che è cosa ancora diversa da ciò che noi vediamo) è l’esito di una restituzione del dato reale mediata dall’ottica e dalla chimica (che qui è quella dello sviluppo cromogeno), mai un’invenzione pura come accadrà più tardi con i chimigrammi,  misurandosi direttamente con le superfici sensibili, andando alle origini del processo fotografico. Qui Monti lavorava con composti chimici e materie plastiche, con filtri colorati o polarizzati, si muoveva tra estrema prossimità e massima distanza dalla cosa fotografata, controllava luci e movimenti di macchina ed era dall’interazione tra tutti questi elementi – compreso il dato reale, esterno, così come la materia della carta fotografica  – che nascevano le figure. La sua cultura visiva, gli stimoli suscitati dalle correnti pittoriche più attuali (dall’astrattismo all’informale, all’espressionismo astratto) entravano in gioco al momento dello scatto e forse della selezione successiva. Una suggestione più precisa determinava poi il momento e i modi del taglio operato nel continuum spazio temporale per definire l’immagine finale, della quale erano preordinate le condizioni ma non gli esiti.

 

Muri, Manifesti, Materie

Ritornando a considerare il patrimonio bibliografico  posseduto da Monti relativo ai primi tre lustri della sua attività professionale, si nota una significativa trasformazione nelle categorie, nei generi che lo compongono:  nella manualistica prevalgono i testi specificamente dedicati alla pratica professionale[314], ma soprattutto aumentano i titoli propriamente fotografici, con molti volumi della Guilde du  Livre e delle edizioni Clairefontaine di Losanna[315], ben note per la qualità della loro stampa in héliogravure. A quelli  si aggiungono alcuni,  purtroppo inspiegabilmente pochi, tra i più noti titoli di quel decennio, come Les Parisiens tels qu’ils sont di Robert Doisneau, Da una Cina all’altra di Henri Cartier-Bresson, Le village des Noubas di George Rodger o The sweet Flypaper of Life di Roy de Carava e  Langston Hughes, mentre sorprendentemente mancano all’appello Un paese di Strand e Zavattini[316],  la New York di Klein (di cui possedeva Roma)  e Gli Americani di Frank, neppure nell’edizione italiana.  Un più utile indizio di un interesse sempre più consapevole e preciso per le ricerche sperimentali è la presenza non tanto dei volumi dedicati alla Subjektive Fotografie[317] quanto di quelli di autori tra loro tanto diversi quali Hayek Halke, Kepes e Brassaï [318].  Se col primo è più difficile cogliere analogie nella sua produzione più nota (tranne forse che in alcune doppie  esposizioni del ciclo dedicato a Meme, di certo tra le sue prove meno riuscite),  le sistematizzazioni di Kepes e la sua stessa opera  hanno costituito un punto di riferimento per le  sue  più analitiche sperimentazioni, mentre i Graffiti di Brassaï, pur nella diversità di presupposti e intenti non potevano non suscitare una eco suggestiva in un autore come Monti che si dichiarava, con un velo di ironia “un collezionista di foto di muri, di manifesti”[319].  Tra i libri della biblioteca di Monti c’è anche  Le paysage en photographie, 1947, di Daniel Masclet, con foto in cui muri, case sventrate e palizzate costituivano pretesti per la costruzione di composizioni sempre meno narrative, più ‘astratte’. Certo l’autore francese fu un importante punto di riferimento e non è difficile trovare analogie con il trattamento dei muri che connota alcune vedute veneziane o dei piccoli centri della laguna realizzate negli anni de La Gondola[320], quando la materia delle superfici aveva un ruolo ben definito nella strutturazione dell’immagine; ma si trattava ancora di un mero accidente, di un inevitabile accessorio del referente, sebbene trattato con particolare attenzione. “I  «muri» delle vecchie isole della laguna  (che ispirarono un mestissimo e vibrante cortometraggio a Michelangelo Antonioni, regista nato da una cultura non dissimile a quella del Nostro) – scriveva Turroni[321] –  si stagliano poveri e squallidi, pietra su pietra, ciuffo d’erba su fiori e graffiature.”  Turroni ritornava sul tema  in quello stesso anno con un articolo su “Ferrania” [322] nel quale ribadiva che “l’aspetto formale, è in Monti la visione stessa. (…) Il mondo di Monti (…)  si contorce, si intellettualizza vieppiù. Dal lirico naturalismo di prima egli trascorre a un astratto espressionismo. La lezione di più progredite culture straniere (…) in lui si macera nella visione formale, si cristallizza in una estrema e amara dialettica intellettualistica. L’oggetto non è più descritto ma interpretato come ‘occasione montaliana’, [così che]  una roccia, un lago, un muro, un po’ di neve, è come perdessero, per noi, la nozione elementare di oggetti quotidiani per diventare simboli di sé stessi, inchiodati alla forma irripetibile di una rabbiosa introspezione.” Una lettura che gli veniva dalle stesse parole di Monti citate nel testo:   “In sostanza è mia ferma opinione che  non c’è cosa più lontana dalla realtà fisico fenomenica di molte fotografie che ritraggono questa realtà alterandone tutti i rapporti per il solo fatto della trascrizione fotografica. Naturalmente questa trascrizione non è automatica, meccanica, frutto dell’ottica-chimica, ma è invece una particolare visione di mondo esterno che trova nel mezzo fotografico il modo di concretarsi. È logico che visione e tecnica finiscano col reagire l’una sull’altra. La prima costringe la seconda a adeguarsi a ciò che si vuole esprimere, ma la tecnica da parte sua può all’improvviso suggerire nuove soluzioni visive.” Più convenzionale  e semplicistica la lettura di quelle  particolari “espressioni riflesse di un dato realistico” offerta nel volume antologico del 1959[323], dove Turroni distingueva i muri veneziani che “sembrano fondali di palcoscenico”, dai successivi, milanesi, dei quali riconosceva che “non vengono scelti come fondali”  di un impossibile teatro, anzi in quelle fotografie “c’è molta tristezza (…) una tristezza  laboriosa ma non sorda”,  rinunciando a ogni possibile suggestione analogica o pittorica. Si potrebbe invece riconoscere, e dire, che poco alla volta era la materia di quelle superfici a diventare protagonista (Muro e albero, 1955 ca,  tav.075;  Treviso, 1949, tav. 076, progressivamente autonoma, liberata da ogni connotazione narrativa anche in casi quali Muro, 1950 ca, tav.077,  o Muro in Rio Terrà dei Pensieri, 1949, tav.  078,  in cui la presenza di parole o disegni graffiti avrebbe potuto riportare al racconto o almeno mostrare un qualche interesse per la connotazione semantica[324], consentendosi al più un esplicito gesto citazionista, come in quell’ Omaggio all’Informale realizzato a Milano nel 1953 che rimandava  esplicitamente a Franz Kline[325], o una reinterpretazione simbolica di una traccia gestuale, come La cometa, 1957 (tavv.079, 080)[326]. Ognuna di queste immagini ci appare  come un’epifania che mostra   “quello che è avvenuto, ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente”,  come in Muro e nuvola (tavv. 081, 082), che era scoperte di un attimo  reinventato in camera oscura, sfruttando positivamente quella che nel suo intervento al convegno di Sesto San Giovanni aveva identificato come “la limitazione della fotografia”[327]. Erano accidenti offerti dal caso all’interpretazione dell’occhio, come quelli quasi coevi di Aaron Siskind  e di Lucien Hervé[328], o quelli che aveva incontrato sulla sua strada Walker Evans[329], ricavandone una serie di “wry compositions” (composizioni contorte) certo lontane dall’espressionismo di Monti, così come lo erano (nelle intenzioni e negli esiti figurativi) i Muri di Nino Migliori, che in quegli anni, pur parallelamente  impegnato sul doppio fronte del racconto sociale e della fotografia ‘concreta’,  erano per lui non solo  “un modo di manifestare l’avversione al tipo di fotografia contemporanea, al pittorialismo, al salonismo fotografico, e anche alla foto detta realistica ma basata su una ricerca estetizzante e non su un’analisi del reale”, ma anche – e qui le analogie con Monti si facevano più forti –  un’occasione e un modo per cercare “il passaggio del tempo, cioè la disgregazione della materia-muro dovuta alle intemperie, alle piogge, agli sfregamenti, ma ricercavo anche il passaggio dell’uomo (…) registravo ciò che era successo”[330]. Una produzione che aveva immediatamente attratto gli osservatori più attenti come Alfredo Camisa, che a proposito della vittoria di Migliori alla  IV Mostra Nazionale Premio Città di Padova del 1958, che lo vedeva tra i giurati,  scriveva: “Sentiremo parlare dei muri graffiti di Brassaï, forse dei muri di Monti, ma crediamo egualmente nell’originalità di questi muri, di questi muri veri, che parlano più di tanti formali ritratti o di tanto reportage non sentito”[331]. A questi nomi ormai noti va ora aggiunto quello di un outsider come Catone Ramello, riscoperto da Zannier su segnalazione di Paolo Gioli[332], che nel 1958 partecipò con Silvia Brown e Giorgio Giacobbi ad una mostra alla Galleria dell’Opera Bevilacqua La Masa (22 febbraio – 15 marzo) con fotografie di “muri veneziani”, a proposito delle quali Giuseppe Marchiori riconosceva  che l’autore si era “fatto un occhio ‘moderno’ frequentando gli studi dei pittori e leggendo molti libri sull’arte (…). A lungo interrogammo insieme i muri della città, i cantieri, le piccole botteghe degli artigiani, i luoghi sconosciuti, gli atri, le scale, i cortili, i campielli, i canali, che nessuno ‘vede’, perché non sono nemmeno pittoreschi. (…) Ramello ha voluto fissare per sé quei momenti e, forse senza pensarlo, li ha fissati anche per gli altri. Chi vorrà, potrà stabilire una serie di rapporti ideali con le differenti espressioni  dell’arte contemporanea e riconoscere in esse i più caratteristici valori ‘simbolici’ della modernità.” Il critico in quell’occasione non chiamava in causa i lavori di Monti, che invece avevano “estasiato” Ramello, sebbene all’epoca fosse troppo “timido e apprensivo” per poter anche solo osare di  entrare nella sede de La Gondola, “nemmeno trascinato con la forza”[333].

Alla Mostra della fotografia Italiana del 1953 Ferroni aveva esposto una Architettura della materia (n.7), che era la ripresa ravvicinata di un ceppo tagliato a colpi di scure. Più che un indizio dell’influenza che su di lui ebbe Monti, che in quegli anni trovava nelle diverse configurazioni dei Legni infinite occasioni di ricerca personale, da affrontare secondo intenzioni diverse. Così nei due tronchi bruciati fotografati ad Anzola d’Ossola (tav. 066), immersi nel paesaggio da cui si distaccano con la loro presenza scultorea, la forma e la materia risultavano espressione di un dramma, come fu già in Snag Near Scotia, 1938 ca, di Ansel Adams.  Tutte rivolte all’indagine delle superfici erano invece altre fotografie dello stesso periodo (tav. 083) nelle quali la materia quasi era presentata di per sé, senza altre elaborazioni che non fossero già nell’inquadratura, come accadeva anche nelle Chiome di pioppi (tav. 084), la cui leggerezza argentea si trasformava in corpo mantenendo la sua levità. Più evidenti interpretazioni espressionistiche, frutto di precisi interventi in stampa che reinterpretano i provini (tav. 085),  sono riconoscibili invece in Legno (tav. 086), che rivela forti rimandi (o richiami) ai Legni e le Combustioni di Alberto Burri, tra 1956 e 1958[334], e soprattutto nella serie dedicata alla Natura del legno (1953-1957) della quale Turroni pubblicò un esemplare nel suo Nuova fotografia (fig. 150), quindi certamente con l’assenso se non con la supervisione di Monti, in una disposizione che col porre i due nodi chiari nella parte alta dell’immagine ne accentuava la connotazione antropomorfa, mentre altre versioni della stessa immagine presentano un’inversione alto/ basso che ne accresce l’effetto di astrazione[335]. Certo è che il soggetto da cui  era più attratto, sul quale ha lavorato più a lungo con presupposti diversi è stato quello delle Rocce (tavv. 087, 088, 089); la materia più antica, segnata dal tempo. Un repertorio di forme disponibili dal quale a volte faceva emergere un dialogo, magari aspro, tra organico e inorganico, tra vegetale e minerale; un’occasione per riflettere e restituire in sintesi il confronto tra tempo biologico e tempo geologico. Un affidarsi alla forma per innescare una meditazione  esistenziale[336]. Qui torna a proposito la notazione coeva di Turroni, che  riferendosi ad analoghi lavori scriveva di “forma di reminiscenze astratte mai sopite (la materia oggi pare a un artista moderno sempre la forma di un contenuto astratto, e viceversa: una macchia su un muro è una zona di colore; per un fotografo come Monti, è un «nero» concreto, intoccabile, immobile nello spazio)”[337], ribaltando infine la nota categoria critica statunitense per parlare invece – come si è visto – di “astratto espressionismo”. Questa interpretazione critica appariva però  incerta, forse non pienamente convinta, se solo due anni più tardi parlando de “l’ultimo periodo di Monti [che] è contraddistinto dalla serie delle rocce, delle pietre, delle muffe”, ne riconosceva le  derivazioni “dalla pittura informale, nucleare, concretista, che dir si voglia. (…)  [Monti] vuole trasmetterci la bellezza delle cose, che lo sguardo spesse volte non coglie, tanto è distratto dalle apparenze, dalle esteriorità”, per concludere infine – con una notazione che il fotografo non credo potesse condividere – che “in questo, Monti si avvicina – per una prestigiosa abilità tecnica – alla fotografia scientifica”[338].

Il dibattito relativo allo statuto estetico di quel genere di immagini era in quegli anni particolarmente vivo, polarizzato intorno a due opposte interpretazioni. Per  Umberto Eco  “l’artista che scopre la natura come formatrice è dunque in fondo un critico dalla intuizione sicura che scopre analogie tra i comportamenti dell’arte e quelli del caso, e carica i secondi delle intenzioni dei primi (…); il fotografo colto e sensibile, attento alle tendenze stilistiche della pittura contemporanea, gira per la strada e individua accadimenti materici di indubbia suggestività. E da un lato li trova, e inquadrandoli, scegliendoli li propone, dall’altro li costruisce effettivamente poiché fotografandoli completa le possibilità del materiale con la scelta di una angolatura, di un dato tipo di luce, di un maggiore o minore ravvicinamento all’oggetto”[339]. Opposta l’opinione di Giuseppe Marchiori, per il quale “a un certo punto, col gusto che corre, si rischia di scambiare un ‘oggetto trovato’ con una vera scultura. (…) L’informe assume una forma, che gli scultori del nostro secolo hanno rivelato, mettendone in luce l’armonia e la bellezza. (…).  Ma lasciamo le radici nei boschi e i sassi nei fiumi, nel loro ambiente più vero. Collocati nelle mostre alimentano assurdamente il paradosso della natura che imita l’arte”[340]. Certo il critico veneto non si riferiva alla fotografia anzi, con scelta per più versi ambigua, l’articolo era illustrato proprio da una serie di fotografie di “accadimenti materici” di Monti, che si direbbero selezionate quale ‘documento’, quale esempio possibile di “oggetto infernale, misterioso e simbolico, che eccita la fantasia, ma che non induce alla contemplazione”, senza tener conto del forte, intenzionale carico interpretativo dell’autore fotografo a cui invece si riferiva Eco. In anni a noi più prossimi è stato Claudio Marra[341] a sostenere che “non convince l’interpretazione naturalistica dell’Informale avanzata da Eco [ma che già fu di Francesco Arcangeli[342]], e soprattutto non funziona perché alla fine le fotografie di muffe, ruggini e quant’altro, pur nascendo secondo lo statuto anti-pittorico proprio del ready-made, finiscono per risultare apprezzabili in quanto del tutto simili alla superficie di un quadro informale.” Se è ammirevole l’intento di superare le più superficiali letture analogiche, questa tesi offre però nel complesso una plausibilità critica più apparente che teoreticamente fondata per almeno due non secondarie ragioni: a fronte di queste operazioni, di questi prelievi reinterpretati, pare improprio richiamare lo statuto specifico del ready-made, mentre sarebbe semmai più fecondo adottare quello di object trouvé rielaborato, come lascia facilmente intendere, considerando anche il significato e il senso della materialità delle cose, proprio l’incommensurabile distanza tra  la superficie di una stampa fotografica e quella di un dipinto informale.  E infine, e soprattutto, è da tempo venuto il momento di smetterla di porre la questione in questi termini riduttivi e schematici di ‘combattimenti’ tra arti visive per provare a misurarsi con le ben più complesse e osmotiche culture dell’occhio.

Poi, dalla metà degli anni Cinquanta, i muri divennero elemento e supporto di altre “astrazioni involontarie”, una locuzione a cui Monti ricorreva sovente in quel periodo, tanto da  far supporre un progetto di serie poi non realizzato, come sembra suggerire anche una delle categorie del suo soggettario per le pellicole in formato 6×6 che recita “Astratto nei manifesti”. Con quel titolo identificava quello che era  forse il suo primo esempio di fotografia di questo soggetto, del quale conosciamo almeno due varianti, diverse per inquadratura e contrasto tonale, a conferma ulteriore del suo costante processo di elaborazione nel passaggio dalla ripresa alla stampa finale[343]. In quelle prime immagini – ma anche in Manifesto strappato, 1955 (tav. 093) e Fine di un manifesto,1962-1965 (tav. 094) – l’oggetto era presentato decontestualizzato, esaurendo in sé  le ragioni dell’inquadratura ed era dotato di una sua elevata figurabilità.  Certo quella Astrazione involontaria (così la titolazione autografa) richiama irresistibilmente alla mente i lavori di Mimmo Rotella e di altri artisti che confluiranno nel gruppo del Nouveu Réalisme di Pierre Restany, presentato per la prima volta a Milano  alla Galleria Apollinaire nel 1960, ma il senso di questa “astrazione”  appare lontano dalle ragioni di quei décollage, a proposito dei quali  Restany  parlava  di “moralità intrinseca del gesto dell’artista (…) ancor più dell’emergere, nel manifesto lacerato, di nuove forme direttamente scaturite dalla realtà sociologica, capaci solo per questo di trasformare radicalmente la nostra visione dell’universo che ci circonda (…); in una parola, ancor più di questa efficace e poetica ricarica della realtà, Rotella ci trasmette un messaggio di cultura, di umanità e di speranza”[344]. La visita alla personale dell’artista alla Galleria del Naviglio[345] di Milano nel 1955  poteva aver  confermato a Monti le possibilità  di questi soggetti come materiale artistico, ma vanno considerati due altri aspetti di non secondario rilievo. Come accade per le architetture, anche la maggior parte delle sue fotografie di manifesti strappati è in bianco e nero[346]; non si presentano quindi come un  prelievo, come  un object trouvé ricontestualizzato e risemantizzato, ma come l’esito di un processo di astrazione che libera l’oggetto dal contingente preservandone la sola natura di traccia di una ‘cosa’, senza alcuna intenzione o funzione emblematica, esistenziale. Non va dimenticato inoltre che i manifesti di spettacolo (dal vaudeville al cinema e al circo), specie nella loro condizione degradata da strappi e lacerazioni casuali (quasi l’esito di una scrittura automatica) avevano costituito un tema non così inconsueto nella produzione fotografica di molti maestri statunitensi, da Edward Weston (Pulqueria, 1926) a Walker Evans (Torn Movie Poster, 1930); da Frederick Sommer (Orminda, 1947; Venus, Jupiter and Mars, 1949) al Willian Klein di New York, (1956) e Tokyo (1961). Autori che si confrontavano con un paesaggio urbano più precocemente segnato dalla grafica di comunicazione di massa, quella stessa che si sarebbe imposta in Europa solo negli anni del secondo dopoguerra. Della genesi ‘realistica’ di quelle immagini avrebbe parlato lo stesso Monti, ricordando che “quand’era di moda l’astratto e l’informale, espressioni che ancora altamente stimiamo, le soddisfazioni non mancavano e sono molte tutt’ora. Macchie, manifesti strappati, lebbre preziose di colle e umidità varie e anche immagini surrealiste uscite dagli strappi multipli di manifesti sovrapposti. Collages o meglio décollages di alta qualità e grandi dimensioni per la delizia dei solitari camminatori notturni”[347].  Da questo brano  emergono molte suggestioni  e rimandi a una possibile genealogia iconografica, ma soprattutto riecheggiano ancora le parole di Eco a proposito della  macchina fotografica, che “ora viene invitata a trovare occasioni informali, macchie, graffiti, tes­siture materiche, colate, graffi, scrostature, secrezioni, gromme, stria­ture, lebbre, escrescenze, microcosmi di ogni specie approntati dal caso sui muri, sui marciapiedi, nella fanghiglia, sulla ghiaia, sui legni di vecchie porte, sulle massicciate o nelle colate di catrame non anco­ra steso, variamente calpestato e rappreso” [348], innescando un processo di riconoscimento ben descritto circa gli stessi anni da Ernst  Gombrich nel momento in cui riconosceva che ” l’arte è una fonte frequente di nuovi interessi. Artisti contemporanei come Rauschenberg sono rimasti affascinati dai motivi e dalle trame dei muri degradati, con i loro manifesti strappati e le macchie di umidità. Sebbene non mi piaccia Rauschenberg, devo ammettere con disappunto che non posso fare a meno di notare questi elementi in modo diverso da quando ho visto i suoi dipinti. Forse se la sua mostra non mi fosse così dispiaciuta, il ricordo sarebbe svanito più rapidamente. Poiché il coinvolgimento emotivo, positivo o negativo che sia, favorisce sicuramente la memoria e il riconoscimento”[349]. Diverse nella concezione e nel senso erano invece altre riprese milanesi tra anni Cinquanta e Sessanta nelle quali il manifesto pubblicitario veniva  letto come elemento costitutivo della scena urbana;  quasi che Monti avesse voluto realizzare un reportage dedicato a quell’ “aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino” di cui diceva Argan[350], attento specialmente a sottolinearne la funzione di controcanto (Manifesti a Milano, 1957, tav. 097), secondo una linea genealogica  rintracciabile in  alcune riprese di Giuseppe Pagano[351] come dei fotografi della Farm Security Administration.

Tra incarichi professionali e ricerche personali  si dipanava in quegli anni tutto l’arco dell’attività montiana, dalla fotografia di  architettura alla grafica editoriale e pubblicitaria, di cui è ottimo esempio quella Sovrimpressione d’un albero, 1953 (tav. 098)[352], che nel 1962 venne utilizzata come copertina per il disco della Capitol dedicato alla Sinfonia concertante di Joseph  Jongen (tav. 074) . L’immagine presenta forti analogie con  Multiple Exposure Tree, Chicago, 1956, di Harry Callahan (tav. 099)[353] sia per quanto riguarda le modalità di realizzazione – ottenuta per mascheratura e rotazione in fase di stampa – sia nel titolo, che risulta una traduzione quasi letterale nelle due lingue della stessa operazione. Non sussistono ad ora elementi per comprendere se si sia trattato di  un interessante (e certo non nuovo) caso di ‘migrazione’ iconografica, senza che sia dato comprenderne la direzione, ovvero dell’esito sorprendentemente coincidente di ricerche condotte parallelamente dai due autori, come sembra indicare l’appartenenza di ciascuna di queste immagini a serie più ampie e variate, che in Monti comprendevanoanche esemplari a colori, sebbene dai risultati meno convincenti.

Era stata proprio quell’ostinata capacità di non disgiungere urgenza espressiva e pratica professionale che lo aveva di fatto imposto come modello per molti e come la figura più autorevole della fotografia italiana, a partire almeno dal 1959, anno dell’edizione italiana del volume di Pollack, della partecipazione alla mostra Photography at Mid-Century[354],  e della celebrazione fatta dall’amico  Turroni, sebbene poi in quelle occasioni fossero proprio le esperienze più innovative ad essere taciute o almeno poco considerate. Fu la pratica sperimentale a costituire l’elemento di continuità dell’operare di Monti, a segnarne la volontà continuamente ribadita di mettere alla prova le proprie competenze come di verificare le potenzialità linguistiche che potevano scaturire dalla  “violazione di tutte le consuete norme tecniche”.  Ciò che  mi pare  gli studi precedenti hanno indicato in modo meno chiaro, presentandoli quasi come due aspetti schizofrenicamente separati, è però il fatto che quelle ricerche oltre ad avere una valenza autonoma erano strettamente collegate alla pratica professionale. Si trattava di “fotografia sperimentale in bianco nero e colori per associazione alla grafica e alla pubblicità”, come lui stesso scriveva nella breve nota biografica redatta per la mostra a Il Diaframma del 1967. E poi, basti considerare le date: se escludiamo alcune solarizzazioni variamente trattate, debitrici del Veronesi più ‘naturalistico’ degli anni de La Bussola[355], vediamo che le prime verifiche sperimentali (stampe in negativo[356], fotogrammi, sfocature e movimenti di macchina con effetti di mosso controllato) risalivano tutte agli anni successivi al suo passaggio al professionismo ed anzi si concentravano particolarmente nel periodo che chiuderà proprio con la mostra del 1967, sebbene già le sue prime Intenzioni fotografiche del 1948 indicassero varie  tecniche sperimentali. Una serie di verifiche che per Monti dovevano comprendere le “nature silenti”, quel genere di composizioni  “ove entrino elementi, siano o no tradizionali, per giungere sino alla completa assenza di oggetti ‘reali’ cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”[357]. Definizione tanto sottile quanto dirimente, specie rispetto alla genericità del dibattito di quegli anni, perché si fondava su di  una chiara riflessione sulla stessa ontologia fotografica, ribadita in un contributo di quasi un decennio più tardo nel quale riconosceva come fosse “in un certo modo, impossibile parlare di fotografia astratta senza cadere in contraddizioni”[358], specificando semmai (in perfetto accordo con quanto scriveva Arcari circa gli stessi anni, ma certo con echi di Minor White) che è proprio del fotografare (del fotografico diremmo oggi) attuare sempre un processo di “astrazione”, portato alle ultime conseguenze poi in quella “immagine oggettiva ‘soggettivata’” che è la stampa fotografica finale, pienamente convinto (con citazione balzachiana) che “Far concorrenza allo stato civile delle cose, competere con la realtà sottomettendosi ad essa ma con lei rivaleggiando, è uno dei più grandi privilegi della fotografia”[359].  Questi, esposti con la sua consueta lucidità, i termini della questione, gli elementi che gli consentivano di precisare  quel processo da cui originarono immagini che trattenevano un qualche legame col reale da cui erano derivate (come i muri, i legni, gli stessi manifesti strappati), distinguendole dalle fotografie che diremo concrete, determinate dal misurarsi con due elementi fondamentali del linguaggio fotografico come la luce e il tempo, nelle quali – come scriveva Arrigo Orsi – “si arriva a sopprimere il soggetto, a farne a meno”[360]. Meno disposto alla comprensione critica di quei lavori era in quegli anni un esponente della generazione precedente come Guido Pellegrini, che deprecando le  “tendenze astratte oggi di moda”, parlava di “figurazioni ermetiche, oscure concezioni di riflessa introspezione”[361], mentre Pietro Donzelli – che pure apprezzava un autore come Chargesheimer – considerava “la fotografia astratta [come] un modo per eludere il problema sociale, per spersonalizzare la cultura; un modo di isterilire la necessità creativa del realismo”[362].   Se la scena fotografica italiana si mostrava ancora restia (quando non apertamente ostile) ad accogliere le ricerche sperimentali, riconoscendone la ‘legittimità’ quasi al solo Veronesi e alla attività dei grafici,  in ambito internazionale la situazione era sostanzialmente diversa: la Subjektive Fotografie certo, ma anche le iniziative promosse  dal  Department of Photography del MoMA[363], mentre in Europa un periodico come “Art d’aujourd’hui” nel già citato numero del 1952[364] pubblicava una serie di fotografie alle quali Monti deve aver guardato con profondo interesse. Era però “Camera”, un suo punto di riferimento importante in quegli anni, a prestare un’attenzione crescente[365]  a quella che veniva variamente definita come “fotografia sostanziale” (Fritz Gruber, 1956), “fotografia pura” (Grignani, 1957) e infine “fotografia creativa” (Monti, 1964). Una definizione apparentemente dotata di  minor precisione ed efficacia, giustificata però dalla necessità di non qualificare come “sperimentale” ogni fotografia astratta, distinguendo “l’astratto estetico dall’immagine astratta funzionale, in altre parole: distinguere tra ciò che procede dall’espressione e ciò che è il risultato di un’indagine”[366]. Negli anni in cui si diffondeva l’interesse sociologico per la fotografia come “arte media” (Calvino 1955-1958; Bourdieu 1965) furono proprio le pratiche  ‘sperimentali’ a sollecitare  le riflessioni di alcuni intellettuali europei di formazione strutturalista e semiotica, da Roland Barthes a Hubert Damish e Umberto Eco. Ne è buona testimonianza il numero de “L’Arc” del 1963 che raccoglieva, insieme ad alcuni saggi critici, una lunga intervista multipla a dieci fotografi europei particolarmente attivi nell’ambito di quella che i francesi chiamavano “photographie de composition”[367]. Le dettagliate risposte di Monti (forse le più articolate) accoglievano ampiamente le suggestioni delle domande poste da Frantz-André Burguet, considerando già qui il ruolo svolto dal caso, che “viene in aiuto di chi se lo merita (…); per tutti quelli che ne comprendono l’importanza può fornire degli esiti suscettibili di divenire in seguito motivo di ricerca sperimentale.” Esemplari in tal senso i movimenti di macchina (con oggetti, con luci) e  gli sfocamenti, che furono certo il contributo più personale di Monti alle ricerche sulle modalità espressive del linguaggio fotografico. Prove forse non immemori delle insegne luminose in movimento che Lucio Fontana aveva predisposto nel 1952 per le trasmissioni sperimentali della sede RAI di Milano e che avrebbero dato origine al Manifesto del movimento Spaziale per la televisione[368], ma ben distinte per modalità ed esiti da quelle dei fotografi che negli anni ’50 si dedicavano alla produzione di “Luminogrammi” e “Lichterspuren” (scie luminose), che presentavano invece analogie – e non solo formali – con la pittura gestuale di Hans Hartung e soprattutto di Georges Mathieu.  Queste sue verifiche, linguistiche ed estetiche a un tempo,  avevano scarsi riscontri anche nella fotografia che andava variamente sotto il nome di ‘soggettiva’ [369] e piuttosto che alla scena europea, da Otto Steinert a Pim van Os o Joachim Lischke o persino Raul Hausmann, mostrano corrispondenze con le sperimentazioni di derivazione Bauhaus della scuola di Chicago, da Henry Holmes Smith a Harry Callahan, ma qui con un di più di fenomenologico e visualmente ricco di suggestioni formali, certo debitrici della pittura non figurativa europea di quegli anni.  Mi riferisco in particolare alle immagini utilizzate per due copertine di “Domus”[370]  del 1961 ma realizzate alcuni anni prima e per l’occasione sottoposte a una rielaborazione grafica a colori, nelle quali la stampa in negativo, riduceva ulteriormente l’originario carattere di traccia di quel segno letteralmente fotografico che già aveva affascinato Paul Klee all’inizio del ‘900[371]. Erano, quelli, momenti di verifica che Monti avrebbe sempre considerato fondamentali: scivendo a Martinez nel 1956 si era complimentato per “le nuove rubriche [di “Camera”] sulla fotografia sperimentale e quelle sul movimento in fotografia e sui piccoli particolari mi sembrano molto opportune per  sviluppare in tutti, fotografi e non, il senso della visione. È un campo che mi interessa moltissimo e dove ho fatto qualcosa anch’io e che intendo sviluppare anche per ragioni professionali”[372]. Ancora nel 1981 avrebbe dichiarato che “la fotografia (…) è molto interessante soprattutto se si entra nel campo della sperimentazione; cioè se si cerca di usare quest’apparecchio e questi prodotti chimici nel modo più vario, al di là di tutte le regole (…). Vedere cosa avviene, per esempio, facendo le fotografie muovendo la macchina (…). Fare degli sfocamenti, delle sovraimpressioni, dei fotomontaggi, eccetera. Io sono del parere che la fotografia è sì un documento, ma è anche più del documento, cioè è anche un prodotto della fantasia, dell’immaginazione, di tecniche nuove che si possono anche inventare, ognuno per sé”[373].

Tra i primi esempi noti di sfocature comparivano le due versioni di  Cardo sulle rovine, 1954 ante (tav. 044; tav. 046);  immagini dolenti nelle quali ogni elemento era fuori fuoco, quasi a esprimere una constatazione muta della distanza da cui ormai si guardava alle tracce lasciate dalle distruzioni dell’ultima guerra, incommensurabilmente più efficaci della variante di ripresa caratterizzata da una maggiore profondità di campo  (tav. 045) [374]. Circa degli stessi anni era anche la serie dei nudi[375] (tavv. 104, 105, 106), uno dei quali presentato a Padova nel 1956 col titolo di Nudo trasfigurato, nei quali la massa corporea perdeva di riconoscibilità e si offriva quale generatrice di forme a cui le ombre davano una solidità quasi scultorea. Ancora nel 1965, quando un’immagine della serie venne esposta al Worcester Art Museum insieme ad opere di Bill Brandt e Lucien Clergue, Stephen B. Jareckie,  notava come “il dorso e il braccio sinistro della figura nella stampa Nudo  sono leggermente fuori fuoco e la texture della pelle è ridotta al minimo. Quando si vede questa fotografia per la prima volta sembra una composizione astratta, ma da uno studio più attento emerge la forma della figura”[376].  Una procedura di astrazione che connotava anche riprese di poco successive come quella utilizzata per la copertina del numero di giugno 1967 di “Roto C”, il magazine aziendale della Ciba destinato ai medici, che mostrava due ginocchia femminili accostate, nelle quali la diversa pigmentazione della pelle rimandava  ai pregiudizi razziali discussi in quella stessa sede da Silvio Ceccato[377].   Quelli del 1956 furono i soli nudi a destinazione pubblica, mentre altri, più corporali e intimi, erano riservati all’intimità complice; a quel gioco di voyeurismo erotico tra fotografo e modella che ha una tradizione lunga quanto l’intera storia della fotografia (e una diffusione di analoga ampiezza); un gioco destinato a passare dal buio della camera oscura a quello dell’archivio personale per essere poi (forse) votato alla distruzione, sino a che gli esiti della ricerca storica trasformano quelle immagini in sguardi privati consumati in pubblico[378]. Le altre prove di quegli anni rientravano più specificamente nell’ambito delle ‘invenzioni’ linguistiche, a partire dagli Alberi (tav. 109, da accostare ai più tardi Riflessi di un albero, 1969[379]),  nei quali si instaurava una tensione dialettica tra i due piani della rappresentazione e della restituzione dell’oggetto, con la conseguente determinazione di uno spazio che risultava reinvenzione ottica di quello fisico, del referente; una modalità di costruzione dell’immagine che mostra forti analogie coi lavori  del belga Julien Coulommier, tra gli organizzatori della mostra di Bruxelles del 1957 dal problematico titolo di Images Inventées, alla quale prese parte anche Monti[380]. In alcune prove più tarde (Fiore sfocato, 1971, tav. 110; Felci, riflessi deformati, 1974, tav. 111)  l’applicazione di mosso e fuori fuoco portava invece all’invenzione di nuove forme, che è quanto già accadeva nelle diverse varianti degli Effetti di diffrazione e sfocamento del 1959 (tavv. 112; 113) realizzati in studio con pellicola a colori e forse non immemori dello Studio per film  astratto, 1943, e delle proiezioni a luce polarizzata, 1958, di Bruno Munari[381], mentre tutte le prove condotte con elementi naturali (molte delle quali realizzate ad Anzola d’Ossola) erano in bianco e nero. Una differenza che sembra rimarcare quella distinzione tra invenzione e reinvenzione che possiamo riconoscere anche nella costante attenzione riservata al tema dei Riflessi, inaugurato da Edward Steichen con Late Afternoon – Venice, 1907[382] e sempre più frequentato a partire almeno dagli anni  Quaranta (Harry Callahan e Siegfried Lauterwasser tra gli altri) come fenomeno generatore di forme graficamente astratte. Una serie di lavori che Paolo Morello ha interpretato come  l’avvio di fatto della “serie delle Astrazioni involontarie”[383], senza considerare appieno, direi, la rilevanza dell’aggettivo: la distinzione fondamentale tra immagini trovate (e quindi  “involontarie”)  e immagini costruite a partire da un elemento di realtà per quanto effimera come un riflesso. La ricezione di quelle immagini da parte del nostrano pubblico delle mostre e delle pubblicazioni fotografiche dovette però essere più che problematica e ciò spiega forse la scarsa diffusione di quelle sue prime sperimentazioni[384], orgogliosamente presentate però come sole protagoniste della mostra inaugurale de Il Diaframma nel marzo del 1967, quando Lanfranco Colombo scelse  una serie di lavori recenti (la sua prima personale dal 1958) per inaugurare la propria galleria milanese[385]. Una  scelta che dà l’esatta misura della considerazione di cui allora godeva Monti e – di riflesso –  di quanto potesse valere il suo nome (quasi un imprimatur) per avviare quell’inedita impresa della cultura fotografica italiana.  Non un’antologica quindi  né tantomeno un’occasione celebrativa, ma la presentazione di lavori in corso, ricerche personali di un autore che con grande coerenza  non intendeva troppo distinguere né tantomeno separare la propria attività professionale dalle sperimentazioni più spinte.  Tutte prove recenti a colori, frutto di doppie esposizioni, filtraggi cromatici e sfocature; ultimi esiti di una ricerca che datava da almeno un decennio.   “In questo vario e affannoso operare [dettato dalle urgenze del lavoro professionale] diventa difficile trovare il tempo per pensare alla fotografia non come mestiere ma come mezzo per esprimere qualcosa di personale. Eppure – scriveva Monti[386] – è necessario: l’unica strada per progredire è fotografare non solo per i committenti ma anche per sé stessi, per amore della fotografia, usando tutte le possibilità della tecnica e tutte le emozioni dell’animo.” “Nella fotografia l’immagine è ‘dentro’ il supporto, dentro come in uno specchio e la carta lucida, quasi metallizzata, contribuisce a questa illusione; così il mezzo più preciso, scientifico di riproduzione della realtà fisica delle cose, ce le presenta spesso come illusorie apparizioni ricche però di una più precisa esterna apparenza. (…) Molte di queste fotografie registrano in parte l’azione del caso (…). Altre fotografie sono il lavoro di ogni giorno”[387].   Spazzati via d’un colpo i sofismi delle iniziative amatoriali, erano ormai altri e più impegnativi i compiti e più raffinati gli strumenti di cui poteva disporre la migliore cultura fotografica italiana, ben testimoniati dalla citazione di Umberto Eco posta in esergo al testo per Il Diaframma, fatta a memoria:  “anche l’utilizzazione del caso ha un’apparenza di atto formativo autentico.”[388] A quella che il semiologo aveva definito come “estetica dell’oggetto trovato” Monti aggiungeva altri elementi, celebrando le “possibilità di questo prodotto scientifico industriale che è la carta fotografica, materiale che io considero vivo come gli alchimisti parlavano del mercurio quale argento vivo. La carta fissa le immagini, registra le tracce, rivela le impronte e i segni e qui sono sperimentate queste varie possibilità e l’ultima, quella del chimigramma, ci riconduce all’esemplare unico uscito dalla cosciente violazione di tutte le consuete norme tecniche.” Il ricorso insistito a termini quali traccia, impronta, segno, conferma le suggestioni culturali di quegli anni, mentre il richiamo esplicito, quasi un appello alla violazione delle regole imposte da quello che Vilém Flusser avrebbe più tardi definito l’apparato fotografico[389], segnava la distanza con le  coeve Verifiche di Ugo Mulas[390].

 

Fotogrammi e chimigrammi

L’interesse di Monti per la fotografia off-camera traspariva già dalle sue prime Intenzioni fotografiche, tra le quali erano compresi anche i “fotogrammi ottenuti per proiezione”; una modalità espressiva poi costantemente praticata nel decennio successivo (tavv. 062, 102,  114, 115) come indicano anche gli esemplari presentati in alcune mostre o inviati a Minor White nel 1957.  Non risulta invece che in quel periodo si dedicasse alla produzione di chimigrammi, che risalgono quasi esclusivamente agli anni Sessanta, come si può desumere da un confronto con i pochi esemplari datati. Quando, nel corso della già citata intervista pubblicata ne “L’Arc” del 1963, venne chiamato a rispondere se “si possa fare della fotografia che sia solo di camera oscura, senza oggetti né materiali (…)? E se sì, che differenza vedrebbe tra fotografia e pittura?”  Monti rispose confermando (ma la domanda a quella data era ormai retorica) che “bisogna dire che è comunque possibile creare immagini di laboratorio che si possono definire astratte utilizzando solo la luce, la carta sensibile e gli agenti chimici, senza alcun intervento ottico o meccanico. Queste immagini sono ‘uniche’ allo stesso modo di un quadro e sembrano dipinti, ma non sono ‘fotografie’. Sono risultati grafici ottenuti con l’ausilio del materiale fotografico e il loro valore artistico dipende dalle capacità dell’autore.” La tipologia di  immagini a cui si riferiva era quella del  “fotogramma [che] è la semplificazione estrema del processo ottico-chimico che dà origine all’immagine fotografica. Nel fotogramma, infatti, viene eliminato l’intervento della fotocamera e nei fotogrammi per contatto viene eliminato anche l’obiettivo dell’ingranditore.” È così possibile comprendere meglio  il senso della negazione precedente e della messa tra apici del termine fotografie, col quale sembrava indicare solo le immagini convenzionali realizzate con un apparecchio fotografico. “Ma esiste ancora una possibilità estrema – aggiungeva – di creare immagini che, almeno etimologicamente, possiamo qualificare come fotografiche, operando solo con l’ausilio della chimica sulla carta sensibile. (…) Naturalmente queste immagini non sono riproducibili: sono monotipi eseguiti con tecnica fotografica”[391]. Erano i chimigrammi o “chimigravure”, come le chiamava Pierre Cordier, di cui Monti possedeva un esemplare della serie Visage, 1966 (tav. 116).

Stabilito che si tratta di immagini per definizione uniche (e fanno amaramente sorridere le tirature commerciali di ‘fotogrammi’), resta indispensabile chiarire le differenze sostanziali, ancor prima che estetiche, tra fotogrammi e chimigrammi, precisando meglio le distinzioni ancora approssimative indicate da Monti. L’elemento determinante è da ricercarsi nella eventuale presenza del referente, dell’oggetto matrice del quale nel fotogramma la luce traccia la presenza contingente,  segna il contatto con la superficie sensibile senza altre mediazioni. Nella grande famiglia dei chimigrammi invece il referente materiale quasi sempre scompare (tavv. 117, 118, 119) . Qui la sola traccia che permane (perché permane, certo, ed è costitutiva) è quella del gesto compiuto dall’autore: gesto che si manifesta nel tracciamento di segni, nelle manipolazioni e nei trattamenti fotochimici e fisici applicati. Sebbene per Monti “il legame indissolubile del fotografo col mondo esterno” rivestisse una “forza morale”[392], nei chimigrammi operava sulla specifica materialità e potenzialità delle emulsioni, senza rimandi ulteriori. Senza alcuna narrazione, senza porre in atto alcuna ‘astrazione’ dalla realtà; senza nessuna intenzione né possibilità di registrare un tempo che non fosse il qui ed ora della sua realizzazione. Qualcosa che li avvicinava (al di là delle apparenze) proprio alla pittura informale, che “conosce solo la dimensione del presente, non cerca un prima e un dopo alla fisicità cruda e alienante della materia e del gesto”[393].  Per questo le fotografie che ne risultarono non possono definirsi altrimenti che concrete, poiché “il concreto è il non astratto”, come scriveva Max Bense[394]. Stampe materiche, sebbene la materia sia forse difficile da discernere di primo acchito, compressa com’è nello spessore infinitesimale dell’emulsione, emergendo solo (semmai) in aree distinte per diversa diffrazione della luce, dove i prodotti chimici l’hanno più fortemente incisa o condensata d’argento. Opere che implicano e ci impongono una relazione diversa per poterle comprendere appieno; che obbligano al confronto diretto e certo impoverite da ogni operazione di riproduzione, per quanto inevitabile per la loro diffusione e conoscenza. Il numero sette di “Imago” (1965), il bellissimo periodico pubblicato da Bassoli Fotoincisioni con la direzione artistica di Michele Provinciali,  conteneva tra altre cose una cartellina con otto tavole fotografiche a colori, poste sotto il titolo Chimigrammi (Paolo Monti tra fotografia e pittura), così presentate da Antonio Arcari: “Sulla scia delle proposte avanzate da Weston e Siskind, Moholy-Nagy e Man Ray, Heinz Hajek-Halke e la Subjektive, il fotografo-pittore ci presenta 8 immagini nuove, uniche, irripetibili, preziose”[395], corredate da un breve testo dell’autore[396] che riproponeva concetti e considerazioni già espresse nell’intervista citata. Esito inevitabile dell’incongrua congerie di riferimenti avanzati da Arcari era la lettura equivoca di quei lavori, testimonianza evidente della difficoltà di maneggiare criticamente questa categoria di immagini, rivelata del resto anche dalla loro collocazione “tra fotografia e pittura” e dalla sorprendente qualificazione dell’autore come “fotografo-pittore”[397], per certi versi avallata  dallo stesso Monti. Era la stessa difficoltà mostrata pochi anni prima da Turroni nel presentare analoghe opere di Migliori[398], quando piuttosto singolarmente sosteneva che “per vedere e analizzare queste foto astratte di Antonio Migliori nella loro giusta luce, non occorrono né una cultura né una intelligenza speciali”. Concezione quantomeno curiosa, che riduceva quei lavori a semplici “esperimenti (…) al di fuori di ogni considerazione critica o estetica”, accostandoli alle opere dei fratelli Pomodoro,  “che sono i meccanici e i fabbri della pittura”, e al dripping di “Pollock che, come un imbianchino impazzito, spruzza colori e vernici su tele enormi (…). Sono figure di artisti moderni che (…) intendono esprimere il gusto d’oggi incerto e caotico, sfuggente e allarmante, in bilico tra l’indifferenza morale alle voci dello spirito e l’ossessione di nuove forme, nuove strutture, nuovi esperimenti. (…) Consideriamo ora queste foto di Migliori. Ne dobbiamo dare un giudizio estetico? Preferiremmo di no. Ci interessa, per contro, la testimonianza di questo esperimento, e la dimostrazione di un duplice scambio: pittura-fotografia, fotografia-pittura”, che è  quanto avrebbe rimarcato Arcari alcuni anni dopo. Di quello scambio presunto potrebbe essere testimonianza un raro esempio di disegno di Monti riferibile ai chimigrammi (tav. 120), ma  credo invece che esso  debba essere inteso come elemento di un procedere, di un processo di progettazione e previsualizzazione all’interno del quale era anche possibile  “controllare almeno al settanta per cento i diversi toni di colore, anche in termini di ripetitività in sperimentazioni successive”[399].  Una pratica – non sappiamo quanto sistematica – che riduceva in parte l’aleatorietà del processo e che trovava riscontro (certo solo come procedura) nella progettualità di Hans Hartung[400]. Una modalità operativa che pare confermata da un gruppo di chimigrammi non datati (tavv. 121, 122, 123) che per la ricorsività dello schema compositivo si presentano come vere e proprie variazioni sul tema, come esiti di un’indagine specifica sulle possibili metamorfosi dei materiali che già aveva improntato il lavoro per la Sandoz nel 1959, ottenuti adottando specifiche modalità di intervento, sulle quali sarebbe tornato in una più tarda intervista[401]. “Brucio la carta – spiegava Monti  a proposito dei chimigrammi – esponendola migliaia di volte più del necessario. Una esposizione di mezz’ora al sole provoca evidentemente delle trasformazioni nei sali d’argento perché poi, toccandola appena con un rivelatore, si generano delle tinte color ruggine, bellissime. (…)  è necessario alternare l’uso del rivelatore con quello del fissaggio, tamponare l’uno con l’altro. I migliori risultati sì ottengono così. (…)  si possono ottenere tinte ruggine, bluastre, rosate. (…)  Esponendo i fogli a sorgenti di calore si hanno grossi fenomeni di ossidazione. I colori più straordinari compaiono sulle carte lucide normali (…), non finirò mai di meravigliarmi nel vedere come possano apparire così belle tonalità cromatiche su materiali concepiti per il bianconero. (…)  Una strada da tentare è quella di una rielaborazione di immagini stampate tradizionalmente, secondo tutte le regole, ma fissate solo parzialmente: un supporto nuovo per operare un chimigramma. È  una avventura fatta di spugnature sullo sfondo, di batuffoli di cotone imbevuti di rivelatori a concentrazione e temperatura diverse, di acidi molto densi oppure magari corretti con coloranti.”  L’esito di quelle prove costituisce un corpus di immagini, datate tra il 1960 e il 1970[402], in cui (specie tra le prime) chimigrammi puri si alternavano a loro combinazioni con fotogrammi di elementi naturali (fiori, le amatissime felci di talbotiana memoria) che lui chiamava significativamente “impronte” (tav. 124), figure che ricordavano “quasi un fossile” (tav. 125). Quelli successivi erano privi di elementi referenziali, e quindi figurativi, e certo vivevano di infinite, possibili analogie con molta produzione pittorica coeva (da Jean Fautrier a Toti Scialoja, per fare solo due nomi), ma senza quella drammaticità esistenziale e concettuale che le era propria. Altri esemplari più tardi, intorno o dopo il 1965, erano invece decisamente gestuali (tavv. 126, 127): pure esplosioni di segni e colature tracciate dai chimici sulle superfici sensibili. È in questo misurarsi con la materia della fotografia più che nella loro apparenza che possiamo comprendere le possibili analogie con le diverse declinazioni della pittura informale, da confrontare (in una futura indagine) con quanto – almeno in Italia[403] – andavano facendo autori come il già citato Migliori  o Pasquale de Antonis, più noto come ritrattista e fotografo di moda, ma autore anche di fotografie astratte e chimigrammi che vennero presentati a Roma, presso la Galleria L’Obelisco, nel 1951 e nel 1957, sebbene con modalità che certo ne sminuivano il valore e la forza, se Leonardo Sinisgalli poteva descriverli come “divertissement photographyques (…) un passatempo dentro la sua fatica, l’hobby dentro il suo job”[404]. A questi nomi va certamente aggiunto quello di Enrico Genovesi, che fu  direttore di “Diorama”[405] e autore di una serie di notevoli fotogrammi pubblicati in Nuova fotografia italiana (pp.103-109), di cui curò anche l’impaginazione e progettò la sovracoperta.  A proposito di questi lavori Turroni parlava di “sperimentalismo che non ha nulla di schematico (…).  Questo interesse per l’informale’ è mutuato dalla pittura più che dalla subjective photographie; anche in questo caso l’esempio di Monti appare decisivo. Da esso peraltro Genovesi si discosta con modi e forme autonomi (…),  ci restituisce in un ambito immediato il sapore di una nuova visione della realtà, di un più acceso interesse della fotografia verso la sensibilità contemporanea. I fotogrammi di Genovesi sono in tal senso degni di nota. Pensate a una fotografia spuria, che abbia perduto le ragioni del proprio operare  ‘facile’, commerciale o emotivo, e che al tempo stesso abbia incontrato le sorgenti di significati assolutamente liberi, svincolati dalla ingenua trafila dei giochi astratti. Pensate a un ‘informalismo’ che esula dai limiti dell’immagine e si arricchisce di introspezioni delicate. Siamo di fronte a una ‘materia’ che respira, che si riverbera in incanto cosmico, di plastica e ‘naturale’ bellezza”[406]. Una chiusa ‘poetica’ che mostrava ancora una volta l’incapacità di accogliere il senso di quelle operazioni, che muovevano semmai dalle ragioni esplicitate da Chargesheimer nella conferenza milanese del 1950: “l’uomo ha scoperto il caos e segue l’impulso creativo per dargli forma. Il caos lo costringe verso la  pura forma, verso la forma primaria delle cose. Allo stesso modo mi ha spinto a liberare la forma sconosciuta della materia. Il mio sforzo era quello di produrre coscientemente questa contingenza e di esercitare un preciso controllo sul suo andamento. (…) una composizione libera di linee e superfici, e per includere tutte le occasioni del caso in queste composizioni. Gli strumenti sono diversi e possono solo essere utilizzati intuitivamente: agitare, strofinare, graffiare, raffreddare, riscaldare, utilizzo di acidi, basi (…) solo per citarne alcuni”[407].  In una testimonianza di molto successiva[408] Monti avrebbe assunto una posizione più incerta, quasi revisionista, dapprima rivendicando orgogliosamente di aver esposto alcuni fotogrammi  “a Venezia che hanno avuto un certo successo e di cui ha parlato abbastanza bene Carluccio” (“ Le macchie, le corrosioni, gli strappi sono momenti attivi del caso che trovano nei chimigrammi precise rispondenze e una profonda rigenerazione”[409]), per ridimensionarne  drasticamente poi il senso e il valore, ricordando che  “questi fatti che sembrano lontani dalla vera fotografia fatta con la macchina fotografica, invece non lo sono  perché tutti questi esperimenti servono poi a stampare meglio, a comporre meglio sia nel quadrato che nel rettangolo che nelle altre forme; creando queste forme anche a mano s’impara poi a farle attraverso la macchina fotografica, attraverso un mirino”. Un’altra manifestazione di understatement montiamo diremmo, essendo difficile ridurre al rango di semplice esercizio il migliaio di prove che ci sono pervenute o la stessa loro pubblicazione su “Imago”, ma non si può neppure – come ha fatto Valtorta[410] – parlare  di “ ‘provocazione’, probabilmente, alla radice delle esperienze astratte e delle sperimentazioni (…) iniziate da Monti per gioco ma comunque condotte sempre con lo stesso rigore tipico della produzione professionale e di ricerca.” Né provocazione né gioco, ma neppure realizzazioni strumentali “che poi rivende all’industria, in ragione del forte impatto visivo, del potere di evocazione, ed anche di una certa disponibilità che queste immagini hanno ad accogliere grafica ed iscrizioni”[411].  Consultando l’archivio Monti è facile verificare che quando ciò è accaduto si trattava sempre di fotogrammi (le posate di Ponti, tav. 128) o di doppie esposizioni, né si può accostare a quelli il lavoro condotto nei laboratori Sandoz, che fu tutt’altra cosa in termini sia tecnici che concettuali. Non appare neppure plausibile l’ipotesi che i chimigrammi fossero legati “a quella distruzione della forma che ha avviato già nei primi anni a Venezia”[412]. Si trattava semmai – all’opposto –  di costruzione di nuovi  oggetti visuali, di generazione di inedite porzioni di realtà, non di distruzione condotta “per strappare un segreto alle cose”[413].  Più pertinente e centrata la notazione critica, anonima ma verosimilmente attribuibile ad Arcari, contenuta nella bozza di progetto di mostra dedicata a Paolo Monti, poi non realizzata, in cui si riconosceva che le “ricerche e sperimentazioni (…) non sono state solo un modo di provare strumenti e materiali, di collaudarne le qualità, di conoscerne la duttilità, ma di verificare la possibilità del proprio mezzo linguistico nell’adeguarsi alle tendenze artistiche del nostro tempo: astrattismo, ricerca materica, informale”[414].

 

“Ritratti/ Artisti”

La presenza di questa categoria nel soggettario di Monti conferma la rilevanza che riconosceva a quei lavori ben oltre il semplice incarico professionale, come testimonia anche la loro ricorrente presentazione in mostre nazionali e internazionali, da Spilimbergo a Bordeaux  e Rochester, e la  ricca antologia che ne fece Giuseppe Turroni per il suo volume del 1959[415].  Al suo arrivo a Milano Monti aveva potuto contare su di un’importante conoscenza, un altro membro della diaspora veneziana attratto dalle possibilità milanesi come Carlo Cardazzo (a sua volta possibile tramite di conoscenza con Carlo Scarpa[416]) che nel 1946 aveva aperto in città la Galleria del Naviglio  per estendere l’impresa avviata con la  veneziana Galleria del Cavallino (1942), poi diretta dal fratello Renato[417]. Primo frutto di quella collaborazione fu il volume del 1954 dedicato a  Capogrossi, con testo di Michel Seuphor, che originava dalla mostra alla galleria milanese dell’anno precedente. Negli anni successivi, in un momento in cui il ricorso alla fotografia si avviava a costituire la privilegiata strategia di comunicazione del mercato dell’arte,  i contatti si estesero ad altre gallerie come la milanese Galleria del Milione, per la quale documentò specialmente lavori di scultori (Milani, Minguzzi, Negri), la filiale romana della Marlborough o la  De’ Foscherari a Bologna per le quali Monti realizzava non solo riproduzioni delle opere destinate ai cataloghi e alle riviste d’arte, ma anche cronache degli allestimenti, dei vernissage (tav. 129) e ritratti ambientati negli studi degli artisti.Non considerando la lunga serie dedicata alla nipote, fondata su presupposti diversi, Monti si misurava col genere del ritratto dichiarando che le sue simpatie, quindi le sue intenzioni e motivazioni andavano a quello “psicologico”[418], sebbene precisasse poi (ma molto più tardi) che “quando faccio delle foto sono molto cinico, per me una testa è un oggetto, quel che mi interessa quando riprendo un personaggio sono i rapporti di luce, poi considero l’uomo: senza un certo distacco non si riesce a fare i ritratti”[419]. Un’impostazione convintamente  “soggettiva” si direbbe,  sebbene poi proprio quelle fotografie  non incontrassero l’approvazione di Steinert che per Subjektive Fotografie 2[420] del 1954 scelse “tre Venezia e nessun ritratto”, “ ciò che – chiosava Monti – mi ha messo un sospetto e cioè che voglia restar solo a esporre ritratti steineriani”[421], ammesso e non concesso che quelli di Monti avessero qualcosa a che fare con quelli del collega tedesco. “Nel complesso non mi pare che a Saarbrücken sarò neppure rappresentato con quelle cose che io ritengo più alte.” “Hai visto il nuovo Subjektive? Anche questo inferiore al primo perché Steinert sta spingendo le sue tendenze grafiche alle estreme e quindi false conseguenze”[422]. Cosa potesse intendere per e come potesse coniugare indagine psicologica e composizione formale lo si può meglio comprendere studiando proprio i ritratti di artisti, caratterizzati da soluzioni ogni volta diverse ma accomunate in una formula che prevedeva la compresenza di un’opera a fare da sfondo, da contesto o da interlocutore muto, allo scopo di connotare precisamente il soggetto.Significativo in tal senso quello di Umberto Milani[423], ridotto ad un’ombra portata sulla Plastica parietale da lui realizzata per il Padiglione del Soggiorno alla X Triennale (1954); quello “nucleare” e quasi disintegrato di Enrico Baj (tav. 132) o quello di Arnaldo Pomodoro al lavoro[424] (quasi un’eccezione nella produzione di Monti), mentre erano alcune irriconoscibili forme evanescenti a caratterizzare quello del compositore e direttore d’orchestra Bruno Bogo (tav. 133). Una soluzione non lontana da quella adottata per il ritratto di Bruno Contenotte, (tav. 134), il volto ridotto quasi a maschera disposto su di uno  sfondo nero attraversato da scie  luminose, richiamando così la specificità dei suoi lavori[425].  “Quando fotografo uno di questi tanti pittori  – scriveva all’amico Ferroni – posso dimenticare che ho davanti a me un arrivista con la testa vuota, il cuore secco, un animo da pezzente che raccatta i rifiuti di Picasso e di Klee per essere ‘moderno’? E allora li faccio uscire come si meritano con quelle facce da semidegenerati che sembra essere la maschera di almeno il cinquanta per cento del milanese medio. E faccio loro ancora un onore perché li idealizzo in una maschera, mentre potrei accontentarmi di farli reali come fantocci. Per questo a loro i miei ritratti piacciono, qualche volta invero un po’ a denti stretti, ma non hanno il coraggio di dirmelo”[426]. Dichiarazione tanto sincera quanto sottilmente compiaciuta se è vero che proprio quello era considerato il genere in cui raggiungeva “una più compiuta espressione (…).  Non sono i suoi i soliti ritratti decorativi che sollecitano la vanità del soggetto, ma piuttosto stati d’animo presentati con una potente trasfigurazione realistica”[427], ovvero –  come scriveva  Turroni, fraintendendo in parte – “Monti non voleva accontentare questi artisti bensì mostrarceli in una luce positiva, vera, senza finzioni e sovrastrutture”[428]. Quel suo giudizio tremendo e certo ingeneroso nella sua generalizzazione risultava poi quasi incomprensibile se pensiamo che quasi negli stessi giorni si augurava “che nelle giurie fotografiche entrino anche artisti, collezionisti, critici d’arte e poeti”[429]. Un giudizio forse non estraneo a una concezione, a una dinamica culturale e sociale che ancora collocava il fotografo ad un livello di puro servizio, della quale Monti doveva essere dolorosamente consapevole:  “Insomma – scriveva a Parmiani [430] – la fotografia intesa come Dio comanda è una grandissima e degnissima e bellissima cosa, alla faccia di quella innumerevole legione di pittori e scultori stronzi, che ancora guardano a noi come ai servi sciocchi del vero e del reale.” E ancora, in uno dei suoi più tardi Appunti e disappunti  era costretto a constatare che “non vediamo mai ritratti scattati da fotografi italiani fatti con quel minimo di cattiveria che spesso assicura un buon risultato: più o meno c’è sempre un ossequio al personaggio. (…) Si teme il vilipendio del personaggio? Forse la ragione è diversa; il fotografo da noi non ha ancora lo status sociale che gli permetta di essere almeno moderatamente insolente. Guadagna bene ma se ne stia buono e tranquillo; resta però il fatto che senza acido non si fanno acqueforti”[431].  Credo sia stato Cesare Colombo[432] a riconoscergli per primo quella “ben nota costante di amarezza… quasi un risvolto di una personale posizione nei confronti della vita stessa”, tale che “il calore degli incontri è sempre serrato in certe mediazioni espressionistiche”, suggerendo nel contempo che nelle sue figure fossero presenti “la ritrattistica rinascimentale, e l’ottocento fotografico franco-inglese”, sebbene – credo – queste non possano esaurire l’orizzonte della specificità dei suoi ritratti, sempre lontani  dalla “messa in scena dell’artista in azione”[433] com’era invece in Mulas. A considerarli nel loro insieme si colgono suggestioni provenienti da fonti diverse, da Florence Henri[434], in particolare i suoi ritratti di Jean Arp e di Robert Delaunay della metà degli anni Trenta, alle fotografie di scena pubblicate da una rivista come “Ferrania” e magari al “cinema d’arte di Eisenstein e Dupont, [essendo Monti] lettore provveduto di scritture e cifre ermetiche (accolte nella loro motivazione polemica)” come scriveva  Turroni[435], seguito in questo da un altro sodale come Anche Emiliani[436], che lo ricordava   “divoratore cinematografico, così come digeriva ogni forma del visivo e del figurativo, sfogliando libri con quell’aria di mestiere – sempre interessata, talvolta appena perplessa – che io avevo già visto sulla faccia assorta di Roberto Longhi.” Non aiutano a comprendere meglio la poetica dei suoi ritratti neppure le riflessioni sul tema che espresse nel 1963 sulle pagine di “Camera” celandosi sotto lo pseudonimo di Paul Bergen[437], con una selezione di immagini che nulla avevano a che vedere con la sua produzione ritrattistica e rimandavano semmai ai più convenzionali ritratti da studio. Qui  Monti intendeva semmai  indagarne le caratteristiche dal punto di vista storico culturale e sociale più che esplicitamente estetico, “perché bisogna rendersi conto, se necessario, che limitare il ritratto ai soli aspetti estetici, tecnici ed economici del lavoro in studio equivale a rinchiudersi in uno schema tradizionale, estraneo all’evoluzione estetico-tecnica della fotografia e alle sue dimensioni sociali e commerciali. (…) Lungo tutta la storia della fotografia si osserva la correlazione tra le forme socio-economiche e le forme estetiche di una data epoca, tanto è vero che tutte le società tendono a considerare le proprie funzioni sociali nelle arti.  E sebbene questi elementi sociali siano antiestetici, estranei all’arte, agli occhi di chi vuole creare un’opera che sia individuale nell’essenza e singolare per definizione – e hanno ragione nella misura in cui ci riescono – è riferendosi ai fattori tempo, ambiente e moda che cercheremo di circoscrivere la questione del ritratto. Tempo, ambiente, modalità, abbiamo detto; vuol dire già parlare di ‘stile’. E sappiamo tutti che il periodo della ricerca, il periodo dell’affermazione e il periodo di esaurimento di uno ‘stile’ sono ben più rapidamente transitori in fotografia che in qualsiasi altra forma espressiva. Inoltre, la permanenza di uno ‘stile’ è legata alla sua funzionalità, che a sua volta dipende strettamente dal gusto dell’utente e anche dalle esigenze utilitaristiche che il ritratto soddisfa in quanto rappresentazione nell’attuale circuito socio-economico.” Una lettura socioculturale e materialista, forse influenzata dal saggio di Arnold Hauser pubblicato in Italia qualche anno prima[438].

 

A proposito di pubblicità

Era “agli uomini del mestiere” che si rivolgeva in quell’occasione, quindi le ragioni di poetica furono  messe da parte a fronte delle più prosaiche e impellenti questioni poste dalla pratica professionale, e in particolare dalla sua qualificazione. Come ha ricordato Cesare Colombo[439],  “la battaglia di Monti alla guida dell’Associazione Professionale AFIP era rivolta a contrastare l’antica condizione subalterna del fotografo verso il committente. Egli sapeva contrapporre la propria erudizione personale a quella degli editori, degli architetti, dei dirigenti pubblici con cui operava (…). I committenti del suo lavoro professionale, che frequentavano il suo Studio 22 a Milano[440], in corso Sempione, riconoscevano in lui un interlocutore particolare. Egli padroneggiava il sistema tecnico di ripresa e di laboratorio (di quegli anni) come molti colleghi… ma sviluppava una dialettica, una personale cultura della comunicazione visiva come nessun altro.”  È stato lo stesso Monti a illustrare il contesto in cui si svolgeva l’attività professionale, a Milano e non solo: “Ho fatto dei lavori per agenzie pubblicitarie che hanno proprie sedi, propri laboratori fotografici e anche che non ne hanno affatto” – notava nel 1959 – “Qui il problema è sempre la serietà dell’agenzia. Ci sono delle agenzie serie le quali non accettano per esempio di fare un cartellone in dodici ore, ma ce ne sono di quelle che accettano di farlo anche in sei; e qui è questione di concorrenza, è questione anche di un malinteso spirito di milanesismo per cui il dover fare in fretta sarebbe la tipica dote di Milano, mentre la tipica dote di Milano è quella di fare molte cose in fretta e anche male, e di farne molte con il tempo dovuto e anche benissimo. Se dovessi fare una critica all’attività fotografica pubblicitaria milanese, dovrei essere piuttosto acerbo: in complesso mi sono visto sempre presentare del lavoro da fare in poche ore, il che dimostra fra l’altro che la famosa organizzazione milanese commerciale non è affatto organizzata. Perché quando una campagna pubblicitaria si deve improvvisare in pochi giorni, e quindi si deve dare pochi giorni al grafico, pochi giorni a quello che fa gli slogan e poche ore al fotografo, vuol dire che non si è arrivati in tempo a prevedere il programma commerciale con il dovuto anticipo; il che vuol dire una cattiva organizzazione.  Ora, quando si pensi che una campagna pubblicitaria può costare ad esempio mezzo miliardo, e poi, dopo aver speso mezzo miliardo, si vuole che il fotografo faccia fotografie per venti o trenta mila lire, si capisce subito la stupidità di una impostazione di questo genere, che deriva non tanto dal mal volere delle agenzie, dal mal volere dei servizi commerciali delle grandi società, quanto dall’infantilismo con cui viene considerata la fotografia. La fotografia è solo una cosa che si può fare in fretta, la fotografia non ha niente di difficile, la fotografia è la macchina che la fa, è una cosa meccanizzata; aspettiamo il can barbone che faccia fotografie o lo scimmione organizzato a far fotografie in tempo rapidissimo, e poi molti milanesi saranno soddisfatti. Non saranno soddisfatti i fotografi”[441].  Questa risentita descrizione delle condizioni di lavoro, formulata in occasione del Convegno di Sesto San Giovanni del 1959, era stata sollecitata dall’intervento di Cesare Colombo dedicato alla fotografia pubblicitaria[442]  e in particolare alla spinosa questione del  “ grande problema morale della pubblicità”. “Mi era sembrato di capire – affermava Colombo – che alcuni componenti della Giuria qui alla Rassegna avevano espresso delle riserve sulla «moralità» appunto delle foto pubblicitarie esposte, con particolari accuse al clima artificioso. E credo allora doveroso chiarire che se è ineliminabile il senso fondamentale di ottimismo, forse di retorica euforia, presente nelle foto destinate ai messaggi propagandistici, vi è tuttavia da porre l’accento sulla sincerità essenziale di tali atteggiamenti. Le figure femminili che oggi presentano i prodotti più disparati (…) ridono, sorridono; ma questa forma di esagerazione euforica, possiamo dire anche di incoscienza, che alcuni ritengono colpa del pubblicitario, non significa necessariamente una evasione colpevole dalla realtà, una menzogna. Il problema verità-bugia (…) può essere in verità ben risolto dal mezzo fotografico. La presenza concreta della realtà alla base della fotografia dovrebbe garantire una certa pulizia morale al messaggio… È vero che una ragazza o un giovane abbronzato ci presentano saponette, lame da barba, minestrine, con faccia stereotipata, con espressione fasulla, fastidiosa magari: ma questo non è imbroglio, perché insomma se la fotografia sorriderà è perché la realtà ha sorriso in quel modo; i modelli sono esistiti così davanti all’obiettivo, sì sono comportati così… ci può quindi essere uno sbaglio loro o del pubblicitario, ma non mai una totale contraffazione.” Un esempio da manuale di falsa coscienza ideologica diremmo, subito contestata da Monti con un fare tanto sornione quanto radicale: “Sulla fotografia pubblicitaria non avrei molto da aggiungere a quello che ha detto Colombo tranne alcune osservazioni di carattere marginale. La prima è questa, che non è poi tanto marginale. Sulla moralità della fotografia pubblicitaria ci sarebbe molto da dire. Indubbiamente molta fotografia pubblicitaria oggi si basa su dei riflessi condizionati di natura freudiana: quando si arriva a far propagandare le lame da barba da una bella ragazza che ci fa vedere le gambe evidentemente non siamo più nel campo della moralità, nel campo in cui ci dice Colombo, anche se le gambe sono realmente esistite, anche se la ragazza bella ci sorride volonterosamente”. Non si trattava di riflessioni astratte ma derivate dalla sua esperienza professionale, da quei lavori “di pagine pubblicitarie dove la possibilità di solleticare l’estro e le meningi è molto forte” [443] che tanto lo avevano attratto nei primissimi anni milanesi ma che potevano anche riservare diverse sorprese. Mi riferisco alla messa in fotografia della “sceneggiatura” predisposta nel 1958 per una campagna pubblicitaria della J. W. Thompson di Londra relativa a una saponetta, da sottoporre a Monti,  considerato dai pubblicitari  “un tale artista e una persona di tale gusto e cultura che spero possa dare ad una fotografia di questo genere un sapore e una qualità molto interessante”[444]. Gli abbozzi di sceneggiatura della posa fotografica scambiati tra il referente inglese [Willie]  e il suo corrispondente italiano, l’architetto  Giancarlo Pozzi[445] prevedevano tra le altre “un bagno nel mezzo di un giardino? Una fontana di marmi colorati con piante?”, ovvero una “Inquadratura astratta, della ragazza immersa in acqua, realizzata fotografando dall’esterno in una vasca di cristallo”, senza escludere la possibile “ambientazione con una foca che gioca con la ragazza, o che tiene la saponetta (eventualmente ingrandita) in equilibrio sul muso”. Accanto e prima della questione morale però si poneva per Monti quella della scarsa qualificazione professionale  (“Si diventa fotografi in Italia senza nessuna preparazione; si può fare il fotografo come si potrebbe fare il venditore ambulante”)[446], certificata anche dal mancato invito all’Associazione artigiana dei fotografi italiani a partecipare alla prima assemblea generale di Europhot (The Council of the Professional Photographers of Europe) dell’ottobre del 1959. Fu quello il fattore scatenante che indusse alcuni professionisti milanesi[447] a fondare nel 1960 l’AFIP – Associazione Fotografi Italiani Professionisti,  negli stessi mesi in cui  “Camera”  diveniva l’organo ufficiale dell’istituzione europea, modificando la testata in “Camera Europhot”. Su quelle pagine Monti avrebbe poi pubblicato  un lungo articolo sul tema[448] che  dopo un sintetico richiamo alla situazione statunitense, dove “la fotografia è entrata a far parte delle abitudini e delle scuole sino a divenire una delle  materie obbligatorie dell’istruzione tecnica e degli studi specialistici” e “le condizioni di lavoro in un paese altamente industrializzato con un’ economia di massa non potevano avere che effetti favorevoli sul livello socio-economico della professione”, affrontava in veloce sintesi storica le conseguenze sul piano della cultura fotografica che “la grande emigrazione provocata dall’ascesa di Hitler che svuotò la Germania dei suoi migliori talenti a favore di altri paesi, compresa l’America, che accogliendoli trassero vantaggio dalla loro considerevole contributo. Se ci si chiede cosa stesse succedendo in Italia mentre altrove si ‘reinventava’ la fotografia, la risposta non può che essere negativa. Solo alcuni ritrattisti, come Sommariva, e una manciata di fotografi documentari o di architettura sfuggirono al clima di sterilità che si era instaurato. Per quel che riguarda la ricerca sperimentale, i lavori di A.G. Bragaglia a sostegno del suo manifesto della “fotodinamica futurista” è stato l’unico fatto degno di attenzione. Ma questa impresa, pur anticipando di vent’anni alcune idee e realizzazioni del Bauhaus, non figura in nessuna storia della fotografia [449]. (…) Quindi potremmo sorvolare sul periodo fino agli anni Cinquanta, quando si fecero sentire gli effetti derivanti dai grandi cambiamenti nella vita politica, sociale, economica e culturale del Paese. (…) Tuttavia, se questa fase di transizione è stata superata rapidamente nonostante il peso del passato, ciò è dovuto agli sforzi di aggiornamento  estetico e tecnico dell’intera professione, nonché all’ingresso di una generazione di ‘dilettanti’ molto evoluti in termini di cultura visiva.[450] Da questo punto di vista, Milano ha svolto il ruolo di catalizzatore. (…) È in questo contesto che l’AFIP (Associazione Italiana Fotografi Professionisti), membro di Europhot, è stata fondata a Milano da un gruppo di fotografi professionalmente qualificati. Il suo scopo è di operare per elevare il livello della professione e difenderla, per definire una deontologia[451], per promuovere iniziative culturali e scambi con l’estero. Programma ambizioso, difficile da applicare.” Nella redazione originale[452] il testo si concludeva analizzando  la questione dei costi: “Si può dire che si conosce il prodotto ma non il suo costo. Nel costo generale di una campagna pubblicitaria, la percentuale di spese destinate alla fotografia si può valutare da un terzo a oltre un decimo delle percentuali americane. Questi squilibri sono inevitabili in una economia di recente e rapido sviluppo, dove il gioco competitivo falsa i rapporti di prezzo dei vari fattori che concorrono alla produzione e alla vendita. Bisogna peraltro riconoscere che negli ultimi tre anni, la situazione è molto migliorata: merito comune di committenti e fotografi ma soprattutto di questi ultimi, che non hanno esitato a investire molti capitali in studi e laboratori che oggi sono fra i migliori d’Europa e che possono soddisfare più che largamente i bisogni di oggi e di domani. Condizione evidente  [sic] molto vantaggiosa per una industria in espansione e per una pubblicità che naturalmente tende a diventare sempre più efficace e differenziata.” Grandi petizioni di principio convivevano con la razionale consapevolezza che quelle fotografie, che rappresentavano “il lavoro di ogni giorno” non fossero altro che “ il materiale di consumo dell’industria e della editoria per l’appagamento dell’universale e inesausto voyeurismo[453] dell’epoca: lavoro fatto di tecnica e di intuito formale, di esperienza e di improvvisazione, con la certezza che a castigare la nostra vanità, questi rettangoli di carta andranno veramente al consumo, alla distruzione”[454].  Forse era proprio la consapevolezza della ineluttabile consunzione consumistica e finale che lo portava a non andare oltre una corretta, convenzionale definizione di questa tipologia di immagini, a volte consentendosi però una qualche suggestione Pop (tav. 136), specie quelle destinate alle pagine dei periodici,  che facevano variamente ricorso alla presenza della figura umana, come quelle per la Lavanda Bertelli (tav. 137), per i nastri magnetici Agfa (tav. 138) o le macchine da cucire Singer (tavv. 139, 140): tutti casi nei quali  la messa in pagina prevedeva un semplice accostamento per sommatoria al messaggio testuale, confidando – ma certo in modo piano e quasi familiare – su quei “riflessi condizionati di natura freudiana” ai quali aveva fatto riferimento nel suo intervento a Sesto San Giovanni: “un fatto di carattere commerciale che si affida soprattutto a quella specie di magma indifferenziato che è nell’interno dell’uomo comune per cui si vede sempre sollecitato quando, o per le lamette da barba, o per una cravatta o per altro, c’è questa immagine femminile che si rapporta a una specie di erotismo più e meno qualificabile e che è comune a tutti gli uomini. Ora qui ci sarebbe da fare uno studio di psicologia di massa e probabilmente si arriverebbe a questo risultato. Che si tratta in sostanza di una grande frustrazione (…)”. Analoghe riserve dovevano riguardare la sua modesta produzione di fotografie di moda: niente a che vedere con quella dei suoi colleghi ‘milanesi’ come Gian Paolo Barbieri o Ugo Mulas o persino Gianni Berengo Gardin[455]. Forse una questione di committenza (quelle di Monti non appartenevano all’universo delle  grandi firme) ma anche di scarsa sensibilità per il genere, che pure conosceva bene non fosse altro che attraverso le Biennali di Fotografia. Monti non era tra quei fotografi che “ora in possesso di uno stile personale, di un mondo espressivo da far vedere e ammirare, abbiano, nella loro prima giovinezza o comunque nello stadio di preparazione tecnica e formale, guardato ai fotografi di «Vogue» come un modello irripetibile (diciamolo pure: la parola si usava dieci anni fa), come una linea di bellezza fotografica difficilmente raggiungibile, come una prova di raffinatezza e di gusto. E non solo per le belle fotografie in sé ma per quello che le fotografie implicavano di idee, di critica a un costume, di dialettica insomma”[456]. Senza scomodare le prime analisi sul sistema della moda di Roland Barthes, che proprio sul finire degli anni Cinquanta avanzava “l’idea di una vera e propria semiologia del vestito”[457], si potrebbe dire che troppo era il razionale disincanto di Monti rispetto a quell’universo, forse anche per ragioni etiche, insufficiente quindi la sua adesione (anche solo superficiale) per consentirgli di andare oltre un onesto mestiere. Quando si trattava di arredi (Arflex, Tecno), nella più parte dei casi le sue fotografie poi non si discostavano dall’ampia produzione realizzata per le varie edizioni della Triennale; non riuscivano a possedere un’identità connotativa come accadeva tipicamente nei lavori dello Studio Ballo o di  Giorgio Casali. Quelle  che oggi ci appaiono come le sue prove più convincenti in questo settore, anche per le relazioni strette con le sue ricerche più personali, sono  i fotogrammi e i fotomontaggi, che si inserivano in una ‘tradizione’ lunga della grafica milanese: da Luigi Veronesi a Max Huber[458], che fin dal primi anni del dopoguerra aveva curato l’immagine coordinata della società Braendli, per la quale lavorò Monti negli anni Sessanta realizzando anche due cataloghi a colori[459]. Più proficuo e lungo il rapporto con Albe Steiner[460], al quale fornì tra le altre le fotografie per una pubblicazione dedicata al Vetrotessile (tavv. 141, 142)[461], dove la bella impaginazione accostava immagini dei materiali, di forte impatto grafico, con riprese degli stabilimenti e dei cicli di produzione. Certo fu quella l’occasione per sviluppare anche proprie ricerche personali (tav. 143), tra le quali un Fotogramma da fibre di vetro (tav. 115), che rientrava però in una piccola serie di analoghe soluzioni adottate in occasioni diverse, quali  il già citato fotogramma ottenuto con le posate disegnate da Gio Ponti, 1958 (tav. 128) [462] o le due ambientazioni di gioielli di Arnaldo Pomodoro, del 1955, per le quali utilizzò in sovrimpressione una parte della Grande roccia solarizzata (tav. 144)[463].

 

 “Un certo Monti”

Quella sua volontà caparbia, profondamente motivata di coniugare lavoro professionale e sperimentazione che tutti riconoscevano quale sua specifica caratteristica, quel suo “interesse indiscriminato per immagini tra loro differentissime”[464] emergeva chiaramente anche dalla selezione delle opere presentate alle personali.  Così nel 1954 a Roma,  accanto alla riproposizione di fotografie già note comparivano due evidenti novità legate alla sua recente attività professionale come Copertina per uno scultore (n.31) e Pagina pubblicitaria (n.32). Una scelta che aiuta ancora una volta a comprendere come  sin da subito  per Monti non si trattasse di muovere da una condizione all’altra, non si trattasse mai di ‘passare’ lasciandosi alle spalle qualcosa, ma di far convivere e dialogare due aspetti altrettanto rilevanti per la propria definizione autoriale. Anzi: se consideriamo la cronologia delle mostre e delle pubblicazioni sulle riviste di settore vediamo che la figura di Monti si è definita e ha assunto crescente autorevolezza proprio a partire dal 1953. Quando sul numero di  “Ferrania” del  novembre di quell’anno venne pubblicato il primo saggio critico a lui dedicato, a firma di Berto Morucchio [465], Monti  aveva appena deciso di abbandonare la carriera di dirigente per fare della fotografia il proprio mestiere[466]; scelta e data che lo accumunavano ad altri  autori come Mario de Biasi e Fulvio Roiter, che avrebbero però orientato i propri interessi in ambiti diversi.  Conseguenza necessaria e inevitabile fu il trasferimento a Milano, dove il due ottobre costituì la Fotogramma Studio Laboratorio Fotografico[467]; una s.r.l. in cui aveva come socio la Color Record di Hrant e Vasken Pambakian, i fratelli armeni titolari del negozio veneziano in cui solo cinque anni prima si era formato il gruppo de La Gondola[468].  La lucidità della scelta, del momento e del luogo, gli dovevano derivare proprio dalla sua lunga esperienza di dirigente industriale, dalla consapevolezza che “con la ricostruzione dell’economia italiana, si presentano nuovi bisogni che la fotografia deve soddisfare e in primo luogo la pubblicità”[469],  anche se poi non fu quello il suo primario settore di attività. Milano era ormai “la città più attiva e aggiornata, perché in essa la fotografia professionale ha maggiori e più varie possibilità di utilizzazione (giornalistiche, pubblicitarie, industriali, ecc.) e quella degli amatori più varietà e stimoli di interessi culturali”, anche per il ruolo svolto da “Lamberto Vitali, critico d’arte e collezionista di antiche fotografie italiane”[470]. “Qui hanno sede le più grandi industrie, le agenzie pubblicitarie  italiane e straniere, le maggiori case editrici, la stampa periodica illustrata (quindici periodici settimanali esclusi quelli per la donna), in una parola i più forti utilizzatori di immagini. È quindi naturale che Milano sia il centro della produzione di immagini (…). Negli anni dal ’50 al ’60 la pressione delle nuove esigenze del mercato fotografico provocava un deciso adeguamento prima delle attrezzature tecniche e poi, almeno parzialmente, delle capacità professionali dei migliori fotografi. (…)  In questo decennio si aprono i migliori studi fotografici e altri rinnovano metodi e attrezzature e, fatto nuovo, entrano nella fotografia professionale uomini che non provengono dalle scuole fotografiche o dal lavoro subalterno, ma da altre attività e da varie esperienze culturali ed estetiche”[471].  Il richiamo tanto  implicito quanto chiaro era alla sua stessa esperienza, al proprio percorso di formazione, a quel passaggio osmotico che riuniva in Monti  fotoamatorismo e professione, Venezia e Milano.  In un’intervista tarda avrebbe ricordato che per interessamento di Roberto Crippa ebbe l’opportunità di presentare le proprie fotografie ai membri del comitato per la X Triennale (1954), “i quali mi vollero subito prendere come fotografo (…). Soprattutto perché avevano visto come io avevo interpretato le architetture maggiori, ma soprattutto le minori, quelle quasi popolari, di Venezia e anche delle isole”[472]. Abbiamo conferma di quel primo, importante impegno anche da una lettera di Monti a Giulio Parmiani nella quale scriveva:  “lo sto accanitamente lavorando per la Triennale e forse prenderò molto lavoro per architetti, artigiani e riviste tecniche come ‘Domus’ e ‘Stile e Industria’, dove esigono foto molto originali, grafiche talvolta e che mi attirano molto. Anche il lavoro industriale per grandi stabilimenti incomincia a funzionare e ti dirò che i successi migliori li ho avuti facendo delle foto che mi piacevano come dilettante, come se quelle inquadrature non avessero nessuno scopo pratico, ma mi dovessero piacere solo in quanto tali” [473]. Monti era ben consapevole che la cultura visuale acquisita nella pratica amatoriale e la capacità di superare i vincoli imposti dal lavoro su committenza costituivano l’elemento determinante della propria offerta professionale.  In quell’occasione ebbe modo di misurarsi con un’ampia gamma di soggetti, dagli ambienti ai gioielli  alla gran parte delle architetture, ma anche l’allestimento della Mostra della pubblicità e della estetica stradale, curata tra gli altri da Albe Steiner, col quale avrebbe poi lavorato per almeno un ventennio realizzando “moltissimi lavori in perfetta collaborazione [perché]  Steiner è un grafico che rispetta la fotografia nel modo più assoluto e soprattutto lascia la libertà al fotografo, la libertà più completa”[474]. Una parte di quella documentazione – realizzata sotto la sigla dello studio[475] –  venne pubblicata in un numero monografico di “Domus”  che portava in  copertina un  lavoro di Monti molto diverso: un affascinante fotogramma  intitolato Composizione di foglie e neve  (tav. 059), ma non tutte le fotografie realizzate per quella Triennale e attualmente conservate nel Fondo Monti e nell’Archivio dell’Ente[476] sono della stessa qualità. Non poche risultano sciatte, così come appaiono modeste in termini di  composizione e di  realizzazione tecnica quelle relative a prodotti realizzati da aziende di secondo piano; caratteristiche che non solo consentono di ipotizzare l’intervento di operatori diversi, ma soprattutto di rimarcare quanto il lavoro professionale fosse per gran parte costituito di produzioni routinarie o anche eccentriche rispetto agli ambiti più consueti. Monti avrebbe lavorato alla Triennale anche nelle successive edizioni del 1957 e del 1960, sempre nel ruolo di professionista indipendente come dimostrano non solo le richieste di autorizzazione di volta in volta sottoposte all’Ufficio Stampa, ma anche una lettera di Bruno Alfieri, all’epoca direttore di quell’ufficio, indirizzata  a Mrs. Ruth Lee, redattrice della rivista americana “Design for Living”: “Per quanto riguarda le fotografie,  noi disponiamo di un certo numero di ‘fotografie ufficiali’ che forse non sono molto adatte per  «Design for Living». Comunque siamo in grado di procurarle un fotografo. Ce n’è uno molto bravo, Paolo Monti, che è considerato uno dei migliori in Europa. (Credo che chieda circa quattro dollari per fotografia 30×24[477]). Ce ne sono anche altri meno cari, che sono pure ottimi professionisti. Se le interessa Paolo Monti me lo faccia sapere in tempo in modo che sia possibile prenotarlo per sabato 14 ottobre”[478]. L’opinione di Alfieri era certo lusinghiera e mostra quanto la figura di Monti si fosse imposta nell’arco di pochi anni negli ambiti specializzatissimi della fotografia d’architettura e di design in un contesto come quello milanese che vedeva attivi alcuni dei migliori professionisti italiani.

 

Fotografare l’architettura contemporanea

Sin dalle primissime collaborazioni Monti si era segnalato per l’elevata qualità del suo lavoro, come testimonia eloquentemente il brano di questa lettera inviata da Franco Albini a Caterina Marcenaro nel settembre del 1956: “Tutti i fotografi di Milano da noi sperimentati non vanno bene. Ultimamente i BBPR si sono serviti per il Castello di un certo Monti, che pare sia il migliore di tutti”[479]. Sotto la sigla “Fotogramma”, ma anche firmate “Paolo Monti”, erano le fotografie di soggetto italiano pubblicate ne  Il museo oggi di Michael Browne, edito nel 1965 per le olivettiane Edizioni di Comunità. Una sintesi analitica della nuova museografia[480] che si era sviluppata nel clima fecondo della ricostruzione del secondo dopoguerra, anche in Italia: dai fondamentali interventi genovesi di Albini (1949-1961) agli Uffizi di Gardella, Michelucci e Scarpa  (1956) passando per la nuova Galleria d’Arte Moderna di Torino (Bassi e Boschetti, 1954-1959)[481]. La collaborazione del fotografo con Franco Albini e Caterina Marcenaro datava appunto dal 1956, risolvendosi in un dialogo che pur nel rispetto delle istanze progettuali e storico critiche del progettista e della direttrice storica dell’arte[482] gli consentiva una propria evidente autonomia interpretativa. Dopo Palazzo Bianco e il Tesoro di San Lorenzo  (tav. 145)[483] la collaborazione proseguì per celebrare la riapertura di Palazzo Rosso con la pubblicazione di un volume dedicato agli affreschi; un soggetto che imponeva l’uso del colore per produrre un “materiale illustrativo” che la curatrice considerava  “il più completo e il più fedele tra quello pubblicato a tutt’oggi”[484]. Nonostante ciò in nessuna parte del volume Monti o altri eventuali fotografi responsabili delle riprese ante restauro meritarono l’onore di una citazione; valga quindi il riscontro con l’Archivio a certificarne la paternità: tra le numerosissime riprese realizzate tra  1961 e 1963 e poi ancora  il 31 ottobre 1964, si distinguono per il loro affascinante rigore compositivo le poche fotografie di ambienti, in particolare quelle relative alla grande specchiera collocata nella Sala di Fetonte, realizzate sia a colori  che in b/n (tav. 146), affidando di volta in volta allo specchio il dialogo tra gli elementi dello spazio interno o il rapporto con l’esterno, secondo una formula ricorrente nel procedere di Monti.  Furono quelle prime prove a consentirgli di avviare fruttuose collaborazioni non solo con architetti e designer ma anche con numerosi periodici italiani e stranieri come “L’architettura: Cronache e storia”[485], “Casabella Continuità”, “Domus”, “Metro” e “Zodiac”, “L’Oeil”[486] e “Architectural Forum”,  solo per indicare  i maggiori,  tanto che il senso complessivo del suo operare si può cogliere solo nel confronto lungo, nel diverso ritornare sulle opere degli architetti con cui ebbe maggiori frequentazioni, ma senza che allora gli fosse riconosciuta una vera preminenza. Anzi, ormai nel 1967, Allan Porter e l’amico Martinez  non scelsero alcuna sua immagine per  il numero di  “Camera” dedicato alla fotografia di architettura[487], avvalendosi del solo  Pepi Merisio per i soggetti italiani.  Scelta piuttosto sorprendente sia per la figura di Merisio, solitamente impegnato e noto per ben altri temi, sia perché a quella data Monti era forse il più autorevole fotografo italiano impegnato nel settore della documentazione della nuova architettura come del patrimonio storico. Le collaborazioni coi periodici di settore gli offrirono anche le prime occasioni di confronto con l’opera di Carlo Scarpa, a partire dal negozio Olivetti a Venezia, restituito in una bella serie di fotografie (tav. 147), di grande sensibilità e certo non immemori dell’esempio di Ferruccio Leiss, costruite come sono su di una incessante restituzione delle relazioni spaziali tra elementi architettonici e invaso, tra interni ed esterni, che ben si accordavano con “l’emozione profonda” espressa dal testo di Carlo Ludovico Ragghianti[488] su “Zodiac”, nel quale il critico riconosceva  che le fotografie di Monti riuscivano a ridurre al massimo, se non proprio a superare le difficoltà di lettura dell’opera[489].  L’allestimento ancora in corso del Museo di Castelvecchio a Verona  (tavv. 148, 149) venne invece pubblicato su “Domus”,  restituendo  “l’equilibrio fra lo spazio, gli oggetti, la luce”[490] proprio dell’intervento scarpiano, con un rigore compositivo di precisione assoluta, che vi aderiva perfettamente rivelandone anche la notevole fotogenia.  Poiché il tema era strettamente museografico,  Monti escludeva dalle proprie inquadrature quella presenza di visitatori che aveva connotato la serie dedicata all’allestimento BPR del Museo del Castello Sforzesco a Milano (1956), nella quale accanto alla sua già matura e raffinata capacità di restituire i rapporti spaziali (e in particolare le relazioni interno/ esterno, (tavv. 150, 151), sviluppava piccole sequenze narrative interpretate da figure solo in parte occasionali (tavv. 152, 153)[491] nelle quali risulta però impossibile ritrovare qualcosa che lo avvicini “alle poetiche humaniste degli scatti ‘rubati’ di Robert Doisneau”[492].  Bastano a rendere improbabile quel confronto alcune  imbarazzanti messe in scena con comparse femminili, come quella relativa alla Pietà Rondanini nella sala degli Scarlioni, nella quale un’improbabile interpretazione drammatica  – certo debitrice dell’iconografia dei fotoromanzi dell’epoca – si associava a un uso malaccorto delle luci  al fine  di evocare una inverosimile sindrome di Stendahl (tav. 154).

Il rapporto con le architetture di Scarpa  sarebbe proseguito nel tempo, mostrando una corrispondenza che andava ben oltre la qualità delle opere; quasi un rispecchiamento dovuto all’esistenza  di valori comuni (le possibilità espressive dei materiali, la cura compositiva, il dettaglio raffinato). Così Monti sarebbe tornato più volte a fotografare Castelvecchio e gli altri suoi allestimenti museali, ma anche il Padiglione del Veneto per Italia ’61 a Torino[493], il negozio Gavina a Bologna e la Fondazione Querini Stampalia a Venezia.  Erano prevalentemente sue le immagini comprese nei diversi contributi critici pubblicati in “Zodiac” sino alla metà degli anni ’60, sempre sottoposte alla rigorosa verifica dell’architetto[494], e sue avrebbero potuto essere le fotografie per la progettata monografia di Pier Carlo Santini per le Edizioni di Comunità, se ancora nel maggio del 1974 Monti poteva offrire a Scarpa una documentazione completa della sua opera, auspicando “che si faccia presto un libro su tutto il Suo lavoro”[495]. Anche in quell’occasione – come ricordava Guido Pietropoli, che gli fu assistente – Scarpa intervenne sulle stampe di Monti “tracciandovi sopra linee e diagonali, per isolare parte delle immagini che meglio corrispondevano al suo punto di vista”[496], sebbene per noi, dal considerare le stampe oggi conservate nell’Archivio Monti risulti quasi impossibile immaginare un impianto compositivo in grado più di queste di restituire con assoluta chiarezza le qualità delle realizzazioni scarpiane e degli altri protagonisti di quella stagione dell’architettura italiana. Il dialogo serrato, vitale, tra intervento museografico e contesto architettonico, tra le opere esposte e l’intorno, con invenzioni continue che legavano visivamente sala con sala, esterno con interno[497]  come nello splendido esempio della ripresa della statua equestre di Cangrande della Scala a Castelvecchio[498] (tavv. 156, 157), inquadrata dall’interno e posta in dialogo con la Preghiera nel Getsemani dal polittico della Passione di Paolo Morando, all’epoca con un diverso ordinamento tra le parti, documentato anche in uno schizzo progettuale dell’architetto (tav. 158)[499]. Una perfetta restituzione di quelle che Manfredo Tafuri aveva definito le “raffinate soluzioni di continuità poste da Scarpa in forme sempre variate” al fine di “isolare, letteralmente, i differenti pezzi”[500], pur senza negarsi le fascinazioni degli accostamenti visuali.

Innovativi progetti museografici e nuove realizzazioni architettoniche connotavano l’attività dei migliori professionisti e studi di architettura di quegli anni, puntualmente interpretati da Monti in una sempre più estesa area di intervento che da Milano e dall’Italia settentrionale in genere si estese ben presto  sino al centro sud e in particolare a  Napoli, qui lavorando per architetti quali  Luigi Cosenza, Giulio de Luca,  Carlo Cocchia e Michele Capobianco, impegnati a ridefinire  coi nuovi quartieri di edilizia popolare una parte significativa delle nuove periferie[501]. Architetture e luoghi documentati in quegli stessi anni anche da un architetto fotografo come l’americano George Everard Kidder Smith, che mostrava però un approccio più sentimentale al patrimonio architettonico di  quel “paese favoloso e romantico”[502] che per lui era  l’Italia, sebbene poi il modo di leggere il contemporaneo restituito dal suo Italy Builds[503] doveva certamente aver costituito un termine di confronto per Monti.

Il dibattito intorno alla fotografia di architettura era in quegli anni particolarmente vivo, specie in Italia, a partire dalle note riflessioni di Bruno Zevi, per il quale “risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale”[504],  poiché nella sua concezione dell’architettura era solo l’esperienza diretta a consentirne una “adesione integrale e organica”,  datosi che “dovunque esiste una compiuta esperienza personale da vivere, nessuna rappresentazione è sufficiente.”  Osservazioni interessanti, e da allora infinite volte citate e riprese, ma per certi versi ancora debitrici della concezione originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con, sovrapporsi a l’esperienza del soggetto, e non solo in termini di rappresentazione architettonica[505]. Non dissimili le considerazioni di Ernesto Nathan Rogers quando ammetteva che “fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi”[506].  Sarebbe stato poi Italo Insolera[507] a riprendere queste analisi introducendo però due elementi di fondamentale importanza come la  ricezione, ovvero la capacità di lettura dell’immagine di un edificio già mediata dall’interpretazione fotografica, ma soprattutto la necessità – già espressa da Edoardo Persico – di definire “una critica che consideri l’architettura come un fatto non necessariamente figurativo (…). Una critica che abbracci tutto il mondo dell’architettura e non ne isoli con una vivisezione solo una parte su cui poi esercitarsi con facili discorsi (…), una critica cioè che non si limiti alle conseguenze formali e alle ragioni culturali dell’architettura.  Io penso che la fotografia possa essere strumento adatto per questa nuova critica.  (…) la fotografia può essere il punto d’appoggio per avviare un discorso critico che si avvicini all’ideale di Persico di «una storia dell’architettura che si identifichi con quella stessa dell’uomo moderno»”.  Considerando l’insieme della sua opera mi pare che non si possa  definire in modo univoco  quale sia stata l’idea di fotografia di architettura che apparteneva a Monti, quale fosse quella che lui esprimeva; quale fosse la misura della sua eventuale prossimità alle posizioni di Insolera. Credo invece che accanto a una costante attenzione tettonica e materica  si possano riconoscere in lui momenti e modi cronologicamente e funzionalmente distinti; strettamente dipendenti dall’occasione e – ancor  più – dal progetto e dall’oggetto delle sue attenzioni, del suo guardare e mostrare attraverso la fotografia. A volte parrebbe di poter definire Monti fotografo di volumi e non di spazi; orientato alla  restituzione formalmente innovativa e rigorosa, alla catalogazione anche (e più tardi), ma non alla restituzione di un’esperienza che non fosse quella sua propria; a un’interpretazione dell’oggetto e magari della sua materia ma non dello spazio architettonico. Bastano però le fotografie dedicate alle opere di Scarpa, agli allestimenti di Albini e del gruppo BPR per smentire questa eventualità: in ciascuna di quelle occasioni riconosciamo lo spazio di relazioni definito dal progetto (e dalla sua messa in opera) che il fotografo rivelava e faceva proprio; verrebbe quasi da dire che condivideva, riconducendolo alla propria sensibilità personale. Accanto allo spazio, a certi spazi forse, i volumi. Quelli che avevano da sempre fatto parte della sfera di interessi di Monti, come mostra la sua costante attenzione per l’edilizia minore, da quella della laguna veneziana a Procida, sino alle case del lago d’Orta. L’avvio della professione imponeva però il confronto con le architetture contemporanee e coi loro autori, con le riviste di architettura quindi. Poneva cioè un problema non solo di interpretazione ma anche (e per certi versi soprattutto) di comunicazione, di messa in scena per la messa in pagina, coniugando fotogenia dell’edificio e comprensione del contesto in cui la nuova realizzazione si andava a collocare, a volte ridefinendolo radicalmente.  Si considerino a questo proposito le fotografie relative alle nuove costruzioni nell’area di via Melchiorre Gioia a Milano, non di rado giocate sulla contrapposizione netta (e un poco retorica) tra i ruderi e i resti lasciati dalla guerra e “la città che sale” (tav. 159), così come accadeva nell’area adiacente di Piazza Duca d’Aosta con la realizzazione del Grattacielo Pirelli (tavv. 160, 161, 162, 163), di cui Monti restituiva con grande efficacia sia la rilevanza di inedito segno urbano sia  le specifiche qualità architettoniche, fedele al principio che “l’architettura è un’arte che si scopre, si conosce e quindi si documenta camminandovi dentro e fuori lungamente” (come avrebbe voluto Zevi), della quale è indispensabile considerare anche “la quarta dimensione” costituita dal suo intorno[508] . Ne nacque  una serie giustamente famosa,  in parte pubblicata qualche anno dopo su “Camera” quasi a certificare l’affermazione di Richard Neutra[509] che solo una sequenza poteva almeno avvicinarsi a restituire “la nozione  di ‘continuità’ organica” di un edificio, dato che  “le ottiche fotografiche si oppongono in un certo modo alla fisiologia della nostra percezione visiva e alla chimica della nostra retina poiché le nostre facoltà sensoriali sono essenzialmente movimento mentre l’occhio dell’apparecchio fotografico è per sua natura statico.”  Non era però quello il nodo principale affrontato dal grande architetto, quanto semmai quello del rapporto  tra le due figure coinvolte,  rivendicando la regia sostanziale al progettista, all’autore dell’opera fotografata, che doveva far comprendere le proprie intenzioni al fotografo, farlo entrare “letteralmente nell’ «universo» della propria opera”. Per Neutra infatti  la fotografia di architettura doveva avere” uno scopo funzionale” e non liberamente espressivo, anzi doveva limitarsi a “interpretare correttamente le intenzioni dell’architetto”. Posizione nettissima e nella sostanza non lontana dalle riflessioni di Zevi e Rogers ma certo non pianamente condivisa da  Monti, che su questo aveva opinioni diverse[510]. In quegli stessi mesi, nella lunga intervista pubblicata ne “L’Arc”,  rifletteva sul senso stesso e sui limiti del significato ‘documentario’ della fotografia: ““Bisogna rendersi conto che fotografare e vedere non vuol dire comprendere. Ammessi questi limiti, sono convinto che il legame indissolubile del fotografo con il mondo esterno assuma nei migliori fotografi una forza morale: impossibilitati ad evadere dalla realtà, ne devono interpretare o approfondire il significato o, almeno, farne emergere soggettivamente il peso e l’intensità”[511].  Un imperativo morale da cui derivare una poetica, ben riconoscibile in buona parte della sua produzione dedicata all’architettura contemporanea e specialmente nel racconto della nuova  museografia,  dove la capacità di interpretare e restituire gli spazi di relazione ridefiniti da quelle strutture discorsive[512] confermava la centralità, la necessità  del dialogo tra presente e storia. Il racconto dell’architettura in quegli anni era per  Monti quasi esclusivamente in bianco e nero; una scelta che gli consentiva una restituzione più astratta e strutturata, meno episodica e contingente di quegli spazi e di quegli edifici. Le necessità editoriali imponevano però di ricorrere anche al colore, con esiti certo meno convincenti, quando non addirittura ordinari[513], come risulta particolarmente evidente in certi servizi dedicati all’architettura di interni e all’arredamento;  puntuali esempi di quello che lui stesso condannava come “eccessivo e noioso verismo (…) immagini che nulla aggiungono alla nostra esperienza visiva”[514]. Il colore ‘naturalistico’, descrittivo,  non era nelle sue corde e certo non era su quella tipologia di immagini che si fondava la sua fama di fotografo, tanto che Caterina Marcenaro nel distribuire gli incarichi per l’illustrazione del volume dedicato al Museo del Tesoro della Cattedrale di Genova[515] scelse di affidarsi a Monti per il bianco e nero ma a Mario Carrieri per il colore.

Il raffinato formalismo di quella stagione della fotografia professionale di Monti era in parte mitigato (se non contraddetto) dalla prevalente attenzione per il contesto e le persone che caratterizzava le sue coeve serie domenicali e milanesi (tavv. 164, 165, 166). Fedele all’intento (quasi un’etica) di non separare professione e ricerca, ma anche per sottoporre a verifica la propria visione di “una Milano in parte immaginaria”[516], mentre documentava le architetture dei grandi protagonisti di quella stagione Monti decise di fotografare “le domeniche degli altri” e la città minore e quasi nascosta tra il confine dei Navigli e i sempre più risicati prati di periferia. Una Milano scrostata e nebbiosa, che portava ancora i segni della guerra, a cui il fotografo  si volgeva con uno sguardo non dissimile da quello che aveva dedicato alle case della laguna, ma ora fatto più cupo e catramoso; un  tono che contrastava volutamente con la chiara, ottimistica  leggibilità delle fotografie d’architettura. Era la stessa città già indagata da Alberto Lattuada[517] e che ora faceva da sfondo ai “Segreti di Milano” di Giovanni Testori; quella su cui si esercitavano negli stessi anni anche Ugo Mulas, Mario de Biasi e Pietro Donzelli (per non dire di Ernesto Treccani[518])  o i più giovani Cesare Colombo (misurandosi anche col colore) e Mario Carrieri, che la leggeva attraverso il filtro e le suggestioni della New York di William Klein, provocando la vivace reazione di Monti, perché – diceva – “ il milanese, quando apre questo libro, ha l’impressione di essere preso a schiaffi (…).  La Milano di Carrieri potrebbe essere allo stesso modo Pittsburgh o Chicago. Ora Milano, per quanto sia una città industriale attivissima, è ancora una provincia in parte, non possiamo mai dimenticarlo. La città industriale esiste, siamo d’accordo, ma Milano ha dei lati estremamente provinciali che sono, d’altra parte, i lati più simpatici, i più vivi. Milano è ancora, in parte, ottocentesca, è ancora stendhaliana. Non si può presentare il Naviglio come se fosse una fogna di Chicago, è assolutamente assurdo”[519].  Non rientrava tra i progetti di Monti quello di raccontare la città in cui aveva deciso di vivere, sebbene considerasse necessario “narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine”[520]. Di fatto non  esiste una Milano di Monti intesa come racconto organico e forse neppure come sommatoria: troppi erano gli aspetti che non richiamavano la sua attenzione,  che confliggevano con la sua visione pessimistica, per questo esclusi dai suoi interessi. Basti a questo proposito  confrontare la sua produzione con l’immagine della città restituita dal volume curato da  Luigi Crocenzi [521] per Electa nel 1967: un racconto organizzato “per mezzo di blocchi di immagini collegate fra loro (…) su moduli di avvicinamento nello spazio e nel tempo”, dal quale erano programmaticamente tralasciati proprio quei “lati provinciali” che tanto affascinavano Monti ‘fotografo della domenica’ e che dovevano apparirgli per molte ragioni più accettabili della condizione attuale di una  “città [che] sta ogni giorno di più diventando noiosa, arruffata, violenta e gli uomini sadici, interessati, imbastarditi. Posso ignorare tutto questo?”[522]

 

La scultura

 

“Allo scopo di fornire una documentazione obiettiva dei complessi plastici e delle singole opere qui riprodotte – indica l’avvertenza alle tavole in un volume del 1972 dedicato alla scultura in Emilia nell’età barocca[523]– ci si è attenuti ad alcune elementari ma rigorose norme di regia fotografica: tutte le riprese (eccettuate pochissime per le quali si è dovuto per inderogabili necessità tecniche, far uso di illuminazione artificiale) sono state effettuate a luce ambiente, in modo che le sculture risultassero riprodotte nelle condizioni di chiaroscuro previste dall’artista; di ogni complesso si è presentata per prima una visone generale, ripresa dal punto di vista ottimale rintracciato in seguito all’analisi della ragione prospettica dell’insieme; i particolari infine sono stati fotografati senza ricorrere all’impiego di ponteggi, e collocando sempre l’obiettivo ad altezza d’uomo nei punti di vista individuati ancora come ottimali nell’ambito del reticolo prospettico del complesso.” Troviamo in questo testo, non firmato e quindi da attribuirsi ai tre autori del volume ( Monti, lo storico dell’arte Eugenio Riccòmini e il fratello di questi Corrado, fotografo a sua volta) una summa che si rivela essere ideologica ancor prima che metodologica, derivando questa coerentemente da quella. A fondamento del tutto si poneva il riferimento alle caratteristiche di oggettività della rappresentazione fotografica, alla concezione montiana di documento da cui erano fatte derivare le prescrizioni relative al rispetto delle condizioni di illuminazione e di registrazione dei particolari;  quindi – ben chiara- la definizione della campagna documentaria come progetto analitico di individuazione e restituzione delle ragioni e condizioni prospettiche e più generalmente spaziali, ambientali dell’opera[524], certo memore delle prescrizioni wolffliniane sui problemi posti dalla restituzione fotografica delle sculture[525],  che qui prendeva  forma di   serie o sequenze di immagini, secondo un procedere caro a Monti. Ciò che rendeva specialmente significativa questa breve avvertenza era però la comparsa – sorprendente nella sua disarmante semplicità – dell’accettazione di una sostanziale coincidenza tra occhio e apparecchio, tra percezione sensoriale e registrazione ottica e fotochimica. Questa concezione ‘ illuministica’ della fotografia come finestra, come schermo trasparente (da qui l’obiettività)  e non come sistema complesso di trascrizione appariva in palese contrasto con le sue dichiarazioni di poetica e col suo stesso operare, quale risultava (anche qui)  da alcune immagini in cui combinando opportunamente punto di vista e ottica fotografica, l’autore operava una modifica radicale e antinaturalistica delle figure risultanti, ricche di  eccezionali fascinazioni formali,  quasi surrealiste e certo non immediatamente documentarie[526], analoga a quella adottata nella serie dedicata agli Angeli di scuola berniniana del romano  ponte Sant’Angelo. Realizzata nel maggio del 1966 nel corso dei lavori per la Storia della Letteratura Garzanti[527],  questa serie costituisce una perfetta testimonianza del Monti più visionario, sollecitato dal confronto con un reale qui più che mai ricco di suggestioni. L’architettura barocca, scriveva,  “ha una tale ricchezza di movimenti che io preferisco fotografarla in ombra, perché altrimenti a tutte le forme – già oscillanti, contorte – si sovrappone un’ombra che, cadendo in certi punti poco opportunamente, le deforma (…). Contemporaneamente ho fotografato però le sculture di tipo berniniano del ponte degli Angeli a Roma con il sole, perché in quel caso la ‘confusione’ barocca delle forme era tale che le ombre – e soprattutto le macchie nere che sono venute fuori con il tempo – non facevano altro che aggiungere altro movimento al movimento che c’era già”  (Angelo con la corona di spine, part., tav. 167)[528]. Il contrasto netto tra superfici esposte e sottosquadri, certo, ma anche una magistrale interpretazione dinamica, antinaturalistica di quelle forme scultoree di cui è esempio paradigmatico la ripresa dedicata all’Angelo con la colonna della Flagellazione  (tavv. 168, 169), che mostra una sorprendente analogia con quella di Giuseppe Pagano[529], successivamente riproposta con leggere varianti da Giorgio Vasari sotto la regia di Luigi Moretti (e la condizione si ripresentò anche per la Fontana dei Fiumi) quale episodio di Forme astratte nella scultura barocca[530], offrendo suggestive letture critiche e visuali che si collocavano cronologicamente negli anni immediatamente precedenti alla collaborazione di Monti con l’architetto[531].

Più articolato e complesso il rapporto e la lettura offerta della Fontana di Trevi[532]  (tavv. 170, 171, 172), celebrata nel 1960 da Fellini ne La dolce vita, per non dire  di Totòtruffa ’62  di Camillo Mastrocinque.  Le prime fotografie, pubblicate a corredo di un articolo di Mario Praz (1960), erano ancora descrittive, quasi cronachistiche[533], ben diverse dall’indagine serrata condotta nel 1966, ritornando più volte sul tema per misurarsi con l’articolazione dei volumi, la resa materica delle scogliere e i rapporti con l’intorno, sino a produrre quello che immediatamente venne riconosciuto come “un capolavoro, per il quale hanno concorso tutti quei fattori che in altri professionisti raramente compaiono uniti (…): gusto, cultura, esperienza tecnica di parecchi anni, insomma tutto ciò che con altri avrebbe fatto diventare la fontana di Trevi un monumento visto da Negulesco[534] e acquistato in cartolina da un turista medio, con Monti diventa espressione, continuità di lavoro, trattato critico, sotto forma di fotografia, sulla costruzione di questo splendido monumento italiano”[535].  Lo stesso fotografo era ben consapevole della complessità e ricchezza di quel lavoro, che presentò  con un testo specifico[536] nel quale  sottolineava il “falso disordine delle rocce che simulano un ambiente naturale con una continua invenzione di forme che secondo la nostra esperienza attuale potremmo definire informali ed astratte”. La  storicizzazione della sua lettura si estendeva così sino a riconoscere “sulla sinistra (…) un complesso di forme che ricordano i primi piani delle acqueforti piranesiane”, aggiungendo poi che anche “nella stampa mi sono ricordato di Piranesi,  delle sue magiche caverne d’ombra e delle sue luci che non vengono dal sole ma escono come fosforescenti emanazioni da zone d’ombra”[537]. Il lavoro sulla Fontana di Trevi, come e più del successivo dedicato alla Pietà Rondanini, ci permette di considerare anche un altro aspetto determinante della sua fotografia, che diremmo intesa come forma espressiva nel tempo (anche storico) ma non del tempo, se non come effetto di sedimentazione di una lunga durata. Mai come accadimento, poiché  quando ciò accadeva, come nei movimenti di macchina (tavv. 051, 052), il prezzo da pagare era l’azzeramento della verosimiglianza analogica,  la sua trasformazione in figura altra, autonoma. È quanto si ricava anche dalle sue prime riflessioni sulla fotografia, fatte “da uomo che non è soltanto fotografo”, nelle quali riconosceva che “la limitazione della fotografia è proprio questa: che ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni (…) ci dà la fase  presente”[538]. Se questa variante ‘realistica’ dell’hic et nunc benjaminiano costituiva per Monti il dramma esistenziale della fotografia, allora assume un senso più profondo e compiuto la sua predilezione per le forme sedimentate dei muri corrosi e graffiti, delle materie sottoposte all’agire del tempo, per le testimonianze del patrimonio storico che portano in sé, nel fotografabile presente, i segni del tempo passato, di una durata altrimenti inattingibile. C’è però anche un altro aspetto che concerne il rapporto col tempo ed è quello implicato dalla strutturazione degli aggregati discorsivi, concettualmente distinti, delle sequenze e delle serie, da non confondersi però con insiemi semplicemente distribuiti negli anni come i ritratti della nipote.  Nelle sequenze (riconoscibili in parte nei lavori dedicati ai centri storici) la relazione tra le immagini implica (e vive di) uno scarto temporale, di una diacronia che diventa meccanismo narrativo, istituendo necessariamente un prima e un dopo tra le sub unità che la costituiscono, mentre le serie, pur contenendo in sé (inevitabilmente) uno scarto temporale, vivono percettivamente in una sincronia, essendo infine tutte leggibili mediante relazioni reciproche tra le immagini, senza che la consequenzialità  giochi ruolo alcuno. Si consideri il lavoro sulla fontana di Trevi, che certo implica il tempo dell’indagine ma nel quale la disposizione finale delle fotografie non risponde ad alcuna necessità descrittiva né di andamento cronologico. Si presenta anzi come sincronica,  pur esprimendo differenti e distinte durate: quelle della lettura e della restituzione montiana e, infine, quella della ricezione del lettore[539], non vincolata ad alcun ordine prestabilito poiché non era fissata dall’impaginazione editoriale come accadeva invece nel caso della Pietà Rondanini, alla quale Monti dedicò il solo libro fotografico pubblicato a suo nome[540].

Dopo le prime fotografie realizzate nel 1956 nell’ambito della più ampia documentazione dei riallestimento museale del Castello Sforzesco di Milano progettato dallo studio BPR[541], Monti sarebbe ritornato a fotografare il gruppo scultoreo ancora nel 1966 (tav. 176) per concorrere all’affidamento dell’incarico – poi non ottenuto – per l’apparato fotografico della grande opera Electa sulla scultura italiana[542], quindi ancora nel 1977, forse su suggerimento dell’editore e libraio Peppi Battaglini, realizzando in una settimana di lavoro alcune centinaia di riprese (tavv.177, 178, 179, 180), tra le quali vennero selezionate le centonove  pubblicate in volume. Il  percorso interpretativo mostrava un avvio canonico, con una serie di inquadrature a figura intera solo lievemente scorciate dove, come in tutto il lavoro, era il mutare dell’illuminazione che contribuiva a determinare la necessità di ogni scatto, restituendo ogni volta aspetti e immagini diverse di quella scultura. La lettura procedeva con una circumnavigazione lenta[543], antioraria, ferma ad altezza d’occhio nelle prime dieci fotografie, per poi salire scorciando le figure che incominciavano ad apparire corrose dalla luce, assorbite dall’ombra piena. Quando lo sguardo si spostava al fianco destro, il profilo a contrasto sullo sfondo tenuto alternativamente scuro o chiaro diventava un segno dinamico che esprimeva tutta la tensione corporale e simbolica del gruppo. Poi compariva lo specchio, ad offrire una simultaneità altrimenti impossibile, per questo straniante: dapprima appariva altro, rivelandosi solo progressivamente come doppio, quasi una moltiplicazione corale. Infine lo scarto dei particolari, le forme e i modi dello scolpire e della scultura, interpretati con tutta la sapienza che gli derivava dal confronto decennale con pietre e rocce; le tracce lasciate dagli attrezzi che incisero sulla materia[544] per mutarla in carne e corpo dolente, esprimendo un senso forte di tragicità.  Un sentimento che avremmo ritrovato anche nella lettura del Crocifisso ligneo del Museo Civico di Rimini, in cui la sequenza finale non solo suggeriva “inesauribili e legittime possibilità di lettura e aiuta[va] concretamente a guardare fuori dagli inibiti schemi ortogonali in cui si fissa usualmente il ricordo di oggetti scultorei” ma, col proprio andamento dall’alto verso il basso, dal volto ai piedi, proponeva una interpretazione simbolica favorita dall’eliminazione di ogni dettaglio di ambiente, conclusa significativamente con la suggestione di movimento, di spinta ascensionale del corpo del Cristo ormai staccato da terra dell’ultima immagine[545].

Svanita la vivacità dionisiaca con cui erano stati resi gli Angeli berniniani come le evocazioni  piranesiane della Fontana di Trevi, affiorava qui, prepotente, una eco drammatica che non pare di poter attribuire alla sola sacralità del soggetto[546] e che risentiva forse di una stagione della vita di Monti che lo aveva spinto al ripensamento, al bilancio esistenziale:  “L’incidente dello scorso anno – scriveva a Paolo Fossati giusto nel marzo del 1977 – mi ha gravemente danneggiato, non nel mio lavoro ma nel mio modo di pensare su quello che faccio e soprattutto su quello che ho fatto in passato. Ormai sono 30 anni. Tutto l’interesse che la fotografia ha provocato anche in persone così poco serie, i saggi (ma sono proprio saggi?) pubblicati dai nuovi proseliti, dagli scopritori di genii incompresi, le rapine continue da parte di nuovi pittori e tutti gli ottusi entusiasmi che la fotografia sta provocando solo per scopi commerciali, mi hanno stancato (…). In verità solo il lavoro mi eccita ancora e soprattutto le cose che prima del mio passaggio al professionismo mi hanno portato a pensare alla fotografia come una cosa degna di un uomo serio. Questa piccola scoperta, come Lei sa, mi ha spinto ad abbandonare il mio lavoro e a passare al professionismo con tutti i rischi di quel tempo ormai così lontano”[547].

L’occasione per quel bilancio era il progetto einaudiano di una pubblicazione monografica a lui dedicata, avanzato da Fossati nel 1973 sulla scia di quella di Ugo Mulas, uscita nello stesso anno.  Dopo una serie piuttosto lasca di scambi epistolari, fu solo nell’aprile 1975 che la casa editrice sottopose a Monti il relativo contratto editoriale, comprensivo di indicazione del titolo Dall’architettura al paesaggio. “Caro Fossati – rispose Monti a settembre – tutte le volte che vedo in vetrina un libro Einaudi o che in casa me ne capita uno sottomano, e ne ho molti, mi viene un nodo di coscienza e quasi mi vergogno. Purtroppo quest’anno è stato pieno di lavori (…). Quintavalle mi assilla da molto per una mostra molto complessa ed anche a lui ho dovuto dire di pazientare, tanto più che io non sono d’accordo su alcune sue idee sulla fotografia, mia e di altri[548]. Vedremo. La terrò al corrente dei miei movimenti (…).” La risposta non poteva essere più attendista e pare aver determinato un’interruzione nell’elaborazione del progetto, ma l’incidente occorso non dev’essere stata la sola ragione se nel gennaio 1977 Fossati scriveva a Monti lamentando con un poco di amarezza che “non ci siamo più parlati del suo libro e la cosa mi dispiace. Non l’ho più importunata perché sono dell’idea che questi libri bisogna che siano sentiti anche dai loro autori senza troppe spinte esterne, seppure dell’editore.” Nella lettera del marzo ’77 sopra citata, la loro ultima, Monti lo invitava a un incontro a Milano per “vedere assieme il massimo numero di foto di questi passati 30 anni. Negli ultimi tempi ne ho ristampate molte, alcune degli anni ’50, e mi sono convinto che il mio lavoro [cioè: il fotografo] era proprio questo. L’importante ora è saper dire le cose giuste. Spero di farlo col suo aiuto.” Monti certamente lavorò al progetto imbastendo un lungo e articolato schema[549], ordinato per capitoli, più enciclopedico che antologico,  che spaziava dalla “Storia del vedutismo architettonico e ambientale”, da realizzare con Andrea  Emiliani, a “qualche considerazione sulla fotografia di architettura e di ambiente che dovrebbe essere la parte più importante e anche più nuova del libro”[550], passando attraverso tutti i suoi temi più noti e cari per soffermarsi infine, con intenti più didascalici, quasi manualistici, su  “metodologia e tecnica” o “il formato e la composizione”.  In coerenza col titolo però nessuna traccia delle sue produzioni più ‘sperimentali’: né sfocati né mossi; né rifrazioni o chimigrammi  nelle foto di quei “passati 30 anni”, quasi fossero stati  un continuo esercizio segreto. Quel progetto einaudiano non andò in porto, come altri di quel periodo, e la prima occasione per presentare antologicamente anche quelle “ricerche e sperimentazioni”  avrebbe potuto essere la mostra di Reggio Emilia dell’ottobre del 1979, già esposta a Mantova,  nominalmente curata dallo stesso Monti con un testo in catalogo di Giuseppe Turroni[551]. L’uso del condizionale è però d’obbligo di fronte non tanto al ridotto numero di stampe presenti, circa un centinaio, quanto a una lettura ancora troppo debitrice della scena dei circoli fotografici, ormai inadeguata a restituire la complessità di una carriera tanto lunga e complessa. Non era però quella la sola lacuna: altre risultavano tanto macroscopiche da apparire incomprensibili, non comparendo né i due cicli romani dedicati alle statue di ponte Sant’Angelo e alla Fontana di Trevi, né il più recente lavoro sulla Pietà Rondanini. Più interessante e utile, per chi l’avesse voluta leggere, l’antologia di scritti che precedeva le “Illustrazioni” e poteva aiutare in parte a comprenderle, sebbene poi  alle puntuali note dedicate al rilevamento del centro storico di Bologna non corrispondesse neppure un’immagine in catalogo. Sola testimonianza dei censimenti condotti in Emilia Romagna erano infatti quattro fotografie del borgo appenninico di Ramiseto di Gazzolo, in provincia di Reggio Emilia[552].

“Penso che sia giunto il momento di dedicare una mostra a  Paolo Monti –  scriveva Piero Racanicchi ad Arcari nel 1982 –  il problema, come già ti ho scritto, è quello del tema: mostra antologica, con ampio catalogo storico-critico, o mostra di argomento circoscritto (…)?  Ti suggerirei di parlarne con lo stesso Monti”[553]. Il progetto non poté avere seguito per la morte del fotografo,  avvenuta appena due mesi più tardi, ma non fu del tutto abbandonato se ancora nei primi mesi dell’anno successivo, nel presentare alla vedova Maria Binotti un progetto di mostra e volume per Jacka Book, Giovanni Chiaramonte, Maria Antonietta Crippa  e Marina Loffi Randolin chiedevano garanzia formale che “per l’84 e l’85 non siano organizzate mostre su Paolo Monti fotografo di architettura. A questo proposito un chiarimento con Torino è indispensabile”, mostrandosi però nel contempo disposti a collaborare “eventualmente per una sezione specifica dell’esposizione antologica”[554].  Neppure questi progetti ebbero seguito concreto, e sebbene nei decenni successivi si svolgessero più di venti mostre tematiche dedicate ad aspetti specifici della sua produzione, si dovette attendere il 2016 per avere la prima grande mostra antologica che affrontava per la prima volta i diversi aspetti della sua produzione mettendone in evidenza i reciproci nessi profondi, potendosi finalmente avvalere della catalogazione completa del suo fondo fotografico, condotta per serie[555].

 

La pittura

 

“Non mi piace fotografare i quadri – affermava Monti in un’intervista del 1980 – Mi interessano i particolari: lì esce l’abilità del fotografo. Nel particolare si deve vedere che il quadro continua, ma l’immagine deve essere equilibrata. Come si fa?  Dipende dal taglio che si sceglie. Il particolare dovrebbe essere così completo da sembrare un quadro. Non sempre si riesce”[556].  Quelle modalità d’indagine, fatte di scomposizioni analitiche per sequenze, vennero adottate a partire dall’audiovisivo realizzato nel 1975 in occasione della mostra dedicata a Federico Barocci[557], poi proseguite  in modo più stringente  con l’indagine condotta sull’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, realizzata dopo il restauro (1976-1979) voluto da Cesare Gnudi e pubblicata postuma in occasione della mostra bolognese del 1983[558].  Quella “memorabile ricognizione” costituiva, come scrisse Emiliani[559], “un modello di prassi conoscitiva, che si rifiuta infatti a eleggere ‘particolari’ che non siano tecnici e dunque chirurgici in quella non sezionabile bramantesca formula che celebra il cerchio entro la perfezione del quadrato”. Nell’impaginazione finale l’andamento si sviluppava canonicamente dal generale al particolare, con una prima serie di movimenti centrati sull’asse principale, rivolti alla parte alta del dipinto (il gruppo dei santi, gli angeli, santa Cecilia) per aprirsi poi lateralmente e proseguire  per fasce orizzontali prive di scarti, parzialmente sovrapposte e successivamente approfondite (dalla figura intera al  dettaglio, dagli oggetti al particolare degli stessi) in un rilevamento quasi topografico dell’opera, nel quale ciascuna immagine conteneva elementi che la legavano indissolubilmente alla totalità del dipinto. Il percorso si chiudeva con la serie di riprese dedicate agli strumenti musicali che ne occupano il primissimo piano, mai ridotti a ‘motivo’ però, nello sforzo perfettamente controllato di non guardare all’opera di Raffaello come pretesto (prova ne sia la marcata assenza di immagini dei volti, che troppo rischiosamente avrebbero potuto tradursi in ritratti) per votarsi invece completamente all’analisi, per fornire strumenti utili ad un approfondimento della lettura senza concedersi  gratuite reinvenzioni formali.

È quanto accadeva, esemplarmente, anche nel lavoro di ricognizione di Fiumana e di Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, condotto su richiesta di Mercedes Garberi in previsione di un audiovisivo a corredo alla mostra alessandrina del 1980, poi non realizzato[560]. Fin da una prima, rapida osservazione dei  provini si nota come Monti avesse lasciato per ultimissime proprio le riprese dei due totali dei quadri; la registrazione del dato referenziale costituiva  quindi l’ultimo gesto del fotografo, puramente strumentale. Il percorso di avvicinamento era diverso, non rispecchiava i canoni della comunicazione finale; il confronto che ne risultava ci  appare individuale, diretto; esperienza intima da cui far nascere un progetto critico.

Seguendo la cronologia delle opere, il loro stesso rapporto genetico Monti si rivolse per prima a Fiumana, muovendo l’apparecchio da sinistra a destra, secondo il modo consueto dell’osservare, con pause e soluzioni di continuità, seguendo un percorso visivo non lineare, dove approfondimenti e sottolineature di certi elementi attraenti si alternavano a momenti di ripensamento. Da questi emergeva una prima intuizione forte della possibilità di restituire fotograficamente il moto, l’azione delle figure maschili al primo piano.   Nel secondo rullo questa venne estesa a tutta la superficie del quadro, e della scena, con una serie di immagini strette all’avanzare compatto delle figure, ridotte alle diverse posture dei corpi in moto, privati del volto, quasi a ribadire e sottoscrivere la volontà di Pellizza di “far nascere l’illusione di trovarsi davanti non ad una tela ma ad una vera massa di popolo”[561]. Il passaggio al Quarto Stato era brusco, non implicava la conclusione della ricognizione sull’opera precedente che anzi pareva fosse servita a mettere a punto una strategia di avvicinamento più che un metodo; ogni ipotesi  di lettura  generalizzata venne messa da parte per affrontare immediatamente, con la bella sequenza dei gesti,  l’approfondimento di un altro tema caro a Pellizza[562], per passare quindi allo studio dei vari blocchi di figure, ritagliando porzioni secondo modi che rimandavano all’estetica del reportage con inquadrature che suggerivano l’immobilizzazione dell’atto, quella monumentalizzazione dei comportamenti e delle posture che è propria  dell’istantanea fotografica, linguaggio non estraneo – come sappiamo – agli stessi interessi di Giuseppe Pellizza[563]. Il tema del moto, del lento avanzare si trasformava poi in una lettura approfondita delle soluzioni pittoriche, per scoprire nella meditata precisione  del disegno, della composizione l’efficacia dell’insieme: dal particolare al generale. In mezzo, riscontro necessario, un ritorno improvviso a Fiumana: una verifica. La lettura del Quarto Stato proseguiva per scomposizioni e riaggregazioni del terzetto centrale,  rivolgendosi quindi alle singole figure, ancora sempre immerse nella tensione collettiva della scena di massa (tavv. 182, 183). Solo avviandosi alla fine di questo viaggio di scoperta Monti si dedicava ai dettagli, alla fascinazione della grafia pittorica di Pellizza, alla sapienza colta dei panneggi e dei singoli gesti[564], alle suggestioni che nascevano dalla diversa stesura delle due opere (tav. 184), per chiudere infine con le viste generali dei due quadri, un gesto che comportava l’allontanamento definitivo.  La lettura condotta da Monti quale è possibile ricostruire seguendo l’ordine delle riprese sembra essersi svolta secondo due percorsi, due logiche diverse: analisi del quadro come dipinto e come scena. Il fotografo passava dall’uno all’altro registro cercando nelle loro ragioni reciproche il senso e il valore dell’opera di Pellizza, ricorrendo per questo  al gesto fondante dell’agire fotografico, quello che comunemente chiamiamo “taglio”, ma che qui più opportunamente definiremo “inquadratura”.  Se il primo infatti incide contemporaneamente sul tempo e sullo spazio, isola e separa inesorabilmente l’immagine dal mondo trasformandola in figura, nella fotografia di un dipinto il continuum temporale, la durata da cui prelevare un istante non esiste, è data una volta per tutte, predeterminata e immutabile come lo spazio complessivo in cui si svolge. Per questo l’azione qui consentita al fotografo può essere solo  l’inquadratura: non “tagliata dal vivo”[565] però, ma nella sua trasfigurazione e trascrizione, della quale nulla mai può essere definitivamente perduto o escluso, continuando a esistere in immagine oltre il momento dello scatto. Anche il tempo dell’arresto e della perpetuazione dell’azione sono già definiti per sempre e il fotografo non può che misurarsi, a volte, con un tempo reinventato, leggendo il dipinto come scena (appunto) o come materia.  Ripensando alla lettura degli Equivalents di Alfred Stieglitz fatta da Philippe Dubois scopriamo che anche in questa ricognizione montiana non c’è messa in scena dell’oggetto in funzione di un progetto di creazione estetica: “c’è solamente un gesto di ritagliare, di fare a pezzi il tessuto continuo dello spazio (…) Ed è solo questo gesto che, qualunque siano le intenzioni, genera sempre degli effetti di composizione”[566]. Sono quegli stessi intorno ai quali lavorava Monti considerandoli strumenti fondanti della propria possibilità di lettura, di traduzione dell’opera, del proprio agire intellettuale e critico.  è la comprensione profonda di quegli elementi che gli consentiva, misurandosi  con le opere d’arte, di esplorare  i confini della fotografia.

Ancora un’occasione emiliana, la sua ultima, fu la lettura del Sigismondo Malatesta in ginocchio davanti a San Sigismondo di Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano di Rimini, realizzata nella primavera del 1982 in occasione della mostra Dipinti di antichi maestri restaurati[567]. Qui il percorso di lettura mutava radicalmente andamento e, direi, scopo: appare piuttosto l’esito di un incontro e di una ricerca. Non più sequenze dal particolare al generale ma investigazioni insistite su ciascuna delle figure che abitano lo spazio sospeso di questo affresco, isolate, con particolare attenzione al linguaggio gestuale delle mani  (tav. 185)[568].  San Sigismondo dapprima, indagato minuziosamente alla ricerca di segni autografi e nuove tracce fuoriuscite dal trascorrere del tempo nella materia dell’opera, evocazioni dei Muri; poi il Malatesta, in progressione ravvicinata sino a tentarne il ritratto, la sottolineatura dell’espressione del volto, così strutturalmente ed emotivamente distante da quello del santo. Monti  muoveva poi alla parte destra, ai “due veltri oppostamente accosciati [ove] par che l’inversione della posa porti seco l’inversione del colore”[569]; al castello di Rimini che appare oltre l’oculo aperto nella parete illusoria, misurandosi infine con la sinopia. Come era doveroso attendersi, Monti non applicava schemi precostituiti; si confrontava ogni volta coi problemi di lettura critica che ciascuna opera impone,  in questo mostrando di aver meditato non tanto sulla tradizione pur ricca della storia della fotografia italiana di documentazione d’arte, sostanzialmente estranea a questo procedere[570],  quanto di essersi confrontato con la lezione offerta dalla monografia di Roberto Longhi su Piero della Francesca, pubblicata nel 1927 poi  ristampata con un corredo iconografico ampliato nel 1946. Nella prefazione a questa seconda edizione l’autore sottolineava la novità e la rilevanza di quell’antico “materiale illustrativo, che fu anch’esso esemplare a tante altre scelte e diede, involontariamente, fin troppo l’avvio alla smania, spesso sbadata, dei ‘particolari’ e dei ‘particolari di particolari’ ”, che per la prima volta comparvero in quell’opera a formare nel loro insieme un compiuto testo critico,  un saggio per immagini costruito a partire dalla riproduzioni di Anderson e Brogi, Alinari e Giraudon, presentate e impaginate con tagli arditi nei quali la sottolineatura del dettaglio superava l’immediata funzione didascalica per farsi veicolo di ipotesi critiche ad ampio raggio, che suggerivano derivazioni e legami lungo tutto il percorso storico dell’arte, sino a comporre figure dotate di forte autonomia, condotta sino ad una reinvenzione compositiva nella quale non è difficile intravvedere suggestioni derivate dalle coeve ricerche artistiche.

 

I grandi architetti classici

“Fotografie per volume Borromini. Stampe millimetrate su inquadrature desunte da prove contatto o ingrandimenti di miei negativi – eseguite da Dino Sala su vostro ordine” riporta una fattura del 15 febbraio 1968 indirizzata alla casa editrice Electa, con riferimento al volume di Paolo Portoghesi pubblicato l’anno precedente[571]. È questa una delle prime (forse la prima) indicazione documentaria dell’impegno di Monti nel confronto specifico con i grandi architetti del passato; letture monografiche che si distinguevano quindi per obiettivi e metodologia dalle indagini tipologiche come quelle condotte sulle ville genovesi (1963-1964) o sulle architetture gotiche veneziane (1970). Se la partecipazione al progetto editoriale di Portoghesi fu ancora relativamente episodica, essendo la più parte delle fotografie pubblicate dovuta all’autore stesso[572], il successivo confronto con le architetture di Leon Battista Alberti, destinate alla mostra romana per il cinquecentenario della morte, fu realizzato in gran parte da Monti, e molte di quelle fotografie confluirono nell’apparato fotografico del volume curato da Franco Borsi[573]. Frutto del consolidato rapporto con Electa fu l’affidamento nel 1976 della realizzazione di tutto l’apparato fotografico del volume di Eugenio Battisti dedicato a Brunelleschi, un autore col quale si era già misurato circa dieci anni prima  per quello di Eugenio Luporini[574], pubblicato in un periodo di rinnovato interesse per quel maestro. Nel presentare le ragioni della sua profonda revisione critica Battisti ricorreva a un’analogia fotografica: “Man mano che si sfogliano le pagine, scompare, infatti, come in una fotografia mal sviluppata, la tradizionale immagine di lui suggerita dai cento studi generici sul Rinascimento (…). In alcuni casi il divario è tale che ne potrebbe nascere un profondo scetticismo sulla validità d’ogni critica verbale rivolta all’analisi dei fatti architettonici, se altrettanto colpevoli non risultassero i rilievi tradizionalmente usati e le fotografie d’archivio”[575]. Da qui la necessità di realizzare un’apposita e innovativa campagna documentaria, molto articolata nei modi e nelle soluzioni di ripresa, per la cui conduzione si può ipotizzare se non proprio una rigida regia almeno un confronto serrato tra studioso e fotografo, confermato anche dalla presenza di Monti alla performance dedicata  alla riproposizione  dell’esperienza della tavola prospettica brunelleschiana nel giugno del 1975 (tav. 189)[576]. Assecondando il taglio monografico del saggio, Monti fotografava anche le opere di Brunelleschi scultore (l’altare di San Jacopo nella cattedrale di Pistoia, la formella col Sacrificio di Isacco al Museo del Bargello, con un’analisi dettagliata dei gesti delle figure), ma naturalmente la più parte del lavoro era dedicata alle architetture. Qui confermava la sua grande maestria nella restituzione dei rapporti spaziali[577], adottando punti di vista coerentemente prospettici (tav. 191), che davano evidenza plastica alla nota riflessione di  Wittkower[578] e  gli consentivano di restituire  compiutamente la misurata armonia di quelle costruzioni. Alle riprese con asse prospettico centrale ne accostava altre di impianto perfettamente ortogonale o zenitale,  per  corredare e puntualmente riflettere i rilievi grafici degli edifici (si veda il modulo compositivo della facciata dell’Ospedale degli Innocenti),  rivelando così la precisa adesione alle necessità del committente, altrettanto evidente in quei casi in cui lo studioso richiese al fotografo di mostrare “la mano dell’architetto” o di restituire la tessitura muraria della cupola di Santa Maria del Fiore, con riprese degli interni che i forti contrasti di luce rendevano drammatiche (tav. 192). La verifica condotta in archivio conferma che tutto il lavoro fu realizzato utilizzando il formato 35 mm, con apparecchio a mano e obiettivo decentrabile;  un procedimento certo speditivo ma non sempre adeguato, così che in alcuni scatti relativi ai dettagli della trabeazione o al sistema delle coperture la ripresa risultava eccessivamente scorciata,  generando effetti di distorsione ottica che non poco ne disturbano la lettura. Un prezzo da pagare a parere di Monti, poiché “importante è non generalizzare: la deformazione prospettica va bene solo in certi casi. La vista d’interno di una chiesa a tre navate deve essere corretta, le linee devono essere diritte, anche se si dovesse perdere un terzo di arco. Se dobbiamo invece far vedere cosa sostiene il tetto, quante cupole ci sono, quanti archi e come sono collegati fra loro, ecc. possiamo esagerare la deformazione prospettica con le linee che corrono verso uno stesso punto”[579]. Ritroviamo qui qualcosa più di  una eco delle prescrizioni di John Ruskin, che aveva a suo tempo suggerito di  cogliere “ogni opportunità offerta dalle impalcature per avvicinarsi ad essa,  collocando l’apparecchio in qualsiasi posizione imposta dalla scultura, senza alcun riguardo per le risultanti distorsioni delle linee verticali; tali distorsioni  possono essere tollerate  quando  si siano ottenuti compiutamente i dettagli”[580].

Nella stessa collana di Electa usciva nel 1977 il volume dedicato a Mauro Codussi[581] per la cura di Loredana Olivato e Lionello Puppi, che Monti aveva già conosciuto nel corso delle campagne di rilevamento appenniniche. L’occasione ebbe per Monti un significato speciale poiché veniva dopo alcuni mesi di forzata inattività: Dopo tanto far niente – scriveva a Paolo Fossati – ora incomincerò a lavorare molto e quello che più mi attira è un volume per l’Electa su un architetto veneziano poco noto. L’architettura, e la scultura bisogna dirlo, restano i miei due punti forti del lavoro professionale: il resto, ed è molto, sono i capricci sulla tastiera. La natura, il ritratto e la scoperta di una tecnica che mostra il suo fascino per le cose inutili. Nei prossimi giorni otto ore al giorno di riprese, all’aperto quasi tutte, penso mi rimetteranno di nuovo in forma e sarà l’architettura a stimolarmi come avvenne a Venezia e unendo l’ambiente eccezionale”[582].  Come ricordavano i curatori nella Premessa, il progetto storiografico prevedeva di operare sui due livelli  complementari “dell’analisi contestuale e del ragionamento obiettivo dei dati d’informazione (…).  A rendere, poi, tanto più ricco e dinamico il dialogo tra i due livelli di scrittura, è stato indirizzato l’uso dei repertori illustrativi, dove i materiali più propriamente di documentazione iconografica vengono ad integrare l’amplissima sequenza delle immagini espressamente eseguite a capo di un fertile dibattito intrattenuto fra il fotografo e gli autori.” Come già nella predisposizione dell’apparato fotografico per Venezia gotica (1970), Monti doveva affrontare un plurimo  ordine di sollecitazioni, provandosi a coniugare le indicazioni storico critiche con le  suggestioni,  le lunghe frequentazioni e le specificità urbanistiche e ambientali veneziane; qualcosa che metteva in gioco la sua stessa biografia personale ed espressiva.  Le riprese delle facciate vennero risolte con vedute frontali o fortemente scorciate (a volte accoppiate nell’impaginazione di Diego Birelli), che in molti casi rivelano il ricorso ad un filtro per scurire lievemente i cieli e far risaltare i rivestimenti in pietra d’Istria e di Verona (tavv. 193, 194, 195),  conservando quell’ampia scala di gradazioni di grigio che era mancata in altre pubblicazioni degli stessi anni.  Lo scorcio ritornava nella restituzione dei sistemi voltati, quasi esprimendo  l’intenzione ‘naturalistica’ di restituire  un punto di vista corrispondente allo sguardo dell’osservatore: una posizione (forse una postura) percettiva e quindi soggettiva oltre che tecnica. Da questo rigore descrittivo quasi manualistico si distaccava l’illusionistico gioco della facciata delle ‘vecchie’ Procuratie[583] riflessa in un’ampia pozza d’acqua; una fotografia di alto gusto amatoriale,  tanto affascinante però da essere accolta dagli autori e valorizzata dal grafico, che le concesse una pagina destra al vivo.

Quasi a chiudere un ciclo, quasi a costituire una non dichiarata monografia di Monti fotografo e un omaggio al suo continuo travaso tra ricerche personali e pratica professionale, Andrea Emiliani pubblicava nel 1979 una selezione di un centinaio di fotografie di repertorio, certo realizzate per incarichi precedenti  ma qui selezionate anche per la loro particolare autonomia compositiva. Un corredo che mostrava  nella scelta delle immagini come nella loro articolazione in sequenza tutta la complice sintonia intellettuale tra lo storico dell’arte e l’amico fotografo, dove la funzione documentaria lasciava emergere e conviveva con tutte le ansie sperimentali della ricerca personale. Si consideri a questo proposito la fotografia di uno stucco decorativo di Galeazzo Alessi in Villa delle Peschiere a Genova (Tav. 196) [584] che in una versione radicalmente rielaborata in fase di stampa (ribaltamento orizzontale, mascherature e bruciature)  venne presentata come Natura, 1960,  nella monografica di Reggio Emilia (tav. 197)[585], confermando ancora una volta con questo mutamento  di statuto da documento a opera,  indifferente ai dati referenziali e cronologici, che per Monti la stampa finale, “immagine oggettiva ‘soggettivata’” era il vero compimento del processo fotografico; ” una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà[586]. Altre suggestioni ancora emergono dalla ripresa  della Cotta aprettata del Conservatorio del Baraccano di Bologna[587] (tav. 198), nella quale si riconosce  quel fascino per le grafie pure della trama che si ritrova anche in  Felci, riflessi deformati, 1974 (tav. 111).  Qualcosa di ben diverso da quella “ricognizione fotografica dell’esistente” condotta da Monti e celebrata qualche anno più tardi dallo stesso Emiliani, che le riconosceva “un ruolo determinante proprio in quel movimento di conoscenza e di riappropriazione che unisce, in uno sforzo, un doppio risultato”, concludendo infine che “assai più che non la scuola e la stessa ricerca specifica, la ricognizione fotografica, attivando processi di comunicazione immensi attraverso la stampa, ha giovato al patrimonio artistico una costante dinamica dei suoi confini, quasi tornando ad imporre all’occhio quella funzione organizzativa e classificatoria che sta alle origini stesse dell’opera storica di tutela artistica e della proposta operativa rappresentata dal museo”[588].

 

Storie,  luoghi, territori

Oltre a Venezia, della quale negli anni de La Gondola aveva raccontato specialmente l’edilizia minore, fu Roma il luogo del suo primo confronto con l’architettura storica, verosimilmente in occasione della sua prima personale all’Associazione Fotografica Romana del 1952. Accanto ad alcune veloci notazioni di carattere bressoniano (tavv. 174, 175), non per caso poi premiate con la copertina di “Ferrania”, il tema principale, quanto mai prevedibile, fu l’archeologia dei Fori, ripresa con le luci radenti dell’estate filtrando i cieli per ottenere stampe dai forti contrasti tonali, palesemente ‘irreali’ (tav. 199)[589]. “Bianchi frammenti di marmo, splendenti colonne imperiali, pietre levigate da secoli –  scrisse poi Giovanni Chiaramonte[590] – rilucono nella Città Eterna tra la cupola oscura del cielo e la caotica tenebra di scavi e rovine, sopra lo squarcio raggiato di una antica volta in mattoni che s’apre, attraverso il geometrico buio d’una porta, alle profondità della terra”, ma la scrittura immaginifica del curatore non riusciva a celare l’approccio dilettantistico al tema, diametralmente opposto a quello che solo pochi anni più tardi avrebbe adottato per realizzare la  campagna fotografica su Castelseprio (1957)[591]  e quella sui  Sacri Monti, a corredo di un articolo di Rudolf Wittkower[592].  Alla prima occasione sistematica di confronto col patrimonio architettonico italiano, avviata nel 1963-1964 col catalogo delle ville genovesi, fece seguito  nel 1965 l’incarico di realizzare l’apparato iconografico per la Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno.  L’idea di affiancare ai saggi “una sorta di storia iconografica della letteratura italiana”[593] era stata di Cecchi, ma Livio Garzanti non intendeva avvalersi del patrimonio fotografico storico  consueto (e anche un poco consunto);  occorreva “un fotografo colto e sapiente, capace di discutere e indiscutibile, che comprendesse le ragioni generali dell’impresa di dare per la prima volta illustrazione compiuta alla nascente Storia[594]. Andrea Emiliani è ritornato più volte sulle feconda fatalità di quell’incontro  “nei corridoi della Casa editrice Garzanti”, dove lui era impegnato con Vanna Massarotti[595] nella ricerca iconografica. “Il fotografo – ricordava  Emiliani[596] – era già noto per la sua conoscenza, spesso straordinaria, del segreto rapporto che regola il legame tra i luoghi e la loro storia. Monti veniva infatti da un mestiere che a Venezia s’era, per così dire, caricato quanto mai di sensi e anche di sentimenti della storia: viveva in sostanza la forma italiana con la coscienza e con la poesia di chi sa bene come in questo paese esista un così lontano e continuo universo formale da rendere quasi impossibile rimuoverne la storia. Paolo Monti stava ore e giorni davanti alle foto Alinari e, bofonchiando come era solito fare, finiva per ammettere che sì, di più era impossibile fare. E che i confini erano già tracciati, cosicché bisognava variare l’intensità, piuttosto, caricare le tensioni conoscitive dell’immagine fotografica. E non illudersi troppo. Di queste varianti di tensione interne, l’opera di Monti è un registro continuo.”   Giusta l’osservazione critica di Emiliani resta però da chiarire su quali basi, allora, si fondasse la fama della “sua conoscenza, spesso straordinaria, del segreto rapporto che regola il legame tra i luoghi e la loro storia” se la sua più nota attività professionale era legata all’architettura contemporanea, a meno che non fossero state proprio le sue magistrali letture della nuova museografia a rivelarne le potenzialità a un osservatore attento. Le campagne fotografiche per Garzanti, eseguite tra luglio 1965 e dicembre 1967 con brevi appendici nei due anni successivi, segnarono “una specie di reintegrazione dell’immagine evocativa entro quel pensiero letterario italiano che, in fondo, legava al luogo nel tempo le più ampie possibilità di comprensione. Monti organizzava il suo viaggio prima mentale e poi fotografico. Ritornava con scatole di fotografie perfette, inattese e indiscutibili, raccomandando al grafico di non operare tagli. La foto di Monti era assolutamente la stessa dal negativo alla stampa. Questa perfezione di taglio e inquadratura resisteva così nelle foto operate con il cavalletto a terra, che in quelle prodotte con la macchina in mano. Fu proprio da questa capacità, che Monti mostrava, mettendo a punto i primi apparecchi decentrabili, che nacque il coinvolgimento nelle attività sul territorio dell’Emilia e Romagna e in seguito una vera amicizia”[597].  Nei ricordi di Emiliani precisione del dettaglio e mitografia si mescolavano[598], contribuendo a definire un’immagine di Monti che si discosta in parte dalla dimensione storica ed è piuttosto indizio del forte legame intellettuale e affettivo tra i due, che congiuntamente vissero quell’impresa e ancor più i successivi progetti in Emilia Romagna, che in parte a quella si sovrapposero cronologicamente[599].  Tra le figure retoriche più forti di quella mitologia troviamo il tema dell’indipendenza decisionale del fotografo nei confronti di  committenti e curatori, rispetto al quale Monti era molto netto ed esplicito, dichiarando di non andare “quasi mai a vedere e poi fotografare i miei soggetti insieme agli autori di quei libri di architettura i quali pur si avvalgono delle mie immagini, perché a volte non sanno guardare bene neppure loro, ed essi necessariamente non guarderanno, non scopriranno quello che andrò a scoprire e guardare io”[600]. Può darsi che la perentorietà dell’affermazione fosse fatta ad usum Delphini, vista la pubblicazione in una rivista fotoamatoriale, ma altre  testimonianze lo contraddicono o almeno relativizzano quelle affermazioni.   Non solo era consuetudine che  l’autore o il curatore del volume fornisse un elenco delle “fotografie da fare sul posto, e vale come indicazione di massima, essendo necessario un adeguato incontro con il fotografo da voi designato per finalizzare strettamente le fotografie alla interpretazione critica data nel testo”[601], ma anche l’analisi dettagliata di alcuni lavori pubblicati mostra  evidenti segni di regia storico critica. Mi riferisco tra gli altri alla campagna pugliese del 1970 finanziata dall’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, certamente condotta sotto la guida di Maria Stella Calò Mariani[602] o alla “analisi fotografica delle opere albertiane [che] è stata appositamente eseguita, nel corrente anno, (…) con la regia di Agnoldomenico Pica”[603], come rivendicava esplicitamente il curatore. Più verosimile allora pensare a confronti e “stimolanti scambi di idee”, come  scrivevano Olivato e Puppi nella Premessa al loro studio su Codussi.

Alle campagne fotografiche per Garzanti si affiancarono, forse occasionate da quelle, le prime ricognizioni regionali per il Touring Club Italiano. Mentre le presenze nei volumi dedicati alla Puglia (1967) e alla Liguria (1969) furono poco più che episodiche e derivate da incarichi precedenti[604], per quello relativo all’Umbria (1969) le foto vennero “espressamente eseguite” da Monti e da Manfredi Bellati, all’epoca più noto come fotografo di moda, ma anche da  Gianni Berengo Gardin. L’incarico, datato 1967,  non conteneva precise indicazioni da parte della committenza,  come sembra  indicare una lettera a Monti di Giuliano Manzutto, redattore  del volume, nella quale si augurava “che nel frattempo avremo finalmente avuto modo di incontrarci e di parlare di molte cose (…). Il lavoro che io ho fatto è pessimo e si sente tutta la mia svogliatezza causata dall’ambiente nel quale il volume si concretizzava. Mi spiace molto che questo possa aver danneggiato le Sue fotografie eseguite invece con tanta partecipazione ed entusiasmo”[605]. Come sempre accade in questo genere di pubblicazioni, le peculiarità di ciascuno degli autori coinvolti tendono ad essere riassorbite dal progetto generale del volume e dall’impaginazione, così in molti casi risulta difficile distinguere Berengo Gardin da Bellati[606]  o da Monti, il cui  specifico magistero è però riconoscibile nella fascinazione per la materia di strade ed edifici (tav. 200) come nella restituzione prospettica perfettamente ortogonale della facciata del Tempio di Minerva ad Assisi (tav. 201) o ancora quella del Duomo e soprattutto di San Felice di Narco a Spoleto, nelle quali l’uso sapiente del teleobiettivo e il controllo perfetto dei parallelismi rimandano quasi a una restituzione fotogrammetrica, mentre la notissima ripresa scorciata del Duomo di Orvieto (tav. 202) ne sottolineava lo slancio gotico; una soluzione che avrebbe poi adottato nella restituzione affilata come una lama dello sperone del Castello de L’Aquila per il successivo volume dedicato a Abruzzo e Molise   (tav. 203)[607].

Parallelamente  Monti ebbe l’occasione di tornare a misurarsi con le amate architetture veneziane per illustrare il volume di Arslan sulla Venezia gotica[608], del quale condivise la responsabilità dell’apparato fotografico con Diego Birelli, art director di Electa e fotografo formatosi con Zannier al Corso Superiore di Disegno Industriale di Venezia. I crediti fotografici non distinguono tra i due autori, così che solo  il lavoro di riscontro in archivio consente di  identificare Monti, ciò che sembra confermare il forte ruolo registico  di Arslan, che muoveva per approfondite analisi comparative di elementi tipologici quali le finestre e le scale (Palazzo Papafava alla Misericordia, giugno 1968, tav. 204;  Palazzo Contarini della Porta di Ferro, particolare della scala scoperta, tav. 205). Accanto a ciò fu sicuramente la particolarissima condizione urbanistica di Venezia a determinare modalità di ripresa in cui alle inquadrature frontali si alternavano o si affiancavano (nel dinamicissimo impaginato di Birelli) foto nelle quali lo scorcio è accentuato da un uso del teleobiettivo collocato su di un piano quasi tangente alla facciata, come nel caso del loggiato al primo piano di Palazzo Ducale (tav. 206) o del prospetto su Riva degli Schiavoni, dove il gruppo scultoreo dell’Ebbrezza di Noè  venne plasticamente inteso come cardine di passaggio visuale verso il Rio di Palazzo, in una efficacissima sequenza[609] che comprendeva anche una terza fotografia (tav. 207, non pubblicata in Arslan) nella quale Monti riuniva e comprendeva in una sola, calibratissima inquadratura il gruppo scultoreo dell’Ebbrezza di Noè, la balaustrata del ponte della Paglia e il Ponte dei Sospiri, collocandosi in una serie iconografica storica che da Carlo Ponti, Giorgio Sommer (1870 ca) e Tomaso Filippi (1895 ca) giungeva sino a Francesco Pasinetti negli anni Quaranta[610].  Il teleobiettivo era indispensabile anche per riprendere certe facciate da una lontana distanza obbligata, trasformando il rio in un cannocchiale (Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande, tav. 208). Ne risultava una città che pareva magicamente fatta solo di finestre, nella quale la lettura attenta delle sue pietre mostrava (ancor prima delle varianti) una condizione di degrado diffusa, che la stampa catramosa del volume, con neri chiusi e privi di profondità rivelava impietosamente, senza che fosse possibile distinguere se ciò era dovuto ad una specifica scelta connotativa (una specie di sottotesto parallelo al racconto architettonico) o più immediatamente a ragioni di cifra compositiva della pagina, tipiche delle soluzioni grafico editoriali di quegli anni[611].  Dopo le architetture il topos per antonomasia della città lagunare: la gondola; ancora una volta una produzione più o meno direttamente legata alla comunità armena[612]. Nella struttura tripartita del volume le fotografie di Monti possedevano una forte autonomia, certo non illustrativa del saggio storico di Butazzi né illustrate da quello. La sequenza apriva con una ripresa in controluce di gondola e gondoliere simile a quella utilizzata per l’elaborazione per la sovracoperta (tavv. 209, 210), per procedere poi alternando dettagli, scene d’ambiente e vedute urbane, sovente realizzate secondo un ritmo di compressioni e dilatazioni prospettiche, mentre l’analisi del dettaglio era condotta sia in vivo che in studio, come nella bella sequenza dedicata alla forcola, ripresa su fondo bianco uniforme, quasi una scultura contemporanea[613].   L’itinerario in gondola attraverso la città si svolgeva avvalendosi di nuove fotografie ma anche di immagini realizzate decenni prima[614], da cui emergevano come un’autocitazione alcuni lacerti di muri o di legni ma anche omaggi o  evocazioni di autori antecedenti[615], chiudendo in modo piuttosto sorprendente col retorico controluce di “vibrante lirismo” di gondoliere e gondola[616]; una riproposizione della più vieta tradizione oleografica tardo pittorialista, qui (almeno apparentemente) priva di ogni ironica distanza. L’apparato fotografico qualificava quell’impresa piuttosto come un volume sulla città, su Venezia, obbligando quindi  al confronto coi precedenti più prossimi e noti:  da Leiss (1953) a Roiter (1954), da Mulas[617] (1952) a Berengo Gardin (1965) e Giorgio Lotti (1970). Solo gli ultimi due titoli di questa piccola serie sono ancora compresi nella biblioteca di Monti, a conferma ulteriore di un processo di depauperamento non altrimenti documentabile, ma sufficienti ad indicare una condizione strana, quasi un disagio di Monti nel restituire a quella data un profilo meditato e personale della città che fra tutte gli era la più cara. Quasi un ritrarsi dall’inevitabile confronto che si sarebbe posto con quegli autori a lui per molti versi vicini, non cogliendo ( o rinunciando a) l’occasione per fare (anche) un bilancio della lunga storia personale che lo legava a quel luogo[618].

Non considerando per ora l’enorme lavoro svolto in Emilia Romagna, sul quale torneremo, il progetto più interessante di quegli anni rimane quello dedicato a Procida, realizzato su invito di Giancarlo Cosenza,che l’anno precedente aveva firmato il Piano Paesistico Territoriale dell’isola. Non un’indagine strumentale e propedeutica quindi, e neppure una campagna documentaria in senso proprio, ma la lettura autoriale di quelle architettue spontanee che già erano state oggetto di ampie attenzioni e di ricca documentazione fotografica a partire almeno dalla metà degli anni Trenta,  in particolare ad opera di Giuseppe Pagano (tav. 010) e di Roberto Pane (tav. 214). Già Arcari aveva rilevato che “certe affinità con Giuseppe Pagano (…) meriterebbero un approfondimento”[619] che resta ancora da fare, verificando ad esempio quali possibilità avesse Monti di conoscere certi suoi lavori[620]. Nella presentazione critica che ne offrì alcuni anni dopo,  Quintavalle riconosceva come Monti avesse compreso quale fosse “la vera chiave urbanistica di Procida che sono le scale: il rapporto reale è proprio tra il sistema delle scale (tavv. 215, 216, 217, 218), che traversano anche differenti proprietà, e la vita su questi sovrapposti livelli, che è collettiva. (…) L’intenzione del servizio è cogliere non ciò che stacca un singolo elemento dall’altro, ma ciò che unisce; l’idea è mostrare la continuità tra strutture architettoniche e funzioni,  gesti e modelli di esistenza” [621]. Il critico leggeva così la peculiarità urbanistico architettonica di quell’insediamento restituita dalle fotografie senza soffermarsi peraltro sulle loro ulteriori specificità e neppure accennando al tema del colore, quasi fosse un elemento secondario di quel luogo e del suo racconto, mentre per Monti Procida era “una delle poche isole del Mediterraneo che sia a colori, un po’ come Burano, mentre tutte le altre isole del Mediterraneo si sa che sono bianche. E quindi è un’isola interessante anche sotto questo aspetto (tavv. 219, 220). Ho già i testi di un architetto e di un ingegnere; le fotografie sia in bianco e nero che a colori, i disegni, le sezioni e tutto quanto: ne uscirebbe un bel libro, ma non si è ancora trovato l’editore, anzi probabilmente tenterò di fare qualcosa in Germania o in Svizzera su questa cosa che meriterebbe senz’altro di essere fatta perché è [un] eccezionale ambiente che merita di essere conosciuto”[622].  L’ingegnere a cui Monti si riferiva era per l’appunto Cosenza,che pur “sempre escludendo una settaria valutazione estetica” aveva già riconosciuto che“tra le varie componenti climatiche e sociali, ha interesse come preesistenza ambientale in cui affrontare la ricerca, la scala cromatica realizzata nell’abitazione dell’isola. (…) La tinta di tono appropriato è anche essa sintesi in una continua ricerca di un giusto valore. La tecnica del colore quindi si dimostra fondamentale nella composizione architettonica, per la sua applicazione sulla parete esterna dell’edificio; anche questa non risulta per nulla una astratta ricerca di proporzioni” [623]. Una interpretazione storico culturale del fenomeno che certo deve aver sollecitato e molto influito sulla lettura che ne diede Monti, reduce in quegli anni dal confronto con le architetture rurali dell’Appennino Emiliano Romagnolo e con il centro storico di Bologna.

 

I censimenti emiliani

L’incarico ricevuto dalla sezione ligure di Italia Nostra per la compilazione del catalogo visuale delle ville genovesi[624] costituì per Monti  la prima occasione per misurarsi con le necessità metodologiche imposte dall’indagine sistematica di una tipologia architettonica; quelle che di lì a poco sarebbero state ampliate e meglio strutturate nello svolgimento delle indagini appenniniche e bolognesi, di poco successive. L’incontro nel 1965 tra Monti e Emiliani, neodirettore della Pinacoteca Nazionale di Bologna, non impedì a quest’ultimo di affidare a Ugo Mulas la documentazione del nuovo allestimento del museo che Leone Pancaldi  aveva appena terminato e Michael Brawne non aveva considerato nel proprio saggio[625]. In archivio si conservano però alcune riprese delle nuove sale eseguite da Monti nell’estate dello stesso anno, quasi una conseguenza della sua sostanziosa presenza sulle pagine del volume dell’architetto e critico inglese e certo l’avvio di una lunga e fruttuosa collaborazione con quella istituzione, che negli anni immediatamente successivi si sarebbe affiancata alle Campagne di rilevamento dei beni artistici e culturali dell’Appennino, nelle quali la restituzione del rapporto tra edificio e contesto richiamava  ancora una volta in modo significativo gli esiti delle indagini fotografiche di Pagano del 1936.   “La prima campagna fu posta in atto, e non casualmente, in un anno denso di significato come il 1968. Il territorio scelto per il primo esperimento fu quello di un’area geografica delimitata attorno al centro di Porretta Terme (tav. 221). Sulla base di quella prima esperienza si affinarono due dei principali mezzi d’indagine, sottoposti poi a verifica nei successivi interventi: la scheda inventariale e, soprattutto, la fotografia, adottata in modo il più possibile estensivo così da tener conto non solo dei singoli oggetti ma anche dell’ambiente che li circonda”[626]. In quel contesto le ricognizioni generali erano affidate a Monti, mentre la successiva schedatura fotografica intensiva, coerentemente condotta “senza stabilire una gerarchia né di valore né di qualità” era affidata a altri fotografi[627] come Marco Baldassari, Corrado Fanti,  Augusto Viggiano, Riccardo Vlahov, Pino Guidolotti[628] oltre a Raffaele Biolchini, Adriano Boni, Elio Celone, Attilio Foresti, Cesare Mari, Enrico Mulazzani, Piero Orlandi, Franco Ragazzi e Mario Scarpa[629]. Ricordava anni dopo Corrado Fanti: “Penso a qualche breve e intenso momento vissuto con Paolo Monti camminando su una costa dell’Appennino per fotografare insieme a lui il paesaggio. Non ci scambiavamo neppure una parola, eppure comunicavamo nel breve contatto dei nostri sguardi silenziosi, attraverso il digradare dei colli. Le parole venivano poi, magari in una lunga serata a Milano, guardando le immagini, parlando di forme e di tecniche”[630].   “Le ‘campagne’ – ricordava Emiliani[631] – furono proprio un’offerta di normalità, un invito alla frequentazione consueta che interveniva nel bel mezzo della migrazione umana che aveva spopolato la montagna, e che aveva lasciato ancora in piedi le strutture di un vivere secolarmente lentissimo o povero. La lettura che Monti diede per quattro anni – tante furono le Campagne – fece rifluire sulla groppa di un Appennino certo più dolce delle montagne dell’Ossolano, e tuttavia a volte spettacolare, la sua esperienza di interprete ben addestrato a quel misto di carattere e di amore che proprio la montagna esige di mettere in campo. Per esser brevi, Monti lavorò su alcuni temi, vere e proprie esercitazioni a soggetto.”  Quel progetto coniugava le istanze della geografia storica di Lucio Gambi con le indagini sulle specificità dei beni architettonici e artistici di quei territori proprie di una storiografia artistica che si impegnava nel confronto fattuale con la tutela, così determinando una prassi che si fondava metodologicamente sul superamento del concetto di monumento come emergenza a favore di quello di patrimonio culturale inteso quale tessuto di elementi inscindibili. (tavv. 222, 223), mettendo a frutto tutte le soluzioni espressive maturate in circa un ventennio[632].Ne nacquero ricognizioni  interdisciplinari di grande rilevanza, proseguite poi sino al 1971, nel corso delle quali Monti mostrò di avere “la sequenzialità dei grandi censitori, come fosse uno Scheuermeier che avesse ripassato roccia su roccia, faccia su faccia Ombre rosse di John Ford, ma parlando di contadini italiani”[633].  Le quasi duemila fotografie che ne risultarono costituiscono “una sorta di commento visivo al diario di lavoro pubblicato nei Rapporti dell’allora Soprintendenza alle Gallerie [tanto che] la loro migliore espressione, di metodo come di contenuti, va ricercata più nell’insieme che nella pur elevata qualità della singola prova. Non si tratta di foto d’architettura, poiché su nessun edificio, in quanto opera d’arte o d’autore era significativo soffermarsi (…) Non si può parlare di foto di paesaggio (…) perché, soprattutto, lo sforzo documentario di queste immagini vale più della attenzione vagamente contemplativa cui si associa di frequente la nozione stessa di paesaggio [sebbene poi] i soggetti di queste foto tendono ad allontanare (…) gli elementi di disturbo, siano essi ‘restauri’  brutali o paesaggi troppo modernamente compromessi”[634]. Ciò non tanto per una specie di manipolazione ideologica o di nostalgia illusionistica, ma perché – come ricordava Lucio Gambi – “qualsiasi operazione di cartografia e di fotografia non può dare una riproduzione globale dei patrimoni o ambientali o culturali di una data area, ma implica soluzioni e scelte fra le cose da mettere a fuoco e cose da lasciare in ombra”[635].

Negli anni immediatamente successivi (ma anche sovrapponendosi in parte, tav. 226) quella metodologia venne adottata, con opportuni aggiustamenti,  anche per il centro storico di Bologna, a partire dalle valutazioni emerse dall’indagine settoriale condotta da Leonardo Benevolo e Paolo Andina nel 1963-1965, avvalendosi di un gruppo di collaboratori che comprendeva anche Pier Luigi Cervellati, già all’Università di Firenze come assistente di Benevolo[636], che nel 1970  sarebbe diventato assessore all’Edilizia Pubblica e Privata nella nuova giunta di Renato Zangheri. Certo non era la prima volta che Monti si misurava con soggetti bolognesi, come indicano alcune riprese del 1965 realizzate per la Storia Garzanti, né le sue frequentazioni erano circoscritte all’ambiente della tutela e della pianificazione urbana, ma certo ora obiettivi e impianto del progetto erano radicalmente diversi e innovativi, suscitando non poche perplessità. Come avrebbe ricordato Cervellati, “allora, la domanda ricorrente era: «A che cosa serve un censimento fotografico del centro storico?  Perché incaricare Paolo Monti di fare centinaia, forse migliaia di fotografie di una realtà consolidata, presente e destinata a rimanere tale per scelta di cultura e volontà politica?» Furono in molti a non capire il significato – anche progettuale, come adesso si ama ripetere – di quell’operazione intrapresa sul finire degli anni ’60. (…) Monti aveva dimostrato (sicuramente per ‘influenza’ di Emiliani) di saper interpretare – e restituire – lo spazio architettonico e l’ambiente naturale e costruito in modo completamente diverso rispetto agli altri fotografi”[637]. Gli aspetti metodologici e le conseguenti scelte tecniche del progetto vennero esplicitati da Monti in una serie di Appunti per il censimento poi pubblicati nel volume a corredo della mostra del 1970 a Palazzo d’Accursio (tav. 227)[638]. Lì vennero indicati  gli scopi generali, le Esigenze particolari del rilevamento, le Norme di lavoro e principi informativi e infine l’indicazione dei Mezzi impiegati per il lavoro fotografico. La necessità di un rilevamento “il più completo possibile e nelle migliori condizioni ambientali, quindi in assenza di automobili[639] (…) e col minimo di segnaletica stradale visibile in primo piano (…) di documentare il centro storico come è,  vedere fino a una parte che generalmente è nascosta che è la base dei palazzi e delle case, che viene coperta da queste file di automobili che coprono completamente”[640], mostrando “questa quarta dimensione dell’architettura che è il piano di appoggio e il suo contiguo ambiente urbano”[641],  imponeva la “ripresa di intere strade con foto dei due fronti e di tutte le case, palazzi e monumenti, cortili, giardini, ecc. perché tutta la città storica sia documentata in modo completo e facilmente identificabile.” A quella si aggiungeva la “documentazione di particolari architettonici (…), arredo urbano, particolari ambienti e soluzioni urbanistiche anche minori o minime, ecc.  Degrado dell’ambiente del centro storico per posteggi, affissioni, insegne, negozi, pavimentazioni non originali (…) ecc.”  Il rilevamento doveva essere condotto con “rapidità e completezza (…) per giustificare pienamente le spese (…) e il dispendio e il disagio provocati dal blocco del traffico”, rendendo visibile (e qui risiedeva una delle più forti indicazioni progettuali) “il percorso umano della città e il suo possibile godimento pedonale”, ciò che comportava una “molteplicità dei punti di vista e delle inquadrature, vicine e lontane ed effetti prospettici vari, come appunto accade osservando mentre si cammina, con tutto il tempo disponibile al vagare dell’occhio (…). L’insieme delle fotografie deve insomma rendere visibile un ideale e lunghissimo vagabondaggio su vari itinerari urbani, con fermate nei cortili e su per le scale, passeggiate nei giardini, ecc.” Quasi il pedinamento di un utopistico flaneur al quale fosse concesso di ignorare i rigidi confini delle proprietà private.  La strumentazione più adatta venne individuata in un apparecchio fotografico Linhof di medio formato (10×12) “per le foto dei palazzi e monumenti più importanti (…) nonché per le vedute generali di strade e piazze” e un Nikon 35 mm dotato di obiettivo grandangolare a correzione prospettica, cioè decentrabile[642], messo in commercio dalla casa giapponese nel 1968 in sostituzione di una prima versione del 1962. “Si può affermare senza esagerazioni – concludeva Monti –  che solo la disponibilità di questo obiettivo permette di realizzare nei tempi voluti il rilevamento progettato.”  Le prime riprese, necessarie alla messa a punto della metodologia di lavoro, datavano al 30 marzo 1969 e riguardarono i due isolati compresi tra Via Santo Stefano e Via  San Petronio Vecchio con la casa  di Cesare Gnudi[643], per riprendere poi la mattina dell’8 agosto “quando finalmente si passò al programma preciso di fotografare tutta via Galliera e qualche strada attigua”,  lavorando “sei ore filate – dalle otto alle quattordici – ora di riapertura al traffico. (…) Direi però che Via Galliera non fu documentata al livello delle altre strade perché, malgrado tutto, un certo sforzo e qualche incertezza si vedono. Il risultato migliore l’ebbe, direi di diritto, Via Castiglione: percorsa passo a passo con tutte le sue curve e i suoi dislivelli, cortili, muri e colonne, gradini e selciati. E quei salti d’ombra e di luce che, a una stereometria così complessa e a così varie prospettive, aggiungono il fascino magico di certe antiche scenografie (tavv. 228, 229). Ma se la fotografia d’architettura di così largo respiro era già un lavoro appassionante, quella di particolari ambienti riportati al silenzio e alla naturalità dei loro spazi, quando l’automobile non esisteva (Bologna, via Zamboni coi  portici di San Giacomo Maggiore e di palazzo Malvezzi, tav. 230; Bologna, via del Pratello angolo via Pietralata, , tav. 231), fu esperienza ancora più eccezionale. Così come la sorprendente rapidità con la quale gli uomini, e più di tutti i bambini e i ragazzi di quegli spazi si impossessavano godendo subito nei modi più vari e giocosi. Un lavoro eccezionale che difficilmente potrà ripetersi, per quanto quasi tutte le città italiane abbiano un tale debito verso i loro centri storici, che sarebbe da attendersi che questa impresa fosse soltanto la prima di una lunga serie”[644].  La partecipazione anche civile di Monti a questo progetto era bene espressa in una lettera a Cervellati del novembre 1969 nella quale riferendosi ai conteggi (e quindi ai conti) relativi “al lavoro fotografico eseguito finora per il Centro Storico di Bologna” sottolineava di aver “considerato tre fattori: l’importanza del lavoro affidatomi, il suo scopo di interesse collettivo e il contributo di collaborazione datomi dal Comune”[645].  Le difficoltà dovute al ritardo nei pagamenti[646] si protrassero sistematicamente, ma ciò  nonostante in due anni vennero  realizzate più di 4.000 riprese di spazi urbani provvisoriamente liberati dalle auto, di singoli edifici e di loro dettagli architettonici e decorativi, sino a produrre quello che Emiliani definì una “specie di inventario urbanistico della città (…) Ed era con un respiro grandioso, potente che, per un attimo, la città storica si mostrava a noi. Un vero capolavoro nascosto [fatto] più di tessuto artistico che non di monumenti singoli e isolati” [647]. La strategia politica di costruzione del consenso intorno al Piano prevedeva l’utilizzo della fotografia anche come mezzo di comunicazione rivolto al pubblico generico, per “contribuire alla migliore conoscenza della vasta problematica, in via di sviluppo, sul centro storico bolognese” [648]. Così nel giugno 1970 aprì a Palazzo d’Accursio la mostra Bologna – Centro Storico[649], con un volume di corredo che mostrava  un approccio visuale alla città caratterizzato da un  andamento spaziale e ottico insieme, partendo da viste panoramiche per giungere sino alla scala degli elementi decorativi minimi delle facciate, suggerendo inediti percorsi di lettura della realtà urbana nella quale i visitatori erano quotidianamente immersi. Il capitolo centrale e progettualmente portante del volume, La scoperta della città vuota, si apriva con due testi programmatici e metodologici di Monti, L’avventura del fotografo e i già citati Appunti per il censimento, seguiti dall’introduzione alla campagna di rilevamento firmata da Andrea Emiliani: Una lettura critica e storica. Il titolo del primo contributo di Monti richiamava quello di un breve racconto di Italo Calvino pubblicato nello stesso anno[650]. La bulimia del protagonista (il “non fotografo” Antonino Paraggi, che a sua volta sembrava dar corpo a una nota riflessione di  Julio Cortázar: “Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie”) poco aveva però a che fare con la lucida sistematicità del rilevamento bolognese, con quella  “rapacità dell’occhio [alla quale] deve opporsi un ordine razionale, tanto più necessario nella fotografia d’architettura dove è sempre necessario un intendimento critico inteso a ‘far vedere’  quello che un largo pubblico si limita normalmente e nel migliore dei casi a ‘guardare’ ”[651]. Il senso d’avventura era comunque  ben presente: “il rilevamento del Centro Storico di Bologna – proseguiva Monti – resterà certamente una esperienza unica della mia professione di fotografo; solo una città così sensibile ai problemi urbanistici, e quindi umani, poteva darmi questa grande occasione, venuta dopo anni di esperienze varie, ma sia pure in diverso modo, quasi tutte convergenti a questo ultimo fine: la fotografia di architettura e di ambiente. Quando se ne parlò la prima volta, continuava a sembrarmi un progetto quasi impossibile. E anche dopo il saggio di rilevamento (…)  e persino dopo la Mostra campione a Palazzo d’Accursio, questa possibilità di lavoro non prendeva dentro di me il peso delle cose concrete, da farsi.” Al suo compimento quella campagna documentaria costituì  “la più straordinaria operazione di censimento fotografico che una città italiana abbia mai registrato”[652], segnata da “un ritmo espressivo che non soffre delle accentuazioni tecnicistiche così consuete al fotografo ‘artista’, ma pare davvero  un sensibile diaframma interpretativo fra l’immagine reale e l’obiettivo che scruta. Un diaframma che, necessariamente, ha il nome di lettura critica e storica della complessa città in cui viviamo”[653].  Aderendo alle intenzioni dei committenti, quelle fotografie non si limitavano a mostrare lo stato attuale e come temporalmente  ‘sospeso’ (ma non  astorico) di quei luoghi, ma ne prefiguravano il possibile assetto futuro, divenendo così contemporaneamente rilievo e progetto della città:  “Le foto riproducono quanto si può cogliere (vedere) osservando direttamente i luoghi fotografati ma, nello stesso tempo, indicano il possibile assetto futuro di quegli stessi luoghi”[654], scriveva Cervellati.  Da qui la scelta ideologica di Monti, e dei suoi committenti ancor prima, di escludere dalle proprie riprese non solo quei brani di città moderna e contemporanea che non potevano appartenere al progetto ma anche le presenze occasionali, le azioni contingenti, tanto da restituire l’immagine di una città vuota. Vuota come  la Parigi di Atget letta da Walter Benjamin: “Tutti questi luoghi non sono solitari – aveva scritto  – bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”[655].  Non si trattava infatti di realizzare un reportage sulle condizioni di vita nella città, ma un rilevamento del contesto urbano e architettonico, secondo un’intenzione che avrebbe informato di lì a poco – pur con motivazioni in parte differenti – anche il progetto poi non realizzato di Ugo Mulas di un “archivio per Milano”. “Quello che vorrei fare – scriveva Mulas – è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci colpisce di più quando entriamo in un luogo, è il fatto che esso sia frequentato, è la gente. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse, che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo città, una struttura inarticolata, che porta una folla anonima, che si ricambia ogni giorno, che ogni giorno passa, che ogni giorno è destinata a passare”[656]. Già all’epoca molti criticarono quei censimenti fotografici[657],  ma la mostra del 1970 a Palazzo d’Accursio ebbe 200.000 visitatori stupefatti nel vedere le loro case “trasformate in monumento”, innescando così un processo culturale nel quale alla fotografia e a ciascuna delle fotografie nel loro insieme era assegnato il ruolo di “agenti di storia”, con il compito di sollecitare la presa di coscienza (dei luoghi, dei loro valori storici, delle loro potenzialità) da parte di abitanti e osservatori, innescando così delle reazioni, e quindi delle azioni, che altre modalità di comunicazione non sarebbero state in grado di ottenere. Una funzione analoga a quella adottata anni dopo da progetti di altrettanto ampio respiro quali la DATAR francese o l’Archivio dello spazio della Provincia di Milano, sebbene a partire da presupposti profondamente diversi e contrastanti, incentrati sull’interpretazione autoriale.  Anche nel più circoscritto ambito della cultura fotografica italiana molti non compresero (e ancora accade) le ragioni  e le conseguenti specificità  di quel progetto. Così, oltre a rimarcarne la presunta “atemporalità” (ciò che pare quantomeno improbabile trattandosi di fotografie) o lamentando la riduzione della scena urbana a una “scenografia teatrale”[658], sulla scia lunga di antiche considerazioni di Italo Zannier non pochi commentatori hanno creduto di poter riconoscere in Monti  “il più moderno interprete della tradizione degli Alinari”[659], ribadendo anzi che  “da questo punto di vista, il caso del rilievo (…) per il piano di Bologna nel 1969 risulta paradigmatico. Nonostante la raffinata cultura visiva del fotografo e l’articolato quadro teorico del progetto, la reinvenzione di un centro storico senza storia ottenuta mediante la materiale obliterazione del rumore visivo della città contemporanea costituì di fatto un ritorno all’ordine della tradizione Alinari”[660].  Doppio piano di incomprensione si direbbe,  poiché il programma (commerciale e culturale) della ditta Alinari (a sua volta interpretato come monolitico, ciò che di per sé già costituisce un evidente stereotipo storiografico) è letteralmente incommensurabile col progetto (culturale e politico) emiliano, ma anche perché  nello specifico di quegli interventi non vi fu né una selezione di emergenze significative né alcuna “materiale obliterazione”, come del resto mostrano esplicitamente le immagini esposte e pubblicate in Bologna Centro Storico.  Anche nel considerare le modalità narrative il paragone con quell’ingombrante antecedente storico non regge, essendo il lavoro di Monti strutturato per “serie e sequenze nelle quali l’intenzionalità discorsiva del fotografo [è] leggibile con un minor grado di soggettività” [661]. Anzi fu  proprio quella rinuncia, adottata “con grande modestia, alla sua inesauribile creatività visiva”[662],  quel suo “nuovo, definitivo abbraccio alla realtà … condotto deliberatamente ‘senza stile’. Un estremo atto di vita, piuttosto”[663],  a segnare i rilevamenti fotografici emiliani “recuperando l’understatement dello stile documentario e la dimensione progettuale del lavoro”[664]; qualcosa che risuonava anche nella poetica di un autore per certi versi tanto lontano quanto Walker Evans, che ricercava “la non-visibilità dell’autore, la non soggettività. Questo è applicabile alla lettera al modo in cui io voglio usare e uso la fotocamera”[665]. Nell’impresa bolognese si trattava semmai di intendere la  fotografia  “come memoria attiva, strumento di democratica gestione della città. Le indagini compiute da Paolo Monti in più di un centro della regione  – ha scritto Massimo Ferretti[666] –  prima di rilevare inedite visuali e aspetti segreti riscoperti nella città deserta, suggeriscono un diverso modello di presenza, una riappropriazione collettivamente possibile; costituiscono una memoria che non è nostalgia, ma coscienza, attenzione, volontà di decidere.”  Ciò che mi pare da molti non sia stato colto è proprio il ruolo di pubblico servizio svolto da Monti, la sua organica adesione ai principi di quel progetto urbanistico. È la validità di quello e della connessa “escalation culturale e soprattutto politico-culturale”[667] che ne conseguì  a dover essere eventualmente rimessa in discussione criticamente e storicamente, non le  pratiche fotografiche che coerentemente ne derivarono. Certo ne sortì un “ingente repertorio di immagini, che mostrava una città monocroma pietrificata nel tempo, in una manifestazione quasi metafisica di spazi architettonici e complesse strutture urbane”[668], ma quelle sequenze di immagini, lontane dal voler celebrare “l’immagine nostalgica di una città non toccata dalla modernità, piena di segreti nascosti e di sorprese architettoniche, una città che solo lo sguardo del flâneur poteva apprezzare appieno”[669], erano funzionali allo scopo non solo di rilevare ma anche e forse soprattutto di rivelare le potenzialità dell’intervento conservativo a scala urbana.

Quella modalità descrittiva venne adottata anche in altre campagne coeve, come quelle del 1970 dedicate a Tarquinia e alla Tuscia romana[670], ma producendo esiti differenti; ciò che  mostra quanto potesse mutare il senso del procedere narrativo in relazione al progetto ed eventualmente al contesto editoriale. Qui la ricercata assenza di persone e di segni della contemporaneità produceva infatti una  indeterminatezza del tempo della ripresa, uno sguardo che diremmo anacronistico, che richiama quello dei pionieri della fotografia di architettura (Tuscania. Chiesa di San Pietro, novembre 1970, tav. 232), mentre la modernità dello sguardo si rivelava solo in qualche bell’episodio come la ripresa della Loggia del Palazzo Papale a Viterbo[671] . La consolidata collaborazione con Anna Maria Matteucci, che aveva fatto parte dei gruppi di lavoro delle Campagne di rilevamento promosse dalla Soprintendenza bolognese nel 1968-1970, segnò altre produzioni di quel decennio, che si concluse con la realizzazione dell’apparato fotografico per il volume dedicato nel 1979 ai Palazzi di Piacenza[672]. Come in altre occasioni analoghe a Monti vennero affidate le riprese in bianco e nero mentre quelle a colori erano di Antonio Guerra,  a sua volta conosciuto nel corso delle campagne promosse dalla Soprintendenza alle Gallerie di Bologna. Questo lavoro  apparteneva per committenza,  intenti e modi a  un universo lontano dagli altri progetti di quegli anni, consentendo forse una più ampia libertà d’azione specie nel confronto con gli spazi barocchi (Palazzo Baldini-Radini Tedeschi, la scala, tav. 233; Palazzo Anguissola d’Altoè, la scala, tav. 234)[673] che generava una  qualità interpretativa sovente valorizzata dall’impaginazione delle fotografie a piena pagina. In occasione del suo ultimo rilevamento Monti sarebbe poi  tornato a confrontarsi con le proprie radici, lavorando nella zona compresa tra Lago d’Orta, valle Strona e Ossola Inferiore per incarico della Fondazione Arch. Enrico Monti, con  sede nella sua Anzola, e in particolare del suo direttore scientifico Enrico Rizzi. Un’iniziativa che si poneva nel più ampio contesto di un programma regionale che prevedeva il “censimento del patrimonio storico, artistico, archivistico, iconografico e bibliografico cosiddetto minore e attinente la storia locale, l’etnologia, le tradizioni popolari, il recupero e la catalogazione del patrimonio fotografico locale inteso come bene culturale”[674]. Parte di quelle immagini venne pubblicata postuma in due volumi[675] segnati da un forte senso di heimat,  di sentimento del luogo originario, nelle quali Monti adottava registri diversi restituendo in modo rigoroso il dialogo tra architettura e ambiente naturale (Sacro Monte di Orta, Madonna del Sasso a Boleto) o rilevando le dense qualità materiche di vecchi tronchi e antiche case, ma concedendosi anche qualche veduta di gusto più oleografico, quando non elegantemente fotoamatoriale  (tav. 235)[676].  Ciò che più sorprende in Monti, e certo non è scoperta nuova, è la sua capacità di rendere le architetture riflettendo ogni volta sulle loro specifiche caratteristiche storiche e stilistiche, instaurando ogni volta un confronto vero, che rifiutava l’applicazione meccanica e stereotipa di formule prestabilite. Forse potremmo dire, osando un piccolo gioco verbale, che Monti non è stato fotografo di architettura ma di architetture: da Brunelleschi e Codussi alle case dell’Appennino e dell’Ossola, passando per Procida. Architetture ogni volta diverse, fotografie ogni volta differenti.

Gli esiti di quelle campagne di rilevamento vennero ampiamente pubblicati ed esposti in quegli anni ma  non sappiamo dire se e in quale misura influirono sulle politiche urbanistiche e sulla stessa percezione dei luoghi da parte dei loro abitanti, se non – almeno in parte – per quelli emiliani. Certo è che in ambito strettamente fotografico  costituirono un modello senza immediate filiazioni o eredità[677], specie per quanto riguardava la disponibilità del fotografo a porsi al servizio di un progetto pubblico rinunciando a lasciare ogni volta la propria riconoscibilissima impronta autoriale. Su questa soluzione di continuità influirono certo i profondi mutamenti di orizzonte politico e culturale che hanno segnato il passaggio agli anni Ottanta[678] e  il faticoso emergere, anche in Italia, di una connotazione del ruolo e della figura del fotografo che si avviava a caratterizzarsi  per una sua elevata riconoscibilità in termini culturali e commerciali, mercantili. Qui – credo – in questa ostinata e meritoria ricerca di affermazione culturale delle generazioni successive va cercata la causa primaria di quelle mancate filiazioni; nel rifiuto di quell’apparente anonimato fotografico  e non certo nell’emergere di “una nuova generazione di fotografi che si confrontava con la realtà nella prospettiva dell’attivismo politico, dell’intervento partecipato, dell’urbanistica dal basso, della contaminazione fra rurale e urbano”[679].

Le frequentazioni bolognesi di Monti datavano dai primi anni Cinquanta, segnate dai rapporti di amicizia e collaborazione coi membri del Circolo Fotografico Bolognese, e in particolare con Giulio Parmiani[680], ma le relazioni avviate nel decennio successivo, in primis quella con Andrea Emiliani[681], gli offrirono importanti  occasioni di intessere nuovi rapporti personali e professionali, che si tradussero quasi in un radicamento bolognese del fotografo. Così dalla collaborazione con la Galleria de’ Foscherari  nacquero rapporti duraturi con artisti quali Luciano de Vita[682] o Germano Sartelli, per il quale realizzò la documentazione delle opere presentate in galleria nel 1969 e ancora nel 1974. In quei lavori ritrovava suggestioni (in)formali più che evidenti, tali da trarre in inganno anche un occhio criticamente esercitato come quello di Carlo Bertelli, che presentando l’opera del fotografo confuse la riproduzione di un’opera di  Sartelli (tav. 236) con “quella che sembrerebbe una fotografia dello stesso Monti ingrandita e chiusa in un telaietto di legno. La fotografia incorniciata ritrae un groviglio di reti e una penna caduta a un uccello, ma l’effetto di superficie è tale che di primo acchito penseresti piuttosto di trovarti di fronte a una combustione di Burri. L’ambiguità è data dalla fotografia che ritrae un’altra fotografia, evidenziandone la collocazione sulla parete come un quadro”[683]. Anche nell’attività didattica, dopo le esperienze alla Scuola del Libro dell’Umanitaria di Milano coordinata da Albe Steiner intorno alla metà degli anni Sessanta[684], la stagione bolognese si rivelò importante. Così dopo l’incarico all’Accademia di Belle Arti, dove tenne il corso di Tecnica della Fotografia dal 1969 al 1971, venne chiamato da Ezio Raimondi al  neonato DAMS[685] per insegnare  Tecnica ed estetica della fotografia, partecipando anche  ai seminari  interdisciplinari di Museologia e Urbanistica con Emiliani e Cervellati.  “Una proposta formativa innovatrice che tuttavia non ebbe lunga durata”[686],  così come la complessiva esperienza universitaria di Monti che si rivelò frustrante a causa della mancanza di condizioni  organizzative e culturali  sufficienti a svolgere correttamente l’insegnamento, tanto da portarlo alla rinuncia all’incarico nel 1974, consigliando di assumere Zannier,  “cosa che fu accettata e che mi ha fatto molto piacere perché mi fido molto di questo amico”[687]. A testimoniare il suo impegno per la didattica restano una serie di appunti e i numerosi volumi oggi presenti nella sua biblioteca, con date di edizione comprese in quell’arco di anni[688];  un insieme che costituisce un quarto del suo intero patrimonio librario. Tra le note di lavoro è di particolare interesse un dattiloscritto del 1971 nel quale precisava la sua intenzione di articolare il corso in due parti, “la prima come tecnica della ripresa, sviluppo e stampa della fotografia e la seconda (…) sulla fotografia come linguaggio, anche attraverso il suo sviluppo storico e le sue implicazioni sociali”[689]. Questo interesse per temi di storia della fotografia, quale risulta anche da numerosi puntuali riferimenti sparsi nei suoi scritti e che avrebbe preso forma in un progetto editoriale per Electa  specificamente dedicato alla Storia della Fotografia in Italia [690], costituiva un segno concreto dell’accrescimento dell’attenzione culturale per il tema (e per il patrimonio) che si era faticosamente fatta strada in una cultura (non solo fotografica) come quella italiana a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, quando un critico militante come Zannier poteva ancora ironicamente scrivere di “quelli che si sforzano di riesumare fotografi ‘primitivi’, i quali d’altro canto possono interessare solamente un amatore d’anticaglie o, al massimo, uno studioso di tecnica fotografica”[691]. L’implicito riferimento a Lamberto Vitali era tanto evidente quanto critico e tragicamente anacronistico, ponendosi alla soglia della tappa milanese della mostra dedicata a  Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[692] nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957. Richiamando la mostra e confutando indirettamente quelle posizioni Piero Racanicchi si lamentava invece “di come, a diecine di anni dall’avvento della fotografia in Italia, si vada perdendo una documentazione fotografica nazionale la quale, oltre agli innegabili interessi artistici, di costume e tecnici, sarebbe di indiscutibile aiuto nella ricostruzione della storia della nostra fotografia, dalla sua nascita ai tempi odierni. La raccolta di antiche foto, allestita in appendice alla Collezione Gernsheim, nella recente Triennale, a cura di Lamberto Vitali, ha dimostrato chiaramente come vi sia per noi l’effettiva possibilità di intessere un discorso storicamente compiuto sulla fotografia italiana. Una fototeca ove esistesse, sia in forma di Mostra permanente (…) che di archivio, darebbe l’avvio a una revisione e ad una interpretazione storico-critica di tutto il ciclo della nostra fotografia, determinando una fioritura di studi e di interessi di cui oggi, non si può non avvertire la mancanza”[693]. In quel clima di nascente attenzione per la storia della fotografia e in un contesto come quello milanese che costituiva il centro più vivo della nuova cultura fotografica italiana[694] si muoveva Monti, ricevendone stimoli e suggestioni che molto avrebbero contribuito a precisare la sua sensibilità per le questioni storiche, nutrita anche – come si è visto – dalla conoscenza diretta di fondamentali testi della nuova storiografia quali Apologia della storia  di  Marc Bloch. Della necessità di porre in prospettiva storica i propri contributi critici, con costanti richiami ad autori storicizzati si trovano tracce già in uno scritto del 1955[695] per farsi poi sempre più articolati negli anni successivi, come in quello già ricordato relativo all’attività professionale in Italia[696], accompagnati da una crescente consapevolezza della fondamentale importanza di questo patrimonio storico, poiché “negli archivi immensi da cui sono state estratte queste immagini giacciono i documenti per gli storici futuri”[697]. Il progetto per una Storia della Fotografia in Italia dal 1839 al 1939, databile alla  fine degli anni Settanta se non addirittura ai primissimi anni di quello successivo,  venne redatto per Electa, la casa editrice che costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente di iniziative concentrate nell’anno 1979[698], in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali del crescente interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o dagli esiti di eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del  SICOF – Salone Internazionale di Cine Ottica Foto.  Per quanto possa apparire singolare che tale progetto storiografico fosse affidato a un fotografo, ne vanno segnalate alcune peculiarità che sembrano dovute proprio alle particolari competenze del curatore, quali l’intenzione di riprodurre le stampe “nel colore originale del tempo – seppia – seppia oscura – bianco e nero freddo e b/n caldo – ecc. (…)  in modo da rispettare i valori tonali delle opere originali” [699]  per assicurare “il carattere di autenticità dell’immagine”, vale a dire la sua apparenza materiale di oggetto e non solo il suo contenuto iconico. Altrettanto interessanti le implicazioni storiografiche sottese al titolo: “La ragione delle parole (…) «in Italia» è causata dal fatto che non vogliamo ignorare l’influenza dei fotografi inglesi e francesi che hanno esercitato la loro professione in Italia” scriveva Monti introducendo una precisa distinzione, quasi polemica, rispetto al titolo della grande mostra fiorentina (poi veneziana) del 1979 dedicata alla fotografia italiana, che pure aveva ospitato esemplari di quegli autori. L’attenzione avrebbe dovuto estendersi “dalla fotografia archeologica a quella di montagna, dalla foto di costume alla fotografia scientifica, dal ritratto alla foto di guerra (dalla Tripolitania alla 1a guerra mondiale). In altre parole, dalla fotografia come fatto estetico alla foto come documento (di cronaca, scientifico ecc). Questo piano di lavoro comporta una seria ricerca in Italia e all’estero sia delle opere che dei diritti di riproduzione, sia delle fotografie professionali che amatoriali.” Un progetto ambizioso, che per estendersi sino ai primi decenni del Novecento consentiva a Monti di ribadire ancora una volta il ruolo svolto dalla fotografia amatoriale (e  non solo nella contemporaneità), convinto che “una storia della fotografia italiana non potrà farsi senza lunghe ricerche fra i vecchi archivi dei dilettanti: vedremo allora che oltre agli Anderson e ai Brogi, ai fratelli Alinari, c’erano molti altri fotografi che hanno lasciato le loro nitide tracce”[700].

 

 

NOTE

[1] #  Monti 1948. N.B. Il segno “#” anteposto alle intestazioni rimanda al repertorio delle  fonti archivistiche.

[2] Si veda più oltre nel testo.

[3] Quasi solitaria traccia visiva del Ventennio una piccola stampa relativa ai Littoriali della Cultura e dell’Arte nell’edizione romana del 1935 (tav.001).

I numeri di tavola  rimandano prevalentemente al repertorio catalografico consultabile all’indirizzo  http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=paolo+monti, che fornisce anche i dati relativi a materia e tecnica delle fotografie citate. Le eventuali differenze di definizione del soggetto e di datazione rispetto a quanto indicato nelle schede sono l’esito delle ulteriori ricerche condotte in questa occasione. Nei casi in cui l’immagine appartenga a un insieme più ampio  sarà possibile consultare le schede relative a quella specifica serie o servizio digitando la parola chiave nella schermata di ricerca del sito.  Si ricorda che nei casi in cui il rimando è costituito dal repertorio https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Photographs_by_Paolo_Monti  i negativi lì pubblicati sono stati invertiti per favorirne la leggibilità, vanno quindi considerati soprattutto per soggetto e matrice dell’inquadratura. Altri ulteriori rimandi si riferiscono a tavole illustrative redatte ad hoc che contengono i dati identificativi minimi di ciascuna immagine.

[4] Rizzi 2010. Dopo la morte del fotografo (29 novembre 1982), il 26 marzo1985 la Fondazione arch. Enrico Monti di Anzola, Enrico Rizzi e Giancesare Rainaldi acquisirono dalla vedova Maria Binotti l’intero archivio,  costituendo a Milano l’Istituto di Fotografia Paolo Monti, con cui collaborò anche Roberta Valtorta dal 1992 al 2000. Nel febbraio 2008 la Fondazione BEIC (Biblioteca Europea d’Informazione e Cultura) acquistò l’archivio Monti dall’Istituto depositandolo quindi presso il Civico Archivio Fotografico di Milano.  Nel 2008-2010, finanziato dalla stessa  Fondazione venne realizzato il  progetto di riordino, catalogazione scientifica e  digitalizzazione del fondo fotografico, coordinato da chi scrive e da Silvia Paoli, Conservatore del Civico Archivio Fotografico; cfr. http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/fondi?nome=Paolo%20Monti.

[5] Laguna di Torcello, “Ferrania”,  2 ( 1948), n. 10, ottobre, p. 11, tav. 002.

[6] Zannelli 2016.

[7] Arte 1947. A Max Huber, che già  nel 1942 aveva partecipato alla mostra Abstrakt+konkret alla Kunsthaus di Zurigo, vennero affidati la progettazione del catalogo e del biglietto di invito. Lanfranco Bombelli Tiravanti e Max Huber, con  Eugenio Gentili Tedeschi avrebbero poi curato l’allestimento della Mostra internazionale fotografica dell’architettura per l’VIII Triennale di quello stesso anno, mostra da porsi in relazione alla mancata partecipazione di Max Bill alla stessa Triennale; cfr. Fabbri 2009, in particolare alle pp. 70-75.

[8] Valtorta 2008, p. 70.

[9] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[10] Una sezione fotografica era presente già nelle precedenti edizioni monzesi, a partire dal 1925, cfr. Arte della fotografia 1927. Va comunque ricordato che la nuova sede di lavoro di Monti sarebbe stata Cressa, in provincia di Novara e quindi, dal 1936 nello stesso  capoluogo, ciò che avrebbe favorito le frequentazioni con Milano.

[11] Pelizzari 2011, p. 148.

[12] Nel 1934 Monti aveva convinto il padre all’acquisto della Rolleiflex.

[13] Herbert Rüedi (Berna 1888 – Milano  1949), attivo a Lugano sino al 1932 (lo studio sarà gestito dalla moglie Frida sino al 1936 per poi passare a Vincenzo Vicari), dove ebbe come assistente Walter Bosshard, fu autore di noti manuali dedicati alla pratica della fotografia in 35mm  (Come si lavora con la Leica. Milano : Stucchi, 1934; La fotografia e la Leica. Milano : Igis-Ind. Graf. Ital. Stucchi, 1938)  oltre che dell’apparato fotografico di numerosi volumi d’arte e di paesaggio, tanto che un suo Paesaggio, a colori, venne pubblicato in Scopinich 1943b, p. 124. Cfr. G. P 1949; per ulteriori notizie si veda Paoli 2016, p. 36 nota 5. 

[14] Paoli 2016, p. 36 nota 11.

[15] Schwarz 1978.

[16] Monti 1980b. Gli scritti di Monti sono stati successivamente raccolti in Bertolini 2004 e Valtorta 2008, a cui si rimanda solo nel caso di materiali precedentemente inediti.  Testimoniano quegli anni di apprendistato di Monti una serie di manuali tecnici ancora conservati nella sua biblioteca personale,  come quelli di Ornano 1945, Cuisinier 1949 e di De Zitter 1949 e i quaderni contenenti Appunti di lavoro e Appunti e formule conservati nel suo archivio (AM-FA, s.1, b.1, reg. 2; s.1, b.1, f.3).

[17] Nell’archivio de La Gondola si conserva  una fotografia di Torcello fatta da Monti e stampata da Gino Bolognini nel 1949; Morello 2010, p. 28.

[18] Manfroi 2005a.

[19] Monti 1979a. Leiss, tra i promotori della Sezione fotografica del “Centro Studi d’Arte Contemporanea di Venezia” avrebbe poi promosso la mostra di Monti alla Galleria Il Ponte, nel luglio del 1953.

[20] Si veda Leiss 1953 con testi di Jean Cocteau (L’autre face de Venise, ou Venise la gaie)  e di Filippo de Pisis (Venezia, o la consolazione della pietra).  Nelle Note tecniche (p. 115) che corredano il volume Leiss si dichiarava esplicitamente “nemico del ‘documentario’ “ nella buona tradizione dei bussolanti, e  semmai orientato “a realizzare la trasfigurazione della realtà” servendosi  però “di mezzi strettamente fotografici” e dichiarando – con un certo ritardo ideologico – di voler “rinunciare  deliberatamente ai processi interpretativi” tipici della produzione pittorialista per operare strettamente con le possibilità specifiche del mezzo (inquadratura, valori luminosi, scelta dell’obiettivo, profondità di campo e simili) , poggiando infine sul “carattere analitico” della fotografia. Segnalo qui che una Venezia scura e catramosa si trova in alcune immagini di un bussolante atipico come Mario Bonzuan (1904-1982,) quale Venezia triste, 1955 ca (in Zannier, Weber, 1997, p. 77).

[21] Quest’ultima categoria di soggetti godeva di una lunga fortuna fotografica, a partire almeno da Ongania 1889.

[22] Citato in Paoli 2016, p. 36 nota 11.

[23] Morello, 62.

[24] A quella corrispondeva l’apprezzamento per la “candida pulizia” delle stampe che vide nel 1934 (Monti 1957b; Paoli 2016, p. 14).

[25] Monti 1957b.

[26] Per la fotografia di Emanuel Sougez cfr. Sotheby’s 1999, lotto 267;  per Cesare Giulio cfr. Sul limite 2007, p. 143. Il Fotogramma di Franco Grignani è stato presentato da Bolaffi 2016, lotto n.67.

[27] “ Ambiguità della tecnica fotogr. moderna – lo sfocato il mosso la grana come garanzia di autenticità”, notava in una sua schematica serie di appunti della prima metà degli anni Sessanta, cfr. Monti s.d. [1965 ca].

[28] Le tre immagini, a suo tempo pubblicate in “Luci ed ombre”, sono state riproposte in Costantini, Zannier, 1987, pp. n.n.

[29] Romeo Martinez (1983), lo ricordava a un anno dalla morte come “Lettore accanito, la sua biblioteca è certo una delle più ricche d’Italia quanto alla storia della fotografia e più in generale dell’arte”,  ciò che oggi risulta difficile comprendere davanti a quelli che possiamo considerarne i resti. Alcune clamorose lacune fanno infatti supporre che il patrimonio librario a lui appartenuto sia stato ampiamente  depauperato, e forse non incautamente: basti pensare ai libri di Paul Stand, di cui sono presenti La France de profil (1952) e Paul Strand: a retrospective monograph. The years 1950-1968 (1971), ma non Un paese (1955), di cui pure ebbe modo di analizzare criticamente le ragioni dell’insuccesso editoriale (cfr. Dal Bo [1981]1997). Nella stessa occasione Martinez aveva ricordato l’ammirazione di Monti per “Werner Bischof, fotografo che stimava molto, di cui raccolse tutti i libri”, dei quali però oggi rimane solo la tarda e striminzita antologia di Flüeler 1973.

[30] In Scopinich 1943b, p. 204. Segnalo che in De Seta 1979, p. 148 questa fotografia è indicata – credo correttamente –  come “Procida (vuoti e pieni, ombre e volumi luminosi), vol.34, n.44”; come in tutto quel volume, le immagini sono prive di qualsivoglia indicazione cronica ma si può supporre che essa sia stata realizzata entro il 1936, durante le campagne fotografiche dedicate all’architettura rurale italiana.

[31] Scopinich 1943a.

[32] Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943, p. 7 passim; i concetti fondamentali sarebbero stati ripresi in Vannucci Zauli 1945.

[33] Citato in Colombo C. 2003, pp. 3-4.

[34] Quell’impresa editoriale venne richiamata nello stesso manifesto de La Bussola, ricordando che  il gruppo non intendeva limitare la propria “attività ad una platonica affermazione culturale di principio, ma hanno in animo di esplicarla anche con mostre collettive in Italia e fuori, e con pubblicazioni affidate ad editori importanti. Come la recente collana «IMMAGINI» che ha incontrato largo favore nel pubblico e, ciò che più importa, ha suscitato interesse nei circoli della cultura e dell’arte; collana nata, appunto, dalla iniziativa di alcuni componenti del gruppo.”, Cavalli et al. 1947.  Zannier 1997 collocava invece al 1950 la data di pubblicazione della serie, considerandola quindi erroneamente come un esito e non un antecedente dell’attività de la Bussola e non comprendendo che l’ultimo fascicolo non conteneva solo immagini di Finazzi.

[35] In un suo repertorio di Foto per Mostre e Pubblicazioni (# Monti 1950ca) tra i soggetti elencati (“architettura, paesaggi, composizioni, riflessi, ritratti”) etc. compariva anche “toni alti”, inteso quindi come categoria in quanto tale, indipendentemente dal  soggetto ritratto. Ricordiamo che proprio i riflessi, insieme alle “pecore al pascolo” erano considerati tra gli esempi più diffusi di quel “cattivo gusto fotografico” proprio del “tradizionale romanticismo” foto amatoriale condannato da Scopinich 1943a, p. 8.

[36] Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943, p. 106.

[37] Cavalli et al. 1947.

[38] Un critico e amico come Antonio Arcari avrebbe poi addirittura negato quelle influenze.  Nel fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”, Arcari 1983, p. 5.

[39] Monti 1979c, p.6.

[40] Essendosi stabilito a Venezia solo nel 1945 forse non ebbe modo di vedere la prima mostra personale di un fotografo tenutasi in città, alla Piccola Galleria di Roberto Nonveiller, aperta nell’aprile del 1944 e dedicata a Leiss, ma certamente vide la successiva mostra di questo autore, alla Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo, nel 1951 (25 aprile – 4 maggio), preceduta nella stessa sede da quella dedicata agli autori de La Bussola (dal 14 al 24 aprile), mentre nessuna iniziativa venne dedicata a La Gondola. Solo nel 1953 (7-16 febbraio) la galleria ospitò  Toni del Tin, Mario Bonzuan e Leiss , cfr. Morucchio 1953a.  Il regesto complessivo delle mostre è consultabile all’indirizzo https://edizionicavallino.it/pages/galleria_cavallino/cardazzo_cavallino_1950.html (25 11 2020).

[41] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[42] Morello 2010, p. 70.

[43] Moholy-Nagy 1947b, basato essenzialmente sulla sua docenza statunitense, mentre il precedente Moholy-Nagy 1947a, rimandava ai corsi Bauhaus.

[44] Moholy-Nagy 1947b, fig. 233. Levstik (1908-1975), era il tecnico di laboratorio del Light and Advertising Workshop della School of Design di Chicago, coordinato da  Georgy Kepes, nel quale i  primi esercizi assegnati agli studenti riguardavano proprio l’esperienza fondamentale del fotogramma, cfr. Orosz 2019.

[45] La fotografia, già pubblicata in un numero de “La lettura del medico”, edita dai Laboratori Biochimici Fism del 1949,  venne premiata al concorso indetto dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo nel gennaio 1950, cfr. Verbale 1950. In giuria, accanto a Tito Legrenzi, Consigliere delegato dell’Istituto, sedevano Federico Vender e Mario Finazzi. Il primo premio assoluto fu assegnato a Luigi Veronesi (vincitore anche di un premio del “Gruppo industriale”), per Biancheria al sole; tra gli altri premiati Giuseppe Cavalli, Emanuele Cavalli, Fulvio Roiter e Riccardo Moncalvo, al quale vennero assegnati ben tre premi per il “Gruppo industriale”.

[46] Monti 1955c. Il breve testo venne riproposto anche in occasione della monografica genovese del 1956 (Panorama 1956, con elenco delle opere esposte) e della collettiva del 1957 a Senigallia (Monti 1957c).

[47] Luigi Comencini, Attesa;  Giuseppe Vannucci Zauli, Solitudine, in Scopinich 1943b, p. 175 e p. 182.

[48] Finazzi 1942. Franchini-Stappo indicava poi quali fossero i “tre aspetti dell’immagine [che] reputo siano di capitale importanza: «l’illuminazione», variando la quale un identico soggetto può suscitare impressioni diversissime (e dunque è necessario che l’autore «senta» che solo con quella illuminazione «vive ed esiste» il soggetto nell’ambito della sua concezione); la «resa», vale a dire l’atmosfera che, con i mezzi tipici della fotografia, si vuole creare attorno al soggetto trattato; infine – fattore squisitamente fotografico – «il momento». È certo che con queste abbastanza ingenue indicazioni non si comincia neppure a risolvere il problema di giudicare una fotografia sul piano estetico; esse tuttavia aprono una possibile strada.”

[49] Alberto Lattuada, Prefazione, in Lattuada 1941, p.n.n. Monti era lontano da “Corrente”, da quella cultura e dalla rivista omonima, sulla quale Giulia Veronesi aveva recensito America Photographs di Walker Evans (2 (1939) n. 19, 31 ottobre), cfr. Sabastiani 1998, p. 52.

[50]  “l’inévitable période des interrogations et des tâtonnements”,  Martinez 1956a.

[51] FIAF 1949, che costituiva il “Catalogo” della mostra. L’opera di Monti non venne né pubblicata né premiata.

[52]  Paoli 2016, p. 38, nota 35.

[53] Masclet 1949, che si richiamava alla “grande tradizione dei D.O. Hill, Streglitz [sic], Renger-Patzsch, Nadar, Guido Rey e Weston”. La stima di Masclet per Rey è confermata dalla dedica autografa posta in antiporta a una copia de  La beauté 1933.

[54] La prima venne esposta nel 1953 alla Internationale Fotoaustellung Bochum, alla quale Monti partecipò come membro de La Gondola; della seconda si conserva in archivio (AM-FF, S.021.34.06_06) una variante di stampa di diverso formato, con inquadratura più ampia in alto, datata 1951 e intitolata Paesaggio innevato.

[55] Lettera a Ferroni datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 105.

[56] Lettera a Ferroni datata 28 11 1954, citata in Morello 2010, p. 107.

[57] Più altra dello stesso titolo pubblicata in Turroni 1959, t.155, ma va considerata anche  Abstraction, 1949, pubblicata in  Zannier 1986a, p. 54, ma di datazione incerta, tant’è che nel testo è indicata  “1947”, sebbene debba essere verosimilmente più tarda. Si veda infra Nota 338.

[58] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point: its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality  was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For techical data,  the camera was faithfully used.”, White 1950, traduzione e corsivo di chi scrive. Il fotografo americano era quasi sconosciuto in Italia ma ben presente sulle pagine di “Photography Annual” e nelle esposizioni della Subjektive Fotografie. Risaliva al dicembre del 1957 un contatto epistolare tra i due, cfr.  Zannelli 2016, p.78, 88 nota 32.

[59] Abstraction – lines, 1928, gelatin silver print, 37.8 × 28.1 cm, un fotogramma oggi conservato nelle collezioni del Getty Museum di Los Angeles, inv. 84.XM.1000.64.

[60] Si veda ad esempio Wire Sculpture, 1946, pubblicata in Moholy-Nagy 1947a, p. 87.

[61] “Il fatto che sia, in un certo modo, impossibile parlare di fotografia astratta senza cadere in contraddizioni (…) non ci deve impedire di accostarci a questo ambito particolare”, Monti 1964a.

[62] Un metro metallico con analoga configurazione ma con ovvio trattamento grafico sarebbe stato utilizzato alcuni anni dopo da Albe Steiner per il pieghevole della mostra L’estetica nel prodotto, 1953  (1954a).

[63] Mi riferisco a una prova imbarazzante quale il ritratto in doppia esposizione, 1950 ca (AM-FF, RC 2906)  visibile all’indirizzo https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Maria_Elvira_Cocquio_photographed_by_Paolo_Monti#/media/File:Paolo_Monti_-_Serie_fotografica_(Anzola_d’Ossola,_1950)_-_BEIC_6336955.jpg.

[64] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. La vicenda presenta più di una qualche analogia con quella di Alfred Stieglitz che per più di un decennio a partire dal 1911 ca fotografò la nipote Georgia Engelhard (1906 –1986), figlia di George e di Agnes Stieglitz, la sorella più giovane del fotografo, cfr. Herbert 1996.

[65] Cavanna, Paoli 2016, t. 60.

[66] Ed anche La finestra di Poe,  “Ferrania”, 7( 1953), n. 11, p. 7.

[67] Lettera di Monti a Martinez datata Milano 26 luglio 1956, conservata alla Bibliothèque Roméo Martinez della Maison Européenne de la Photographie  di Parigi.  Ringrazio Silvia Paoli per avermela fatta conoscere al tempo della redazione del catalogo.

[68]  “les variations dans le temps sur un sujet unique qu’est la série des portraits de Mariel est un acte photographique dont l’accomplissement témoigne des concepts visuels et suit de près l’évolution d’un photographe que nous tenons en haute estime.”, Martinez 1956a.

[69]  “en dominer le cours ou au moins en ralentir la marche (…) un témoignage affectueux de ces moments d’ineffable attente” ;  un “essai photobiographique d’un visage féminin et de ses aspects dans le temps. Un peu à la manière d’un paysage dont on aurait photographié les variations saisonnières à des heures et des lumières différentes.”,  Monti 1956. Una fotografia di questa serie era già comparsa sulla copertina di “Ferrania” del settembre 1954 (Monti 1954b).

[70] Morucchio 1956a, dove era pubblicato anche un ritratto di Meme che, in una sua variante, sarebbe poi stato utilizzato da Albe  Steiner per illustrare la copertina di Solinas Donghi 1959.

[71] Turroni 1959, pp. 47-48.

[72] Portoghesi 1979.

[73] Monti, in Dal Bo [1981]1997.

[74] Trincanato 9148. L’attenzione per l’architettura minore veneziana era già ben presente in Bettini 1953, scritto però  nel 1940.

[75] Dopo l’ampia produzione cinematografica di argomento veneziano realizzata a partire dalla metà degli anni Trenta, Pasinetti si sarebbe avvicinato alla fotografia progettando nel 1943 una guida fotografica della città. Quel progetto non vide la luce ed è stato solo recentemente edito per la cura di Alberto Prandi e Carlo Montanaro (Pasinetti 2017), ma molte di quelle fotografie vennero pubblicate in TCI 1947.

[76] Presidenza del TCI, Prefazione, in TCI 1947, pp. 3-4.

[77] Ricordo che nel 1951 (18-31 luglio) si era tenuta a Venezia,  nella Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, La Mostra Nazionale del paesaggio veneziano e lagunare, che certo poteva aver costituito occasione di produzione e confronto su questo tema; tra i partecipanti anche Giuseppe Cavalli, Ferruccio Leiss e Gualberto Davolio Marani.

[78] Strutturalmente più semplice la variante di ripresa pubblicata in Chiaramonte 1993, fig. 34 come Sestiere Castello, s.d., tav. 040.

[79] Muro a Milano, 1954 appartiene alla stessa serie di Ricordo del 1943, 1950 (?) (Chiaramonte 1993, fig. 40); Cardo sulle rovine, 1954 ante (tav. 044), che è variante della ripresa di tav. 045,  indicata come Muro a Treviso, 1949 in Zanzi 2012, p.166. Si veda anche l’ulteriore variante di tav. 046.

[80] Pike 1947; Bovis 1948; Lorelle, Langelaan 1949.

[81] “Nor must we overlook that the operator’s success largely depends upon his taking his shot at the moment when the interest of the scene culminates. This is not a matter of lucky chance, but of artistic skill which is the outcome of synthetic effort.”, Natkin 1948, p. 12.

[82] Paolo Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[83]  Ronis 1951; Windisch 1951; ricordo che questo autore era stato il curatore della prima edizione di  « Das deutsche Lichtbild » (1927).

[84] Izis 1950; Izis  1951.

[85] Ylla 1950a; Ylla 1950b;  Ylla 1952; Ylla 1954.

[86] Steinert 1952; Steinert 1955; I lavori del fotografo tedesco del resto erano ben noti anche per le numerose presenze in varie esposizioni italiane a partire almeno dal 1949, cfr. Eskildsen 2000.

[87]  Etienne 1952. Paul Etienne, detto Paul Serisson, fotografo e grafico legato al “Groupe Espace”, fondato nel 1951 da Félix Del Marle e André Bloc.

[88]  “de présenter […]dans une Revue de défense de l’art non-objectif, une image qui voudrait être originale et qui soit le fidèle reflet des possibilités actuelles de la photographie en dehors de certaines ‘cuisines’, telles que surimpression ou photogrammes, lesquelles prétendent atteindre le subjectif par des moyens un peu faciles,”, citato in Girieud 2011, p. 146, corsivo di chi scrive.

[89]  Nel 1949 Il Circolo Fotografico Milanese aveva dedicato una mostra a Daniel Masclet; il suo Omaggio a Edward Weston, pubblicato  nel  numero monografico di “Art d’aujourd’hui” dell’ottobre 1952, poi in “Diorama”, 6 (1956), n. 8, marzo-aprile, p.30, presenta forti analogie con Finestra di Campo del Milion, 1949, di Monti (AM-FF,E063.25.02_02).  Più stringente il rapporto tra l’immagine di copertina di “Art d’aujourd’hui”, ancora firmata Masclet, e certe riprese più tarde di Monti dedicate al tema della mano (e del pugno), cfr. Ansia e aggressività 1971, p. 71.

[90] Internationale Ausstellung 1929.

[91] Il solo possibile confronto coevo, sebbene su scala più ridotta, è costituito da Boni 1944, che offriva al ristretto pubblico della collana diretta da Enrico Prampolini, oltre a quelle dell’autore, anche fotografie di Drtikol, Moholy-Nagy, Weston, Man Ray e altri, ma un significativo antecedente – almeno sul piano critico – può essere individuato  nel contributo pubblicato su “Emporium” da Lo Duca 1939.

[92] Mollino 1949, p. 122 nota 27. In particolare si direbbe che la selezione di fotografie di Erwin Blumenfeld avesse (anche) come bersaglio polemico l’opera di Mario Finazzi.

[93] Schwarz 1978.

[94]  Monti 1979b.

[95] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite; a questo proposito mi permetto di rimandare a Cavanna 2012.  Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; Tagg 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso si veda  Liégard  1905.

[96] Emiliani 1983, p. 13.

[97] Potrebbe essere letto in tal senso quel riferimento alla “sua cruda espressione intellettiva, difesa forse al dolore che investe qualsiasi aspetto della vita”, formulato da Morucchio 1956b.

[98]  La prima pubblicazione risulta essere stata su “Diorama”, 1953, n. 3, maggio-giugno, p. 6  come L’Angelo a Venezia (1951), poi in “Fotografia”, 1955, n.5, p. 17 come quindi in Pollack 1959, p. 629, come La gondola della morte, 1956, e ancora come La morte a Venezia nella versione presentata in una serie di mostre del 1956 (a Genova, n.31);  poi come Un angelo è sceso a Venezia in  Gerbi, Polastri 1960, t.38. In realtà le varianti del titolo (l’indicazione manoscritta “L’angelo della morte. 1951” al verso di AM-FF, 6342929 è di attribuzione incerta) corrispondono a due significative varianti di ripresa che si distinguono per la differente contestualizzazione del soggetto principale, cfr. Zanzi 2012, p. 237. Un’ulteriore variante, certo meno efficace e drammatica, venne pubblicata (e non per caso) in Chiesa Butazzi 1974, p. 95 (tav.  050).

[99] Monti 1979a; per il commento si veda Morello 2010, p. 70.

[100] Bellavista fu anche il titolare dell’agenzia fotografica Studio Sigla, presso cui ebbe il primo impiego Cesare Colombo (Colombo, Guerra, 2014, p. 18).

[101] Fiori mossi, 1952, tav. 051Movimenti , 1955-1960, tav. 052; Composizione fotografica, 1957-1961, tav. 053.

[102] Si confronti ad esempio Foglie e macchie di sole (tav. 054), con Interferenze dinamiche su curve. Sperimentale di sub percezione, 1954, di Grignani (Scimé1993, p. 59), come dichiarano i titoli, le intenzioni dei due lavori erano però diametralmente opposte.

[103]  Le prime copertine di Monti comparvero nel  1954: n. 300, novembre: La poltrona Martingala di Marco Zanuso, disegnata da Marco Zanuso proprio per la X Triennale, per la quale erano state studiate significative varianti (tavv. 056, 057, 058);  n. 301, dicembre: Composizione di foglie e neve (tav. 059);  nel 1957, n. 332, luglio, la solarizzazione di una Composizione in soffitta (tavv. 060061) e poi ancora nel 1961: n. 374, gennaio: Foglie e macchie di sole; n. 378 maggio: Composizione fotografica (tav. 055). Ricordo che altre copertine ‘astratte’ per la rivista vennero realizzate da György Kepes, Franco Grignani e soprattutto da William Klein, tra il 1952 e il 1960.

[104] Monti 1955a.

[105]  Cfr. infra NOTA 109.

[106] Donzelli 1956 faceva proprie le parole di un riconosciuto nume tutelare:  “La Subjektive Fotografie, come la si intende oggi, è un modo di esprimersi fine a sé stesso, che si serve di determinati principi estetici presi a prestito dalle altre arti (lettera di Steichen agli espositori della P.W.E.P. – [Post War European Photography, da lui curata]”.  Per l’immediata controreplica cfr. Turroni 1956. Segnalo inoltre che un’ampia selezione delle opere in mostra venne pubblicata in “ The 1954 U.S. Camera Annual”.

[107] Morucchio 1956a. Già alcuni anni prima, in quello che fu il primo testo critico dedicato al fotografo, l’autore aveva sottolineato “le variazioni sentimentali del suo spirito irrequieto” e la “ vita rivelata a sé stessa per quella parte d’incubo ch’essa significa a un occhio per naturalità metafisico.”, Morucchio 1953b. Meno lo convincevano invece le sperimentazioni off camera: “E così P. Monti perviene a un livello di buon gusto con il procedimento del fotogramma che, a mio avviso, ha in sé troppo  evidenti limiti decorativi e intellettivi.”, Morucchio 1953d. Se dobbiamo prestar fede alle parole di Finazzi, pare che Morucchio, nonostante gli apprezzamenti pubblici, “dicesse malissimo del dott. Monti (…) quand’era con noi, mentre in presenza di Monti era tutto «latte e miele» (…) ma Vender mi precisò che il dott. Morucchio era un eroe del doppio giuoco.”, cfr. lettera a Alfredo Camisa, pubblicata in  Morello 2003a, p. 178.

[108] Tra le opere più ‘sperimentali’ ricordo Meme 1 e 2 (tav. 061)  una doppia esposizione pubblicata in  “Ferrania”, 1951, n. 9, p. 9; due Riflessi esposti alla Mostra della fotografia italiana a Venezia, 1952; due Fotogrammi, pubblicati in “Fotografia”, 1952,  luglio-agosto e Fotogramma n. 1 e Fotogramma n.3 (una numerazione significativa) presenti alla sua  prima personale a Roma nello stesso anno; Fotogramma (tav. 062), presentato alla V Mostra nazionale FIAF a Venezia, ancora nel 1952 e quindi alla Mostra della fotografia italiana di Firenze, 1953; quindi altri (pochi) fotogrammi sino al 1956, dopo di che questa modalità espressiva pare scomparire da mostre e pubblicazioni periodiche.

[109] Si vedano a questo proposito Orsi 1956 da confrontare con Pellegrini 1955, che pur definendo la “fotografia sperimentale” come “arte moderna per eccellenza” la identificava (e la restringeva) a “realizzatrice d’immagini tipiche di un dinamismo (…) se invece surrealismi e astrattismi e concezioni similari si limitano a usare il procedimento fotografico per realizzare immagini statiche (…) allora il procedimento fotografico non sembra il più adatto per simili esercitazioni.” Questa antologia brevissima di citazioni non si può chiudere senza ricordare  ciò che scrisse  Gherardo Gentili (giornalista per “Grand’Hotel”, “Confidenze” ed altre testate femminili, dal 1957 a “Bolero Film”), per il quale  “La fotografia sperimentale non ha ambizioni d’arte; quella astratta sì, tante. Alcuni fotografi astratti, come i loro colleghi pittori, vorrebbero creare immagini e forme che in natura non esistono, inventare addirittura una realtà al di fuori di quella naturale.”, Gentili 1963. Anche un giovane critico cinematografico come Francesco Bolzoni, 1960b, p.24, nel recensire su “Ferrania” la Storia di Pollack scriveva dello “sperimentalismo di Harry Callahan e di Aaron Siskind, i cui sterpi e macchie di vernice sul muro poco ci interessano”.

[110] Da una lettera di Monti a Luigi Crocenzi, datata Milano, 8 febbraio 1957, citata in  Zannelli 2016,  p. 88, nota 32. Non è da escludere che l’iniziativa non avesse seguito poiché proprio in quell’anno White avrebbe lasciato la George Eastman House per trasferirsi al Rochester Institute of Technology. Nel maggio del 2016, su richiesta di Manfredo Manfroi che qui ringrazio per avermene segnalato l’esistenza e il testo, George Tatge contattava Ross Knapper, Collection Manager – Department of Photography al George Eastman Museum, che a proposito di questa mostra così rispondeva: ” Based on our exhibition records, it appears the museum organized an exhibition of Paolo Monti’s photographs in December of 1957. Unfortunately, there is very little information about the exhibition. In checking with the Registrar Department there does not appear to be any record of receipt or return of the photographs for the exhibition.” Segnalo inoltre che in un suo curriculum del 1967 (# Monti 1967) collocava al 1960 una sua mostra a Rochester, riferendosi verosimilmente a Photography at Mid-Century.

[111] Beaumont Newhall, [Introduction], in Photography at Mid-Century: Tenth Anniversary Exhibition, citato in Malazdrewich 2011. In particolare si trattava del Curato di campagna 1954 ca. tav. 063, (ma Parroco di campagna, 1956, in Turroni 1959, t. 156, ovvero Milano: 1880, alla III Mostra internazionale di fotografia di Venezia, 1956),  e del Ritratto di Gianni Dova, 1954 ca. [1953], in una variante di ripresa della versione pubblicata in Turroni 1959, t.154, attualmente inventariate ai numeri  1971:0140:0014 e 1971:0140:0013. Turroni 1962, p. 78, avrebbe definito il Parroco di campagna “senza dubbio una delle foto più belle della fotografia italiana dal 1945 in avanti.”  Il solo altro italiano tra gli autori esposti fu Alfredo Camisa.  Monti fece anche una serie di  ritratti a colori di Dova (tav. 064) ben noti all’epoca, come risulta da una lettera di Mario Finazzi a Camisa, citata in Morello 2003a, p. 186, relativa alla alla preparazione del volume Fotografi italiani d’oggi, poi non realizzato; cfr. infra.

[112] Monti 1954a.

[113]  Monti 1955a.

[114] Basti pensare alla forte presenza veneziana di un autore come Emilio Vedova, che pure non pare rientrasse tra le frequentazioni di Monti.

[115] Cinelli et al. 2013; Cinelli, Serena 2013.

[116] Monti 1953a.

[117]  Monti 1964b.

[118] Il fenomeno andrebbe considerate a livello internazionale, sebbene le differenze di intenti e di prospettiva fossero incommensurabili; basti pensare alla fondazione di Magnum nel maggio del 1947, mentre è all’istituzione della FIAP – Féderation Internationale de l’Art Photographique nello stesso anno che va connessa la fondazione della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

[119] “a new factor in pictorial photography in Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development”, Bricarelli 1922.

[120] La storia del sodalizio è stata attentamente ricostruita da Clera 2011.

[121] Cavalli et al., 1947. La ritrovata vivacità di pensieri e iniziative di quel dopoguerra aveva gia stimolato altre iniziative, come quella del Centro per la Cultura nella Fotografia–CCF di Luigi Crocenzi, che era nato da un gruppo di amici che sin dal 1946 avevano iniziato a “raccogliere e studiare libri di fotografia e di cinema, riviste e settimanali per studiare i fotoreportage”; lettera di Crocenzi a Zannier datata 24 aprile 1959, in Zannier 1986b.

[122] Monti, in Basaldella 1975.

[123] Zannier 1965.

[124] Dopo le iniziative del Circolo  Fotografico e dell’Unione sarebbe stato Lamberto  Vitali a proporre per la XII Triennale (1960), piccole mostre monografiche su altri importanti autori contemporanei –  tra gli italiani  De Biasi, Giacomelli, Monti, Mulas e Roiter –  mostre che non ebbero però alcuna risonanza in quanto relegate “in un ambiente angusto e introvabile del Palazzo dell’Arte”, Regorda 2010, p. 46.

[125] FIAF 1949.

[126]  Lettera di  Giuseppe Cavalli a Fosco Maraini datata 20 giugno 1951, citata in Weber 1997, p. 21.

[127] Cavalli 1947. La foto era compresa nella selezione curata dal “New York Times”.

[128] Ornano 1947.

[129] Vennero esposte 130 fotografie di 88 autori, frutto di una selezione assai severa da parte della giuria presieduta da Federico Vender con Gino Bolognini, Paolo Monti, Fulvio Roiter e Giuseppe Ferruzzi. Vinsero premi Giulio Parmiani, Luigi Veronesi, e Gualberto Davolio Marani cioè autori appartenenti o prossimi la gruppo de La Bussola.

[130] Monti 1951. Le due mostre non vennero segnalate né recensite su “Ferrania” ma solo su “Fotorivista”, cfr. Clera 2011, p. 41.

[131] Monti 1951. L’elenco degli espositori è stato pubblicato in Clera 2011, p. 91.

[132]  Monti 1951.

[133]  “L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”, Masoero 1898.

[134] Sull’attività dell’Unione Fotografica si veda la sintetica scheda informativa in Regorda 2010, p. 65, nota 28 e il capitolo The Photographic Union di Russo 2021.

[135] Venezia, Ca’ Giustinian 5-19 settembre 1954; a questa corrispose la mostra del Circolo Fotografico La Gondola, ospitata l’anno successivo al Musée Guimet di Parigi per iniziativa del Club Photographique de Paris 30×40.

[136] Cfr. 2ª Mostra Internazionale 1955. L’iniziativa sembrava rispecchiare ancora una volta la Mostra internazionale dell’Unione fotografica (Mostra 1954); la presentazione che ne fece Donzelli 1954 segnalava presenze di grande rilievo quali Angenend, Brandt, Hajek-Halke e Chargesheimer e, tra gli italiani, Roiter, Veronesi e Monti, indicato tra i nuovi soci, che espose Sogno a Milano. Non risulta però che fossero presenti fotografie di autori della Farm Security Administration, come vorrebbe la tradizione. Molto duro il giudizio di Morucchio sulle opere esposte a Milano, espresso in una lettera  a Mario Bonzuan del maggio 1954: “Ho visto la Mostra Internazionale di Fotografia: gli stranieri ci mangiano vivi. Rimasto che Roiter si sia presentato discontinuo. Del Tin un disastro […] eppure col nostro Centro si può fare meglio. Bisogna organizzare ‘la rete’ internazionale. Noi abbiamo idee più chiare di quelli dell’Unione.”, citata in Milozzi 2017.

[137] Morucchio 1955b. Il regesto delle partecipazioni è stato ricostruito da Clera 2011, pp. 91-100.

[138] Del gruppo di “pacifici amatori fotografi, pieni di pregiudizi accademici” de La Gondola  si salvavano appena “Berengo Gardin, il cui merito sembra quello d’essersi francesizzato” e “Monti,  con ricerche notevoli di tecnica” (Morucchio 1955b), confermando con quelle scarne segnalazioni la sostanziale  insoddisfazione di fondo.

[139] Unione Fotografica 1953. Poche le eccezioni positive segnalate dai recensori; Harold Lewis, editor di “Photography Year Book”, dichiarava di essere stato “felice di rivedere per esempio Meme di Paolo Monti: una composizione di testa e spalle di ragazza veramente interessante ed originale”, ibidem. Poco soddisfacente risultò anche la successiva edizione veneziana, nella quale “nessuna opera (…) racchiude[va] in sé quella completezza di carattere richiesta dall’arte.”, Morucchio 1953d.

[140] Russo 2011, p. 132.

[141] Un’ampia selezione delle opera esposte venne pubblicata da Steichen 1953, ma senza concedere alcuno spazio agli autori italiani.

[142] Martinez 1956a; Monti 1956; non un’antologica quindi, ma un progetto sviluppato “nel tempo”.

[143] Martinez 1956b.

[144] Roiter 1956; l’articolo è riportato integralmente in Dolzani 2008, pp. 120-121.

[145]  Italo Zannier, Due generazioni, “Camera”, 1956, n. 4, aprile, citato in  Colombo C. 2003, pp. 97-98.

[146] Balocchi, Berengo Gardin, Bevilacqua,  Branzi, Del Tin, Di Blasi, Ferri, Finazzi, Giacobbi, Giacomelli, Leiss, Orsi, Persico, Roiter e Veronesi.

[147] Bricarelli 1956a. La formula riprendeva il titolo del notissimo manifesto pacifista di Romain Rolland, pubblicato a Ginevra nel settembre del 1914. “Il Corriere Fotografico”, dopo quasi dieci anni di silenzio dovuti alle restrizioni belliche e alle successive difficoltà economiche, aveva ripreso le pubblicazioni col numero di gennaio del 1952.

[148] Monti 1959c, p. 47. Già Donzelli 1955-1956, aveva proposto a modello quei professionisti, come Roiter, Monti e De Biasi, che “divennero dei professionisti mantenendosi però amatori nell’animo.”

[149] Colombo C. 1963a, “c’est avec lui que s’amorce la rupture avec un certain hédonisme photographique, de même que c’est son passage aux activités professionnelles qui a secoué l’inhibition de nombreux amateurs doués mas incapables de prise de franchir le Rubicon.  L’entreprise de Monti signifiait pour notre génération l’émancipation et la revalorisation  d’un métier que l’on tenait pour socialement et économiquement inférieur. (…) Monti reste toutefois l’exemple de celui qui réussit à conserver son intégrité à tous les niveaux de sa production, c’est-à-dire qu’il réussit à défendre à tout moment sa propre personnalité de photographe.”

[150] III Mostra Internazionale 1956. Una selezione delle opere esposte venne pubblicata in “Diorama”, 6 (1956), n. 10, luglio – ottobre.

[151] Berengo Gardin, Bevilacqua, Branzi, Camisa, De Biasi, Del Tin, Ferroni, Giacomelli, Monti, Parmiani, Roiter, Veronesi tra gli altri.

[152] Il clima di tensione in cui nacque la mostra è testimoniato anche dal rifiuto a parteciparvi di Mario Bonzuan, che in  una lettera a Giacomelli diceva motivato “da divergenze accennate nella mia stessa lettera del 18 Marzo e dall’esclusione voluta, fra gli altri, dei tre promotori del Gruppo “La Bussola” (Cavalli, Finazzi, Vender) e da altri spiacevoli retroscena Montiani e Roiteriani.”, lettera di Bonzuan a Giacomelli, datata  Venezia 28 marzo 1956,  con trascrizione del carteggio intercorso tra Bonzuan e Bruno Bruni, Segretario de La Gondola, citata in Millozzi 2017. Ad ulteriore riprova di una crisi senza ritorno, nel marzo 1957 Guido Bezzola, peraltro sostenuto da Veronesi, si sarebbe rifiutato di pubblicare su “Ferrania” le foto inviate dai membri de La Bussola, cfr. Morello 2010, pp. 444-446.

[153] Zannier 1956b.

[154] Per Morucchio 1956b si trattava più esplicitamente di “un maldestro criterio selettivo circa gli inviti che generò giusti risentimenti in ambienti qualificati e la rinuncia ad esporre da parte di due autorevoli rappresentanti della fotografia italiana.” Per quel che riguardava gli espositori aggiungeva: “A Monti forse nuoce il cattivo allestimento (frittata di pannelli e cornici). Tuttavia il suo occhio ‘mordente’ e la sua cruda espressione intellettiva, (…) creano rappresentazioni scattanti per una evoluta coscienza linguistica visiva. Oggi, tra i presenti, è il più completo fotografo.”

[155] La mostra della  Magnum proveniva dall’edizione 1956 della  Photokina di Colonia, mentre  alcuni degli autori compresi nella sezione della fotografia europea parteciparono nel 1957 a Fotografie als uitdrukkingsmiddel curata ancora da Coppens allo Stedelijk Van Abbe Museum di Eindhoven (Fotografie 1957). In quella occasione l’Italia era rappresentata da Paolo Monti (nn. 171-180: Vetro sporco, Ritratto in ombra, Roccia nr.1, Roccia nr.2, Il pittore Baj, Composizione insolita, Scultore Umberto Milani, La cometa, Natura barocca e Lichene, che apriva le tavole in catalogo) e da Fulvio Roiter (191-200, con fotografie dalle serie Sicilia, Andalusia e Sardegna e sei opere Senza titolo).

[156]  Il modello era la Biennale de la Photo et du Cinema di Parigi, che aveva avuto la sua prima edizione nel 1955 vedendo coinvolti a diverso titolo sia Martinez che Monti. I rapporti tra Crocenzi, che era buon amico di Ferroni e in contatto con Monti,  e Martinez furono però di brevissima durata e solo pochi mesi più tardi si giunse a una rottura, cfr. la puntuale ricostruzione di Paolo Morello, 2010, pp. 447-451.

[157] Va ricordato che dal luglio 1957 avrebbe fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Pietro Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum e un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, quelli che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali” (Colombo 1958), da leggersi in parallelo col suo testo dedicato ai ” poeti con lo stipendio” (Colombo 1959b)

[158]  Martinez 1957, citato in Dolzani 2008, pp. 151-154.

[159] Monti 1957d. Di diverso avviso era Turroni 1956, che bollava di “semplicismo dell’argomentazione” l’ipotesi critica di  operare una “distinzione tra due ‘correnti’ – la «Family of man» e la «Subjektive Fotografie » – che rappresenterebbero, o meglio dovrebbero rappresentare i vertici della tensione artistica contemporanea, anche di casa nostra. Nessun dubbio ‘teorico’, forse, su tale enunciazione, che però ci sembra un poco semplicistica, dato che, a voler guardare per il sottile, le correnti sarebbero più d’una, e a volte tanto confuse tra loro da non saper certo districarle con una definizione appioppata a cuor leggero.” Quella volontà di rappresentazione aperta anche alle ricerche meno convenzionali non avrebbe però segnato i programmi espositivi delle Biennali di fotografia, certo utili per l’aggiornamento della cultura fotografica italiana ma di impianto più istituzionale.

[160] Monti 1952a; tranne diversa indicazione le citazioni successive sono tratte da questo testo.

[161] Corinaldi 1956.

[162] Si vedano a questo proposito Turroni 1959 e Arcari 1961.

[163] Versione originale in italiano di Monti 1954a, in Valtorta 2008, pp. 53-55; per la  versione francese cfr. Bertolini 2004, pp. 43-45. Resta singolare l’assegnazione di Cartier-Bresson al “reportage giornalistico di tipo americano”, distinguendolo però dagli altri autori Magnum.

[164] La questione etico politica ed  espressiva, e questi ambito sono necessariamente connessi, avrebbe interessato Monti lungo tutto l’arco della sua produzione e della sua vita se ancora molti anni dopo,  riflettendo su “Cos’è la fotografia”   introduceva la dicotomia “Esattezza o verità”, anche nella variante “Esattezza e verità”, posta in relazione a un ipotetico “Osservatore/ Fruitore”, cfr. rispettivamente Monti 1978-1979; Monti 1960-1965. L’affermazione  “L’exactitude n’est pas la vérité” si doveva a Henri Matisse 1947, che a sua volta riprendeva e sintetizzava una riflessione contenuta nel diario di  Eugène Delacroix alla data del 17 ottobre 1853, cfr.  Delacroix 1893-1893, p. 246. Per quanto riguarda la datazione Monti 1978-1979, assegnata da Valtorta 2008, p. 193, “agli anni Settanta”, ritengo vada collocata alla fine del decennio per il riferimento a Cristofori 1978 e per altri elementi che sembrano rimandare al progetto einaudiano e a  Paolo Monti 1979.

[165] Zannier 1957c. Considerazioni non dissimili, e un corrispondente riconoscimento degli esiti più che positivi della manifestazione veneziana vennero espresse anche da Bezzola 1957.

[166] Bezzola et al. 1957; se ne veda il ricordo in Zannier 2019.

[167] Analoghe cautele erano state espresse da Donzelli, secondo il quale molti fotografi correvano il rischio di confondere “il realismo propagandistico con la poesia e crediamo di fare opera d’arte nel fotografare i diseredati con uno stile documentaristico che ha i suoi maestri negli oscuri reporters  delle varie agenzie Associated Press o Wide World.”, Donzelli 1955-1956.

[168] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Restava singolarmente esclusa da questo brevissimo elenco la ben nota serie di foto della jam session nell’appartamento newyorchese di William Eugene Smith, realizzata nel corso del viaggio negli Stati Uniti fatto in compagnia di Romeo Martinez nell’aprile-maggio 1965 (tav. 065) . Su quella mitica serie di incontri e registrazioni si veda Stephenson 2009. Alcune di quelle fotografie, provenienti dall’Archivio Romeo Martinez, sono state pubblicate in Dolzani 2019.

[169] Patellani 1943.

[170] Arcari 1961, p. 76. Per un’ampia ricostruzione delle variate posizioni italiane in quegli anni si vedano Regorda 2010; Russo 2011.

[171] Arcari 1961 e la sintesi della discussione successiva in Atti 1959 1961, pp. 85-89.

[172] Monti 1959a. La discussa mostra curata da Edward Steichen aprì a New York nel 1955 avendo poi ampia circolazione anche in Italia, dove venne esposta  a Roma nel 1956 quindi a Firenze, poi  al PAC di Milano dal 18 febbraio al 22 marzo 1959 per iniziativa di Lamberto Vitali; fu poi a Torino, Palazzo Madama, dal 28 aprile al 17 maggio successivi. Poiché Monti la collocava a gennaio si può supporre  che questo scritto venne redatto a  qualche mese di distanza, forse in occasione della II Mostra Internazionale Biennale di Fotografia di Venezia, che si tenne tra ottobre e novembre, con una sezione dedicata a “Life”. Sulla ricezione italiana della mostra si veda Russo 2011, pp. 175-178. A qualche anno di distanza, nel 1964,  un pool di istituzioni internazionali produsse una mostra itinerante di analogo argomento e respiro, ma di non altrettanto successo, sul tema Was ist der Mensch? per celebrare il centoventicinquesimo anniversario dell’invenzione, con 515 opere di 266 fotografi di 29 paesi; tra i promotori vi furono anche i Musei Civici torinesi ma non risulta poi che l’esposizione venisse ospitata in città.

[173] Monti 1959a. Pochi anni dopo quella stessa definizione retorica sarebbe stata messa in forse, poiché “purtroppo molti balbuzienti e reticenti testimoni hanno resa sospetta questa qualifica.”, Monti 1963c.

[174] Monti 1959c, p. 42. Si veda anche infra p. 108, NOTA 538.

[175] Monti 1960-1965.

[176] Quella fu l’ultima edizione, poiché nel 1967, per ragioni anche economiche, l’Amministrazione Comunale decise di non sostenere oltre l’iniziativa, che sarebbe poi stata ripresa, con caratteristiche non troppo dissimili ma come unicum, con le manifestazioni di Venezia ’79 La Fotografia. In quell’occasione un suo Manifesto del 1971 venne compreso nella sezione dedicata alla Fotografia italiana contemporanea (Zannier 1979b, p. 15), mentre – pur invitato – Monti non prese parte alla serie di workshop organizzati tra luglio e settembre.

[177] Martinez 1959 citato in Dolzani 2008, p. 141 nota 3.

[178] Monti 1957d.

[179] Strettamente connessa a questo contesto la presenza a Venezia nel 1961 di Walter Boje, fotografo tedesco specializzato nella tecnica del colore e capo dell’Ufficio Pubblicità delll’Agfa, al quale si deve una bella foto di gruppo con Fritz Gruber, Man Ray, Ugo Mulas e Paolo Monti al caffè in Piazza San Marco, cfr. Paoli 2016, p. 25.

[180] V Mostra Biennale 1965. Quest’ultima edizione, sempre per la cura di Martinez, era in tono decisamente minore anche se presentata come “un naturale completamento delle precedenti, volta com’è ad illustrare determinati aspetti fotografici che si distaccano da quelli puramente artistici o fotogiornalistici, sui cui precipui valori espressivi sì era finora posto l’accento” (ibidem). In quella prospettiva si collocava anche la sezione dedicata all’AFIP, nella quale di potevano trovare “fotografie utilizzate esclusivamente nel campo editoriale e pubblicitario”, ma il vero obiettivo generale, sostenuto e confermato dalla presenza produttiva di Agfa e Kodak, era la presentazione e valorizzazione “dei progressi della tecnica del colore per la quale una perfetta riproduzione è un elemento indispensabile di valorizzazione del fattore espressivo.”, ibidem.

[181] Nonostante i suggerimenti di James Thrall Soby (che lo definiva “very fine”) Walker Evans non sarebbe stato selezionato neppure da Lamberto Vitali per la Triennale del 1960, cfr. Paoli 2015.

[182] Il lavoro di Frank, ampiamente celebrato da Steichen nella mostra Post War European Photography del 1953, dove gli era stata dedicata un’intera “parete con esempi del suo lavoro che è più esteso di quello di ogni altro espositore” (Red. 1953b) e ben presente in The Family of Man,  era stato segnalato da Zannier 1957b ma non citato da Arcari 1961 né da Tedeschi 1967 nella sua pur ampia rassegna sui libri fotografici pubblicati in Italia dal dopoguerra, sebbene l’edizione italiana di The Americans (Frank 1959) fosse stata oggetto di una recensione sulle pagine di “Ferrania” nella quale si rilevava che “la luce e l’angolazione dell’inquadratura sono sfruttati con finezza. Puntando sul montaggio interno degli elementi a disposizione, più che abbandonandosi senza calcolo all’ispirazione delle cose, Frank si compone uno stile rigoroso e meditato, che mai sfuma nel vago illudendo e deludendo. Chè la sua cultura di estrazione europea lo aiuta a sistemare il materiale lungo una linea precisa; ma non a violentarlo. Gli americani di Frank non sono inventati.”, Bolzoni 1960a.

[183] Monti 1963c; tranne diversa indicazione le citazioni seguenti sono tratte da questo testo.

[184] Bezzola 1960b. Come ha notato Dolzani 2008, p.207, “Non ci sarà sulla rivista altro riferimento a questa edizione o alle Biennali che si terranno negli anni successivi.”

[185] Il testo venne riportato integralmente in Red. 1953a. Non corrispondere quindi al vero che “la sua [di Roiter] prima mostra” fosse stata quella di Treviso del 1953 (Morello 2002, p. 18).

[186] Monti 1953a. Roiter si sarebbe ricordato di quella definizione, facendola propria senza indicarne l’autore originario, nel testo di  presentazione di Roiter 1977, pp.n.n.  La Galleria, aperta nel 1950 da Celio Perazzetta venne chiusa definitivamente nel 2009.

[187] Monti 1952b, poi ripreso in Monti 1952c.

[188] Monti 1954d; anche in quella occasione avrebbe rivendicato il suo “interesse indiscriminato per immagini tra loro differentissime.”

[189]  Lettera a Ferroni datata 25 agosto 1954, citatata in Morello 2010, p. 105. Ancora nell’intervista rilasciata a Maurizio Capobussi (1975), sintetizzando i diversi trattamenti necessari per le stampe a tono alto o a tono basso avrebbe concluso che “in definitiva ogni stampa è unica.”

[190] “Sono contento che Cavalli scriva di te sul “Progresso fotografico” tu te lo meriti perché hai molta passione e soprattutto perché hai già raggiunto ottimi risultati come ‘cacciatore di immagini’ (…). Io, personalmente, sono tiranneggiato da due diverse tendenze, quella del cacciatore e quella del costruttore.”, lettera di Monti a Mario de Biasi datata 5 novembre 1952, citata in  Morello 2003b, p. 20. Monti adottava qui le due categorie utilizzate da Cavalli nella lettera a De Biasi, ma come è noto la definizione di sé quale “cacciatore di immagini” risaliva a Pagano 1938, che avrebbe potuto trarla dal giudizio leopardiano sullo stile di Ovidio, cfr. Battaglino 2018.

[191] Lettera a Ferroni datata 21 ottobre 1954, citata in Morello 2010, p.107.

[192] “l’épreuve photographique, image objective ‘subjectivée’, est alors une représentation qui retient seulement certains aspects, certaines relations de la réalité. Si l’on admet, ce qui est indéniable, qu’avec son découpage de l’espace, son arrangement des formes, son rendu des valeurs tonales, la photographie est bien différente de la réalité qui lui a donné naissance mais dont elle est cependant l’image, on saisit mieux ce qu’abstraire veut dire.”,  Monti 1964a.

[193] Da una intervista di Angelo Schwarz a Monti (Schwarz 1978), poi raccolta in un volume che l’autore dedicava allo stesso Monti e a Luigi Crocenzi. Da rilevare, quale nota marginale, ai limiti del pettegolezzo, che l’uso reverenziale del “lei” dell’intervista originaria venne sostituito dal più colloquiale “tu” nell’edizione collettanea.

[194] In Schwarz 1978. Oltre all’understatement montiano, che lo induceva a proporsi quasi come un semplice artigiano nonostante la consapevolezza del ruolo da lui svolto e della sua opera, va sottolineato come tra queste diverse interpretazioni ‘tecniche’ Monti assegnasse grande importanza proprio alla fase conclusiva della stampa, nella quale il dialogo col materiale sensibile si faceva particolarmente serrato. Una diversa e contrastante testimoniaza sul suo modo di operare è stata fornita da Andrea Emiliani: “E qui imparammo subito a vedere una cosa per me eccezionale, e cioè che la foto che Monti operava era fin dal negativo – e cioè dalla sua vera imprimitura – assolutamente la stessa che ne discendeva nella stampa.”,  Emiliani 1983, p.11.

[195] Appunto manoscritto non datato, pubblicato in  Valtorta 2008, p. 187; la citazione di Monti – qui evidenziata in corsivo – è tratta da  Claudel 1933: “Alors nous comprendrons le véritable sens de ces mots: hasard, nécessité, mouvement, développement, unité, diversité (…) car la matière ne se soustrait au néant que par le mouvement vers une forme”.  Segnalo qui che un breve testo di Claudel dedicato alla fotografia (Claudel 1947) era stato pubblicato su “Ferrania” nella traduzione di Giulia Veronesi.

[196] Cfr. Serena 2013, t.2 e p. 119. Il precedente numero portava in copertina uno dei più noti ritratti di Meme (tav. 029). La consuetudine di riprendere panni stesi al sole quale pretesto di composizione grafica e tonale era piuttosto diffuso in quegli anni, come mostrano alcune fotografie dei Fratelli Pedrotti, di Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Vincenzo Balocchi, cfr. Bianco su bianco 2005, pp. 113-115, 117.

[197] Eco 1961.  Si veda anche il testo corrispondente alla NOTA 340.

[198] Già nel 1942 il Department of Photography del MoMA aveva curato la circuitazione di How To Make a Photogram, con opere  realizzata da docenti e allievi della School of Design di Chicago sotto la direzione di Moholy-Nagy, George Kepes e Nathan Lerner, mentre una delle mostre del 1951 fu Abstraction in Photography (nessun italiano presente) e nel 1960 The Sense of Abstraction in Contemporary Photography  (17 febbraio – 10 aprile 1960)  (nessun italiano presente). Anche in Postwar European Photography, 1953, tra i lavori degli italiani (Giuseppe Cavalli, Davide Clari, Piero Di Blasi, Piero Donzelli, Federico Vender)  riscossero particolare interesse le “abstract photographs” di Luigi Veronesi.

[199] Monti 1953b. Per il fotogramma cfr. tav. 062. Come suggerisce più che esplicitamente il richiamo agli “amici milanesi”, era Piero Donzelli l’interlocutore privilegiato di quella polemica, non certo  Morucchio, come riteneva Morello 2010, p. 82.

[200]  La Sezione era nata in quello stesso 1953 per iniziativa di Ferruccio Leiss, Virgilio Guidi, Berto Morucchio e Carlo Cardazzo e faceva riferimento alla galleria di quest’ultimo, tanto che le mostre fotografiche entrarono organicamente nel calendario espositivo della Galleria del Cavallino,  cfr. Millozzi 2017. Restano quindi da comprendere le ragioni per cui la personale di Monti venne allestita in una sede diversa.

[201] Morucchio 1953c.

[202] Paolo Monti 1954.  La personale era compresa nell’ambito della IV Rassegna Nazionale di Arte Fotografica, 1-15 settembre 1954,  organizzata dal locale club fotografico “Foto 0-23”, molto attivo per gran parte degli anni Cinquanta.

[203] Monti 1952b, poi ripreso in Paolo Monti 1954 .

[204] Citato in Morello 2002, p. 21.  Roiter avrebbe risposto ricordando la consuetudine quasi quotidiana con Monti ma mantenendosi ben lontano da ogni sospetto di filiazione:  “Ci siamo formati a vicenda, fotograficamente”, ricordava in una lettera del 29 settembre 1953, citata in Morello 2002, p. 39, nota 2. Analogo il senso della dedica autografa posta alla copia di Venise a fleur d’eau: ” A Paolo Monti/ e agli anni che ci/ hanno visto ‘fotograficamente’ / e felicemente insieme./ Meolo 4 dic. 1954”.

[205] Lettera di Ferroni a Giulio Parmiani datata  17 settembre 1954, citata in Morello 2010, p. 106. Un’interpretazione analoga sarebbe stata fornita anche da Camisa 1958 che riconosceva nei lavori di Monti “una aspirazione quasi simbolistica: una fuga dalla realtà entro le regioni della visione, un rifiuto o una trasfigurazione della realtà dopo averne ricavato quanto in essa v’è di legato all’uomo o alla natura in un dato momento.” Morello 2002, p. 21, ha rilevato opportunamente che “la dimensione onirica delle fotografie di Monti è un fatto oggi trascurato, ma del tutto evidente agli occhi dei contemporanei.”

[206] Lettera di Monti a Ferroni, datata 25 agosto 1954, pubblicata in Morello 2010, pp. 105-106. Quella sua insofferenza, quasi scostante nella propria orgogliosa consapevolezza,  era ribadita nel testo di presentazione della sua personale romana dello stesso anno: “Persuaso che le mie fotografie non a tutti possono piacere, ammetto subito che gli eventuali dissenzienti sono pienamente giustificati; vorrei però aggiungere che non a tutti la natura appare arcadica, gli uomini felici e Venezia una divertente città turistica.”,  Monti 1954d.

[207] Se ne veda il regesto in Cavanna, Paoli 2016, pp. 292-299.

[208] Monti 1955c.

[209] Negli stessi anni due fotografi della generazione successiva come Giacomelli e Migliori parteciparono rispettivamente a 18 e 3 personali ma a 138 e 137 collettive.

[210] Monti 1954c.

[211] Zanelli 1954. Nella testimonianza di Zannier “la mostra fece subito scalpore, anche per i criteri nuovi di giudizio, al di fuori delle combriccole fotoamatoriali”, cfr. Neorealismo e fotografia 1987. Il ‘manifesto’ del Gruppo venne pubblicato in Gruppo friulano 1956. Si vedano anche le notazioni autobiografiche contenute in Zannier 2000.

[212] Lettera di Fiamma Vigo a Monti, datata 3 settembre 1955, su carta intestata “Numero arte e letteratura”, (#  Vigo 1955).  Non corrisponde quindi al vero la ricostruzione a suo tempo proposta da Lenzi 2003, che ipotizzava in quella vicenda un ruolo attivo di Berto Morucchio. La storia della Galleria è stata ricostruita in Fiamma Vigo 2003.

[213] FIAF 1949, che costituiva il “Catalogo” della mostra. L’opera di Monti Inverno ad Anzola (n. 141) non venne né pubblicata né premiata.

[214]  Citato in Turroni 1959, p. 37; si veda anche Donzelli 1950a, mentre a p. 7 dello stesso numero si pubblicava Spiel, una delle stampe di Chargesheimer tratte  da pellicole termicamente manipolate. Si sarebbero dovuti attendere ancora molti anni prima che “Il Corriere Fotografico” (Bricarelli 1956b) pubblicasse quelle fotografie su una testata più tradizionalista,  ospitate nella rubrica  Fotografi d’oggi, seguite da quelle di Édouard Boubat e Otto Steinert (settembre 56), Jean-Pierre Sudre (dicembre 1956) e René Burri (maggio 1957).

[215] Mostra 1951. L’iniziativa aveva avuto il sostegno dell’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, dell’Accademia e degli Amici di Brera, quindi di Lamberto Vitali.

[216] Donzelli 1951.

[217] Ibidem.

[218] Monti 1952a.  Il pieghevole dichiarava esplicitamente che “Il Circolo della Gondola presenta l’Unione Fotografica, Associazione Internazionale Manifestazioni Fotografiche”. “L’Unione Fotografica – indicava la scheda – non è né un Circolo né un Club che desideri fare proseliti, e neppure un gruppo chiuso col proposito di imporre un proprio gusto artistico. In effetti le opere esposte in questa  Mostra (…) vogliono essere una dimostrazione di larghezza di vedute, obbiettività e spirito aperto alla più ampia libertà di espressione, sempre però sulla base di quell’elevato contenuto artistico che anima i fondatori della Unione Fotografica ed i suoi corrispondenti scelti fra i maggiori cultori della fotografia;  Monti vi espose  Temporale a sinistra, Gondola, Ghetto nuovo, Meriggio bianco e due Riflessi.

[219] ibidem.

[220] Monti 1953c.

[221]  Balocchi, Bolognini, Bonzuan, Branzi, Cavalli, De Biasi, Del Tin, Donzelli, Ferroni, Finazzi, Leiss, Monti, Orsi, Parmiani, Persico, Roiter, Scattola, Vender e pochi altri.

[222] Va qui segnalata la novità della locuzione “fotografia d’arte”, che nelle intenzioni avrebbe dovuto sostituire – ideologicamente – la frusta e vituperata categoria “fotografia artistica”.

[223] Cavalli 1953. A questa iniziativa la RAI dedicò due trasmissioni con interviste a Cavalli, Monti, Parmiani e Balocchi. Come ha ricordato Santoro 2019, la Galleria era stata diretta dal fratello di Giuseppe, Emanuele Cavalli, e nel 1951 aveva già ospitato una mostra de La Bussola.

[224]  Monti 1953b.

[225] Nèvola 1953, cr. Nota 199 Monti 1953b. Per il fotogramma cfr. tav. 062.

[226] Monti 1953b.

[227] Monti 1954a, da confrontare con il dattiloscritto originale in italiano pubblicato in Valtorta 2008, pp. 53-55.

[228] Monti 1955b, con traduzione in inglese del testo, posta a scorrere al piede della pagina. Poiché l’impaginazione si doveva a Monti risulta interessante, e certo con significato critico, considerare sia la sequenza che il dimensionamento delle immagini, come nel caso di Pietro Donzelli (t.48), sottodimensionato rispetto ad altri autori, tra i quali risultava anche Dino Sala, all’epoca collaboratore di Monti e registrato allo stesso indirizzo di studio.

[229] Donzelli 1955-1956.

[230]  Il livello insoddisfacente della critica fotografica italiana venne stigmatizzato anche da Camisa 1956.

[231] Donzelli 1956.

[232]  La formula era stata utilizzata in Monti 1955b.

[233] Quella distinzione troppo semplicistica venne contestata da Turroni 1956.

[234] Casiraghi 1956.

[235] Camisa 1956.

[236] Cavalli 1957; analoghe riserve furono espresse anche da Fumo 1956, per il quale “Da Paolo Monti ci si attendeva di più. La sua opera migliore è Perpetua, ottimamente realizzata nella composizione e nei toni.” A partire dal 1958 la mostra si sarebbe denominata Biennale internazionale della fotografia ovvero Biennale Fotografica Internazionale, ma anche, per # Monti 1958,  “Biennale Intern. della Fot. d’Amatore, che nel volgere degli anni, alternandosi con la Biennale di Venezia dedicata ai professionisti, potrà completare il periodico panorama della fotografia mondiale.” L’edizione del 1958 sarebbe stata condotta in collaborazione con “Camera”; con l’Unione Fotografica quella del 1960, che venne successivamente esposta anche a Milano, alla Galleria d’Arte Moderna, dal  4 al 18 dicembre 1960.

[237] “Anche Steinert era atteso per l’inaugurazione, ma poi non venne”, cfr. la lettera di Giacomelli a Camisa del 22 luglio 1956, citata in Colombo C. 2007, p. 24.

[238] Cavalli si riferiva verosimilmente a Curato/ Parroco di campagna, 1954 , tav. 063.

[239] Lettera di Giacomelli a Camisa datata Senigallia, 5 agosto 1956, in Morello 2003a, p. 36.

[240] Lettera di Piergiorgio Branzi a Camisa datata Firenze, 26 agosto 1959, in Morello 2003a, p. 207.

[241] Cfr. Guerra 2008, p. 43.

[242] Monti 1966. Con tutta evidenza il conflitto doveva essersi da tempo ricomposto, a testimonianza della volubilità e della contingenza di quelle diatribe.

[243] Morucchio 1955a, che a proposito di manovre eticamente discutibili aggiungeva: “E dobbiamo concludere che quel timore ventilato da più parti circa la parzialità del giudizio dei fotografi componenti la giuria, e che ha spinto qualche buon autore a inviare sotto mentite spoglie, aveva qualche fondamento?  Poiché penso che anche nel campo fotografico assieme al talento conviva la vanità e il gusto del predominio, per cui, molto spesso, invece di Gruppi di studio e di tendenza estetica si costituiscono Gruppi di clientele manovrabili, mi sembra che la critica, oltre a non essere panegirico, debba intervenire, pur col suo margine di approssimazione, a riequilibrare l’azione discriminatrice delle varie iniziative in detto campo.”

[244] Citata in Chiti 2001.

[245] Lettera di Giacomelli a Camisa datata Senigallia, 21 gennaio 1957, in Morello 2003a, p. 68. Erano anni di contrasti anche con Camisa, che Branzi designava ironicamente come “tuo ex-amante (leggi Monti)”, ivi, p.109. Nel dicembre 1957 Giovanni Massara aveva scritto a Camisa, pregandolo di contattare informalmente Monti per proporgli di far parte della giuria del IV Concorso Internazionale Fotografico Orso d’Oro di  Biella, 26 ottobre-9 novembre 1958 (cfr. Morello 2003a, p. 114). La giuria, costituita da Massara, Monti e Martinez assegnò poi il primo premio a Camisa,  per questo preso in giro da Branzi (“Ma cosa gli farai a Monti!”, ivi, p. 130).

[246] Citato in Tani 2007, p. 19. Nel 1956 Camisa aveva affidato al “dott. Monti”, per la stampa 50×60, due sue fotografie (Apparizione e Siesta, 1955), da presentare alla III Mostra internazionale di Venezia, a giugno (Morello 2003a, p. 25). Tale pratica non era certo rara, come si ricava anche da Zapponi 1956: “ la personalità di Monti [presente in giuria], vivissima nel nostro campo fotografico, traspare nella scelta delle opere, tanto da far sospettare che molti autori avessero già pronta la fotografia ‘alla Monti’ per qualche eventualità che ora si è presentata.” A proposito di competenza dei  recensori merita leggere Pazienti 1958, che parlando della giuria di quella edizione la descriveva “composta da eminenti personalità del campo dell’arte quali il pittore Gastone Breddo, il fotografo Gualtiero Castagnola, lo scultore e fotografo Paolo Monti, il critico d’arte Guido Parmiani  ed il giornalista Mario Rizzoli.”

[247] Branzi 2001.

[248] Al di là delle burrascose vicende associative i legami e le influenze reciproche tra i diversi componenti del gruppo rimasero ben salde se Mario Giacomelli fu portato a realizzare una letterale riproposizione a colori della notissima Scala di Ferroni, del 1950. La fotografia di Giacomelli, con una improbabile datazione al 1984,  è stata resa nota da Serge Plantureaux, I went to the Moon: Pages From Mario Giacomelli’s Colorful Notebook, “Weekly Transmission”, N°50, Thursday 15th December 2016, online www.plantureux.fr; il documento non è più accessibile al nuovo indirizzo https://sergeplantureux.blog/.

[249] Lettera di Ferroni a Fulvio Roiter datata 21 marzo 1955,  in Morello 2003c, p. 33.

[250] Citata in Morello 2004, p. 232. In quel contesto va collocato anche il passaggio di Mario Bonzuan da La Gondola a La Bussola. In quella occasione  gli scriveva Cavalli, “ci deve essere qualcuno che semina zizzania, certo che i veneziani non sono da qualche tempo molto cortesi nei miei riguardi.”, lettera di Cavalli a Bonzuan datata Milano 8 luglio 1955, in Millozi 2017.

[251] Lettera di Cavalli a Camisa, data  Senigallia 21 novembre 1956, in Morello 2003a pp. 61-64.

[252] L’ironia di Cavalli lasciava affiorare tutta la sua passione cinematografica, qui venata di una buona dose di cattiveria: l’attore messicano Armendariz, che condivideva con Martinez un bel paio di baffi e qualche tratto somatico, aveva partecipato in quello stesso anno alla lavorazione del film The Conqueror,  prodotto da Howard Hughes con John Wayne nel ruolo di Gengis Khan, poi considerato uno dei cinquanta peggiori film di tutti i tempi. Così  Branzi descriveva Martinez: “L’impressione che ne ho avuta non saprei definirla in poche parole. Certo loquace e leggermente fanfarone lo è. Ma non è uno stupido, e quello che ha di bello è che le cose le capisce prima che gli si dicano.”, Lettera di Branzi a Camisa, datata 15 novembre 1956, in Morello 2003a, p. 59.

[253] Quel clima da guerra fredda toccava anche il piccolo mondo della fotografia, come conferma un commento di Carlo Stucchi a proposito del fatto che “La fotografia esigerebbe un impegno totale, anzi totalitario, esigerebbe serietà e tetraggine, così da chiudere gli occhi alla realtà buona e gioconda per vedere, nei campi, non le primule ma lo sterco. (…) Ma (…) è pur necessario dire una buona volta la verità: tutto questo agitarsi è il cavallo di Troia che serve a introdurre la propaganda marxista fra la moltitudine disattenta degli utili idioti. Esagerazioni? Niente affatto. Per convincersi basta esaminare certe mostre o certi concorsi (…) e leggere certe riviste, magari edite da complessi capitalistici. Noi – e dico noi perché siamo in molti a pensarla così – amiamo la fotografia, amiamo l’arte fotografica, ma non amiamo il neoconformismo della fotografia né quello dei carri armati.”, Stucchi 1957a, p. 28.

[254] Quanta distanza con le cortesie di soli due anni prima: “A te tanti saluti carissimi come pure a don Peppino amatissimo” scriveva Monti a Ferroni il 19 maggio 1954 (Morello 2010, p. 81), mentre risaliva solo all’anno precedente il bel ritratto di Monti fatto da Cavalli a Pellestrina, con dedica “Al «Dottor Sottile» molto caramente”, (tav. 070). Il sorprendente (o “esilarante”, per Monti) avvicinamento tra il cattolico Cavalli e il comunista Crocenzi era durato solo pochi mesi.

[255] Lettera di Giuseppe Möder a Camisa datata Pescara 22 novembre 1956, in Morello 2003a, p. 65. Nella testimonianza fornita da una lettera di Alessandro Novaro a Martinez dell’11 ottobre 1957 (Zannier 2006, p. 16) relativa alla II Biennale internazionale di fotografia per invito, patrocinata da “Camera” di Pescara, Möder su consiglio di Novaro avrebbe “rinviato indietro le opere dei componenti della Bussola, salvo quelle di Branzi e di Giacomelli dietro consiglio di Monti, e le ha sostituite con quelle di Monti, Parmiani, Ferri, Migliori, Giovannini, Piergiovanni, Cantelli”.  Ricordo che Giovannini, Migliori e Parmiani appartenevano al Circolo Fotografico Bolognese.

[256] Lettera di Camisa a Möder, datata Milano 31 ottobre 1956, in Morello 2003a, p. 56.

[257] Guerra 2008, pp. 67-70. Si veda anche Baracchini Caputi 1998 che confermava la consuetudine di alcuni di inviare la stessa fotografia a vari concorsi, ma con titoli diversi, da qui la condizione posta in molti casi di presentare opere inedite, ciò che dimostra quanto le iniziative fossero rivolte agli addetti ai lavori, in un circolo chiuso e vizioso. Per il pubblico di sedi diverse quelle fotografie sarebbero state necessariamente inedite, per definizione.

[258] Lettera di Möder a Camisa datata Pescara  19 novembre 1958, in Morello 2003a, p. 143.

[259] Stucchi 1957a.

[260] “the first ever presentation of Italian photography in the United States”, scriveva  Pelizzari 2011, p. 127 ma l’informazione non corrisponde al vero poiché una Mostra della fotografia italiana si era già tenuta nella stessa sede nel  maggio del 1953, cfr. Russo 2011, p. 132.

[261] Pollack 1959, p. 628. Fotografo, curatore e storico della fotografia, nel 1962 Pollack, sarebbe diventato consulente del Worchester Art Museum  dopo essere stato per dodici anni il “Curator of Photography” all’Art Institute di Chicago. Nell’edizione originale del volume (1958) la sezione comprendeva, per l’Italia, foto di Del Tin, Monti (Lago alpino, 1954; La gondola della morte, 1956; Asfalto, 1956, già pubblicata in “Fotografia”, 11, 1956, p. 6) e Roiter, ai  quali si aggiunsero nell’edizione italiana Grignani, Mulas e Pozzi Bellini. In particolare Asfalto (tav. 071) ebbe lunga fortuna critica: venne pubblicata nel “Foto Annuario Italiano” del 1963, (CFM  1963, p. 198), edito anche come La fotografia oggi quale edizione fuori commercio per gli abbonati alla “Rivista dell’arredamento” dello stesso editore. Il volume di Pollack venne recensito con ampie riserve da Newhall 1960, per il quale “For its wealth of illustrations, The Picture History of Photography should be on the shelves of every art historians library. Nothing like it has been published since the long out-of-print Histoire de la Photographie of Raymond Lécuyer, a folio volume which it greatly resembles. Both books admirably illustrate 19th century contributions; both are weak in their treatment of the 20th  century. (…) It is not our purpose to catalogue the errors which have crept into the text and captions; we understand that they have been corrected in a second printing. Although we are disappointed that the text does not measure up to the standards of scholarship which the art historian expects, we are grateful to Mr. Pollack for making available a superb corpus of well-reproduced illustrations. If the field of the history of photography is to attract scholars, there must be abundant material available for their study outside the walls of the few museums which have collections. For that purpose, Mr. Pollack’s book is indispensable.”  L’edizione italiana ebbe un’attenta e ampia recensione di Francesco Bolzoni, 1960b, mentre fu molto critica quella di Donzelli 1960, così come il commento, tardivo ma per altri versi interessante, di Turroni 1961. Ancora in occasione della pubblicazione di una nuova edizione ridotta (New York: Harry N. Abrams, 1977) Colombo L. 1979 dichiarava che “la qualità di storico di Peter Pollack non ci ha mai convinto.” Buon ultimo venne Carlo Bertelli, 1993, che avrebbe ricordato il volume di Pollack ma citando il titolo in forma assolutamente fantasiosa (History of Photography from Antiquity to Today [sic]) e fornendo un’errata data di edizione (1961).

[262] “Bien qu’il soit prématuré d’établir dans quelle mesure et par quel choc en retour les idées dominantes introduites par ce groupement aient abouti à la volonté de rupture manifestée surtout par la jeune génération, on peut croire que sa doctrine n’est pas périmée dans tous ses aspects, de même que l’on ne peut nier dans son ensemble la valeur de ses enseignements. Le conflit entre la tendance qui est en voie d’affirmation et celle qui l’a précédé – antagonisme qui nous semble être aussi d’ordre métaphysique, même si cet aspect de la question a été généralement escamoté – ne doit pas nous faire oublier que, sans le lyrisme de Cavalli et de Balocchi, le sens d’abstraction et le graphisme de Veronesi, sans les définitions typiques dans le domaine des valeurs tonales de Leiss et de Vender, la photographie italienne aurait difficilement franchi l’impasse dans laquelle elle se trouvait depuis de très longues années. A l’époque où les réussites de ce groupement commencèrent à s’imposer à l’attention comme sur le terrain des compétitions, peu ou rien ne pouvait lui être opposé.”,  Martinez, Monti 1958.

[263] Rey [1908] 1925.

[264] Zannier 1956c.

[265] Citato in Racanicchi 1958. Segnaliamo qui che questa concezione – si direbbe fondamentale e fondativa – sarebbe rimasta caparbiamente immutata nel tempo se ancora nel 1998 Michele Ghigo, a sua volta Presidente onorario FIAF,  avrebbe parlato di fotografia come “intelligente passatempo” (Russo 2011, p. 274 nota 49). Da quel duro articolo di Racanicchi derivò l’incontro con Pietro Donzelli e la collaborazione del critico torinese con “Popular Photography Italiana”, cfr. Red. 1975.

[266] Turroni 1959, p. 25. L’analisi sarebbe stata confermata da Bezzola 1963, per il quale la fotografia “delle mostre, dei dilettanti evoluti, dei semidilettanti, nel suo complesso rispecchia abbastanza bene la classe da cui esce, vale a dire ciò che gli inglesi chiamano lower middle class, piccola e piccolissima borghesia di città e di provincia.”

[267] Racanicchi 1958, p. 8. La definizione categoriale ebbe immediatamente successo e il termine venne ripreso da Zannier 1958.

[268] Colombo C. 1959b.

[269] Donzelli 1959.

[270] Monti 1959c, p. 47. In una lettera datata Ancona, 23 novembre 1959 Piergiovanni  scriveva  a Monti a proposito della “inutilità (anzi pericolo per il fotografo) di farsi prendere la mano da questa mania delle continue personali. C’è gente che tiene una personale al mese; sempre la stessa insalata condita con lo stesso olio! Stufi dei saloni, non contenti delle troppo numerose mostre che si tengono con ritmo quasi quindicinale, si buttano alle personali con tale affanno che rischiano di coprirsi di ridicolo – Fatico a capirli!”, # Piergiovanni 1959.

[271]  #  Monti 1958. Per la datazione del testo all’ottobre-novembre 1958 cfr. Paoli 2016, p. 34.

[272]  Gilardi 1976, p. 37.

[273] Bezzola 1962.

[274] Turroni 1959, p. 36.

[275] Ancora dieci anni dopo Gilardi sarebbe stato tra i protagonisti del Primo Incontro Nazionale di Fotografia,  organizzato dal CIFe – Centro Informazioni Ferrania, che si tenne a Verbania, dal 31 maggio al 2 giugno 1969 in concomitanza col XXI congresso della FIAF. Nel corso del ‘vivace’ dibattito che si svolse in quell’occasione, specificamente dedicato – ormai fuori tempo massimo – a La funzione del fotoamatore, si consumò l’ennesimo, ulteriore duro scontro tra l’universo FIAF e il fronte dei fotografi ‘impegnati’, orientati verso una nuova concezione della pratica fotografica, fortemente connotata in senso politico. Si vedano Colombo L. 1969; Russo 2011, pp. 261-264; Cavanna 2019.

[276] Steiner 1954, ora in Steiner 1978, pp. 80-81. Certo quel riferimento alla “finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato” evocava irresistibilmente certi lavori di Monti.

[277] Gilardi 1961.

[278] Bezzola 1966. Per una ricognizione delle condizioni generali dell’attività fotografica in Italia si rimanda a Russo 2011 e D’Autilia 2012.

[279] Colombo C. 1959b.

[280] Monti 1966b, curiosamente pubblicato in Valtorta 2008, pp. 96-98, come “dattiloscritto non datato, databile alla metà degli anni Sessanta”. Allo stesso contesto va riferito  Monti 1966a.

[281] Verso la fine degli anni Sessanta avrebbe partecipato come giurato a iniziative in parte diverse, che si provavano a coniugare (anche come occasione di stimolo reciproco) mondo professionale e amatoriale quali Fotografi 1967 a Trento ed Europa 1968, promossa dalla Azienda Autonoma di Turismo di Bergamo, sostenuta da “Camera”, “Popular Photography Italiana”, “Foto Film”, e da “Sovetskoje foto” di Mosca e “Fotografie” di Praga. All’invito risposero 302 fotografi inviando 2.503 opere. La giuria composta da Antonio Arcari, Vaclav Jiru, direttore di  “Fotografie”, Monti, Alla Porter, redattore di “Camera”,  e Piero Racanicchi, scelse 295 fotografie e  assegnò quattro premi, oltre a celebrare Josef Koudelka, a cui venne dedicata la copertina del catalogo (Straznice, 1965, dalla serie Cikàni). Koudelka faceva parte del gruppo di sette fotografi invitati a esporre da “Camera” (10 foto della serie) e fu quella per lungo tempo una delle sue rare occasioni espositive, poiché il suo reportage fotografico sull’invasione russa di Praga dell’agosto precedente lo avrebbe obbligato all’anonimato e poi all’espatrio nel 1970.

[282] “Ad ogni modo le assicuro, egregio dottore, che la parte migliore ed attiva della Gondola è incondizionatamente con Lei, e quindi per questi soci e per il nome della Gondola, La prego calorosamente di aver un po’ di pazienza e di non abbandonarci”, scriveva Gianni Berengo Gardin a Monti, lettera datata Venezia Lido, 22 gennaio 1959, (#  Berengo Gardin 1959).

[283] Lettera di Vittorio Piergiovanni a Monti datata Ancona, 23 novembre 1959 (# Piergiovanni 1959).  Da Ancona Piergiovanni, che era stato socio de La Gondola, teneva le fila coi giovani veneziani ma anche con Parmiani a Bologna.

[284] Lettera di Libero Dell’Agnese a Monti, datata Venezia 7 gennaio 1960 (# Dell’Agnese 1960).

[285] Lettera di Giuseppe Bruno a Monti, datata Mestre 14 01-1960 (# Bruno 1960).

[286] Lettera di Piergiovanni a Monti datata Ancona, 17 gennaio 1960 (# Piergiovanni 1960).

[287] Lettera di Monti a Dell’Agnese, datata Milano, 18 gennaio 1960 (# Monti 1960).

[288] La lettera, datata Pisa, Museo Nazionale, Istituto di Storia dell’Arte, 15 novembre 1959 (# Ragghianti 1959), riprendeva i contenuti dell’appello pubblico rivolto da Ragghianti ad artisti italiani e stranieri da cui scaturirono le collezioni oggi conservate al Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa. A quanto consta questo progetto innovativo, specie per il contesto italiano, non ebbe l’esito sperato per quel che riguardava l’ambito fotografico, e si dovette attendere  il 1973 per assistere alla nascita, a Parma, del “Museo della Fotografia”, poi Centro Studi e Museo della Fotografia, quindi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, voluto da Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università con un’impostazione sostanzialmente distante da quella espressa da Ragghianti, sebbene simili fossero gli intenti di valorizzazione e tutela. Come ricordava Quintavalle 1978, “Quando, una decina di anni orsono, occupandoci di fotografia, cominciammo a raccogliere presso l’Università di Parma decine di migliaia di immagini, non avevamo ancora chiara l’idea dei modelli da impiegare, ma, certamente, avevamo quella che si doveva uscire dal gioco delle personalità e quindi della fotografia intesa come ‘arte’, uno strumento interpretativo ormai usurato e quindi da negare per le palesi implicazioni idealistiche.”

[289] #  Ragghianti 1959.

[290] Lettera  di Roiter a Monti, datata 14 dicembre [1959] (# Roiter 1959).

[291] Monti 1960. La mostra pisana era stata preceduta da analoghe iniziative a Padova (gennaio) e Venezia (febbraio-marzo): chiari segni di una volontà di storicizzazione che marcava la chiusura di un ciclo.

[292] Dalla corrispondenza intercorsa risulta che Monti propose per la pubblicazione anche alcune sue foto più sperimentali, ma Finazzi gli rispose che prevedeva “difficoltà per le fotografie astratte da parte del [suo] Consigliere Delegato” e che non sapeva neppure come avrebbe preso “le fotografie dell’arch. Grignani (…), quelle di Veronesi e di Migliori.”, citato in  in Morello 2003a, pp. 186-187).

[293]  Lettera di Finazzi a Camisa datata Bergamo 7 aprile 1959, in Morello 2003a, p. 189.

[294] Lettera di Camisa a Finazzi datata Milano 16 aprile 1959, in Morello 2003a, pp. 190-191. Anni dopo Camisa ne diede una versione in parte differente: “A compenso di tutto l’impegno profuso io chiesi (…) le bozze del progetto, affinché potessi magari trovare qualcun altro interessato alla pubblicazione. Parlando con Turroni lui si dichiarò disponibile a rifare il testo e sottopose il tutto a Schwarz al quale l’idea piacque molto.”, in Busoni Thompson 2007, p. 22.

[295] Turroni 1959. Mentre Bezzola 1960a recensendo il volume su “Ferrania” lo aveva giudicato “eccellente panorama delle tendenze attuali”, Cavalli 1961 rilevava che “fra le opere esteticamente valide ne mancano diverse importanti che era opportuno includere in una rassegna completa”, ma – soprattutto – contestava l’approccio critico di  Turroni, che  passava “da un ordine estetico di considerazioni e relativi giudizi (Bello + Brutto) ad un ordine, in modo precipuo, morale (Buono + Cattivo); e dico morale nell’accezione completa del vocabolo, ossia intendendo anche Utile – Inutile, Sociale – Non sociale etc.: tutte qualificazioni e distinzioni che, come lei sa, sono pertinenti alla morale. Eccoci dunque al punto su cui è necessario mettere i concetti bene in chiaro; non si mettono, sono convinto, in chiaro abbastanza. Il critico d’arte ha per definizione il compito di giudicare ESCLUSIVAMENTE se in una determinata opera c’è arte oppure non c’è.”, corsivi nel testo.

[296] Il progetto originario, più contenuto, prevedeva anche una sezione a colori mentre nel nuovo volume erano comprese ben 220 fotografie, ma tutte in bianco e nero.

[297] Va ricordato che il volume non venne neppure registrato tra i “libri ricevuti” di cui dava conto la rivista “Ferrania”.

[298]  Turroni 1959, p. 30 passim.

[299] Turroni 1957b illustrato significativamente (quasi solo) da foto di muri e manifesti strappati.  Il paragrafo che gli dedicò in Nuova fotografia italiana (Turroni 1959, pp. 47-51) derivava certo da questo scritto precedente, ma sottoposto a una specie di revisione divulgativa e più specificamente ricca di rimandi alla scena fotografica di quegli anni, come del resto richiedeva la sede di pubblicazione.

[300]  Turroni 1959, t. 166; Cavanna, Paoli 2016 p. 51.

[301] Turroni 1959, p. 47.

[302] Arcari 1983, p. 5. Non è solo la presenza materiale delle stampe conservate in archivio a smentire Turroni e Arcari, ma la precisa competenza dimostrata da Monti nello spiegare le tecniche di stampa da utilizzarsi in quei casi: “Con il riscaldamento di carte e rivelatori – precisava – i risultati variano notevolmente: il calore influisce molto sui processi di ossidazione, si potrebbe ricordare che qualcosa di simile accade quando si opera con la tecnica dei toni alti. Per questi ultimi, infatti, si ottengono i migliori risultati quando, completata l’esposizione sotto l’ingranditore, si sviluppa la stampa e, prima di procedere al fissaggio, la si immerge – anche per un quarto d’ora o più – in un bagno di acqua calda a circa 40° c. L’alta temperatura agisce sulla piccola quantità di rivelatore rimasta nell’emulsione e ciò si traduce in un aumento notevole della leggibilità dei dettagli delle zone high key, in tono alto. Per interventi con l’impiego del calore non si deve però dimenticare che spesso sensibili variazioni si ottengono semplicemente sfregando ripetutamente la copia con le dita, alitando su di essa e così via: interventi dunque che possono essere anche ben localizzati.”, in  Capobussi 1975.

[303] Tutte le citazioni  che seguono sono tratte dal Diario lavoro Sandoz (#  Monti 1959) che il fotografo tenne  dal 31 maggio al 16 settembre 1959.  Dopo le collaborazioni per le Biennali veneziane e nell’ambito di “Camera”, Martinez e Monti erano stati incaricati dalla Kodak di curare a Parigi una mostra di dodici fotografi italiani, con opere a colori. Gli autori, oltre a Monti, erano: Berengo Gardin, Branzi, Bruno, Camisa, De Biasi, Donzelli, Giacomelli, Migliori, Novaro, Parmiani e Roiter. L’iniziativa, già prevista per maggio 1959, venne  poi spostata a ottobre; cfr. Morello 2003a, pp. 188, 206.  La collaborazione tra Bühler e Martinez risaliva invece  ai tempi della  rivista svizzera “Monsieur” (1951), curata da Martinez.

[304] La Sandoz, dal 1996 Novartis per fusione con  Ciba-Geigy, era attiva nella produzione di coloranti ma anche in campo farmaceutico, nonché produttrice dell’acido lisergico (LSD), i cui effetti psicogeni vennero scoperti nel 1943 da Arthur Stoll e Albert Hofmann proprio nei suoi laboratori, dove questa ammide era stata sintetizzata pochi anni prima (1938).

[305] Schenk 1954, ancora presente nella biblioteca Monti, era stato a sua volta prodotto in collaborazione con un’altra industria chimica, la Böhme Fettchemie di Düsseldorf.  Ventotto fotografie di Schenk erano state esposte alla quarta edizione di Diogenes with a Camera (3- aprile – 3 giugno 1956) al MoMA, ancora sotto la direzione Steichen, che sottolineava come dalle tensioni provocate in una goccia d’acqua nascessero “Forms, patterns, shapes which leap and dance (…) Unsuspected rhythms are brought into being.”, citato in  # MoMA 1956.

[306] Si veda György Kepes 1978, pp.n.n.

[307] Botar 2010. Monti possedeva la ristampa del 1961 del volume derivato da quella mostra: Kepes [1956] 1961.

[308] Corsivo dell’autore. Ricordo che già nelle sue prime Intenzioni fotografiche (#  Monti 1948), aveva indicato la possibilità di “fotografare acque, correnti o cascate, con istantanee lente”.

[309] Dal testo di presentazione della sua mostra a Padova, Galleria Spazio Visivo, 30 giugno-15 luglio 1982, citato in Arcari 1983, pp. 7-8, che riprendeva – rielaborandolo in parte  – Monti 1981b. Alcune delle fotografie realizzate nei laboratori Sandoz ebbero poi utilizzazioni diverse: la copertina di un fascicolo pubblicitario per Nora International, 1962, la già citata tav. 073; la copertina del long playing Pathé-Marconi (Plaisir Musical – FCX30207) dedicato a Sheherazade di Rimsky-Korsakov diretta da Issay Dobrowen (1962,  tav. 074),  una illustrazione a corredo di Mascioni 1967, alla quale fanno riferimento alcuni documenti conservati in AM-FA, S.6, Fatture di vendita: Monti aveva lasciato in visione alla Fratelli Fabbri Editori 22 foto a colori e 8 in b/n  e  l’Ufficio Autorizzazioni Fotografiche, in data 21 novembre 1969, gli comunicava di aver scelto “la foto a colori riportante la seguente didascalia: fotografia pubblicitaria per una società di coloranti (colori versati)”. L’originale venne poi rispedito a Monti, con le altre fotografie non utilizzate.

[310] Alcuni esempi di quella produzione vennero utilizzati per le copertine dell’omonimo  periodico aziendale. Dicembre 1957: Luigi Veronesi; agosto 1959: Elio Luxardo; agosto 1960: Eugenio Petraroli;  dicembre 1961: Nino Migliori; aprile 1962: Arno Hammacher; maggio 1962: Alfredo Pratelli.

[311] Monti 1963a.

[312] Un’ampia selezione degli esiti di quel lavoro è consultabile all’indirizzo       http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+sandoz.

[313] Monti, in Dal Bo [1981] 1997]. Gli aspetti tecnici di quelle riprese vennero illustrati da Monti, cfr.  Capobussi 1975. Da questo universo di sperimentazioni cromatiche erano evidentemente escluse alcune convenzionalissime composizioni naturalistiche pubblicate su “Ferrania” nel 1967, quali Sottobosco,  “Ferrania”, 21 (1967), n.7, p. 20, e Contrasti, “Ferrania”, 21 (1967), n.11, p. 17.

[314]  Segnalo almeno Pinney 1962 e diversi numeri di “PMI Photo Methods for industry”, l’importante repertorio pubblicato a New York dal 1958.

[315] A quella casa editrice, che aveva pubblicato con notevole successo Ombrie: Terre de Saint-François di Roiter, avrebbero guardato con attenzione non disinteressata anche Branzi e Camisa, che in quello stesso anno proposero all’editore svizzero un volume dedicato a Firenze, ma senza successo, cfr. Morello 2003a, p. 24.

[316] Di quel volume, per nulla apprezzato da Turroni, Monti aveva realizzato anche alcune riproduzioni, verosimilmente a scopo didattico (http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=paolo+monti++2523L029A-36a). Attualmente la sua biblioteca conserva solo Roy, Strand 1952 e il secondo volume dell’antologica Paul Strand 1971.

[317] Steinert 1952;  Steinert 1955;  Otto Steinert 1959.

[318] Hayek-Halke 1955; Kepes [1944] 1959; Brassaï 1961.

[319] Monti 1967d.

[320] Cfr. Cavanna, Paoli 2016 cat. 20, 24.

[321] Turroni 1957b. Turroni 1959, p.15, ne indicava esplicitamente il titolo come Isole della laguna, che corrisponde però a quello del  lavoro  di Luciano Emmer ed Enrico Gras del 1948, che vinse il Nastro d’argento come miglior documentario nel 1949.

[322] Turroni 1957a.

[323] Turroni 1959, pp. 48-49.

[324] Più esplicito l’interesse  per le “immagini di graffiti presentate come esempi di “poesia trovata”(Russo 2011, p. 382 nota 31)  nel primo libro di  Franco Vaccari,  1966.

[325] Chiaramonte 1993, t. 96. Questa fotografia, insieme alle Astrazioni involontarie e Muro a Milano (ivi, t.41) corredava Turroni 1957b.

[326] Sebbene sia consuetudine pubblicarla in verticale (Zanzi 2012, p. 51; Cavanna, Paoli 2016, t. 126 ), per corrispondere al titolo e quindi alle intenzioni di Monti la stampa è da leggersi ribaltata in orizzontale di 90° a sinistra, come ben si vede nella ripresa che documenta la sua mostra alla Libreria San Babila di Milano nel 1958, in Paoli 2016, p. 29.

[327] Monti 1959c, p. 42.

[328] Le fotografie di Siskind vennero pubblicate anche in Pollack 1959,  pp. 466-477; per Lucien Hervé si veda Hervé 1962.

[329] Evans 1958.

[330] Quintavalle 1977, p. 25, poi ampiamente ripreso in Quintavalle 1993,  pp. 90-99; si veda anche Paoli 2012, p. 278. Ricordo qui che lo stesso Migliori, secondo quanto indicava la sintetica scheda biografica pubblicata in Red. 1961a, “tra i fotografi italiani [riteneva] suo maestro Paolo Monti”, ma resta ancora da condurre in modo storiograficamente accorto la verifica di quel rapporto.

[331] In Morello 2003a, p.252; Camisa si dimostrava aggiornatissimo: il volume di Brassaï sarebbe uscito in Germania solo nel 1960, ma c’erano già state una mostra al MoMA nel 1957 e una a Londra dal 25 settembre al 25 ottobre 1958 all’Institute of Contemporary Arts: Language of the wall: Parisian graffiti / photographed by Brassaï.

[332] Zannier 2004.

[333] Testimonianza raccolta in Manfroi 2005b.

[334] Legno e bianco I, 1956; Combustione legno, 1957;  Legno Sp, 1958.

[335] Cfr. Chiaramonte 1993, t. 117 e Morello 2010, t. 48, più chiara nei toni e con una datazione al 1954; per altre immagini della serie si veda Valtorta 1985, p. 62.

[336] Un piccolo cenno a parte merita una fotografia che mostra in ripresa ravvicinata un Peperone sezionato (tav. 090), ricavata per stampa parziale di un negativo 10×12 (tav. 091), realizzata nel 1963 nell’ambito del progetto di comunicazione pubblicitaria per il primo magazzino “a libero servizio” a Reggio Emilia, COOP 1 firmato dallo studio LAS (Lica e Albe Steiner), che – certo – guardava ai modelli inarrivabili di Weston (Halved Cabbage, Red Gabbage Halved, entrambe del 1930) qui interpretati con una vena che diremmo ‘padana’, tra surreale e grottesca, che è raro trovare in Monti. In Zanzi 2012, p. 215 la stampa è pubblicata con datazione errata al 1956.

[337] Turroni 1957b.

[338] Turroni 1959, p. 50. Un riferimento possibile, e forse condivisibile, poteva essere il lavoro critico di estetizzazione esplicitato da Kepes nel curare la mostra (e il volume) dedicato ai ‘new landscapes’ offerti dalla fotografia scientifica, mantenendo però ben distinti gli ambiti, cfr. Botar 2010.

[339] Eco 1961.

[340] Marchiori 1960.

[341] Marra, Revisione dell’Informale, in Marra 1999,  pp. 127-134.

[342] “La natura è profondamente e amorosamente angosciata, e quasi medianicamente intuita”, scriveva Francesco Arcangeli nel 1954 riferendosi al gruppo degli ‘informali’ padani da lui identificati come gli “Ultimi naturalisti”, cfr. Rovati 1999.

[343] Tav. 092, che appartiene alla stessa sessione di ripresa di Manifesto strappato; la foto è stata riproposta in Chiaramonte 1993, fig.116 ma ribaltata verticalmente, con titolo errato (Manifesto strappato) e una datazione al 1955 che non corrisponde a quella della variante di stampa pubblicata a fig. 95  (1956) dello stesso volume. Ricordiamo che un’altra Astrazione involontaria, era stata realizzata da Monti nel 1950 ca (tav. 026).

[344] “moralité intrinsèque du geste de l’artiste (…) plus encore que l’émergence, dans l’affiche lacéré, de formes nouvelles directement issues du réel sociologique capables de ce fait de transformer radicalement notre vision de cet univers qui nous entoure (…); plus encore en un mot que cette recharge effective et poétique du réel, Rotella nous transmet un message de culture, d’humanité et d’espoir.”, Restany  1962.

[345] Zannelli, 2016, p. 81. La pervasività di questo soggetto come ambito di ricerca espressiva in quell’arco di anni (e limitandoci alla scena italiana) credo debba ancora essere studiata in modo approfondito, ma ricordo che anche Arno Hammacher, appena arrivato  a Milano, tra il 1956 e il 1961, rivolgeva il suo sguardo sui muri della città coperti da cartelloni pubblicitari, scritte e insegne, sebbene con una impostazione pianamente descrittiva.

[346] Tra le poche eccezioni Manifesto strappato e albero, 1960-1961 (tav. 095), Manifesti strappati, 1960 ca (tav. 096) e la fotografia utilizzata per la copertina di “Camera”, 36 (1957), n. 6, giugno.

[347] Monti 1967a. Già nell’intervista a Burguet 1963, p. 32, aveva detto, “Que nous le voulions ou non, nous appartenons tous à notre temps et je suis sûr que, sans l’expérience abstraite, je ne serais jamais parvenu à certaines recherches photographiques. Actuellement, après la leçon donnée par l’art, le «non-figuratif», nous regarde sur les murs des villes où les affiches arrachées nous émeuvent comme des Pollock, des Klein, des Soulages. Je  collectionne les photos d’affiches et de placards publicitaires, comme des formes ‘abstraites ‘ diverses de la nature, et je dis ‘abstraites’ par analogie formelle (ou plutôt informelle).”

[348] Eco 1961.

[349]  “art is a frequent source of such novel interests. Contemporary artists such as Rauschenberg have become fascinated by the patterns and textures of decaying walls with their torn posters and patches of damp. Though I happen to dislike Rauschenberg, I notice to my chagrin that I cannot help being aware of such sights in a different way since seeing his paintings. Perhaps if I had disliked his exhibition less, the memory would have faded more quickly. For emotional involvement, positive or even negative, certainly favours retention and recognition.”,  Gombrich [1965] 1982, p. 31.

[350]  Argan 1970, p. 372, che a proposito dei “cartelli pubblicitari strappati” di Mimmo Rotella e Raymond Hains, parlava di “processo di décollage che si contrappone alla costruttività implicita del collage cubista. È ovvio il senso di reportage urbano: i cartelli pubblicitari sono un aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino; e come effimeri e scaduti vengono dati, infatti, con trasparente allusione al rapido mutare del volto della città. Anche qui si hanno i due momenti: appropriazione e distruzione.”

[351] Cfr. Milano, in De Seta 1979, p. 47.

[352] La datazione è fornita da Turroni 1959, t. 166. La fotografia venne poi  pubblicata in “Popular Photography Italiana” (C.C. 1965), in apertura di un articolo dal significativo titolo di L’obiettivo drogato.

[353] Pubblicata anche in Pollack 1959, p. 462.

[354] Cfr. supra NOTA 111.

[355] Piume solarizzate, 1951, tavv. 100, 101; Piuma e semi solarizzati, 1951, tav. 102, mentre la più precoce  Composizione in soffitta, 1947-1949, tav. 060, venne utilizzata come copertina di “Domus”, n. 332, luglio 1957, tav. 061,  sottoponendola  al trattamento  che Mario Finazzi chiamava “Hot Line”, basato sull’applicazione controllata del cosiddetto “effetto Herschel”.

[356] Ricordiamo, a titolo di esempio, Legno, (stampa in negativo), 1953-1954, tav. 103. Allo stesso decennio, e in particolare al 1958-1959 risalivano le più sistematiche ricerche sul colore, mentre i chimigrammi appartengono al decennio successivo.

[357] Monti 1955a.

[358] Monti 1964a, che richiamava sin dal titolo Arcari 1963, che a sua volta notava – proprio in apertura – che “parlare di fotografia astratta può sembrare a tutta prima una sorta di contraddizione in termini.”

[359]  “Faire concurrence à l’état civil des choses, faire concurrence à la réalité, tout en s’y soumettant mais en rivalisant avec elle, c’est un des plus beaux privilèges de la photographie.”, Monti 1960, mentre  Arcari 1963, dopo aver  tracciato una linea genetica che originando dalla Bauhaus giungeva a Weston, indicava come determinanti per Monti, “le componenti vitali di un rinnovato realismo”. Per il rimando balzachiano si veda  Smaniotto 2020.

[360] Orsi, 1956; il contributo costituiva la recensione di Hajek-Halke 1955, che Monti possedeva, e offriva l’occasione a Orsi, a sua volta autore di interessanti luminogrammi (cfr. Madesani 2008), di sintetizzare una breve ‘storia’ di questa pratica, riservando una citazione anche per Luigi Veronesi, ma non per il nostro.

[361] Pellegrini 1955.

[362] Donzelli 2006, p. 207.

[363] # Chronology 1964, cfr. supra NOTA 198.

[364] Etienne 1952.

[365] Si veda Dolzani 2008.

[366] “l’abstrait esthétique de l’image abstraite fonctionnelle, en d’autres mots: faire la distinction entre ce qui procède de l’expression et ce qui est le résultat d’une investigation”, Monti 1964a.

[367] Burguet, 1963; gli autori coinvolti furono Bill Brandt, Denis Brihat, Lucien Clergue, Pierre Cordier, Julien Coulommier, Antoine Dries, Henriette Grindat, Livinus [Van de Bundt], Monti e Jean-Pierre Sudre mentre ad Otto Steinert venne chiesto un autonomo contributo testuale, pubblicato accanto a quelli di Hubert Damisch, Umberto Eco e Paul Valery tra gli altri.

[368] Crispolti 1986, p. 37.

[369] Penso ad esempio alle radicali differenze concettuali e processuali rispetto a esiti ancora connotati da una certa figuratività,  come in Peter Keetman o Arrigo Orsi, che producevano volumi virtuali di luce per generazione geometrica di tradizione Bauhaus.  Questo tipo di lavori, realizzati in studio, va poi distinto dalla più vasta produzione di fotografie notturne a lunga posa di luci e di riflessi vari, testimoniate da una grande e variegata produzione che data a partire almeno dai viaggi americani di Fritz Lang e Eric Mendelsohn negli anni ’20 (Wollner 2012), che ricadono invece nella categorie di quelle immagini ‘astratte’ dal reale di cui prima si è detto.

[370] Foglie e macchie di sole, 1959 (tav. 054); Composizione fotografica, 1957-1961 (tav. 053), ma già il numero di dicembre  1954 di “Domus” aveva in copertina una Composizione di foglie e neve. (tav. 059),   cfr. NOTA 103.

 

[371] “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica”, scriveva nel  dicembre 1910; cfr. Klee 1990, p. 181.

 

[372] Lettera di Monti a Martinez datata Milano 26 luglio 1956, conservata alla Bibliothèque Roméo Martinez della Maison Européenne de la Photographie  di Parigi.  Cfr. NOTA XX (66)

[373] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[374] Pubblicata in Zanzi 2012, p. 167 come Muro a Treviso, 1949.

[375] Anche Arcari 1980, p. 157, pubblicò uno dei nudi di Monti in una doppia pagina che conteneva immagini di Weston, Steinert, Clergue e Hajek-Halke, ma senza particolari commenti. I volumi conservati nella biblioteca del fotografo testimoniano invece un interesse non marginale per il tema, concentrato specie negli anni Sessanta. Se escludiamo Perspectives of nudes di Bill Brandt, di cui possedeva l’edizione francese del 1961, gli altri autori presenti appartenevano però ad un universo di gusto apparentemente lontanissimo dai suoi modi espressivi: da Sam Haskins, Five Girls, 1962 e Cowboy Kate, 1965 a Wingate Paine, Memory of Venus, 1966 e Ica Vilander, La femme vue par une femme, 1967. Allo stesso genere rimandavano anche le due antologie Meister der erotischen Fotografie: Paare. München: Wilhelm Heyne Verlag, 1971 e Bill Jay, Views on Nudes. London: Focal Press, 1971, che potrebbero aver influito su alcune prove a colori, certo tra le sue meno riuscite (tavv. 107, 108).

[376] “The back and left arm of figure in the print, Nudo, are softly focused, and the skin texture is minimized. When this photograph is first seen, it appears to be an abstract composition, but after closer study, the form of the figure emerges.”, Three European Photographers 1965. L’iniziativa doveva essere stata di Peter Pollack, allora consulente del museo, ma i contatti vennero presi nel 1964 da Stephen Jareckie, allora “Associate in Photography”, che aveva invitato Monti  a partecipare alla collettiva, prevista per la  primavera del 1965 e – se interessato –  a inviare quindici stampe tra le quali ne sarebbero state selezionate dieci per la mostra, che avrebbe perciò presentato un totale di 30 fotografie (# Jareckie 1964). Alla fine dell’esposizione il Museo si impegnava ad acquistare tutte le stampe esposte, che sarebbero così entrate a far parte della più antica collezione fotografica museale statunitense. Le stampe prescelte furono  Inverno n.1, Tronco corroso, Still life, Cinderella, Silvia Tofanelli, Gianni Dova, Venezia, La Barca dei Morti, Two Pelicans e Nudo (nn. 21-30 del catalogo) tutte non datate, al contrario di quelle presentate dagli altri autori. Attualmente sul sito del museo (http://www.worcesterart.org/collection/ ) sono indicate come presenti in collezione solo:  Still Life, 1950;  Silvia Tofanelli, 1955, Inverno No. 1, 1959 e Nudo, 1961 (Inv. 1965.389-390; 1965. 403.404).

[377] Ceccato 1967. Le pagine interne ospitavano altre fotografie di Monti: tre dettagli di un pugno maschile chiuso che sembrano avere qualche debito con Autoportrait,  1951 di Denis Brihat  (ora nelle collezioni del Centre Pompidou di Parigi, inv. n. AM 1981-672), pubblicato in copertina del già citato numero di “Art d’aujourd’hui” dell’ ottobre 1952 (Etienne 1952),  tuttora presente nel suo fondo librario. Le foto di Monti vennero ripubblicate  in “Roto C” nel 1971, a corredo di un redazionale dedicato all’aggressività e quindi riprese in Ansia e aggressività 1971.

[378] Alcune di quelle riprese si inserivano come momenti particolari del lungo rapporto sentimentale di Monti con Mina Opizzi, dalla quale proveniva anche la raccolta di stampe acquisita da La Gondola nel 1998, in parte esposte nel dicembre del 2004 allo Spazio Antonino Paraggi a Treviso col titolo Paolo Monti: Col cuore, con l’anima, con la ragione. Ritratti 1947-1955, cfr. Manfroi 2004.

[379] Cavanna, Paoli 2016 t. 120.

[380] Berghmans 2011.

[381] Una delle composizioni per proiezione a luce polarizzata di Munari, presentate in anteprima proprio a Milano, cfr. Munari 1961, venne utilizzata per la copertina dell’Almanacco Letterario Bompiani 1959 (Bompiani, Zavattini 1958) che a sua volta conteneva molte fotografie di Monti, comprese sia nel Vocabolarietto dell’Italiano (Femminismo, Pace, Pubblicità, Vecchiaia) sia nella serie di ritratti di artisti e letterati (Campigli, Capogrossi, Cardarelli, Cassinari, Carlo Levi, Marini, Moravia).

[382] Dalla stampa al carbone, oggi nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York (Accession Number 33.43.50), venne tratta la matrice per la duogravure poi pubblicata in “Camera Work” 10 (1913) , n.42-43, aprile-luglio t. XIV.

[383] Morello 2010, p. 72.

[384] Alcuni chimigrammi erano stati pubblicati nel 1965 in “Imago”, periodico tanto raffinato quanto di ridottissima circolazione, cfr. Arcari 1965; Camuffo 2021 e infra nel testo.

[385] Ricordava Lanfranco Colombo 2010, p. 107, che attraverso Roberto Mutti aveva potuto riavere “il libro delle firme dei visitatori” di quella memorabile mostra.

[386] Monti 1967c.

[387] Monti 1967d.

[388] La citazione esatta recita: “anche lo sfruttamento del Caso ha una sua fisionomia di genuino atto formativo”, Eco 1961.

[389] Flusser 1987.

[390] “Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé”, scriveva Ugo Mulas, Le verifiche 1971-1972, in  Mulas 1973, p.145. In questo senso è significativo anche il confronto  tra la gestualità fenomenologica dei chimigrammi di Monti e la concettualità analitica di “un’operazione priva di ogni emozione e di una estrema secchezza e chiarezza”, quale la Verifica n.5 di Mulas, dedicata a Herschel.

[391]  “on puisse faire de la photographie qui serait uniquement de laboratoire, sans objets ni matières (…)? En ce cas, quelle différence verriez-vous entre la photographie et la peinture ?  (…)  il faut dire  qu’il est malgré tout possible de créer des images de laboratoire que l’on pourrait qualifier d’abstraites en n’utilisant que la lumière, le papier sensible et les agents chimiques, sans intervention  optique ou mécanique. Ces images sont ‘uniques’ au même titre qu’un tableau et elles ressemblent à de la peinture, mais ce ne sont pas des ‘photographies’. Ce sont des résultats graphiques obtenus à l’aide du matériel photographique et leur valeur artistique dépend des capacités de l’auteur. (…) photogramme [qui] est la simplification extrême du processus optico-chimique qui donne naissance à l’image photographique. Dans le photogramme, en effet, on élimine l’intervention de l’appareil-photo et dans les photogrammes par contact, on supprime également l’objectif de l’agrandisseur. (…) Mais il existe encore une ultime possibilité de créer des images,  qu’on peut qualifier, du moins étymologiquement, de photographiques en opérant seulement à l’aide de la chimie sur le papier sensible. (…) Naturellement, on ne peut pas reproduire ces images : ce sont des monotypes exécutés selon une technique photographique.”, in Burguet 1963.

[392] Ivi,  p. 27.

[393] Argan 1977.

[394] Bense 1965. Per Jäger 2005, p. 15, “The photographic means thus become the object of photography, and the medium itself the object. (…) Its works are pure photography: not abstractions of the real world, but rather concretions of the pictorial possibilities contained within photography.” Contrariamente a quanto ritiene Jäger (ibidem), e nonostante l’analogia terminologica,  la fotografia concreta non ha concettualmente nulla a che vedere con la musica concreta così come è stata definita da Pierre Schaeffer e Pierre Henry, né tantomeno con le diverse declinazioni artistiche del Novecento da Van Doesburg a Dorfles.

[395] Arcari 1965.

[396] Monti 1965, tratto dall’intervista pubblicata in Burguet 1963.

[397] Forse non sgradita a Monti in questo caso, se poniamo mente a ciò che rispose alla più volte citata intervista di Burguet 1963, pp. 32-33: “In tutta sincerità credo che molti, e io in particolare, dovrebbero ammettere che sono diventati fotografi per necessità di esprimersi e per incapacità di farlo diversamente.” Anche Dorfles 1967 cadeva nell’equivoco pittorico “ammettendo (…) che la fotografia possa atteggiarsi a pittura, possa eventualmente prescindere dallo stesso apparecchio fotografico, essere cioè solo fotogramma creato dalla pellicola o dalla carta sensibilizzata esposta allo stimolo luminoso; e possa, allora, diventare uno qualsiasi dei tanti «materiali da costruzione» della pittura d’oggi (al pari d’un collage, d’un décollage, d’un brandello di stoffa, di sacco, di giornale).” Considerazione analoghe erano già state espresse in Dorfles 1958, a proposito di Grignani.

[398] Turroni 1958. Considerazioni non dissimili, anzi ancora più ingenue, erano moneta corrente in quegli anni  in cui si riteneva che “l’astrattismo non è da capire ma da sentire. (…) E nell’astratto assoluto bisognerebbe piuttosto, in mancanza di un sentimento profondo, possedere una fantasia agilissima e un rigore formale, un dominio del mezzo tecnico non meno assoluti.”, Gentili 1963.

[399] Cfr. Capobussi 1975.

[400] L’opera di Hartung era ben nota in Italia;  ricordiamo inoltre che Monti ebbe occasione di fotografarlo nel suo studio parigino nel 1959 in compagnia di Giuseppe Marchiori (Marchiori 1961). Nessuna relazione può invece essere riconosciuta tra le astrazioni di Monti e la ricerca fotografica di “pureté abstraite” dell’artista, per la quale si rimanda a Hartung 1974; Damez 2003.

[401] Capobussi 1975.

[402] Alcuni chimigrammi e altre elaborazioni fotografiche vennero pubblicati da Colombo A. 1975, consultato in estratto. La pubblicazione doveva essere in relazione con la  mostra alla Galleria 291 di Daniela Palazzoli nel giugno-luglio dello stesso anno, dove vennero esposti cinquanta chimigrammi, datati 1960-1965. Come si ricava dal  comunicato stampa, nella serata del 6 giugno Monti proiettò “due sequenze di sue fotografie astratte e Gillo Dorfles parlò degli sviluppi della fotografia astratta e sperimentale degli anni ’50 e ‘60”.

[403] A partire dalla necessaria distinzione critica tra i diversi procedimenti andrebbero poi storicamente verificati i debiti con un gruppo di autori cechi come Frantisek Povolny, Josef Istler, Miroslav Hak (che produsse anche una serie di fotografie di manifesti strappati) e Milos Korecek, tutti autori di notevoli chimigrammi intorno agli anni Trenta, ma anche con le ricerche materiche, condotte però su pellicola e quindi stampate (e non è differenza da poco) da  Chargesheimer negli anni ’50, cfr. Holzinger 1990, così come con  i lavori Henry Holmes Smith, già collaboratore di Laszlo Moholy-Nagy al New Bauhaus di Chicago, connotati però da titoli evocativi come Giant o Mother and Son, cfr. Eisinger 1994.

[404] Sinisgalli 1957; la precedente esposizione era stata presentata da Corrado Cagli sotto il titolo di Fotografie astratte di De Antonis, cfr. Schiaffini 2017.

[405] La figura di Genovesi è sempre ricordata solo in relazione alle vicende di “Diorama”, cfr. Brandani 2013,  mentre  resta ancora da conoscere, e da considerare appropriatamente, la sua produzione di fotografo e grafico. In particolare è totalmente sconosciuta – almeno a chi scrive – la sua produzione ritrattistica, “che ha un valore deciso e insieme dimesso e penetra nei tessuti limpidi di un sentire realistico che cominciava a scuotere, intorno al 1950, le coscienze estetiche.”, Turroni 1959, p. 52.

[406] Ibidem.

[407] Chargesheimer 1950; si veda anche Gewehr, 1951,  in cui si illustrava l’uso didattico della tecnica del fotogramma nell’ambito della scuola “Bi-Kla” (Studio für Bild und Klang) di Düsseldorf con opere di Chargesheimer e dei suoi allievi.

[408] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Erano antecedenti le Ossidazioni di Nino Migliori, “un altro esempio di sperimentazione sui materiali: carte, pellicole, lastre fotografiche.”, cfr. Paoli 2012. Resta ancora da approfondire criticamente, né questa è l’occasione per farlo , la scena delle ricerche off-camera in Italia nel secondo dopoguerra.

[409] Carluccio 1981 aveva notato inoltre che  “I chimigrammi sono (…) delle immagini che affiorano dallo spazio misterioso del l’inedito.”

[410] Paolo Monti 1985, p. 11.

[411] Morello 2010, pp.500-502.

[412] Ibidem.

[413] Lettera di Monti a Ferroni, datata 28 novembre 1954, in Morello 2010, p. 109.

[414] # Coop. Il Libro Fotografico 1970. La cooperativa, nata per iniziativa di Antonio Arcari, Cesare Colombo e altri (cfr. Zannelli 2010), si era costituita a Bergamo il 14 aprile 1966 e venne posta in liquidazione il 30 giugno 1971 (cfr. Ministero 2004). Lo scopo statutario era di “pubblicare libri che rispondano a certe esigenze di ordine ‘ideologico’, non nel senso politico certamente, ma nel senso di un nostro particolare modo di intendere la fotografia”(# Coop. Il Libro Fotografico 1966). Accanto alla pubblicazione di volumi storico fotografici era prevista una “attività marginale, di minor impegno economico, ma di più precisi interessi culturali (…) rivolta all’attuazione di due ‘quaderni’ di 60-80 pagine che trattino problemi di storia e di cultura fotografiche, soprattutto nelle sue relazioni con il mondo della pittura e della grafica” (# Coop. Il Libro Fotografico 1965-1966). In tale contesto va collocata l’ipotesi poi non realizzata di dedicare un titolo a Paolo Monti.

[415] Cfr. in  Turroni 1959, Lo scultore Marino Marini, t. 147; Lo scultore Milani, 1957, t. 153; Il pittore Gianni Dova, 1953, t. 154;  Il pittore Bruno Cassinari, t. 158; Moravia, t. 162.

[416] L’architetto aveva progettato la sistemazione delle due successive sedi della galleria veneziana e fu sempre Carlo Cardazzo a commissionargli il progetto per il Padiglione del Libro ai Giardini della Biennale nel 1950.

[417] https://it.wikipedia.org/wiki/Galleria_del_Cavallino  (17/03/2022).

[418] Monti 1955d, poi ripreso in Monti 1955c; Panorama 1956; Monti 1957c.

[419] Monti, in Basaldella 1975. Una buona esemplificazione di quell’atteggiamento si riscontra nella serie di ritratti ‘casalinghi’ del cognato Carlo Coquio (tavv. 069, 131).

[420] Dopo la prima edizione del 1951 quella chiamata costituiva un blasone per i partecipanti, specie italiani: La Bussola al completo;  Spadoni  del Circolo Fotografico Milanese; Gioia, Orsi, Donzelli e Clari per l’Unione Fotografica.  Per Morello 2010, p. 108-109, fu quella  l’occasione della “consacrazione ufficiale” della “scoperta del nero”  e dell’esteso utilizzo del mosso da parte della fotografia europea.

[421] Lettera di Monti a Ferroni, datata 28 novembre 1954, citata in Morello 2010, p. 109. Per i ritratti di Steinert cfr. Eskildsen 2000, pp. 131-165.

[422] Lettere di Monti a Ferroni rispettivamente del 2 marzo 1955 e del 12 gennaio 1956, in Morello 2010, pp. 109-110.

[423]  Cavanna, Paoli 2016, t. 68. Monti avrebbe poi fornito gran parte dell’apparato fotografico della monografia curata da Valsecchi 1962. Anche nel primo titolo della serie, Gnudi 1962, vennero pubblicate molte sue fotografie e il suo rapporto con Mario Negri proseguì nel tempo.

[424] Si veda Gualdoni 2013, p. 12.

[425] In più di un’occasione Monti avrebbe a sua volta utilizzato le opere di alcuni di quegli artisti, specialmente scultori, per realizzare quelle ‘nature morte’ che tanto lo attraevano; quelle che aveva incominciato a realizzare già nei primissimi anni Cinquanta nello studio del cognato pittore Carlo Cocquio, sempre in delicato equilibrio tra ragioni compositive e attrazione per la materia delle cose (tav. 130). Segnalo che la stampa con il ritratto del cognato,  pubblicato in “Photography Year-Book”, 1952  come Sculptor (tav. 131) porta al verso più varianti del titolo: “Candid Shot/ Painter Carlo Cocquio”, “Ritratto di pittore”; “ Ritratto di pittore/ N.”.

[426] Lettera  di Monti a Ferroni datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 105.

[427] Barigelli 1956. In tal senso forse potrebbero essere letti il già citato ritratto di Carlo Cocquio o quello di Giorgio de Chirico, 1955 ca (Piovani 1983, p. 23), mentre appare meno evidente in altri casi.

[428] Turroni 1959 p. 49. Per Arcari 1983, p.10 “la lunga serie dei ritratti di artisti (…) sta a testimoniare (…) la spontaneità dei rapporti che egli riesce a stabilire con la cultura milanese”, ma nella realizzazione della serie di artisti contemporanei illustrati da fotografi (Casiraghi, Merisio, Frisia, Colombo, Nicolini, Mulas, Masotti, Zannier) per i  “Quaderni di Imago”,  pubblicati tra il 1964 e il 1970 da Bassoli Fotoincisioni e da lui curati, non  venne mai coinvolto Monti.

[429] Monti 1954c.

[430] Lettera di Monti a Parmiani, datata 26 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 106. Ancora in uno dei suoi Appunti e disappunti rievocava tristemente le opinioni correnti di quegli “artisti di giusta notorietà e nel novero dei migliori del tempo”, Monti 1967b.

[431]  Monti 1967a.

[432] Colombo C. 1963b.

[433] Quintavalle 2010.

[434] Il nome della fotografa francese sarebbe stato evocato da Carlo Bertelli  a proposito della sua “colta rivisitazione della fotografia storica [che] troviamo nella figura drappeggiata stante presso un’edicola funeraria romana, che ci rammenta il modo di rendere personaggi chiusi nel loro mistero le statue del Foro Romano, che fu la scoperta, negli anni 30, di Florence Henri.”, Bertelli 2010, poi ripubblicato con minime varianti in Id., Paolo Monti, lirismo e ricerca, “Corriere della Sera”, Cultura, 10 giugno 2011. https://www.corriere.it/cultura/11_giugno_10/elzeviro-bertelli-paolo-monti_da95bf2c-9333-11e0-aa50-3c890fd936ef.shtml.

[435] Turroni 1957b.

[436] Emiliani 1995, p. 8. Nella testimonianza di Cesare Colombo, invece i fotografi di quegli anni “al cinema non andavano”, Colombo, Guerra 2014, p. 55.

[437] Monti 1963b.

[438] Hauser 1955-56. Quella interpretazione storiografica era stata formulata da Giséle Freund nel 1936, poi sviluppata ulteriormente nel 1974, ma appare improbabile che Monti conoscesse la prima edizione di quel testo, né la successiva risulta presente nella biblioteca del fotografo.

[439] Colombo, Guerra 2014, p. 56.

[440] Nell’aprile del 1962 veniva liquidata la società Fotogramma, a suo tempo costituita da Monti e Vasken Pambakian,  che aveva chiuso ogni sua attività giusto un anno prima, il 31 marzo 1961, licenziando l’ultimo dipendente rimasto su tre effettivi  (# Fotogramma 1961). Dal 20 marzo 1961 risultava però iscritta al Registro delle Ditte della CCIA di Milano una società Fotogramma S.r.l. Foto Cine TV, con sede in piazza Velasca, 5, cfr. Paoli 2007, p. 328, nota 1. Contestualmente si apriva una nuova configurazione professionale tanto che alla stessa data del 31 marzo  risale  una bozza di scrittura privata tra Monti e Vincenzo Carrese che stabiliva (punto 5) che “La gestione dello “Studio 22” [forse già di proprietà di Carrese] spetta al Dr Monti il quale avrà diritto alla retribuzione di lire 300.000 (trecentomila) mensili per tredici volte l’anno a compenso delle sue quotidiane prestazioni” (# Carrese, Monti 1961),  ma l’accordo non dovette aver seguito, se non per quel che riguardava la cessione del nome,  poiché dall’iscrizione alla CCIA di Milano (n. 583.893, in data 9 giugno) risulta invece “Foto Studio 22 di Paolo Monti”, sede Milano via Tasso 15, data di fondazione 01.06.1961 (…) proprietario unico Monti Paolo”. Anche  la carta intestata di quel periodo riporta la dicitura “Foto Studio 22/ Paolo Monti fotografo”, con sede in Corso Sempione 14 e abitazione in via Tasso 15. Il 18 ottobre il Questore di Milano concedeva inoltre licenza a Monti “per esercitare l’arte fotografica, con un massimo di cinque dipendenti, in Milano, Corso Sempione 14, e con la rappresentanza del sig. Giglio Francesco (…) e la direzione tecnica del sig. Fanti Ennio” (# Licenza 1961). In data 6 settembre si registrava ancora una fattura per lavori fatti alla Triennale intestata Fotogramma, via Colonna 9, nel cui “seminterrato n. 4 locali uso studio laboratorio” erano affittati a Vasken Pambakian (# Inquilini 1961). La conduzione dello studio (con dipendenti in gran parte fotoreporter come Fanti e Pietro Zonta ) fu certo complessa e poco soddisfacente se già  nel 1963 Monti lo chiuse preferendo lavorare da solo “vale a dire senza laboratorio, senza dipendenti, senza niente. (…) Mi ritrovai da solo col mio stampatore, che era venuto con me a tredici anni e aveva cominciato a stampare benissimo, e che stampa ancora per me oltre a fare il fotografo.” (Monti, in Dal Bo [1981] 1997, p. 40) Restava però immutata la denominazione della ditta, che solo col primo gennaio 1976 sarebbe divenuta Paolo Monti Fotografo con trasferimento della sede in Corso Sempione 28.

[441] Monti 1959b, pp. 63-64.

[442] Colombo C. 1959a.

[443] Lettera di Monti a Parmiani datata il 26 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 106, corsivo di chi scrive.

[444] # Willie 1958; # Pozzi 1958; le citazioni sono tratte da queste due fonti.  Le sole fotografie verosimilmente riferibili a quel progetto attualmente conservate nell’Archivio Monti sono le riprese in b/n di una modella che si insapona (tav. 135).

[445] Pozzi, collaboratore di Gio Ponti e poi di Achille Castiglioni, era stato redattore di “Stile industria” dal 1954 al 1957. Alcune notizie su questo professionista sinora poco studiato sono contenute in Ferrara 2020; un ritratto dell’architetto è in AM – FF,  R05048.

[446]  Monti 1959c, p. 45. Nella prima redazione del testo (Monti 1964b), aggiungeva : “Bisogna riconoscere che la cultura dei grafici era molto superiore a quella dei fotografi, molti dei quali non conoscevano affatto non diciamo le tendenze dell’arte moderna che ha enormemente influenzato il nostro modo di vedere, ma nemmeno le migliori opere dei loro colleghi stranieri.”

[447] Aldo Ballo, Davide Clari, Mario Dainesi, Edoardo Mari, Paolo Monti, Italo Pozzi, Alfredo Pratelli e Gian Sinigaglia, che ne fu il primo presidente; va quindi corretto l’affettuoso ricordo di Colombo più sopra citato. In occasione della V Biennale internazionale di fotografia del 1965 il sodalizio si presentava accresciuto con le nuove presenze di Alfa Castaldi, Gian Colombo,  Angelo Cozzi, Attilio Del Comune, Gianni Della Valle, Luciano Dinelli, Luciano Ferri, Ugo Mulas, Roberto Zabban e Pietro Zonda. Già nel   1950, in occasione della III Mostra internazionale della tecnica fotografica, si era costituita a Bologna l’Associazione artigiana dei fotografi italiani, “con un  comitato promotore composto dai sigg. Bonori, Villani, Pasquini di Bologna; Pogna di Milano; Gramaglia di Torino; Pedrotti di Trento; Biancini di Firenze e Parisio di Napoli. Tale comitato ha a sua volta incaricato la già esistente ed efficiente Associazione autonoma fotografi professionisti di Bologna di curare l’organizzazione dell’Associazione nazionale che verrà sancita da un prossimo convegno deî rappresentanti di tutte le regioni d’Italia.”, cfr. Associazione 1950. Ricordo che nel 1965 Martinez curò per la V Biennale Internazionale di Fotografia, con il supporto dell’AFIP, una mostra dedicata agli aspetti della fotografia professionale italiana intitolata Applicazioni e funzionalità della fotografia (Dolzani 2008, p. 313), che dovette avere però scarso riscontro e non venne neppure segnalata da “Ferrania”.

[448] Monti 1964c;  “la photographie est entrée dans les mœurs et dans les écoles jusqu’à faire partie des matières obligatoires dans l’enseignement technique et les études spécialisées (…) les conditions de travail dans un pays hautement industrialisé avec une économie de masse n’ont pu avoir que des incidences favorables quant au niveau social-économique de la profession (…) la grande émigration provoquée par la montée hitlérienne vida l’Allemagne de ses plus beaux talents au profit d’autres pays, dont l’Amérique, qui en les accueillant bénéficièrent de leur considérable apport. Si l’on demande ce qui se passait en Italie pendant qu’en d’autres lieux on ‘réinventait’ la photographie, la réponse ne peut être que négative. Seuls quelques portraitistes, tels que Sommariva, et une poignée de photographes documentaires ou d’architecture échappaient au climat de stérilité qui s’était installé. Sur le plan de la recherche expérimentale, les travaux de A.G. Bragaglia pour appuyer son manifeste ayant trait à ‘la photodynamique futuriste’ ont été le seul fait digne d’attention. Mais cette entreprise, bien qu’anticipant de vingt ans quelques idées et réalisations du Bauhaus, ne figure dans aucune histoire de la photographie (…) Aussi, pourrait-on survoler le temps jusqu’aux années 50, lorsque les effets découlant des vastes changements intervenus dans la vie politique, sociale, économique et culturelle du pays se firent sentir. (…)  Or si cette phase transitoire a été surmontée rapidement malgré le poids du passé, cela est dû aux efforts de réadaptation esthétique et technique de toute la profession, ainsi qu’à l’accession au métier d’une génération d’ ‘amateurs’  très évolués en matière de culture visuelle De ce point de vue, Milan a joué le rôle de catalyseur. (…) C’est dans ce conteste que l’AFIP (Associazione Italiana Fotografi Professionisti), adhérente à Europhot, a été fondée à Milan par un groupe de photographes professionnellement qualifiés. Son but est de travailler à l’élévation du niveau du métier et à la défense de celui-ci, d’établir une déontologie de promouvoir des initiatives d’ordre culturel et des échanges avec l’étranger. Programme ambitieux, difficile à appliquer.”, La copertina di quel numero di “Camera” era dedicata a una fotografia di Aldo Ballo, mentre le pagine interne ospitavano immagini realizzate dai fondatori dell’AFIP ma anche di Ugo Mulas, Luciano Ferri e Gianni Della Valle, che avrebbero aderito al sodalizio pochi mesi dopo. Alcuni mesi più tardi Martinez avrebbe abbandonato la redazione del periodico per essere sostituito solo due anni più tardi da Allan Porter.

[449] La fonte per la conoscenza del volume di Bragaglia avrebbe potuto essere Ragghianti 1959 o forse Racanicchi 1963, che riprendeva alcuni temi già accennati nell’intervista con Carlo Ludovico Ragghianti del 1958.  Altre riflessioni sui rapporti tra pittura e fotografia vennero esposte da Racanicchi 1963a in occasione della II Mostra nazionale di fotografia La figura umana,  che si tenne a Bergamo nell’ottobre del 1963, un’iniziativa a cui partecipò anche Monti come giurato, accanto ad Arcari e Cesare Colombo.

[450]  Monti ribadiva qui la sua nota interpretazione del ruolo storicamente rilevante della migliore fotografia amatoriale nel nutrire quella professionale. Anche Turroni 1966 avrebbe di lì a poco confermato come  “quella consapevolezza culturale, quel gusto delle buone letture e di una visione estetica il più possibile vicina alla nostra esperienza di vita, tutto ciò, insomma, che determina la misura e la statura di un vero fotografo, di un fotografo che cerca di andare oltre la moda di una stagione e di dire qualcosa di positivo. mi pare si siano trasportati, negli ultimi anni (grosso modo, dopo il ’60), dal piano dilettantistico a quello dei professionisti: dal mondo della provincia, non chiuso ma certo aristocratico e un po’ snob, a quello dei professionisti, dei ‘pubblicitari’.”

[451] Anche Arcari 1966, richiamando l’intervento di Monti pubblicato nel numero di luglio (Monti 1966c),  sottolineava come l’aspetto interessante del progetto AFIP fosse il rapporto fra professione e “impegno culturale”. Un rapporto che si doveva basare “sulla responsabilità – e quindi su un piano che è pure di ordine etico – che il fotografo ha non solo verso il committente ma anche e prima di tutto verso il pubblico.” Monti avrebbe poi ripreso sinteticamente analoghe riflessioni nella breve presentazione a Fotografi 1967 (Monti 1967c).

[452] Monti 1964b.

[453] Era stato Emilio Servadio (1967), all’epoca presidente della Società Psicoanalitica Italiana, a parlare di “voyeurisme” e di “impulsi esibizionistico-narcisistici”.

[454] Monti 1967d.

[455] Una foto di moda di Berengo Gardin venne pubblicata in Turroni 1967a p. 17,  che generalizzando su questi “raffinatissimi dell’arte fotografica” si concedeva  queste imbarazzanti considerazioni: “Su alcuni di loro circolano quelle voci che circolano sui bravi parrucchieri per signora, sui bravi sarti, sui bravi registi di teatro, eccetera. Il culto della dea-donna esige questi sacrifici sul piano sessuale. Si rinuncia alla donna, per capirla meglio. È  una forma letteraria che oggi piace. Fa anche ridere, dopo tutto. Penso sarebbe piaciuta a Flaubert, mentre Proust ci sarebbe stato troppo dentro, per poterla esprimere bene”. Una boutade certo; forse, allora, dolorosamente necessaria per nascondere la propria omosessualità, cfr. Colombo, Guerra 2014, p. 25.  Ai fotografi di moda, specie milanesi, era dedicato il successivo articolo Turroni 1967b.

[456] Turroni 1967b.

[457] Barthes 1959.

[458] Si veda ad esempio il progetto pubblicitario Calci Ostelin per la Glaxo realizzato da Max Huber per Studio Boggeri nel 1941.  “Mi interessava sempre l’arte astratta così provavo con fotogrammi e forme geometriche semplici delle composizioni”, ricordava Huber in una sua biografia in parte pubblicata in Max Huber 1991.

[459] La notizia (“due cataloghi a colori di arredamento per la Braendli”) si ricava dalla breve scheda biografica redatta da Monti per la mostra a Il Diaframma del 1967.  Tra le loro collaborazioni anche Coray, Scheiwiller 1979, con grafica di Huber e fotografie di Monti.

[460] Segnaliamo qui le principali occasioni di collaborazione: 1956: Logo dei magazzini La Rinascente e logo del Premio Compasso d’Oro. 1956-1960: pubblicità per la casa farmaceutica  Pierrel, anche per il farmaco Granulovit. 1957: Premio La Rinascente Compasso d’Oro per l’estetica del prodotto. 1958: Allestimento del padiglione del Cotonificio Cantoni. 1958-1962: copertine per Feltrinelli: Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa, Manlio Cancogni, Cos’è l’amicizia, Beatrice Solinas Donghi, L’estate della menzogna; Max Frisch, Andorra.   1959: ditta Aurora di Torino. 1959-1960: Abecedario realizzato per la XII Triennale – Mostra della Scuola. 1962 Fascicolo di presentazione della nuova sede della Riunione Adriatica di Sigurtà  a Milano. 1963: Coop Reggio Emilia. 1968: pubblicità  Atkinsons. 1971: rivista “ENIT”. 1972: grafica e copertina di Steiner per Riccòmini 1972. 1973: Museo Monumento al Deportato di Carpi. A queste si aggiunga la collaborazione nell’ambito della Scuola Umanitaria di Milano nei primi anni Sessanta, dove Monti insegnava Tecnica fotografica. Ancora a Steiner Monti avrebbe affidato il progetto del logo per il suo Studio 22.  Alcune tracce di quella collaborazione sono registrate – senza citare opportunamente il ruolo del fotografo – nel fascicolo monografico Albe Steiner 2016.

[461] Vetrotessile 1960. La pubblicazione non riporta i crediti fotografici, ma l’attribuzione è confermata dal confronto con le immagini conservate nel Fondo fotografico.

[462] La fotografia di quel set, realizzata con un apparecchio Linhof, venne pubblicata nel portfolio a corredo di Mannheim 1967.

[463] Anche Pomodoro era giunto da poco a Milano insieme al fratello Giò, nel 1954.

[464] Monti 1954d.

[465] Morucchio 1953b. Il critico aveva firmato anche la breve presentazione della seconda personale di Monti, alla “Bottega Il Ponte”, nel luglio dello stesso anno, cfr. supra NOTA 201.

[466] La rischiosa scelta de “l’existence économiquement aléatoire et socialement peu considérée de photographe”, sarebbe poi stata adeguatamente riconosciuta da Martinez 1956a, trascritto integralmente in Dolzani 2008, p. 133.

[467] # CCIA Milano 1953. Tra gli operatori vi era Dino Sala, già dipendente dei Pambakian, che negli anni successivi avrebbe poi aperto un proprio laboratorio. La società, già in liquidazione dal dicembre 1960, cessò ogni attività al 31 marzo 1961 (# Fotogramma 1961).  Va messa in rilievo la singolarità della denominazione societaria, che rimandava a quelle pratiche off camera, lontane dal professionismo, che gli appartenevano come amateur. Da rilevare inoltre  la separazione netta tra denominazione commerciale e definizione autoriale: sebbene in quegli  anni  quello di Paolo Monti fosse un nome di assoluto prestigio, questo venne adottato come ragione sociale della ditta solo dal gennaio 1976. Non solo, come risulta dai crediti fotografici in Brawne 1965, la documentazione della nuova museografia italiana era  svolta sia come Fotogramma sia come Paolo Monti, e si davano casi, come il Museo del Castello Sforzesco a Milano o della Galleria d’Arte Moderna a Torino, nei quali era presente  documentazione assegnata ad  entrambe le identità.

[468] I fratelli Pambakian si erano trasferiti nel 1948  a Milano, dove successivamente fondarono la  Color Record (1950), forse il principale laboratorio milanese di trattamento colore, del quale si servivano anche altri professionisti come Giorgio Casali,  e quindi l’Union Foto Market.

[469]  Monti 1964b, da cui sono tratte tutte  le citazioni successive.

[470] #  Monti 1958.

[471] Monti 1964b.

[472] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Dalla documentazione disponibile presso l’Archivio della Triennale  non risulta però alcun incarico ufficiale, ma invece una più semplice autorizzazione a eseguire fotografie nell’ambito dell’esposizione, analogamente a quanto accadeva per altri professionisti. La procedura di autorizzazione adottata dall’ente per tutti i fotografi che richiedevano l’accredito implicava l’impegno a sottoporre in visione all’Ufficio Stampa tutte le riprese eseguite, cedendone gratuitamente due copie. (# Triennale 1957).

[473] Lettera di Monti a Parmiani datata il 26 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 106, corsivo di chi scrive.

[474] Monti 1959b. Pur lasciando al fotografo “la libertà più completa” è però vero che Steiner non gli riconosceva alcuna corresponsabilità nella progettazione e realizzazione dei progetti; basti considerare la serie di copertine per Feltrinelli, realizzate a partire da fotografie di Monti ma firmate dal solo Steiner, cfr. supra NOTA 460.

[475] La stessa sigla compariva tra i crediti di Pica 1959, che costituisce anche un buon repertorio dei migliori fotografi italiani di architettura di quegli anni: da Aldo Ballo a Giorgio Casali, da Davide Clari a Oscar Savio, per la gran parte attivi nel nord Italia e specialmente a Milano.

[476] https://triennale.org/risultati-archivio?archiveId=archivio-fotografico&freeText=fotogramma&timerange=1954 .

[477] Corrispondenti a circa 33 € attuali.

[478] # Alfieri 1960.

[479] cfr. Dezzi Bardeschi, Gioffré 2015. Come si ricava da Pica 1959, a quella data Monti non aveva però alcun rapporto di esclusività con i maggiori, anzi. Sue erano le fotografie dell’intervento BPR per il Castello Sforzesco a Milano, ma nonostante quei lusinghieri apprezzamenti l’intervento di Albini a Palazzo Bianco a Genova  venne documentato da Giorgio Casali, il Museo Correr di Scarpa ripreso da Ferruzzi di Venezia mentre le fotografie del Tesoro di San Lorenzo a Genova portavano la firma di Farabola. Le foto di Monti erano state pubblicate in Red. 1957a  e furono successivamente utilizzate per la presentazione dello stesso lavoro nella Mostra di Architettura della XII Triennale, dove il Tesoro venne illustrato in una serie di ingrandimenti firmati da Monti. (# Triennale 1960). Quella serie era stata già esposta alla prima Biennale veneziana del 1957 suscitando l’ammirazione di Zannier, che nel recensire la mostra segnalava “le suggestive fotografie della Cripta di San Lorenzo a Genova, [che] ci presentano un Monti come al solito intelligente e raffinato; la fotografia d’architettura ha trovato in lui un nuovo interprete e in Italia si sentiva veramente il bisogno di un serio rinnovamento in questo settore”, Zannier 1957c, p. 16.

[480] Una prima occasione di confronto si era avuta con la mostra dedicata alla museografia in occasione della XI Triennale di Milano del 1957, con progetti, maquette e fotografie di quattordici allestimenti  italiani. A quella rimandava la rassegna critica di Russoli 1960,  con foto Monti.

[481] Su quella campagna si veda ora Villa 2003. Ancora dieci anni dopo lo studio Bassi Boschetti scriveva a Monti  per richiedere copia delle fotografie della Galleria d’Arte Moderna di Torino:  “Come certamente Lei immagina il materiale ci serve con una certa urgenza per un concorso che ci scade fra 10 giorni.”, # Bassi Boschetti 1969. Dalla successiva fattura del 31 ottobre (ibidem) si ricava che furono realizzati “168 ingrandimenti 24×30 – 14 stampe dalle foto 1/3/6/4/9/12/13/14/19/20/21/22.”

[482] Spesso, Porcile 2019. Come ricordano gli autori (ivi, p. 193) Monti sarebbe tornato ancora a fotografare un allestimento genovese in occasione dell’apertura del museo Chiossone: “Pur nello spazio limitato di due pagine le immagini che accompagnano il testo forniscono una lettura critica approfondita e convincente dell’edificio. Il Museo appare letto criticamente sotto due aspetti: la sua apparente semplicità (la grande immagine dello spazio centrale) e la reale complessità (le quattro piccole immagini composte nella prima pagina a fianco del testo). (…)  Proprio in virtù della profonda conoscenza dell’argomento, la serie fotografica da lui realizzata nel 1971 resta una delle letture più convincenti del Museo Chiossone appena completato.”;  si veda anche Pica 1972.

[483]  Dopo le prime campagne datate  1956-1957 e ancora  nei primi anni Sessanta, nuove riprese vennero appositamente realizzate per Marcenaro 1969, cfr. infra.

[484] Marcenaro 1965, p. 26.

[485] Anche Gianni Berengo Gardin e specialmente Italo Zannier collaborarono poi assiduamente con il periodico fondato da Zevi nel 1955. Secondo la testimonianza di Ennio Puntin Gognan (riportata in Manfroi 2016; si veda anche Ennio Puntin Gognan 2016), fu lui a segnalare Monti a Bruno Zevi, allora docente allo IUAV, che a sua volta avrebbe invitato il fotografo a tenere una serie di lezioni, ma di quegli incontri e di eventuali contatti tra i due non si trova traccia né nell’Archivio Monti né in quello di Zevi, cfr. De Meo 2006.  Costituirono comunque occasione di collaborazione sia la  pubblicazione del primo  volume di  Renzi 1969, con prefazione di Zevi e foto di Monti, sia la realizzazione di fotografie a corredo di articoli per  la rivista, in parte conservati nella biblioteca Monti.

[486] Si segnalano di seguito alcune delle collaborazioni con  “L’oeil”:  Lamy-Lassalle 1958; Wittkower 1959; Russoli 1960; Praz 1960; Habasque 1960; Hoctin 1963. Segnalo che nel n. 85, gennaio 1962, pp. 88-91, vennero pubblicate anche sue  fotografie di moda femminile (b/n e colore) per Ava Golf e per Falconetto,

[487]  Panoptique 1967.

[488] Ragghianti 1959b. In un suo curriculum (# Monti 1967) si presentava come “Fotografo permanente nello staff di Zodiac e Metro”.  Sui rapporti tra l’architetto e l’azienda di Ivrea si veda Tinacci 2018. Forse in quell’occasione lo studioso e il fotografo non ebbero però occasione di conoscersi se sul finire dell’anno Ragghianti volle scrivere a Roiter per invitare i membri de La Gondola a partecipare al suo progetto di costituzione di  una “raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica” di cui si è detto.  Monti ebbe successivamente occasione di collaborare con la Società Olivetti anche come studio Fotogramma, cfr. https://archividigitaliolivetti.archiviostoricolivetti.it/.

[489] Ricordava Gianni Berengo Gardin (in Scimemi 2004b, ): “Io ero affascinato dagli allestimenti di Scarpa che vedevo ritratti nelle fotografie di Monti. In particolare ricordo il suo lavoro sul negozio Olivetti in piazza San Marco (…). Sicuramente ne parlammo insieme, anche perché io lavoravo a quel tempo per Olivetti, della quale documentavo con fotografie la catena di montaggio delle macchine da scrivere, le architetture delle fabbriche e delle sedi degli uffici, sia in Italia che all’estero.” Alla lunga collaborazione tra Berengo Gardin e la Società di Ivrea è stata dedicata nel 2020, presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, la mostra Gianni Berengo Gardin e la Olivetti,  curata da Margherita Naim e Giangavino Pazzola in occasione dei 90 anni dell’autore.

[490] Red. 1960, p.48. Come avrebbe ricordato anni dopo Fulvio Roiter, che ebbe l’occasione di accompagnare Monti realizzando anche una serie di fotografie in proprio, l’incarico di fotografare il restauro delle sale e il nuovo allestimento gli era venuto dal direttore del Musei Civici di Verona Licisco Magagnato, cfr. Scimemi 2004a.  Il rapporto di stima si mantenne immutato nei decenni successivi come mostra una lettera di Magagnato a Monti, datata Verona 28 aprile 1977, nella quale il Direttore confermava che gli avrebbe fatto “molto piacere di fare una mostra monografica della sua attività di fotografo, con degno catalogo” (#  Magagnato 1977), ma l’iniziativa non ebbe seguito.

[491] Una variante di ripresa di t. 139 venne pubblicata in Museo d’Arte Antica 1956, p . 15. Il 20 aprile 1956 la Società Fotogramma richiedeva di poter effettuare riprese fotografiche nel Museo per un servizio destinato a illustrare BPR 1956.

[492] Maffioli 2014, p. 51. Dalla verifica condotta sui materiali d’archivio e da quanto pubblicato in Museo d’Arte Antica 1956 risulta il ricorso a modelli femminili e maschili, oltre che la messa in scena molto connotata di alcune riprese con persone.

[493] In quell’occasione Monti fu presente anche in veste di coautore del padiglione Ferrania, che costituiva la  decima sezione del settore italiano, denominata Conclusioni, curata con Guido Bezzola e Mario Motta  su  progetto di Ludovico Quaroni. (tav. 155) Il padiglione si presentava come una versione in sedicesimo ma più drammatica e meno consolatoria di The Family of Man, con un allestimento  “di una impressionante severità. Nude strutture metalliche, pareti oscure che si alzano altissime, concentrano l’attenzione del visitatore sui documenti di dolore e speranza che sono registrati su grandi strisce di pellicola fotografica, liberamente pendenti ed ondeggianti nello spazio: una folla di fantasmi, di ricordi, di rimorsi, di speranze che sembrano sorgere dalla coscienza stessa del visitatore.” cfr. Red. 1961b.

[494] Su queste vicende si veda Carlo Scarpa 2004 e più in particolare Tinacci 2013 p. 62, in cui si confermava che “le fotografie conservate nell’Archivio Carlo Scarpa mostrano anche il lavoro di taglio e inquadratura delle immagini destinate alla pubblicazione.”

[495] Lettera di Monti a Scarpa, datata 16 maggio 1974, citata in Tinacci 2013, p. 62, nota 79.

[496] Testimonianza citata in Beltramini 2004.

[497] Oltre a Cavanna, Paoli 2016 si vedano le testimonianze raccolte in Brawne 1965.

[498] L’invenzione montiana si distaccava nettamente per concezione e impianto dalle riprese delle stesso soggetto realizzate da altri autori nel corso del tempo, da Ugo Mulas a Guido Guidi, cfr. Friedman 1999;  Carlo Scarpa 2004.

[499]  # Scarpa 1962-1964.

[500] Tafuri 1984, p. 79.

[501] Bertoli 216, p. 587.

[502]  “fabled and romantic country”,  Maloney 1955.

[503] Kidder Smith 1955. La campagna documentaria venne condotta nel corso del 1953 e il volume (quarto di una serie che già comprendeva Brasile, Svezia e Svizzera) fu pubblicato contemporaneamente negli USA e in Italia; alcune di quelle immagini vennero poi pubblicate in Kidder Smith 1962. Oltre alle fotografie dell’autore, il volume – non presente tra i libri di Monti –  conteneva anche immagini di Fotocelere, Crimella, Farabola, Riccardo Moncalvo, Oscar Savio, Bruno Stefani, Vasari e Villani  Sulla genesi del volume si veda Maggi 2017.

[504] Zevi [1948] 1970, pp.46-47.

[505] Analogo, ormai inconsueto atteggiamento sembra di cogliere in uno studioso molto raffinato come Geoffrey Batchen quando scrive che “the photograph does not really prompt you to remember people the way you might otherwise remember them – the way they moved, the manner of their speech, the sound of their voice, that lift of the eyebrow when they made a joke, their smell, the rasp of their skin on yours, the emotions they stirred. (Can you ever really know someone from a photograph?)”, Batchen 2004, p. 15.

[506] Rogers 1955. Analoghe furono le riflessioni di Luigi Ghirri 1988 nel confronto con le architetture modenesi di Aldo Rossi: “La realizzazione delle fotografie fu tra le più interessanti, non tanto per i risultati poi ottenuti, quanto perché (…) sembrò che mi si rivelasse il segreto per un approccio all’architettura ed alla sua rappresentazione fotografica. Più il lavoro procedeva, e più paradossalmente non ne vedevo la fine, anzi mi restava ancora più lavoro da svolgere, mi restavano da vedere e inquadrare nuovi angoli, nuovi punti di vista per ogni piccolo movimento nello spazio, le prospettive appena riprese si ripetevano dopo pochi minuti con un aspetto rinnovato, la luce continuava incessantemente a modificare il senso e l’aspetto, a colorare diversamente volumi e superfici. (…) e questo  chiarì in maniera definitiva anche tutti i dubbi e sospetti che nutrivo da tempo nei confronti della fotografia d’architettura.”

[507] Insolera 1956. Nell’intestazione l’autore si presentava come membro del  C.C.F. – Centro per la Cultura nella Fotografia di Fermo.  Di qualche anno successiva sarebbe stata la redazione del testo per il volume Il quartiere barocco di Roma, con fotografie di Italo Zannnier (Insolera 1967).  Sul suo appassionato rapporto con la fotografia si veda ora Valentinelli 2017.

[508] Monti 1981a. Nella stessa occasione ricordava come “la fotografia di un grattacielo può inarcarsi su una diagonale a 45° che esprime la sua fuga verso il cielo e crea nuove forme”, rifacendosi (senza citarla) proprio a una sua notissima ripresa del Grattacielo Pirelli pubblicata in Neutra 1963. Dal 1958 al 1961, su incarico della prestigiosa rivista aziendale “Pirelli”, anche Arno Hammacher eseguì alcune centinaia di immagini del cantiere del grattacielo di Ponti, Fornaroli e Rosselli,  dai primi scavi ad ogni fase della sua costruzione, in parte pubblicati nella rivista. L’assoluta autonomia dal testo di accompagnamento lasciava libero il fotografo di osservare dal proprio specifico punto di vista il procedere dei lavori, soffermandosi spesso su suggestioni formali e particolari suggeriti dagli stessi materiali edili o dall’opera delle maestranze, piuttosto che su inquadrature rigorosamente dettate dalla necessità di documentazione aziendale. Le riprese di Hammacher, ciò nonostante o forse appunto per quello speciale punto di vista, compongono uno straordinario reportage di quell’impresa edilizia, tecnologica e progettuale, costituendone la maggiore documentazione visiva per quantità e qualità fotografica. Altre foto di quel cantiere, purtroppo senza indicazione dei relativi autori, sono state pubblicate in  Crippa 2017.

[509] “la notion de «continuité» organique (…) les optiques photographiques s’opposent en quelque sorte à la physiologie de notre perception visuelle et à la chimie de notre rétine en ce que  nos facultés sensorielles sont essentiellement mouvement alors que l’œil de l’appareil est par sa nature même statique. (…) que l’architecte ne l’introduise littéralement dans «l’univers de son œuvre (…)  la photographie d’architecture à laquelle nous nous référons est réalisée dans un but fonctionnel (…) interpréter valablement les intentions de l’architecte.”, Neutra 1963, corsivo nel testo, traduzione di chi scrive  dire una sola volta alla prima occasione.

[510] Si veda infra NOTA 573.

[511] “il faut bien sentir que photographier et voir ce n’est pas comprendre. Ces limitations admises, je suis persuadé que le lien indissoluble du photographe avec le monde extérieur revêt une force morale chez les meilleurs photographes : ne pouvant sortir de la réalité, ils doivent en interpréter ou en approfondir la signification ou, au moins, en faire ressortir subjectivement le poids et l’intensité ”, citato in Burguet 1963, p. 27. In quello stesso anno Monti realizzò anche una serie di riprese per il numero monografico Il Novecento 1963.

[512]  Si veda Brawne  1965, nel quale “circa un terzo di tutte le foto sono dello scrivente, in pratica tutta la sezione italiana”, come scriveva Monti in un suo breve curriculum (# Monti 1967). Studiando quelle serie di immagini risulta – diciamo così – difficile concordare col giudizio di  Vittorio Savi,  per il quale Monti  “restò un autore esistenziale; il fotografo del tempo, si direbbe del tempo domenicale e pomeridiano della città. Non si trasformò nel fotografo dello spazio dell’architettura. Non lo diventò mai […] il che non impedì che fosse onorato come il maggiore fotografo italiano di architettura”, Savi 1990.

[513] Si veda a titolo di significativo esempio l’apparato fotografico di Koenig 1968: una serie di riprese a colori professionalmente corrette ma che certo appaiono prive di ogni empatia coi soggetti fotografati, ciò che accadeva sovente con le sue riprese a colori, tanto affascinanti in sede sperimentale quanto anonime nel lavoro professionale. Anche le sue fotografie pubblicitarie, se escludiamo le campagne condotte per e con Albe Steiner, risultano nulla più che corrette applicazioni tecniche: penso alle fotografie dei sanitari Ideal Standard pubblicate in “Domus”, (1968), n. 458, gennaio, p. 26 che non portano traccia alcuna delle contrapposte suggestioni  di Marcel Duchamp o Edward Weston.

[514] Monti 1963a, ora in Valtorta 2008, pp. 78-79.

[515] Marcenaro 1969.

[516] Monti 1977a.

[517] Si veda l’attenta analisi di Frongia 2018.

[518] Nicolini 2010.

[519]  Monti 1959b. Opposta la lettura di Turroni 1959, pp. 63-64, per il quale “il libro (…) potrà forse spaventare gli ultimi arcadi, ma è comunque originale, e scopre una Milano nevrotica, in serie.”

[520] Monti 1957a.

[521] Vergani, Crocenzi, Birelli 1967. La maggior parte delle fotografie pubblicate si doveva – oltre che a Diego Birelli – a  Mimmo Castellano, Cesare Colombo, Gianfranco Mazzocchi, Toni Nicolini, Piero Raffaelli, Ferdinando Scianna; di Monti si pubblicava solo una foto della serie dedicata al Grattacielo Pirelli (tav. 163), mente non erano presenti altri importanti autori quali Mario de Biasi o Ugo Mulas, né Carlo Orsi, che solo due anni prima aveva firmato in collaborazione con Giulia Pirelli un bel volume sulla città (Orsi, Pirelli 1965). Un’aggiornata rassegna critica delle letture fotografiche delle principali città italiane nel secondo Novecento è stata fornita da  Frongia 2013, in particolare Crisi e immagine della metropoli: il caso Milano, ivi, pp. 128-142.

[522] Lettera di Monti  a Ferroni, datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010,p.  105.

[523] Riccòmini 1972, con fotografie di Paolo Monti (anche a colori) e Corrado Riccòmini. La stessa avvertenza comparirà nel volume successivo Riccòmini 1977, con fotografie degli stessi autori.

[524] In un’intervista rilasciata nel 1980 (V.P. 1980) così rispondeva alla domanda “E per la scultura: come si può interpretarla? Con le posizioni di ripresa. Ad esempio una statua che è stata scolpita per stare a tre metri di altezza, se la fotografo da terra la presento come l’autore l’aveva pensata. Se invece mi innalzo di quei tre metri la prospettiva cambia. Dunque è meglio avvicinarsi o riprendere la statua dal basso? Da dove la gente la vede abitualmente: la prospettiva è quella prevista dallo scultore.”

[525]H. Wölfflin, Wie man skulpturen aufnehmen soll (Come si devono fotografare le sculture), pubblicato in due parti nella “Zeitschrift für Bildende Kunst”, 1896, 1897 quindi ripreso circa venti anni dopo sulle stesse colonne e con lo stesso titolo, cfr. Wölfflin 2008.  Le relazioni complesse tra scultura e fotografia sono state oggetto di crescente interesse negli ultimi decenni; si vedano almeno Pygmalion Photographe 1985;  Sculpter-Photographier 1991; Skulptur in Licht der Fotografie  1998; The original copy 2010. Johnson 2013; Hamill, Luke 2017.

[526] Si veda la doppia lettura  delle figure della Penitenza, Giustizia, Sapienza e  Misericordia di Angelo Piò in Sant’Agostino a Imola (Riccòmini 1977, tavv.51-59) che derivava dalle precedenti ricerche di Monti condotte sulla Fontana di Trevi, 1962, e sugli angeli di Ponte Sant’Angelo a Roma, 1966 (in Paolo Monti 1983, pp.107-111). Per il lavoro condotto sulla Pietà Rondanini cfr. infra, testo corrispondente alla NOTA 542 e successive.

[527]  #  Monti 1969b.

[528]  Monti 1981c Quale pura suggestione e stimolo a ulteriori  riflessioni, ricordo quanto scriveva André Bazin:  “La fotografia, portando a compimento il barocco (…)”,Bazin [1945] 1973, p.6. Una Angelo berniniano di Monti venne pubblicato anche in Emiliani 1979, t.206.

[529] Cfr. De Seta 1979, p. 54, t. 106, a suo tempo pubblicata anche in Mollino 1949, p. 306.

[530] Moretti 1950,  che nella copertina di Angelo Canevari presentava il dettaglio dell’ala di uno degli angeli, cfr. Duranti 2010, p. 256.   Per approfondimenti si rimanda ai saggi contenuti nel catalogo della mostra Luigi Moretti 2010,  e in particolare al contributo di  Letizia Tedeschi. Anche le fotografie dei  dettagli di certi  paramenti marmorei  (tav. 173) possono essere interpretate quali Trasfigurazioni di strutture murarie, per richiamare il  titolo di un altro noto saggio di Moretti del 1951.

[531] Maggi 2010, p.234, che analizzava anche la produzione fotografica giovanile dell’architetto.

 [532] L’insieme delle riprese dedicate alle fontane, agli Angeli di Ponte Sant’Angelo e al Foro Romano, ma forse anche  fotografie come Madama Lucrezia (tavv. 174, 175)  facevano parte della “Documentazione per il progetto Pietre di Roma”,  che avrebbe dovuto essere pubblicato dalle Edizioni Alfa di Bologna.

[533] Più turbolente e barocche quelle dedicate alla Fontana dei Quattro Fiumi, di cui un esemplare venne pubblicato in Praz 1960, p. 52.

[534] Il riferimento era a Tre soldi nella fontana, diretto nel 1954 da Jean Negulesco.

[535] Turroni 1966.

[536] Monti 1967e, erroneamente datato 1973 in Monti 1983, p. 129. Arcari 1980, pp. 48-49, avrebbe poi pubblicato affiancate una fotografia di montagna di Frisia e una dalla serie di Monti dedicata alla Fontana di Trevi.

[537] Ibidem. È sufficiente confrontare la morbida gamma tonale dei negativi con quella aspra e contrastata delle stampe per comprendere quanto fosse determinante l’interpretazione della matrice condotta in camera oscura. Ricordiamo che ancora in una serie molto articolata di appunti riferibili alla sua progettata monografia per Einaudi, cfr. infra, uno dei capitoli doveva essere dedicato a “Una interpretazione piranesiana. Saggio fotografico sulla fontana di Trevi”, indicando come ancora da “FARE/ Foto dall’alto e possibilmente dentro l’acqua.”, cfr. Valtorta 2008, p. 202. Anche per Emiliani 1983, p. 13, “quando stampava le straordinarie immagini romane della fonte di Trevi, andava a memoria sull’antico mestiere dell’acquafortista”, né si può negare che Piranesi fosse stato per Monti un nume tutelare, e non solo in  quell’occasione.

[538] Con una lettura certamente superficiale, le idee espresse in questo intervento al I Convegno Nazionale di Fotografia di Sesto San Giovanni del 1959 (Monti 1959c), sono state considerate “sorprendentemente arretrate”  da Paolo Morello 2000, p. 21. In una serie di appunti databili alla fine degli anni Settanta, pubblicati in Valtorta 2008, pp. 208-209, Monti ne avrebbe individuato un ulteriore limite strutturale ricordando che “La CODA dell’occhio manca alla  fotografia.”

[539] Scriveva Minor White nel colophon della sua  Fourth sequence (White 1950): “A sequence of photographs is like a cinema of stills. The time between photographs is filled by the beholder, first of all from himself, then from what he can read in the implications of design, the suggestions springing from treatment, and any symbolism that might grow from within the work itself. (…)  The meaning appears in the mood they raise in the beholder; and the flow of the sequence eddies in the river of his associations as he passes from picture to picture.” Già Orlandini 1967 aveva rilevato che per Monti “la fotografia non può raccontare o meglio non può porgerci un racconto completo che tenga conto degli stati mediani dell’oggetto. (…) Quindi è la serie fotografica, il numero dei fotogrammi di una realtà che può consentirci di articolare un discorso mobile e consecutivo.”

[540] Monti 1977b.  Per realizzare l’insieme (cfr. schede all’indirizzo http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+rondanini )  Monti lavorò sette sere al Castello nel giugno di quell’anno, producendo circa 500 negativi 24×26 (Paoli 2007, p. 316). Peppi Battaglini, che nella sua Libreria San Babila aveva ospitato una personale di Monti nel febbraio-marzo 1958,  ebbe un ruolo, in quanto manager di Görlich, anche nella pubblicazione del saggio fotografico compreso nel libro dedicato a Venezia e la sua gondola (Chiesa Butazzi, Monti 1974). Cfr. NOTA XXX

[541] Paoli 2007; vedi tavv. 150, 151, 152, 153.

[542] Scultura italiana 1966-1968.

[543] Presentando questo lavoro Quintavalle (1979) rilevò come la lettura di Monti “muove dalla tradizione della macchina da ripresa”, distaccandosi nettamente dalla convenzione documentaria per porre il “problema della successione temporale [che] presenta alcune difficoltà. Infatti il tempo delle fotografie non è il tempo dell’opera, il cui ritmo viene letto (…) secondo un procedimento critico (…); rilettura, interpretazione dunque, del modello qui michelangiolesco, ma confrontati con la nostra cultura, con la cultura del fotografo.”

[544] Della assimilazione tra attenzione materica propria dell’estetica dell’informale e interpretazione del non finito come pertinente all’immagine delle sculture michelangiolesche avanzata da Cesare Brandi  ha parlato Silvestra Bietoletti 2014, p. 33, ma in questa occasione risulta interessante e istruttivo confrontare queste immagini con quelle appositamente eseguite da Giuseppe Pagano per illustrare l’articolo di Pietro Toesca 1939; altre immagiini dell’opera vennero pubblicate pochi mesi dopo da Emilio Cecchi 1940. Anche nelle successive riprese di Monti dedicate alle sculture di Medardo Rosso (1978) emergeva a volte la fascinazione della materia e del non finito (tav. 181), esprimendosi in una lettura ravvicinata delle cere e dei bronzi, mentre in tutti gli altri casi le opere erano riprese predisponendo un fondo neutro con un punto di vista che abbandonava volentieri la posizione frontale per cercare soluzioni più scorciate, quasi al limite del profilo. La densità delle ombre risultava molto controllata e varia, in dipendenza del materiale, e l’inquadratura era totale. In questa occasione Monti non si concesse mai uno scarto rispetto alle richieste della committenza.

[545] Cfr. Pittura a Rimini 1979,  tavv. 84-89 [16 fotografie].

[546]  Già Silvia Paoli 2007 aveva notato che Monti era stato particolarmente attratto dalla ‘tragicità’ di questa Pietà michelangiolesca.

[547] # Monti 1977. E aggiungeva: “Una certa stanchezza mentale spesso mi tormenta e anche una mancanza della mia eccellente memoria di prima del maggio ‘76”, quando in seguito a una caduta durante una campagna fotografica, fu costretto a interrompere la sua attività per qualche mese.

[548]  Quintavalle, che avrebbe dedicato a Monti ben quattro inserti tematici per l’Enciclopedia pratica per fotografare (Quintavalle 1979a-d), non dovette accogliere con sereno senso critico quel gran rifiuto se ancora nel 2010, ricostruendo le vicende della galleria di Lanfranco Colombo, mise tutto il suo impegno nel non citare il nome del fotografo che l’aveva inaugurata.

[549]  Monti 1977c.

[550]  # Monti 1975.

[551] Paolo Monti 1979, p.n.n.

[552] Paolo Monti 1979, tavv. 49-52. Piuttosto singolarmente neppure la monografia curata da Giovanni Chiaramonte nel 1993 prese in considerazione l’enorme e determinante lavoro condotto da Monti nell’ambito della documentazione del patrimonio architettonico e artistico italiano, giustificando questa assenza con la “sterminata vastità e metodologia utilizzata nella sua realizzazione” (ivi, p.8).  Questa rinuncia critica ebbe come risultato di fornire un’immagine di Monti forzosamente ridotta alle sue sole ricerche personali, suggerendo una dicotomia concettuale e operativa che non poteva rendere giustizia alla sua ricchezza intellettuale ed espressiva.  Al saggio di Chiaramonte sembrava riferirsi implicitamente anche Roberta Valtorta (1993, p.31)  sottolineando la necessità che “questa unità ideale dell’opera di Monti va[da] studiata e ricostruita laddove è stata separata.”

[553]  # Racanicchi 1982.

[554] # Chiaramonte, Crippa, Loffi Randolin 1983.

[555] Cavanna, Paoli 2016.

[556] V.P. 1980.

[557]Federico Barocci 1975. La sequenza di immagini che formava l’audiovisivo, realizzato da Monti in collaborazione con Pino Barile e Antonio Guerra, non venne documentata in catalogo, il cui apparato fotografico comprendeva però una breve sequenza finale di dieci tavole – da quello ricavate – nelle quali la pura documentazione delle opere lasciava il posto ad una indagine comparativa, condotta visualmente, tra testimonianze pittoriche e immagini fotografiche di luoghi urbinati ottenute ponendo una cura particolare nel ricollocare la ripresa nel preciso punto di vista sotteso al  particolare pittorico, nella convinzione – direi – di una sostanziale comunanza di lettura prospettica delle due modalità narrative, ma anche alla ricerca di conferme testimoniali. Questa suggestione di utilizzo del  reperto figurativo quale fonte documentaria non sembrava metodologicamente lontana  dal modello proposto da Sereni 1961 (ma la stesura del saggio datava al 1955). Per una profonda discussione della problematica “rappresentatività e (…) intuizione del «tipico», che dell’opera d’arte costituisce, appunto, una nota saliente”, (ivi, p.23), si veda Romano 1978, da integrare con la sua Introduzione alla seconda edizione  dello stesso saggio (1991), in cui vennero ulteriormente ribaditi i rischi metodologici insiti nel voler “ridurre ingenuamente le immagini antiche ad istantanee dal vero”, p. xxiv. 

[558]Santa Cecilia 1983a, tavv. liv – lxxxvii. La lettura fotografica adottava la formula dell’accostamento con le riprese a colori realizzate da Antono Guerra dello Studio Villani di Bologna, rigorosamente replicate sulle inquadrature montiane.  Il confronto tra le due serie, per precisa scelta progettuale non determinava l’adozione di nuove sequenze di lettura derivate e imposte dall’uso di differenti materiali sensibili,   ma consentiva di rilevare sottili variazioni nella sottolineatura dei dettagli, dei rapporti chiaroscurali e di massa; in particolare l’immagine monocroma lasciava emergere in più casi una maggiore evidenza della materia pittorica, accentuando il contrasto generale.  Nella stessa occasione venne prodotto anche un audiovisivo, dovuto ad Arno Hammacher, realizzato a partire dalla metalettura del dipinto condotta sulle stampe a colori realizzate da Antonio Guerra, cfr. Valtorta 1983. La pluridecennale attività  dello Studio Villani è stata studiata da Quintavalle, Barbaro 1980. 

[559]Emiliani 1983, p.13.

[560]  Pellizza da Volpedo 1980.  Ringrazio Aurora Scotti per avermi a suo tempo fornito le preziose informazione relative alle modalità di committenza e di realizzazione di questo incarico. La ricognizione di Monti, condotta sotto lo sguardo attento della stessa Scotti e di Maria Mimita Lamberti, richiese una sola giornata di lavoro e si concretizzò in quattro rullini in formato 35mm. (AM-FF, serie G17933; 3211L21A-36A; 3603L02-38; 3604L02-37;  3605L01A-37A; B.123.21.14) per un totale di 126 riprese quasi equamente distribuite tra le due opere (Fiumana: 56; Il Quarto Stato: 69).

[561] Scotti 1986, sch.n.1088, p.412.

[562] Ivi, sch.949, p.363.

[563] Cfr. Del Guercio 1980 e specialmente Scotti 1981. Dopo il primo  panorama sintetico della situazione italiana tracciato da Bordini 1991, il tema è stato più puntualmente affrontato in I Macchiaioli 2008; Miraglia 2012.

[564] Cfr. Scotti 1986, sch.939, p.359 per il riferimento esplicito al David di Michelangelo nel gesto della mano che regge la giacca della figura centrale (Giovanni Zarri), dettaglio che Monti  sottolineò in una delle ultime riprese (AM-FF, 3605/17-17A).

[565] Dubois 1996, p. 149, ma si veda tutto il capitolo, Il colpo di taglio, pp.149-196, con rimandi significativi e coincidenze con le riflessioni di Krauss 1996, in particolare il capitolo, Stieglitz: equivalenti, pp.127-138.

[566] Dubois 1996, p.189. Significativo mi pare il fatto che le considerazioni sull’effetto di composizione determinato dal taglio/inquadratura si dimostrino criticamente efficaci sia in presenza di soggetti formalmente iperdeterminati quali i dipinti sia in soggetti costitutivamente privi di determinazione formale quali le nuvole.

[567] Aronberg Lavin 1984, pp.122-149.

[568] La serie archivistica comprende anche una fotografia, di autore non identificato, che ritrae Monti al lavoro sull’affresco staccato tav. 186).

[569] Longhi 1946, p. 44; un’opera che Monti ben conosceva come risulta nell’intervista rilasciata nel 1980 (V. P. 1980).  In questa seconda edizione del volume le tavole, stampate in fototipia dagli Alinari a Firenze, passarono da 184 a 207; la discordanza tra la data apposta in prefazione (Firenze, ottobre 1942) e la data di edizione segnava la drammaticità di quegli anni.  Il modello 1927-1946 risulta insuperato, per novità e fascinazione, nell’ambito della stessa produzione longhiana: si veda per confronto Longhi 1951, nel quale il formato del volume e l’accurata stampa a colori favoriscono una lettura delle condizioni materiali dell’opera, mentre l’interpretazione fotografica, spente le suggestioni delle avanguardie,  si presenta quasi come un ritorno all’ordine.

[570] La produzione ottocentesca dei grandi studi non offre di consueto esempi di lettura analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne a questa, ma resta ancora quasi del tutto inesplorata la coeva e meno canonica produzione degli studi fotografici minori, locali, che a volte riserva sorprese di rilevante interesse. 

[571] Portoghesi 1967.  

[572] Il corpus fotografico pubblicato in Portoghesi 1967 costituiva l’applicazione monografica di una metodologia già adottata nel 1966 nel volume dedicato a Roma, destinata a  “determinare nel lettore un rapporto critico attivo” attraverso “una sequenza di immagini che aspira anzitutto alla continuità del racconto (…), una sintesi visiva che volta per volta chiarisse un ‘pensiero architettonico’” avvalendosi anche di un’impaginazione che si proponeva di restituire “quasi una architettura in movimento, quasi fossero la sequenza di una serie di quei colpi d’occhio che tanta parte hanno nel nostro modo di vedere gli insiemi”; a ciò si accompagnava una consapevole scelta del sistema di “stampa in rotocalco quale l’unica tecnologia (…) in grado di fornire dei neri pieni capaci di restituire la ‘carnosità’ e la ‘sensualità’ delle soluzioni architettoniche.”, Portoghesi 1966, Presentazione, p.n.n.

[573] Borsi 1975, le  foto di Monti riguardavano in particolare la basilica di Sant’Andrea (tav. 187) e la chiesa di San Sebastiano (tav. 188) a Mantova. Le altre opere del catalogo albertiano vennero illustrate da Sergio Anelli dello staff Electa, con immagini di grande qualità, e per certi versi prossime a quelle di Monti, e dal fiorentino Ivo Bazzecchi.

[574] Luporini 1964, cfr. Toschi 2020.

[575] Battisti 1976, p.9. Del volume era stata realizzata una prima edizione di seicento esemplari dalle edizioni ERI – Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, nel 1975.  Bruno Zevi, rispondendo alle sollecitazioni di quest’opera, dedicò un numero di “Architettura – Cronache e Storia” (Zevi 1977) a una rilettura delle opere brunelleschiane, accompagnata da fotografie di Pino Abbrescia e  Fabio Santinelli, di Eugenio Monti e della contessa Pupa Bucci Casari.

[576] Cfr. Battisti 1976, p. 109.

[577] Si veda la puntuale messa in relazione della piazza della SS. Annunziata con il portico dell’Ospedale degli Innocenti, esito del montaggio in panoramica di due riprese successive (tav. 190), pubblicata  in Battisti 1976, pp. 56-57. A questo ciclo di lavori di Monti venne dedicata una mostra con relativo catalogo (Paolo Monti 1986), che costituì  un chiaro esempio di occasione mancata: non solo il volume non comprendeva alcun testo critico sull’operare di Monti e sulle occasioni in cui vennero realizzate quelle fotografie, ma le stesse immagini pubblicate erano prive dei dati identificativi essenziali.

[578] “Una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani.”, citato in Bertelli 1984, p. 7.

[579] In risposta alla domanda “Nella fotografia di architettura qualcuno sostiene che non è così grave la deformazione prospettica: lei che dice?”, in Schwarz 1978.

[580]  “seizing every opportunity afforded by scaffolding to approach it closely, and putting the camera in any position that will command the sculpture, wholly without regard to the resultant distortions of the vertical lines; such distortion can always be allowed for, if once the details are completely obtained.”, Ruskin [1855] 1903, p. 13.

[581] Olivato, Puppi 1977. Monti avrebbe dovuto essere  coinvolto anche nella realizzazione del volume successivo di Borsi, dedicato a Bernini (1980), ma il progetto non andò in porto  poiché –  come gli scrisse amichevolmente Massimo Vitta Zelman – “Purtroppo le condizioni che proponi sono esattamente il doppio di quelle che altri fotografi si offrono di praticarci, e di quanto ci permette il nostro budget per questo volume.”,  # Vitta Zelman 1979.

[582] # Monti 1977.

[583] Olivato, Puppi 1977, p. 169.

[584] Emiliani 1979, fig.198.

[585]  Paolo Monti 1979, fig. 33. A significarne la rilevanza, questa stampa venne pubblicata anche in quarta di copertina del volume.

[586] Monti 1964a, cfr. supra NOTA 192.

[587] Emiliani 1979, fig. 216.

[588]  Emiliani 1983.

[589] Diverse furono le soluzioni adottate da Monti dieci anni dopo, quando ebbe occasione di misurarsi con l’archeologia classica nel corso del viaggio in Turchia fatto con Romeo Martinez: qui le foto dei mascheroni e di certe statue acefale ricordano piuttosto i fotomontaggi romani di Florence Henri degli anni Trenta.

[590] Chiaramonte 1993, p. 15.

[591] Lamy-Lassalle 1958.

[592] Wittkower 1959, in cui Monti muoveva lungo la linea tracciata all’inizio del Novecento da certa fotografia piemontese particolarmente attenta alla storia dell’arte locale: da Pietro Masoero (Cavanna 1985) a Francesco Negri (Bergaglio, Cavanna 2006).

[593]  Felici 2011, p. 114

[594]  Emiliani 1983, p. 11.

[595] A margine di quella collaborazione nacque il volume El sciôr Brüsa: Tiritere milanesi (Massarotti 1968), pubblicato dalla casa editrice che aveva in Emiliani uno dei collaboratori più autorevoli. Oltre a Emiliani e Massarotti, la redazione editoriale della Storia era formata da Giorgio Cusatelli, direttore editoriale di Garzanti,  Gianni A. Papini, Vittorio Spinazzola e Lucio Felici, mentre l’impaginazione era di Pio Colombo. Sulla genesi e sulle vicende produttive dell’opera si  veda  Felici 2011. Monti, che aveva già avuto modo di lavorare per Garzanti collaborando a “L’Illustrazione italiana”,  fu l’autore della maggior parte delle fotografie di architettura e scultura.

[596] Emiliani 1997.

[597] Emiliani, Foschi 2017 che riprendeva in parte Emiliani 1995, p. 8.

[598] È ovvio, ad esempio, che non fu Monti a mettere a punto i primi obiettivi decentrabili per il 35mm, semmai a definirne una possibile metodologia d’uso. Per quanto riguarda i negativi poi, basti richiamare le numerose testimonianze del fotografo già citate nel testo per comprendere che l’esito finale delle sue letture era costituito dalla stampa fotografica e non dal negativo, non di rado riquadrato.

[599] Ancora nel 1969, mentre erano in corso i primi rilevamenti per il centro storico bolognese e la seconda campagna appenninica, Emiliani e Monti fecero viaggi a Roma e a Napoli con una serie di tappe intermedie, toscane e laziali (Mugello, Arezzo, Castiglione Fiorentino, Monte San Savino, Orvieto, Civita di Bagnoregio, Orte), ancora per la Storia della Letteratura Garzanti; #  Monti 1969a.

[600] Citato in Schwarz 1978.

[601] # Borsi 1979, relativa al volume dedicato a Bernini, poi non affidato a Monti cfr. supra  NOTA 581.

[602] Calò Mariani 1984.

[603] Leon Battista Alberti 1972, p. 15.

[604] Mi riferisco in particolare a TCI 1969a, che accanto alla documentazione museografica ospitava immagini di Villa Pallavicino realizzate nel 1963 e  già pubblicate in Le ville genovesi 1967.

[605] # Manzutto 1968.

[606] TCI 1969b rispettivamente alle tt. 15, 16,17 e tt.30, 31; 71,72. Una condiziona analoga si ritrova nel successivo volume dedicato alle Marche (TCI 1971),  che vedeva coinvolti come autori principali Monti e Berengo Gardin, nel quale –  forse ancor più per una certa vicinanza tra i due autori – si potevano riscontrare analoghi trattamenti dello stesso soggetto, come nelle riprese ambientate del Collegio Universitario di De Carlo (Berengo Gardin, t. 12) e della chiesa di San Bernardino (Monti, t. 13) non per caso affiancate nell’impaginato di Manzutto. Nel caso invece del successivo volume dedicato a Milano (TCI 1972a) furono Berengo Gardin e Toni Nicolini a restituire l’Immagine di Milano contemporanea, mentre Monti ne illustrava il patrimonio artistico e architettonico (Milano nel tempo).

[607] TCI 1970.

[608] Arslan 1970. Una parte di quella documentazione confluì poi in Zorzi et al. 1971.

[609] Arslan 1970, fig. 100-101.

[610] Per quel che riguarda gli antecedenti: per Ponti  cfr. https://www.alinari.it/it/dettaglio/FCC-F-010876-0000 ed anche – registrata come anonima – https://www.gettyimages.it/detail/fotografie-di-cronaca/view-of-the-ponte-dei-sospiri-from-the-ponte-fotografie-di-cronaca/74861053?adppopup=true ; per Sommer, cfr. Sommer 1992, t. 44, elencata in Sommer 1873 ai nn. 3559-5763-3665-3764; per Filippi: https://catalogo.beniculturali.it/detail/Veneto/PhotographicHeritage/CRV-F_0013950; per Pasinetti TCI 1947, t.181.

[611] Si veda Galluzzo 2015.

[612]  Chiesa Butazzi, Monti 1974. Dalla nota di chiusura si ricava che la realizzazione del volume – concepito da Peppi Battaglini,  allora manager dell’editore Görlich – era stata suggerita da Vahan Pasargiklian, potente amministratore delegato della Banca Cattolica del Veneto molto vicino a Roberto Calvi, già a capo della Banca Popolare di Milano e socio fondatore della Casa Armena di Milano a cui afferivano anche i fratelli Pambakian.  A Franco Maria Ricci si dovevano l’impaginazione e il progetto della sovraccoperta: la rielaborazione di un chimigramma su fotografia di Monti che a sua volta richiamava la silhouette della gondola ne Il Palazzo Ducale da San Giorgio, 1908, di Claude Monet.

[613]Chiesa Butazzi, Monti 1974, pp. 126-129.

[614] Tra le altre  Muro in Rio Terrà dei Pensieri, 1949,  tav. 078 (Chiesa Butazzi, Monti 1974, p.96) o L’angelo della morte, (Rio SS. Apostoli), 1951, (tav. 050).

[615] Si veda il dettaglio del reggi cordone a forma di cavalluccio marino, sullo sfondo del faro di San Giorgio Maggiore (tav. 211, Chiesa Butazzi, Monti 1974, p. 117 in cui adottò  una precedente soluzione di Bruno Stefani  (tav. 212), pubblicata in “Fotografia” 9 (1956) n. 7, p. 31 giusto accanto al ritratto che Monti fece a Milena Milani.

[616] Tav. 213, ampiamente riquadrata, che costituisce una variante di ripresa di quella pubblicata in Zanzi 2010, p. 36 come Riflessi, Venezia, 1948. Trattandosi con tutta evidenza di un controluce diurno, l’operazione di Monti richiama immediatamente – come espediente tecnico narrativo illusionistico-  la serie dedicata a Venezia al chiaro di luna da Carlo Naya intorno al 1870.

[617] Muraro 1962.

[618] In quegli anni Monti collaborò a progetti editoriali dedicati a altre città venete come Padova e Verona (Valeri 1967; Brugnoli 1972), entrambi per editori bolognesi, fornendo prestazioni non più che professionalmente corrette, dalle quali si distaccava nettamente la bella sequenza del monumento a Cangrande (Brugnoli 1972,  pp. 23-28) dove leggeva i dettagli della scultura e chiudeva con l’ambientazione a Castelvecchio; un procedere che apparteneva alle più raffinate letture della museografia di Carlo Scarpa.

[619] Arcari 1983, p. 7.

[620] Analogie si riscontrano anche  nel contenuto e nell’articolazione dei soggettari dei due autori, da cui risultano non solo i nomi di luoghi non consueti, dall’ Appennino bolognese a Procida, ma anche molte voci comuni come “alberi”, “muri”, “riflessi”.

[621]  Quintavalle 1979d. Alcune di quelle fotografie, e altre di Orta, Comacchio, Peschici e Pisticci,  vennero utilizzate  da Guidoni 1980, tavv. 51-58. Altre fotografie di Monti costituivano nello stesso volume il corredo iconografico di Soragni 1980 e vennero realizzate appositamente nell’agosto del 1979 su precise indicazioni dell’architetto, tanto che ne vennero pubblicate ben 21 delle 25 commissionate. La serie fotografica seguiva l’andamento della cinta muraria (esterno ed interno) per poi spostare la propria attenzione sulla piazza e specialmente sul Duomo (esterni e interni), quindi sulle principali architetture civili della cittadina.

[622] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Purtroppo neppure la  recente e meritoria pubblicazione di parte di quel lavoro (Monti 2022), certo legata alla nomina di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022, ha considerato le riprese a colori realizzate in quella occasione.

[623] Cosenza 1968, p. 14 e p. 32, con foto dell’autore.  L’ingegner Cosenza, figlio di Luigi del quale Monti aveva fotografato varie architetture, avrebbe poi pubblicato Cosenza,  Jodice 1993.

[624] Una prima mostra documentaria era stata presentata a Genova, a Palazzo Ducale,  nel maggio 1962, quindi a Milano, Villa Reale, nel maggio 1963. Il contratto con Monti, stipulato a Genova il 25 giugno 1963 (# Italia Nostra 1963), riguardava quindi la preparazione del volume che da quella prese spunto, pubblicato quattro anni  più tardi:  Le ville genovesi 1967; alcune di quelle riprese vennero poi ripubblicate in  TCI 1972b. Ricordiamo che nel 1980 Italia Nostra avrebbe assegnato a Monti il Premio Nazionale “Zanotti Bianco” per il suo “contributo decisivo ad affinare le coscienze e diffondere le responsabilità per il restauro conservativo delle nostre città storiche”.

[625] Brawne 1965; solo nel 1968 Pancaldi venne chiamato dal Museum of Modern Art di New York, assieme ad Albini, Angelini, Bassi Boschetti e Scarpa, a rappresentare l’Italia nella mostra Architecture of Museums (25 settembre-11 novembre 1968), della quale Monti possedeva il catalogo. La serie di riprese di Monti (http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+PARTICOLARI+DELL%27ALLESTIMENTO+DEL+PROFESSOR+ANDREA+EMILIANI%2C+ARCHITETTO+LEONE+PANCALDI ), ha una datazione compresa tra agosto e ottobre 1965). Per l’affidamento a Mulas si  veda Emiliani 2006.

[626] Porretta Terme 1969; Agostini, Mari, Orlandi 1981. Si veda anche Orlandi 2012, a cui si rimanda per la ricostruzione puntuale delle campagne di rilevamento di Monti, pur non concordando per ragioni diverse con le valutazioni critiche lì espresse. Gian Franco Fontana (2003) ricordava con affetto quando si riunivano “la domenica mattina in via Santo Stefano presso la sede della casa editrice Alfa guidata dal compianto libraio-editore Elio Castagnetti. In quel ‘mitico’ circolo domenicale, di cui era leader Andrea Emiliani. (…)  In quegli anni si era aggiunto al gruppo un famoso fotografo di Milano, Paolo Monti, che su invito di Emiliani, aveva intrapreso una campagna fotografica sul nostro territorio. Egli vide le mie fotografie (…) e ne fu soddisfatto. Tanto che nel 1968, su incarico delle Edizioni Alfa, illustrammo assieme un grosso volume intitolato Questa Romagna due e curato da Andrea Emiliani.”

[627] Agostini, Mari, Orlandi 1981.

[628] Allievo di Monti all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

[629] Emiliani 1971, p. 68.

[630] Fanti 2015, p. 144.

[631] Emiliani 1995, p. 13.

[632] Si confronti ad esempio la ripresa di una via gradonata di Fiumalbo (tav. 224) con quella di Trevi (tav. 200).

[633] Emiliani 2001. Lo stesso Monti 1981a, p. 138, riconosceva che “Il nostro interesse deve rivolgersi anche alle cose cosiddette [architetture] ‘popolari’ (…) senza dimenticare che queste opere, come le grandi, vivono di un ambiente che io definisco la quarta dimensione dell’architettura.”

[634] Agostini, Mari, Orlandi 1981; tutte le citazioni successive, tranne ove diversamente indicato sono tratte da questo testo. In realtà  tra le migliaia di riprese ne compaiono anche alcune dedicate a luoghi “troppo modernamente compromessi” (tav. 225).

[635] Gambi 1974, ma già Jorge Luis Borges, e prima di lui Lewis Carroll, avevano avvertito dei rischi legati alla redazione di una “mappa dell’impero” in scala 1:1, ovvero non selettiva.

[636] Gli esiti dell’indagine settoriale vennero fatti propri dal Piano per la tutela del centro storico progettato da Romano Carrieri, Giancarlo Mattioli, Vieri Parenti e Roberto Scannavini, cfr. Magrin 2014.

[637]  Cervellati 1983.

[638] Monti 1970a. Se ne veda l’accurata sintesi in Frongia 2013, p. 117.

[639]  Sebbene questa indicazione sia stata sovente sottaciuta dai commentatori più critici di quel progetto, questo prevedeva anche la successiva considerazione “del traffico urbano, che a sua volta deve essere documentato in opposizione alle foto di cui al punto 1)”, come testimoniato in termini esemplificativi nella sezione La città «garage» in Bologna 1970, pp. 189-197.

[640] Monti, in Dal Bo [1981] 1997.

[641] Monti 1980a, p. 171.

[642] Quell’obiettivo era stato utilizzato anche nella coeva campagna condotta per Arslan 1970.

[643] Monti sarebbe poi stato chiamato a fotografare quella casa, “così come la morte l’aveva lasciata”, nei giorni immediatamente successivi al 19 gennaio 1981, ma quella ricognizione fatta “nella luce un poco irreale dei riflettori” non può certo essere annoverata tra i lavori migliori e più sensibili del fotografo; cfr. Berti Arnoaldi 1986.

[644] Monti 1970b, p. 53, riedito col titolo meno affascinante de Il rilevamento fotografico del centro storico di Bologna in Paolo Monti 1983, p.127, quindi ripreso ripristinando quello originale in Bertolini 2004, pp.76-77 e Valtorta, 2008, pp.114-117 ma ponendolo sotto il titolo più generale de La scoperta della città vuota che era invece quello del capitolo centrale di Bologna 1970.

Quell’auspicio era destinato a concretizzarsi almeno nelle successive campagne dedicate ad altri centri storici emiliani e romagnoli. Si veda anche Bravo 2009 per un’analisi storico urbanistica di quel progetto.

[645] #  Monti 1969c.

[646] Nel febbraio del 1970 Monti minacciava di interrompere la collaborazione se non fosse stato saldato almeno il 50% di quanto fatturato entro il 10 marzo. “Come lei sa ho incominciato a lavorare ai primi di agosto dello scorso anno [cioè 1969]. (…) “Si deve poi considerare che molto presto bisognerà provvedere alla stampa degli ingrandimenti, e saranno molti, per la Mostra, e a progettare e montare lo spettacolo audiovisivo, al quale la Società Olivetti contribuisce prestandoci le attrezzature.”, # Monti 1970b.

[647] Emiliani 1970. Per la datazione delle campagne di rilevamento relative agli altri centri storici, all’Appennino e alla pianura bolognese si veda Orlandi 2012.

[648] Bologna 1970, p. 6.

[649] Tav. 227. La mostra venne poi trasferita a Budapest in occasione del XXII Congresso internazionale C.I.H.A – Comité international d’Histoire de l’Art del settembre 1969.

[650] L’avventura di un fotografo (Calvino 1958), costituiva il rifacimento narrativo di Calvino 1955. Quel primo testo aveva sollevato notevoli  perplessità nel mondo fotoamatoriale e venne  fortemente criticato da Cocchi 1955, che definì il testo di Calvino  “una specie di ‘processo al fotografo dilettante’, insomma, ma un processo che non si risolveva in un ‘verdetto’ giusto e ed efficace.” Le fasi di rielaborazione di quel testo sono state ricostruite da Falcetto 1992. Per un approfondimento del rapporto tra Calvino e la fotografia si vedano Papa 1980; D’Orlando 2012 (26 luglio 2016). Per un inquadramento generale resta fondamentale Belpoliti 1996, in particolare il capitolo Fotografia, pp. 113-130. La citazione dell’autore argentino è tratta da Cortázar 1963.

[651] Monti 1970b, p. 53.

[652] Emiliani, Foschi 2017.

[653] Emiliani 1970, p. 56.

[654] Cervellati 1984.

[655] Benjamin [1931] 1966, p. 71.

[656] Ugo Mulas, Un archivio per Milano, in Mulas 1973, pp. 83-84.

[657] Paolo Monti 2013 (23 05 2016).

[658] Orlandi 2012, p. 74.

[659] Doti 2016.

[660] Frongia 2016, p. 540. Giova ricordare qui che anche la “materiale obliterazione del rumore visivo della città contemporanea” che sarebbe stata posta in atto dagli Alinari è poco più che una mitologia storiografica, insostenibile non appena si consideri un poco più a fondo la loro produzione complessiva.

[661] Frongia 2013, p. 111.

[662] Zannier 2007 (11 03  2016). In occasioni precedenti Zannier si era mostrato ben diversamente disposto a comprendere quelle ragioni, considerando quelle “fotografie (…) come ipotesi iconica di ‘restauro’, fissata però in un’atmosfera catartica e cimiteriale.”, Zannier 1991, p. 60.

[663] Colombo, Guerra 2014, p. 57.

[664] Frongia 2013, p. 119, che in quella occasione aveva riconosciuto come “Il merito di Monti, dunque, non fu solo quello di saper dialogare con i saperi di altre discipline – come l’urbanistica, l’architettura, la storia urbana, il restauro – ma anche di riconfigurare lo statuto artistico della fotografia (…).  Visto retrospettivamente, tuttavia, il progetto di Paolo Monti rimase un caso relativamente isolato.”

[665] “the non-appearance of author, the non-subjectivity. That is literally applicable to the way I want to use a camera and do”, citato in Katz 1971, p. 87.

[666] Ferretti 1980.

[667]  Orlandi 2012, p. 80, che pareva imputare quasi al solo  Monti la responsabilità di quel conservative turn.

[668] “huge image repertoire, showing a monochromatic city petrified in time, in an almost metaphysical expression of architectural spaces and complex urban frameworks”, Bravo 2009 (21 04 2022).

[669] “the nostalgic image of a city untouched by modernity, full of hidden secrets and architectural surprises, a city that only the glance of the flâneur could fully appreciate”, De Pieri, Scrivano 2004.

[670] Realizzate per Raspi Serra 1971; Raspi Serra 1972, entrambi con progetto grafico di Birelli, che prediligeva come di consueto una stampa contrastata che evidenziava le rugosità ma impoveriva la resa della più fine tessitura delle materie, delle superfici. Quel corpus di fotografie (negativi su lastra e su pellicola, stampe)  oggi costituisce il Fondo Paolo Monti del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. In seguito al recente riordino si è proceduto alla catalogazione e digitalizzazione delle immagini e all’inventariazione e archiviazione dei fototipi originali, cfr. https://www.museoetru.it/etru-a-casa-throwback-thursday/il-fondo-paolo-monti (13 05 2022).

[671] Viterbo, Loggia del Palazzo Papale in Raspi Serra  1972, p. 135.

[672] Matteucci 1979. La studiosa  aveva già pubblicato due volumi con fotografie di Monti: Matteucci 1968 e Matteucci,  Lenzi 1977. 

[673] Si vedano anche le magistrali riprese del Casino Nicoli Scribani a Sant’Antonio al Trebbia (PC) in Matteucci 1979, pp. 46-49, erroneamente identificato nella scheda d’archivio del Fondo Fotografico della Fondazione 1563 di Torino con la villa Scribani-Rossi di Bomporto (MO), non indicando neppure l’autore della ripresa; cfr. https://archiviostorico.fondazione1563.it/oggetti/142693-giuseppe-cozzi-scala-di-villa-scribani-modena/   (31 03 2022).

[674] Regione Piemonte 1980,  Art.1.

[675] Alberti, Rainaldi, Rizzi 1983;  Monti 1984.

[676] La stampa originale, di formato quadrato, è stata tagliata e restituita in formato rettangolare in Alberti, Rainaldi, Rizzi 1983, t. 38.

[677] Una qualche analogia progettuale si poteva intravvedere nella campagna fotografica realizzata da Gabriele Basilico nel 2001 in relazione alla Legge Regionale 19/1998 sulla riqualificazione delle aree urbane in Emilia Romagna (Basilico 2001), ma quella sistematicità di lettura adottata da Monti nel rilevamento architettonico si poteva riscontrare – pur in un contesto circoscritto e iperdeterminato – solo nell’atlante fotografico del duomo di Modena realizzato da Cesare Leonardi, cfr. Armandi 1985.

[678] Valtorta 2016 (12 04 2022).

[679] Leonardi 2017. Un’ ingenua ipotesi critica che fa sorridere se si considera l’attività di Basilico, Chiaramonte, Ghirri, Guidi o magari Vaccari, e degli altri compagni di strada; anche per Mario Cresci – per certi versi più prossimo a quel clima – la complessa produzione, di forte impronta analitica, degli anni Sessanta venne solo episodicamente (e magari discutibilmente) utilizzata in contesti di politica militante.

[680] Deceduto poco più che quarantenne nel marzo del 1960, cfr. Zannier 1960, con una buona antologia di immagini. Un importante nucleo di stampe è stato donato al CSAC nel 1981 dalla vedova Claudia Parmiani, su indicazione di Nino Migliori.

[681] Sulla sua figura si vedano ora i contributi raccolti in Cervellati 2021.

[682] Si veda ad esempio Scene e costumi 1969 [per la Turandot di Puccini]; con foto b.n. di Paolo Monti, foto a colori di Foto Gnani (i fratelli Primo e Secondo).

[683] Bertelli 2010,  p. 15 con improbabile titolazione e datazione “Informale, 1960.”

[684] # Umanitaria 1960.

[685] Da #  Monti 1970a risulta “18 dicembre (…) Accad. BB AA (…) Incontro con Ezio Raimondi per Corso Fotografia Università”, AM-FA, S.3, Agende giornaliere, 1970, b. 6, reg. 2. Tra gli allievi anche Milena Gabanelli e Olivo Barbieri, che ne conserva un ricordo certo non positivo: “All’università ero entrato in contatto con quello che si presentava come il mondo della fotografia, ma ho capito subito che si trattava della peggiore deriva del fotoamatorismo. Ho frequentato al Dams il corso di fotografia di Paolo Monti, le sue lezioni elogiavano il bianco e nero, il tecnicismo della stampa, il culto dell’aneddoto in stile «LIFE», i centri storici sterilizzati e mi è passata all’istante la voglia di fotografare.”, citato in Leonelli 2022 (21 04 2022).

[686] Milozzi 2020 (21 04 2022).

[687] Monti, in Dal Bo [1981] 1997.

[688] Oltre all’ovvia presenza di Pollack 1959, si segnalano Braive 1965 ; Gernsheim 1966; Scharf 1969; From Today 1972; Green 1973; Literature 1973; Nadar 1973; Zannier 1974; Cristofori, Roversi 1980.

[689] Pubblicato in Valtorta 2008, pp. 156-157. Quel richiamo allo “sviluppo storico” e lo stesso progetto più oltre citato confliggono con la testimonianza di Andrea Emiliani al quale Monti avrebbe confidato in quegli anni che “insegnare la storia della fotografia anziché le tecniche è un obiettivo che non mi interessa proprio in quanto insegnante”, Emiliani 2004,  p. 156, nota 32.

[690] # Monti 1980 ca.

[691] Zannier 1956c. Come ben sappiamo, le sue opinioni sarebbero profondamente mutate sia nei confronti di Vitali sia della storiografia fotografica.

[692] Un secolo di fotografia 1957. Ricordiamo che già nell’aprile del 1953, che fu l’anno della grande Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915,  si era tenuta alla XXXI Fiera Campionaria di Milano una  Prima Mostra storica della fotografia; iniziativa quasi dimenticata, promossa dal pittore Mario Ballocco nell’ambito della 2ª mostra dell’estetica industriale da lui curata (II Mostra dell’Estetica 1953), che vide la collaborazione di Pietro Donzelli e dell’Unione Fotografica, cfr. Donzelli 2006, p. 206.

[693] Racanicchi 1958. Sulla mostra della collezione Gernsheim si vedano anche la recensione critica di Giulia Veronesi, 1957, e  Red. 1957b.

[694] Paoli 2015 (22 04 2022).

[695] Monti 1955a.

[696] Monti 1964c.

[697] Monti 1963c.

[698] Per un’analisi dettagliata di quella stagione della storiografia italiana mi permetto di rimandare a Cavanna 2020. Furono più di quaranta i volumi variamente dedicati alla fotografia storica che videro la luce nel solo 1979, tra i quali la pubblicazione degli importantissimi “Annali” einaudiani.  Tra quelli connessi al progetto Electa va ricordata la  collana “Visibilia – Fotografia”, curata da Daniela Palazzoli, nella quale venne pubblicato anche Zannier 1979a, con un testo di Monti (1979a). Una prima rassegna di quella produzione venne fornita  in Fotografia e editoria 1979. Sintetici cenni ai programmi editoriali delle principali case italiane anche in Rosa 1979; Savonuzzi 1979.

[699] # Monti 1980 ca; tranne diversa indicazione, le citazioni successive sono tratte da questa fonte.

[700] Monti 1979b, p. 117. Il richiamo costituiva un’ulteriore, affettuoso riconoscimento – qui implicito – del ruolo svolto dal padre Romeo, “amatore molto esperto che passava parte della notte in queste operazioni silenziose e segrete dentro il bagno.”, Ivi, p. 112.

 

Fonti

Fonti archivistiche

Abbreviazioni:

AM-FA: Milano,  Civico Archivio Fotografico – Archivio Paolo Monti,  Fondo Archivistico

AM-FF: Milano,  Civico Archivio Fotografico – Archivio Paolo Monti,  Fondo Fotografico

ASTRN: Milano, Archivio storico della Triennale.

# Alfieri 1960 Bruno Alfieri, [Lettera a Ruth Lee], datata Milano, 17 settembre 1960, ASTRN, Ufficio stampa – richieste di fotografie,  TRN_12_DT_138_V, Unità 138

 

# Bassi Boschetti 1969 Studio Arch. Bassi Boschetti,  [Lettera a Paolo Monti], datata Milano, 4 Ottobre 1969, AM-FA, S. 2, Corrispondenza, Lavori vari, b. 2, fasc. 6

 

#  Berengo Gardin 1959 Gianni Berengo Gardin, [Lettera a Paolo Monti ], datata Venezia Lido, 22 gennaio 1959, AM-FA, S.2. Corrispondenza, Circolo La Gondola,   b.2, fasc. 11,

 

# Borsi 1979 Franco Borsi, [ Lettera a Carlo Pirovano], datata Firenze, 1 giugno 1979, AM-FA, S. 2, Corrispondenza,  Electa. Fantoni, b. 2, fasc. 5

 

# Bruno 1960 Giuseppe Bruno, [ Lettera a Paolo Monti], datata Mestre 14 gennaio 1960,  AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Carrese, Monti 1961 Vincenzo Carrese, Paolo Monti [Bozza di scrittura privata], datata  31 marzo  1961, AM-FA, S.2, Corrispondenza, [Atti sociali, contabilità, corrispondenza], b. 3. Fasc.13

 

#  CCIA Milano 1953 Camera di Commercio, Industria e  Agricoltura di Milano, Registro delle Ditte, 1953

 

# Chiaramonte, Crippa, Loffi Randolin 1983 Giovanni Chiaramonte, Maria Antonietta Crippa, Marina Loffi Randolin, [Progetto di mostra], datato Milano 31 marzo 1983, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Mostre personali, b. 2, fasc.4

 

# Chronology 1964 Chronology of The Department of Photography, May 1964, www.moma.org/ docs/press_archives/ 3415/releases/MOMA_1964_Reopening_0041_1964-05.pdf%3F2010+&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it.

 

# Coop. Il Libro Fotografico 1965-1966 Coop. Il Libro Fotografico, Bozza di statuto, s.d. [1965-1966], AM-FA, S.2, Corrispondenza, Associazioni fotografiche, busta. 3, fasc. 14, f.1

 

# Coop. Il Libro Fotografico 1966 Coop. Il Libro Fotografico, Il nostro programma, s.d. [1966],  AM-FA, S.2, Corrispondenza, Associazioni fotografiche, busta. 3, fasc. 14, f.2

 

# Coop. Il Libro Fotografico 1970 Coop. Il Libro Fotografico, [Bozza di progetto Monti],  s.d. [1970], AM-FA, Corrispondenza, Mostre Personali,  b. 2, fasc. 4

 

# Dell’Agnese 1960 Libero dell’Agnese, [Lettera a Paolo Monti], datata Venezia 7 gennaio 1960, AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Fotogramma 1961 Società Fotogramma, [Liquidazione], 1961, AM-FA, S. 2, Corrispondenza, Ufficio Distrettuale delle imposte dirette [di Milano], b. 2, fasc. 10

 

# Inquilini 1961 Inquilini (fascicoli personali), 1961, Milano, Casa di riposo per musicisti – Fondazione Giuseppe Verdi,  Archivio Storico, Attività, Stabili urbani, Via Vittoria Colonna 9, Inquilini, 7.2.2.3., – b. 12 / fasc. 22

 

# Italia Nostra 1963 Italia Nostra, sezione di Genova, [Contratto per il catalogo delle ville genovesi], 25 giugno 1963, AM-FA, Serie 2. Corrispondenza, Genova, b. 3, f. 16

 

# Jareckie 1964 Stephen B. Jareckie,  [Lettera a Paolo Monti], datata Worcester (MASS), 26 Ottobre 1964,  AM-FA, S. 2, Corrispondenza, Mostre, b. 3, fasc. 17

 

# Licenza 1961 Licenza di esercizio dell’arte fotografica rilasciata dalla Questura di Milano, 18 ottobre 1961, AM-FA, S.2 Corrispondenza, [Atti sociali, contabilità, corrispondenze], b.2, fasc. 3

 

#  Magagnato 1977 Licisco Magagnato, [Lettera a Monti], datata Verona, 28 aprile 1977, AM-FA, S.2, Corrispondenza ,  b. 2, Mostre personali,  fasc. 4

 

# Manzutto 1968 Giuliano Manzutto, [ Lettera a Monti], datata Milano 24 settembre 1968  , AM-FA, S. 2. CorrispondenzaTouring Club Italiano, b. 3, fasc. 20

 

# MoMA 1956 The Museum of Modern Art, New York, Diogenes with a Camera IV, 1956,  Press Release n. 35, online https://assets.moma.org/documents/moma_press-release_326034.pdf?_ga=2.10369078.2050784920.1613471138-15311224.1613471138 (01-12-2021)

 

#  Monti 1948 Paolo Monti, Intenzioni fotografiche, 1948, AM-FA,  S.1, Appunti di lavoro, b. 1, reg. 1

 

#  Monti 1950 ca Paolo Monti, Foto per Mostre e Pubblicazioni,  s.d. [1950 ca], AM-FA, Ss. 4.5,  Rubriche diverse,  b. 9, reg. 5

 

#  Monti 1956 Paolo Monti, [Lettera a Romeo Martinez], datata Milano, 26 luglio 1956, Parigi, Maison Européenne de la Photographie, Bibliothèque Roméo Martinez

 

#  Monti 1958 Paolo Monti, Lettera dall’Italia, s.d. [1958], AM-FA, S.7, Scritti diversi,  [Dattiloscritti diversi], b. 13, fasc. 10

 

#  Monti 1959 Paolo Monti, Diario lavoro Sandoz, 1959, AM-FA,  S.1, Appunti di lavoro,  b. 1, reg. 6

 

# Monti 1960 Paolo Monti, [Lettera a Libero dell’Agnese], datata Milano, 18 gennaio 1960,  AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b. 2, fasc. 11

 

#  Monti 1964 Paolo Monti, Note sul professionismo in Italia, s.d. [1964], AM-FA, S.7, Scritti diversi,  [Dattiloscritti diversi], b. 13, fasc. 10
#  Monti 1967 Paolo Monti, Curriculum vitae,  1967, AM-FA S. 9,  Miscellanea,  b. 16, fasc. 3

 

#  Monti 1969a Paolo Monti,  Agenda 1969, AM-FA, S.3, Agende giornaliere, Agenda 1969, b. 6, reg. 1

 

#  Monti 1969b Paolo Monti, Campagna fotografica per “Storia della Letteratura Italiana Garzanti”, 1965-1969, AM-FA, S. 4.4,Rubriche alfabetiche delle fotografie, b. 8, reg. 1

 

#  Monti 1969c Paolo Monti, [Lettera a Pier Luigi Cervellati],  datata Milano, 20 novembre 1969, AM-FA, S.6, Fatture di vendita, fasc.9

 

#  Monti 1970a Paolo Monti,  Agenda 1970, AM-FA, S.3, Agende giornaliere, Agenda 1970, b. 6, reg. 2

 

#  Monti 1970b Paolo Monti, [Lettera a Pier Luigi Cervellati],  datata Milano, 24 febbraio 1970, AM-FA, S.6, Fatture di vendita, fasc.9

 

# Monti 1975 Paolo Monti, [Lettera a Paolo Fossati], datata Milano, 13 aprile 1975, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Progetto di volume «Dall’architettura al paesaggio» Ed. Einaudi,  b. 5, fasc. 36

 

# Monti 1977 Paolo Monti, [Lettera a Paolo Fossati], datata Milano, 15 marzo 1977, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Progetto di volume «Dall’architettura al paesaggio» Ed. Einaudi,  b. 5, fasc. 36

 

# Monti 1980 ca Paolo Monti, Storia della fotografia in Italia dal 1839 al 1939, s.d., [1980 ca], AM-FA, S. 7, Scritti diversi,  [Dattiloscritti e manoscritti diversi], b. 13, fasc. 15

 

#  Piergiovanni 1959 Vittorio Piergiovanni,  [Lettera a Paolo  Monti],  datata Ancona, 23 novembre 1959,  AM-FA, S.2, Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

#  Piergiovanni 1960 Vittorio Piergiovanni,  [Lettera a Paolo  Monti],  datata Ancona, 17 gennaio 1960,  AM-FA, S.2, Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Pozzi 1958 Giancarlo Pozzi, Fotografia per pubblicità di saponeSchemi di sceneggiatura, datata Milano 2 maggio 1958, AM-FA,  S.2, Corrispondenza, Lavori per IBM, Fiat, Sandoz, Thompson, b.2, fasc.7

 

# Racanicchi 1982 Piero Racanicchi, [Lettera a Antonio Arcari], su carta intestata della Provincia di Torino – Assessorato alla Cultura, datata Torino, 13 settembre 1982, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Mostre personali, b. 2, fasc.4

 

#  Ragghianti 1959 Carlo Ludovico Ragghianti, [Lettera a Fulvio Roiter], datata Pisa, Museo Nazionale – Istituto di Storia dell’Arte, 15 novembre 1959, AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Roiter 1959 Fulvio Roiter, [Lettera  a Paolo Monti], datata 14 dicembre [1959], AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Scarpa 1962-1964 Carlo Scarpa, Schizzo prospettico per la collocazione del Polittico della Passione di Paolo Morando nella sala 20 al primo piano della Galleria, 1962-1964, Verona, Museo di Castelvecchio, Archivio Carlo Scarpa, n. 31731r

 

# Triennale 1957 XI Triennale, Ufficio Stampa. Riprese fotografiche e cinematografiche, 1957,  Milano, Archivio storico Triennale, TRN_11_DT_099_V Unità 99.6

 

# Triennale 1960 XII Triennale, Ordini e bolle di consegna di materiale fotografico e di archivio per Triennale e Centro Studi, 1960, ASTRN, TRN_12_DT_131_4

 

# Umanitaria 1960 Società Umanitaria – Fondazione P.M. Loria, Lettere di incarico a Paolo Monti, 1960, Milano, Archivio Storico Umanitaria, Insegnanti corsi diurni tecnico-artistici,  pratica n. 317, sottofascia N. 50, anno 1960

 

#  Vigo 1955 Fiamma Vigo, [Lettera a Paolo Monti], datata Firenze, 3 settembre 1955, su carta intestata “Numero arte e letteratura”, AM-FA, Monti, S. 2, Corrispondenza, Mostre Personali, b. 2, fasc. 4

 

# Vitta Zelman 1979 Massimo Vitta Zelman, [ Lettera a Paolo Monti],  datata Firenze, 1 giugno 1979, AM-FA, S. 2, Corrispondenza,  Electa. Fantoni, b. 2, fasc. 5

 

# Willie 1958 Willie, [Lettera a Giancarlo Pozzi], s.d. [1958],   AM-FA,  S.2, Corrispondenza, Lavori per IBM, Fiat, Sandoz, Thompson, b.2,

Fonti bibliografiche

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Antonio Arcari, Fotografia astratta e astrazione in fotografia, in Antono Arcari, Tranquillo Casiraghi, Cesare Colombo, a cura di, “Dibattito”, n.5,  “Foto Magazin Edizione italiana”, 3 (1963), n.1, gennaio, pp. 46-49

 

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Antonio Arcari, Chimigrammi (Paolo Monti tra fotografia e pittura), “Imago : proposte per una nuova immagine”, 6 (1965), n. 7, pp.n.n

 

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Arte astratta e concreta, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale,   4 gennaio-2 febbraio 1947),  a cura di Lanfranco Bombelli Tiravanti, con Franca Helg, Elena Berrone, Luciano Bonetti. Milano: Alfieri e Lacroix, 1947

 

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Atti del I Convegno Nazionale di Fotografia (Sesto San Giovanni,  Villa Zorn – 18 ottobre 1959) a cura della  Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni. Milano – Como: Photo Magazin, 1961

 

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Augusto Baracchini Caputi, Cinquantenario. Memorie curiose, in Michele Ghigo, a cura di, FIAF 1948 – 1998. Cinquanta anni di fotografia amatoriale in Italia. Torino: FIAF, 1998, pp. 15-17

 

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Bezzola 1960a  

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Bezzola 1960b  

Guido Bezzola, La II Biennale di Venezia, “Ferrania”, 14  (1960), n. 1, gennaio, p. 2

 

Bezzola 1962  

Guido Bezzola, Lettera agli amici fotografi, “Ferrania”, 16 (1962), n. 12, pp. 2-3

 

Bezzola 1963  

Guido Bezzola, Ancora sulla fotografia italiana, “Ferrania”, 17 (1963) n. 1, p. 2

 

Bezzola 1966  

Guido Bezzola, Sullo stesso tema,  “Ferrania”, 20 (1966) n. 3, marzo, p. 2

 

Bezzola et al. 1957 Guido Bezzola, Paolo Monti, Giuseppe Turroni, Italo Zannnier, Considerazioni sulla fotografia italiana, in 26 fotografi italiani 1957

 

Bianco su bianco 2005 Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di Pierangelo Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

Bietoletti  2014  

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Bolzoni 1960a  

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Bolzoni 1960b

 

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https://www.memofonte.it/studi-di-memofonte/numero-11-2013/#c-brandani-la-trasformazione-dei-modelli-autoriali-nelle-riviste-di-fotografia-negli-anni-50 (23 12 2021)

 

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Maria Stella Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia. Torino:  Istituto bancario San Paolo di Torino, 1984

 

Calvenzi 2003  

Giovanna Calvenzi, Il paesaggio come necessità, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003, pp. 118-209

 

Calvenzi, Siebenhaar-Zeller 2006 Giovanna Calvenzi, Renate Siebenhaar-Zeller, a cura di, Pietro Donzelli. Milano: Contrasto, 2006

 

Calvino 1955  

Italo Calvino, La follia nel mirino, “Il Contemporaneo”, 2 (1955) n.18, 30 aprile, p. 12

 

Calvino 1958  

Italo Calvino, L’avventura di un fotografo, in Id., I raccontiGli amori difficili. Torino: Einaudi, 1958, pp. 34-35

 

Camera Work 1913  

“Camera Work”, 10 (1913) , n.42-43, aprile-luglio

 

Camisa 1956  

Alfredo Camisa, Una critica alla critica, “Fotografia”, 9 (1956) n. 8, agosto, p.20.

 

Camisa 1958  

Alfredo Camisa, Su alcune tendenze della fotografia italiana d’oggi, in  Croci 1958, pp. 21-24, ora in Morello 2003a, pp. 244-247

 

Campany 2014  

David Campany, Walker Evans & the Written Word, “Aperture”, 63 (2014), n. 217, Winter, online: http://aperture.org/blog/walker-evans-written-word/ (21 05 2016)

 

Camuffo 2021  

Giorgio Camuffo, a cura di,  Imago  1960-1971: una rivista tra sperimentazione, arte e industria. Mantova: Corraini, 2021

 

Capobussi 1975  

Maurizio Capobussi, Fotoalchimia. Parliamo di tecnica con Paolo Monti, “Progresso fotografico”, 82 (1975) n. 5, maggio, pp. 41, 73

 

Carlo Scarpa 2004  

Carlo Scarpa nella fotografia – racconti di architetture (1950-2004), catalogo della mostra (Vicenza, Palazzo Barbarano, 24 settembre 2004 – 9 gennaio 2005), a cura di Guido Beltramini, Italo Zannier. Venezia: Regione Veneto – Marsilio,  2004

 

Carluccio 1981  

Luigi Carluccio, Paolo Monti. Antologia, Ikona Photo Gallery,[31 marzo – 9 maggio 1981] Venezia, San Marco 2084, al ponte San Moisé, “Panorama”, 20 (1981), 4 maggio, p. 18

 

Caruso 2016  

Martina Caruso, Italian Humanist Photography from Fascism to the Cold War. London: Bloomsbury, 2016

 

Casiraghi 1956  

Tranquillo Casiraghi, Un esame delle opere esposte, “Fotografia”, 9 (1956) n. 8, agosto, p.19

 

Castiglione 2017  

Florian  Castiglione,  Il linguaggio fotografico di Roberto Pane nel panorama culturale tra gli anni Trenta e il secondo dopoguerra, “Eikonocity”, 2 (2017), n. 2, pp. 23-40, DOI: 10.6092/2499-1422/5177

 

Cavalli 1947  

Giuseppe Cavalli, Ottimista a Venezia, “Ferrania”, 1 (1947) n. 9, settembre, pp. 2-4

 

Cavalli 1953  

Giuseppe Cavalli, Mostra della fotografia italiana, in Mostra della fotografia italiana (Firenze,  Galleria Vigna Nuova, 2-12 maggio 1953). Milano: Edizioni Il Progresso Fotografico, 1953

 

Cavalli 1957  

Giuseppe Cavalli, La prima mostra internazionale ad invito di Pescara, “Ferrania”,  11 (1957), n.1, pp. 12-13

 

Cavalli 1961  

Giuseppe  Cavalli, Dove ci si prova a fissare, ragionando con pazienza, certi confini,  “Ferrania”, 15 (1961), n. 3, marzo, pp. 15- 17

 

Cavalli et al. 1947  

Giuseppe Cavalli, Mario Finazzi, Ferruccio Leiss, Federico Vender, Luigi Veronesi,  Il Gruppo fotografico “La Bussola”, “Ferrania” 1 (1947) n. 5, maggio, p.5

 

Cavanna 1985  

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 20 aprile – 7 luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

Cavanna 2012  

Pierangelo Cavanna, Mostrare i documenti: una questione diplomatica, in Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, “ L’uomo nero”, N.S., 9 (2012),  n.9, dicembre, pp. 174-193

 

Cavanna 2016  

Pierangelo Cavanna, 1967, in Paolo Monti 2016, pp. 42-67

 

Cavanna 2019  

Pierangelo Cavanna, Universi, in Fotografia a Torino: dal dopoguerra al boom economico, catalogo della mostra (Torino, Villa Amoretti, 28 maggio – 29 giugno 2019), a cura di Laura Danna. Torino: Associazione per la Fotografia Storica, 2019, pp. 7-18

 

Cavanna 2020  

Pierangelo Cavanna, Il miele e l’argento: storie di storia della fotografia in Italia. Melfi: Libria, 2020

 

Ceccarelli 1993  

Francesco Ceccarelli, A mano libera e passi andanti, in: Emiliani, Zannier 1993,  pp. 277-296

 

Ceccato 1967  

Silvio Ceccato, Il trabocchetto filosofico della pelle,  “Roto C”, 1 (1967), n.3, giugno, pp. 3-4

 

Cecchi 1940  

Emilio Cecchi, La “Pietà”, di Palestrina, fotografie di Giuseppe Pagano, “Civiltà – Rivista bimestrale della Esposizione Universale di Roma”, 1 (1940), n. 1, pp. 67-73

 

Cecchi, Sapegno 1965 Emilio Cecchi, Natalino Sapegno,  Storia della letteratura italiana. Milano: Garzanti, 1965

 

Cervellati 1983  

Pierluigi Cervellati, Il censimento fotografico dei centri storici dell’Emilia e della Romagna, in Paolo Monti 1983, pp. 15-19

 

Cervellati 1984  

Pierluigi Cervellati, Paolo Monti e i centri storici dell’Emilia Romagna, “Rassegna”, 6 (1984), n.20, dicembre, pp. 32-37

 

Cervellati 1993  

Pier Luigi Cervellati, La fotografia come progetto, in: Emiliani, Zannier 1993, pp. 271-276

 

Cervellati 2021  

Pier Luigi Cervellati, a cura di, Andrea Emiliani. Presente e futuro. Faenza: Carta Bianca Editore, 2021

 

CFM  1963  

CFM – Circolo Fotografico Milanese, a cura di, Foto Annuario Italiano. Milano: Gorlich, 1963

 

Chargesheimer 1950 Karl-Heinz Hargesheimer [Chargesheimer], [Conferenza tenuta al Circolo Fotografico Milanese], “Fotografia”, 3 (1950), n.5, pp. 15-17

 

Chiaramonte 1993  

Giovanni Chiaramonte, a cura di, Paolo Monti. Fotografie 1950-1980. Milano: Federico Motta, 1992

 

Chiesa Butazzi, Monti 1974  

Grazietta Chiesa Butazzi, Paolo Monti, Venezia e la sua gondola. Milano: Görlich, 1974

 

Chiti 2001  

Giovanna Chiti, “Se non fosse per la lontananza…” Considerazioni e spunti da alcune lettere di Mario Giacomelli all’amico Alfredo Camisa, “AFT Rivista di Storia e Fotografia”, 17 (2001), n. 33, pp. 14-30

 

Cinelli et al. 2013  

Barbara Cinelli, Flavio Fergonzi, Maria Grazia Messina, Antonello Negri, a cura di, Arte moltiplicata: l’immagine del ‘900 italiano nello specchio dei rotocalchi. Milano: Bruno Mondadori, 2013

 

Cinelli, Serena 2013  

Barbara Cinelli, Tiziana Serena, a cura di, Arte e fotografia nell’epoca del rotocalco. Temi e metodi di una nuova tipologia di fonti per la storia visiva della contemporaneità, “Studi di Memofonte”, 6 (2013) n. 11, online:  https://www.memofonte.it/studi-di-memofonte/numero-11-2013/

 

Claudel 1933  

Paul Claudel, La légende de Prâkriti , “La Nouvelle Revue Française”, 22 (1933), n. 243, dicembre, pp. 801-832, ora in Id., Figures et paraboles. Paris : Gallimard, 1936, pp. 103-159

 

Claudel 1947  

Paul Claudel, Frammento sulla fotografia, “Ferrania”, 1 (1947) n.2, pp. 14-15

 

Clera 2011  

Giulia Clera, Circolo fotografico La Gondola: l’archivio storico: attività e collezioni, 1948-2010. Venezia: Studio LT2, 2011

 

Cocchi 1955  

Franco Cocchi, Incontri fra fotografia e vita: il fotografo dilettante a caccia delle immagini senza presunzione, “Ferrania”, 9 (1955), n. 12, dicembre, p. 11

 

Colombo A. 1975  

Attilio Colombo, La fotografia astratta di Paolo Monti, “Progresso Fotografico”, maggio 1975, estratto

 

Colombo C. 1958

 

Colombo C. 1959a

 

Cesare Colombo, Gli eroi complicati, “Popular Photography”, 3 (1958), n. 5, novembre, pp. 34-50

 

Cesare Colombo, La fotografia pubblicitaria in Atti 1959 1961, pp. 51-60

 

Colombo C. 1959b  

Cesare Colombo, I poeti con  lo stipendio?, in Atti 1959 1961, pp. 110-113

 

Colombo C. 1963a  

Cesare Colombo, La «jeune» photographie italienne, “Camera”, 42 (1963), n.1, pp. 3-4

 

Colombo C. 1963b  

Cesare Colombo, Paolo Monti “le immagini”, “Dibattito” n.8, “Foto Magazin”, 8 (1963), n. 5, estratto

 

Colombo C. 2003  

Cesare  Colombo, a cura di, Lo sguardo critico: cultura e fotografia in Italia 1943-1968. Torino : Agorà, 2003

 

Colombo C. 2007  

Cesare Colombo, Quei primi premi, in Tani 2007, pp. 24-27

 

Colombo L. 1969  

L.C. [Lanfranco Colombo], Un Calendimaggio della fotografia, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 140, maggio, p. 20

 

Colombo L. 1979  

Lanfranco Colombo, [Recensione di] P. Pollack, The picture history of photography [1977],  “Il Diaframma Fotografia Italiana”, (1979), n. 247, marzo, p. 17

 

Colombo L. 2010  

Lanfranco Colombo, Fotogrammi di una vita. Torino: Allemandi & C., 2010

 

Colombo, Guerra 2014 Cesare Colombo, Simona Guerra, Lezioni di fotografia: la camera del tempo. Roma: Contrasto, 2014

 

Coray, Scheiwiller 1979 Pieter Coray, Vanni Scheiwiller, Mario Negri: sculture; grafica di Max Huber, fotografie di Paolo Monti . Milano: All’insegna del pesce d’oro, 1979

 

 Corinaldi 1956  

Giulio Corinaldi, Dove va la nostra  fotografia artistica?, “Il Corriere fotografico”, 53 (1956), n. 46, dicembre, pp.31-33

 

Cortázar 1963  

Julio Cortázar, Le armi segrete. Milano: Rizzoli, 1963

 

Cosenza 1968  

Giancarlo Cosenza,  Gli spazi nell’architettura di Procida. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1968

 

Cosenza,  Jodice 1993 Giancarlo Cosenza,  Mimmo Jodice, Procida: un’architettura del Mediterraneo; introduzione di Toti Scialoja. Napoli: Clean, 1993
Crippa 2017  

Maria Antonietta Crippa, Messa in opera, o dell’architettura come costruzione. I cantieri del grattacielo Pirelli, in M. A. Crippa, Ferdinando Zanzottera, a cura di, Fotografia per l’architettura del XX secolo in Italia: Costruzione della storia, progetto, cantiere. Milano – Cinisello Balsamo: Politecnico Milano 1863 – Silvana Editoriale, 2017, pp. 238-255

 

Crispolti 1986  

Enrico Crispolti,  a cura di,  Fontana: catalogo generale.  Milano: Electa, 1986

 

Cristofori, Roversi 1980  

Franco Cristofori, Giancarlo Roversi, a cura di, Pietro Poppi e la fotografia dell’Emilia,“Le fotografie” 1. Bologna: Cassa di Risparmio in Bologna, 1980

 

Cristofori 1978  

Franco Cristofori, Bologna: immagini e vita tra ottocento e novecento; realizzazione grafica di Pier Achille Cuniberti. Bologna : Alfa, 1978

 

Croci 1955  

Ezio Croci, a cura di, Foto Annuario Italiano 1956. Milano: Görlich, 1955

 

Croci 1958  

Ezio Croci, a cura di, Foto Annuario Italiano 1958. Milano: Görlich, 1958

 

Cuisinier 1949 A. H. Cuisinier, La pratique du Développemnet et l’amélioration des négatifs. Paris: Paul Montel, 1949
 

D’Autilia 2012

 

Gabriele d’Autilia, Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi. Torino: Einaudi, 2012
D’Orlando 2012  

Vincent d’Orlando, La tentation du refus. Italo Calvino et la photographie,  “Italies, Revue d’études italiennes”, Aix Marseille Université,  (2012) n. 16,  La plume et le crayon. Calvino, l’écriture, le dessin, l’image, online http://italies.revues.org/4562

 

Dal Bo [1981] 1997 Giorgio Dal Bo,  Intervista a Paolo Monti [1981], “Fotologia”, 14 (1997), n.18-19 autunno, pp. 40-43.

 

Damez 2003  

Jacques Damez, Hans Hartung photographe: la légende d’une œuvre. Bruxelles: La Lettre volée, 2003

 

Davanzo Poli 2016  

Doretta Davanzo Poli, Grazietta Butazzi e Venezia, in Moda Arte Storia Società: Omaggio a Grazietta Butazzi, atti del convegno (Como, Fondazione Antonio Ratti

20 giugno 2014),  a cura di Enrica Morini, Marialuisa Rizzini, Margherita Rosina. Como: NodoLibri, 2016, pp. 51-54

 

De Meo 2006  

Vincenzo de Meo,  a cura di, Inventario dell’archivio Bruno Zevi; coordinamento scientifico Elisabetta Reale. Roma: Fondazione Bruno Zevi, 2006

 

De Pieri, Scrivano 2004 Filippo de Pieri, Paolo Scrivano, Representing the “Historical Centre” of Bologna: Preservation Policies and Reinvention of an Urban Identity, “ Urban History Review / Revue d’histoire urbaine”, 33 (2004), n. 1, autumn,  pp.  34–45

 

De Seta 1979

 

Cesare de Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo. Milano: Electa, 1979

 

De Zitter  

A. de Zitter, Porquoi…comment agrandir. Paris :Paul Montel, 1949

 

Delacroix 1893-1895 Eugène Delacroix, Journal, II. Paris : Plon-Nourrit, 1893-1895

 

Del Guercio 1980  

Antonio del Guercio, Pellizza: analisi, allegoria reale, sintesi, in Pellizza da Volpedo 1980, pp.19-27

 

Delli Aspetti 2016  

Delli Aspetti de Paesi: vecchi e nuovi media per l’immagine del paesaggio, VII convegno internazionale di studi (Napoli, 27-29 ottobre 2016), I, Costruzione, descrizione, identità storica, a cura di Annunziata Berrino, Alfredo Buccaro. Napoli:  CIRICE – Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconografia della Città Europea, Università di Napoli Federico II, 2016, online https://www.google.it/books/edition/Delli_Aspetti_de_Paesi_Vecchi_e_nuovi_Me/ii97DwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&printsec=frontcover (23 12 2021)

 

 

 

Dezzi Bardeschi, Gioffré 2015

 

Chiara Dezzi Bardeschi, Alessandra Gioffré, Franco Albini e il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova, “Quaderni di Ananke”, 2015, n.5, marzo, monografico
Dolzani 2008  

 

Francesca Dolzani, Camera, Revue mensuelle internationale de la photographie et du film 1953-1975: gli anni di Romeo E. Martinez,[ tesi di dottorato di ricerca].  Venezia, Università Ca’ Foscari , 2008

 

 

Dolzani 2019  

Francesca Dolzani, Il gioco di nessuno: la forma biennale  tra Venezia e Parigi nella fotografia del dopoguerra fino agli anni Ottanta,  in Stefania Portinari, Nico Stringa, a cura di, Storie della Biennale di Venezia,  “Storie dell’arte contemporanea 4 – Atlante delle Biennali 1”. Venezia: Edizioni Ca’ Foscari,  2019,  pp. 201- 211

 

Donzelli 1950a  

Pietro Donzelli, Mostra personale di Chargesheimer, “Ferrania”, 4 (1950) n. 9, settembre, p. 32

 

Donzelli 1950b  

Pietro Donzelli, Mostre del circolo fotografico milanese,  “Ferrania”, 4 (1950), n. 5, maggio, p. 32

 

Donzelli 1951  

Pietro Donzelli, Considerazioni sulla mostra della fotografia europea 1951, “Ferrania”, 5 (1951), n. 6, giugno, pp. 7-10

 

Donzelli 1953  

Pietro Donzelli, Mostra della fotografia europea al Museum of Modern Art di New York,  “Ferrania”, 7 (1953), n.9, settembre, p. 34

 

Donzelli 1954  

Pietro Donzelli, La mostra internazionale dell’Unione fotografica, “Ferrania”, 8 (1954), n.8, agosto, pp. 5-7

 

Donzelli 1955-1956 Pietro Donzelli, Mostre – giurie – critici, “Ferrania”, 9 (1955), n. 12, dicembre, pp. 16-17; (segue ivi) 10 (1956) n. 1, gennaio, pp. 8-12

 

Donzelli 1956  

Pietro Donzelli,  Dieci anni di Fotografia Italiana: premesse alla mostra Sestese, “Fotografia”, 9 (1956), n. 8, agosto, p.15

 

Donzelli 1959  

Pietro Donzelli, L’VIII Biennale internazionale di Fotografia artistica di Torino, “Ferrania”,  4 (1959), n. 8, agosto, pp. 10-11.

 

Donzelli 1960  

Pietro Donzelli, Nuovi libri [P. Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi],  “Popular Photography Italiana”, 4 (1960), n.4, aprile, pp. 60-61

 

Donzelli 2006  

Pietro Donzelli, L’homme, toujours l’homme, diario a cura di Piero Racanicchi, in Calvenzi, Siebenhaar-Zeller 2006, pp. 193-209

 

Dorfles 1958  

Gillo Dorfles,  Esperimenti di fotografia astratta, “Popular Photography Italiana” , 2 (1958), n. 3, settembre, pp. 46-51, 121

 

Dorfles 1967  

Gillo Dorfles, Appunti per un’estetica della fotografia, in Astaldi 1967, pp. 57-62

 

Doti 2016  

Gerardo Doti, La conquista della realtà: fotografia e urbanistica in Italia tra ricostruzione e crisi energetiche (1945-1979), in Delli Aspetti 2016, pp. 523-532

 

Dubois 1996  

Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: Quattro Venti, 1996

 

 

Duranti 2010

 

Giovanni Duranti, Panneggi e scogliere: L’ombra del Barocco, in Luigi Moretti 2010, pp. 253-259
Eco 1961  

Umberto Eco, Di foto fatte sui muri, “Il Verri”, 6 (1961), n. 4, pp. 89-94

 

Eisinger 1994  

Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son: Oedypal Syrup, “History of Photography”,  18 (1994), n. 1, pp. 78-86

 

Emiliani 1968  

Andrea Emiliani, a cura di,  Questa Romagna: storia, costumi e tradizioni. Bologna: Alfa, 1968

 

Emiliani 1970  

Andrea Emiliani, Una lettura critica e storica, in Bologna 1970 pp. 55-56

 

Emiliani 1971  

Andrea Emiliani, a cura di,  La conservazione come pubblico servizio: ipotesi per un piano di tutela, intervento e riqualificazione dei beni artistici e culturali mobili delle provincie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna 1971-1975. Bologna: Soprintendenza alle Gallerie di Bologna – Alfa, 1971

 

Emiliani 1974  

Andrea Emiliani, Dal museo al territorio. 1967-1974; fotografie di Paolo Monti. Bologna:  Alfa, 1974

 

Emiliani 1979  

Andrea Emiliani, I materiali e le istituzioni, “Storia dell’arte italiana”, I, Questioni e metodi. Torino: Einaudi 1979,  pp.99-162

 

Emiliani 1983  

Andrea Emiliani, Un maestro della cultura moderna, in Paolo Monti 1983, pp.11-19

 

Emiliani 1993  

Andrea Emiliani, Ugo Mulas e l’età progressista del Museo, in Emiliani, Zannier 1993, pp. 295-303

 

Emiliani 1995  

Andrea Emiliani,  a cura di, Pieve di Cento nelle foto di Paolo Monti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 1995

 

Emiliani 1997  

Andrea Emiliani, Un ricordo di Paolo Monti, “Ferrara – Voci di una città”, 4 (1997), n. 6-7, online https://rivista.fondazioneestense.it/it/1997/6/item/367-un-ricordo-di-paolo-monti

 

Emiliani 2001

 

Andrea Emiliani, La condizione delle raccolte fotografiche storiche, in Strategie per la fotografia: Incontro degli archivi fotografici. Atti del convegno (Prato, Biblioteca Comunale Lazzerini, 30 novembre 2000) a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini. Prato: Regione Toscana – Comune di Prato, Archivio Fotografico Toscano, 2001, pp. 12-13

 

Emiliani 2004

 

Andrea Emiliani, Il museo nella città: vicende storiche e problemi attuali. Un progetto per Terni. Terni – Milano: Comune di Terni – Federico Motta Editore, 2004

 

Emiliani 2006

 

Andrea Emiliani, La Pinacoteca nazionale di Bologna. Restauri architettonici e allestimento 1954-1998; fotografie di Paolo Monti e di Ugo Mulas. Bologna: Bononia University Press, 2006

 

Emiliani, Foschi 2017  

Andrea Emiliani, Marina Foschi, Il volto della città nelle foto di Paolo Monti, in Palazzo del Merenda: un patrimonio forlivese. Atti del convegno (Forlì, Sala del Refettorio dei Musei San Domenico, 1-2 dicembre 2017), a cura di Marino Mengozzi,  Gabriella Poma. Cesena: Società di Studi Romagnoli, 2020, pp. 167-177

 

Emiliani, Zannier 1993  

Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di,  Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880-1980.  Torino, SEAT, 1993

 

 

Ennio Puntin Gognan 2016

Ennio Puntin Gognan 1926-2014. Architetto e fotografo, catalogo della mostra (Cervignano del Friuli, Centro Civico, 5-13 settembre 2015), a cura di Antonio Rossetti. Cervignano del Friuli: Associazione Cervignano Nostra, 2016
Eskildsen, Herrmann 1999 Ute Eskildsen, Ulrike Herrmann, a cura di, Der Fotograf Otto Steinert. Gottingen – Essen: Steidl – Museum Folkwang, 1999

 

Etienne 1952  

Paul Etienne [Paul Sarisson], a cura di, Photographie, “Art d’Aujourd’hui” , 3ème série, 4 (1952), n. 7-8, ottobre, monografico

 

Europa 1968  

Mostra di fotografia Europa 1968, catalogo della mostra (Bergamo, Palazzo della Ragione, 12-27 ottobre 1968) a cura dell’Azienda Autonoma di Turismo. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1968

 

Evans 1958  

Walker Evans, Color Accidents, “Architectural Forum”, 42 (1958) n.1, gennaio, pp. 110-116

 

Fabbri 2009  

Roberto Fabbri,  Max Bill in Italia: lo spazio logico dell’architettura.  Alma Mater Studiorum – Università di Bologna –  Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica – Scuola di Dottorato in Ingegneria Civile ed Architettura, XXI Ciclo di Dottorato. Coordinatore prof. Gianni Braghieri Relatore: prof. Elena Mucelli, 2009

 

Falcetto 1992  

Bruno Falcetto, Note e notizie sui testi, in  Italo Calvino, Romanzi e racconti, II. Milano:  Mondadori, 1992, pp.1450-1451.

 

Fanti 2015  

Corrado Fanti, La fotografia come estensione della memoria. Riflessioni sul passato analogico e problemi per un futuro digitale. In: Roberto del Grande, Adriana Stroili, a cura di, Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento; un progetto ideato e curato da Dino Zanier. Tolmezzo: Edizioni Comunità Montana della Carnia, 2015, pp. 107-144

 

Federico Barocci 1975 Federico Barocci (Urbino, 1535-1612), catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico,  14 settembre – 16 novembre 1975), a cura di Andrea Emiliani. Bologna: Edizioni Alfa, 1975

 

Felici 2011  

Lucio Felici, Il “Cecchi-Sapegno”: storia di una celebre «Storia della letteratura italiana», in Natalino Sapegno e la cultura europea, Convegno internazionale di studi (Aosta-Morgex, 14-16 ottobre 2010), a cura di Giulia Radin. Torino: Nino Aragno Editore, 2011, pp. 101-120

 

Ferrara 2020  

Marinella Ferrara, Giancarlo Pozzi, il letto d’ospedale TR15 e il sodalizio con Achille Castiglioni ed Ernesto Zerbi, “Ais/Design Journal”,  Storia e Ricerche,  7 (2020),  n. 12-13, dicembre 2019 – giugno 2020, pp.  100-134

 

Ferretti 1980  

Massimo Ferretti, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nella riproduzione d’arte, in L’Immagine della regione: Fotografie degli archivi Alinari in Emilia e in Romagna, catalogo della mostra (Modena, Fondazione del Collegio San Carlo, 20 novembre-20 dicembre 1980). Bologna – Firenze: Istituto per i beni artistici culturali naturali della Regione Emilia-Romagna – Alinari, 1980,  pp. 37-51

 

FIAF 1949  

FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Elenco delle opere esposte alla Prima Mostra Nazionale di Fotografia Artistica, “Fotografia”, n.5-6, giugno-agosto, 1949, p.n.n.

 

Fiamma Vigo 2003  

Fiamma Vigo e “Numero”. Una vita per l’arte, catalogo della mostra (Firenze, Archivio di Stato, 7 ottobre – 20 dicembre 2003), a cura di Rosalia Manno Tolu e Maria Grazia Messina. Firenze: Centro Di, 2003

 

Finazzi 1942  

Mario Finazzi, a cura di, Otto Fotografi Italiani d’Oggi. Bergamo: Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1942

 

Finazzi 1946  

Mario Finazzi, a cura di, Montagne. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1946

 

Flüeler 1973  

Nikolaus Flüeler, Grosse Photographen unserer Zeit: Werner Bischof. Luzern – Frankfurt am Main: Verlag C. J. Bucher, 1973

 

 

Flusser 1987

 

Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987
Fontana 2003  

Gian Franco Fontana, Obiettivo: castelli, IBC” 11 (2003), n. 2, online: http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-200302/xw-200302-a0011/#null

 

Forme di luce 1997  

Forme di luce. Il Gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, settembre-novembre 1997) a cura di Italo Zannier, Susanna Weber. Firenze: Alinari, 1997, pp. 21-26

 

Fotografia 2016  

Fotografia/Photography. Torino: Aste Bolaffi, 2016

 

Fotografia e editoria 1979  

Fotografia e editoria, “Progresso fotografico”, 86 (1979), n. 12, dicembre, monografico

 

Fotografie1957  

Fotografie als uitdrukkingsmiddel, catalogo della mostra (Eindhoven, Stedelijk Van Abbe Museum, 28 settembre – 27 ottobre 1957) a  cura di Martien Coppens. Eindhoven: Stedelijk Van Abbe Museum, 1957

 

Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943 Alex Franchini-Stappo, Giuseppe Vannucci-Zauli, Introduzione per una estetica fotografica. Firenze: L. Cionini, 1943

 

Frank 1959  

Robert Frank,  Gli americani; testi raccolti e presentati da Alain Bosquet e Raffaele Crovi. Milano: Il Saggiatore, 1959

 

Freund 1936  

Gisèle Freund, La photographie en France au dix-neuvième siècle: essai de sociologie et d’esthétique. Paris:  La Maison des amis des livre, Adrienne Monnier, 1936 (Ed. italiana, Fotografia e società. Torino : Einaudi, 1976)

 

Friedman 1999  

Mildred Friedman, a cura di ,Carlo Scarpa Architect. Intervening with History. Montreal – New York: CCA – The Monacelli Press,1999

 

Frisia 1967  

Emilio Frisia, Monti fra acqua e pietra, in “Foto film”, 12(1967), n. 7,  pp. 48 – 57

 

From Today 1972  

From Today paintings is dead. The Beginnings of Photography, catalogo della mostra (Londra, Victoria and Albert Museum, 16 marzo-14 maggio 1972). London: The Arts Council of Great Britain, 1972

 

Frongia 2013  

Antonello Frongia, Il luogo e la scena: la città come testo fotografico, in Valtorta 2013, pp. 109-192

 

Frongia 2016  

Antonello Frongia, Fotografia, urbanistica e (re-)invenzione del paesaggio “ordinario” nell’Italia del secondo dopoguerra, in Delli Aspetti 2016, pp. 533-543

 

Frongia 2018  

Antonello Frongia, Occhio quadrato di Alberto Lattuada (1941): un libro fotografico alla verifica delle fonti d’archivio, “rsf rivista di studi di fotografia” , 4 (2018) n. 8, pp. 94-107

 

Fumo 1956  

Guido Fumo, La critica della Mostra [di Pescara], “Fotografia”, 9 (1956), n.10, ottobre, pp. 14-19

 

G. P. 1949  

G. P., Erberto Ruedi non è più, “Fotografia. Rivista bimestrale del Circolo Fotografico Milanese”,  2 (1949), n. 5-6, giugno-agosto, p.n.n

 

Galluzzo 2015  

Michele Galluzzo, a cura di, Diego Birelli graphic designer. Venezia: IUAV Archivio Progetti, 2015

 

Gambi 1974  

Lucio Gambi, Per una cartografia dei patrimoni culturali, in Andrea Emiliani, a cura di, Una politica per i beni culturali. Torino: Einaudi, 1974, pp. 271-273

 

Gentili 1963  

Gherardo  Gentili,  Fotografia sperimentale,  in CFM  1963, pp. 224-226

 

Gerbi, Polastri 1960 Ernesto Gerbi, Luigi Polastri, a cura di, Lo stivale ha cento anni: l’italiano che vive. Milano: E.I.O.T., 1960

 

Gernsheim 1966  

Helmut e Alison Gernsheim, Storia della fotografia. Milano: Frassinelli, 1966

 

Gewehr 1951  

Arthur Gewehr, Vivere e riordinare polarmente/ Erlebe polar und Ordne Harmonish, “Fotografia”, 4 (1951) n. 4, pp. 12-15

 

Ghirri 1988  

Luigi Ghirri, Per Aldo Rossi,  “Fotologia”, 7  (1988), n.10. febbraio, pp.54-55, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per una autobiografia, Torino, SEI, 1997, pp.127-129.

 

Gilardi 1961  

Ando Gilardi, Superfluo e non superfluo nella fotografia d’amatore, in  Atti 1959 1961, pp. 15-31

 

Gilardi 1976  

Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano : Feltrinelli, 1976

 

Girieud 2011  

Corine Girieud, La Revue Art d’aujourd’hui (1949-1954): Une vision sociale de l’art, [Tesi di dottorato]. Paris:  Université Paris-Sorbonne, 2011

 

Gnudi 1962  

Cesare Gnudi, Mario Negri sculture dal 1955 al 1960, “I Quaderni del Milione” n. 1 . Milano: Edizioni del Milione, 1962

 

Gombrich [1965] 1982 Ernst H. Gombrich, Visual Discovery through Art, “Arts Magazine” , 40 (1965), novembre pp.  17-28, ora in Id.,  The Image and the Eye. Further Studies in the Psychology of Pictorial Representation. Oxford: Phaidon Press, 1982,  11-39
Green 1973  

Jonathan Green, a cura di, Camera Work: a critical anthology. New York: Aperture, 1973

 

Gruppo friulano 1956 Gruppo friulano per una nuova fotografia, “Ferrania” 10 (1956) n. 3, p. 29

 

Gualdoni 2013  

Flaminio Gualdoni, a cura di, Una scrittura sconcertante: Arnaldo Pomodoro, opere 1954-1960. Milano: Fondazione Arnaldo Pomodoro, 2013

 

Guerra 2008  

Simona Guerra, Mario Giacomelli: la mia vita intera. Milano: Bruno Mondadori, 2008

 

Guidoni 1980  

Enrico Guidoni,  Introduzione, “Storia dell’arte italiana”, 8, Inchieste sui centri minori. Torino: Einaudi 1980, pp. 3-35

 

György Kepes 1978 György Kepes: The MIT Years, catalogo della mostra (Cambridge, MIT – Hayden Gallery, 28 aprile-9 giugno 1978). Cambridge: The MIT Press, 1978

 

Habasque 1960  

Guy Habasque, Les constructeurs italiens et certaines de leurs réalisations, “L’œil”,  6 (1960), n. 61, pp. 68-77

 

Hamill, Luke 2017  

Sarah Hamill, Megan R. Luke, a cura di,  Photography and Sculpture: The Art Object in Reproduction. Los Angeles: The Getty Research Institute, 2017

 

Hartung 1974

 

Hartung Hans, Un monde ignoré vu par Hans Hartung; poèmes et légendes de Jean Tardieu. Geneve: Albert Skira, 1974

 

Haskins 1962  

Sam Haskins, Five Girls. London: Corgi Books, 1962

 

Haskins 1965  

Sam Haskins, Cowboy Kate & other stories. London: Corgi Books, 1965

 

Hauser 1955-56  

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Torino: Einaudi, 1955-1956

 

Hayek-Halke 1955  

Heinz Hayek-Halke, Experimentelle Fotografie. Bonn: Athenäum Verlag,1955

 

Heering 1937  

Walther Heering, Le Rolleiflex: son principe, ses usages, ses avantages. Harzburg:  Dr. Walther Heering Verlag, 1937

 

Herbert 1996  

Loraine Herbert,  Alfred Stieglitz’s apples, “History of Photography”, 20 ( 1996), n. 4, p. 341

 

Hervé 1962 Lucien Hervé, Deux photographies en couleur, “Caractère Noël : l’annuel de l’imprimé français”,  12 (1962), dicembre, pp.nn
Hoctin 1963  

Luce Hoctin, Le Château de Villadeati, “L’œil”,  9 (1963), n.97, pp. 70-77

 

Insolera 1956  

Italo Insolera, Fotografia e architettura, “Ferrania”, 10 (1956), n. 8, pp. 8-9; n. 9, pp. 15-17

 

Insolera 1967  

Italo Insolera, Il quartiere barocco di Roma; fotografie di Italo Zannier. Roma: Ed. LEA, 1967

 

Internationale Ausstellung 1929  

Internationale Ausstellung des Deutschen Werkbundes Film und Foto, catalogo della mostra (Stoccarda, 18 maggio-7 luglio 1929), a cura di Karl Steinorth. Stuttgart: Deutscher Werkbund,  1929

 

Izis 1950  

Izis Bidermanas, Paris des Rêves. Lausanne:  La Guilde du livre, 1950

 

Izis 1951  

Izis Bidermanas,, Jacques Prevert, Grand Bal du Printemps. Lausanne:  Clairefontaine, 1951

 

Jäger 2005  

Gottfried Jäger, Concrete Photography, in Gottfried Jager, Rolf H. Krauss,  Beate Reese,  Concrete Photography / Konkrete Fotografie. Bielefeld: Kerber Verlag, 2005, pp. 15-26

 

Jay 1971  

Bill Jay, Views on Nudes. London: Focal Press, 1971

 

Johnson 2013  

Geraldine A. Johnson, (Un)richtige Aufnahme: Sculpture, Photography and the Visual Historiography of Art History,” Art History” 36 (2013), pp. 12–51

 

Katz 1971  

Leslie Katz, Interview with Walker Evans, “Art in America”,  59 (1971), n. 3-4, marzo-aprile, pp. 83- 88

 

Kepes [1944] 1959  

György Kepes, The Language of Vision. Chicago: Paul Theobald and Co., [1944] 1959

 

Kepes [1956] 1961 György Kepes,The New Landscape in Art and Science. Chicago: Paul Theobald and Co., [1956] 1961

 

Kidder Smith 1955  

George Everard Kidder Smith, L’Italia costruisce: sua architettura moderna e sua eredità indigena; introduzione di Ernesto Nathan Rogers. Milano: Edizioni di Comunità, 1955

 

Kidder Smith 1962  

George Everard Kidder Smith, La fotografia di architettura,  “Popular Photography Italiana”, 6 (1962) n.64, ottobre, pp. 34-39

 

Klaus Koenig 1968  

Giovanni Klaus Koenig, Architettura in Toscana 1931-1968. Torino: ERI, 1968

 

 

Klee 1990

 

Paul Klee, Diari 1898-1918. Milano: Il Saggiatore, 1990
Krauss 1996  

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Grazioli.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

Lamy-Lassalle 1958 Colette Lamy-Lassalle, Castelseprio, ” L’œil “,  4 (1958), n. 42, pp. 30-35

 

Lattuada 1941  

Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941

 

Leiss 1953  

Ferruccio  Leiss,  Immagini di Venezia; testi di Jean Cocteau e Filippo de Pisis. Milano: Daria Guarnati, 1953

 

Lenzi 2003  

Alessia Lenzi, 1955. Arte e fotografia alla Galleria Numero di Firenze, “AFT Rivista di Storia e Fotografia”, 19 (2003) n. 37/38, giugno- dicembre, pp. 68-74

 

Leon Battista Alberti 1972  

Celebrazioni di Leon Battista Alberti, 1404-1472, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Carpegna,  1972), a cura di Agnoldomenico Pica. Roma: Accademia Nazionale di San Luca, 1972

 

Leonardi 2017  

Nicoletta Leonardi, A partire dall’archivio del fotografo, [recensione di ] Pierangelo  Cavanna /  Silvia Paoli (a cura di), Paolo Monti. Fotografie/Photographs 1935-1982 “rsf rivista di studi di fotografia” 3 (2017), n. 6, pp. 136-139

 

Leonelli 2022  

 

Laura Leonelli, È la fotografia la più ecologica delle arti [Intervista a Olivo Barbieri], “Il Giornale dell’Arte”,  9 marzo 2022, online: https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/-la-fotografia-la-pi-ecologica-delle-arti/138677.html

 

 

Lewis 1952  

Harold Lewis, a cura di, Photography Year Book 1952. London: The Press Centre Ltd, 1952

 

Liégard 1905  

Alfred Liégard,  La question de la photographie documentaire,  “La Fotografia Artistica”, a. II, n. 6-7, giugno-luglio 1905, pp. 6-7

 

Literature 1973  

The Literature of Photography: Words and Pictures. New York: Arno Press, 1973

 

Lo Duca 1939  

Giuseppe Maria Lo Duca, La fotografia ha 100 anni: intervista con Paul Valéry,  “Emporium”, 45 (1939), n.4, v. LXXXIX, n. 532, aprile, pp.205-16

 

Longhi 1946  

Roberto Longhi, Piero della Francesca. Milano: Hoepli, 1946

 

Longhi 1951  

Roberto Longhi, Piero della Francesca. La leggenda della Croce. Milano: Edizioni d’Arte Sidera, 1951

 

Lorelle, Langelaan 1949 Lucien Lorelle, Donald Langelaan, La photographie publicitaire. Paris: Paul Montel,1949

 

 Lotti 1970  

Giorgio Lotti, Venezia Muore. Milano: Il Diaframma, 1970

 

Luci ed ombre 1987  

Luci ed ombre: gli annuari della fotografia artistica italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Museo della Fotografia Fratelli Alinari, 28 novembre 1987 – 15 gennaio 1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier; introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987

 

Lugon 2001  

Olivier Lugon, Le style documentaire d’August Sander a Walker Evans, 1920-1945. Paris : Macula, 2001

 

Luigi Moretti 2010  

Luigi Moretti: Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, catalogo della  mostra (Roma, MAXXI, 30 maggio – 28 novembre 2010), a cura di Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi. Milano: Electa 2010

 

Luporini 1964  

Eugenio Luporini, Brunelleschi: forma e ragione. Milano: Edizioni di Comunità, 1964

 

Macchiaioli (I) 2008 I Macchiaioli e la fotografia, catalogo della mostra (Firenze, MNAF, 4 dicembre 2008-15 febbraio 2009) a cura di Monica Maffioli, con Silvio Balloni e Nadia Marchioni. Firenze: Alinari, 2008

 

Madesani 2008  

Angela Madesani, a cura di, Arrigo Orsi: fotografie. Milano: Baldini Castoldi Dalai editore, 2008

 

Maffioli 2014  

Monica Maffioli, Fotografia e scultura: ri-conoscere Michelangelo, in Ri-conoscere Michelangelo 2014, pp. 36-61

 

Maggi 2010

 

Angelo Maggi, Moretti, i fotografi e la visione dell’architettura in Luigi Moretti 2010, pp. 228-237

 

Maggi 2017

 

Angelo Maggi, Re-interpreting Italy builds: l’architettura italiana secondo George Kidder Smith, in Maria Antonietta Crippa, Ferdinando Zanzottera, a cura di, Fotografia per l’architettura del XX secolo in Italia : costruzione della storia, progetto, cantiere. Milano – Cinisello Balsamo :  Politecnico Milano 1863- Silvana Editoriale, 2017, pp. 70-83

 

Magrin 2014  

Anna Magrin, “A future for our past”: la conservazione della città da Bologna all’Europa, in L’urbanistica italiana nel mondo,  Atti della XVII Conferenza Nazionale SIU- Società italiana degli urbanisti, (Milano, Politecnico di Milano, 15-16 maggio 2014). Roma – Milano: Planum Publisher, 2014, pp. 181- 186

 

Malazdrewich 2011  

 

Mandy Malazdrewich,  Photography at Mid-Century: A Description of George Eastman House’s Tenth Anniversary Exhibition. [Thesis of Master of Arts].  Toronto – Rochester,  Ryerson University and George Eastman House International Museum of Photography and Film. 2011

https://doi.org/10.32920/ryerson.14643819.v1

 

Maloney 1955  

[Tom Maloney], G. E. Kidder Smith, “U.S. Camera 1956”. New York: U.S. Camera Publishing Corp., 1955, p. 222

 

Manfroi 2004  

Manfredo Manfroi, Ritratti del cuore, ritratti della ragione, “Notiziario del Circolo Fotografico La Gondola”, 29 (2004), n. 12, dicembre, pp. 1-2

 

Manfroi 2005a  

Manfredo Manfroi, Circolo “La Gondola” una microstoria, in Fotografia a Venezia da Ferruccio Leiss al Circolo La Gondola, catalogo della mostra (Lestans, Villa Savorgnan, 16 luglio – 2 ottobre 2005), a cura di Italo Zannier. Firenze: Artificio Skira,  2005, pp. 19-24

 

Manfroi 2005b  

[Manfredo Manfroi?], Un nuovo vecchio amico: Catone Ramello, “Notiziario del Circolo  Fotografico La Gondola”,  30 (2005), n. 12, dicembre, p. 4

 

Manfroi 2016  

Manfredo Manfroi, Ennio Puntin architetto e fotografo, “Notiziario del Circolo Fotografico La Gondola”, 49 (2016),  n. 7, luglio-agosto,  pp.2-3

 

Mannheim 1967  

L-A. Mannheim, L’appareil photograpique professionel, “Camera”, 46 (1967), n. 5, maggio, pp. 16-29

 

Marcenaro 1965  

Caterina Marcenaro,  Gli affreschi del Palazzo Rosso di Genova. Genova: Cassa di Risparmio di Genova, 1965

 

Marcenaro 1969  

Caterina Marcenaro, Il museo del Tesoro della Cattedrale a Genova. Genova: Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1969

 

Marchiori 1960

 

Giuseppe Marchiori, Non confondiamo per favore la Natura con l’Arte, “Metro”, 1 (1960), n.1, pp. 12-17

 

Marchiori 1961  

Giuseppe Marchiori [Candido Volta], Conversazione con Hartung, “Metro” 2 (1961), n. 3, novembre, pp. 8-17

 

Marra 1999  

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento: Una storia senza combattimento. Milano: Bruno Mondadori, 1999

 

Martinez 1956a  

Romeo Martinez, Paolo Monti,  “Camera”, 35 (1956), n.10,  ottobre, p. 465

 

Martinez 1956b  

Romeo Martinez, Mario de Biasi – Napoli senza Vesuvio, “Camera”, 35 (1956), n. 11, novembre, pag. 558

 

Martinez 1957  

Romeo Martinez, I. Exposition Internationale Biennale de la Photographie, Venise. La Photographie Européenne, “Camera”, 36 (1957), n.5, maggio, p. 187

 

Martinez 1959  

Romeo Martinez [Presentazione], in Seconda  Mostra internazionale biennale di fotografia (Venezia, Sala napoleonica e Ca’ Giustinian, 3-31 ottobre 1959), organizzata dall’Ufficio comunale per il turismo in collaborazione con “Camera”, la rivista internazionale della fotografia, e il Circolo fotografico La Gondola. Venezia: Edizioni Biennale fotografica, 1959

 

Martinez 1983  

Romeo Martinez, Conversazione su Paolo Monti, trascritta da Ferdinando Scianna,  in Paolo Monti, brochure della mostra (Chiasso, Aula Magna delle Scuole Medie, 3-27 novembre 1983),  ora in “Fotografia oltre”, 1983, n. 4

 

Martinez, Monti 1958 Romeo Martinez, Paolo Monti [Paul Bergen], De Leiss à Fulvio Roiter, “Camera”, 37 (1958),  n.5, maggio, p. 199

 

Mascioni 1967

 

Grytzko Mascioni, La fotografia, in Franco Russoli, a cura di, L’Arte moderna. V. 41, Milano: Fratelli Fabbri Editori, 1967, pp. 121-160

 

Masclet 1947  

Daniel Masclet,  Le paysage en photographie.  Paris : Paul Montel, 1947

 

Masclet 1949  

Daniel Masclet, Il Gruppo dei XV di Parigi, “Fotografia”, 2 (1949), n. 4 aprile, p.n.n.,

 

Masoero 1898  

Pietro Masoero, Arte Fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), n. 6-7, pp. 161-171

 

Massarotti 1968  

Vanna Massarotti, a cura di, El sciôr Brüsa Tiritere milanesi; fotografie di Paolo Monti. Bologna: Alfa, 1968

 

Matisse 1947  

Henri Matisse, L’exactitude n’est pas la vérité, in Henri Matisse:  dessins, catalogo della mostra (Liegi, APIAW – Association pour le progrès intellectuel et artistique en Wallonie, 27 luglio – 27 agosto 1947). Paris: Editions Pierre à feu – Galerie Maeght, 1947, ora in Id., Écrits et propos sur l’art, a cura di Dominique Fourcade. Paris: Hermann, 1978, pp. 172-175

 

Matteucci 1968  

Anna Maria Matteucci,  Carlo Francesco Dotti e l’architettura bolognese del Settecento. Bologna: Alfa, 1968

 

Matteucci 1979  

Anna Maria Matteucci,  Palazzi di Piacenza dal Barocco al Neoclassico. Torino: Istituto bancario San Paolo, 1979

 

Matteucci,  Lenzi 1977  

Anna Maria Matteucci,  Deanna Lenzi, Cosimo Morelli e l’architettura delle legazioni pontificie. Imola: University Press Bologna, 1977

 

Max Huber 1991  

Max Huber pittore, catalogo della mostra ( Mendrisio, Museo d’arte Mendrisio, 12 ottobre 1991 – 6 gennaio 1992); testi di  Luciano Caramel, Max Bill, Michele Reiner. Mendrisio: Edizioni Vignalunga – Museo d’arte Mendrisio, 1991

 

Medardo Rosso 1979 Mostra di Medardo Rosso 1858-1928, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Permanente, gennaio-marzo 1979).  Milano : Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, 1979

 

Meister 1971  

Meister der erotischen Fotografie: Paare. München: Wilhelm Heyne Verlag, 1971

 

Millozzi 2017  

Federica Millozzi, Tra Gondola e Bussola: Scritti inediti di fotografia e arte di Mario Bonzuan, “Aldèbaran. Storia dell’Arte”,  IV (2017), a cura di Sergio Marinelli,  pp. 171-190

 

Milozzi 2020

 

 

Adele Milozzi,  Tracce del pensiero e dell’impegno civile di Andrea Emiliani nella cultura fotografica di paesaggio degli anni Settanta e Ottanta. Online https://patrimonioculturale.regione.emilia-romagna.it/chi-siamo/andrea-emiliani/riflessioni-su-andrea-emiliani

 

Ministero 2004  

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Decreto 26 novembre 2004,   Cancellazione dal registro delle imprese di due società cooperative, “Gazzetta Ufficiale”,  Serie Generale n.293,  15-12-2004

 

Miraglia 2012  

Marina Miraglia,  Fotografi e pittori alla prova della modernità. Milano: Bruno Mondadori, 2012

 

Moholy-Nagy 1929 László Moholy-Nagy, Von Material zu Architektur, “Bauhausbücher”, 14. München: Albert Langen Verlag, 1929

 

Moholy-Nagy 1947a László Moholy-Nagy, The New Vision and Abstract of an Artist. New York: Wittenborn, 1947

 

Moholy-Nagy 1947b László Moholy-Nagy, Vision in Motion. Chicago. Paul Theobald, 1947

 

Mollino 1949  

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949

 

Monti 1951  

Paolo Monti, [Presentazione], in  Mostra fotografica nazionale retrospettiva 1940-1950 (Venezia, Ca’ Giustinian, Sala degli Specchi, 1-15 luglio 1951). Venezia: Tip. Garzia, 1951

 

Monti 1952a  

Paolo Monti, [Presentazione], in  Mostra della fotografia italiana (Venezia, Ca’ Giustinian, maggio). Venezia: Garzia, 1952

 

Monti 1952b  

Paolo Monti [Presentazione], in Mostra personale di Paolo Monti, brochure della mostra (Roma, Associazione Fotografica Romana, 7-21 giugno 1952), s.n.t., 1952, p.n.n.

 

Monti 1952c  

Paolo Monti, Profili, “Fotografia”, 5 (1952), n. 4, luglio-agosto, pp. 13-17

 

Monti 1953a  

Paolo Monti [Presentazione], in Fotografie di Paolo Monti, Aldo Nascimben, Fulvio Roiter, brochure della mostra (Treviso, Galleria del Libraio, 11-21 aprile 1953), s.n.t., 1953

 

Monti 1953b  

Paolo Monti,  La mostra della fotografia italiana 1953 a Firenze, “Ferrania”, 7 (1953), n. 8, agosto, pp. 8-10

 

Monti 1953c  

Paolo Monti, [Presentazione], Va Mostra nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, catalogo della mostra (Venezia, Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, 18-30 aprile 1953). Venezia: Arti Grafiche Fantoni, 1953

 

Monti 1954a  

Paolo Monti, Le groupe “La Gondola” de Venise, “Photorama. International Review of Photography”, 11 (1954) n. 16, pp. 472-477

 

Monti 1954c  

Paolo Monti, Della mostra fotografica di Castelfranco Veneto e di altre cose, “Ferrania”, 8 (1954), n. 9, settembre, pp. 2-5

 

Monti 1954d  

Paolo Monti [Presentazione], in Mostra personale di Paolo Monti, brochure della mostra (Roma, Associazione Fotografica Romana, 3-10 dicembre 1954), s.n.t., 1954

 

Monti 1955a  

Paolo Monti, Composizione e natura morta, in Croci 1955, pp. 49-50

 

Monti 1955b  

Paolo Monti, Otto anni di fotografia italiana (1947-1955), in Gino Oliva, a cura di, Fotografia italiana 1955. Venezia: Fantoni, 1955, pp.n.n.

 

Monti 1955c  

Paolo Monti [Presentazione], in 38 opere  fotografiche di Paolo Monti, brochure della mostra (Ancona, Circolo Stamura, 23-29 aprile 1955), a cura del Gruppo Fotografico Società di Educazione Fisica Stamura. s.n.t., 1955

 

Monti 1955d  

Paolo Monti [Presentazione], in 20 fotografie di Paolo Monti, brochure della mostra (Padova,  Circolo fotografico padovano, 18 febbraio – 6 marzo 1955). Padova: Circolo fotografico padovano, 1955

 

Monti 1956  

Paolo Monti, Mariel. Un visage dans le temps, “Camera”, 35 (1956) n.10, ottobre, p. 446

 

Monti 1957a  

Paolo Monti, Considerazioni sulla fotografia italiana, in 26 fotografi italiani 1957, pp.n.n.

 

Monti 1957b  

Paolo Monti, [testo] in Paolo Monti: un maestro italiano, “Popular Photography Italiana”, 1 (1957), n.1, luglio, pp. 11-13

 

Monti 1957c  

Paolo Monti [Presentazione], in  Mostra Mario de Biasi, Piero Donzelli, Paolo Monti, Giulio Parmiani, brochure della mostra (Senigallia, Rocca della Rovere, 17-31 agosto 1957), a cura della Azienda di Soggiorno – Comitato Turismo. s.n.t., 1957

 

Monti 1957d  

Paolo Monti [Presentazione], in  I Mostra Internazionale  Biennale di Fotografia, catalogo della mostra (Venezia, 20 aprile -19 maggio 1957), a cura di Giorgio Giacobbi. Venezia:  Edizioni Biennale Fotografica, 1957

 

Monti 1959a  

Paolo Monti, Appunti sulla fotografia di reportage, s.d. [1959], in Valtorta 2008, pp. 76-77

 

Monti 1959b  

Paolo Monti [Intervento sulla relazione di Colombo], in Atti 1959 1961, pp.61-69

 

Monti 1959c  

Paolo Monti [Intervento sulla relazione di Zannier], in Atti 1959 1961,  pp.42-48

 

Monti 1960  

P.M. [Paolo Monti[, Il Circolo fotografico La gondola di Venezia, catalogo della mostra (Università di Pisa, Istituto di Storia dell’Arte, 16-30 maggio 1960). Pisa: Nistri-Lischi, 1960

 

Monti 1960  

[Paolo Monti] Paul Bergen, Svante Hedin,  “Camera”, 39 (1960), n. 7, luglio, pp. 11-21

 

Monti 1960-1965  

Paolo Monti, Limiti del Reportage, s.d.,  [1960-1965], in Valtorta 2008,  pp. 188-189

 

Monti 1963a  

Paolo Monti, Il colore in fotografia, conferenza in occasione della XV Mostra fotografica nazionale FIAF (Milano, Auditorium Centro Culturale Pirelli, 7 maggio  1963), ora in Valtorta 2008, pp. 78-79.

 

Monti 1963b  

[Paolo Monti] Paul Bergen, Le portrait. Petit discours à des hommes de métier, “Camera”, 42 (1963) n.2, febbraio, pp. 8-12

 

Monti 1963c  

Paolo Monti [Presentazione], IV Mostra Biennale Internazionale della Fotografia, catalogo della mostra ( Venezia, San Marco, Sala Napoleonica, 14 settembre-20 ottobre 1963). Venezia: Edizioni Biennale Fotografica, 1963, pp.n.n.

 

Monti 1964a  

[Paolo Monti] Paul Bergen, Abstrait et abstraction en photographie, in Brassaï  1964, pp. 215-240

 

Monti 1964b  

Paolo Monti, Note sul professionismo in Italia, s.d. [1964], in Valtorta 2008, pp. 86-90

 

Monti 1964c

 

Paolo Monti, Notes sur la photographie professionelle en Italie,  “Camera”, 43 (1964),n.3, marzo, p. 10

 

Monti 1964d  

Paolo Monti, Reportage de guerre, in Brassaï 1964, pp. 79-88

 

Monti 1965  

Paolo Monti, [Nota esplicativa], Chimigrammi (Paolo Monti tra fotografia e pittura), “Imago : proposte per una nuova immagine”, 6 (1965), n. 7, p.n.n.

 

Monti 1966a

 

Paolo Monti, Breve omaggio a Mario Giacomelli, in Mostra antologica di Mario Giacomelli, (Novara, Salone del Broletto, 16-23 novembre  1966). Novara: Enal, EPT, Fotocine club Novara, 1966

 

Monti 1966b  

Paolo Monti, Giudicando con rabbia,  in Mostra nazionale di fotografia : Premio Novara 1966, catalogo della mostra (Novara, 16-23 ottobre 1966). Novara: Enal, EPT, Fotocine club Novara, 1966

 

Monti 1966c  

Paolo Monti, Le ragioni di un incontro, “Foto Magazin”, 6 (1966) n.7, luglio, p. 42

 

Monti 1967a  

Paolo Monti, Appunti e disappunti, “Popular Photography Italiana”, 11 (1967), n. 116, marzo, pp. 25-26

 

Monti 1967b  

Paolo Monti, Appunti e disappunti, “Popular Photography Italiana”, 11 (1967), n. 117, aprile, p. 20

 

Monti 1967c  

Paolo Monti,[ Presentazione], in Fotografi 1967. III Mostra. Concorso dell’artigianato fotografico.  Trento: Provincia Autonoma di Trento – Assessorato all’Artigianato, 1967

 

Monti 1967d  

Paolo Monti, [ Presentazione], in Paolo Monti, catalogo della mostra (Milano, Il Diaframma – Galleria dell’immagine di Popular Photography Italiana, 13-25 aprile 1967). “Popular Photography Italiana”,  11 (1967), n. 117, pp. 33-38

 

Monti 1967e  

Paolo Monti, Vedere la Fontana di Trevi, in  Frisia, 1967, pp. 48-49

 

Monti 1970a  

Paolo Monti, Appunti per il censimento, in Bologna 1970, pp. 53-55

 

Monti 1970b  

Paolo Monti, L’avventura del fotografo, in Bologna 1970, p. 53, riedito come Il rilevamento fotografico del centro storico di Bologna in Paolo Monti fotografo, 1983, p.127

 

Monti 1977a  

Paolo Monti, Anni Cinquanta: Domeniche a Milano, in L’occhio di Milano. 48 fotografi 1945/ 1977, catalogo della mostra (Milano, Rotonda di via Besana, 1977), a cura di Cesare Colombo. Milano: Magma, 1977

 

Monti 1977b  

Paolo Monti, La Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti. Milano: Battaglini, 1977

 

Monti 1977c  

Paolo Monti, Progetto di volume Dall’architettura al paesaggio Ed. Einaudi, s.d. [1977], in Valtorta 2008, pp. 196-207

 

Monti 1978-1979  

Paolo Monti, [Mi presento come fotografo], in Valtorta 2008,  p. 193

 

Monti 1979a  

Paolo Monti, Introduzione, in Zannier 1979a, p. 6

 

Monti 1979b  

Paolo Monti, La scrittura della luce, in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, Giuliano Manzutto, a cura di, Foto d’archivio, Italia tra ‘800 e ‘900: antologia d’immagini tratte dalla fototeca del Touring Club Italiano, testi di Paolo Monti, Cesare Zavattini. Milano: T.C.I., 1979,  pp. 106-120

 

Monti 1979c  

Paolo Monti, Trent’anni di fotografia 1948-78, in Paolo Monti 1979, pp. n.n.

 

Monti 1980a  

Paolo Monti, La fotografia dei centri storici, in Fotografia e immagine dell’architettura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio – febbraio 1980), a cura di Gabriele Basilico, Gaddo Morpurgo, Italo Zannier.  Bologna: Grafis, 1980, pp. 171-175

 

Monti 1980b  

Paolo Monti, Presentazione, in 30 anni di fotografia a Venezia: il circolo “la gondola” 1948-1978, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 2 aprile – 25 maggio 1980). Venezia: Marsilio, 1980, pp. 7-8

 

Monti 1981a  

Paolo Monti, Della fotografia di architettura, in Monti 1983, pp. 137-138

 

Monti 1981b  

Paolo Monti, Due parole sulla mia fotografia, in Paolo Monti, plaquette della mostra (Sanremo, Magazzino dei Fiori, 14-30 novembre 1981), s.n.t., 1981

 

 Monti 1981c Paolo Monti, L’edilizia rurale e gli oggetti del mondo contadino: il rilevamento fotografico, in Lavoro contadino, fotografia e disegno tecnico, atti del seminario per operatori di musei rurali ( Bologna, gennaio-febbraio 1981), a cura di Massimo Tozzi Fontana. Bologna: IBC – Istituto per i beni artistici-culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 1981, pp. 19-33

 

Monti 1984  

Paolo Monti, Antiche case del lago d’Orta, a cura di Luigi Alberti, Giancesare Rainaldi, Enrico Rizzi; con un saggio di Carlo Nigra.  Anzola d’Ossola : Fondazione arch. Enrico Monti, 1984

 

Monti 2022  

Paolo Monti, Procida 1972, con testi di Silvia Paoli, Nadia Terranova. Milano: Humboldt, 2022

 

Morello 2000  

Paolo Morello, Verso una storia moderna della fotografia in Italia, in Id., Amen fotografia 1839-2000: immagini e libri dall’archivio di Italo Zannier. Palermo – Milano: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia – Skira, 2000, pp. 11-55

 

Morello 2002  

Paolo Morello,  Fotografia come rivelazione, in Rosenblum, Morello 2002, pp. 15-40

 

Morello 2003a  

Paolo Morello,  Alfredo Camisa: Carteggio 1955 – 1963. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003

 

Morello 2003b  

Paolo Morello,  Mario De Biasi. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003

 

 

Morello 2003c

 

 

Paolo Morello, Piergiorgrio Branzi fotografo, in Sandra Phillips, Paolo Morello, Piergiorgrio Branzi. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003, pp. 11-58

 

Morello 2004  

Paolo Morello, a cura di, Ferruccio Ferroni: carteggio 1952-1959. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2004

 

Morello 2010  

Paolo Morello, La fotografia in Italia : 1945-1975. Roma: Contrasto, 2010

 

Moretti 1950  

Luigi Moretti, Forme astratte nella scultura barocca, “Spazio”, 1 (1950), n. 3, pp. 9-20 1950

 

Moretti 1951 Luigi Moretti,  Trasfigurazioni di strutture murarie, “Spazio”, 2 (1951), n. 4, gennaio-febbraio, pp. 5-16
Morucchio 1953a  

Berto Morucchio, Leiss – Del Tin – Bonzuan alla Galleria del Cavallino, “Ferrania”, 7 (1953) n. 5, maggio, p. 9

 

Morucchio 1953b  

Berto Morucchio, Paolo Monti, “Ferrania”, 7 (1953), n. 11, novembre, pp. 6-8

 

Morucchio 1953c  

Berto Morucchio, [Presentazione], in Fotografie di Paolo Monti; plaquette della mostra (Venezia, “Bottega ‘l Ponte”, 8 – 18 luglio 1953),  a cura della Sezione Fotografica del Centro Studi Arte Contemporanea in Venezia, s.n.t., 1953

 

Morucchio 1953d  

Berto Morucchio, La V Mostra Nazionale della FIAF, “Ferrania”, 7 (1953), n. 7, luglio, pp. 4-6

 

Morucchio 1955a  

Berto Morucchio, Seconda mostra nazionale di Castelfranco Veneto, “Ferrania”, 9 (1955), n. 7, luglio, pp. 7-8

 

Morucchio 1955b  

Berto Morucchio, Seconda mostra internazionale di Venezia, “Ferrania”, 9, (1955), n. 12, dicembre, p. 30

 

Morucchio 1956a  

Berto Morucchio, Un fotografo: Paolo Monti, “Diorama”, 6 (1956) n.9, pp. 8-17

 

Morucchio 1956b  

Berto Morucchio, III Mostra internazionale di Venezia, “Fotografia”,  9 (1956) n. 9, p. 10

 

Mostra 1949  

Mostra internazionale Scambi Occidente  – sezione fotografica, catalogo della mostra ( Torino, Palazzo del Valentino, 10-26 settembre 1949), a cura della Società Fotografica Subalpina e del Gruppo Fotografi Fiat. Torino : s.n., 1949

 

Mostra 1951  

Mostra della fotografia europea (catalogo della mostra,  Milano,  Palazzo di Brera, aprile 1951), a cura dell’Unione Fotografica;  presentazione di Fernanda Wittgens; impaginazione di Luigi Veronesi. Milano : s.n., 1951

 

Mostra 1953  

Mostra della Fotografia italiana, catalogo della mostra (Firenze, Galleria della Vigna Nuova, 2-12 maggio 1953). Milano: Edizioni il Progresso Fotografico, 1953

 

Mostra 1954  

Mostra internazionale dell’Unione Fotografica (Milano, Galleria d’Arte Moderna, 16 maggio-6 giugno 1954).  Milano: Artegrafica Gandolfi,  1954

 

Mulas 1973  

Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati. Torino: Einaudi, 1973

 

Munari 1961 Bruno Munari, Proiezione diretta e a luce polarizzata, “Rivista Internazionale d’Illuminazione”,  10 (1961), n.6,  novembre – dicembre,  pp. 288-289

 

Muraro 1962  

Michelangelo Muraro, Invito a Venezia; introduzione di Peggy Guggenheim, fotografie di Ugo Mulas. Milano: Ugo Mursia, 1962

 

Museo d’Arte Antica 1956  

Museo d’Arte Antica al Castello Sforzesco, “Città di Milano”, 73 (1956), n. 3, marzo, monografico

 

Nadar 1973  

Nadar. Torino: Einaudi, 1973

 

Natkin 1948  

Marcel Natkin, Photography and the art of seeing. London: Fountain Press, 1948  (ed. originale  Paris: Éditions Tiranty, 1935

 

Neorealismo e fotografia 1987  

Neorealismo e fotografia : il Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, 1955-1965, catalogo della mostra (Pordenone, Centro iniziative culturali Pordenone,  1987-1988), a cura di Italo Zannier. Udine: Art&, 1987

 

Neutra 1963  

Richard J. Neutra, Photographe et architecte, “Camera”, 42 (1963), n. 5, maggio, pp. 8-31

 

Nèvola 1953  

Maurizio Nèvola, La montagna e il topolino. Mostra della fotografia italiana 1953, “Il Corriere fotografico”, 50 (1953), n. 12, dicembre pp. 27-30

 

Newhall 1960  

Beaumont Newhall, [Recensione diPeter Pollack, The Picture History of Photography: From the Earliest Beginnings to the Present Day. New York: Harry N. Abrams, 1958, “College Art Journal”, 19 ( 1960), n. 3, pp. 289-290

 

Nicolini 2010  

Toni Nicolini, a cura di, Ernesto Treccani: La mia città. Milano. Fotografie e dipinti. Milano: Fondazione Corrente, 2010

 

Novecento (Il) 1963  

Il Novecento e l’architettura, “Edilizia Moderna”, 35 (1963), n.81, dicembre, monografico

 

Olivato, Puppi 1977  

Loredana Olivato, Lionello Puppi, Mauro Codussi. Milano: Electa, 1977

 

Ongania 1889  

Ferdinando Ongania, Raccolta delle vere da pozzo (marmi pluteali) in Venezia. Venezia: F. Ongania, 1889

 

original copy The, 2010  

The original copy: photography of sculpture, 1839 to today, catalogo della mostra (New York,  Museum of Modern Art, 1 agosto – 1 novembre 2010), a cura di  Roxana Marcoci. New York: The Museum of Modern Art, 2010

 

Orlandi 2012

 

Piero Orlandi, L’esperienza della città: il paesaggio urbano come sguardo fotografico, [tesi di dottorato di ricerca]. Camerino:  Università degli Studi di Camerino, 2012

 

Orlandi 2014  

Piero Orlandi, Visioni di città. La fotografia tra indagine e progetto. Bologna: Bononia University Press, 2014

 

Orlandini 1967  

Sergio Orlandini, A mezzo della luce, “Roto C”, 1 (1967), n. 3, giugno, pp. 16-17

 

Ornano 1945  

Alfredo Ornano, Il ritratto in fotografia. Milano: Poligono,1945

 

Ornano 1947  

Alfredo Ornano, Pessimista a Venezia, “Ferrania”, 1 (1947) n. 9, settembre, p. 4

 

Orosz 2019  

Márton Orosz, Light as a Creative Medium in the Art of György Kepes, “bauhaus-imaginista”, Edition 4, 2019 online: http://www.bauhaus-imaginista.org/articles/5881/light-as-a-creative-medium-in-the-art-of-gyorgy-kepes?

 

Orsi 1956  

Arrigo Orsi, [Recensione di] Hajek-Halke, Experimentelle Fotografie,  “Fotografia”,9  (1956), n. 3, pp. 11-12

 

Orsi, Pirelli 1965  

Carlo Orsi, Giulia Pirelli, Milano. Milano: Bruno Alfieri editore, 1965

 

Otto Steinert 1959  

Otto Steinert und Schüler: Gestalterische fotografie, catalogo della mostra (Essen,  Museum Folkwang , 25  Marzo – 3  Maggio  1959), a cura di Josef Adolf Schmöll. Essen : Folkwang Schule für Gestaltung, 1959

 

Pagano 1938  

Giuseppe Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, 3 (1938), dicembre; ripubblicato in “Costruzioni-Casabella”,  19 (1946), n. 195-198, p. 67

 

Pagano, Daniel 1936  

Giuseppe Pagano, Guarnerio Daniel, Architettura rurale italiana, “Quaderni della Triennale”. Milano: Hoepli, 1936

 

Paine 1966  

Wingate Paine, Memory of Venus, 1966

 

Panoptique 1967  

Panoptique: Architecture et Photographie, “Camera”, 46 (1967) n.12, dicembre, monografico

 

Panorama 1956  

Panorama della fotografia italiana. 40 fotografie di Paolo Monti, brochure della mostra (Genova, Associazione Fotografica Ligure, Salita Santa Caterina 8, 5-18 gennaio 1956), a cura della AFL – Associazione Fotografica Ligure, s.n.t., 1956

 

Paoli 2007  

Silvia Paoli, Paolo Monti ai Musei del Castello Sforzesco. La Pietà Rondanini, “Rassegna di Studi e Notizie”, 24 (2007), vol. 31, pp. 311- 332

 

Paoli 2012  

Silvia Paoli, Fotografia come scrittura . Conversazione con Nino Migliori, in Paoli, Zanchetti 2012,  pp. 273-287

 

Paoli 2015  

Silvia Paoli, Vitali, Gernsheim, Newhall, Soby, 1956-1961. Intorno ad alcune mostre di fotografia a Milano,  “rsf rivista di studi di fotografia”, 1 (2015)  n. 1,  pp. 80-96; online https://oajournals.fupress.net/index.php/rsf/article/view/8846/8844

 

Paoli 2016  

Silvia Paoli, Per strappare un segreto alle cose. Paolo Monti 1928-1959, in Paolo Monti: fotografie 2016, pp. 14-41

 

Paoli, Zanchetti 2012  

Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, atti degli incontri di studio Storie di fotografia (Milano, Castello Sforzesco, ottobre 2007-maggio 2010), “L’uomo nero: materiali per una storia delle arti della modernità”, N.S. 9 (2012), n. 9, dicembre, monografico

 

Paolo Monti 1954  

Paolo Monti, in EPT Rovigo – Ente Settembre Lendinarese, IV Rassegna nazionale d’arte fotografica, catalogo della mostra (Lendinara 1-15 settembre 1954), s.n.t., 1954

 

Paolo Monti 1979  

Paolo Monti: trent’anni di fotografie, 1948-1978, catalogo della mostra ( Reggio Emilia, Sala comunale delle esposizioni,  20 ottobre -15 novembre 1979),  cura di Franco Bonilauri, Nino Squarza; testo di Giuseppe Turroni. Modena: Punto e virgola, 1979

 

Paolo Monti 1983  

Paolo Monti fotografo e l’età dei piani regolatori (1960-1980), catalogo della mostra (Bologna, Palazzo Re Enzo, novembre – dicembre 1983), a cura di IBC –  Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna.  Bologna: Edizioni Alfa, 1983

 

Paolo Monti 1985  

Paolo Monti: Laboratorio ossolano, catalogo della mostra (Verbania, Museo del Paesaggio, 17 agosto – 22 settembre 1985), a cura di Roberta Valtorta. Milano:  Istituto di fotografia Paolo Monti, 1985

 

Paolo Monti 1986

 

Paolo Monti 1998

 

Paolo Monti 2002

 

Paolo Monti fotografo di Brunelleschi: le architetture fiorentine, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, Gabinetto G.P. Viesseux, 19 luglio – 12 agosto 1986),  a cura di Franco Bonilauri. Casalecchio di Reno – Milano: Grafis – Istituto di fotografia Paolo Monti, 1986

 

Paolo Monti: gli anni veneziani 1945-1953, catalogo della mostra ( Venezia, Salone della Cassa di Risparmio di Venezia, 22 maggio-19 giugno 1998), a cura di  Manfredo Manfroi. Venezia : La Gondola, 1998

 

Circolo fotografico Arno, a cura di, Paolo Monti a Figline Valdarno; introduzione di Manfredo Manfroi. Firenze: Opuslibri, 2002

 

 

Paolo Monti  2013  

Paolo Monti e la fotografia: dal censimento al catalogo web, IBC Regione Emilia-Romagna, Bologna, Biblioteca “Giuseppe Guglielmi”, 10 aprile 2013, https://www.youtube.com/playlist?list=PL7Y62vJ_eSDL9NfHpFzNO7Ztnw0e488Wr

 

Paolo Monti 2016  

Paolo Monti: fotografie 1935-1982, catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco, 16 dicembre 2016 – 12 marzo 2017), a cura di Pierangelo Cavanna, Silvia Paoli. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2016

 

Papa 1980  

Marco Papa, La realtà, la fotografia, la scrittura: postille in margine a “L’avventura di un fotografo” di Italo Calvino, “La Rassegna della letteratura italiana” , 1980, n. 1-2, gennaio-agosto, pp. 257-268

 

Pasinetti 2017  

Francesco Pasinetti. Questa è Venezia. 1943, a cura di Alberto Prandi e Carlo Montanaro.  Venezia: Marsilio, 2017

 

Patellani 1943  

Federico Patellani, Il giornalista nuova formula, in Scopinich 1943,  pp. 125-137

 

Paul Strand 1971  

Paul Strand: a retrospective monograph. The years 1950-1968. New York: Aperture, 1971

 

Pazienti 1958  

G.C. Pazienti, La III mostra nazionale di Padova, “Ferrania”, 12 (1958), n. 3, p. 35

 

Pelizzari 2010  

Maria Antonella Pelizzari, Photography and Italy. Chicago –  London: University of Chicago –  Reaktion Books, 2010 (ed. italiana, Percorsi della fotografia in Italia. Roma: Contrasto, 2011)

 

Pelizzari 2011  

Maria Antonella Pelizzari,  Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica (1932), “Visual Resources: An International Journal of Documentation”, 27 (2011),  n.2, giugno, pp. 146-153

 

Pellegrini 1955  

Guido Pellegrini, Fotografia sperimentale, in  Croci 1955, pp. 197-198

 

Pellizza da Volpedo 1980 Pellizza da Volpedo, catalogo della mostra (Alessandria, Sala Comunale d’Arte Contemporanea, Palazzo Cuttica, novembre 1980 – gennaio 1981), a cura di Aurora Scotti. Milano: Electa, 1980.  

 

La Photographie 1999 -2008  

La Photographie. Collection Marie-Thérèse et André Jammes, 19th and 20th Century Photographs. London – Paris: Sotheby’s, 1999, 2002, 2008

 

Pica 1959  

Agnoldomenico Pica,  Architettura italiana ultima.  Milano: Edizioni del Milione, 1959

 

Pica 1972

 

Agnoldomenico Pica, Nuova architettura genovese per l’arte nipponica, in “Domus”, 44 (1972), n. 513 agosto, pp. 54-55

 

Pike 1947  

Oliver G. Pike, La Nature et la Photographie.  London – Paris: Focal Press – Prisma, 1947

 

Pinney 1962  

Roy Pinney, Advertising photography. New York: Hastings House,1962

 

Piovani 1983  

Alberto Piovani, a cura di, Paolo Monti, “I grandi fotografi”. Milano: Gruppo Editoriale Fabbri, 1983

 

Pittura a Rimini 1979  

Pittura a Rimini tra Gotico e Manierismo. Recupero e restauro del patrimonio artistico riminese: dipinti su tavola,  catalogo della mostra (Rimini, Sala delle Colonne, agosto – ottobre 1979),  a cura di Carlo Volpe.  Rimini: Museo Civico, 1979

 

PMI 1965-1966  

“PMI Photo Methods for industry”. New York: Milton T. Astroff, 1965-1966

 

Pollack 1959  

Peter Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi.Milano: Garzanti, 1959 (ed. originale   The picture history of photography from the earliest beginnings to the present day. New York : H. N. Abrams, 1958)

 

Porretta Terme 1969  

Per un rilevamento dei beni artistici e culturali di Porretta Terme, mostra documentaria (Porretta Terme 1969), a cura di Andrea Emilani; fotografie di Paolo Monti . Bologna: Labanti & Nanni, 1969

 

Portoghesi 1966  

Paolo Portoghesi, Roma barocca: storia di una civiltà architettonica. Roma: Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, 1966

 

Portoghesi 1967  

Paolo Portoghesi, Francesco Borromini. Milano: Electa, 1967

 

Portoghesi 1979  

Paolo Portoghesi, In ricordo di Carlo Scarpa, “Controspazio”, 11 (1979), n. 3, maggio-giugno, pp. 2-5

 

Praz 1960  

Mario Praz, Les fontanes de Rome, “L’œil”, 6 (1960), n. 61, pp. 48-55, 101

 

Pygmalion Photographe 1985  

Pygmalion Photographe. La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Genève,Cabinet des estampes, Musée d’art et d’histoire,  28 giugno – 3 settembre 1985), a cura di Michel Rainer Manson.  Genève: Musée d’art et d’histoire, 1985

 

IV Mostra Internazionale 1950  

IV Mostra Internazionale annuale della tecnica fotografica – Catalogo della Mostra del ritratto, catalogo della mostra (Bologna, Salone del Podestà, 1950), a cura della  Associazione Fotografi Professionisti di Bologna, s.n.t.

 

V Mostra Biennale 1965  

V Mostra Biennale Internazionale della Fotografia, brochure della mostra (Venezia, Palazzo Vendramin Calergi, 16 ottobre-14 novembre 1965).  s.n.t.

 

Quintavalle 1977  

Arturo Carlo Quintavalle, Antonio Migliori. “CSAC- Quaderni” 36. Parma: Università di Parma, 1977

 

Quintavalle 1978  

Arturo Carlo Quintavalle, Il commercio del senso, 1978, ora in Id., Messa a fuoco: Studi sulla fotografia. Milano: Feltrinelli, 1983, p. 378

 

Quintavalle 1979a  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Monti: Case coloniche in provincia di Bologna 1973,  in Enciclopedia pratica per fotografare, 9. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 1295-1300

 

Quintavalle 1979b  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Monti: Piazze d’Italia 1978,  in Enciclopedia pratica per fotografare, 38. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 1167-1182

 

Quintavalle 1979c  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Monti: La Pietà Rondanini 1977,  in Enciclopedia pratica per fotografare, 75. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 2351-2356

 

Quintavalle 1979d  

Arturo Carlo Quintavalle, Procida 1972 di Paolo Monti, in  Enciclopedia pratica per fotografare, 3. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 255-260

 

Quintavalle 1993  

Arturo Carlo Quintavalle, Muri di carta : fotografia e paesaggio dopo le avanguardie. Milano : Electa, 1993

 

Quintavalle 2003  

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Quintavalle 2010  

Arturo Carlo Quintavalle, Lanfranco Colombo e la storia della fotografia, in Lanfranco Colombo, Fotogrammi di una vita. Torino: Allemandi,  & C., 2010, pp. 7-15

 

Quintavalle, Barbaro 1980  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Barbaro, a cura di, Studio Villani. Il lavoro della fotografia. Parma: CSAC, 1980

 

Racanicchi 1958  

Piero Racanicchi, Spigolature ai margini di uno scritto, “Ferrania”, 12 (1958), n.6, giugno, pp. 6-9

 

Racanicchi 1963a  

Piero Racanicchi, La figura umana nell’arte figurativa e nella fotografia: considerazioni, in  La figura umanaII  Mostra nazionale di fotografia,  catalogo della mostra (Bergamo, Aula ex Consiliare, 20 – 31 ottobre 1963), a cura della Associazione Fotografica Bergamasca e del Circolo fotografico Legler di Ponte San Pietro. Bergamo: Bolis, 1963

 

Racanicchi 1963b  

Piero Racanicchi, Fotodinamismo futurista, “Popular Photography Italiana”, 7 (1963), n. 67,gennaio, p. 43

 

Ragghianti 1958  

Carlo Ludovico Ragghianti, Arte e Fotografia, intervista di Piero Racanicchi, “seleArte”, 8 (1958), n. 38, novembre-dicembre, pp. 2-10

 

Ragghianti 1959a  

Carlo Ludovico Ragghianti, Fotodinamica futurista: Una postilla a “fotografia ed arte”, “seleArte”, 9 (1959), n. 39, gennaio-febbraio, p. 8

 

Ragghianti 1959b  

Carlo Ludovico Ragghianti, Il negozio Olivetti a Venezia: La “Crosera de piazza” di Carlo Scarpa, “Zodiac”, 1959, n. 4, pp. 128-147

 

Raspi Serra  1971  

Joselita Raspi Serra, Tuscania. Cultura ed espressione artistica di un centro medievale. Roma: Banco di Santo Spirito – ERI, 1971

 

Raspi Serra  1972  

Joselita Raspi Serra, La Tuscia romana. Roma: Banco di Santo Spirito – ERI, 1972

 

Red. 1953  

Red., Immagini europee: Il Modern Museum presenta la collezione raccolta da Steichen,  “Ferrania”, (1953) n.9, p. 34

 

Red. 1953a  

Red., Esposizione, “Ferrania” 6 (1953), n. 1, p. 34

 

Red. 1957a  

Red., A buried treasury [Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo a Genova], “Architectural Forum”, 106 (1957), n.4, aprile, pp. 152-155

 

Red. 1957b  

Red., La prima fotografia del mondo alla XI Triennale di Milano, “Popular Photography Italiana”, 1 (1957), n.2, agosto, p. 56

 

Red. 1960  

Red., L’opera di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio a Verona, “Domus”, 33 (1960),  n. 369, agosto, pp. 39-53

 

Red. 1961a  

Red., Antonio Migliori, “Ferrania”, 15 (1961), n. 12, dicembre, p. 159

 

Red. 1961b  

Red., Ferrania nel mondo: Italia ‘61, “Ferrania”, 15 (1961), n. 10, ottobre, pp.n.n.

 

Red. 1975  

Red., Diciotto anni di idee fotografiche, “Il Diaframma Fotografia Italiana”, 14 (1975), n. 199-200, gennaio – febbraio, pp. 8-22

 

Regione Piemonte 1980  

Regione Piemonte,  Legge regionale n. 43 del 13 maggio 1980, Contributo alla Fondazione arch. Enrico Monti per ‘Programma di censimento dei beni culturali minori e creazione di un archivio per la storia delle tradizioni popolari

 

Regorda 2010  

Patrizia Regorda, La Concerned Photography in Italia: fotografia e impegno civile. “Quaderno di Villa Ghirlanda” n.8. Cinisello Balsamo – MUFOCO – Silvana Editoriale, 2010

 

Renzi 1969  

Renzo Renzi, Ferrara.  Bologna:  Alfa, 1969

 

Restany  1962  

Pierre Restany, Le “nouveau réalisme” de Rotella, “Metro”, 3 (1962), n. 6, pp. 98-101

 

Rey [1908] 1925  

Guido Rey, Fotografia inutile?, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana 1925. Torino: “Il Corriere Fotografico”, 1925, pp. 5-10

 

Ricci 1976  

Giovanni Ricci, Bologna. Storia di un’immagine; fotografie di Paolo Monti, introduzione di Andrea Emiliani. Bologna: Alfa, 1976

 

Riccòmini 1972  

Eugenio Riccòmini, Ordine e vaghezza: la scultura in Emilia nell’età barocca. Bologna: Zanichelli, 1972

 

Riccòmini 1977  

Eugenio Riccòmini, Vaghezza e furore : la scultura del Settecento in Emilia. Bologna : Zanichelli, 1977

 

Ri-conoscere Michelangelo 2014  

Ri-conoscere Michelangelo: la scultura del Buonarroti nella fotografia e nella pittura dall’Ottocento a oggi, catalogo della mostra (Firenze, Gallerie dell’Accademia, 18 febbraio – 18 maggio 2014  )  a cura di Monica Maffioli e Silvestra Bietoletti. Firenze – Milano:  Firenze Musei – Giunti, 2014

 

Rizzi 2010

 

Enrico Rizzi, “…per strappare un segreto alle cose”: contributo a una biografia, in Zanzi 2010,  pp. 332-344

 

Rogers 1955  

Ernesto Nathan Rogers,  Architettura e fotografia. Nota in memoria di Werner Bischof, “Casabella-Continuità”, 2 (1955),  n. 205, aprile-maggio,  pp. 156-157

 

Roiter 1954  

Fulvio Roiter, Venise a fleur d’eau. Lausanne : La Guilde du Livre, 1954

 

Roiter 1955  

Fulvio Roiter, Ombrie:  Terre de Saint-François. Lausanne : Guilde du Livre, 1955

 

Roiter 1956  

Fulvio Roiter, Amateurisme et profession photographique en Italie, Camera”, 35 (1956), n. 4, aprile, p. 137

 

Roiter 1977  

Fulvio Roiter, Essere Venezia. Udine: Magnus Edizioni, 1977

 

Romano 1978  

Giovanni Romano, Studi sul paesaggio. Torino: Einaudi, 1978 ( seconda edizione: 1991)

 

Ronis 1951  

Willy Ronis, Photo-reportage et chasse aux images. Paris: Paul Montel, 1951

 

Rosa 1979  

Alessandro Rosa, Apri il tuo catalogo ai maestri dell’obiettivo,  “Tuttolibri attualità”,  5 (1979), n. 25, 30 giugno, p. 5

 

Rosenblum, Morello 2002  

Naomi Rosenblum, Paolo Morello, Fulvio Roiter. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2002

 

Rovati 1999  

Federica Rovati, Il ‘Romanticismo’ di Francesco Arcangeli, “Accademia Clementina. Atti e memorie”, N.S. 38-39, (1998/1999), pp. 117-169

 

Roy, Strand 1952  

Claude Roy, Paul Strand, La France de Profil. Losanna: Clairefontaine, 1952

 

Ruskin [1855] 1903  

John Ruskin, Preface to the Second Edition, in Id.,The Seven Lamps of Architecture. London: Smith, Elder, & Co., 1855, ora in  E. T. Cook,  Alexander Wedderburn, a cura di, The Complete Works of John Ruskin; VIII, London – New York:  George Allen – Longmans, Green, And Co,  1903, pp. 7-14

 

Russo 2011  

Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana: dal neorealismo al postmoderno. Torino: Einaudi, 2011

 

Russo 2021  

Antonella Russo, Italian Neorealist Photography: Its Legacy and Aftermath. London: Routledge, 2021

 

Russoli 1960  

Franco Russoli, Pour une muséographie efficace, “L’œil”, 6 (1960), n. 61, pp. 41-47

 

Sabastiani 1998

 

Gioia Sabastiani, I libri di Corrente: Milano 1940-43 : una vicenda editoriale. Bologna: Edizioni Pendragon, 1998

 

Santa Cecilia 1983a  

L’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello da Urbino nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, Pinacoteca Nazionale, 18 ottobre – 18 dicembre 1983), a cura di Carlo Bernardini, Gabriella Zarri, Andrea Emiliani. Bologna: Edizioni Alfa, 1983

 

Santa Cecilia 1983b  

La Santa Cecilia di Raffaello: indagini per un dipinto;  introduzione di Andrea Emiliani, repertorio fotografico di Paolo Monti.  Bologna: Edizioni Alfa, 1983

 

Santoro 2019  

Lorena Santoro, Mostra della Fotografia Italiana 1953. Ambizioni disattese del progetto di Giuseppe Cavalli, “rsf rivista di studi di fotografia”,   5 (2019), n. 10, pp. 140-153

 

Savi 1990  

Vittorio Savi, L’ombra dell’ora, in  In Prospettiva. Fotografie di architettura in Europa, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Sala Mostra Antico Foro Boario, 1990)  a cura di Laura Gasparini e Luigi Ghirri;  Reggio Emilia:  Comune di Reggio Emilia – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Savonuzzi 1979  

Claudio Savonuzzi, Mettiamoci tutti in posa, “Tuttolibri” speciale, 5 (1979), n. 46, 8 Dicembre, p. 11

 

Scene e costumi 1969 Scene e costumi di Luciano de Vita. Bologna: Galleria De’ Foscherari, 1969

 

Scharf 1969  

Aaron Scharf, Art and Photography. London: Penguin Books,1969 (ed. it. Arte e fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schenk  1954  

Gustav Schenk, Schöpfung aus dem Wassertropfen. Berlino:Karl H. Henssel Verlag, 1954

 

Schiaffini 2017  

Ilaria Schiaffini, La mostra Fotografie astratte all’Obelisco nel 1951: il sodalizio fra Pasquale De Antonis e Corrado Cagli,  “rsf rivista di studi di fotografia” 3 (2017), n. 6,  pp. 28-49

 

Schwarz 1978  

Angelo Schwarz, [Intervista a] Paolo Monti (1978), “Il Diaframma. Fotografia Italiana”, n.244, dicembre 1978, ora  in Id., Trenta voci sulla fotografia. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1983, pp. 140-146

 

Scimé 1993  

Giuliana Scimé, a cura di, Bauhaus e Razionalismo nelle fotografie di Lux Feininger, Franco Grignani, Xanti Schawinsky, Luigi Veronesi. Milano: Mazzotta, 1993

 

Scimemi 2004a  

Maddalena Scimemi, Vite parallele: Intervista a Fulvio Roiter , in  Carlo Scarpa 2004, pp. 181-186

 

Scimemi 2004b  

Maddalena Scimemi, Vite parallele: Intervista a Gianni Berengo Gardin , in  Carlo Scarpa 2004, pp. 187-190

 

Scopinich 1943a  

Ermanno Federico Scopinich, Considerazioni sulla fotografia italiana,  in Scopinich 1943b, pp. 7-10

 

Scopinich 1943b  

Ermanno Federico Scopinich, a cura di,  Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

 

Scotti 1981  

Aurora Scotti, Giuseppe Pellizza da Volpedo e la fotografia, in “Prospettiva”, n.26, luglio 1981, pp.68-74

 

Scotti 1986  

Aurora Scotti, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale. Milano: Electa, 1986

 

Sculpter-Photographier 1991 Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi,  Museo del Louvre, 22 – 23 novembre 1991), a cura di Michel Frizot, Dominique Paini. Paris: Marval, 1991

 

Scultura italiana 1966-1968 Scultura italiana, 5 voll. Milano: Electa, 1966-1968
Un secolo di fotografia 1957  

Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Triennale, 27 luglio-4 novembre 1957), a cura di Helmut e Alison Gernsheim. Milano: Triennale, 1957

 

II Mostra dell’Estetica 1953 II Mostra dell’Estetica Industriale, catalogo della mostra (Milano, Fiera Campionaria, 18-24 aprile 1953).  Milano: Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano, 1953

 

2ª Mostra Internazionale 1955 2ª Mostra Internazionale di Fotografia, catalogo della mostra (Venezia, Ca’ Giustinian, Sala degli Specchi, 1-15 giugno 1955), a cura del Circolo fotografico La Gondola.  Venezia. Venezia: Tip. Fantoni, 1955

 

II biennale internazionale 1958 II biennale internazionale di fotografia per invito, patrocinata da “Camera”, catalogo della mostra (Pescara, Palazzo Pomponi, 1-20 settembre 1958), a cura del Foto Club Pescara. Senigallia: Giacomelli & Mancini, 1958

 

Serena 2013  

Tiziana Serena, Il tesoro dei pirati, in Cinelli et al., 2013,  pp. 117-142

 

Sereni 1961  

Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano. Bari:  Laterza, 1961

 

Servadio 1967  

Emilio Servadio, Psicologia e psicopatologia del fotografare, in Astaldi 1967,  pp. 63-67

 

Setti 2017  

Stefano Setti, Giuseppe Pagano e Franco Albini fotografi: Duplici sguardi, “Figure – Rivista della Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Università di Bologna”, 3  (2017), pp. 73-84

 

Sinisgalli 1957  

Leonardo Sinisgalli, Fotografie di De Antonis. Invito – pieghevole di mostra. Roma:  Galleria L’Obelisco, 1957

 

Skulptur im Licht 1997  

Skulptur im Licht der Fotografie. Von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Duisburg, Wilhelm Lehmbruck Museum, 6 dicembre 1997 – 22 febbraio 1998), a cura di Erica Billeter. Bern:  Benteli Verlag, 1997

 

Smaniotto 2020  

Ada Smaniotto, Poétique balzacienne des noms de personnages. «Faire concurrence à l’état civil». Paris: Classiques Garnier, 2020

 

Solinas Donghi 1959  

Beatrice Solinas Donghi, L’estate della menzogna. Milano: Feltrinelli,  1959

 

Sommer 1873  

Giorgio Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta, s.n.t., s.d. [1873?]

 

Sommer 1992  

Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia: 1857-1891. catalogo della mostra (München, Fotomuseum im Münchner Stadtmuseum, 11 settembre-8 novembre 1992; Roma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993) a cura di Marina Miraglia, Pino Piantanida, Ulrich Pohlmann, Dietmar Siegert. Roma: Carte Segrete, 1992

 

Soragni 1980  

Ugo Soragni,  Montagnana, “Storia dell’arte italiana”, 8, Inchieste sui centri minori. Torino: Einaudi 1980,  pp. 69-103

 

Sotheby’s 1999  

Sotheby’s London, Photography: The Collection of Marie-Thérèse and André Jammes, 27 ottobre 1999

 

Spesso, Porcile 2019 Marco Spesso, Gian Luca Porcile, Da Zevi a Labò, Albini e Marcenaro. Musei a Genova 1948-1962: intersezioni tra razionalismo e organicismo. Genova: Genova University Press, 2019

 

Steichen 1953  

Edward Steichen, Post-War European Photography, in Tom Maloney, a cura di,  “U.S. Camera 1954”. New York: U. S. Camera Publishing Corp. 1953, pp. 9-71

 

Steiner 1954a  

Albe Steiner, L’estetica del prodotto, “Domus” 27 (1954), n.  290, p. 67

 

Steiner 1954b  

Albe Steiner, [Sulla fotografia], “Lavoro: settimanale della Confederazione generale italiana del lavoro”, 7  (1954), n.46, 14 novembre

 

Steiner 1978  

Albe Steiner, Il mestiere di grafico. Torino: Einaudi, 1978

 

Steinert 1952  

Otto Steinert, Subjektive Fotografie: Ein Bildband moderner europäischer Fotografie.  Bonn- Rhein: Brüder Auer Verlag,1952

 

Steinert 1955  

Otto Steinert, Subjektive Fotografie 2. Ein Bildband moderner Fotografie. Bonn: Brüder Auer Verlag,1955

 

Stephenson 2009  

Sam Stephenson, The Jazz Loft Project. Photographs and Tapes of W. Eugene Smith from 821 Sixth Avenue, 1957-1965.  New York: Knopf, 2009

 

Stucchi 1957a  

Carlo Stucchi, Ancora le odierne tendenze della nostra  fotografia, “Il Corriere fotografico”, 54 (1957) n. 48, febbraio, pp.27-28

 

Stucchi 1957b  

Carlo Stucchi, Cultura e fotografia, “Il Corriere fotografico”, 54 (1957) n. 51, maggio-giugno, pp.26-28

 

Subjektive fotografie 1951  

Subjektive fotografie : Internationale Ausstellung moderner Fotografie, catalogo della mostra (Saarbrücken, 12 – 29 luglio 1951), a cura del Fotografischen Abteilung der Staatlichen Schule für Kunst und Handwerk.  Saarbrücken: Staatliche Schule für Kunst und Handwerk, 1951

 

Subjektive fotografie 1954  

Subjektive fotografie 2. Ausstellung Moderner Fotografie, catalogo della mostra (Saarbrücken,  Staatlichen Schule für Kunst und Handwerk, 27  novembre 1954 –  27 gennaio 1955), a cura di Otto Steinert. Saarbrücken:  Staatlichen Schule für Kunst und Handwerk, 1954

 

Subjektive fotografie 1960 Subjektive fotografie 3. Mostra internazionale di fotografia, catalogo della mostra (Varese, Villa Mirabello, 2-16 ottobre ). Varese: Tip. L’Ammonitore,  1960

 

Sul limite 2007  

Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, Museo  Nazionale della Montagna, 17 maggio-7 ottobre 2007), a cura di Pierangelo Cavanna, “Cahier Museomontagna”, 157. Torino: Museo Nazionale della Montagna – Club Alpino Italiano Torino, 2007

 

Tafuri 1984  

 

Manfredo Tafuri, Il frammento, la ‘figura’, il gioco: Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana, in Francesco Dal Co, Giuseppe Mazzariol, a cura di,

Carlo Scarpa: Opera completa. Milano: Electa, 1984 pp. 73-95

 

Tagg 2009  

John Tagg, The Disciplinary Frame. Photographic Truths and the Capture of Meaning, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2009

 

Tani 2007  

Giorgio Tani, a cura di, Alfredo Camisa. Torino: FIAF, 2007

 

TCI 1947  

Touring Club Italiano, Venezia e la sua laguna. Milano:  Touring Club Italiano, 1947

 

TCI 1967  

Touring Club Italiano, Puglia. Milano:  Touring Club Italiano, 1967

 

TCI 1969a  

Touring Club Italiano, Liguria. Milano:  Touring Club Italiano, 1969

 

TCI 1969b                  

Touring Club Italiano, Umbria. Milano:  Touring Club Italiano, 1969

 

TCI 1970  

Touring Club Italiano, Abruzzo e Molise. Milano:  Touring Club Italiano, 1970

 

TCI 1971  

Touring Club Italiano, Marche. Milano:  Touring Club Italiano, 1971

 

TCI 1972a  

Touring Club Italiano, Milano. Milano:  Touring Club Italiano, 1972

 

TCI 1972b  

Touring Club Italiano, Ville d’Italia. Milano:  Touring Club Italiano, 1972

 

Tedeschi G. 1967  

Giuseppe Tedeschi, Il libro fotografico, in Astaldi 1967, pp. 152-157

 

Tedeschi L. 2010  

Letizia Tedeschi, Algoritmie spaziali: gli artisti, la rivista “Spazio” e Luigi Moretti, in Luigi Moretti 2010, pp. 137-177

 

III Mostra Internazionale1949  

III Mostra Internazionale annuale della tecnica fotografica – Catalogo della Mostra del ritratto, catalogo della mostra (Bologna, Salone del Podestà, 1949) ), a cura della  Associazione Fotografi Professionisti di Bologna,s.n.t., 1949

 

III Mostra Internazionale1956  

III Mostra internazionale di fotografia, catalogo della mostra (Venzia, Ca’ Giustinian, 24 giugno -25 luglio 1956), introduzione di Fulvio Roiter. Venezia: Fantoni, 1956

 

Three European Photographers 1965 Three European Photographers, plaquette della mostra (Worcester Art Museum, 15 giugno – 7 settembre 1965), a cura di  Stephen B. Jareckie. Worcester: Worcester Art Museum, 1965

 

Tinacci 2018  

Elena Tinacci, Mia memore et devota gratitudine: Carlo Scarpa e Olivetti, 1956-1978. Roma: Edizioni di Comunità, 2018

 

Toesca 1939  

Pietro Toesca, Un capolavoro di Michelangelo: “La Pietà di Palestrina”, fotografie di Giuseppe Pagano,  “Le Arti”, 1 (1939), n.2, dicembre-gennaio, pp. 105-110

 

Toschi 2020  

Caterina Toschi,  Olivetti e l’editoria d’arte, in Il libro d’arte in Italia (1935-1965), Atti delle giornate di studio (Pisa, Scuola Normale Superiore, 28-29 giugno 2018) a cura di Massimo Ferretti. Pisa: Edizioni della Normale, 2020, pp. 159-175

 

Trincanato 1948  

Egle Trincanato, Venezia minore, con un testo di Agnoldomenco Pica. Milano:  Edizioni del Milione, 1948

 

Turroni 1956  

Giuseppe Turroni, Formule, scuola e cultura, “Fotografia”, 9 (1956), n.9, settembre, p. 9

 

Turroni 1957a  

Giuseppe Turroni, Cultura vecchia e nuova nella fotografia italiana, “Ferrania”, 11 (1957), n. 5, maggio, pp. 24-25

 

Turroni 1957b  

Giuseppe Turroni, Paolo Monti, il miglior fotografo italiano d’oggi, “Civiltà delle macchine”, 5 (1957), n. 3, maggio – giugno, pp. 62-63

 

Turroni 1958  

Giuseppe Turroni, Fotografie astratte di Antonio Migliori, “Ferrania”, 12 (1958), n. 8, agosto, pp. 2-5

 

Turroni 1959  

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano:  Schwarz, 1959

 

Turroni 1961  

Giuseppe Turroni, Per una storia della fotografia, “Fotografia”, 14 (1961), n.9, settembre, p. 23

 

Turroni 1962  

Giuseppe Turroni, Guida alla critica fotografica. Milano:  Il Castello, 1962

 

Turroni 1966  

Giuseppe Turroni, I fotografi pubblicitari: una nuova cultura, “Ferrania”, 20 (1966) n. 10, ottobre, pp. 2-11

 

Turroni 1967a  

Giuseppe Turroni, L’esteta del benessere, “Ferrania, 21 (1967), n. 1, gennaio, pp. 10-21

 

Turroni 1967b  

Giuseppe Turroni, Lo stile “Vogue”, “Ferrania, 21 (1967), n.2, febbraio, pp. 10-18.

 

Unione Fotografica 1953  

Unione Fotografica, La mostra della fotografia italiana a Londra giudicata dagli inglesi, “Ferrania”, 7 (1953), n. 5, maggio, pp. 14-16

 

V. P. 1980  

V.P.,  A scuola dai professionisti. Paolo Monti: l’Arte, “Fotopratica”, 13  (1980) n. 114, dicembre, pp.47-49

 

Vaccari 1966  

Franco Vaccari, Le Tracce; introduzione di Adriano Spatola. Bologna:  Sanpietro, 1966

 

Valentinelli 2017  

Alessandra Valentinelli, a cura di, Italo Insolera fotografo. Roma: Palombi Editori, 2017

 

Valeri 1967  

Diego Valeri,  a cura di, Padova, i secoli, le ore; fotografie di Paolo Monti. Bologna : ALFA, 1967

 

Valsecchi 1962  

Marco Valsecchi, Umberto Milani: sculture dal 1944 al ’62, “I Quaderni del Milione” n. 3 . Milano: Edizioni del Milione, 1962

 

Valtorta 1983  

Roberta Valtorta, Una lettura per raffronti e interrelazioni, in Santa Cecilia 1983a, pp.335-336

 

Valtorta 1993  

Roberta Valtorta, Un occhio che scopre, “IBC – Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”, 1 (1993), n. 4, pp. 30-31

 

Valtorta 2000  

Roberta Valtorta, Paolo Monti, “History of Photography”, 24 (2000), n.3, pp. 196-201

 

Valtorta 2008  

Roberta Valtorta, a cura di, Paolo Monti: scritti e appunti sulla fotografia. Milano: Lupetti, 2008

 

Valtorta 2013  

Roberta Valtorta, a cura di, Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea. Torino: Einaudi, 2013

 

Valtorta 2016  

Roberta Valtorta, Note su Gabriele Basilico, Paolo Monti, la committenza pubblica ieri e oggi, “IBC” , 24 (2016), n. 1 http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-201601/xw-201601-a0004

 

Vannucci Zauli 1945  

Giuseppe Vannucci Zauli, Il bello fotografico.  Firenze: Giannini, 1945

 

26 fotografi 1957  

26 fotografi italiani. IV Mostra di fotografia Città di Spilimbergo (catalogo della mostra), a cura di  Italo Zannier. Spilimbergo: Pro Spilimbergo – Gruppo friulano per una nuova fotografia – EPT, 1957

 

Verbale 1950  

Verbale delle deliberazioni della giuria per il concorso fotografico indetto dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, “Ferrania”, 4 (1950), n. 10, p. 31

 

Vergani, Crocenzi,  Birelli 1967  

Leonardo Vergani, Luigi Crocenzi,  Diego Birelli, a cura di, Milano. Milano: Electa, 1967

 

Veronesi 1957  

Giulia Veronesi, Un secolo di fotografia alla Triennale, “Ferrania”, 11 (1957), n.11, novembre, pp. 14-15

 

Vetrotessile 1960  

Vetrotessile. Milano: Off. grafiche Elli & Pagani, 1960

 

Vilander 1968  

Ica Vilander, La donna vista da una donna. Torino:  Edizioni Dellavalle, 1968

 

Villa 2003  

Carlo Federico Villa, Una sonora clausura: La Galleria d’arte moderna di Torino. Cronaca di un’istituzione.  Cinisello Balsamo : Silvana, 2003

 

Le ville genovesi 1967  

Le ville genovesi, catalogo della mostra (Genova, 1962), a cura di  Emmina De Negri, Cesare Fera, Luciano Grossi Bianchi, Ennio PoleggiGenova: Italia Nostra, sezione di Genova –  Comune di Genova, 1967

 

Weber 1997  

Susanna Weber, “Non siamo stati noi, era nel destino delle cose”. La fine del Gruppo “La Bussola” nell’epistolario dell’Archivio Camisa, in Forme di luce 1997, pp. 21-26

 

Weltausstellung 1964  

Weltausstellung der Photographie. 555 Photos von 264 Photographen aus 30 Ländern zu dem Thema: Was ist der Mensch? , catalogo della mostra itinerante, a cura di Karl Pawek; introduzione di Heinrich Böll . Hamburg : Nannen, 1964

 

White 1950  

Minor  White, Fourth Sequence, Colophon, 1950, in Filippo Maggia, a cura di, Minor White/ Life is Like a Cinema of Stills.  Milano: Baldini&Castoldi, 2000, p.17

 

Windisch 1951  

Hans Windisch, La photographie de la Nouvelle Ecole. Paris: Prisma, 1951

 

Wittkower  1959  

Rudolf Wittkower, Montagnes sacrées,  “L’œil”,  5 (1959), n. 59,  novembre, pp. 54-61, 92

 

Wölfflin 2008  

Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008

 

Wollner 2012  

Jan Wollner, The Architecture of Metropolis, “Umělec magazine” 16 ( 2012) n.1. Online http://www.divus.cc/london/en/umelci/detail?id=69 (06 12 2021)

 

Ylla 1950a  

Ylla, Des Bêtes photographiées; testo di  Jacques Prévert Paris: Gallimard, 1950

 

Ylla 1950b  

Ylla, Hunde. Zürich: Fretz & Wasmuth Verlag, 1950

 

Ylla 1952  

Ylla, 85 Gatti. Torino: S.A.I.E,  1952

 

Ylla 1954  

Ylla, Deux petites ours. Lausanne: Clairefontaine, 1954

 

Zanelli 1954  

Agostino Zanelli, Una mostra di fotografia a carattere nazionale, “Ferrania”, 8 (1954), n. 10, ottobre, p. 5

 

Zannelli 2010  

Diletta Zannelli, a cura di, Tra le carte di Antonio Arcari: fotografia, educazione visiva 1950- 1980. Milano: Lupetti, 2010

 

Zannelli 2016  

Diletta Zannelli, La sperimentazione astratta nella fotografia di Paolo Monti (1950-1970), “rsf rivista di studi di fotografia”,  2 (2016), n. 3, pp.  74-93

 

Zannier 1956a  

Italo Zannier, Deux générations, “Camera”, 35 (1956), n. 4, aprile, p. 138

 

Zannier 1956b Italo Zannier, La III mostra internazionale di Venezia, “Ferrania”, 10 (1956), n. 9,  settembre, p. 2
Zannier 1956c  

Italo Zannier, Verso una fotografia italiana, “Fotografia”,  9 (1956) n.2, febbraio, p. 11

 

Zannier 1957a  

Italo Zannier, Considerazioni sulla fotografia italiana, in 26 fotografi 1957, pp.n.n.

 

Zannier 1957b  

Italo Zannier, Due libri. “New York” di Klein, “Dagli Incas agli Indios” di Bischof, Frank, Verger, “Fotografia”, 10 (1957), n. 2, febbraio, pp. 15-16

 

Zannier 1957c  

Italo Zannier, La I Biennale internazionale della fotografia a Venezia, “Ferrania”, 11 (1957), n.7,  luglio pp. 10-16

 

Zannier 1958  

Italo Zannier, Alfredo Camisa, “Ferrania”, 12 (1958), n. 11,  novembre, p. 2

 

Zannier 1960  

Italo Zannier, Ricordo di Giulio Parmiani, “Ferrania”, 14 (1960), n. 7,  luglio, pp. 2-11

 

Zannier 1965  

Italo Zannier, Una mostra retrospettiva del circolo “La Gondola”, “Ferrania”, 19 (1965), n. 5, maggio, p. 18

 

Zannier 1974  

Italo Zannier, Breve storia della fotografia. Milano: Il Castello, 1974

 

Zannier 1979a  

Italo Zannier, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1979b  

Italo Zannier, Fotografia italiana contemporanea, in Venezia ’79 la Fotografia: Fotografia italiana contemporanea. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1986a  

Italo Zannier, Le “astrazioni involontarie” di Paolo Monti, “Fotologia”, 5 (1986), estate-autunno, pp. 53-69

 

Zannier 1986b  

Italo Zannier, Una lettera di Luigi Crocenzi, “Fotologia”, 5 (1986), estate-autunno, pp. 70-73

 

Zannier 1991  

Italo Zannier, Architettura e fotografia. Roma – Bari: Laterza, 1991

 

Zannier 1997  

Italo Zannier, Il gruppo “La Bussola” e la fotografia italiana del dopoguerra, in Forme di luce 1997, pp. 5-19

 

Zannier 2000  

Italo Zannier, Verso una storia moderna della fotografia in Italia, in Paolo Morello, Amen fotografia 1839-2000: immagini e libri dall’archivio di Italo Zannier. Palermo – Milano: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia – Skira, 2000, pp. 11-55

 

Zannier 2004  

Italo Zannier, Un recupero storico: Catone Ramello fotografo, con un testo di Giuseppe Marchiori, “Fotostorica”, N.S. 27-28 (2004), giugno, pp. 19-21

 

Zannier 2006  

Italo Zannier, Mario Finazzi : un fotografo solarizzato, in Mario Finazzi, catalogo della mostra (Bergamo, GAMeC, 6 aprile – 16 luglio 2006), a cura di Maria Cristina Rodeschini Galati, Italo Zannier. Bergamo:   Lubrina Editore, 2006, pp. 9-18

 

Zannier 2007  

Italo Zannier, Paolo Monti et le projet de Bologne, “ Strates . Matériaux pour la recherche en sciences sociales”, 13, 2007, http://strates.revues.org/6162

 

Zannier 2019  

Italo Zannier, La fotografia, soprattutto: conversazione con Silvia Paoli. Milano: Mimesis, 2019

 

Zanzi 2010  

Paolo Zanzi, a cura di, Paolo Monti. Fotografia. Nei segreti della luce. Milano: BEIC, 2010

 

Zanzi 2012  

Paolo Zanzi, a cura di, Paolo Monti. Fotografia. Il furore del nero. Milano: Skira, 2012

 

Zapponi 1956  

Ferruccio Zapponi, La Mostra Nazionale di Padova, “Fotografia”, 9 (1956), n.4, aprile, p. 29

 

Zevi [1948] 1970  

Bruno  Zevi, Saper vedere l’architettura [1948]. Torino: Einaudi, 1970

 

Zevi 1977  

Bruno Zevi, a cura di, Brunelleschi anticlassico, “Architettura – Cronache e Storia”, 23 (1977), n. 262-263  agosto-settembre, monografico

 

Zorzi et al. 1971  

Alvise Zorzi, Elena Bassi, Terisio Pignatti, Camillo Semenzato, a cura di, Il Palazzo Ducale di Venezia. Torino: ERI, 1971

 

 

Cinquant’anni di sguardi: La fotografia scopre il Sacro Monte (1998)

in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea. Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria,  1998, pp.  137-145

 

 

 

“Crea è veramente un luogo amenissimo (…) Ma per ben intendere a cosa realmente serva il Santuario di Crea per i quattro quinti almeno di coloro, che là si arrampicano, è bene visitarlo in un giorno di domenica dei mesi d’agosto, di settembre o di ottobre.

Che mondo!…. Che baccano allora udiremmo su quel piazzale del convento!….

Qui un confettiere vorrebbe raddolcire la bocca (non parliamo della lingua) a tutta la gente: là un rumoroso venditore di rocche pretende che tutti (…) comprino lo strumento indispensabile per preparare il corredo delle spose. Più in qua un acquacedrataio ci introna le orecchie gridando: «acqua giassà:» a noi vicino poi una fruttivendola vuole riempirci, se pur lo potesse, le tasche di «castagne belle e calde, » mentre ci regala il fumo della sua caldarrostiera. De-Maria stando sulla porta del suo albergo saluta i nuovi arrivati: un gruppo di signore si muove verso il tempio accompagnate dai loro cavalieri serventi (…) famiglie d’operai vanno cercando un luogo per poter comodamente vuotare le canestre dei cibi (…) Vispe ed allegre fanciulle prendono i molti sentieri che su e giù s’intersecano pel bosco (…) E la volta del cielo copre tutta la varia scena: il bosco nasconde anche i peccati di desiderio (…).” (Niccolini 1877, pp.519-520)  Il tono di questa descrizione ha tutta la vivacità di un’istantanea: la raffigurazione di una coralità, di un insieme è risolta per scene fissate nel momento del loro compiersi, lontane dalla fissità della posa, in modi che la fotografia solo in quegli anni iniziava faticosamente a mostrare;  è proprio questa però -e quindi il fotografo- a risaltare per la sua assenza dalla scena sonora e viva che si svolge sulla piazza del Santuario e nei boschi intorno, che nel 1877 poco ancora sembrano aver conservato o riconquistato di sacro.  Nessun fotografo, da Asti, da Casale, da Vercelli a mescolarsi alla folla domenicale per eseguire ritratti a consegna immediata, le povere lastre zincate, nerastre,  rivestite al collodio dei ferrotipi,  utilizzati dagli ambulanti in giro per villaggi e fiere, per santuari.

Quando il primo fotografo – almeno per ciò che ne sappiamo sinora – sale a Crea è trascorso poco più che un anno dalla pubblicazione di questo testo, ma la sua attenzione non si sofferma certo sugli stessi soggetti: le tre riprese che Vittorio Ecclesia realizza nel 1878-1880 e presenta poi all’Esposizione torinese del 1884 riguardano la facciata e l’interno del santuario ed una Veduta generale del Sacro Monte di Crea  ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi, per la sua capacità di porre in risonanza il segno architettonico del profilo del frontone della chiesa con quello del colle disseminato di cappelle, rinunciando alle facili suggestioni di una troppo rigida simmetria centrale per produrre, per la prima e forse unica volta, una precisa ed efficace sintesi visiva del sito, ribaltando il punto di vista – e quindi il significato- dello schizzo realizzato da Clemente Rovere il 13 settembre 1849 (Sertorio Lombardi 1978, n.2663). La presenza di Crea nella raccolta di immagini di Ecclesia[1] suggerisce però ulteriori considerazioni: poiché  la prevalenza dei soggetti rappresentati è costituita da chiese ed edifici romanici, da monumenti di riconosciuto interesse e valore architettonico quali le cattedrali di Asti e Casale, alla presenza delle immagini del santuario di Crea deve essere riconosciuto un significato diverso, legato al più complesso insieme di valori devozionali e tradizionali che ruotano intorno al monte di Crea nel secondo Ottocento.

Che non fosse il valore architettonico dell’edificio a giustificarne l’inserimento nella raccolta fotografica di Ecclesia è dimostrato indirettamente anche dalle scelte di un autore come Secondo Pia che solo nel 1902 si preoccuperà di inserire le due immagini della facciata e dell’interno della chiesa nel proprio repertorio ormai ventennale di architetture e opere d’arte piemontesi[2].  Quando sale per la prima volta al colle, il 15 settembre del 1885, la sua attenzione è rivolta al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo quel punto di vista canonico che, con leggere varianti sud / sud-est,  a partire dai primi disegni settecenteschi si ritroverà poi negli schizzi di Rovere del 1849, e nelle immagini di Negri, a volte realizzate col teleobiettivo (1890ca), mentre variazioni significative, in connessione con la coeva produzione fotografica di derivazione pittorialista, sono presenti nelle più tarde riprese effettuate da Padre Giovanni Valle o da Guido Cometto (1925-1930), destinate in parte alla edizione di cartoline e alla pubblicazione di  innumerevoli opuscoli e guide[3].

Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, dalla tavola di Macrino d’Alba, fotografata una prima volta nel 1888 in esterni, forse su di un ponteggio e quindi riprodotta in autocromia nel 1909-1910,  agli affreschi da poco scoperti della cappella di Santa Margherita[4], in cui l’attenzione prevalente per l’insieme si apre al particolare per le due figure di Guglielmo VIII e Bernarda di Brosse rivelando un intrecciarsi di intenzioni documentarie e storico celebrative, per passare negli anni successivi ad altre opere presenti nella chiesa, con una attenzione singolarmente aperta alla considerazione di manufatti allora certamente considerati minori quali il Confessionale con colonne tortili, non più fotografato da altri nei decenni successivi, secondo  una accezione progettuale che non tende tanto alla esaustività del catalogo quanto alla messa in atto di un giudizio critico -seppur implicito- sul valore dell’antico di queste  opere. Sintomatica in questo senso la scelta relativa alla statuaria delle cappelle, che inizia a fotografare solo nel 1902, anno della pubblicazione del saggio di Francesco Negri dedicato al Santuario che verosimilmente gli fa da guida, per ritornarvi molti anni dopo, nel 1919,    limitandosi però a fotografare quelle sole cappelle in cui si conserva l’opera dei fratelli Tabacchetti  così puntualmente studiata dal fotografo casalese.

“Di tutte le terre monferrine – ricorda Luigi Gabotto nella commemorazione di Negri[5] – egli amò però in modo particolarissimo Crea. Crea ebbe per Lui un’attrattiva singolare, forse perché questo nostro magnifico colle è la sintesi del Monferrato. Qui egli trovava riunite, in picciol spazio, tutte le cose che più lo interessavano: la natura, la storia, l’arte.” L’indicazione, nella sua affettuosità,  non potrebbe essere più puntuale e sintetica: Crea è per molti versi il laboratorio di Negri, il luogo in cui conduce le proprie ricerche sul campo nei diversi ambiti che via via lo interessano, a partire certo dalla botanica, che pratica come è sua consuetudine a livelli di grande rilevanza redigendo una Flora casalese, poi rimasta inedita, per pubblicare nel 1889 un Elenco delle piante più notevoli del Monte di Crea e regioni vicine in appendice alle Notizie storiche di Corrado Onorato.  In questi anni sono ancora le scienze naturali a nutrire la sua curiosità  intellettuale, come dimostrano le  importanti ricerche microbiologiche e microfotografiche, abbandonate dopo il 1890 per dedicarsi totalmente allo studio storico-critico del patrimonio artistico casalese.

La quasi totale dispersione dell’archivio Negri[6] non ci consente di conoscere le ragioni di un mutamento di rotta che a noi appare repentino ma doveva invece essere fondato su solide basi se nello stesso 1890 Negri è nominato membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria, e che deve essere collegato  al più ampio dibattito sulla nascente cultura di conoscenza e tutela del patrimonio culturale piemontese, a cui non erano estranei neppure i contributi dei fotografi più attenti (e basti fare i nome di Pia e Pietro Masoero). Non va inoltre dimenticato -come nucleo di una ipotesi suggestiva- che per Negri un ruolo importante abbia avuto l’incontro con Samuel Butler[7], forse conosciuto nei primi  anni ‘80 in Valsesia in occasione delle prime ricognizioni dello scrittore sui santuari alpini[8], così come  la loro successiva lunga frequentazione, che porterà l’inglese più volte a Casale tra il 1887 e l’anno della morte, il 1902, in compagnia dell’amico e biografo Henry Festing Jones.

“How about your Tabacchetti?”  chiede Butler a Negri in una lettera scritta nei giorni in cui inizia a lavorare a Erewon Revisited,  spedita in accompagnamento alla traduzione in inglese dell’Odissea[9],  a riconferma di una consolidata attenzione per gli studi del casalese, esplicitamente citato anche per l’assegnazione – poi corretta – a Giovanni d’Enrico del gruppo sull’altare nella cappella della Immacolata Concezione a Crea[10],  e lo stesso Negri esprimerà “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65)  consentendo di completare la ricostruzione delle vicende biografiche relative a Jean de Wespin.

Erano state però le ricerche su Martino Spanzotti la sua prima occasione di studio del patrimonio artistico di Crea,  pubblicate nel 1892 col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate,  già collocate nelle lunette della sacrestia,  che “in una recente modificazione alle finestre a cui appartenevano da quattro secoli, sfidando l’ira dei tempi e dei Giacobini, non resistettero alla incoscienza artistica dei frati. Spero però che non le avranno gettate via, e vorranno, se le conservano ancora, metterle in qualche modo in vista.”[11] A queste seguirono gli studi su Gugliemo Caccia, figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, pubblicati nel 1895-1896, i cui esiti confluiranno in parte negli studi dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900[12]. Sono questi l’occasione per offrire un panorama esaustivo e finalmente documentato in modo appropriato, con ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche ma anche a partire da una articolata  analisi storico-critica delle opere, a cui fa da preciso riscontro la documentazione fotografica, qui non finalizzata alla costituzione di un repertorio di opere eccezionali come in Pia, ma intesa quale  strumento d’indagine (ben esemplificata dalle decine di riprese, specialmente relative ai gruppi scultorei delle cappelle) e anche, seppure in misura ridotta per esigenze di economia editoriale, di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating” (Holt 1989, p.87).

Proprio la sua segnalazione del Martirio di Sant’Eusebio come “la cappella più importante”  sembra aver orientato l’indagine di Negri che la fotografa ripetutamente per più di un decennio a partire dal giugno 1891, quando utilizza una illuminazione a candele steariche, eseguendo una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica non dell’opera ma della scena, che viene presentata nella doppia mediazione dei due strumenti narrativi, con l’intenzione esplicita di restituire visivamente quel “realismo così sano e spontaneo”[13] che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti, di tradurre fotograficamente quella “disposizione delle persone (…) così naturale, che l’occhio contemplando la scena si sente riposato, la mente serena” nel vedere “una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sibbene ordinata da un potere costituito su regole determinate e regolari”, interpretando in senso conservatore il “concetto che ebbe il Tabacchetti, di rappresentare cioè, non un assassinio, bensì l’esecuzione d’un supplizio decretato col rispetto delle forme legali e sanzionato dal potere legalmente costituito.” (Negri 1914, p.44)  Ciò che lo attira al di là del valore artistico dell’esecuzione o – meglio – quale fondamento di questo, è il naturalismo delle movenze e delle posture, la capacità di Wespin di cogliere il gesto significativo, e nelle sue riprese pone  in atto un rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico, entrambi impegnati a rappresentare la scena, declinando l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione che reinterpreta e stravolge la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin)  attraverso la cultura visiva propria dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita attraverso l’immobilizzazione del movimento e del gesto che era proprio anche della logica di rappresentazione scultorea.[14]

Omaggio implicito quanto evidente all’amico inglese è anche la tavola di apertura dell’apparato  iconografico dello studio di Negri su Crea che in modo altrimenti inspiegabile si apre con una riproduzione del “Vecchietto”  della Cappella della Deposizione della Croce (XXXIX) di Varallo – oggi attribuita a Giovanni d’Enrico – che Butler considerava la più bella del Santuario ipotizzandone anche una tarda provenienza da Crea[15], per proseguire con una porzione del ciclo di affreschi della cappella di Santa Margherita, fotografati al lampo di magnesio, “scintilla che portava sempre con sé”[16],  e passare quindi ad alcuni dei gruppi statuari più significativi: il Martirio di Sant’Eusebio; la Concezione di Maria, con le due figure dei fondatori conti di Gattinara; la Natività di Maria e l’Annunciazione, per chiudere infine col presunto autoritratto di Tabacchetti, ancora a Varallo. Sono gli stessi soggetti sui quali si eserciterà, come si è detto, anche Secondo Pia con inquadrature sottilmente differenti, più schematiche e immobili, specialmente preziose oggi anche quale documento delle mutate condizioni di conservazione; sono quelle stesse immagini che entreranno a far parte  per lungo tempo del repertorio  iconografico della pubblicistica relativa al Sacro Monte che sempre più nei decenni a cavallo tra i due secoli riconquista quelle attenzioni prima destinate prevalentemente al Santuario.

Così se dal 1891 al 1900, dalla Relazione della Solenne Incoronazione di Damonte ai Brevi cenni storici di Locarni, le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea si limitano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese di Negri, e in Crea 1900 la sola cappella documentata è quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già fotografata da Negri ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto de Amicis, in Crea, 1913, a queste si aggiungono le immagini relative ai rifacimenti ottocenteschi (Sposalizio di Maria Vergine, Presentazione di Gesù al Tempio, Gesù coronato di spine) e si assiste al progressivo accrescimento del corredo fotografico che  assume una forma articolata e complessa ne Il Santuario di Crea, 1914, primo esempio compiuto di guida a più voci corredata di fotografie che illustrano i più diversi aspetti del luogo, dalla statuaria agli affreschi, alle nuove oreficerie, senza dimenticare alcuni esempi di scene di vita e di cronaca (L’incoronazione della Madonna,  5 Agosto 1890) né la discreta presenza dei frati, a cui  è dedicata anche una interessante serie di cartoline edite negli stessi anni.[17]

La successiva occasione editoriale è data dal Congresso Mariano del 1923, per il quale vengono pubblicati sia la “storia popolare” di Padre Francesco Maccono sia “un Album, in veste di lusso, che riproduce i principali monumenti d’arte del Santuario”[18] in quaranta tavole, affidando alle sole immagini la testimonianza del patrimonio artistico e architettonico. Le singole riprese, così come l’Album non portano indicazione d’autore ma sono da assegnare prevalentemente a Negri anche le  immagini nelle quali i gruppi statuari – diversamente da quanto accadeva nel saggio del 1902 –  sono documentati nel loro insieme di opera, con viste grandangolari che li collocano precisamente nello spazio architettonico, restituendo così compiutamente l’approccio complesso dell’autore casalese.

La scelta di affidare alla sola fotografia il compito di illustrare il Sacro Monte costituisce una novità assoluta rispetto alla pubblicistica precedente, certamente favorita dalla positiva  contingenza -anche economica- costituita dal Congresso Mariano ma derivata da una comprensione più profonda e specifica delle potenzialità del mezzo, quella stessa che porta a formulare  “L’idea geniale di fotografare tutti i pellegrinaggi della settimana del Congresso”[19] e di utilizzare in modo sempre più massiccio l’illustrazione fotografica sulle pagine del periodico del Santuario che ha da poco mutato testata.[20]

“Nessuno certo ignora i grandi vantaggi che apporta la fotografia associandosi allo storico fermando sullo strato sensibile di una lastra o pellicola le svariate scene che si svolgono di continuo. Pellegrinaggi, feste tradizionali spingono quassù fiumane di devoti. Schierati sull’ampio piazzale lo riempiono letteralmente e lo spettacolo si consegna alla cronaca in tutta la sua fedeltà numerica.”[21] Questi concetti, espressi nel 1925 sulle pagine del bollettino del Santuario, indicano chiaramente quali fossero le lucide intenzioni e quale l’ispiratore della nuova politica di utilizzazione del mezzo fotografico: Padre Gian Giuseppe Valle (Padre Giovanni), giunto a Crea nel 1922-23[22], la cui passione per la fotografia lo trasformerà ben presto in una delle figure caratteristiche della comunità francescana del Santuario, col “suo vestito trasandato, colla macchina fotografica a tracolla, qua e là per il monte per accontentare i pellegrini o per fissare in una lastra qualche panorama o qualche singolare fenomeno della natura da mettere poi nel Museo.” (Maccono 1936, p.22)

Chiare sono  le  ragioni del suo operare:  la registrazione minuziosa e fedele dei gruppi di pellegrini costituisce testimonianza dell’ampiezza del fenomeno devozionale e -insieme- una ulteriore occasione per rinsaldare il legame tra  fedeli e  luogo in termini modernissimi di comunicazione per immagini attraverso la commercializzazione delle fotografie e la loro pubblicazione sulle pagine del bollettino, per quei lettori sempre più “avidi di figure sensibili”, mentre la documentazione delle opere d’arte, di “questa realtà che sfugge l’occhio di molti visitatori che non spingono lo sguardo dietro le inferriate delle cappelle”[23] ha un ruolo più culturalmente connotato e intrinseco alla diffusione della pratica fotografica sin dalle origini: la formazione di quel “deposito di preziose memorie” che è una delle forme del Museo, specialmente locale.

Qui a Crea, in questa prospettiva si era mosso già Francesco Negri raccogliendo frammenti dei gruppi plastici  negli stessi anni in cui ne andava fotografando il  patrimonio[24], registrandone anche le progressive trasformazioni e impoverimenti;  dopo la sua morte l’impresa viene proseguita “con assidua fatica” proprio da Padre Valle, il quale affianca alla raccolta di reperti quella di immagini fotografiche, per la maggior parte da lui realizzate, non disdegnando però il ricchissimo repertorio delle cartoline,  raccolte in album “che si stanno compilando esaurientemente: vedute del S. Monte (…) dintorni coi suoi attraenti quadri tratti colla telefotografia dai colli remoti (…) splendidi tramonti: scene notturne eseguite al chiaror della molle luce offerta dall’astro minore: la nebbia fitta lambente il limitare del colle eccelso (…).”[25] Il tono lirico e compiaciuto lascia trasparire  l’orgoglio dell’amatore fotografo di formazione pittorialista, sin troppo simile a pagine e pagine di retorica “artistica” pubblicate sui periodici fotografici dell’epoca e specialmente rilevanti in ambito torinese[26], ma anche qui – come a volte accade- la concreta produzione fotografica riscatta i riferimenti di maniera: non solo il progetto complessivo, dai gruppi di pellegrini alla cronaca dei lavori del Santuario, dalla documentazione delle opere d’arte[27] alla vita dei confratelli, dimostra una volontà di restituzione totale, di catalogazione fotografica del mondo che è lontana dalle più estenuate ricerche formali e più strettamente connessa semmai alla tradizione ottocentesca, ma anche quando i temi si fanno più prossimi al repertorio “artistico”, come è per alcune nature morte di fiori e piante e per i paesaggi, lo sguardo si rivela dotato di una propria particolare fisionomia, sempre obliquo e complesso, inatteso, seppure non sempre sostenuto da una adeguata maestria di stampa, lasciando trasparire una concezione del paesaggio come sistema complesso di relazioni tra presenza architettonica ed elementi naturali, ancora una volta con rimandi precisi a Negri ma qui con un impianto compositivo più aggiornato, dove i solidi geometrici delle architetture sono come scomposti, incrinati dalle scritture organiche dei rami e delle loro ombre, in una lettura in cui il gesto fotografico si propone esplicitamente quale atto palese e significante, mai neutra registrazione invisibile e indifferente, non finestra sul mondo ma sua interpretazione mediata, sovente significata dalla presenza di elementi di filtro, quasi di ostacolo ad una visione presunta naturale, posti in primissimo piano, ad indicare la fisicità di una presenza, a storicizzare metaforicamente l’atto del guardare per vedere.

È questa consapevolezza che lo fa sentire – pur nel suo francescanesimo –  orgogliosamente diverso da quella “pleiade di [inetti] dilettanti muniti di un apparecchio fotografico” che per “carpire un lembo di questo suolo storico, un panorama più o meno ampio (…) una comitiva”, hanno invaso  gli spazi occupati dai venditori ambulanti solo cinquant’anni prima.

 

 

Note

[1]La cartella di fotografie relative a Chiese della provincia di Alessandria, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino, M-XXVIII (1-45, nn. 24-26) a cui pervenne verosimilmente a chiusura della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, comprende immagini prevalentemente di V. Ecclesia (Casale: S. Evasio; Cortazzone: S. Secondo; Crea: Santuario; Vezzolano: S. Maria;  Asti: Cattedrale, S. Giovanni, S. Pietro, torre di S. Secondo; Bagnasco: cappella del cimitero; Albugnano, cappella del cimitero; Montechiaro d’Asti:S. Nazario;  Moncucco: castello) a cui si aggiungono quattro immagini dovute a Carlo Migliore di Casale Monferrato, relative alla chiesa di San Domenico. Sono tutte stampe all’albumina virate all’oro in formato 30×40 circa montate su cartoni 50×65 circa.  Per quanto riguarda le immagini di Ecclesia la presenza sul supporto secondario dell’indirizzo di Asti, via San Martino 19, prima sede locale dello studio, consente di datare le immagini al periodo 1878/80, realizzate forse poco dopo l’Album artistico della città di Asti/ 1878, cfr. Fotografi del Piemonte, pp.29-30, tavv.XXVIII, XXIX; per una corretta ricostruzione e datazione delle vicende professionali di Ecclesia cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia 1990.

[2] Sulla figura e l’opera di S. Pia, che meriterebbe ancora uno specifico approfondimento, si vedano Tamburini, Falzone Barbarò 1981;   Falzone del Barbarò, Borio 1989 ed i più recenti cataloghi di mostre prodotte in concomitanza con l’ostensione torinese della Sindone: L’immagine rivelata 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone 1998.

[3]Per un confronto e per una verifica della diffusione di questo stereotipo rappresentativo, evidentemente connesso anche ad una economia di rappresentazione, essendo il punto più favorevole per mostrare l’insieme, si rimanda alla bibliografia generale, segnalando qui due sole eccezioni costituite dalla veduta acquerellata compresa nella Descrizione dei Santuari del Piemonte, 1822 (cfr. Castelli, Roggero 1989, p.20)  e dall’incisione in antiporta a Tarra 1890, forse derivata dalla prima, entrambe con vista da sud-ovest e significativa modificazione delle relazioni orografiche necessaria per accentuare la presenza del santuario;  operazione evidentemente impossibile con i vincoli proiettivi geometricamente determinati propri della successiva produzione fotografica.

[4]Dal confronto tra il  “Regesto autografo delle Campagne di Secondo Pia” (cfr. Tamburini, Falzone Barbarò 1981, pp.55-58) e le immagini reperite nel corso della presente ricerca si ricava la seguente cronologia delle riprese:

15-09-1885, Panorama.

21-08-1888, Tavola di Guglielmo Fava detto Macrino;

25-08-1888, Cappella di Santa Margherita, affreschi. A questa data gli affreschi erano appena stati scoperti (cfr. Giorcelli 1900, pp.5-6)

1890, Immagini o documenti non reperiti

23-06-1893, ConfessionaleDipinto in stucco rapp.te Madonna col bambino con iscrizione.

15-10-1898, Due tavolette [ritratti di Lodovico di Saluzzo e della moglie Giovanna di Monferrato]; San Bernardo, affresco di G.Caccia detto il Moncalvo.

25-10-1902, Statua od erma antica della Madonna.

26-10-1902, Facciata della chiesa – stile dorico; Interno della chiesa;  Cappella I: Martirio di Sant’Eusebio; Vetri dipinti nella sacrestia a forma di lunetta.

12-10-1909, Crea [Veduta del Santuario scorciata dal basso], autocromia.

25-10-1909, Pianeta donata da Pio V; Reliquia del piede di S.Margherita; Ostensorio istoriato.

1909-1910, Tavola Macrino d’Alba, autocromia.

30-03-1910, Casale – pianeta di Crea santuario [pianeta donata da Pio V], autocromia.

1913, Immagini o documenti non reperiti

11-09-1919, Cappella IV, Concezione di Maria Vergine; Cappella V, Natività di Maria; Cappella VIII, Annunciazione di Maria Vergine, particolari dei gruppi dell’Eterno e di Giuditta.

Salvo diversa indicazione si tratta di riprese effettuate con lastre alla gelatina-bromuro d’argento nei formati dal 13×18 al 24×30 e quindi stampate per contatto su carte all’albumina o al citrato, successivamente montate su cartoni corredati di annotazioni autografe. Le stesse stampe venivano successivamente rifotografate per ricavarne piccole riproduzioni da inserire nelle schede analitiche che costituivano la struttura finale del sistema archivistico di Pia. Tali schede, confluite nel Fondo Pia della Confraternita del SS. Sudario di Torino, riportano la sigla di collocazione della relativa stampa a contatto, la numerazione progressiva della scheda; localizzazione, titolo  ed eventuali misure dell’oggetto fotografato corredate di sintetiche notizie storico-critiche; data, formato e collocazione del negativo di ripresa.  Prive di schede di riferimento sembrano essere invece le autocromie. Una elencazione  dei diversi fondi fotografici  di Pia  è stata recentemente fornita da Boschiero 1998,  ma a parziale integrazione di quanto indicato si deve ricordare che presso la Biblioteca Reale di Torino oltre all’album dedicato a Vittorio Emanuele III (1919?) è conservato anche un album precedente, datato 1907, dedicato a “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” relativo a Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte, entrambi con immagini relative a Santa Maria di Vezzolano e a Sant’Antonio di Ranverso, cfr. Cavanna 1997.  La notorietà e autorevolezza della sua opera così come l’estesa rete di relazioni con informatori e studiosi fa però sì che immagini di Pia siano presenti  in sedi e collezioni diverse, pubbliche e private, non sempre note. Per l’interesse relativo a questa ricerca segnalo il piccolo album, conservato presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato e verosimilmente proveniente dal lascito Negri: Secondo Pia,  Affreschi della Cappella di S.Margherita di Antiochia nell’Abbazia di Crea Attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona, [1900ca], quattro pagine, copertina cartonata rossa con impressioni in oro; contiene tre stampe [manca la ripresa relativa alla volta] all’albumina virate all’oro, cm.20x25ca, con  timbro a secco: “Secondo Pia/ Torino” in basso a sinistra. Nonostante la classificazione di “Monumento Nazionale” negli anni a cavallo tra i  due secoli il Sacro Monte di Crea non è ancora entrato a far parte del panorama “ufficiale” del patrimonio artistico ed architettonico piemontese, tanto che gli operatori degli Alinari inviati nella nostra regione nel 1898 non lo comprenderanno nel proprio itinerario di lavoro, nel quale sono invece compresi il Sacro Monte di Varallo (14 settembre) e quello di Orta (18 settembre), cfr. Sansoni 1987. Neppure nella successiva campagna del 1912  Crea sarà compresa nel loro repertorio (cfr. Alinari 1925) mentre alcune riprese erano state effettuate dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo.

[5]Luigi Gabotto 1925b; questo testo, estratto dalla commemorazione ufficiale tenuta a Crea il 28 maggio, fa seguito ad un primo necrologio pubblicato a febbraio (Gabotto 1925a).  I legami tra i due personaggi e la comune passione per questi luoghi sono ricordati nella dedica  autografa “All’avvocato Francesco Negri/ che mi ha fatto conoscere ed / amare Crea” con la quale Gabotto  accompagna il proprio volume del 1924 corredato di  foto Negri e dei “Frati di Crea” (Padre Giovanni). Sul fotografo casalese, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890 e Ispettore agli Scavi e Monumenti dal 1907 (Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992, pp. 253-268)  si vedano Colombo 1969; Greco 1969. A conferma della funzione di laboratorio svolta complessivamente da Crea ricordiamo che nel Fondo Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato (BCCM/FN) sono conservate le riprese di selezione e le singole gelatine colorate necessarie alla realizzazione di alcune riprese per tricromie qui realizzate, datate 1904 (BCCM/FN, B14) poi non completate.

[6]Per una ricostruzione delle vicissitudini dell’eredità Negri rimando a Cavanna 1991; Id. 1992.

[7]Per Samuel Butler cfr. Festing Jones 1920; Durio 1940; Holt 1989.

[8] La  lunga e amorevole consuetudine di Bultler  con l’Italia  induce nel 1880 il suo editore a offrirgli 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese; il manoscritto è completato entro la metà dell’anno successivo ma il testo viene rifiutato e sarà pubblicato a spese dell’autore nel 1882,  corredato di disegni ricavati sia da fotografie eseguite da autori locali come Vittorio Besso (per il cortile superiore di Oropa, ad esempio) sia da schizzi dal vero. Da questa rassegna era stato volutamente escluso il Sacro Monte di Varallo che Butler considerava il più importante dei santuari dell’Italia settentrionale e al quale si riprometteva di dedicare uno studio specifico, anche su precisa sollecitazione di Dionigi Negri, segretario comunale a Varallo e in contatto con lo  scrittore sin dalle sue prima vacanze valsesiane nell’agosto del 1871. Per meglio affrontare lo studio di questo complesso Butler moltiplica i propri soggiorni italiani, estende le ricerche su Tabacchetti a Casale Monferrato (dove si reca nel settembre del 1887 da Ivrea, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen), e prende lezioni di fotografia per poter utilizzare questo nuovo strumento documentario sia in fase di studio sia in occasione della pubblicazione (Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore). L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, amico varallese di Butler, latinista, benemerito CAI, che nel 1897-98 contribuì economicamente al restauro della Chiesa della Madonna di Loreto presso Varallo, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio dopo che il volume era stato rifiutato dagli editori milanesi Treves e Hoepli, con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varalo e di Crea) e con un apparato iconografico lievemente ampliato. La consuetudine della documentazione fotografica rimarrà immutata anche nei decenni successivi  e nel 1891 Butler realizzerà alcune immagini relative a Crea: “Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, scrive ad Arienta il 31 ottobre 1891 (Durio 1940, p.86).

[9]Datata 5 novembre 1900, è pubblicata in facsimile in Greco 1969, p.24. La stima di Butler per lo studioso casalese è chiaramente espressa in una lettera a Giulio Arienta del 31 ottobre 1891: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.” (in Durio 1940, p.86). Quale concreto segno di  stima Butler  finanzierà la realizzazione dei cliché fotografici a corredo del saggio di Negri sul santuario di Crea (Negri 1902, p.76). Le lunghe frequentazioni tra i due sono  documentate anche  da una lastra 13×18 in cui sono ritratti Butler e Festing Jones nel giardino di casa Negri a Casale (BCCM/FN, sc.B20) e da una ripresa stereoscopica datata 1898 (BCCM/ FN, sc.E13) in cui i due inglesi sono ritratti a Camino insieme a Cesare Coppo, amico comune i cui congiunti (la moglie e il figlio Angelo) visiteranno Butler a Londra proprio nel 1900.  Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.Festing Jones e R.A. Streatfield doneranno a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p.22, nota 3).  Prima di tradurre in inglese l’Iliade (1898) e l’Odissea  (1900) Butler aveva pubblicato The Authoress of the Odissey London: Longmans, 1897, libello nel quale sosteneva che l’autrice fosse una sacerdotessa trapanese che si nasconde nel racconto nel personaggio di Nausicaa: “un altro modo di dare l’assalto al mito, di riportare l’opera dell’uomo sul piano disincantato, casalingo, irritante e libero del reale.” (Drudi Demby 1993).

[10]Butler 1888 (trad. it. 1894, p.299). In Negri 1902, p.43 l’opera è  attribuita a Paolo Giovenone.

[11]Negri 1902, p.33. Nello stesso anno erano state fotografate da S. Pia, vedi Nota 4. Le due vetrate, che nel 1914 si trovavano nei locali della Amministrazione del Sacro Monte,  passarono poi ai Musei Civici di Torino.

[12]Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8-9-10 ottobre 1900, pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani et alii. Il fascicolo costituisce il primo esempio di quella lunghissima serie di pubblicazioni ibride, tra  foglio devozionale e  guida turistica, che verranno pubblicate a Crea nei decenni successivi, sovente senza variazioni sostanziali di contenuto né testuale né iconografico. Limitatamente a quelli in cui compaiono diverse edizioni del testo di Negri ricordiamo: Pel pellegrinaggio a Crea. Nel Giubileo dell’Immacolata. CasaleMonferrato: Tip. G. Pane, 1904;  Crea. Guida Storico-artistica. Casale Monferrato: Tip. Massaro, 1908;  Crea. Storia -Cronologia – Arte – Culto. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta G. Pane, 1913; Il Santuario di Crea. Guida storico-artistica edita in occasione delle feste dell’anniversario della nuova Incoronazione. Crea 2-3 agosto 1914. Casale Monferrato: Tip. G. Pane, 1914. Lo stesso Negri ritornerà su questi temi  in una conferenza per l’Unione Escursionisti di Torino tenuta nel 1908, cfr. Negri 1908, corredandola – come era allora consuetudine – di diapositive che verosimilmente corrispondono a quelle oggi conservate nel Fondo Valle del Parco Regionale di Crea.  Per il ruolo sociale e culturale svolto dall’Unione Escursionisti cfr. Garimoldi 1996.

[13]Negri 1902, p.36 e segg. Le riprese più tarde (BCCM/FN, B13-9, B8-5) vennero realizzate ben oltre la pubblicazione di questo testo, nell’agosto del 1904 dopo i restauri condotti da Bigoni.

[14]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture 1991; Skulptur in Licht der Fotografie 1998.

[15]”Io son quasi d’opinione che il Vecchietto viene da Crea” scrive ad Arienta il 14 ottobre 1888 (Durio 1940, p.60). Alcuni studiosi di Butler (Hotl 1984, p.85) sostengono che il fascino esercitato da quest’opera possa essere meglio compreso se la si considera come una possibile “incarnazione” del vecchio John Pontifex, il  capostipite della famiglia protagonista del romanzo autobiografico The Way of All Flesh  (trai. it. Così muore la carne, a cura di E. Giachino. Torino: Einaudi, 1939) scritto tra 1872 e 1884 ma pubblicato postumo nel 1903.  Molte delle affermazioni e opinioni di Butler verranno ben presto  confutate proprio da Giulio Arienta, col quale egli ammetterà onestamente di “aver fatto tanti errori che ora non posso correggere” (30 giugno 1896) e di dover fare “modificazioni assai gravi nelle opinioni riguardo alle cappelle del Sacro Monte” (21 marzo 1896) (cfr. Durio 1940, pp.112-113). L’immagine pubblicata in Negri 1902, tav.1 si discosta parzialmente dalla ripresa per un diverso taglio della figura e per un tono generale più scuro, che la isola dal contesto.

[16] “Lo rivedo ancora nella buia cappella (…) a rivelarmi  le bellezze in essa racchiuse mediante il lampo del magnesio.” (Gabotto 1925b, p.82)

[17]Il volume ripropone sostanzialmente invariati i due saggi del Canonico Prof. Evasio Colli, parroco di Occimiano, poi vescovo di Acireale,  e di Francesco Negri, già pubblicati l’anno precedente nel “Numero unico” edito dalla tipografia G. Pane di Casale, che nello stesso 1914 pubblica a firma degli stessi autori  e con un apparato fotografico dovuto al sacerdote vercellese Alessandro Rastelli, Il B.Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio (nuova ediz. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna) singolare volume in cui il tema apparentemente agiografico si risolve in un contributo storiografico (Colli) intriso di propaganda sociale e politica fortemente influenzate dalla Rerum Novarum di Leone XIII, proprie anche di altri titoli dello stesso editore-tipografo (La Lega Internazionale dei Lavoratori spiegata al popolo), in accurate e innovative ricerche su temi di storia dell’arte locale (Negri) e in un corretto apparato fotografico dovuto ad un sacerdote dilettante fotografo.

Le prime  cartoline in cui sia registrata la presenza dei frati, comunemente ritratti in meditazione o in preghiera affacciati al pronao della cappella della Salita al Calvario o a quella del Paradiso secondo uno schema iconografico inaugurato intorno al 1865 da Giorgio Sommer con la sua veduta di Amalfi dal Convento dei Cappuccini (cfr. Palazzoli 1981, tav.45; Miraglia, Pohlmann 1992), erano edite dalla stessa ditta Pane, da A.Tabusso e dalle Sorelle Capra di Crea, mentre quelle più tarde (1930ca) sono pubblicate da Fotografia e Arti Grafiche, via Garibaldi 3, Torino, di Guido Cometto,  intimo amico di Padre Giovanni del quale realizzerà anche due intensi ritratti. Alla crescente diffusione della cartolina illustrata è dedicata una breve riflessione nel bollettino del Santuario in cui  dopo averla definita “Simpatica messaggera dei vari sentimenti dell’animo nostro [che] parla al cuore di chi è inviata con una sintesi meravigliosa”  così prosegue: “Ma ahimè, che in mezzo a tanta dovizia di cartoline belle e morali, ne insorgano altre laide e oscene, allettatrici di sensuali istinti forniti di insani desideri (…) Oh! Facciamo una guerra spietata a questa immonda messaggera di Satana” (Passiflora 1922).

[18] Maccono 1923;  Santuario di Crea. Album, 1923.

[19]Nota della Direzione 1923, che così prosegue: “Annunziamo ora che teniamo a disposizione un forte stock di fotografie formato cartolina a L.0,50 l’una. Coloro che desiderano la fotografia del proprio pellegrinaggio si rivolgano alla Direzione di questo periodico indicando il numero di cartoline che desiderano.”  Foto di gruppo di pellegrini erano però già state pubblicate nel 1922.

[20]Col 1 gennaio 1922, a.XIV, n.1 la vecchia denominazione di “Maria. Bollettino del Santuario di Crea”  muta in “La Madonna di Crea. Periodico del Santuario di Crea” e si inizia ad utilizzare la fotografia, prima completamente assente, per modernizzare un canale di comunicazione che fosse strategicamente adeguato a quegli anni cruciali.

[21]P.G. [Padre Giovanni Valle]  1925, p. 69; il testo venne ripubblicato con lievi varianti testuali in Valle 1926.

[22]Padre Giovanni Giuseppe della Croce, questo il suo nome di religioso (Mazzè: 13-5-1872 / Crea: 16-1-1936) inizia a fotografare nei primi anni del Novecento quando è Guardiano al Santuario di Belmonte nel Canavese (1901-1904) e prosegue questa sua attività specialmente a Crea, dove giunge secondo Maccono 1936, nel 1923 ma la data va anticipata di almeno un anno come confermano alcune riprese da lui realizzate  e specialmente l’Album artistico di Crea/ 1922 da lui composto che costituisce il modello della pubblicazione edita nel 1923 (cfr. Nota 17). Anche Luigi Gabotto lo ricorderà affettuosamente con “la sua macchina fotografica, curiosa scarabattola (…) Con la sua rustica cesta fratesca, il cavalletto sotto braccio, la bisaccia a tracolla [che] scalava i colli, si arrampicava sulle piante o su palchi di fortuna senza badare a pericoli ed alla sua povera tunica, pur di trovare un punto di vista e una luce perfetta.” (Gabotto 1936) traducendo in parole l’immagine bonariamente caricaturale, testimoniata da una riproduzione fotografica conservata nei depositi del Museo di Crea,  che di lui ci ha lasciato Carlo Pintor, pittore e restauratore sardo che risulta attivo – come mi ha segnalato Maria Carla Visconti, che ringrazio – nella “Cappella Reale” della Natività di Maria nel 1935 (SBAAP, Archivio corrente, Serralunga di Crea – Santuario).  Padre Giovanni costituisce sinora l’esito più interessante del fenomeno di diffusione della pratica fotografica amatoriale che si registra tra il clero nel  Piemonte centro-orientale (senza dimenticare la presenza torinese di Don Eugenio M. Casazza) nei primi decenni del secolo, che annoverava sinora i nomi di F. Origlia e A. Rastelli entrambi a loro volta in relazione con F. Negri, col canonico Colli e con le edizioni Pane di Casale Monferrato (cfr. Nota  16), secondo una trama di rapporti e intenzioni  culturali ancora tutta da indagare che comprendeva certamente anche Secondo Pia e viveva sotto il segno di un rinnovato interesse della chiesa e del clero per la fotografia – apprezzata da Leone XIII – dopo le riprese della Sindone nel 1898,  ma anche, per quanto riguarda la diffusione delle immagini fotografiche, del modello salesiano, la cui tipografia torinese si era dotata sin dal 1877 di un laboratorio per il trattamento e la stampa delle fotografie (Marchis 1989, pp.230) diretto da Carlo Antonio Ferrero, già titolare a Torino di un Emporio Fotografico specializzato in fotografia scientifica.

[23]Valle 1925, p.69. Questo accenno significativo allo sguardo “distratto” dei visitatori, che non sembrano interessati proprio agli elementi narrativi della macchina teatrale del Sacro Monte (tantomeno al loro valore artistico) ribadisce la centralità del problema delle strategie comunicative messe in atto dal discorso delle cappelle.

[24]Ibidem.  Il ruolo svolto da Negri nella ideazione e prima strutturazione del Museo del Sacro Monte, curiosamente dimenticato dagli stessi necrologi redatti da Gabotto (cfr. Nota 5)  è confermato dal medaglione con lapide commemorativa posto nell’atrio del museo: “ In memoria di / Francesco Negri / che illustrò Crea tanto amata / nei suoi ricordi gloriosi / Nella realtà fulgida di sue naturali bellezze / Gli amici tutti con affetto / Anno 1929”.  Poiché sappiamo da Gabotto 1925, che Negri si era recato a Crea per l’ultima volta il 16 ottobre 1921, vale a dire prima dell’arrivo di Padre Giovanni, dobbiamo supporre che la conoscenza tra i due e il volontario ruolo di prosecutore svolto dal francescano si fondassero su di un rapporto precedente e consolidato  che potrebbe essere fatto risalire al 1899-1901, quando Padre Giovanni era Maestro dei Chierici di Casale,  senza dimenticare però che egli si recava occasionalmente a Crea anche prima di stabilirvisi, come dimostra una sua immagine della cappella del Paradiso datata 19 febbraio 1920 (A9/8).

[25]Valle 1925, p.69. La parte più consistente dell’archivio fotografico di Padre Valle oggi costituisce il fondo omonimo conservato presso la sede del Parco del Sacro Monte di Crea. In attesa di una specifica catalogazione, una sommaria  ricognizione consente di definirne in prima approssimazione la consistenza:  4000ca negativi su lastra e pellicola alla gelatina-bromuro d’argento, nei formati dal 6,5×9 al 18×24, questi ultimi forse da attribuire a Francesco Negri, al quale vanno assegnate anche i 110ca positivi su vetro per proiezione, alla gelatina-bromuro d’argento, nel formato 8,5×10 la cui presenza è connessa all’idea “di far contemplare sullo schermo con nitide proiezioni il complesso storico ed illustrativo di Crea” (Valle 1925, p.70). I circa 1500 positivi (in prevalenza al bromuro e clorobromuro d’argento, in formati compresi tra il 9×12 e il 24×30) sono stati raccolti dallo stesso Padre Giovanni in 10 album insieme ad alcune centinaia di cartoline tipografiche e ad alcune stampe all’albumina ancora di F. Negri, a volte con annotazioni autografe al verso. Le date di esecuzione sono comprese tra 1890ca e 1910ca per Negri e 1920-1935 per Padre Giovanni. Un più ridotto numero di positivi (alcune decine) è stato individuato nel corso di questa ricerca anche tra gli eterogenei materiali conservati nel Museo del Santuario tra i quali si trovano anche alcuni apparecchi fotografici a soffietto da viaggio, un apparecchio fotografico tipo folding e uno tipo box oltre a cinque obiettivi, piastre portaottica e otturatori  che per tipologia ed epoca di costruzione avrebbero potuto appartenere a Francesco Negri, sebbene la loro utilizzazione da parte di Padre Giovanni sia parzialmente documentata da una fotografia datata 1928ca, oggi in collezione privata. Se ricerche successive dovessero confermare la provenienza di questi materiali, si tratterebbe di un ritrovamento di grande rilevanza per la comprensione dei modi operativi di Negri, del quale – come è noto – ben pochi strumenti e apparecchi sono conservati nel Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato.

[26]La nascita e lo sviluppo delle tendenze “artistiche” nell’ambiente fotografico torinese nei primi decenni del nostro secolo sono ormai ampiamente studiati,  cfr. Luci ed Ombre, 1987; Costantini 1990; Miraglia 1990; Fotografia luce della modernità 1991; Mario Gabinio 1996.

[27] “La maggior parte delle fotografie che illustrano questo studio mi vennero offerte dal dott. Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino, e dal padre Gian Giuseppe Valle del Santuario di Crea.” (Gabrielli 1934, p.5, nota 1); mentre l’autrice parla di foto “offerte”,  la recensione comparsa sul periodico del Santuario di Crea sottolinea come “le fotografie che riguardano la Cappella sono opera del nostro ben conosciuto ed amato P. Gian Giuseppe Valle.”  (Recensione 1935, p.27)

 

 

 

Bibliografia citata

 

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Orsola Maria Barbano, Davanti alla Cappella di Leonardo Bistolfi, in Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8 ottobre 1900,  pp. 9-10

 

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Boschiero 1998a

Gemma Boschieroa, Il fondo Pia dell’Archivio Storico del Comune di Asti, in Secondo Pia Fotografo della Sindone, 1998, pp.39-41

 

Boschiero 1998b

Gemma Boschiero, I fondi Pia conservati presso sedi diverse, in Secondo Pia Fotografo della Sindone, 1998, pp.43-44

 

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Butler 1888

Samuel Butler, Ex voto. An account of the Sacro Monte or New Jerusalem at Varallo Sesia. With some notices of Tabacchetti’s remaining work at the Sanctuary of Crea. London: Trübner & Co., 1888

 

Butler 1894

Samuel Butler, Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea; traduz. di Angelo Rizzetti. Novara:Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio,1894

 

Castelli, Roggero 1989

Attilio Castelli, Dionigi Roggero, Crea. Il Sacro Monte. Casale Monferrato: Edizioni Piemme, 1989

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Francesco Negri e la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, “AFT”, 7 (1991), n.14, dicembre, pp.57-63.

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Il fondo fotografico della Biblioteca Civica di Casale Monferrato ed una mostra, “Fotologia”, 9 (1992), n. 14/15, primavera-estate, pp. 46-53

 

Cavanna 1997

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

Colli et al. 1914

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Colombo 1969

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Costantini 1990

Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Damonte 1891

Perpetuo Dionigi Damonte, Relazione della Solenne incoronazione della Madonna di Crea (5 agosto 1890). Casale:Tipografia Giovanni Pane,1891

 

Damonte 1894

Perpetuo Dionigi Damonte, Lettere su Crea (1878-1894). Casale Monferrato:Tipografia Giovanni Pane,1894

 

Drudi Demby 1993

Lucia Drudi Demby, Introduzione, in Samule Butler, Erewhon. Milano: Adelphi, 1993

 

Durio 1940

Alberto Durio, Samuel Butler e la Valle Sesia. Da sue lettere inedite a Giulio Arienta, Federico Tonetti e a Pietro Calderini. Varallo Sesia: Tipografia Testa, 1940

 

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Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Festing Jones 1920

Henry Festing Jones, Samuel Butler author of Erewhon !1835-1902). A memoir. London: Macmillan & Co., 1920

 

Fotografi del Piemonte 1852-1899 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia luce della modernità 1991

Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, saggio storico di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabotto 1924

Luigi Gabotto, Crea. Casale Monferrato: Stab. Tip. Succ. Cassone,1924

 

Gabotto 1925a

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.2, febbraio, pp.15-16.

 

Gabotto 1925b

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.7, luglio, pp.81-83

 

Gabotto 1936

Luigi Gabotto, Padre Giovanni, “La Madonna di Crea”, 27 (1936), n.3, marzo, pp. 30-31

 

Gabrielli 1934

Noemi Gabrielli, Le pitture della Cappella di S.Margherita nel Santuario di Crea, “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, 36 (1934), n.5-6, estratto

 

Garimoldi 1996

Giuseppe Garimoldi, Montagna – Città: autoritratto di un fotografo, in Mario Gabinio 1996, pp.37-46

 

Giorcelli 1900

Giuseppe Giorcelli, Gli affreschi della Cappella di S.Margherita nella Chiesa del Santuario di Crea , in Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8 ottobre 1900,  pp. 5-6

 

Godio 1887

Alessandro Godio,Cronaca di Crea. Casale Monferrato:Tipografia Litografia Corrado, s.d., [1887]

 

Greco 1969

Enzo Greco, La figura e l’opera di Francesco Negri. Casale Monferrato: Lions Club, 1969

 

Holt 1989

Lee E. Holt, Samuel Butler. Boston: Twayne Publishers,  1989

 

L’immagine rivelata 1998

L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Locarni 1900

Giuseppe Locarni, Brevi cenni storici sull’insigne Santuario di Nostra Signora di Crea. Casale Monferrato:Tipografia Gio. Pane,1900

 

Luci ed Ombre 1987

Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987

 

Maccono 1923

Padre Francesco Maccono, Il Santuario di N.S. di Crea nel Monferrato. Storia popolare. Casale Monferrato: Tip. Miglietta, 1923 (II edizione riveduta e corretta, Casale Monferrato: Tip. di Miglietta, Milano e C. – Succ. Cassone, 1931)

 

Maccono 1936

Padre Francesco Maccono, Il P.Giovanni Giuseppe della Croce, “La Madonna di Crea”, 27 (1936), n.2, febbraio, pp. 22-23

 

Marchis 1989

Vittorio Marchis, La formazione professionale: l’opera di Don Bosco nello scenario di Torino, città di nuove industrie, in Giuseppe Bracco, a cura di, Torino e Don Bosco. Torino: Archivio Storico, 1989, pp.217-238

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia, Pohlmann 1992

Marina Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia. Roma: Peliti, 1992

 

Negri 1900

Francesco Negri,L’arte a Crea: brevi cenni,  in Crea 1900, numero unico del “Corriere di Casale”, 8 ottobre 1900,  pp. 3-5

 

Negri 1902

Francesco Negri, Il Santuario di Crea in Monferrato, “Rivista di storia, arte e archeologia per la Provincia di Alessandria”, 12 (1902), pp.1-76

 

Negri 1908

[Francesco Negri], Il Santuario di Crea. Cenni sulla conferenza dell’Avv. Cav. Francesco Negri. Torino: Unione Escursionisti, Tip.M.Massaro, 1908.

 

Negri 1914

Francesco Negri, Arte a Crea, in Il Santuario di Crea. Casale Monferrato: Tipografia Ditta G.Pane, 1914, pp.38-52

 

Niccolini 1877

Giuseppe Niccolini, A zonzo per il Circondario di Casale Monferrato. Firenze – Roma – Torino: Ermanno Loescher, 1877

 

Nota della Direzione 1923

Nota della Direzione, “La Madonna di Crea”, 15 (1923), n.9, settembre, p. 118

 

Palazzoli 1981

Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981

 

Passiflora 1922

Passiflora, La cartolina illustrata,  “La Madonna di Crea”, 14 (1922), n.5, maggio, pp.58-59

 

Pygmalion Photographe 1985

Pygmalion Photographe: La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire, 1985),  Rainer Michael Mason, Helene Pinet, dir. Genève: Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, 1985

 

Recensione 1935

Recensione a Noemi Gabrielli, Le pitture della Cappella di S.Margherita nel Santuario di Crea, “La Madonna di Crea”, 26 (1935), n.2-3, febbraio-marzo, p.27

 

Sansoni 1987

Mario Sansoni, Diario di un fotografo, “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp. 46-53

 

Sculpter-Photographier 1993

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre, 22 – 23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre – Marval, 1993

 

Secondo Pia 1998

Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia : immagini di Asti e dell’Astigiano , catalogo della mostra (Asti, Archivio storico del Comune, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998), a cura di Gemma Boschiero.  Asti: Comune di Asti, 1998

 

Sertorio Lombardi 1978

Sertorio Lombardi Cristina , a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato  e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Skulptur im Licht der Fotografie 1997

Skulptur im Licht der Fotografie: von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Wien,  Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1997), hrasg. Erika Billeter. Bern : Benteli, 1997

 

Tamburini, Falzone Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Tarra 1890

Giulio Tarra, Il Santuario di Crea. Torino: Tipografia dell’Ateneo, 1890

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, “L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

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Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’Esposizione romana del 1911. Torino: Regione Piemonte, 1989

 

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Fotografi del Piemonte 1852-1899 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

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Raffaello Barbiera, Le Fotografie, in “Torino e l’Esposizione Generale”, 1884, n.44

 

Becchetti 1978

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Besso 1881

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute, panorami, ritratti ecc. coi prezzi correnti. Roma: Elzeviriana,  1881

 

Besso 1893

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute e panorami. Biella: Amosso, 1893

 

Bianchino 1987

Maria Vittoria Bianchino, Studio fotografico Rossetti. Cento anni di immagini biellesi, “Bollettino DocBi”, 1987, pp. 56-71

 

Brayda 1904

Riccardo Brayda, Visita artistica a Candelo, Gaglianico e Biella, “L’Escursionista”, 1904, estratto

 

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Samuel Butler, Alps and Sanctuaries. London: Fifield, 1913

 

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C.A.I., Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

C.A.I. 1928

C.A.I., Il Biellese. Ivrea: Viassone, 1928

 

Carandini 1914

Francesco Carandini, Vecchia Ivrea. Ivrea: Viassone,1914

 

Cassio 1980

Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci, 1980

 

Coiz 1873

Antonio Coiz, Guida storico-artistico industriale di Biella e del circondario. Biella: A.Chiorino, 1873

 

Costantini et al. 1989b

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989) a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Cucco, Varale 1920

Cornelio Cucco, Giovanni Varale, Regina Montis Oropae. Biella: Tip. Ospizio di Carità,1920

 

Esposizione 1882

Esposizione generale dei prodotti del circondario di Biella del 1882, Catalogo Ufficiale e Pianta. Biella: Amosso, 1882

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884, Arte Contemporanea: Catalogo Ufficiale, Torino, Unione Tipografica Torinese, 1884

 

Falzone del Barbarò 1979

Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Vittorio Besso (Biella 1828-95), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, p. 1404

 

Falzone del Barbarò 1987

Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987

 

Linton 1887

Elizabeth Lynn Linton, Andorno, with photographs and a map of the neighbourhood. Biella: Amosso, 1887

 

Maccaferri 1986

Gianfranco Maccaferri, a cura di, 1870-1940: I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Marangoni 1931

Guido Marangoni, Vercelli il Biellese e la Valsesia. Bergamo: Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1931

 

Mario Sansoni 1987

Mario Sansoni: Diario di un fotografo, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n. 5, giugno, pp. 44-53

 

Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

Pia Padovani, Emilio Gallo, Illustrated guide to the valleys of the Biellese region. Torino: Casanova, 1900

 

Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

“Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna” (2015)

in Cinzia Frisoni, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 26-11-2015/ 28-02-2016). Bologna:  Bononia University Press, 2015, pp. 13-28

 

Al titolo segue l’indirizzo, ma nessuna indicazione relativa al contenuto compare in copertina di quel primo fascicolo pubblicato da Pietro Poppi intorno al 1871[1].  Manca perciò ogni riferimento ai soggetti , ma sul genere non potevano esserci dubbi: a quelle date uno studio fotografico avrebbe potuto pubblicare solo un repertorio di riproduzioni di monumenti, quadri e disegni, certo non di ritratti o altro.

“Quale è l’importanza annua delle fotografie che si fanno nel vostro stabilimento? Vi occupate specialmente delle vedute di monumenti, e della riproduzione di quadri, disegni ecc.?”  si chiedeva nel questionario (“interrogatorio”) utilizzato per l’Inchiesta industriale promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1870 e realizzata attraverso la rete delle Camere di Commercio[2].  E ancora: “Credete voi che possano farsi qui fotografie di monumenti, quadri ecc. ugualmente bene, ed allo stesso prezzo che all’estero? Si fa esportazione dall’Italia di tali fotografie, e quale ne giudicate l’importanza?” Questi i quesiti posti  nello stesso anno in cui il Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”[3].

Sono domande che rendono immediatamente chiaro quale fosse già allora il settore che più connotava la produzione dei principali studi fotografici attivi in Italia, anche nella percezione delle burocrazie ministeriali. Poppi fu tra i molti che non risposero all’Inchiesta, sebbene non dovesse  condividere l’opinione di Michele Schemboche che “i fotografi che si danno all’industria della riproduzione dei monumenti (e sono queste le sole fotografie che trovino all’estero facile smercio) si trovano a Roma, a Venezia, a Firenze, città eminentemente artistiche”[4].  E Bologna certamente non lo era, e non solo nell’opinione degli incolti. Quella necessità, evidente, di rivolgersi specialmente a una clientela straniera doveva essergli ben chiara già in occasione del suo secondo catalogo (1879), stampato in francese;  consuetudine che venne mantenuta anche nel successivo del 1883, nel quale non solo si indicavano le località rappresentate, ma l’elenco comprendeva appunto “città eminentemente artistiche” come Roma e Firenze, nel tentativo di adeguarsi alle pratiche commerciali dei grandi studi, ben delineate da Giacomo Brogi:  essendo “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene (…) abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto”[5].

A Bologna l’edificio di via Mercato di Mezzo 56 era noto come Casa Campogrande. Fu  qui, in anni quasi concitati, che ebbero sede l’Officina di Fotografia di Dioneo Tadolini (dal 1857) e lo studio del polemico Emile Anriot (dal 1861-1862), posto “all’ultimo piano e non al primo”, come opportunamente precisava un avviso[6]. Qui Pietro Poppi, all’epoca ancora pittore ben presente nelle esposizioni locali[7], aveva aperto nel giugno 1863 una cartoleria in società con Adriano Lodi; attività formalmente chiusa quando, secondo la testimonianza per più ragioni affidabile di Carlo Malagola, in quell’edificio “lo Stabilimento Poppi [venne] fondato nel 1865 col titolo di Fotografia dell’Emilia”[8].   Senza dimenticare che nel frattempo Roberto Peli, dopo il distacco da Anriot e lo spostamento di quest’ultimo in Via San Mamolo nel 1864, aveva aperto un proprio studio (Nuova fotografia Peli), adottando come recapito proprio la cartoleria Lodi e Poppi. Si direbbero anni di tentativi incerti, di iniziative diverse destinate quasi a tastare il terreno, a verificare le possibilità del nuovo mercato delle fotografie che si andava definendo, come la società Peli, Poppi & C.[9], che stabilì la propria sede in strada San Mamolo 102, vale a dire nello stesso edificio in cui si era trasferito Anriot. Quasi per dispetto verrebbe da dire, specie considerando il fatto che la società ebbe breve vita[10].

Era il 1866. Lo stesso anno in cui lo “Stabilimento fotografico dell’Emilia” non solo era in piena attività ma ricevette il suo primo riconoscimento pubblico sotto forma di un articolo pubblicato ne “Il Monitore di Bologna”[11], in cui si lodava la riproduzione fotografica “dei 75 quadri, dell’Inferno (…) ormai celebri in Europa, del Sig. Gustavo Doré (…) per gentilezza usatagli dall’egregio Sig. Francesco Ratti, professore di questa nostra R. Accademia di Belle Arti”. Il brano offre con tutta evidenza informazioni per noi fondamentali: non solo ci informa di uno dei primi lavori di ‘riproduzione’ di opere d’arte,  qui condotto con largo anticipo sulla loro pubblicazione italiana[12], ma conferma i suoi legami con gli ambienti dell’Accademia bolognese  e suggerisce un elemento forte per la definizione del passaggio di Poppi dalla pratica pittorica a quella fotografica.  Certo, l’amicizia e la collaborazione con Roberto Peli. Certo, almeno in via ipotetica, la frequentazione delle lezioni che Anriot impartiva a pagamento, ma un ruolo centrale dovette svolgerlo proprio Ratti, docente di xilografia all’Accademia  più che interessato alle nuove tecnologie fotografiche[13]  e inoltre, dato per noi più significativo, vicino a Luigi Sacchi, con cui aveva collaborato all’edizione illustrata dei Promessi Sposi. Quello stesso Sacchi che dopo il passaggio alla fotografia documentò verso il 1852 le Arche dei Glossatori, il Palazzo Pontificio e la Fontana del Nettuno, inserendo poi queste ultime nella seconda serie dei Monumenti, vedute e costumi d’Italia[14].

Non si vuole qui suggerire alcuna derivazione di tipo artistico o stilistico; la formazione fotografica aveva significati e ragioni diverse da quella pittorica, ma forse possiamo accontentarci di credere che Poppi, sotto la spinta di concrete esigenze economiche, come molti in quegli anni del resto, abbia scelto di passare dalla pittura alla fotografia con il sostegno di Ratti e seguendone gli autorevoli insegnamenti tecnici,  magari confidando per breve tempo sull’esperienza maturata da Peli come assistente di Anriot. Nonostante la scarsa fortuna artistica di Bologna in ambito extralocale[15] anche la scelta di dedicarsi alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico non appare così inconsueta, considerando il buon successo delle Vedute Fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna  in cui Anriot nel 1864 aveva fornito  “un più libera lettura della città e dei suoi monumenti”[16] per poi lasciare pochi anni dopo Bologna e campo libero all’attività di Poppi.  La città non era stata compresa tra le mete delle Excursions daguerriennes e  si dovette attendere Richard Calvert Jones per averne le prime testimonianze fotografiche[17], quindi le prove di Sacchi e poi, in chiusura di decennio, il  primo panorama fotografico della città realizzato da Carlo Napoleone Bettini[18].

È proprio con Anriot allora che pare misurarsi Poppi agli inizi della propria attività professionale di fotografo, come mostrano alcune stampe databili a quei primissimi anni, relative ai maggiori monumenti bolognesi e note nei formati carte de visite e album[19]. Tra queste risultano per noi di particolare interesse una veduta di piazza Santo Stefano realizzata prima del 1869[20], inquadrata dallo stesso identico punto di vista ed esattamente con le stesse luci che ritroviamo in due riprese coeve di Anriot e di Giorgio Sommer[21], solo utilizzando un obiettivo di lunghezza focale minore e quindi comprendendo una porzione più ampia di piazza, e soprattutto le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio vedute dall’Albergo dei Quattro Pellegrini, di cui sono note oltre la lastra originale e la stampa per contatto, anche un’edizione in formato “Gabinét”,  derivata non da una specifica ripresa ma dalla rifilatura della stampa di formato maggiore.

Le Torri “prese dai tetti” aprivano il catalogo del 1871. Una scelta che non poteva essere più significativa dal punto di vista culturale e simbolico, ma che costituiva anche un eccezionale esito in termini di qualità specifiche dell’immagine, dove l’uso  di un obiettivo di grande apertura angolare, forse un poco decentrato, determinava una leggera deformazione ottica ma accentuava  il gioco dinamico delle diverse diagonali che costruiscono l’immagine, consentendo di mostrare le torri in tutta la loro altezza, a partire da quello spazio ristretto e quasi scavato da cui crescono. Considerando l’intera serie poi si chiarisce ancor meglio una delle modalità operative di Poppi, che circumnavigava il soggetto, riprendendolo da diversi punti di vista e pubblicandone edizioni diverse non solo per il formato[22] ma anche, secondo un uso non raro in quegli anni, con l’aggiunta di nuvole in ogni senso pittoresche a movimentare lo spazio vuoto del cielo.

Furono proprio i principali monumenti bolognesi a costituire la sezione  più rilevante di quel catalogo, pubblicato a breve distanza dal trasferimento dello studio nella nuova sede di Casa Rodriguez, in Strada San Mamolo 101, non lontano da quella della precedente società con Roberto Peli e dello studio di Anriot (San Mamolo 102). Di quel primo repertorio facevano parte anche i “Paesaggi” e i “Quadri della Regia Pinacoteca ed altri quadri classici”[23], con una scelta di temi già indicativa e che nei decenni successivi si sarebbe ulteriormente articolata ma mai smentita:  un buon numero di chiese bolognesi, e non solo le maggiori, con molte riprese dedicate ai loro elementi decorativi, poi i grandi palazzi storici; accanto a questi però anche le principali architetture contemporanee, come il Palazzo della Banca Nazionale (192)[24] e quello della Cassa di Risparmio (202);  poi le due torri (anche “intere”, n. 366 nel formato grande di 36×45) e i panorami (ben sette), le piazze, le porte e alcune ville (Frank, Hercolani, Marescalchi, Salina, Zucchini), occasione per realizzare i primi soggetti di paesaggio, anche con figure[25], la cui messa in repertorio costituisce forse la novità più rilevante, mentre la sostanza del trattamento (“Gruppo di cipressi”, “Dettaglio: Tronchi d’alberi”), rimanda ancora ai modi dei calotipisti attivi specialmente a Roma nel decennio antecedente l’Unità. Oltre a Ravenna, dove riprese anche alcuni paesaggi (638 Pineta, con un primo piano materico di calanchi), la sola altra località considerata era Roma, con uno sparuto gruppo di quattro riprese (Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Arco di Settimio Severo, Tempio di Veneree Arco di Tito)  Oltre a quelli già presenti nelle serie dedicate alle chiese, il catalogo conteneva anche una specifica sezione dedicata a “Bassi Rilievi, esemplari artistici” tra cui  un Cespo d’Accanto spinoso (691) e  una Miscellanea di 5 pezzi variati di rilievi e bassi rilievi.  La sezione degli Ornati veri e propri si sarebbe poi sviluppata a partire dal 1879 ma questi due titoli sono già di per sé indicativi: sia la Miscellanea, che escludeva  ogni intento documentario per proporsi esplicitamente come modello manualistico per la copia, sia le foglie d’acanto che anticipavano i soggetti “presi dal vero” pubblicati a partire dal 1888. Erano questi lavori, forse insieme ai “monumenti moderni” della Certosa, ad avere i destinatari e acquirenti più immediatamente identificabili nei professori e negli allievi dell’Accademia, negli artigiani e nei frequentatori delle scuole d’arte, nel solco di una tradizione incisoria e poi litografica particolarmente ricca e qualificata, che ormai a queste date pativa la concorrenza della fotografia. Meno semplice risulta comprendere l’immissione in un catalogo destinato alla vendita delle riprese dedicate alle architetture contemporanee, per le quali è difficile immaginare una richiesta da parte del turismo colto che frequentava Bologna, né erano destinate a un album antologico dedicato alla sua città, che non risulta Poppi abbia mai prodotto, sebbene fosse una tipologia che si andava diffondendo in quegli anni anche in numerosi centri minori.

Il secondo catalogo, del 1879[26], presenta novità significative: non solo affiancava in copertina il nome del titolare a quello dello studio ma fu pubblicato in francese e corredato di una sintesi in quattro lingue dei soggetti contenuti, con una nuova numerazione  che risulterà definitiva.

Oltre a Bologna i luoghi indicati erano Ravenna, Urbino, Ferrara “et leurs environs”; mancava  Roma che pure era presente con le solite quattro riprese.  Significative sono le qualifiche con cui Poppi si presentava per la prima volta: “peintre-photographe/ membre correspondant de la R. Académie/ Raffaello a Urbino”. La prima, adottata da molti, moltissimi fotografi coevi aveva qui un valore più sostanziale e aderente al vero, cioè all’immagine che lo stesso Poppi dava di sé, come risulta da una lettera del 31 agosto 1877 inviata al  Presidente della Accademia Raffaello di Urbino in cui scriveva della sua “modestissima qualità di pittore paesista e di fotografo” e gli stessi suoi contemporanei lo indicavano ancora, nell’ordine, “pittore, paesista, direttore dello Stabilimento fotografico”.[27]  Meno singolare invece l’associazione all’Accademia, di cui si fregiavano anche altri fotografi[28] e che gli derivava da una ricca campagna condotta in quella città, qui presentata in due distinte sezioni.

La tavola delle materie che apre il catalogo non indica espressamente Bologna, i cui soggetti sono divisi tipologicamente e comprendono anche la  “Gare du Chemin de Fer”(279), ma ben più rilevante rispetto all’edizione precedente era il numero di quelli non bolognesi, quasi triplicato con le campagne urbinati e ferraresi e con le prime riprese dello “château des Miracles”, vale dire della Rocchetta Mattei, della quale accentuò il già sovrabbondante aspetto fantastico, forse su suggerimento dello stesso proprietario. Molto ricca anche la sezione degli Ornati, poi in piccola parte accresciuta nei cataloghi successivi, con soggetti che vanno dal Plat portant un ail, une pomme, un artichaut avec leur feuilles (704) a un Chapiteau dans l’église de Saint Marc de Venise (733), che pone di nuovo qualche problema: poiché la campagna veneziana comparve per la prima volta nel catalogo del 1890 doveva trattarsi di un calco, come per altri numeri di quella sezione.  Se dalle pagine passiamo alle lastre e alle rare stampe superstiti scopriamo infatti con una certa sorpresa che anche il Candélabre par Michelange Buonarroti (694) o i diversi elementi del Monumento Tartagni in San Domenico (770) non erano tratti dagli originali ma dai calchi, ripresi in Accademia o, non di rado, nello stesso studio del plasticatore. Le ragioni di questo procedere non ci sono note né paiono facilmente comprensibili essendovi la disponibilità degli originali (il monumento nella sua interezza è rubricato al n. 101) né sussistendo problemi di resa delle policromie originali, quelli che ancora a date piuttosto tarde lo portarono a riprodurre le stampe di traduzione dei dipinti. Non semplici riproduzioni allora, ma impronte di un’impronta immesse a loro volta in circolo virtuoso di figure per servire  di modello per stampe litografiche, come fu il caso del Monument Tartagni: détail de la caisse, che costituì il modello per una litografia di Silvio Gordini  (774)[29].

La circolazione di quel primo catalogo in francese dovette sortire qualche effetto se già nel 1880 Poppi risultava tra i fornitori della “Bibliothèque photographique” di Adolphe Giraudon, insieme ai maggiori italiani come Alinari e  Brogi[30], e fu forse quella una delle ragioni che lo determinarono a confermare la scelta della lingua francese anche per l’edizione del 1883[31]. Nei pochi anni che intercorsero tra questa e la precedente si registrarono due eventi che ebbero certo influenza sul suo lavoro e sulla sua decisione di pubblicare un nuovo repertorio a soli quattro anni di distanza: nel 1879 il fotografo era stato chiamato a collaborare alla campagna documentaria promossa dalla Commissione Conservatrice locale per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione[32] e – soprattutto – entro il 1881 gli Alinari avevano realizzato la loro prima, consistente campagna fotografica bolognese, con ben 188 soggetti. Non solo: Poppi nel frattempo aveva potuto fregiarsi della qualifica di “pourvoyeur de S.A.R. le Duc de Monpensier”, Antoine Marie Louis Philippe d’Orléans, uno dei più noti (e discussi) aristocratici europei, e questa attribuzione di grande prestigio fu anteposta in copertina  a quella di membro corrispondente dell’Accademia Raffaello, sebbene poi del principesco palazzo di più di trecento stanze in quell’occasione non fotografasse che pochi elementi (nn. 253259)[33].

Anche per le altre città non mancavano elementi nuovi: espunta Ravenna, forse per un accordo con Luigi Ricci, comparvero alcune città padane e altre toscane tra cui Firenze, con ben 119 soggetti, in evidente concorrenza coi grandi studi e applicando alla lettera la strategia indicata da Brogi,  mentre altre sezioni vennero notevolmente accresciute come Riola di Vergato, anche perché “Dopo nuove costruzioni si sono eseguite negative che portano il nome d’altre descritte, ma il soggetto è variato” (995).  Negli anni di maggior successo dell’attività elettromeopatica  del suo proprietario, Poppi dedicò ben 68 nuove riprese alla Rocchetta, certo in accordo con Mattei che poteva disporre di fotografie da vendere ai numerosissimi pazienti che lo visitavano per sottoporsi ai suoi trattamenti (963); per analoghe ragioni l’intera serie di Riola comprendeva anche il vicino Albergo della Rosa (10051018), a cui vennero dedicate più di una decina di riprese con evidente funzione promozionale, secondo una pratica comune ad altri fotografi[34].

Nella sintesi obbligata dallo spazio disponibile al verso di una stampa in formato gabinetto che riproduce una pagina de La Terra di Lavoro illustrata dal Professore Aristide Sala[35], pubblicata l’anno prima, Poppi reclamizzava la sua “Gran collezione di vedute/ Monumenti, Quadri/ Architetture e Dettagli/ d’Ornati Classici/ delle città di/ Roma – Bologna – Firenze – Pistoja – Lucca/ Ferrara – Padova – Vicenza – Mantova – Parma – Carpi – Modena – Imola – Ravenna – Urbino”. Di questo sintetico elenco colpiscono l’ordinamento e le scelte: per prima è indicata la capitale, sebbene le riprese romane a quella data non fossero più di una quarantina[36], quindi l’ovvia Bologna,  alcune località toscane (oltre la specificità urbinate) e una sequenza, che diremmo  genericamente padana, che connotava il suo ambito operativo: da Ravenna a Mantova, la sola località lombarda citata, sebbene le fossero state dedicate solo tre riprese, mentre risultava esclusa dall’elenco una città ben più documentata come Bergamo. Le assenze erano altrettanto significative e corrispondevano ai programmi dell’immediato futuro: Milano (già con 7 titoli al 1883), Verona, Venezia e Chioggia, entrate in catalogo tra 1888 e 1890 e ancora Perugia, per  limitarsi ai centri maggiori.  Non ancora un’estensione a tutto il territorio nazionale (ciò che non sarà mai) ma certo un’offerta molto ricca e variegata, un repertorio a cui attinsero in particolare  molti architetti dell’eclettismo: dal piemontese Melchiorre Pulciano[37], che raccolse in album fotografici un ricco repertorio di temi architettonici e di ornato, con quaranta stampe di Poppi, al reggiano Guido Tirelli[38] come al romano Francesco Azzurri, progettista del nuovo Palazzo Pubblico di San Marino[39];  ma anche lo statunitense Russell Sturgis[40], la cui ricca collezione di fotografie comprendeva ben 135 esemplari del fotografo bolognese, per non dire dei legami con i più noti rappresentanti della cultura architettonica locale come Tito Azzolini[41], Raffaele Faccioli[42] e Antonio Zannoni[43], che a vario titolo ricorsero all’operato di Poppi. Com’è noto il rapporto fu particolarmente proficuo con Alfonso Rubbiani, a partire dai restauri della chiesa di San Francesco, quando l’architetto fece ampio ricorso alle stampe fotografiche, utilizzate non solo quale strumento conoscitivo nella tradizione metodologica stabilita da Eugène Viollet-le-Duc[44] e codificata in Italia giusto in quegli anni da Camillo Boito[45], ma quale supporto per verifiche metriche, costruzioni geometriche, indicazioni di restauro e simili, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Alfredo d’Andrade[46]. Potrebbero essere stati contatti professionali avuti nel corso della documentazione del cantiere di San Francesco a offrire a Poppi un incarico per lui inconsueto come quello relativo ai lavori ai fiumi Brenta e Bacchiglione a Padova, con otto immagini[47] realizzate tra il 1887 e  il 1890, caratterizzate da uno sguardo ampio, che ogni volta lega in una sola veduta tutto il cantiere, con una impostazione che ritroviamo anche nella coeva ripresa dedicata alla Frana alle Pioppe [di Salvaro] (10134)  in  cui paesaggio e cronaca dei lavori in corso si integrano compiutamente. Come accadde in altri simili casi quelle fotografie non entrarono a far parte del nuovo Catalogo generale pubblicato nel 1888[48], edito nell’anno in cui si sarebbero svolte in città le celebrazioni per l’ottavo centenario dell’ateneo bolognese e l’Esposizione Emiliana.

Era per Poppi il momento della sintesi e, diremmo, della sua affermazione definitiva: la lingua utilizzata tornava a essere l’italiano ma era soprattutto l’aggettivo qualificativo a connotare questo come il repertorio più compiuto, tutto fatto di “riproduzioni originali”, secondo una terminologia per noi inconsueta, ora riferibile con fatica alle architetture e ai paesaggi[49].  Diversamente dalle edizioni precedenti questo catalogo non presenta in copertina l’elenco dei soggetti principali, rimandato a un più opportuno e sistematico “Indice alfabetico” posto in apertura: è il sintomo e la testimonianza di una organizzazione più scientifica e quindi moderna del proprio lavoro (o – almeno – della propria immagine). Così Bologna compare solo al terzo posto e, dopo Ferrara, troviamo i “Fiori e foglie presi dal vero”. Ne risulta un singolare andamento, in cui i toponimi sono mescolati a categorie varie come “Ornati, scolture fiamminghe e statue” e “Paesaggi e costumi campestri”, insieme ai già noti “Personaggi illustri antichi e moderni”, una serie in cui la fotografia abdicava alla sua funzione sociale più diffusa per recuperare quasi archeologicamente il contenuto referenziale delle opere d’arte. A scorrere le stampe, le “Sculture Fiaminghe” si rivelavano essere una serie di più modesti “Puttini” alternativamente “volanti” o “posanti”, ripresi singolarmente o in gruppo a formare leziose scenette che dovettero avere però un certo successo se una di quelle fotografie (3005Puttini fiamminghi) fu fatta propria e riprodotta nel fotomontaggio pubblicitario preparato per la Mostra industriale di Lecce del 1886 da Pietro Barbieri, fotografo modenese attivo nella città salentina, di cui  Roberto Peli aveva rilevato lo studio[50].

Come prometteva il titolo, quello del 1888 risulta il catalogo più ricco:  non compaiono nuove tipologie ma soggetti nuovi. Non mutano le caratteristiche generali ma si amplia il repertorio e l’offerta diviene ancora più sistematica e articolata, in particolare per quanto riguarda le chiese, dove cresce il numero di dettagli decorativi e la riproduzione di dipinti. Poiché però anche la quantità costituisce un dato qualitativo va notato che l’accrescimento di riprese rispetto a un singolo edificio fu esponenziale; è qui che il lavoro mostra la propria logica e con un significativo salto di scala passa da tutti gli edifici importanti di una città a tutti gli elementi importanti di un edificio.  La sezione dedicata ai “Paesaggi” venne presentata in indice insieme alla novità costituita dai “costumi campestri”, con ben 97 soggetti, tutti estesamente descritti[51]  per solleticare e sollecitare i possibili acquirenti. Ciascuna descrizione meriterebbe di essere riportata per la sua singolarità ecfrastica, ma basti questo esempio : “Sul limitare di un rustico abituro, una contadina seduta, scherza amorosamente col bambino che tiene sulle ginocchia, il fratellino seduto a terra guarda allegro il fratellino minore”. Cercando di dare forma visiva a queste parole la mente corre alle opere coeve di un pittore come Gaetano Chierici[52], in particolare a una delle sue tante Gioie Materne, a cui la descrizione parrebbe adattarsi particolarmente bene, ma non corrisponde alla fotografia:  le parole e l’immagine parlano reciprocamente d’altro. L’espressione della contadina è difficilmente decifrabile; ancor meno quella del pargoletto, mentre ci è dato solo di immaginare l’allegria nello sguardo del fratello maggiore, che ci dà le spalle (10024).

A quella data le scene di genere non costituivano certo una novità in sé, ampiamente praticate in differenti declinazioni non solo dalla pittura coeva ma da numerosi fotografi, però con un’attenzione per la singola figura (ed erano i ‘costumi’ in senso proprio) ovvero per l’azione, ma staccata dal contesto e collocata in un spazio privo di connotazioni,  teatrale. Questa caratteristica generale e comune prevedeva però già allora alcune differenti intenzioni e atteggiamenti compositivi, riconoscibili in opere di autori  quali Federico Faruffini, Anton Hautmann o  Filippo Belli[53], forse prossime a quelle del padovano  Pietro Sinigaglia, del quale le fonti ricordano “varie scene campestri, come la mietitura, la falciatura, la vendemmia [che] hanno il merito intrinseco della fotografia, quello artistico di bella distribuzione delle persone e delle cose”[54], dove quel cenno alle qualità artistiche lascia intendere uno sguardo che ancora non si poteva definire folclorico né tantomeno proto etnografico, in cui cioè la figura fosse ripresa nello svolgimento di una sua attività consueta, senza cenni di posa.  Ancora più palesemente costruite, sino alla soglia del tableau vivant erano poi certe fotografie di Rive e Sommer  (San Martino a Napoli, Amalfi, con presenza di frati ad animare il contesto conventuale) che in termini di composizione e regia possono essere avvicinate a quelle di Poppi, essendo proprio questa relazione stretta tra ambiente e figure a connotare il genere, come accadeva anche per le immagini di ambiente veneziano e chioggiotto realizzate da Carlo Naya  per l’album L’Italie pittoresque, photographies d’après nature, 1870[55]. Volendo poi estendere lo sguardo oltre i nostri confini per verificare l’estensione del fenomeno a scala almeno europea, ma senza per questo lasciar intendere influenze o derivazioni, assai improbabili  allo stato attuale delle nostre conoscenze, potremmo richiamare un antecedente come Les  chasseurs di Humbert de Molard, 1851, o  le opere cronologicamente più prossime di un autore come Henry Peach Robinson, che confezionava circa negli stessi anni scene di genere di tipo aneddotico analoghe a quelle di Poppi[56].

Ciò che distingueva queste immagini dalle precedenti era l’adozione consapevole delle possibilità espressive consentite dalle nuove emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, vale a dire la rappresentazione dell’istantaneità  del movimento, pur non riuscendo ancora a nascondere il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli ‘attori’. I nessi più che evidenti con certa pittura coeva non erano però solo di ordine iconografico ma più sostanzialmente concettuale, realizzando il passaggio fondamentale, e radicale in un autore come Poppi, dalla riproduzione all’invenzione di immagini ex novo,  ritornando con altri strumenti narrativi alla pratica della sua precedente stagione pittorica, in anni di nascente pittorialismo. In alcuni casi l’intenzione ‘artistica’  era rivelata proprio dalla relazione tra testo e immagine, come per la ripresa sopra citata, ancora in bilico tra pittoresco ed etnografia, in cui le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico gli consentivano di allontanarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica del mondo contadino solo in virtù delle potenzialità documentarie proprie del medium, sebbene emerga chiara la  messa in scena e le figure rappresentate perdano la loro riconoscibilità anagrafica per mutare di statuto: da persona a icona. Ne sono un chiaro esempio tra i molti Tre contadinelle (10019), Cacciatore e due contadine (10054), o Dettaglio di casa rustica con gruppo di contadini (10041) tutte realizzate entro il 1888, che sono scene nel gusto di Giovanni Battista Quadrone[57]. Di qualità sostanzialmente diversa è invece un’immagine come Gruppo di contadini che lavorano (10022) che dietro al genericissimo titolo nasconde  una composizione e una regia estremamente innovative e sapienti, di cui non è possibile trovare l’eguale nella produzione italiana ed europea di quel periodo. Qui un tema iconografico tipico della pittura di genere è declinato con un linguaggio e con soluzioni narrative propriamente fotografiche: si consideri  la figura centrale della contadinella, bilanciata dallo schermo nero della porta aperta e resa con un mosso che la coinvolge tutta. Tranne i piedi. Il fotografo le avrà chiesto allora  di ondeggiare o di ruotare sull’asse del proprio corpo,  ma senza muoversi, mentre altri la osservano e una bambina seduta al margine destro non riesce a trattenere il riso.

Nei due anni successivi Poppi accrebbe la propria produzione di genere con una trentina di nuovi titoli, esito evidente di un buon successo, ma chi volesse verificarne i soggetti avrebbe una certa difficoltà a ritrovarla completa nella sezione apposita dell’Appendice del 1890. Sebbene la didascalia in lastra parli ancora e sempre di “Genere campestre” i soggetti dal n. 10129 al 10133 erano rubricati sotto il curioso titolo di “Studi di Nudo”; nell’ordine: un San Giovannino (10129) “seduto” o “in piedi” in un improbabile “deserto”, due varianti di ripresa del “Martirio di San Sebastiano” (10131) e un “S. Giovanni sdraiato sull’erba” (10133). Nulla a che vedere col “Genere” di cui sopra, se non forse per le persone ritratte; certo non per i personaggi evocati. Quel titolo apparentemente fuorviante ci consente però di suggerire un confronto tra queste immagini e alcune altre di un autore come Wilhelm von Glöden[58], in cui la differenza appare più di rimandi iconografici che di sostanza: dalla mitologica arcadia siciliana al cristianesimo in versione rurale dell’Appennino emiliano, conservando entrambi quel  “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” di cui aveva parlato Carlo Bertelli proprio a proposito di  Von Glöden, riconoscendone la capacità di  restituire la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica di poco successiva, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare”[59].

Quei Costumi campestri dal vero, come li descrive il verso di una carte de visite, fecero parte  della ricca serie di fotografie presentate da Poppi all’Esposizione Emiliana del 1888, articolata nelle tre sezioni di Agricoltura e Industria,  Mostra Internazionale di Musica e Nazionale di Belle Arti[60]. La coincidenza tra data di produzione e occasione espositiva rende particolarmente convincente l’ipotesi a suo tempo formulata da Fabio Marangoni (1999) che quelle serie fossero state realizzate pensando in particolare ai visitatori dell’Esposizione di Belle Arti; un pubblico che avrebbe potuto apprezzare anche la  serie dei “Fiori e foglie presi dal vero”, della quale alcuni esempi erano già indicati in cataloghi precedenti, ma compresi tra gli “Ornati”.  Il tema godeva da tempo di una notevole fortuna a scala europea, con produzioni di altissimo livello quali la serie di Fleurs photographiées  pubblicata da Adolphe Braun nel 1854[61], una novità assoluta nella produzione fotografica, gli Études de Feuilles di Charles Aubry, del 1864 o ancora gli “Studi” realizzati da Alphonse Bernoud verso il 1875, dopo il suo ritorno a Lione[62], una città che non solo vantava una lunga tradizione pittorica nel genere ma aveva un’importante industria tessile.  Poiché erano i disegnatori, insieme ai pittori certo, i primi e più importanti destinatari di quelle opere che sulla neutralità della descrizione botanica facevano prevalere gli aspetti compositivi e formali dell’inquadratura come le possibilità offerte dalla fotografia di accentuare una resa quasi materica delle foglie e dei petali (10326, 10343)

Sebbene realizzati tra 1888 e 1890 vanno qui considerati anche gli studi di nubi “presi dal vero”, sottolineatura quasi pleonastica se non fosse che le nuvole erano già presenti in molte sue riprese, specie d’architettura, ma come frutto di un intervento manuale sulla lastra negativa (945). Questi invece sono proprio cieli carichi di nubi  (10162), nei quali solo di rado e in forma letteralmente marginale compare il resto di un profilo urbano (10158, 10164). Sono nuvole piene, corrusche e solide, viste da un piano prospettico fortemente inclinato o quasi verticale, per molti versi sovrapponibili agli studi “di nuvoli” realizzati dagli Alinari qualche anno dopo, quando l’impresa era diretta da Vittorio[63].  In entrambi i casi l’esiguità dei soggetti e la mancanza di un qualsiasi intento classificatorio non consentono di collocare quelle piccole produzioni nel contesto del dibattito internazionale che proprio in quegli anni si andava consolidando intorno al tema[64], anche se non possiamo neppure escluderne un qualche effetto di suggestione, combinato con il fascino pittoresco del tema, da sempre condiviso da pittori, letterati e poeti e che, per ragioni diverse, non aveva mai cessato di attrarre neppure i fotografi sin dai primi anni ‘50 e che ancora nei primi decenni del ‘900 avrebbe coinvolto amateur italiani come Andrea Tarchetti[65] e Mario Gabinio[66].

Il 1888 fu un anno cruciale per Poppi e la Fotografia dell’Emilia: non solo la privativa e il premio “con gioiello da S.M. la Regina d’Italia” ricevuto all’Esposizione e la pubblicazione di una cartella di stampe con testo di Corrado Ricci ma anche l’importante commessa da parte della Repubblica di San Marino per la realizzazione di un album da presentarsi all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno successivo, ottenuta per intercessione di Carlo Malagola[67], Commissario per la Divisione VIII Arti Grafiche della stessa Esposizione,  membro della Commissione Artistica e della Giuria che gli aveva assegnato il premio[68].

Nel testo che accompagnava le  trentuno fotografie dedicate ai  Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV,  Ricci richiamava l’impossibilità metodologica di “tessere brevi ricordi biografici senza valore e sopra la sola fede di storie piene d’errori e di leggende”[69], ciò che poteva ben corrispondere anche all’uso ormai consolidato della fotografia quale strumento e fonte di mediazione documentaria di cui proprio quell’opera costituiva un importante esempio. Una eco, e un’ulteriore conferma di quelle posizioni si sarebbe poi ritrovata nelle parole di un altro storico dell’arte che più volte si avvalse delle riprese di Poppi come Francesco Malaguzzi Valeri, che introducendo il suo volume dedicato a L’architettura a Bologna nel Rinascimento, dichiarava che “la dottrina dell’arte nostra ha troppo bisogno di rinnovarsi originalmente con lo studio dei [sic] fonti a stralciare gli ultimi veli del fantastico e dell’accademico che ancor l’avviluppano”[70]. In anni in cui la storia dell’arte si definiva metodologicamente come disciplina anche in virtù di un ricorso sistematico alla fotografia quale fonte documentaria e strumento comparativo, l’offerta delle ditte fotografiche si ampliava estendendosi anche alle nuove realtà museali: così entrarono a far parte del Catalogo Poppi del 1888 anche 130 riprese dedicate agli ambienti e alle opere del Museo Civico Archeologico di Bologna, mentre la sezione dedicata ai “Quadri” si estendeva sino a comprendere opere conservate all’estero, come la “Maddalena nel deserto” (503) del Correggio (Maria Maddalena leggente, oggi perduta) ricavata però da un’incisione, come non era raro che accadesse in quegli anni non tanto per la difficoltà di raggiungere l’originale quanto per l’insoddisfacente traduzione tonale della cromia originale consentita dalle emulsioni non ortocromatiche.

Il lavoro su San Marino condotto nell’ottobre del 1888 in collaborazione con nipote Angelo Marzola venne illustrato da uno specifico catalogo firmato come “Fotografo governativo della Repubblica di San Marino”[71],  corredato di nota introduttiva di Malagola[72], autore anche delle didascalie alle trentasei immagini repertoriate, su di un totale di almeno settanta  realizzate nel corso della campagna. Sono fotografie accurate, corrette, con una inevitabile attenzione per il contesto paesaggistico ma prive di quella capacità di dialogo coinvolgente con le architetture rappresentate che è uno dei grandi pregi dell’operare di Poppi e che lo distingue immediatamente dalla produzione di altri studi e autori coevi, anche quando sente l’attrazione dei dettagli (185). Se “una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi – come scrisse  Rudolf  Wittkower – poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”[73], allora potremmo dire che Poppi, pur inevitabilmente legato allo stesso processo proiettivo, mostrava uno sguardo più nordico e padano, tra romanico e gotico e ovviamente non solo per le architetture fotografate (3430 – Bologna). Ne è testimonianza l’uso ricorrente del grandangolare, combinato con l’adozione di un punto di vista non di rado disposto in asse a uno spigolo dell’edificio, con  esiti non sempre controllati ma con risultati a volte eccezionali, come nella ripresa del Castello Estense a Ferrara (600),  che solo un residuo di consapevolezza storica ci impedisce di dire metafisica. Sono forse queste caratteristiche che fecero riconoscere a Renzo Grandi nel lavoro di Poppi “una percezione dei luoghi complessa e perfino inquieta e immaginosa”[74], non contraddetta da una sistematicità quasi maniacale, che lo portava a rifotografare a distanza di tempo lo stesso soggetto[75], in uno sforzo continuo di aderire alle mutazioni del reale nel tempo. Un’intenzione propriamente fotografica che lo induceva a  replicare rigorosamente le condizioni di ripresa (punto di vista e focale, e quindi inquadratura); indagando il soggetto con minime varianti, lavorando di campo e controcampo o riproponendolo scorciato dai due lati, come nella serie dedicata alla Porta dei Leoni di Palazzo Prosperi a Ferrara, a sua volta con varianti (6066076391).

E poi le luci: contravvenendo in non pochi casi alle buone regole che consigliavano riprese con illuminazione diffusa, Poppi apprezzava  e forse cercava  luci piuttosto radenti, in grado di dare maggior rilievo plastico agli elementi (2901 – Budrio – Palazzo Municipale), con ombre portate che a volte drammatizzano in modo quasi eccessivo la scena (1143).

E poi le persone: già nei primi esemplari noti gli spazi urbani appaiono occupati da figure in modi che è possibile riscontrare anche in Emile Anriot[76], ma qui ancor più marcati: Poppi amava riprendere i monumenti con la vita intorno. Persone ferme a guardare il fotografo, ancora curiose, magari celate nell’ombra di una porta, di un androne, protette da una grata di finestra. Più di frequente la presenza appare cercata e voluta,  (4960; 1721) non più come parametro dimensionale però: le figure occupano lo spazio e lo vivono; sono aneddoto non misura dell’opera (113). Nello spazio definito dal monumento accadono piccole storie, come nel caso delle due figure sulla scalinata della chiesa di San Fermo a Verona (4201),  messe in scena dal fotografo in modi analoghi a quelle di “Genere campestre”. Non si tratta – credo – di attenzione al colore locale nel “gusto di un Naya o di un Sommer” come sosteneva Zannier[77], ma di un portato della formazione pittorica di Poppi, quella stessa che lo induceva a dipingere a vernice grassa le nuvole nei cieli delle sue architetture anche in anni in cui la rapidità delle lastre alla gelatina  avrebbe consentito tecnicamente la loro ripresa. In fondo si trattava di risolvere un problema artistico: per ottenere l’effetto voluto, per arricchire la veduta, invece di utilizzare metodi fotografici come il fotomontaggio o la doppia esposizione, Poppi preferiva ricorrere alla manualità del gesto, infine pittorico.

 

 

Note

 

[1] Poppi 1871.

[2] Inchiesta 1873, p. 2.

[3] Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”, lettera del 6 maggio 1870; in una successiva missiva del 12-08-1870 indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti” il Ministro precisava: “a ciò fui mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”.

[4] Inchiesta 1873, p. 10. Dopo l’attività di Anriot e di Poppi si dovrà attendere l’Appendice del 1881 per avere un primo, ricco catalogo bolognese; cfr. Sesti 1993.

[5] Citato in Tomassini 2003, p. 169.

[6] Citato in Cova 1987a;  la vicenda professionale di Anriot, ancora poco nota, lo colloca nel  gruppo non minuscolo dei fotografi itineranti di quegli anni: prima di giungere a Bologna aveva operato a Fiume e a Zara nel 1858-1859, cfr. Seferović 2009; dopo, come noto, si sarebbe trasferito a Roma.

[7] Suggestiva la lettura proposta da Varignana 1993, pp. 64-65, di un dipinto come Piazzetta dell’Aurora e via dell’Asse, post 1864, “che si direbbe realizzata, come già faceva Basoli, con l’aiuto della camera ottica”.

[8] Lettera ai Reggenti di San Marino del 18 marzo 1889, citata in Marangoni 1999, p. 54-55.

[9] La nuova società fu attiva parallelamente alla Fotografia dell’Emilia, che risulterebbe aver cessato la propria attività nel 1869, cfr. Cristofori 1992c.

[10] Varignana 1985, p. 44; Cristofori 1992c, p. 276.

[11] “Il Monitore di Bologna”, 17 aprile 1866, n. 105, citato in Cristofori 1992c; si veda anche Marangoni 1999, pp. 52-53, che riporta ampi stralci del brano. La porzione di Archivio Poppi acquistato nel 1940 dalla Cassa di Risparmio di Bologna è consultabile all’indirizzo https://digital.fondazionecarisbo.it/category/fondo-poppi?query=&sort=title&order=asc&page=1&size=20&filterField=

[12] Camerini 1868. Questa, come altre iniziative, si collocava nel contesto delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, a cui è riferibile anche l’opera di Carlo Saccani che a Parma, nello stesso 1866, pubblicava la parte dedicata all’Inferno de La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata, riproducendo fotograficamente i disegni di Francesco Scaramuzza, preparatori del grande ciclo di tele  avviato in un primo tempo su commissione di Luigi Carlo Farini, cfr. Bersani 1992.

[13] Fu presente come tecnologo e inventore di nuovi procedimenti fotografici sia all’Esposizione industriale ed Agraria del 1869 che all’Esposizione Emiliana del 1888.

[14] Luigi Sacchi 1998, sch. 34; Mormorio 2000, p. 104.

[15] Basti in tal senso la testimonianza di John Ruskin in una lettera inviata al padre da Pisa: “Al Camposanto ho fatto la conoscenza di due artisti che, sebbene fossero francesi, parlavano proprio come esseri umani; (…) Sono due anni, ormai, che studiano i dipinti antichi, quelli degni di nota, e mi hanno prodigato suggerimenti assai utili; sostengono che dovrei fermarmi un mese a Padova, e mi assicurano che non c’è niente a Bologna; una notizia, questa, che mi procura gran gioia, giacché non amo quella città”  (in Ruskin 1985, lettera del 21 maggio 1840), che ritornava però nei deliri dei primi stadi della sua malattia, quando gli compariva in sogno la Beata Vigri, “the only woman painter ever canonized”; cfr. Viljoen 1971, p. 105, citato in Bradley, Ousby 1987, p. 413.  Nonostante gli apprezzamenti di Jacob Burckhardt (Der Cicerone, 1855) quella ridotta considerazione dovette permanere a lungo se il catalogo Alinari del 1863 comprendeva solo la Testa del Nazareno di Guido Reni e la Santa Cecilia di Raffaello (tra i primi dipinti riprodotti anche da Poppi). Ancora nel  settembre del 1896 Sigmund Freud, che pure acquistò due fotografie di Poppi,  poteva scrivere alla moglie: “città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali [ma] Chiese ed arte qui [sono] per fortuna meno coercitivi”, citato da Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa http://amicidellacertosa.com/articoli.html [25-07-2014].

[16] Poi raccolte nel 1868 per Nicola Zanichelli nel volume Edifizi, vedute, quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna, rappresentate colla fotografia, cfr. Cristofori 1992a, p. 270.

[17] Gray 1992;  Tromellini, Spocci 1992a.

[18] Benassati 1992a, in cui forse per un refuso sfuggito all’acribia della redattrice e curatrice si indica come data di esecuzione un improbabile termine post quem: “esec. 1833 [sic]-1859”. Un altro esemplare dello stesso panorama, non montato, appartiene alla collezione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, cfr.  Bonetti, Maggia 2007, pp. 34-35.

[19] Scorcio di Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà ed il mercato delle erbe, 1865 circa.

[20] L’attribuzione della ripresa si deve a Angela Tromellini e a Roberto Spocci che hanno confrontato le diverse stampe conservate presso la  Soprintendenza Beni Architettonici e le collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna con l’esemplare compreso in una cartella della Biblioteca Reale di Torino, che contiene altre sette stampe anonime  ma di identico formato e montaggio oltre che caratterizzate da una certa omogeneità di impianto, cfr. Tromellini, Spocci 1992b. Nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio è conservata una stampa  derivata da un’altra ripresa effettuata con luci analoghe ma con inquadratura meno accurata e spostata a destra, tale da comprendere anche la casa accanto. Nonostante il fatto che le imperfezioni comuni ed evidenti nel trattamento delle lastre al collodio da cui derivano le stampe comprese nella cartella conservata alla Biblioteca Reale sembrerebbero testimoniare non solo un’autorialità comune ma anche una plausibile scarsa perizia iniziale di Poppi o del misterioso fantasma della Fotografia dell’Emilia, la presenza nella stessa cartella della fotografia della Piazza di S. Domenico/ in Bologna, certamente di Anriot, ci fa ritenere che quella cartella non fosse di produzione editoriale ma semmai l’esito di una collazione, come sembrano confermare sia gli scarsi nessi tra le stampe e il bel raccoglitore con piatti in lacca cinese a motivi floreali sia una serie analoga  passata in asta da Gonnelli a Firenze nel 2013   http://www.gonnelli.it/it/asta-0013/anriot-andeacute-mile-bologna-.asp [23 07 2015], in cui erano comprese sia stampe di Anriot sia le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio di Poppi.

[21] Si confronti la stampa di Anriot compresa nelle Vedute Fotografiche con gli analoghi soggetto di Poppi e Sommer pubblicati rispettivamente da  Tromellini, Spocci 1992b e da Frisoni 2008, p. 64. Il punto di ripresa e la scelta dell’ora, della luce più adatta pare quasi obbligato o – almeno – largamente condiviso, come dimostra il confronto tra queste immagini, a loro volta utilizzate come modello per la realizzazione del dipinto di Alfredo Domenichini, Il complesso delle chiese stefaniane e il palazzo Isolani, 1875, olio su cartone,  55×45,5 cm. conservato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

[22] Di quest’immagine venne prodotta anche  la versione in carte de visite, ottenuta apparentemente per riproduzione della stampa maggiore.

[23] A conferma della funzione selettiva di queste pubblicazioni ricordiamo che il catalogo non comprendeva le riproduzioni dal Dorè ed escludeva  le opere dei primitivi presenti nella Pinacoteca bolognese,  “coerentemente al gusto del tempo e agli ancora vigenti dettati accademici”, Varignana 1985, p. 44-45, quelli stessi che forse lo avevano portato a riprodurre anche La Sposa pompeiana di Modesto Faustini, presentata alla Esposizione triennale della Società Protettrice per le Belle Arti di Bologna del 1867 e acquistata dall’Accademia, cfr. Benassati 1992b che fraintendeva però il nome dell’autore attribuendo il dipinto ad un altrimenti ignoto “Faustino Modesti”. Come ricordava Diego Martelli nel 1867, prima che a Bologna l’opera era già stata esposta a Brera, ricevendo quegli apprezzamenti che avrebbero potuto indurre Poppi a realizzarne la riproduzione.

[24] In Poppi 1890 il repertorio si arricchirà di 15 riprese dei “Dipinti degli archi dei portici del Palazzo della Banca Nazionale,  del Prof. Lodi (1865)” (80808094) mentre in Poppi 1896 compariranno alcuni dei nuovi edifici costruiti su Via Indipendenza come il Palazzo Arena del Sole, il Palazzo Cavalieri Finzi e Treves e la  Casa Stagni.

[25] Si vedano le riprese relative alle cave di gesso di Monte Donato, che fu un tema ripreso molti anni dopo da Luigi Bertelli (1833-1916), Cave di Monte Donato, 1902 ca. MAMbo – Bologna, amico di Poppi di cui sono noti alcuni modesti lavori derivati da sue fotografie, cfr. Cristofori 1992b.

[26] Poppi 1879.

[27] Per entrambe le citazioni si rimanda a Marangoni 1999, pp. 61-62.

[28] Oltre a Luigi Ricci, a sua volta in rapporti con Poppi, ricordiamo almeno Federico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli e il cremonese Aurelio Betri.

[29] Si veda Benassati 1992c, che aveva correttamente ipotizzato la derivazione dalla ripresa di Poppi, allora non nota non essendosi conservata la lastra nel Fondo omonimo, di cui è stata reperita una stampa nella collezione di Melchiorre Pulciano.

[30] Come risulta da una serie di lettere e bollettini di spedizione conservati presso la collezione di Robert Marchesin, oggi donata agli Archives départementales du Cher, a Bourges; cfr. Le Polley Fonteny 2003, p. 71 e p. 84 nota 7.

[31] Poppi 1883.

[32] Mozzo 2004, p. 862.

[33] Restano da comprendere le distinte ragioni per cui il Duca consentisse di pubblicare immagini anche di sale non di rappresentanza come  il “gabinetto che mette al fumoir” (253D) o il salotto e la sala da pranzo di “S.A.R. l’infante Donna Eulalia” di Spagna (3497, 3498, ante 1896) e, per altro verso,  quali ne fossero i possibili acquirenti. Potrebbe riferirsi indirettamente alle relazioni col duca anche l’ingresso in catalogo delle riproduzioni (nn. 520-521) di  alcune incisioni di un autore minore come François Claudius Compte-Calix che (nel 1863?) aveva dipinto il ritratto di una delle figlie del duca: la piccola Marie-Christine.

[34] Una analoga attenzione commerciale per le strutture alberghiere si ritrova ad esempio in Sella, Vallino 1890.

[35] L’esemplare fa parte di una serie di otto albumine, di identico formato, riunite  in una custodia cartonata rivestita di tela rossa, con l’ex-libris della “Bibliotheca/ Regis/ Umberti”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.

[36] Come segnalava Becchetti 1983, p. 335, la campagna romana venne commissionata o, almeno, utilizzata per l’apparato illustrativo di Schutz 1885, in cui “molte tavole fototipiche recano oltre ‘Phot. Dell’Emilia. Bologna’ anche gli anni di esecuzione che vanno dal 1880 al 1882.” Il dato è confermato dalla documentazione conservata presso gli archivi dei Musei Vaticani, dai quali risulta – come mi ha comunicato Cristina Gennaccari, che ringrazio per la preziosa segnalazione – che  Poppi fu autorizzato in data 30 ottobre 1880 a lavorare per un mese “per riprodurre colla fotografia alcuni affreschi” nelle “Camere e Logge”, intendendosi verosimilmente le Stanze e Loggia di Raffaello. Forse per ragioni legate ai diritti editoriali dell’opera di Schutz quelle immagini entrarono a far parte dei cataloghi di Poppi solo a partire dal 1888. Restano però ancora non pochi problemi aperti, come suggerisce il fatto che la lastra n. 2126 dedicata al  Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, immessa in catalogo nel 1883 è una semplice variante di ripresa, eseguita quindi nello stesso momento, della lastra n. 5196, databile al  1875 ca e attribuita a  Pompeo Molins,  che verosimilmente deve essere considerato l’autore di entrambe, come ha indicato Jean-Philippe Garric, nel corso della sua comunicazione dedicata alla Collezione Parker, condivisa con Francesca Bonetti,  presentata al seminario internazionale Les capitales photographiques , che si è tenuto a Parigi il 17-18 settembre 2015,  promosso da Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) in collaborazione con altre istituzioni internazionali.

[37] Melchiorre Pulciano (1833-1923), collaboratore di Edoardo Arborio Mella e autore di alcune chiese e di edifici civili in stile ‘neomedievale’ o eclettico, attivo anche nell’ambito del restauro. Nel 1915 redasse il testo storico critico dedicato al Palazzo Barolo di Torino per la serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”, del fotografo Gian Carlo dall’Armi.

[38] L’Archivio dell’Ing. Guido Tirelli (1883 – 1940), costituito dai disegni di progetto e da una ricca raccolta fotografica che comprende anche 54 stampe di Poppi, è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia consultabile all’indirizzo https://collezionidigitali.comune.re.it/cris/fonds/fonds00211/fondsinformation.html?orderall=ASC&startall=440&sort_byall=11&open=all  [03 01 2023].

[39] Francesco Azzurri (1827-1901), Presidente dell’Accademia di San Luca dal 1890, acquistò una serie di fotografie di Poppi nel 1889 e negli anni successivi il fotografò documentò diverse fasi della costruzione del Palazzo, sino alla sua inaugurazione, cfr. Marangoni 1999, pp. 196-197. Altre fotografie di Poppi appartennero anche a Giacomo Santamaria, attivo a Milano tra eclettismo e liberty e a Gino Coppedè, queste ultime oggi conservate nel Fondo omonimo dell’Archivio Fotografico Toscano a Prato.

[40] Russel Sturgis (1836-1909), architetto e influente critico di architettura, fu tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel corso del suo secondo Grand Tour acquistò numerose fotografie che andarono ad arricchire la sua già importante raccolta iniziata nel corso del primo viaggio in Europa nel 1858-1861; alla sua morte le circa 20.000 stampe che la formavano furono acquisite dal dipartimento di Architettura della Washington University. Può essere un interessante indizio, sebbene singolare, del successo commerciale (e culturale) dei diversi fotografi ed editori considerare che a fronte di 135 fotografie di Poppi la collezione ne conserva 1008 di Alinari, 370 di Brogi, 274 di Naya, 175 di Moscioni e 113 di Sommer, per limitarci alle maggiori presenze italiane; cfr. Hanlon 1997, consultabile on line : https://library.wustl.edu/spec/russell-sturgis/  [03 01 2023]. A conferma di una buona attenzione per la sua produzione da parte di viaggiatori internazionali segnaliamo che alcune stampe Poppi di soggetti bolognesi sono comprese nell’album Venice Spezzia [sic] Bologna, dell’International Center of Photography di New York;  tra questi anche il Gioacchino Murat di Vincenzo Vela nella tomba di Letizia Murat Pepoli, che fu a sua volta una delle prime estimatrici di Poppi pittore, di cui nel 1857 acquistò  il dipinto Campagna lambita da corrente di fiume, cfr. Grandi 1983.

[41] Le prime committenze risalivano al 1882, quando Poppi intervenne a documentare il restauro del castello di San Martino in Soverzano di Minerbio (Bo) e proseguirono almeno sino al 1894 col  Museo di San Petronio.

[42] Numerose fotografie di Poppi sono comprese nel fondo conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe, della Pinacoteca Nazionale di Bologna.

[43] L’ingegnere possedeva alcune stampe Poppi relative a edifici da lui realizzati, poi donate dalla moglie nel 1939  alla Biblioteca dell’Archiginnasio “per ricordare l’attività del marito nel campo dell’edilizia”.   cfr. Roncuzzi Roversi-Monaco 1992.

[44] E. Viollet-Le-Duc, voce Restauration. in Viollet-Le-Duc 1860, pp. 33-34.

[45] Boito 1893, pp. 28-30.

[46] Cavanna 1981.

[47] Se ne conoscono le stampe all’albumina, in grande formato (37×41 circa, montate su cartoni 44×52 cm), firmate Pietro Poppi e conservate presso la Biblioteca Civica di Padova. Non si può naturalmente escludere che tale incarico derivasse da contatti intrattenuti in occasione della campagna documentaria sul patrimonio architettonico patavino effettuata prima del 1883, ma l’affidamento a Poppi costituisce comunque una singolarità, sia rispetto alla sua produzione consueta (almeno per quanto ci è noto) sia per la presenza in città di buoni professionisti come Ferdinando Farina o Costante Agostini ma soprattutto per la disponibilità nella vicina Verona di uno specialista di grande livello come Moritz Lotze; cfr. Lotze 1984; Vanzella 1997. Altrettanto eccentriche risultano le cinque riprese dedicate al ponte San Michele sull’Adda (ponte di Paderno), completato nel 1889, ma in questo caso l’eccezionalità dell’opera ingegneristica ne determinò l’immissione in catalogo con l’Appendice 2a del 1896 (nn. 1441-1445).

[48] Poppi 1888. Lo spazio disponibile non ci consente di analizzare compiutamente altre produzioni di Poppi non confluite in catalogo, come quella condotta presso l’Istituto Aldini Valeriani nel 1878 o quella commissionata dopo il 1895 dalla Fernet-Branca per documentare la diffusione bolognese delle nuove insegne pubblicitarie con l’aquila disegnata da Leopoldo Metlicovitz, cfr. Tromellini, Cecchini 2003.  Colgo l’occasione per ringraziare Angela Tromellini per la segnalazione delle preziose stampe di Poppi.

[49] Tanto affascinante quanto complesso, e impraticabile qui, anche solo il proposito di accennare all’evoluzione terminologica del linguaggio intorno alla fotografia, ma ricordo a puro titolo di suggestione che l’Adalgisa, uno dei grandi personaggi di Gadda, tra i numerosi interessi del suo compianto Carlo (il marito) comprendeva anche “i ritratti dei paesaggi della Libia”, Carlo Emilio Gadda, L’ Adalgisa: disegni milanesi. Firenze: Le Monnier, 1944.

[50] Laudisa 1995, p. 85.

[51] Alcune riprese di soggetto analogo erano presenti già nel catalogo del 1871, come “Cava con donne” (261) o Sasso [Marconi] – “La torre – casa con figure in costume di codeste montagne” (272). La serie venne poi ulteriormente accresciuta nel 1890 e 1896 rispettivamente con 26 e 16 nuovi soggetti.

[52] Si veda Gaetano Chierici 1986.

[53] Fusco et al. 2011, pp. 93, 116, 126.

[54] F. F., Corrispondenza, [10 ottobre], “Cronaca. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Economia e industria pubblicato da Ignazio Cantù”, 2 (1856), disp.7, pp. 331-333,  Milano: Tipografia di Giuseppe Redaelli. citato in Vanzella 1997,  p. 32 come F. Falzago, Fotografia di Padova nel 1856, datato 15 ottobre 1856.

[55] Voir l’Italie 2009.

[56] Si vedano a titolo di esempio Wayside Gossip, 1882 e He Never Told His Love, 1884, entrambe nelle collezioni della Royal Photographic Society di Londra.

[57] Si veda Giovanni Battista Quadrone 2014.

[58] Si consideri ad esempio il Ritratto di ragazzo con flauto, 1900 ca. in Arte in Italia 2011, p.177. Von Glöden fu a sua volta autore di una nutrita serie di “Scene di vita e di lavoro”, ampiamente pubblicate all’epoca in periodici quali “Il Progresso Fotografico” e oggi quasi dimenticate, cfr. Zannier 2008; ricordiamo inoltre che le sue fotografie, come quelle di Poppi, comprendevano tra i propri possibili destinatari anche gli Istituti d’Arte, cfr. Wilhelm von Gloeden 2000.

[59] Bertelli 1979, pp. 68, 84-87.

[60] Expo Bologna 1888 2015.

[61] Adolphe Braun 2000 ; per Charles Aubry cfr. McCauley 1994. Diverso era l’intento e la concezione delle nature morte realizzate da Roger Fenton intorno al 1860 come delle 47 albumine di Pietro Guidi per la  Flora fotografata delle piante più pregevoli e peregrine di San Remo e sue adiacenze per Francesco Panizzi, del 1870.

[62] Fanelli, Mazza 2012, pp. 154-155.

[63] Quintavalle 2003, p. 408.

[64] La pubblicazione della prima opera fotografica dedicata al tema fu  Hildebrandsson, Osti 1879, con 16 stampe all’albumina,  mentre proprio nel 1890 venne edito il primo atlante sistematico (Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890),  cfr. Lebart 1996, disponibile on line: http://etudesphotographiques.revues.org/288  [05 08 2015].

[65] Si veda Andrea Tarchetti 1990.

[66] Si veda Mario Gabinio 1996.

[67] L’accurata ricostruzione delle vicende che portarono a questo incarico si deve a Marangoni 1999, pp. 159-198, poi sintetizzate in Marangoni 2001.

[68] Marangoni 1999, pp. 133-159.  Poiché il valore dichiarato degli “oggetti esposti” era di L. 1000,  considerando che il prezzo di ciascuna stampa oscillava tra le L. 1,50 cadauna per le sciolte e L. 0.70/1.00 per quelle in album, Poppi avrebbe dovuto esporre più di 600 fotografie, numero che pare troppo elevato anche per uno spazio espositivo molto grande (7×2.90 m. a parete e 7×0.90 in ingombro a terra per le vetrine), il maggiore di quella sezione. Possiamo quindi supporre che esponesse la gran parte dei “campionari” del suo repertorio. La documentazione dell’Esposizione Emiliana, di cui la ditta Poppi era “unica concessionaria del Comitato esecutivo”, comparve in catalogo solo nella Appendice Ia del 1890, ma alcune di quelle immagini vennero pubblicate sul giornale della stessa Esposizione.

[69] Avvertenza, in Ricci, Poppi  1888, p. 3, che più oltre, a proposito del Sepolcro di Rolandino Passeggerio riconosceva che  “la Tavola V ci dispensa da una lunga descrizione”, p. 10. A conferma del ruolo autoriale ed editoriale di Poppi ricordiamo che la pubblicazione era registrata anche nella Appendice I del 1890.  I rapporti tra i due, forse inizialmente mediati dal padre di Corrado, Luigi, con cui Poppi intratteneva rapporti professionali,  proseguirono negli anni successivi quando Ricci divenne Direttore delle “Regie Gallerie” di Parma (1893) e poi di Modena (1894); in quella occasione Poppi rispose alla richiesta di Ricci di integrare la serie di vedute di Modena proponendo una nuova campagna affidata al nipote Angelo Marzola. Ancora nel 1896 Poppi gli avrebbe chiesto di verificare la correttezza delle descrizioni dei soggetti d’arte compresi nell’Appendice 2a; ricordiamo infine che per sua iniziativa 49 fotografie di Poppi entrarono a far parte del”ricetto fotografico” di Brera verso il 1899. La collaborazione editoriale di Ricci con i fotografi fu sempre costante, sia nell’ambito dei propri progetti editoriali, quali l’ “Italia Artistica” sia redigendo testi e saggi introduttivi come fu per Cassarini 1894 e per Pedrini 1929.

[70] Malaguzzi Valeri 1899, nota introduttiva non titolata, pp.n.n. Il volume raccoglieva, rielaborandoli in parte,  anche alcuni contributi specifici già pubblicati nell’ “Archivio storico dell’arte” a partire dal 1893 a loro volta illustrati da fotografie di Poppi. Al verso del frontespizio si segnalavano le  “Fotografie dello Stabilimento Poppi di Bologna/ Eliotipie e Fototipie dello Stabilimento Danesi di Roma”. In realtà le 79 figure nel testo sono zincotipie mentre le venti f.t. sono eliotipie (o fototipie, i termini sono sinonimi). Segnaliamo che nelle zincotipie si riscontrano interventi di modifica quali scontornature degli elementi architettonici (capitelli) e aggiunta di nuvole ai cieli. Il volume è stato studiato da Rubbi 2010.

[71] Album di fotografie della Repubblica di San Marino/ in Bologna presso Pietro Poppi Fotografo governativo della Repubblica di San Marino. Bologna: s.e.,  1889. Come accadeva non di rado, il contratto non prevedeva  altro compenso che la copertura delle spese viaggio, vitto e alloggio; fu però concesso a Poppi di porre in vendita alcune copie dell’album durante l’Esposizione parigina.

[72] Ricordiamo qui che anche il figlio del Console di San Marino a Bologna, Guido Malagola, si sarebbe pochi anni dopo dedicato alla fotografie en amateur realizzando non solo una interessante serie di ritratti del bel mondo internazionale che ruotava tra Venezia e Londra ma anche immagini di tipo documentario, alcune delle quali furono utilizzate per illustrare un volume dedicato a  San Marino (Ricci 1903).

[73] Citato in Bertelli 1984, p. 7.

[74] Grandi 1983.

[75] Le ragioni potevano essere di volta in volta diverse: dalle mutate condizioni dell’edificio all’utilizzo di nuove emulsioni (dal collodio alle prime gelatine poi alle lastre ortocromatiche) sino alla necessità di rifare lastre per una qualche ragione rovinate.

[76] Si veda Modena, Facciata meridionale del Duomo, in E. Anriot, Edifizi, vedute quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna rappresentati colla fotografia. Modena: Nicola Zanichelli, 1868, tav. 65. in quel periodo le vedute animate erano invece consuete nei formati minori, e specialmente nelle riprese stereoscopiche.

[77] Zannier 1980.

 

 

Bibliografia citata

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Arte in Italia dopo la fotografia: 1850-2000, catalogo della mostra (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, 24 dicembre 2011-4 marzo 2012), a cura di Maria Antonella Fusco, Maria Vittoria Marini Chiarelli.  Roma; Milano: Ministero per i Beni e le attività culturali;  Mondadori Electa, 2011

 

Attraverso l’Italia 1902

Attraverso l’Italia. Raccolta di 2000 fotografie di vedute, di tesori d’arte e tipi popolari; con un testo di Ottone Brentani. Zurigo – Lipsia – Milano:  C. Schmidt – Touring club italiano, 1902

 

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Camerini 1868

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Commissione per la Fabbrica di San Francesco, Chiesa di San Francesco e tombe dei Glossatori in Bologna: Restauri e progetti. Bologna: s.e. 1893, esemplare unico dedicato “Alla Maestà di Margherita Regina d’Italia”

 

Congresso degli ingegneri 1883

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Cova 1988

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Expo Bologna 1888  2015

Expo Bologna 1888: l’Esposizione Emiliana nei documenti delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 8 aprile – 8 giugno 2015), a cura di Benedetta Basevi, Mirko Natoli, “Quaderni della Biblioteca di San Giorgio in Poggiale”, 1. Bologna: Bononia University Press, 2015

 

Fanelli, Mazza 2003

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Lucca: Iconografia fotografica della città, con la collab. di Gilberto Bedini, 2 voll. Lucca: Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; Maria Pacini Fazzi Editore,  2003

 

Fanelli, Mazza 2012

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Fotografia Italiana 1979

Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier.  Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

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Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Frisoni 1998

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Gaetano Chierici 1986

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Giovanni Battista Quadrone  2014

Giovanni Battista Quadrone: un iperrealista nella pittura piemontese dell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi-Ometto, 19 settembre 2014 – 11 gennaio 2015), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Torino: Adarte, 2014

 

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Rubbiani 1887

Alfonso Rubbiani, Le tombe di Accursio, di Odofredo e di Rolandino de’ Romanzi glossatori nel secolo XII. Bologna: Nicola Zanichelli, 1887

 

Rubbiani 1899

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di San Francesco e le tombe dei Glossatori in Bologna: Ristauri dall’anno 1896 al 1899. Note storiche ed illustrative di A.R. Bologna: Tip. Zamorani e Albertazzi, 1899

 

Ruskin 1985

John Ruskin, Viaggi in Italia (1840-1845), a cura e con prefazione di Attilio Brilli. Firenze: Passigli, 1985

 

Schutz 1885

Alexander Schutz, Die Renaissance in Italien. Eine Sammlung der werthvollsten erhaltenen Monumente in chronologischer Folge geordnet. Hamburg: Strumper & C., 1885

 

Secchiari 1997

Simonetta Secchiari, a cura di, Corrispondenti di Corrado Ricci: Indice inventario. Ravenna: Società di Studi Ravennati, 1997

 

Seferović 2009

Abdulah Seferović, Photographia Iadertina: od dagerotipije do digitalne slike. Zagreb: Kapitol, 2009

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890 (nuova ed. Ivrea : Priuli e Verlucca, 1983

 

Sesti 1993

Emanuela Sesti, I cataloghi dei Fratelli Alinari a Bologna fra Ottocento e Novecento. in  Emiliani,  Zannier 1993, pp. 89-92

 

Tomassini 2003

Luigi Tomassini, L’Italia nei cataloghi Alinari dell’Ottocento: gerarchie della rappresentazione del “bel paese” fra cultura e mercato, in Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 147-216

 

Tromellini, Cecchini 2003

Venga a prendere un caffè da noi: dal mitico caffè chantant “Eden” ai moderni bar della città: 1861-1969, in Bologna d’archivio: 150 antiche fotografie della Cineteca, (catalogo della mostra, Bologna, Cineteca Comunale, 16 marzo 2003),  a cura di Angela Tromellini e Margherita Cecchini. Bologna: Cineteca, 2003

 

Tromellini, Spocci 1992a

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Calvert Jones, Richard (att. 1840-1846),  in Benassati,  Tromellini 1992, sch. II/44-II/47,  pp. 192-193

 

Tromellini, Spocci 1992b

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Fotografia dell’Emilia (att. 1865-1940), attr. Piazza e Chiesa di S. Stefano in Bologna, in Benassati,  Tromellini 1992,  pp. 188-189

 

Vanzella 1997

Giuseppe Vanzella, a cura di, Padova: I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana 1985

Franca Varignana, Pietro Poppi: fotografia della città, “Fotologia”, 1985, n. 3, luglio, pp. 40-51

 

Varignana 1993

Franca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Emiliani, Zannier 1993

  1. 55-85

Varni 2011

Angelo Varni, a cura di, Palazzo Caprara Montpensier: sede della Prefettura di Bologna. Bologna : Bononia University Press, 2011

 

Vetruzzini 2007

Barbara Vetruzzini, Fotografi e fotografia a Pisa: Il Grand Tour e la rappresentazione della città, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 23 (2007), n. 45, giugno, pp.40-53

 

Viljoen 1971

Helen Gill Viljoen, ed.,  The Brantwood Diary of John Ruskin: together with selected related letters and sketches of persons mentioned.  New Haven : Yale University Press, 1971

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris : Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. [1860]

 

Voir l’Italie 2009

Voir l’Italie et mourir: Photographie et peinture dans l’Italie du XIXe siècle, catalogo della mostra (Paris, Musée D’Orsay, 7 aprile-19 luglio 2009), Guy Cogeval, Ulrich Pohlmann, dir. Paris: Skira Flammarion, 2009

 

Wilhelm von Gloeden 2000

Wilhelm von Gloeden: Fotografie ritrovate dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze: 1899-1902, catalogo della mostra (Firenze, San Pancrazio, marzo-aprile 2000), a cura Annarita Caputo. Firenze: Pagliai Polistampa, 2000

 

Zannier 1980

Italo Zannier, Il grande catalogo di Pietro Poppi, in  Cristofori, Roversi 1980, pp. 41-49

 

Zannier 2008

Wilhelm von Gloeden: Fotografie: nudi paesaggi scene di genere, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Ragione, 24 gennaio-24 marzo 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 ore, 2008

 

Zucchini 1914

Guido Zucchini, Bologna. Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1914

 

 

 

 

Un lungo sguardo (2013)

in  Fotografare le Belle Arti : appunti per una mostra: un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 Maggio – 28 Giugno 2013). Roma: ICCD, 2013, pp. 77-80

 

Una lunga teoria per meglio dire, conservando le plurime accezioni del termine, tra materialità e concetto, per rendere ragione della ricchezza testimoniale e culturale restituita dalle centinaia di migliaia di stampe che costituiscono questo fondo fotografico e di cui si presentano alcuni esemplari: quasi degli indizi. Più di un secolo di sguardi portati alle Belle Arti con intenzioni e modi, con pensieri diversi. Già solo la varietà dei temi, considerata cronologicamente, ci descrive quale sia stato il progressivo estendersi delle categorie considerate tra i beni della nazione, a partire da quegli Elenchi “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani […] i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali” di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[1] . In continuità con quell’iniziativa si collocava la prima sistematica ricognizione fotografica a scala nazionale avviata a partire dal 1878, opera sempre di operatori locali altamente qualificati, ai quali dobbiamo, in quel torno di tempo e magari per iniziativa personale, la ricchissima documentazione dei nostri centri ‘minori’, quelli storicamente esclusi dal repertorio canonico del Grand Tour. Quando il Ministero concepirà una nuova campagna, quella che darà forma all’Apulia Monumentale di Romualdo Moscioni nel 1892, l’impianto della ricognizione sarà concettualmente diverso, privilegiando ora l’indagine analitica di un territorio, passando quasi dal concetto di emergenza monumentale alla restituzione del tessuto archeologico e architettonico (non ancora paesaggistico) di un’intera regione. Furono questi, per quel che ci è dato di sapere sinora, alcuni dei materiali che alimentarono quella “Collezione fotografica di Belle Arti” del Ministero di cui ci parlano certi timbri al verso delle stampe, ma certo non i soli, o i primi, poiché la presenza di riprese di più alta datazione (come quelle relative a Roma e Venezia) testimonia una fase antecedente e suggerisce occasioni diverse di raccolta che non siamo ancora in grado di definire compiutamente.

In quegli anni i modi della rappresentazione contemplavano l’alternanza di vedute d’insieme e dettagli architettonici o d’ornato, con rare figure: sempre in posa. La loro presenza assumeva ragioni funzionali di riferimento scalare ovvero simboliche, di romantica meditazione sul fascino dell’antico e delle rovine, mentre solo più tardi, ormai alle soglie del pittorialismo, l’architettura medievale sarà trasformata in scenario per le gesta di una figura d’armigero (come ad Aosta). Il ricorso alla fotografi a era entrato a far parte delle buone pratiche degli interventi di restauro ben prima delle messe a punto normative: memore delle indicazioni di Viollet-Le-Duc[2] piuttosto che di Ruskin, il progettista dell’intervento sul Cortile del castello dei Pio a Carpi  richiese una doppia serie di riprese, metodologicamente rigorosa, che implicava la riproposizione esatta dello stesso punto di vista tanto quanto il rispetto del parallelismo tra i piani, qui ottenuto con i limitati mezzi di uno sconosciuto fotografo. Sono gli stessi anni, tra 1875 e 1877, in cui anche il Ministero raccomandava, in una circolare redatta da Cavalcaselle, di “far cavare una fotografi a prima del restauro” dei quadri più importanti, mentre un’analoga precauzione non sarebbe comparsa nel Regolamento ministeriale del 1879 in merito ai dipinti murali, alcuni dei quali furono oggetto nel decennio successivo di innovative letture fotografi che. Mentre la produzione dei grandi studi (da Alinari a Sommer) non offriva ancora esempi di ricognizione analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne dei cicli o alla ricerca del più accattivante motivo, nel lavoro di Pietro Boeri dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli, del 1886, ci troviamo di fronte a una vera e propria lettura fotografica dell’opera e delle scene narrate. Le sessantaquattro immagini che costituiscono la serie restituiscono volti e gesti a un livello di dettaglio inattingibile dalla comune osservazione diretta, mentre danno conto dei modi e della tecnica del pittore, aprendo inedite possibilità d’indagine alla storiografia artistica come alle metodiche finalizzate al restauro, analogamente a quanto sarebbe accaduto con la campagna realizzata da Achille Ferrario sul Cenacolo leonardesco, riprodotto in scala 1:1 in una serie strabiliante di riprese di grande formato realizzate in previsione dell’intervento di Luigi Cavenaghi del 1907-1908, sviluppando la prima ricognizione condotta nel maggio 1895 per iniziativa dell’Ufficio Regionale lombardo. Resta aperta di fronte a queste produzioni la questione dell’autorialità: in quale misura essa debba essere riconosciuta al fotografo, alla sua sensibilità e accortezza professionale (e imprenditoriale) o se piuttosto non si debba (o almeno si possa) ipotizzare un suggeritore occulto, e magari un regista da ricercarsi necessariamente tra gli storici dell’arte (i primi in senso moderno, dopo la fotografia) o gli studiosi d’architettura. La questione non può che essere affrontata per singoli casi, attendendo la disponibilità di rilevanti messi di dati per provarsi a individuare tendenze: per ora ci sia sufficiente porre il problema. E aggiungerne un altro, forse più ovvio ma non più semplice, che riguardava (e riguarda ancora) la questione della riproduzione dei colori. Senza voler ripercorrere il dibattito ottocentesco sul tema, che in Italia data almeno da Macedonio Melloni (1839), ricordiamo come in questo ambito la presunta fedeltà riproduttiva del medium fotografico sia stata per tutto il XIX secolo (e oltre) ottenuta soprattutto facendo ricorso all’uso raffinatissimo del ritocco manuale, indispensabile per ovviare all’imperfetta resa tonale dei valori cromatici delle emulsioni fotografiche, progressivamente migliorata con l’aggiunta di sensibilizzatori ottici. Da qui le successive campagne di ripresa dei grandi atelier, che tornavano a distanza di anni a riprodurre le stesse opere con lastre e poi pellicole ortocromatiche e infine pancromatiche. In attesa del colore. Nei lunghi decenni della monocromia si perseguiva il miglioramento della resa tonale e della stabilità dell’immagine ricorrendo alle possibilità offerte dalle diverse tecniche di stampa (carta salata, albumina, carbone) o di intonazione (viraggio all’oro), accoppiate all’uso di lastre di grande o grandissimo formato, stampate sempre a contatto, mentre la spettacolare ripresa della volta di Santa Maria degli Scalzi a Venezia, venne realizzata intorno all’anno 1900 da Anderson con l’allora innovativa emulsione alla gelatina. Solo apparentemente più semplice si presentava il problema della rappresentazione della scultura: dopo gli entusiasmi antiaccademici e positivi di Ruskin, per il quale non si doveva avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni”[3]   o – in Italia – di Biscarra, che nella fotografia riconosceva l’opera “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”[4], le successive generazioni di studiosi, cresciuti con la fotografia, erano ormai in grado di valutarne criticamente gli esiti considerando in particolare l’incidenza del punto di vista (di ripresa) nella restituzione corretta (non: oggettiva) dell’opera.  Wölfflin, certo, che nel 1896 si scagliava contro la “veduta ‘pittorica’ laterale” per privilegiare criticamente la ripresa dal “punto di vista principale”[5], inteso come quello stabilito dall’autore dell’opera. Solo pochi anni più tardi questa concezione ancora fiduciosamente neutrale del processo fotografico sarebbe stata corretta da uno specialista come Santoponte[6] , che richiamò l’attenzione sulla necessità di considerare criticamente la stessa strumentazione adottata, valutando in particolare l’ampiezza dell’angolo sotto il quale l’opera era ripresa, consapevole della necessità metodologica di far coincidere la “prospettiva geometrica” dell’obiettivo con la “prospettiva soggettiva” della percezione diretta. Resta per noi difficile comprendere se e in quale misura gli esempi di documentazione plastica qui presentati avrebbero potuto soddisfare le diverse sensibilità dei due studiosi. Forse entrambi avrebbero considerato con un qualche sospetto la magnificenza spettacolare della resa del gruppo dei Lottatori (Alinari) o del particolare michelangiolesco del capo di Giuliano de’ Medici (Brogi), sentendosi magari più prossimi alla semplice intenzione documentaria di Filippo Lais, che nascose con un’ampia e un poco sommaria mascheratura il contesto in cui era collocata la statua acefala di Afrodite. Il confronto tra queste realizzazioni, pur così diverse tra loro, e la ripresa fortemente scorciata del rosone del Duomo di Orvieto, morbidamente stampata alla gomma, fa emergere con lampante evidenza la distanza fotografica e culturale (registrata e certificata dalla cronologia) che separa queste produzioni. In quest’ultimo esempio la pura intenzione documentaria ha lasciato ormai posto all’interpretazione autoriale e si è ormai operato il ribaltamento: la fotografia (cioè la stampa) è l’opera mentre il soggetto arretra quasi a pretesto. Questa fotografia documenta (anche) altro: la concezione dell’immagine mostra la tensione irrisolta tra l’impostazione modernista della ripresa fortemente scorciata e una modalità espressiva ancora pittorialista, affidata alla stampa ai pigmenti. Nonostante il soggetto sia piegato e quasi sottomesso all’interpretazione autoriale, la fotografia mantiene però integro il proprio valore d’uso documentario, dice qualcosa a proposito dell’è stato della cosa fotografata. Una irriducibile referenzialità di cui dovevano essere ben consapevoli i fruitori coevi se l’accolsero tra i materiali dell’Archivio. Si muovono su questa linea fecondamente ambigua anche le immagini di paesaggio che chiudono cronologicamente questo breve excursus, testimoniando i nessi di una stagione della cultura e della storia italiane in cui la “questione del paesaggio”[7] , si affacciava come soggetto autonomo sia nella produzione fotografica divulgata dalle pagine de “La Fotografi a Artistica”, sia nel più ampio dibattito politico che avrebbe portato alla promulgazione della Legge 778 del 1922 sulla tutela delle “bellezze naturali”, comprese quelle “panoramiche”. Ancora una volta le immagini di quello che a buona ragione possiamo definire un genere ci interrogano sulla loro particolare natura di documento o – meglio – sulla complessità di questa accezione, in cui il puro referente non è che uno dei termini costitutivi, essendo l’altro rappresentato dalle forme culturali della sua manifestazione non meno che della sua ricezione, coeva e attuale. Così le pecore al pascolo che attraversano le paludi della tenuta di Coltano, che in quegli anni rappresentavano uno dei più forti e ricorrenti stilemi di quella fotografia “che sola merita il nome di Arte”[8] , sarebbero poi divenute oggetto degli strali della nuova generazione che si affacciava dalle pagine dell’annuario del 1943 di “Domus”, sospettosa certo anche nei confronti di una veduta come quella di Capo Miseno, costruita avendo ben chiari i modelli delle incisioni ottocentesche ma drammatizzata da un viraggio che accentuava il cielo corrusco di nubi, in un anticipo di tragedia.

 

 

Note

[1] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”, avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.”, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”.

[2] L’opinione che “la photographie présente cet avantage de dresser des procès-verbaux irrécusables et des documents qu’on peut sans cesse consulter”, espressa da Eugene Viollet-Le-Duc nella voce Restauration del suo Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle, VIII. Paris:Librairies Imprimeries Réunies, [1860], pp. 33-34, doveva essere ben nota e condivisa dall’ing. Achille Sammarini, responsabile del restauro.

[3] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, II edizione. Sunnyside – Orpington, Kent:  George Allen, 1883, pp. 21-22.

[4] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica: Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia : rivista mensile di belle arti”,2  (1870), IV, p. 58.

[5] Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008.

[6] Giovanni Santoponte, Sulle applicazioni della fotografia all’archeologia, comunicazione presentata al III Congresso archeologico internazionale di Roma, 1912, ora in Id., Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Casa Editrice Italiana, 1913, pp. 36-48 (38).

[7] “È lecito che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?”, Giovanni Rosadi, Per la difesa delle bellezze naturali, in Id., Difese d’arte. Firenze:  Sansoni, s.d. [1921], pp. 51-61 (55).

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, gennaio, pp. 4-5.

Tempo / Materia: Fotografia (2012)

in Barbara Cattaneo, a cura di, Il restauro della fotografia. Materiali fotografici e cinematografici, analogici e digitali, Firenze, Nardini Editore, 2012,  pp. 9-14

 

L’assunto che ogni intervento di restauro non possa che darsi a proposito della sola “natura materiale delle singole opere”[1], costituisce ormai una posizione metodologica tanto consolidata da apparire ovvia e teoricamente aproblematica. Coerente a ogni rinuncia alla velleitaria intenzione di restituire qualsivoglia originalità originaria, nella consapevolezza che l’accessibilità storica e culturale al processo di produzione e di prima ricezione dell’opera non può che essere un’approssimazione alla continua ricerca del proprio limite[2]. Accanto a questa vive, indissolubilmente legata, la coscienza delle ragioni della sua permanenza, della sua presenza vitale nella cultura contemporanea[3]: ragioni su cui si fondano le stesse intenzioni di operare per la sua conservazione nel tempo, per la sua trasmissione alle generazioni future.

Stabilita l’inevitabile materialità dell’intervento di restauro[4], resta da comprendere cosa ciò possa significare quando si parla di fotografia. Sono almeno due le grandi classi di ragioni che è necessario considerare, qui per sommi capi, provando dapprima a chiedersi quali siano gli elementi costitutivi di questa particolare categoria di immagini che per più ragioni chiamiamo sensibili:

  • Il Tempo, che ne è l’elemento determinante, il vincolo assoluto in cui ogni fotografia accade, in cui l’immagine irreversibilmente si forma.
  • La Materia, il corpo tecnologico dell’oggetto, di volta in volta semplice ma non neutrale supporto fisico, componente espressiva o vero e proprio soggetto dell’operazione fotografica, ma anche presenza assente nella matrice digitale, che non si consuma.

Il tempo di ogni fotografia è molteplice: dalla produzione alla ricezione, per quanto dilatata, ma ciò che ora interessa maggiormente, ciò che più da vicino tocca queste riflessioni sono due altri ordini di problemi temporali. Restauro e Fotografia non solo sono stati definiti nel medesimo contesto storico, ma condividono un’analoga relazione col Tempo; anzi  – più in particolare, più intimamente – non con la condizione sostanziale o rappresentativa dell’accadere, bensì dell’accaduto, di ciò che è stato e che quindi, solo per questo, risulta inattingibile[5]. È questo l’orizzonte in cui è stata pensata, si può pensare anche l’analogia tra morte del corpo e fotografia: è qui e non c’è più è il pensiero che accompagna lo sguardo che si posa sul corpo privo di vita. Rimane una presenza nella quale riconosciamo, per certi gradi, sotto alcuni aspetti una somiglianza con una realtà che (forse) abbiamo conosciuto. Una certa relazione; un rapporto che è insieme traccia e memoria. Il corpo, la fotografia sono traccia e figura, simbolo a volte, di un accaduto di cui si ha memoria e ricordo. È proprio la Fotografia in quanto “oggetto di antiquariato istantaneo”, secondo la ben nota definizione di Susan Sontag, a illuminare, a certificare l’impossibilità del Restauro in quanto disciplina e in quanto teoria, quando questa pretende di volgere all’indietro non lo sguardo ma il percorso dell’angelo della storia. Ancor più problematica e incerta si fa la questione, ancor più improprio il ricorso a questo concetto quando accade, come per la fotografia, che proprio il corpo vitale dell’immagine, la sua materia signata nel tempo (non: dal tempo), la sua natura di traccia non possa essere sottoposta ad alcun trattamento che non sia di conservazione delle condizioni di esistenza del bene. Oltre quel “nulla di oggetto” che è l’immagine tutti i fototipi hanno una loro matericità che è tutto meno che indifferente, ma la cui considerazione non per questo risulta così ovvia e scontata. Se da un lato la materia e la tecnica che di volta in volta hanno contribuito a definire ogni immagine fotografica, dal punto di vista produttivo quanto linguistico e – in certi casi – in precisi termini di poetica e stilistici (si pensi alle tecniche pittorialiste, per esemplificare) sono oggetto di un’attenzione ampiamente condivisa, dall’altro la vicenda storica della fotografia ha solo in rari casi fatto i conti in modo esplicito con la sua corporeità, non limitandosi  a considerarla come mero dato o vincolo tecnico, ma quale territorio di possibile indagine ed elemento di espressione linguistica: dal cliché-verre ai frottage alla vasta categoria dei chimigrammi, ossidazioni e pirogrammi. Credo invece che una riflessione sul ‘restauro’ della fotografia non possa evitare di misurarsi anche con le implicazioni poste dal confronto con questi procedimenti e con le opere che ne sono derivate, alla ricerca di elementi di chiarezza che possano sostenere la consapevolezza critica necessaria a intervenire su questa particolare tipologia di beni. Ciò che mi pare strumentalmente interessante nell’accennare ai problemi posti da queste fotografie ‘pure’,  concrete[6], svincolate da ogni possibile, disorientante analogia per “liberare la forma sconosciuta della materia”[7],  è che qui processo, figura e materia coincidono al massimo grado, mentre il tempo continua ad essere quello della generazione dell’immagine stessa, sebbene liberata da ogni apparato ottico[8]. L’assoluta autoreferenzialità di queste immagini, dove la presenza dell’autore passa dallo sguardo al gesto, costringe ancor più a fare i conti con l’impossibilità di ogni ri-costruzione e  testimonia in modo inequivocabile quale sia stata l’incidenza dei materiali costituenti nella determinazione delle caratteristiche di ogni immagine fotografica, ben oltre il tempo dei pionieri. Queste particolari fotografie, che non possono trovare corrispondenza in ambito digitale, costituiscono a mio parere l’ulteriore conferma del fatto che è impossibile sostituire materia fotografica con altra materia fotografica dopo il suo trattamento (esposizione – sviluppo – fissaggio). L’atto fotografico che ha generato l’immagine non può essere ri-fatto; l’informazione registrata dal supporto fotosensibile non può essere sostituita. “Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta”[9]: è nell’irreversibile trasformazione dei materiali sensibili che avviene in quel momento che si definisce la fotografia; quando Tempo e Materia interagiscono facendo sì che ogni fototipo non possa darsi che quale esito di quel singolo e unico processo fotochimico, cioè materiale (e irreversibile, ma di questo diremo), accaduto in quel tempo. In ragione di questo processo ontologico diventa illusorio pensare di poter intervenire sulla materialità del bene quando questo è un fototipo: poiché nella Fotografia materia e tempo concorrono inestricabilmente a determinare l’opera, il solo elemento su cui pare possibile intervenire non può che essere il supporto. Il restauro della Fotografia è una contraddizione in termini[10].

Intorno alla questione fondamentale dei materiali fotosensibili si misura anche la distanza con le immagini realizzate con un dispositivo digitale, che condividono con quelle analogiche il solo momento della generazione ottica della traccia, essendo invece inconcepibile – come si è detto – ogni realizzazione off-camera. Quando il supporto fotosensibile manca (o diviene radicalmente altro, come nel digitale) credo non abbia più senso parlare di processo fotografico in senso proprio, mentre resta possibile e quasi ovvio parlare di pratica fotografica, ma solo in termini socioculturali, che qui non interessano[11].  Credo sia un errore grave sottovalutare le implicazioni che derivano dalle incommensurabili differenze tra paradigma analogico e paradigma digitale:  non è possibile assimilare le emulsioni fotosensibili, in cui l’energia luminosa determina delle modifiche strutturali stabili, di fatto irreversibili, a un sensore destinato a tradurre quella stessa energia in informazione codificata mantenendo immutata la propria struttura e a trasferire successivamente i dati a un supporto insensibile, in grado di registrare informazioni di qualsivoglia natura.  È la tecnologia dei materiali e dei processi che determina cosa sia o non sia un fototipo e allora, come già fu alle origini, credo che il problema sia sempre quello del fissaggio: può una sequenza numerica considerarsi ‘fissata’ così come la dimensione e la posizione di una molecola di argento o di gomma bicromatata dopo il trattamento? Tra agonia della stabilità analogica e definitivo sopravvento dell’instabilità digitale oggi pare che non si sappia bene che cosa sia, a cosa  dare il nome di fotografia (e a partire da quali condizioni), apparentemente incapaci di comprendere le differenze, e le conseguenze, tra irreversibilità del processo fotochimico e reversibilità indifferente del processo digitale. Questo però è un discrimine che è indispensabile riconoscere e su cui si deve riflettere anche – e forse specialmente – in termini di conservazione e restauro.

Posto che non è astrattamente in discussione lo statuto di bene culturale delle immagini digitali, ciò che qui interessa considerare sono le implicazioni connesse alle due tipologie di beni, le cautele necessarie per affrontare in modo criticamente attrezzato queste evenienze, a partire proprio dalla necessità di considerarne e comprenderne la diversa natura, oltre le apparenze formali[12].

L’immagine analogica, in virtù della sua natura di traccia fisico chimica non è restaurabile, ciò che invece risulta possibile con quella digitale, rispetto alla quale si può intervenire sui singoli elementi codificati, esattamente riproducibili, ripetibili all’infinito, in un processo che può portare l’intervento sino a sfiorare il limite pericoloso della copia perfetta, del rifacimento integrale e indistinguibile, secondo un iter sostitutivo che sovrappone l’identità nuova alla preesistente sino a cancellarla senza lasciare tracce[13]. Questa ‘disponibilità’, derivata dal sistema notazionale proprio della matrice digitale implica e comporta anche la trasformazione dello statuto di questi beni, che passano dal regime autografico proprio dell’analogico, per il quale aveva senso parlare di riproducibilità,  a quello allografico, più pertinente al digitale[14], in cui la stessa idea di replica perde di senso risultando ciascuna nuova occorrenza indistinguibile dal primo esemplare. È chiaro come questo ordine di problemi investa, anche in termini conservativi e di tutela, la questione della difficoltà nel definire – nei differenti ambiti – cosa si possa intendere per matrice originale, replica e copia così come sulla distinzione tra immagine e opera, tra il contenuto referenziale della prima, che possiamo pensare identico in ogni sua manifestazione, e il  significato e il valore individuale di bene  (senza voler affrontare questioni di valore artistico o estetico, qui ininfluenti) che contraddistingue, ma non necessariamente distingue ciascuna delle sue occorrenze, ognuna segnata da una particolare storia di produzione che può avere o non avere influito sulla sua determinazione attuale[15].

Da queste specificità del fotografico anche nel contesto del restauro è possibile far derivare conseguenze importanti, rese ancora più urgenti dall’avvento del digitale. Ribadita la necessità metodologica di fondare sulla consapevolezza critica del bene come documento/ monumento ogni programma di intervento sul manufatto, in prima approssimazione si può ritenere che:

  • In presenza di fotografie analogiche, cioè di fototipi si può procedere solo alla salvaguardia dello strato immagine, mentre l’eventuale intervento di restauro conservativo si applica alla materialità dei diversi supporti presenti, nelle più diverse accezioni e gerarchie.
  • In presenza di immagini digitali è possibile distinguere le modalità di intervento tra matrice e stampa. In presenza di un file danneggiato si può procedere a interventi di restauro richiamandosi alle metodologie classiche, integrando cioè eventuali lacune con elementi di identica natura (bit) senza alcuna perdita di informazione, a ulteriore dimostrazione dell’incommensurabile diversità intrinseca dei due media. Anche le stampe derivate, almeno quelle non realizzate con processo fotografico[16], possono essere restaurate mediante integrazione pittorica delle lacune, ma evitando accuratamente l’incauto riaffiorare delle lusinghe del restauro stilistico.

Non rientra nelle mie competenze illustrare né tento meno discutere le metodiche di intervento,  i loro limiti e i problemi connessi, ma qualche parola andrà ancora spesa per delineare almeno sommariamente altre implicazioni metodologiche  celate sotto la traccia delle prescrizioni e delle tecniche di intervento.

Oggi nessuno più potrebbe definire il restauro come il “procedimento tecnico volto ad assicurare la conservazione e a reintegrare gli aspetti compromessi [dell’opera]” [17], senza tener conto del fatto che i “photographic objects (…) owe their look and structure to commercial and cultural influences as much as they do to technological factors”[18]. Il doppio richiamo di Grant Romer ci pare ancora indispensabile per comprendere la natura storica dell’oggetto fotografico e per contribuire a stabilire i principi di intervento, specialmente se letto in relazione con la sua puntuale individuazione di due diversi e complementari accezioni del  concetto di permanenza dell’immagine: “Commercially, the image had to remain unchanging long enough to fulfill its initial consumer function. Culturally, the photographic image and its objective substance must survive as long as it has clear useful value to the culture that maintains it.”[19] La permanenza, ben oltre l’orizzonte pragmatico che tanto preoccupava i ricercatori ottocenteschi, oggi può distinguere tra immagine e materia, deve tradursi in “programma di esistenza” dell’opera, basato sulla consapevolezza del suo significato di bene culturale, obiettivo per il quale non può essere ritenuto sufficiente considerare i soli problemi che derivano dalla sua già complessa struttura fisica. Mentre il contenuto referenziale può essere preservato e duplicato ad libitum, diventa  indispensabile associare alla valutazione delle condizioni materiali la definizione storiografica delle sue condizioni di produzione e fruizione, in un più ampio processo di lettura storico critica che consenta di ri-definire le  modalità della sua ricezione, il suo impianto concettuale e culturale, nella consapevolezza che non solo la materialità del bene si modifica, e magari degrada nel tempo, ma anche il contesto di fruizione e comprensione in cui questo è inserito, in mutazione continua.

 

Note

[1] Carta della Conservazione e del Restauro, 1987, art.6/ comma a.

[2] Considerando il rapporto dialettico che deve essere posto in atto col bene quale testimonianza storica da interrogare, è necessario tener presente che la “verità storica [è] in continua ri-scrittura. Perciò è dall’inscrivere la problematica della passeità del passato nel grande cerchio della temporalità, che dipende in ultima istanza il destino di questa verità in sospeso, di questa veracità per sempre incompiuta.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, p.19. Pur senza addentrarci qui in una problematica troppo complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia. Particolarmente stimolante e produttiva risulta la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[3] Allora, non tanto e non solo All Art Has Been Contemporary, come recita il lapalissiano motto al neon di Maurizio Nannucci (1999), che tanta fortuna ha avuto in molti musei del mondo, da Berlino a Torino a Firenze. Semmai è contemporanea tutta l’arte, cioè tutta la cultura alle cui manifestazioni riconosciamo oggi un valore.

[4] Si utilizza qui il termine in senso lato e rischiosamente onnicomprensivo, non essendo questa l’occasione e la sede per procedere a ulteriori specificazioni dell’accezione teorica e metodologica del concetto. Quale riferimento generale può ancora essere utile la nuova edizione dello studio di Alessandro Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte.  Milano: Electa, 2002, con postfazione di Massimo Ferretti. Si vedano inoltre Chiara Piva, Ilaria Sgarbozza,  Il corpo dello stile: cultura e lettura del restauro nelle esperienze contemporanee: studi in onore di Michele Cordaro.  Roma: De Luca, 2005; Pasquale Gagliardi, Bruno Latour, Pedro Memelsdorff, eds.,  Coping with the past: creative perspectives on conservation and restoration. Firenze: Leo S. Olschki,  2010.

[5] “Parlare di trascorso non significa solamente vedere nel passato ciò che sfugge alla nostra presa, ciò su cui non possiamo più agire, ma significa anche voler dire che l’oggetto del ricordo reca indelebile la marca della perdita. L’oggetto del passato in quanto trascorso è un oggetto (d’amore, d’odio) perduto: l’idea di perdita è, da questo punto di vista, criterio decisivo della passeità.”, Ricoeur 2004, p.11.

[6] Per un’ampia e precisa definizione del termine si rinvia a Gottfied Jäger, Rolf H. Krauss, Beate Reese, Concrete Photography Konkrete Fotografie. Bielefeld: Kerber Verlag, 2005, mentre per sciogliere ogni ambiguità intorno alle pretese astrazioni fotografiche continua a essere di grande utilità l’Intervista a Massimo Cacciari, a cura di Paolo Costantini, “Fotologia”, v. 5, estate- autunno 1986, pp.74-79.

[7] Karl-Heinz Hargesheimer (Chargesheimer), dalla conferenza tenuta al Circolo Fotografico Milanese, 1950, citato in “European Photography”, n.57, 1995, p.46.

[8] Come ebbe a dichiarare Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Moholy-Nagy, “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, in Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup,  “History of Photography”, 18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86.

[9] Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi, 1980, p.6. L’affermazione non è meno vera per la fotografia concreta, sebbene questa nella sua unicità non provenga da una matrice infinitamente riproducibile.

[10] Prova ne sia – tra l’altro – il fatto che non può essere attuato ricorrendo alla stessa materia e tecnica, allo stesso medium con cui l’opera era stata realizzata, tanto che, ad esempio, si parla comunemente e correttamente di “integrazione pittorica delle lacune” per quei casi in cui è necessario riequilibrare percettivamente una porzione di immagine. Qui le disquisizione filologiche sull’autografia o sulla necessità deontologica della riconoscibilità degli interventi non hanno ragione d’essere: semplicemente non esiste ‘materia’ del contendere.

[11] Si vedano le considerazioni di segno opposto espresse da William John Thomas Mitchell, Realismo e immagine digitale, in Roberta Coglitore, a cura di, Cultura visuale: paradigmi a confronto. Palermo: :duepunti edizioni, 2008, pp. 81-99. In questo breve testo, che sconta forse l’occasionalità della sua redazione, Mitchell considera “riduttiva” ogni ontologia che si limiti a indagare intorno all’essenza, poiché “se l’ontologia è lo studio dell’essere, allora (…) l’ontologia della fotografia dovrebbe concentrarsi sull’essere nel mondo”, non tenendo conto – a mio parere – del fatto che  proprio l’essere nel mondo non può che fondarsi sulla sua essenza, perché sennò?

[12] Si potrebbe dire – parafrasando un’efficace formulazione di Marra, che pure non concorderebbe con questa distinzione – che l’immagine digitale “assomiglia” a una fotografia ma “di fatto funziona come” un quadro. Per l’origine della parafrasi cfr. Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Milano: Bruno Mondadori, 1999, p. 15.

[13] In ambito digitale la difficoltà è semmai costituita dalla rapidissima  obsolescenza dell’hardware e del software con cui un’immagine è stata realizzata, processata e stampata.

[14] Nelson Goodman, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis: The Bobbs-Merrill Company, 1968 (trad. it. I linguaggi dell’arte. Milano: Il Saggiatore, 1976) la cui distinzione fondamentale tra sistemi notazionali e non notazionali  “si regge sulla differenza tra discreto e continuo, o digitale e analogico”, cfr. Roberto Diodato, Estetica del virtuale. Milano: Bruno Mondadori, 2005, p. 76. Per quanto riguarda le implicazioni delle teorie goodmaniane in relazione ai concetti di copia e di replica si veda Luca Marchetti, Arte ed estetica in Nelson Goodman. Palermo: Centro internazionale studi di estetica, 2006 , in particolare alle pp. 103-104. I nessi con l’ambiente digitale, anche per quanto riguarda la fotografia, solo accennati da Marchetti, sono stati affrontati da Ilaria Boeddu, Nelson Goodman: uno sguardo analitico sull’arte contemporanea. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 138-141.

[15] A titolo esemplificativo si pensi agli estremi costituiti dalle diverse repliche di un file, per definizione identiche e indistinguibili, o alle diverse edizioni  tratte da uno stesso negativo sotto la diretta responsabilità dell’autore, che invece possono anche essere radicalmente diverse tra loro e quindi di fatto uniche pur essendo ricavate da una medesima matrice.

[16] Si vedano almeno. Richard Benson, The Printed Picture. New York: The Museum of Modern Art, 2008, Martin C. Jurgens, The Digital Print: Identification and Preservation. Los Angeles: Getty Conservation Institute, 2009.

[17] “Lessico Universale Italiano”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, ad vocem, citato da  Sergio Angelucci, Per una base teorica comune nel restauro di tutti i beni culturali, in Maria Regni, Piera Giovanna Tordella, a cura di, Conservazione dei materiali librari archivistici e grafici. Torino: Umberto Allemandi, 1999, pp.277-282 (277).

[18] Grant Romer, An Overview of the Current Development of the Field of Conservation of Photographs, in Regni, Tordella 1999, pp. 243-246 (243).

[19] Ibidem, corsivo di chi scrive.

Mostrare i documenti: una questione diplomatica (2012)

in  Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, atti degli incontri di studio Storie di fotografia (Milano, Castello Sforzesco, ottobre 2007-maggio 2010), “L’uomo nero: materiali per una storia delle arti della modernità”, N.S. 9 (2012), n. 9, dicembre, pp. 175-193

 

In memoria di Roberto Signorini

 

 

 

Una finzione è un documentario, ed è anche la realtà.

Nobuyoshy Araki, 2004

 

La conoscete anche voi, ne sono certo, la sensazione che si prova: mostrare i documenti è sempre perturbante. Specialmente quando questa richiesta ci è rivolta (magari) dal rappresentante di una qualche autorità (magari) in uniforme: spersonalizzato. Un brivido freddo, umido, per quanto leggero – non più di un fastidio – ci scivola lungo la schiena come la bava di un cane pavloviano. Affiora un senso di colpa e di pericolo insieme. Nasce dal confronto, impari, tra due opposti: la mia identità è indagata, messa in dubbio da qualcuno che nasconde la propria.

Inevitabile il disagio: in fotografia vengo così male!

Non mi riconosco e mi perdo, forse perché – come ha scritto il Barthes più lucidamente letterario – “non appena io mi sento guardato dall’obiettivo (…) mi trasformo immediatamente in immagine”[1], abdico alla mia identità, alla mia complessità quindi, a favore di un canone. Dev’essere per questo che “in fondo, una foto assomiglia a chiunque, fuorché a colui che essa ritrae”[2], ovvero che “a rigor di termini da una fotografia non si capisce mai nulla.”[3] È per questa consapevolezza, anche. È per questa somiglianza impossibile, che pare vanificare ogni sforzo e ogni eventuale volontà di collaborazione, che mostrare i documenti costituisce un problema, una vera e propria questione che supera i rituali della diplomazia per chiamare in causa le ragioni della diplomatica[4] e apre il fotografico vaso di Pandora della funzione documentaria, del nesso possibile tra somiglianza e testimonianza.

Le riflessioni che seguono non riguardano perciò, almeno non principalmente, lo “stile documentario” (Evans), né l’ “arte del documento” (Lugon) o le “platitudes” studiate da De Chassey[5]; semmai quei documenti che assumono la forma di fotografie, cioè tutte le fotografie (analogiche). Vorrei ragionare intorno alla Fotografia come Documento, e del cosa, sapendo che  “Ogni volta che commentiamo un’immagine, in effetti, facciamo della politica. Parlare delle immagini significa, di fatto, ‘prendere posizione’ riguardo all’efficacia di queste stesse immagini sulla comunità.”[6]

È arduo se non impossibile, forse non solo qui, ripercorrere le vicende che hanno segnato il formarsi e il modificarsi del “pregiudizio realista”[7], del carico documentario della fotografia; dell’espiazione di quel peccato originale da cui da sempre i fotografi (e i critici, dopo) hanno tentato di liberarla e di liberarsi utilizzando le più diverse strategie, poiché anche solo tentare di metterne a punto la successione costituirebbe un impegnativo progetto storiografico.  Basti forse provarsi a dire che tutte queste strategie si sono rivelate necessarie e inevitabili quanto inutili. Inefficaci: perché la referenzialità costitutiva della fotografia resiste a ogni tentativo di negarla. Inevitabili e storicamente necessarie perché è negli sforzi compiuti per accogliere come per superare questa referenzialità sorda che ha preso corpo, che si è mobilmente definito non solo il campo dell’espressività del mezzo e della conseguente riflessione intorno alla definizione della figura e del ruolo dell’ autore[8], ma anche l’insieme dei discorsi intorno e sulla natura stessa della fotografia. Per gran parte della cultura del XIX secolo questa è stata considerata testimonianza fedele del reale[9]; questo era considerato il suo maggior pregio, il suo massimo valore d’uso: il suo dato ‘positivo’. Se ne discutevano i modi semmai, non i fondamenti. Nella metafora quasi animista di François Arago ( 1839) le fotografie erano considerate “immagini [che] creavano sé stesse”; “specchi dotati di memoria” per Oliver W. Holmes (1856). Ancora all’inizio del XX secolo la convinzione di uno studioso raffinato come Peirce era che le fotografie fossero molto istruttive “poiché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente come gli oggetti che rappresentano. Ma questa somiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali da dover corrispondere punto a punto alla natura.”[10] In questa pura constatazione fenomenologica, nell’inedito paradigma della costitutiva assenza di autorialità risiedeva il loro confortante statuto di prova e – ancor prima, ancora adesso – il loro insostituibile valore d’uso. Non toccate da mano d’uomo: non manipolate. È su queste basi che la fotografia venne quasi immediatamente accolta nel laboratorio dello scienziato come nella camera di sicurezza del criminologo; nello studiolo dell’architetto restauratore o dello storico dell’arte.

Considerando che “nella sua definizione classica, la fotografia non è altro che un processo di registrazione, una tecnica di iscrizione, in un’emulsione a base di sali d’argento, di un’immagine stabile generata da un irradiamento luminoso”[11], e che l’accezione diplomatica di documento è quella di “una cosa normalmente mobile (…) prodotta su un supporto (…) tramite un mezzo scrittorio (…) o un dispositivo [che è a sua volta, in senso neppure troppo lato, un mezzo scrittorio] per fissare l’immagine o la voce o, contestualmente, l’immagine e la voce”[12], allora possiamo non solo riconoscere che tutta la cultura del XIX secolo ha legittimamente considerato la fotografia come la più soddisfacente forma di documento visivo, ma anche provare ad avanzare timidamente l’ipotesi che una fotografia, quindi ogni fotografia sia di per sé un documento anche in senso diplomatico archivistico.  La contrapposizione ad alcune recenti posizioni di radicale revisionismo antibarthesiano non potrebbe essere più netta: “poiché la fotografia non è per sua natura un documento” – ha scritto André Rouillée – “il documento non sarebbe in grado di costituire una qualsivoglia essenza o noema della fotografia. Se la fotografia non è per sua natura un documento, ogni immagine racchiude comunque un valore documentario che, lungi dall’essere definito e assoluto, deve essere considerato nella sua variabilità nel contesto di un regime di verità; un regime documentario.”[13]

Resta per ora inevasa l’altra fondamentale questione del cosa una fotografia documenti: “Evidentemente il documento interessa per il suo contenuto, per le informazioni che tramanda, tuttavia le notizie che vi sono rappresentate o descritte richiedono in chi le confeziona delle capacità tecniche che si traducono in canoni di rappresentazione che a loro volta possono costituire oggetto di analisi essendo essi stessi testimonianza diretta dell’attività di documentare.”[14] La definizione diplomatica orienta inevitabilmente il nostro interesse verso il riconoscimento del contenuto e delle informazioni che il documento fornisce, ma ci invita anche a sfuggire al rischio del sinonimo, a scavare una piccola rete labirintica di solchi intermedi, interstiziali. In una distinzione che è più semplice verificare in termini empirici possiamo allora far corrispondere “il contenuto” al dato referenziale, alle notizie “rappresentate o descritte”, mentre nella più generale categoria delle “informazioni” possiamo comprendere tutti gli elementi canonici (storici, culturali, materiali) che determinano la forma, che informano la rappresentazione del contenuto stesso. Da ciò consegue che gli elementi di maggiore ‘valore documentario’ possano essere costituiti  proprio dalle relazioni tra contenuto e canone, tra rappresentato e rappresentazione, connotando in senso più ricco e complesso lo stesso concetto di documento.[15] La verifica sperimentale di questi nessi raggiunge tensioni problematiche particolarmente elevate, genera illuminanti corto circuiti in grado di verificarne la tenuta, quando rappresentazione e rappresentato vengono a coincidere, quando entra (letteralmente) in campo il soggetto autore, non troppo implicito antagonista della neutra oggettività della Natura nello spietato conflitto per la conquista della Verità sotto specie fotografica. Sin dalle origini la sua costitutiva esclusione aveva rappresentato il fondamento, e la garanzia, dello statuto di prova dell’immagine fotografica[16] ovvero, a voler essere precisi, del fototipo, e conseguentemente la negazione di ogni possibilità espressiva, ponendo la pratica e la produzione fotografica al di fuori di ogni possibile paradigma artistico. Non si trattava però di una verità assiomatica o sperimentale, semmai di un luogo comune, per quanto efficace.  Si consideri uno dei progetti più felicemente sofisticati di quella stagione: il notissimo autoritratto di Hippolyte Bayard intitolato Le Noyé, datato 18 ottobre 1840, del quale si conoscono tre varianti[17]. La suprema efficacia di questo modello di strategia comunicativa si fondava proprio sulla consapevolezza e sull’appropriato e conseguente uso narrativo della convenzione in base alla quale il documento (qui: la fotografia) assume validità di prova, accresce il proprio valore testimoniale in misura direttamente proporzionale alla scomparsa (della figura individuale) dell’Autore. E allora: quale miglior ritrarsi del suicidio.  Al verso di una di queste varianti[18] si può leggere l’altrettanto famosa lettera: “La salma che qui vedete è quella di M. Bayard, inventore del procedimento che vi è appena stato illustrato, e di cui vedrete presto i meravigliosi risultati. (…) Il governo che ha sostenuto M. Daguerre più del necessario, ha dichiarato di non essere in grado di fare qualcosa per M. Bayard, e l’infelice si è gettato nel fiume per la disperazione. Oh, incostanza umana! Per molto tempo artisti, scienziati e la stampa si sono interessati a lui, ma ora che giace da giorni alla Morgue nessuno l’ha riconosciuto o ha reclamato la sua salma! Signore e signori, parliamo d’altro in modo che il vostro senso dell’odorato non venga offeso perché, come probabilmente avrete notato, il volto e le mani hanno già cominciato a decomporsi. H.B., 18 ottobre 1840.” L’eccezionale interesse di questo insieme documentario risiede non solo (non tanto?) nelle diverse informazioni contenute, quanto nelle questioni che pone, per la chiarezza esemplare con cui mostra quanto la funzione documentaria di questa nuova categoria di immagini avesse sin dalle origini basi ontologiche e convenzionali a un tempo. Accogliendo l’autenticità del testo che la correda, siamo legittimati a dire che questa è proprio la prima fotografia destinata a valere come prova. Subito vera e falsa. Esemplare di tutti i discorsi che poi verranno fatti e si potranno fare; per questo assume un valore paradigmatico. Per questo bene si presta a essere studiata con gli strumenti analitici della diplomatica, nel cui ambito “lo studio del documento conduce inevitabilmente a porre in rilievo il rapporto tra la natura dell’atto giuridico e la forma dell’atto, e a evidenziare – astraendo dalla storicità del contenuto dell’atto – le connotazioni formali del documento.”[19] L’analisi diplomatica dei suoi caratteri[20] intrinseci (autore, data, contenuto) ed estrinseci (materia e tecnica, ‘stile’ e connotazioni culturali), mostra quanto alcuni possano essere dati per solidamente acquisiti (autore, data, materia e tecnica), mentre altri restano da considerare e circoscrivere; tutti per certi versi relativi alla definizione del contenuto informativo, pur avvertendo che ciò non necessariamente implica un giudizio di verità: non “se dice il vero”, ma “cosa dice, e perché”. È innegabile che l’intenzione dell’immagine apparente (non dell’autore) fosse esplicitamente documentaria, fondata sull’evidenza che ciò che si dava a vedere aveva tutte quelle caratteristiche – immediatamente recepite – di oggettività naturale, attribuite a ciò che oggi chiamiamo fotografia. Questa sua capacità persuasiva era poi ribadita, confermata e certificata dal titolo. Anche la semplicità della ripresa e l’assenza di manipolazioni evidenti, propria della fotografia delle origini, qualificavano (inevitabilmente?) lo stile come documentario; ciò che ulteriormente confermava l’osservatore del suo valore di prova. A questo statuto di traccia indiziaria si accompagnava però, senza contraddirlo, una sintassi compositiva tutta interna alla tradizione culturale dell’Accademia artistica, dove l’iconografia richiamava (se non proprio citava) La mort de Marat  di Jacques-Louis David (1793).  L’intenzione narrativa (dell’autore, quindi) era invece pragmatica (propositiva, pubblicitaria): tendeva a convincere, a costituirla – diremmo oggi – anche come immagine “agente di storia”. Questa somma di ragioni indica come questa fotografia sia sotto un certo rispetto autentica (prodotta intenzionalmente dall’autore dichiarato) e per un altro aspetto falsa, poiché ci inganna sulla realtà che pretende di mostrare. Questa attestazione di falsità è però vera e costituisce (non troppo paradossalmente) l’esito e la conseguenza del testo (che possiamo pensare come didascalia, per quanto insolitamente lunga) redatto dallo stesso autore, che mina la veridicità dell’immagine nel preciso momento in cui la propone come testimonianza documentale. La fotografia non riproduce (il mondo esterno) ma produce (messe in scena del mondo) e ciò nonostante ci consente di interpretarla come testimonianza o almeno come indizio. Non solo di dire che ci sono certamente stati un tempo e un luogo in cui una persona che nominiamo H.B. si è posta in posa di fronte all’obiettivo, ma anche quali fossero le sue sembianze. Non solo quale fosse la sua strategia politica, ma anche la sua cultura visiva; quale la sua competenza (tecnica, espressiva), quali gli oggetti di cui si circondava, quale forma avesse il cappello che usava per i lavori in giardino. Ennesima prova, se mai se ne sentisse il bisogno, di quanto il contenuto del documento fotografico, e l’interesse che può determinare in noi, non possa mai essere ridotto al puro referente fisico, sebbene senza di questo, qualunque sia il modo della sua restituzione, non si dia fotografia.  La pura referenzialità (indicale e primaria, fondante e irriducibilmente resistente) risulta inscindibilmente marcata (ma non eliminata) da connotazioni più o meno consapevoli o intenzionali (iconografiche, simboliche) che non possono che essere di tipo storico culturale e – nello specifico – artistiche.[21] Appartenenti cioè alla storia e alla cultura delle immagini. È questo che rende immediatamente problematica e riduttiva la nozione positivista di documento applicata alla fotografia, ma soprattutto dimostra come sin dalle origini l’antinomia documentario/ artistico, documentario/ narrativo, o documentazione/ finzione che dir si voglia, si dimostri inefficace se non inconsistente, forse semplice eredità della reazione modernista al perdurante pittorialismo. Negli stessi anni (1887-1908) in cui questo aveva cercato di ridurre al limite della riconoscibilità la relazione referenziale della fotografia, accentuandone le valenze simboliche e allontanandosi dal ‘fotografico’, Charles Peirce dava forma logica alla concezione che le aveva assegnato la cultura del XIX secolo[22] mettendo a punto quella teoria del “segno in relazione al suo oggetto” che tanto avrebbe influito decenni più tardi sulla definizione semiotica della fotografia e sull’analisi della sua funzione documentaria, sebbene la compresenza di indice e icona aprisse già allora lo spazio alla pratica artistica.[23] “Una fotografia è un indice avente un’icona incorporata in sé” affermava Peirce nel 1903[24] precisando e arricchendo alcuni cenni precedenti.[25]  “Il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.” E inoltre: “Il valore di un’icona consiste nel suo esibire i tratti di uno stato di cose considerato come se fosse puramente immaginario. Il valore di un indice è che ci assicura di fatti positivi. Il valore di un simbolo è che serve a rendere razionali il pensiero e la condotta e ci consente di predire il futuro. Spesso sarebbe desiderabile che un representamen esercitasse una di queste tre funzioni con esclusione delle altre due, o due di esse con esclusione della terza; ma i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile.”[26]

Sono queste le condizioni che consentono di dire che la fotografia è un esempio perfetto di segno, nel quale la funzione documentaria non può essere ridotta al suo valore indicale, ma neppure che questo può essere escluso quando prevalgano le componenti o le funzioni iconiche e simboliche, se lo spazio narrativo abitato dall’autore assume una dimensione preminente. Circa gli stessi anni, indizi sparsi di una concezione della fotografia meno manichea di quella modernista si ritrovano nelle affermazioni, magari ingenue e teoreticamente poco consapevoli, di Alfred Liégard,  promotore per la Francia della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, per il quale “l’arte e il documento possono, anzi devono, intendersi sul terreno della fotografia (…). Il fotografo artista dovrebbe disdegnare il documento? Per quanto mi riguarda non lo credo. Nulla gli impedisce di trattare artisticamente il documento.”[27] Ma anche, sul versante della critica politica dell’indice, nelle parole di Bertold Brecht per il quale “una semplice restituzione della realtà [meno che mai] dice qualcosa sopra la realtà. (…) La realtà vera è scivolata in quella funzionale.”[28]  Paradigmatico in tal senso il caso delle riprese aeree, figlie del primo conflitto mondiale, quando guerra e fotografia si allearono per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo, che ben esemplifica i termini della questione documentaria, rendendo evidenti i problemi che ci sono in ogni fotografia. L’automatismo di ripresa, l’esclusione programmatica di ogni intenzione autoriale rendevano ciascuna di queste immagini l’esempio più puro di documento, sebbene risultassero di fatto incomprensibili, cioè prive di qualsivoglia valore documentario (e strategico),  a meno di possedere gli strumenti adatti per la loro decifrazione. D’altro canto offrivano quella “esperienza più completa dello spazio (…) uno spazio in tutte le sue dimensioni, uno spazio senza limitazioni”[29] che tanto avrebbe inciso sulla cultura visiva e sulle avanguardie di primo Novecento, dal Futurismo alla Nuova Visione almeno. Reagendo alle manipolazioni della stagione pittorialista, all’equivoca, ingombrante presenza dell’Autore nella determinazione dell’immagine finale, è stato – come è ben noto – il modernismo a recuperare criticamente il valore positivo, specificamente fotografico, della rilevanza del mezzo e del dispositivo, con l’intenzione “di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva”[30], nella convinzione che potesse “essere assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.”

Da queste posizioni, ampiamente condivise dalla cultura fotografica occidentale tra le due guerre, prende l’avvio la questione dello stile documentario, il cui termine qualificativo lo stesso Walker Evans considerava “ingannevole”[31], ma che ha influenzato intere generazioni di autori, rappresentativi di quella che De Chassey ha definito come fotografia “piana”.  “Per funzionare come documenti – ha scritto Lewis Baltz – le fotografie devono innanzitutto persuaderci che esse descrivono correttamente e obiettivamente il loro soggetto; devono in primo luogo convincere il loro pubblico [sic] che si tratta veramente di documenti, che il fotografo ha pienamente utilizzato la propria capacità di osservazione e che ha messo da parte la sua immaginazione e i suoi ‘a priori’.[32] (…) Idealmente il fotografo dovrebbe essere invisibile e il mezzo trasparente; per lo meno è a questo livello di obiettività cui io aspiro. Io voglio che il mio lavoro sia neutro, diretto e libero da ogni intenzione estetica o ideologica affinché le mie fotografie possano essere viste come delle dichiarazioni fattuali sul loro soggetto piuttosto che come espressioni di ciò che io ne penso.”[33] La poetica della (presunta) “cancellazione del soggetto agente”, che si riappropria criticamente delle posizioni ottocentesche attraverso W. Evans, costituisce per Olivier Lugon “la regola fondamentale dello stile documentario”[34], ma si fonda a mio parere su di una concezione semplicistica e fondamentalmente errata.  Non sono infatti i modi (quindi neppure lo stile) a determinare lo statuto di documento di una fotografia, ma il suo essere (originata da) un fototipo[35], comunque consapevoli che questo, come ogni altro documento del resto, non possa mai essere letto come una “dichiarazione fattuale” della realtà: semmai di una realtà o – meglio – di una sua particolare porzione e manifestazione[36]. Come ha sarcasticamente dimostrato Duane Michals: There Are Things Here Not Seen in This Photograph, “Ci sono cose che non si vedono in questa fotografia: La mia maglietta era madida di sudore. La birra era buona, ma io avevo ancora una gran sete. Un ubriaco stava parlando a voce alta di Nixon con un altro. Io osservavo uno scarafaggio passeggiare lentamente lungo il bordo di uno sgabello. Dal jukebox, Glenn Campbell incominciava a cantare Southern Nights.  Avevo bisogno di andare in bagno. Un derelitto mi si stava avvicinando per chiedere soldi. Era ora di andare.”

Quella che per i critici delle origini era quasi solo una pura constatazione fenomenologica, e per i modernisti una rivendicazione estetica, è stata assunta da molti autori novecenteschi di tradizione, diciamo così, ‘topografica’ come posizione critica, senza rendersi conto (o non essendo interessati al fatto) che il funzionamento documentario è indifferente allo stile; che lo stile documentario è solo uno dei possibili; che ogni fotografia  (diversamente e più di ogni altro prodotto culturale) ha un elevato contenuto testimoniale dovuto al suo inevitabile carico referenziale. È dal seme della sua determinazione ontologica che germogliano poi le intenzioni, le condizioni e i condizionamenti del contesto e dell’autore, vale a dire tutti quegli ulteriori elementi che ne determinano/ configurano il senso storico e il valore documentario complessivo.[37]  Anche per questo risulta oggi difficile concordare con W. Evans quando affermava che “un esempio di documento in senso letterale sarebbe la fotografia di un crimine scattata dalla polizia. Un documento ha un’utilità, mentre l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile.”[38] Di questa abusata citazione non mi pare possibile condividere la sostanza, e non solo perché la concezione di documento qui espressa appare irrimediabilmente datata e riduttiva per gli anni in cui è stata espressa (1971); non solo perché ogni opera (non solo fotografica, ovvio) può essere (usata come) documento, ma anche e soprattutto perché quando questa è una fotografia essa costituisce inevitabilmente un documento almeno nel suo più riduttivo senso referenziale, di segno indicale scalato nel tempo (“è stato”). Di più, e ribaltando in un qualche modo le convinzioni comuni, la storia della fotografia ci mostra come l’idea di documentario e la stessa realizzazione del documento non abbiano mai escluso la possibilità di interventi da parte dell’autore. La funzione documentaria convive da sempre con manipolazioni più o meno rilevanti, configurandosi come intenzione che accoglie i valori testimoniali di registrazione di ogni ripresa fotografica.  Si pensi ad esempio alla pratica di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle riprese ottocentesche: per ovviare all’inconveniente non c’era buon fotografo che non si dotasse di “numerosi negativi di nuvole nei quali la posizione del sole varia di molto; [così] accade che qualcuno di questi negativi si adatti perfettamente alle condizioni di luce del momento in cui opero normalmente. Quel cielo viene perciò riprodotto in più vedute.”[39] Tecnicamente: un vero e proprio fotomontaggio, non diverso (neppure nelle motivazioni generali di efficacia dell’immagine finale) da quelli che ha realizzato ad esempio un autore di grande maestria documentaria come Vittorio Sella, sia in alcune delle sue notissime immagini di montagna, aggiungendo nuvole o figure, sia in un contesto apparentemente meno problematico quale è quello della documentazione etnografica, quando, ad esempio, è intervenuto incollando la figura di un galletto per riempire il primo piano di una scena di paese.[40] Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà, se necessario spettacolarizzandola. Così resta difficile credere che “affinché [una fotografia] possa ‘passare’ per foto documento è necessario che non appalesi, a livello di traccia dell’enunciazione, il suo essere un fotomontaggio.”[41]  Condizione forse necessaria (a patto di ben definire cosa si intenda per fotomontaggio), ma certo non sufficiente, e comunque problematica, essendo determinata dalla doppia competenza del produttore e del fruitore. Direi piuttosto che è indispensabile che il suo contenuto iconico sia verosimile, cioè coerente con le aspettative legittimate dall’enciclopedia di conoscenze del fruitore stesso. È quindi una questione di ricezione e di giudizio, che rimanda all’esperienza; che si fonda – prima di ogni altra possibile valutazione – sul riconoscimento di quell’immagine come fotografia e sull’accettazione delle sue implicazioni.

Riconsideriamo allora un elemento centrale di una delle già citate affermazioni di Peirce:  “il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.”[42] Questo sapere, questa consapevolezza (per quanto problematica), questo riconoscimento è il fondamento della funzione del medium: “in ogni atto di ricezione di una fotografia vi è un momento iniziale che consiste nell’identificazione dell’immagine come un’immagine fotografica. È dal realizzarsi di questa identificazione che in gran parte dipende la costruzione del segno. Se infatti essa manca, l’immagine non sarà tematizzata come indicale: la si guarderà come semplice icona analogica.”[43] Riconoscendo quell’immagine come fotografica sono indotto a credere all’è stato di ciò che raffigura; a interrogarmi non sulla sua esistenza, certificata proprio dalla fotografia, ma sulla sua identità. Credo però che non si possa neppure escludere l’inverso: se la forma analogica, se l’icona non viene riconosciuta, se non si riesce a individuare un possibile referente poiché nessuna somiglianza è colta, possono non darsi ragioni per stabilirne la natura di indice. Nella nota definizione di Schaeffer la fotografia è quindi un “segno di ricezione”, il cui riconoscimento, la cui esistenza significante è condizionata dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché : una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica”[44], sebbene questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”  Riportando queste considerazioni al nostro discorso possiamo provare a dire che la possibilità di accoglierne il valore documentario (non il suo ‘stile’) dipende dalla duplice capacità del recettore di identificarlo in quanto fotografia, cioè di comprenderne la natura fondante e primaria di indice, e di riconoscerne il referente, almeno in termini generali poiché – come ha ricordato Paul Ricoeur – “affinché l’impronta sia segno di qualcos’altro, è necessario che in qualche modo indichi la causa che l’ha prodotta.”[45]

Dalla necessità di considerare come costitutiva (e produttiva) questa tensione tra indice e recettore derivano due conseguenze metodologiche: A- L’orizzonte disciplinare peirciano fornisce la strumentazione teorica necessaria per comprendere perché la fotografia documenta. B- Poiché la fotografia è anche “segno di ricezione” di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[46], quello stesso orizzonte risulta insufficiente e di necessità deve essere esteso facendo ricorso alle scienze storiche, all’interrogazione della fotografia in quanto prodotto culturale. Il passaggio dalla Fotografia alla fotografia implica il riconoscimento della connessione logica tra il suo processo generativo (e conseguente funzionamento semiotico) astorico, e la sua manifestazione concreta, oggettuale e temporale: storica. “Il significato di ogni fotografia – ha ricordato Geoffrey Batchen – è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che ] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa.  Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto storico politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria: impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.”[47] Questo porta a dire che “la mobilità semiotica della fotografia richiede certamente una storicizzazione altrettanto mobile.”[48] Semiotica e storiografia sono quindi i due ambiti teorici e metodologici solo apparentemente inconciliabili che ci consentono di dare sostanza attuale alla definizione di documento stabilita dalla diplomatica, indicando percorsi di ricerca e metodi che consentano di rispondere infine alla domanda cruciale del ‘cosa’ un documento significhi, di quali diversi ordini possano essere le informazioni che lo qualificano. A questo proposito può essere utile riflettere sulle corrispondenze esistenti tra la definizione peirciana di segno e quella di documento così come si è andata costituendo in ambito filosofico e storiografico francese nella seconda metà del Novecento. Sappiamo dalla semiotica che i segni puri sono estremamente rari, anzi “i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile”[49], e – analogamente – che i documenti non registrano meccanicamente il dato o l’evento, non costituiscono la descrizione oggettiva di un’ entità ‘reale’, ma sono essi stessi intrisi di valori simbolici e determinati da canoni rappresentativi. “La storia è ciò che trasforma i documenti in monumenti” ha scritto Foucault[50], aprendo lo spazio a quella revisione profonda del concetto, poi compiuta da Jacques Le Goff: “il documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca, della società che lo hanno prodotto, ma anche delle epoche successive (…) e la testimonianza e l’insegnamento che reca devono essere in primo luogo analizzate demistificandone il significato apparente. (…) Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di sé stesse. Al limite non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico il non fare l’ingenuo.”[51] Più in particolare – come ha ricordato Paolo Fossati – “è inutile fingere innocenza, distinguere tra creatività e documento (e non c’è idea peggiore che provarsi a farlo): bisogna manovrare, lì in mezzo”[52], rifiutando tra le altre cose la tentazione di soccombere alla logica fuorviante dell’eccezionalità, quanto mai pericolosa specialmente quando si intenda dar conto del lavoro fotografico, dell’opera di un fotografo.[53]

Come non esiste un segno che sia puro indice, una fotografia che sia puro “atto-traccia” al di fuori del momento della sua esposizione[54], analogamente non esiste un documento oggettivo. Per questo possiamo dire che ogni fotografia, in quanto segno nella sua pienezza, è un documento/ monumento ovvero

dati: I = indice; D = documento; M = monumento; S = simbolo

si può scrivere: I : D = S : M

che sviluppando diviene: I/ S = D/ M

che traduce in formula algebrica (affettuosamente dedicata a Peirce – Le Goff) le considerazioni espresse in precedenza. In questo senso credo si possa dire anche che ogni fotografia è un buon esempio di “semioforo, ossia un oggetto visibile investito della significazione”, secondo la nota definizione di Pomian, accompagnata però dalla precisazione necessaria che questo carattere non definisce tanto un’essenza quanto una funzione, poiché “i semiofori si distinguono dai sistemi di segni soprattutto per il fatto che nel loro caso la storia è il necessario complemento della teoria, e questo non perché rimandino a un presunto sostrato metafisico della continuità ma perché, essendo visibili e quindi caratterizzati da estensione e temporalità, si trasformano, si inabissano, cambiano di  posto e di significato sempre restando semiofori, oppure perdono la loro funzione, non circolano più e, se non vengono abbandonati come residui, cominciano a venir utilizzati come cose.”[55]

Così facendo assegniamo a ogni fotografia, un doppio valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del referente, rispetto alla quale il valore documentario prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Dal valore delle fotografie come documenti/ monumenti deriva la necessità di andare oltre la considerazione per la semplice registrazione del dato referenziale per prestare attenzione, per interrogarle (e interrogarsi) sui canoni e sui modi della rappresentazione; di dare un senso alla scelta dei temi, assegnando la stessa importanza alle presenze come alle assenze. Sono queste le ragioni che devono portare, anche per la fotografia, a considerare la singola immagine solo in senso relativo per collocarla all’interno di una serie, portando alla luce la rete di relazioni che questa sottende e implica.

 

 

Note

[1] Roland Barthes, La chambre claire: Note sur la photographie. Paris: Cahiers du Cinéma – Gallimard – Seuil, 1980 (trad. it. La camera chiara: Note sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1980), p. 12. Sulla tenuta delle posizioni espresse in questo notissimo testo, forse il più influente e citato saggio sulla fotografia degli ultimi decenni, oggetto in anni recenti di reazioni tardivamente isteriche, si vedano gli studi raccolti e l’ampia bibliografia citata in Geoffrey Batchen, ed., Photography Degree Zero: Reflections on Roland Barthes’s Camera Lucida. Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2009.

[2] Barthes 1980,  p. 103.

[3] Susan Sontag, On Photography. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1977 (trad. it. Sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1978, p. 22).

[4] Intesa secondo la definizione classica come scienza che si occupa del documento in sé, dei suoi elementi formali e contenutistici allo scopo di verificarne e mantenerne nel tempo l’autenticità. Utili riferimenti al dibattito intorno alle relazioni fra la fotografia e la diplomatica sono stati indicati da Tiziana Serena, L’archivio fotografico. Possibilità derive potere, in Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, atti della giornata di studio (Venezia, 29 ottobre 2008), a cura di Anna Maria Spiazzi, Luca Majoli, Corinna Giudici. Crocetta del Montello: Terra Ferma, 2010, pp. 103-125 (105, nota 12)

[5] Cfr. Leslie Katz, Interview with Walker Evans, “Art in America”, 59 (1971), n.2,  March-April pp. 82-89 (87); Olivier Lugon, Le style documentaire. D’August Sander à Walker Evans 1920-1945. Paris: Éditions Macula, 2001 (trad. it. Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920 -1945. Milano: Electa, 2008); Eric De Chassey, Platitudes. Une histoire de la photographie plate. Paris: Gallimard, 2006.

[6] Georges Didi-Huberman, intervistato da Isabella Mattazzi in occasione della presentazione del libro Come le lucciole. Una teoria della sopravvivenza,  “Il manifesto”, 40 (2010), n. 41, 20 febbraio, p. 11.

[7] Gérard Lagneu, Illusione e miraggio, in Pierre Bourdieu, dir., Un art moyen. Essais sur les usages sociaux de la photographie. Paris:  Les Editions de Minuit, 1965 (trad. it. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media. Rimini: Guaraldi, 1972,  pp. 211-228 – 215).

[8] Tra queste una delle più interessanti e produttive è rappresentata dal paradosso della sua volontaria scomparsa quale strategia discorsiva destinata ad affermarne con maggior forza la presenza. Accogliendo le riflessioni ancora feconde di Vaccari e Flusser, per i quali l’autore si colloca buon ultimo nella determinazione dell’immagine, possiamo provare a dire che in alcune pratiche questo marca la fotografia in misura inversamente proporzionale alla sua esplicita volontà di farlo. Cfr. Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Torino: Agorà, 1979 (nuova ed. Torino: Einaudi, 2011); Vilem Flusser, Fur eine Philosophie der Fotografie. Göttingen: European Photography, 1983 (trad. it. Per una filosofia della fotografia. Torino: Agora, 1987; nuova ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006). Le vicende storiche delle diverse pratiche fotografiche, delle differenti concezioni della fotografia comportano anche un percorso distinto, sebbene fortemente intrecciato a quello qui considerato, a cui possiamo solo accennare: quello del passaggio (funzionale, culturale, mercantile) da documento a opera,  si veda P. Cavanna, Da strumento a patrimonio: documenti e opere, in Fototeche a Regola d’Arte, Atti delle giornate di studio (Siena, 30 novembre – 1 dicembre 2007), a curadi Giorgio Bonsanti, Siena, CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro – Fototeca Briganti, Atti disponibili in rete: https://www.yumpu.com/it/document/read/33408520/1863-4-giugno-inaugurazione-del-museo-civico-comune-di-siena (01 03 2023).

[9] La definizione puramente analogica della fotografia era condivisa anche dalle culture non occidentali: in giapponese ad esempio gli ideogrammi che corrispondono al termine fotografia (“Shashin”)  sono traducibili come “copia della realtà/ realtà copiata”. Con significativo parallelismo, nella concezione positivista anche il lavoro dello storico si proponeva come ‘trasparente’, nella convinzione ideologica di poter mostrare i puri fatti. Oggi, così come la fotografia non è più ‘invisibile’ e anzi ci interessiamo prevalentemente ai modi della sua visibilità, anche il lavoro dello storico si offre esplicitamente come discorso e narrazione, dove “il senso non deriva dai ‘fatti’ nudi e crudi e dagli ‘eventi’ isolati, bensì è un qualcosa che scaturisce dalla temporalità della narrazione”,  Iain Chambers, Culture after Humanism.  London: Routledge, 2001 (trad. it. Sulla soglia del mondo: L’altrove dell’Occidente. Roma: Meltemi, 2003, p. 18), che riprende Paul Ricoeur, Temps et récit.  Paris: Seuil, 1983-1985 (trad. it. Tempo e racconto. Milano: Jaca Book, 1986-1988). La pratica storiografica attuale adotta una “concezione dinamica delle fonti, con il richiamo alla loro creazione epistemologica da parte dello storico, [ciò che] segna il superamento sia dell’ ‘oggettivismo’ dell’impostazione positivistica, sia del soggettivismo intuizionistico dell’idealismo; oggetto e soggetto della conoscenza storica sono legati da una relazione di reciproca funzionalità.”, Giovanni de Luna, La passione e la ragione: Fonti e metodi dello storico contemporaneo. Milano: La Nuova Italia, 2001, p. 118, che rimanda alla concezione dinamica delle fonti di Jerzy Topolski.

[10] Charles Peirce, What is a Sign?, in Id., How to Reason: A Critik of Arguments (Gran Logic), 1909, citato in Roberto Signorini, Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce,  2009, p. 203, disponibile sul sito della SISF – Società Italiana per lo Studio della Fotografia: https://www.sisf.eu/wp-content/uploads/2014/08/Signorini_Peirce_2009.pdf   [20 12 2022]. Questo contributo, che costituisce l’esito ultimo del costante, solitario e faticoso impegno di Roberto per l’accrescimento della cultura fotografica italiana, il suo ennesimo impervio sforzo per contribuire a colmare l’enorme divario che la separa – che ci separa – dagli universi della ricerca più attrezzata e avanzata che caratterizzano la scena degli altri paesi, ha costituito per me, come altre volte, non solo una fonte imprescindibile per accedere in modo sistematico al pensiero di Peirce, ma anche e soprattutto un’occasione di riflessione e quindi di crescita di cui gli sono debitore pur non condividendo sempre le sue conclusioni.

[11] Hubert Damish, Cinq notes pour une phénoménologie de l’image photographique, “L’Arc”, 1963, n. 21, printemps, ora in Id., La Dénivelée. À l’épreuve de la photographie. Paris: Seuil, 2001, pp.7-11 (7). Damish richiama poi l’attenzione del lettore sul fatto fondamentale, di cui qui non possiamo considerare le conseguenze, “che questa definizione non presuppone l’impiego di un apparecchio non più di quanto implichi che l’immagine ottenuta sia quella di un oggetto o di uno spettacolo del mondo esterno.” Analoghe considerazioni sono state espresse da Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Lazlo Moholy-Nagy: “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, cfr. Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup, “History of Photography”,  18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86. Ben si adattano a questa concezione le riflessioni sulla fotografia condotte nell’ambito dei più recenti studi sul segno: “La modalità semiotica della fotografia è quella di una traccia su una superficie e che, in quanto traccia, adotta il regime dell’impronta.”, Hamid-Reza Shaïri, Jacques Fontanille, Approche sémiotique du regard photographique: deux empreintes de l’Iran contemporain, “Nouveaux Actes Sémiotiques”, nn.73-75. Limoges: Pulim, 2001, (trad it. Un approccio semiotico dello sguardo fotografico: due impronte dell’Iran contemporaneo, in Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero, Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi. Rimini: Guaraldi, 2008, pp. 217-242: p. 353, nota 209), con l’avvertenza che attenendosi alla sola “ontologia della traccia, che si imporrebbe al fruitore al di qua di qualsiasi interpretazione, la foto diverrebbe un oggetto teorico solo nel momento in cui è assunta come ‘testimonianza muta’, una ‘macula caeca rispetto all’interpretazione’. Ma (…) la percezione della fotografia o la sua apprensione affettiva passano per interpretanti (…) attraverso movimenti abduttivi.”, Pierluigi Basso Fossali, Peirce e la fotografia: abusi interpretativi e ritardi semiotici, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp.113-214 (207). Per queste ragioni la semiotica filopeirciana viene da questi autori considerata insoddisfacente, perché “ha ricondotto la significazione [della fotografia] all’atto produttivo, senza dedicare attenzione né alle forme testuali, né ai regimi discorsivi e alle prassi comunicazionali. Queste teorie, invece che moltiplicare gli strumenti metodologici per rendere conto delle diverse strategie estetiche ed enunciazionali delle occorrenze testuali, riducono il funzionamento del medium a un’unica definizione, a un’essenza (fotografia come icona, indice, simbolo del reale). (…) Chi sceglie invece la testualità come unità pertinente all’analisi (…) ha il merito di deontologizzare il discorso sull’immagine fotografica distaccandosi da una classificazione per medium produttivo e di aprire alla problematica delle diverse pratiche di interpretazione e fruizione della fotografia.”, Maria Giulia Dondero, Geografia della ricerca semiotica sulla fotografia, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp. 21-111 (21-22). Pur comprendendo la necessità di marcare il proprio territorio di ricerca mi pare che non poche siano le possibili intersezioni tra queste rivendicazioni della supremazia della testualità e le riflessioni di segno diverso di autori come Schaeffer o Ricoeur (cfr. nota 44 e testo relativo), mentre una sintesi efficace mi pare riconoscibile nel concetto di semioforo applicato alla fotografia, per quanto di cultura vi è nella sua produzione (determinata anche nella manifestazione concreta dell’atto-traccia da quello che Flusser ha chiamato “apparato”) e nella sua percezione, sempre storicamente mediata (cfr. nota 11 e testo relativo).

[12] Paola Carucci, Il documento contemporaneo: Diplomatica e criteri di edizione. Roma: NIS, 1987, p. 14.

[13] André Rouillé, La photographie. Paris: Gallimard, 2005, pp.25-26, che così prosegue: “Il valore documentario dell’immagine fotografica poggia sul suo dispositivo tecnico, ma non è garantito da questo. Esso varia in funzione delle condizioni di ricezione dell’immagine e delle convinzioni che si hanno su di essa. La registrazione, il meccanismo, il dispositivo contribuiscono a sostenere queste convinzioni, a consolidare la fiducia, a sostenere il valore, senza mai garantirli completamente. (…) Questa metafisica della rappresentazione, che si fonda tanto sulle capacità analogiche del sistema ottico quanto sulla logica dell’impronta del dispositivo chimico, conduce a un’etica della precisione e a un’estetica della trasparenza.”, Ivi, p. 73. Qui Rouillé pare non saper distinguere tra “valore documentario” (che può essere nullo, e che è inevitabilmente determinato dal variare del contesto storico culturale) e natura documentale della fotografia. Ricordo che, salvo diversa indicazione, le traduzioni dei testi di cui non è disponibile un’edizione italiana sono di chi scrive.

[14] Carucci 1987, p.14. La definizione non potrebbe essere più chiara e convincente, sebbene io consideri una necessità, e non una mera possibilità, l’analisi dei canoni adottati nella realizzazione del documento. Così se è vero che il documento iconografico prima di essere utilizzato quale “prova storica indubitabile” deve essere “liberato (…) da un complesso di superfetazioni – strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica – immancabilmente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista” (Giovanni Romano, Iconografia e riconoscibilità, “Casabella”, 64 (1991), n.575/576, gennaio, p. 26), è innegabile che, oltre l’uso puramente referenziale della fonte, sia invece indispensabile per il procedere dell’indagine storiografica riconoscere e analizzare proprio quelle “superfetazioni” che costituiscono le condizioni che ne hanno determinato le stesse forme di esistenza, sino a “passare attraverso la mediazione della coscienza dell’autore della fonte.”, (Witold Kula, Riflessioni sulla storia, [1958]. Venezia: Marsilio, 1990 p.31, citato in De Luna 2001,  p.137). Per ricondurci al nostro contesto, risulta allora legittimo dire che “Ben più che un ‘è stato’ dell’oggetto, la fotografia attesta un ‘è stato vissuto’ dal fotografo” (Serge Tisseron, Le mystère de la chambre claire. Parigi: Flammarion / Les Belles Lettres, 1996, in Dondero 2008, p. 51), ma anche che “la fotografia riproduce meno di quanto non produca; o – piuttosto – essa non riproduce senza produrre, senza inventare, senza creare, artisticamente o meno, del reale; mai in alcun caso il reale”  (Rouillé 2005, p.169, corsivi dell’autore), senza per questo rinunciare al riconoscimento della sua natura di segno indicale.  Pur tenendomi prudentemente lontano dalle sirene del decostruzionismo ad libitum, per il quale “il senso non è immanente al testo, ma alla pratica di interpretazione” (François Rastier, Art et sciences du texte. Paris: Puf, 2001 – trad. it. Arti e scienze del testo. Roma: Meltemi, 2003, in Dondero 2008, p. 54) ovvero che “il segno deve essere studiato ‘sotto cancellatura’ [essendo] sempre già ‘occupato’ dalla traccia di un altro segno che non appare mai come tale; [ragione per cui] la semiologia deve lasciare il passo alla grammatologia” (Gayatri Spivak, Translator preface, in Jacques Derrida, Of Grammatology. Baltimora: Johns Hopkins University Press, p. xxxix, in Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History.  Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2002, p. 204, nota 36), sono convinto che la costante consapevolezza del documento come sistema complesso (nella sua costituzione) e aperto, nella sua ricezione e interpretazione, debba costituire la condizione fondante della strumentazione metodologica applicata allo studio della fotografia (ciò di cui si sente particolarmente il bisogno), ma che le riflessioni che da questa nascono possano essere feconde per tutta la riflessione storiografica sui documenti e quindi sulle fonti. Si vedano a questo proposito i diversi interventi contenuti nel numero monografico di “History and Theory” e in particolare le riflessioni della curatrice Jennifer Tucker: “Piuttosto che postulare una mancanza di ‘esperienza’ o di ‘metodo’ nell’uso delle fotografie [da parte degli storici], sarebbe forse più rilevante considerare la fotografia in relazione alla complessità dell’uso storico di qualsiasi documento. Ciò che dovrebbe essere chiaro in questo contesto è che le fotografie non sono né più né meno trasparenti di ogni altra fonte documentaria. (…) in altre parole, le fotografie non si limitano a mettere semplicemente in evidenza le potenzialità e i limiti della fotografia quale fonte storica, ma le potenzialità e i limiti di tutte le fonti storiche e dell’indagine storica quale progetto intellettuale. Così questa è precisamente la promessa e la maggiore potenzialità insita nello studio storico delle fotografie: che spinge i suoi interpreti ai limiti dell’analisi storica.”,  Jennifer Tucker, con Tina Campt, Entwined Practices: Engagements with Photography in Historical Inquiry,  “History and Theory”, 50 (2009), n. 48, December, Theme Issue, pp. 1-8 (5).

[15] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite. Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; John Tagg, The Disciplinary Frame. Photographic Truths and the Capture of Meaning, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso rimando a Alfred Liégard,  La question de la photographie documentaire, in “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 6-7.

[16] In questa prima stagione era proprio il suo statuto di documento, e non di rappresentazione, ad attrarre operatori, pubblico e critici, nella convinzione comune che fosse “compi­to della pittura (…) quello di creare, della fotografia di copiare e riprodurre” (Antoine  Claudet, La photographie dans ses relations avec les Beaux-Arts,  discorso letto alla Photographic Society of Scotland, poi pubblicato in “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.101-114). Era infatti opinione diffusa che questa potesse restituire “le esatte apparenze della forma, ma non isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, 1852, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e C., 1859, pp. 338-339, ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945: Appendice di testi e documenti, “Storia d’Italia – Annali”, 2.2. Torino: Einaudi, 1979, pp.233-235.

[17] Tra le innumerevoli fonti bibliografiche che riproducono questa notissima fotografia segnalo il solo Helmut Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981, p.49, mentre rimando a Geoffrey Batchen, Le Noyé, in Id., Burning with Desire: The Conception of Photography. Cambridge Massachusetts – London:The MIT Press, 1997, pp.157-173 per una affascinante lettura critica e  per la riproduzione del testo. A partire da Bayard la storia fornisce innumerevoli e precoci esempi di confutazione del “pregiudizio realista” della fotografia tra i quali mi piace ricordare almeno il doppio autoritratto spiritista di Francesco Negri, 1870 ca, cfr. P. Cavanna, Il Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Casale ed una mostra, “Fotologia”, n.14/15, 1992, pp. 46-53 (46).

[18] Archivio storico della Societé Française de Photographie, Paris, n. 0024.269.

[19] Carucci 1987, p.27. Vorrei far notare che eliminando il qualificativo “giuridico” – per altro fondamentale per la diplomatica – e facendo corrispondere la “storicità del contenuto” al referente, questa considerazione si può applicare anche alla fotografia.

[20] Mi pare interessante sottolineare come la loro determinazione corrisponda di fatto alla catalogazione critica del fototipo, cioè alla sua descrizione (autore, data, materia e tecnica) e alla sua interpretazione (riconoscimento del contenuto e sua veridicità).

[21] Tra le innumerevoli, possibili esemplificazioni di questi nessi rimando a una delle più note fotografie di William Eggleston, The Red Ceiling, 1973, a proposito della quale lo stesso autore notava: “Quando ne osservi una stampa dye-transfer, sembra sangue rosso fresco sulle pareti.  Questa fotografia era come un esercizio di Bach per me, poiché sapevo che il rosso era il colore più difficile con cui lavorare.”, William Eggleston, Ancient and Modern. New York: Random House, 1992, pp. 28-29. Quel richiamo è stato poi criticamente sviluppato da Mark Holborn, per il quale “la campitura rossa ha un peso emotivo; è come se il soffitto stesse sanguinando. Qui, il colore rafforza il riferimento della struttura visuale alla bandiera della Confederazione; metaforicamente, un campo di sangue.” Mark Holborn, William Eggleston, Democracy and Chaos,  “Artforum”, 36 (1988), n.10, Summer, p. 91,  citato in William Eggleston: Democratic Camera, Photographs and Video, 1961-2008, catalogo ella mostra (New York – Whitney Museum, Monaco – Haus der Kunst, 2008),  Elisabeth Sussman, Thomas Weski, eds. New York – Monaco, Whitney Museum – Haus der Kunst,  2009, p. 12.

[22] Si veda Signorini 2009, p. 223.

[23] Uso qui i termini in modo ingenuo/ convenzionale senza addentrarmi (per manifesta incompetenza) nel ginepraio delle questioni poste dalle scuole semiotiche di derivazione greimasiana, che tendono a considerare inappropriata o comunque irrilevante la questione ontologica (l’in sé della fotografia) per spostare l’accento sulla sua semiotica testuale e ricettiva (vedi anche nota 11), partendo dalla constatazione – innegabile – che affinché si dia un segno occorre necessariamente la presenza di una funzione interpretante (di qualcuno che lo interpreti come tale) e che lo stesso Peirce, ad esempio in Of Reasoning in General, in Id., Short Logic, I, 1895 (in Signorini 2009, p. 151-155), ha parlato di indice, icona e simbolo, come rappresentazioni, cioè come azioni (che ci riguardano) e non come proprietà di entità che ci sono esterne. Resta però a mio avviso indispensabile provarsi a definire le caratteristiche distintive della Fotografia per riuscire a comprendere le diverse strategie  – storicamente determinate – che la riguardano.

[24] Charles S. Peirce, On Existential Graphs, 1903 ca, in Signorini 2009, pp. 174-177.

[25] 1895: “Una fotografia è un’icona” ; 1896: “L’icona, che è la fotografia della quale l’indice costituisce la legenda (…)”. Salvo diversa indicazione le citazioni sono tratte da Signorini 2009, pp. 210-215.

[26] Vedi nota 24.

[27] Alfred Liégard,  Le document et l’Art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

[28] Citato in Walter Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, “Die literarische Welt”, 1931,  (trad. it. Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp.59-79: 75)

[29] Lazlo Moholy-Nagy, in Lugon 2001, p. 70. Le Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo italiano nel 1918 mostravano invece di temere la deriva ‘artistica’ dei loro operatori, tanto da imporre che non si dovesse tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cfr. Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp.9-20 (16). È appena il caso di ricordare qui le posizioni di Giuseppe Pagano, di Carlo Mollino e ancor prima di Boggeri che, nel generoso tentativo di trapiantare in Italia i canoni della nuova visione tra costruttivismo e Bauhaus  indicava “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari.”,  Antonio Boggeri, Commento, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[30] Alberto Rossi, Fotografia come arte, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII (XIV).

[31] Walker Evans, 1971, qui ripreso da Lugon 2001, p. 19, che ha opportunamente definito la “neutralità documentaria” nulla più che un’apparenza. Anche per un interprete raffinato come Ghirri “Tutto all’interno delle sue fotografie sembra naturale.”, Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, in “Gran Bazaar”, n. 46, ottobre-novembre 1985, pp. 18-19, ora in Id., Niente di antico sotto il sole: Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte. Torino: Società Editrice Internazionale, 1997, pp.70-71, sottolineatura dell’autore; notazione tanto affascinante quanto problematica, dove “naturale” credo debba essere inteso nella doppia accezione di realizzato con naturalezza, ma anche – e insieme – di trasparenza, elemento da cui emergono le cose per quello che sono. O, almeno, “sembra”.

[32] Lewis Baltz, The New West by Robert Adams,  “Art in America”, 63 (1975), n. 2, March-April, p.41, in De Chassey 2006, p.152.

[33] Lewis Baltz, I want my work to be neutral and free from aesthetic or ideological posturing, in Carol Di Grappa, ed., Ladscape Theory. New York: Lustrum Press, 1980, p.26, in De Chassey 2006, p.153. Il riferimento esplicito è W. Evans, 1971 (vedi nota 5), che a sua volta si rifaceva a Flaubert (“L’assenza dell’autore, la non soggettività”), ma queste affermazioni hanno il sapore di una regressione. In Evans c’era la consapevolezza che si trattasse di uno ‘stile’ mentre Baltz, nonostante le buone intenzioni programmatiche, è proprio di un’ideologia che si appropria, quella mitica della neutralità oggettiva, della fotografia trasparente; mostra cioè di volersi ritrarre come autore proprio nel momento in cui definisce più precisamente il proprio ruolo, la sua presenza. Se proviamo a definire semioticamente lo stile documentario come quel modo di connotare le immagini in cui appare una corrispondenza massima tra indice e icona, tra registrazione e raffigurazione, con una rilevanza sostanzialmente nulla – in termini costitutivi – della componente simbolica, ne deriva che in questo dovrebbe essere il dispositivo a prevalere sull’autore, la componente materiale a vincolare quella culturale, ma allora: lo stile documentario non può esistere in sé, proprio in quanto scelta d’autore. Dove c’è volontà d’autore non può esservi stile documentario, ma può esserci – c’è – documento, poiché l’immagine risultante non può prescindere dalla messa in ordine della visione imposta e concessa dall’apparato fotografico, dalla sintassi propria della fotografia in quanto immagine ottica. Analogamente, il fatto che la fotografia sia (anche) indice non la riduce per ciò stesso a essere trasparente, oggettiva, a-narrativa. Semmai è proprio nella tensione tra queste polarità che risiedono tutte le sue potenzialità. Anche dal punto di vista ottico lo “stile documentario” è l’esempio massimo di convenzione, di finzione che si mostra autentica e come naturale: basti ricordare come il cono visivo che penetra il corpo della macchina venga ridotto sul piano a una innaturale per quanto ragionevole figura angolare, imponendo che una parte dell’immagine si riversi su superfici insensibili. Un furto, una perdita irreparabile della quale neppure ci rendiamo conto, ingenuamente certi che tutto accada entro i rassicuranti margini della ‘inquadratura’. Il cerchio è la forma dell’immagine pura. La sola che noi conosciamo (inconsapevoli), riversa al fondo del nostro occhio. È la figura primaria corrispondente alla formazione ottica di ogni immagine: analogamente a quanto accade nella proiezione retinica, non esiste figura rettangolare che racchiuda l’immagine proiettata da un sistema ottico. Dal foro stenopeico a qualsivoglia sistema di lenti, l’area della proiezione è sempre circolare: solo le convenzioni storico culturali e alcune difficoltà tecnologiche (quindi culturali anch’esse, ovvio) hanno fatto sì che anche la fotografia fosse comunemente racchiusa tra quattro angoli retti.

[34] Lugon 2001, p. 156. Per quanto risaputo, credo sia necessario ribadire che questa condizione costituisce la base di tutta la fotografia nominalmente documentaria (giudiziaria, scientifica e simili), nella quale la scelta non si opera per ragioni di stile ma normative: “Abbiamo trattato le nostre macchine fotografiche come strumenti di registrazione e non come apparecchiature per illustrare le nostre tesi” ha detto Gregory Bateson, a proposito del lavoro fatto con Margaret Mead a Bali (circa 25.000 scatti), cfr. Elizabeth Edwards,  Antropologia, in Robin Lenman, ed., Oxford Companion to the Photograph. New York: Oxford University Press, 2005 (edizione italiana a cura di Gabriele D’Autilia, Dizionario della fotografia. Torino: Einaudi, 2008, I, pp. 31-34: 32).  In questi ambiti la fotografia è intesa e utilizzata quale strumentazione scientifica in grado di fornire dati misurabili. All’indagine storico critica il compito di comprendere le ragioni per cui l’indicalità fotografica costituisca un dato positivamente acquisito in ambito scientifico e contemporaneamente negato in ambito espressivo e artistico, pur facendo ricorso alla stessa tecnologia. Non sono quindi i suoi principi a essere posti in discussione, ma gli usi e i canoni. Basti pensare alla diversa qualificazione del ruolo dell’autore, a cui nella fotografia documentaria non è dato di scegliere (meno che mai di ritrarsi), mentre nella fotografia ‘artistica’ questo comportamento si dà come alternativa possibile, scelta stilistica che ne ribadisce il ruolo e la presenza in absentia. Autorialità e crisi documentaria: se per la cultura delle origini della fotografia la sua fedeltà al vero si fondava sul prevalere della ‘natura’ sull’uomo, fu l’affermarsi della fotografia come immagine e l’inscindibile affermazione della figura dell’Autore a mettere in discussione e in crisi la (concezione della) fotografia come documento, sebbene nel solo ambito ristretto della fotografia ‘artistica’. Nessun tecnico di laboratorio, nessun operatore dei grandi studi internazionali attivi nel campo delle riproduzioni d’arte, della fotografia industriale e simili ha mai messo in dubbio questa accezione, prodigandosi semmai per individuare e adottare le migliori soluzioni tecniche e tecnologiche necessarie a che il compito potesse essere svolto nel migliore dei modi. Più interessante risulta oggi il riconoscere una valenza etica “nel ricorso a forme di immagini che propongono un concentrato di umiltà, di distanza riflessa e di audacia a privilegiare una forma ornata di virtù di fondo. Il documento è una risposta al mondo delle immagini sul terreno stesso delle immagini, forse il solo mezzo per opporsi al regno assoluto dello spettacolo. (…) è quindi un’utopia (…) il documento incarnerebbe così ‘l’ultima immagine’. L’ultima immagine possibile dopo le disillusioni e i dogmatismi (…) un’esperienza limite che contiene la promessa di una rivoluzione. (…) La potenza speculativa del documento risplende al giorno d’oggi come la sintesi improbabile di rappresentazione e informazione.”, Michel Poivert, La photographie contemporaine. Paris: Flammarion, 2002, p.140.

[35] In ambito fotografico, per fototipo si intende un’immagine positiva o negativa visibile e stabile ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.

[36] Si pensi alla riproduzione Alinari del dipinto di Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane, 1505, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze: un caso esemplare di documento fotografico se mai ve ne fu uno. Il confronto con l’opera di Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, fotografia su tela emulsionata, 30×24, da Ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dall’osservatore di questo quadro, 1967, spalanca però all’improvviso l’abisso del contesto: le due immagini – identiche (specie in una qualsiasi versione a stampa) – sono portatrici di informazioni per la gran parte radicalmente diverse, pur condividendo lo stesso contenuto referenziale, corrispondente al dipinto di Lotto, alle sue condizioni di esistenza in un momento dato e al livello tecnologico della riproduzione monocroma di un dipinto.

Un’eco della suggestione concettuale dell’opera di Paolini risuona anche nell’incipit de La camera chiara: “in quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: ‘Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore’.”,  Barthes 1980, p. 5.

[37] Per questa ragione non potrei essere più lontano dalle posizioni di chi sostiene che “non sono i segni – e a maggior ragione le loro tipologie – a interessarci; sono le forme significanti, i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia, come di ogni immagine o di ogni testo, un oggetto di senso”, come se le due posizioni fossero antitetiche e inconciliabili. Soprattutto mi pare infondato sostenere che “il voler a ogni costo definire lo specifico della Fotografia impedisce di lavorare sulle fotografie e nega ogni possibilità, ogni probabilità, di smentire il suo a priori. Parlare di Fotografia, come di Pubblicità, significa accettare il taglio socio-culturale, dunque relativo e storico, dei linguaggi e dei mezzi di espressione. Cercare la loro specificità significa, tutt’al più, esplicitare un sistema connotativo.”, Jean-Marie Floch, Les formes de l’empreinte. Périgueux: Fanlac,  1986 (edizione italiana a cura e con traduzione di Luisa Scalabroni,  Forme dell’impronta. Roma: Meltemi, 2003) pp. 8-9. In parte diverse sono le ragioni di dissenso nei confronti delle riflessioni di John Tagg, sebbene complessivamente più stimolanti e articolate. “Il medium della fotografia non era dato e uniforme. Costituiva sempre un esito localizzato, l’effetto di una particolare delimitazione del campo discorsivo, la funzione di uno specifico apparato o macchina, nel senso in cui Foucault ha utilizzato questi termini. Il medium doveva essere costituito e venne definito in maniera molteplice. (…) Il medium non è qualcosa di semplicemente dato. Deve essere costituito, e deve essere istituito. E non è istituito uniformemente e omogeneamente, ma, piuttosto, in modo discontinuo, localizzato ed eterogeneo, quale proprietà di particolari strutture istituzionali e quale effetto di  specifiche delimitazioni del campo discorsivo.”, Tagg  2009, p. XXVIII, p. 15. Il riferimento, condiviso con Batchen, alla lezione magistrale di Foucault, il quale si proponeva di definire gli oggetti senza far riferimento al loro fondamento, ma mettendoli in relazione con il corpus di regole che consente loro di formarsi come oggetti di un discorso e porre così le condizioni per la loro comparsa storica, è prezioso, ma mi pare che proprio la possibilità del medium fotografico di costituirsi localmente in contesti e modi diversi non possa che essere fondata (e storicamente data) su quello che a suo tempo Barthes ha individuato quale noema della Fotografia. Voler negare questo dato sarebbe come dire che non riconosco legittimità o rilevanza ai principi della termodinamica perché il mio ambito di studio sono le funzioni storiche e sociali delle ferrovie. Non credo sia possibile comprendere dal punto di vista storico culturale “i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia un oggetto di senso” senza interrogarsi, e capire, cosa sia la Fotografia, perché solo a questa condizione sono in grado di identificare geneticamente le ragioni e i modi del suo essere nella storia e nella cultura, nella cultura storica.

[38] “Talvolta vengo definito un ‘fotografo documentario’ – proseguiva Evans – ma questo presuppone la consapevolezza della sottile differenza che ho appena enunciato, che è piuttosto nuova. Si può agire in base a questa definizione e ricavare un piacere maligno dall’invertire i termini. Spesso faccio una delle due cose mentre si crede che stia facendo l’altra”, in Katz 1971, p. 87. Alla luce di queste dichiarazioni risulta criticamente infondato, per non dire gratuito, l’accanirsi nel verificare lo stato attuale dei luoghi a suo tempo ripresi da Evans. Più appropriata e fruttuosa ci pare la sua definizione, di poco precedente, dell’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p.301. In termini più complessi un analogo concetto è stato sviluppato da Flusser, che ha definito l’immagine tecnica quale apparato destinato a produrre simboli, e di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti.”, Flusser 1987, p.  31. Anche l’interpretazione antropologica, sintetizzando una lunga serie di riflessioni, ha riconosciuto come “rispetto all’ideologia (…) la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”, Francesco Faeta, Wilhelm von Von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Mi pare invece appropriata la qualificazione di stile documentario per molte produzioni artistiche di area concettuale, in particolare per quelle in cui entra in gioco l’elemento di archivio o la classificazione tipologica, come in Christian Boltanski e nei coniugi Becher, ma anche per le Esposizioni in tempo reale di Vaccari, nelle quali si ritrova, pur nelle diverse forme e intenzioni espressive, una evidente coerenza tra ‘stile’  (qui ‘documentario’) e intenzioni progettuali e discorsive.

[39] Da una lettera di Farham Maxwell Lyte al “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, in Bernard Marbot, Des ciels dans les paysages photographiques, dossier della mostra Quand passent les nuages ( Paris, Bibliothèque nationale, 1988), consultabile all’indirizzo  http://expositions.bnf.fr/legray/reperes/nuages/index.htm   (11-05-2011). L’esempio più noto di questa pratica è certo la Vallée de l’Huisne  (River Scene, France) che  Camille Silvy espose al Salon parigino del 1859, cfr. Mark Haworth-Booth, Camille Silvy: River Scene, France. Los Angeles: Getty Museum Studies on Art, 1993; Id., Camille Silvy: Photographer of Modern Life 1834-1910. Los Angeles: Getty Trust Publications, 2010.

[40] Piazzetta della chiesa con muli, 1890, stampa all’albumina con fotomontaggio, ritocchi e annotazioni, prova di stampa per Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890, t.36, Biella, Fondazione Sella.  Questa fotografia è stata pubblicata anche da Piergiorgio Dragone, La fotografia di Vittorio Sella, in Id., Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, p. 275. Per altri fotomontaggi di Sella vedi Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982. Sulla figura di Vallino rimando a P. Cavanna Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995),n.122, pp. 124-127. Analoghe pratiche di verosimiglianza segnarono anche molta fotografia modernista, come fu ad esempio per Cesare Giulio, cfr. Sul limite dell’ombra. Cesare Giulio fotografo, (Torino, Museo nazionale della Montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2007. Anche la fotografia etnografica propriamente detta, dietro e oltre una metodologia connotata da precise intenzioni documentarie lascia emergere pratiche meno lineari, che non escludono il ricorso all’artificio, quale ad esempio la ricostruzione della scena fotografata; cfr. Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: uno sguardo antropologico. Milano: Mazzotta, 2006 e, per l’analisi di un caso specifico, P. Cavanna, Di un viaggio in Italia, passando per il Piemonte, in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932, II. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp. 319-331.

[41] Basso Fossali 2008, p. 15. Un’efficace testimonianza di quanto possa essere osmotico (quindi problematico e attraente) il confine che delimita l’area del documento fotografico è costituita da questa dichiarazione di Jeff Wall a proposito di Man with a Rifle, 2000, frutto della sintesi digitale di dieci distinte riprese: “Penso sia evidente che tutte le parti  assemblate per realizzare Man with a Rifle sono esempi di fotografia diretta [straight photography]; eccetto la performance dello sparatore (…) la maggior parte sono fotografie documentarie. (…) è anche importante notare che la cosiddetta ‘azione drammatica’ nell’immagine è una ricostruzione il più possibile precisa di un istante che accadde in strada, nella quotidianità. È parte della quotidianità, non è inventata.”, cfr.  Friederich Tietjen, Interview with Jeff Wall, “Camera Austria”, 24 (2003), n. 82, pp. 6-18.

[42] Vedi nota 24. La questione dell’atto culturale del riconoscimento non é però così semplice né così scontata. Sono note non poche esperienze etnografiche e antropologiche in cui l’immagine fotografica risulta priva di valore indicale poiché non viene neppure riconosciuta come icona (cfr. Vittorio Lanternari, Sensi, in “Enciclopedia”, v. 12. Torino: Einaudi, 1981, pp. 730-765). Questo fatto ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, mentre d’altro canto alcune ricerche di neuropsichiatria infantile hanno dimostrato che “il bambino dal terzo mese in poi non solo è in grado di riconoscere la madre tra le altre persone quando essa è presente, ma la riconosce anche in fotografia.”, Maria E. Barrera, Daphne Maurer, Recognition of mother’s photographed face by the three-month-old infant, “Child Development”, 52 (1981), n. 2, giugno, pp. 714-716, citato in Nicola Peluffo, Immagine e fotografia. Roma: Borla, 1984, p.13, nota 3. Altrettanto significativi i casi in cui la decifrazione dell’immagine fotografica, cioè il riconoscimento del suo contenuto indicale è reso problematico da ragioni percettive, di percezione della forma in particolare. Quando l’icona gioca con le nostre convenzioni rappresentative, improvvisamente risulta difficile stabilire di cosa, di quale referente quell’immagine sia indice e traccia. Si veda, a puro titolo di affascinante esempio la sequenza di Duane Michals, Things Are Qeer (Le cose sono strane), 1973 (cfr. Jonathan Weinberg, Things are Queer, “Art Journal”, 55 (1996), dicembre  , ora consultabile all’indirizzo  https://www.academia.edu/10840375/Things_are_Queer  – 22 12 2022). La questione resta quindi per molti versi ancora aperta, ma il fatto che in un determinato contesto o in certe condizioni di ricezione il riconoscimento divenga problematico sino a far perdere lo specifico statuto di segno non mi pare che possa di per sé inficiarne la primaria natura indicale. Non è la mancata comprensione da parte di un particolare interprete a stabilire la specificità del segno. Più difficile valutare le conseguenze in termini di analisi culturale del precoce riconoscimento infantile della raffigurazione fotografica come analogo del reale, a meno di sottolineare come questo prendesse corpo – letteralmente – nella figura della madre, come suggerisce anche l’episodio descritto dall’antropologo Melville Herskövits riportato da Allan Sekula, On the Invention of Photographic Meaning,  “Art Forum”, 13 (1975), n. 5, gennaio, pp. 36-46, ora in Victor Burgin, ed., Thinking Photography.  London: Macmillan, 1982. Anche le riflessioni ultime che Barthes ha dedicato alla fotografia ne La camera chiara si sono dipanate dal groviglio del rapporto proustiano con la madre.

[43] Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire. Du dispositif photographique. Paris: éditions du Seuil, 1987, p. 111, (edizione italiana a cura e con traduzione di Marco Andreani, Roberto Signorini, L’immagine precaria: Sul dispositivo fotografico. Bologna: CLUEB, 2006). La funzione necessaria del riconoscimento è stata ribadita in termini più generali anche da Ricoeur, per il quale “la traccia lasciata è anch’essa un’impronta offerta alla decifrazione. Tuttavia, così come è necessario sapere – un sapere anteriore ed esterno – che qualcuno ha coniato la cera con il sigillo, è necessario sapere che un animale è passato di là, addirittura saper distinguere la traccia di un cinghiale da quella di un capriolo. Così l’enigma dell’impronta si ripete in quello della traccia; è necessario un sapere teorico preliminare riguardo le abitudini di chi ha lasciato la traccia, e un sapere pratico riguardo l’arte della decifrazione della traccia, che, solo allora, funge da effetto-segno del passaggio che ha lasciato la traccia.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, pp.12-14. Pur senza addentrarci qui in una problematica tanto affascinante quanto complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia.  In questo orizzonte risulta particolarmente stimolante e produttiva la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[44] Schaeffer 1987, p. 111. Queste posizioni sono state polemicamente contestate da André Rouillé: “Di fatto, se c’è del vero in una fotografia – documento, non è in ragione di una corrispondenza, e neppure di un adeguamento alle cose. La porzione di verità che può essere accreditata all’immagine risiede meno nella sua somiglianza con le cose che nel contatto che stabilisce con quelle. Si tratta di una modalità nuova della verità: una verità per contatto invece che per somiglianza.  In termini peirciani, la verità fotografica è più indicale (indiciaire) che iconica. L’impronta prevale sulla mimesi. O, piuttosto, la mimesi descrive mentre l’impronta attesta. È precisamente questa dialettica tra descrizione (ottica) e attestazione (chimica) che costituisce la forza della fotografia, e non la sua precarietà come crede  Jean-Marie Schaeffer nella sua opera L’Image précaire. Du dispositif photographique.”, Rouillé 2005, p. 118, che non ha però voluto tenere nel debito conto il fatto che il processo ricettivo stabilito da Schaeffer accoglie in pieno la concezione indicale di Peirce.

[45] Ricoeur 2004, p.19.

[46] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[47] Batchen 2002, pp. viii-ix.

[48] Ivi, p. 106.

[49] Vedi nota 24.

[50] Michel Foucault, L’Archeologie du savoir. Paris: Gallimard, 1969, p. 15.

[51] Jacques Le Goff, Documento/Monumento,  in “Enciclopedia”, v. 5, 1978, pp.38-48, ora in  Id., Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp.443-456. È interessante e utile accostare queste considerazioni a quelle espresse circa gli stessi anni da Barthes a proposito della fotografia, che “essendo per natura tendenziosa (…) può mentire sul senso della cosa, ma mai sulla sua esistenza.” (Barthes 1980, p. 87) In un ambito più circoscritto, anche Schaeffer 1987, p. 158, ha notato come “l’arte fotografica in quanto istituzione museale, sembra oscillare in permanenza tra il documento e il monumento.”

[52] Paolo Fossati, Appunti sull’autore e sul suo libro, in Angelo Schwarz, La fotografia tra comunicazione e mistificazione. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1980, p. 12. La posizione espressa da Fossati rispecchia quella di un altro intellettuale, anch’egli torinese ed einaudiano, come Giulio Bollati che nell’aprire gli Annali della “Storia d’Italia” dedicati alla fotografia dichiarava programmaticamente di voler situare quel libro “in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”, Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Bertelli, Bollati 1979, pp. 3-55 (5).

[53] Per queste ragioni risulta indispensabile riflettere anche sulla “questione dell’unità di misura basilare della fotografia, che storici e commentatori hanno comunemente inteso essere la singola immagine, come se la storia della fotografia fosse una storia della pittura in miniatura.”, Ian Jeffrey, Photography. A concise History. London: Thames and Hudson, 1981, p. 7.

[54] Philippe Dubois, L’acte Photographique. Bruxelles: Éditions Labor, 1983, (edizione italiana a cura di Bernardo Valli, L’atto fotografico, Urbino, Edizioni Quattro Venti, 1996, p. 53).

[55] Krzysztof Pomian, Histoire culturelle, histoire des sémiophores, in Jean-Pierre Rioux, Jean-François Sirinelli, dir., Pour une histoire culturelle.  Paris: Seuil, 1996, pp. 73-100 (trad. it., Storia culturale, storia dei semiofori, in Pomian, Che cos’è la storia. Milano: Bruno Mondadori, 2001, pp.129-155), che sintetizza la riflessione ventennale dell’autore intorno a questa categoria di “oggetti che non hanno utilità” ma sono “dotati di significato” in quanto “partecipano allo scambio che unisce il mondo visibile a quello invisibile”, in accezione non necessariamente metafisica, cfr. K. Pomian, Collezione, in “Enciclopedia”, v. 3. Torino: Einaudi, 1978, pp. 330-364.