Il miele e l’argento: storie di storia della fotografia in Italia (2020)
Melfi: Libria, 2020
http://www.librianet.it/
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Sommario
01 – Introduzione
01.1 – Avvertenze – Acronimi
02 – Dal 1839
02.1 – 1839 e oltre
02.2 – Intorno al 1939: Lamberto Vitali e l’antica fotografia
02.3 – 1949-1950 Carlo Mollino e il Messaggio dalla camera oscura
02.4 – Silvio Negro e la fotografia a Roma
02.5 – Ancora Lamberto Vitali
03 – 1967-1978
03.1 – Il posto dell’Italia nelle storie generali
03.2 – Dizionari ed enciclopedie
03.3 – Storie italiane: Archivi, fondi, raccolte
03.4 – Carlo Bertelli, “Popular Photography” e la fotografia storica
03.5 – Piero Becchetti e le prime ricognizioni
a scala locale e territoriale
03.6 – Le prime monografie
03.7 – Arte e fotografia: contatti
03.8 – Fotografia e ideologia
03.9 – “La storia, il collezionismo, i maestri, le tecniche,
i mercanti, i capolavori, i prezzi”
04 – Intorno al 1979
04.1 – Grandi mostre
04.2 – La fotografia come bene culturale
04.3 – Gli Annali della Storia d’Italia Einaudi
04.3.1 – La progettazione
04.3.2 – Struttura e contenuti
04.3.3 – La ricezione dell’opera e la questione
della fotografia come fonte
05 – 1980-1988
05.1 – L’Italia nelle storie generali / Alcuni modelli storiografici
05.2 – Quale storia della fotografia
05.3 – Prime riflessioni sulla fotografia come fonte per la storia
05.4 – Storie italiane
05.5 – A proposito di cultura fotografica
05.5.1 – La “Rivista di storia e critica della fotografia”
05.5.2 – “ Fotologia”
05.5.3 – “AFT”
05.6 – La fotografia e le arti: studi sul Novecento
05.7 – Indagini a scala territoriale
05.7.1 – Valle d’Aosta
05.7.2 – Piemonte
05.7.3 – Liguria
05.7.4 – Lombardia
05.7.5 – Veneto
05.7.6 – Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige
05.7.7 – Emilia Romagna
05.7.8 – Umbria e Lazio
05.7.9 – Campania e Calabria
05.8 – Monografie
05.9 – La Storia della fotografia italiana di Zannier
06 – Intorno al 1989
06.1 – Alcune indagini a scala locale e la questione dei generi
06.2 – Monografie
06.3 – Verso la catalogazione
07 – 1990 -2003
07.1 – Nuove storie della fotografia
07.2 – Percorsi trasversali e storie settoriali
07.3 – Elementi di storia della fotografia italiana
07.3.1 – In generale
07.3.2 – Intorno al dagherrotipo
07.3.3 – Lo spazio discorsivo della stereoscopia
07.3.4 – Società fotografiche ed editoria periodica
07.3.5 – Studi settoriali
07.3.6 – Una geografia degli studi
07.3.6.1 – Torino e il Piemonte
07.3.6.2 – Milano e la Lombardia
07.3.6.3 – Bologna
07.3.6.4 – Roma
07.3.6.5 – Al Sud
07.3.7 – Una nuova rivista
07.3.8 – Monografie
07.3.8.1 – Protagonisti della calotipia in Italia
07.3.8.2 – Alcuni modelli storiografici per l’età del collodio
07.3.8.3 – Alinari 150
07.3.8.4 – Regolari e irregolari del Novecento
07.3.9 – Archivi: storie e catalogazioni
07.3.9.1 – Storie di archivi
07.3.9.2 – Manuali e norme di catalogazione
07.4 – Storie e fotografie
07.4.1 – La breve stagione delle Storie fotografiche dell’Italia
07.4.2 – La guerra serve a fare fotografie
07.4.3 – Fotografia e industria
07.4.4 – “Il contadino fotografato”
07.5 – Fotografia come fonte / Fotografie come fonti
08 – 2004-2015
08.1 – Nuova storiografia e nuove storie generali
08.2 – Raccontare storie italiane
08.2.1 – L’eredità di Giulio Bollati:
fotografia, identità nazionale e modernità
08.2.2 – Convergenze parallele
08.2.2.1 – La lista di discussione s-fotografie
08.2.2.2 – La Società Italiana per lo Studio della Fotografia
08.2.3 – Archivi e raccolte:
verso il censimento dei patrimonio fotografico
08.2.4 – Storia e fotografie
08.2.4.1 – Archivi, fonti, dispositivi e oggetti sociali
08.2.4.2 – Turn! Turn! Turn!: da singolare a plurale
08.2.4.3 – Fotografie nella rete
08.2.5 – Studi settoriali
08.2.5.1 – Fotografia e scienze dell’uomo
08.2.5.2 – Arte, Storia dell’arte e fotografia
08.2.5.2.1 - Storie di storici dell’arte 08.2.5.2.2 - Biografie fotografiche: alcuni casi di studio 08.2.5.2.3 - Storia dell’arte, editoria, fotografia 08.2.5.2.4 - Produzione artistica e fotografia 08.2.5.2.5 - Fotografia e pratica artistica: Accademie, atelier, archivi
08.2.5.3 – Storia dell’architettura e fotografia
08.2.5.4 – Storia dell’archeologia e fotografia
08.2.5.5 – Letteratura e fotografia
08.2.5.6 – Immagini dai conflitti
08.2.5.6.1 - Temi e problemi risorgimentali 08.2.5.6.2 - Fotografie delle guerre 08.2.5.6.3 - Fotografie di protezioni antibelliche
08.2.5.7 – Fotografie e storie del lavoro e dell’industria
08.2.5.8 – Indagini a scala territoriale
08.2.5.8.1 - Territori, archivi, repertori 08.2.5.8.2 - Immagini dei luoghi 08.2.5.8.3- Immagini e identità: sguardi interni/ sguardi esterni
08.2.5.9 – Storie locali
08.2.5.9.1 - Storie illustrate 08.2.5.9.2 -Storie illustrate con fondi fotografici locali 08.2.5.9.3 -Storie della fotografia locale 08.2.5.9.4 -Immagini, mutazioni e catastrofi
08.2.5.10 –Monografie
08.2.5.10.1 -Gli evergreen 08.2.5.10.2 -Di alcune storie veneziane 08.2.5.10.3 -Oriente e orientalismi 08.2.5.10.4 -Cataloghi virtuali/ repertori virtuosi 08.2.5.10.5 -Intorno alla pratica del ritratto 08.2.5.10.6 -Di alcuni studi fotografici 08.2.5.10.7 -Fotografia amatoriale 08.2.5.10.8 -La scena torinese 08.2.5.10.9 -Figure di passaggio
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Introduzione
“Ma la perizia si accresce ereditando: e anche in senso limitativo,
ereditando la cognizione dell’errore.”
Carlo Emilio Gadda, 1939
Questo lavoro nasce da un incontro e da un incrocio. L’incontro è stato quello con Giovanni Fanelli, che ci ha portati in più occasioni a confrontarci sui modi e le ragioni del fare storia della fotografia; sul lavoro nostro e degli altri partendo da una medesima spinta a comprendere ma da posizioni non di rado diverse. Queste occasioni di confronto si sono poi incrociate con qualcosa di per me inatteso; qualcosa che certo viveva da qualche parte ma non aveva sino ad allora preso forma né nome ed era l’attrazione (e il fascino) per la riflessione storiografica. Qualcosa che poco alla volta, e ciononostante improvvisamente, mi chiariva le ragioni per cui nei miei scaffali e tra i miei libri si fossero accumulate negli anni così tante storie della fotografia: quelle generali intendo; quelle che narrano vicende a volte molto simili, magari coincidenti, in modi tra loro anche molto diversi. Quelle, appunto, che hanno perduto (per me) quasi ogni funzione informativa; che mi attraggono per le questioni che pongono le loro differenti impostazioni storiografiche e connotazioni narrative.
Il riferimento non narcisistico a sé vale anche e forse soprattutto per chiarire i limiti di questo lavoro, in cui l’accento autobiografico sottende anche (ma è una questione almeno generazionale) una formazione ancora sostanzialmente autodidattica. Così mi auguro che si possano comprendere se non proprio scusare le insufficienti conoscenze che possono emergere, che derivano anche da una forzata autarchia nell’accesso ai testi e ai documenti, reperibili sempre con difficoltà in un contesto in cui scarseggiano istituzioni dedicate alla fotografia e alla sua storia, così come mancano biblioteche specializzate. Quindi non solo nell’approntare il repertorio bibliografico ma specialmente nelle segnalazioni e nelle scelte si sono privilegiati quei testi che ebbero almeno il riconoscimento di una recensione, una buona o discreta circolazione, qui verificata sulla base della loro presenza in biblioteche pubbliche desunta da OPAC SBN, e naturalmente dalle citazioni nella letteratura specialistica. Questa condizione di difficoltà, infine, ha di necessità accentuato il ricorso alla rete come canale di accesso indiretto alle fonti bibliografiche, specie di quelle che per cronologia, occasione o sede di pubblicazione hanno goduto di minore circolazione materiale. Ciò che invece non ho incontrato, ma certo l’indagine non è stata sistematica, sono state produzioni significative di un fare storia della fotografia al tempo di internet, poiché pare che anche nei casi migliori e più precisamente orientati non si riesca ancora a sfruttare appieno tutte le potenzialità del nuovo medium e a mettere a punto strutture narrative innovative e paradigmaticamente diverse dai modelli cartacei.
In queste condizioni si sono sviluppati e hanno progressivamente preso forma (una forma in progress, mai chiusa) il testo che segue e la bibliografia che lo accompagna, cresciuti anche sotto lo stimolo rappresentato dal crescente interesse internazionale per la storiografia fotografica; un interesse che rappresenta uno dei frutti più succosi della svolta culturalista. Contrariamente a quanto avviene per le discipline artistiche, non esiste infatti una tradizione di studi che abbia affrontato sistematicamente l’analisi delle storie di storia della fotografia e non è certo un caso che il primo manifestarsi di interesse per il tema abbia corrisposto alla messa in discussione dei modelli storiografici novecenteschi e alla stessa ridefinizione del fare storia innescata dalla tecnologia digitale, a sua volta origine di una radicale ridefinizione del concetto stesso di fotografia. E allora il tentativo di delineare una possibile storia della storiografia italiana ha avuto per me anche lo scopo di raccogliere elementi e offrire l’occasione per riflettere sui criteri, sul senso, i significati e i modi dello scrivere possibili storie della fotografia oggi, in presenza di uno scenario tecnologico radicalmente mutato; di fronte alla marginalizzazione -almeno in termini tecnologici -dello stesso oggetto di studio della storiografia qui considerata.
Dati questi elementi il gioco risultava irrimediabilmente avviato
È solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento che gli studiosi hanno incominciato a interrogarsi sistematicamente su cosa si dovesse intendere per Storia della fotografia e sulla necessità di riscriverla. La domanda si è poi fatta sempre più impellente a partire dal decennio successivo, specie in occasione delle celebrazioni del centocinquantenario, né ha cessato di essere riformulata sino ad oggi, assumendo di volta in volta posizioni e attese le più diverse, segnate da preoccupazioni di tipo teorico che sono giunte a considerare il fare storia della fotografia come possibile paradigma del lavoro storico tout court, ovvero hanno proposto nuovi approcci settoriali che ne hanno indagato e posto in questione la stessa identità disciplinare, proponendosi di volta in volta di intendere la storia della fotografia come “storia di una abiezione” o -all’opposto – come “storia di attese” successive Una storia che ha preso corpo in oggetti materiali “storicamente formati” coinvolti in una serie quasi infinita di pratiche, strategie e modalità di circolazione, ricezione e sedimentazione delle informazioni che li costituiscono. Lo studio di questa variegata produzione consente per intanto una prima considerazione: che le storie della fotografia (al singolare) dovrebbero essere (e raramente sono) storie dell’idea e delle teorie intorno alla fotografia, attente alle componenti concettuali e alle loro mutazioni storiche e culturali, distinguendosi così da quelle che chiameremmo piuttosto storie delle fotografie (ma comunemente dette della) che contemplano e contengono in sé in modi di volta in volta diversi, ponendole in relazione tra loro, le istanze concettuali, teoriche, estetiche con le pratiche e le opere che da quelle sono derivate, verificandone quindi il loro agire sociale e culturale storicamente dato in aree geografiche di diversa estensione. Non dissimili dal punto di vista strutturale ma circoscritte tematicamente sono poi le storie settoriali (della fotografia di architettura, di montagna o di quella pornografica, ad esempio) mentre negli ultimi decenni si sono sviluppati specifici settori di studio con più forti implicazioni teoriche e metodologiche nei quali si considerano i rapporti storicamente significativi della fotografia con altri ambiti e discipline quali la storia dell’arte, quella della psichiatria ma anche (e forse prima di altre) dell’etnografia, sulla base dell’acquisita consapevolezza di quanto la fotografia abbia influito storicamente sulle costellazioni metodologiche di quelle discipline; con arricchimenti reciproci che in più di un caso hanno inciso in modo significativo sulla storiografia fotografica. Infine non possiamo dimenticare, anche solo per un cenno, le ‘storie con’: trattazioni di diverso argomento e livello qualitativo e scientifico in cui il ricorso alla documentazione fotografica storica presenta forme d’uso estremamente variabili: dal mero utilizzo illustrativo e commemorativo, rischiosamente referenziale, alla rigorosa critica ed edizione delle fonti utilizzate, ciò che implica una consapevolezza delle culture fotografiche che le hanno prodotte.
Quale limite cronologico per l’argomento degli studi considerati è stato adottato il 1945, nella convinzione che il discrimine costituito dalla Seconda guerra mondiale sia stato di portata epocale anche in ambito fotografico sia a livello internazionale che in Italia, dove è col secondo dopoguerra che ha inizio la nostra contemporaneità. L’intenzione di ripercorrere le vicende della storiografia che ha eletto a proprio oggetto di studio il periodo compreso tra le origini della pratica fotografica in Italia e il 1945 si è da subito dovuta confrontare con un aspetto che rendeva problematico e discutibile quello stesso intento, poiché non si poteva non constatare come questa produzione nascesse e si fosse sviluppata in un più generale contesto di formazione di una cultura storica della fotografia, in un maturarsi cioè della considerazione stessa della fotografia come possibile oggetto di studio, anche storico. Un fenomeno sviluppatosi in tempi diversi ma che ha accomunato tutta la prima letteratura fotografica a livello internazionale. Per questa semplice ma fondamentale ragione è risultato indispensabile dare conto almeno dei principali di quei contributi prodotti nel nostro paese a cui (in modi diversi) possiamo riconoscere una prima attenzione (magari in nuce, magari strumentale o ingenua, ma presente) per temi di storia della fotografia, anche se non ancora rivolti allo scenario italiano. Ne è derivata la necessità di interrogarsi sulla progressiva definizione e sulle mutazioni di questa identità disciplinare, ciò che ha implicato di dar conto e riflettere su cosa si sia inteso e si intenda per “fare storia della fotografia”, verificando metodi, strumenti e modi che hanno determinato una successiva estensione di tipologie e confini; con un andamento (teorico e pratico) che mostra non poche analogie con quello di ben più ampia portata che ha riguardato la questione delle fonti per la storia in generale. Come in quella si è passati nel corso del Novecento dalla prevalenza della parola, del documento scritto, a un concetto di fonte sostanzialmente onnicomprensivo e determinato dalle scelte dello storico. Così la storia della fotografia ha impiegato circa un secolo per divenire storia di immagini e solo a partire da quel momento, tra post pittorialismo e istanze moderniste, si sono potuti sviluppare strumenti e metodi in grado di analizzare e rendere conto delle diverse e distinte dinamiche che hanno connotato funzioni e ruoli della fotografia nelle culture del proprio tempo; di studiarne quindi le dinamiche storiche proprie dei diversi contesti. Questi processi non hanno però avuto alcuna sincronicità geostorica: così in ciascuna area culturale non sono significativi solo i mutamenti di canone storiografico, da storie di tipo tecnologico (con più o meno rilevanti connotazioni nazionalistiche) ad altre di tipo iconografico (e surrettiziamente artistico) sino alle più attuali storie culturali, ma anche la loro cronologia e incidenza in relazione alla cultura dei paesi di produzione e d’influenza.
Il primo passaggio determinante, la prima svolta paradigmatica di questo accidentato percorso quasi bicentenario è stata la possibilità, favorita dal pittorialismo e fatta propria dal modernismo, di concepire una storia della fotografia come storia di fotografie, riconoscendo loro un valore autonomo, non semplicemente strumentale. Un ‘genere’ di storiografia che ha caratterizzato gran parte del Novecento, con progressivi arricchimenti e slittamenti, ancora in corso, che hanno visto solo recentemente un passaggio dall’immagine alla fotografia e alle fotografie per considerarne non solo i valori estetici e comunicativi ma anche le manifestazioni materiali, le valenze sociali e politiche delle diverse forme di sedimentazione e aggregazione. Non è allora difficile dire che oggi si può intendere la storia delle fotografia anche come storia della cultura fotografica; quella espressa dalla fotografia in tutte le sue forme di produzione e d’uso ma anche intorno alla fotografia, e delle diverse modalità con cui si è storicamente manifestata. Certo in tal senso la storiografia è una delle sue forme privilegiate, specie se possiamo intenderla in senso lato, riunendo sotto questa categoria tutte quelle produzioni e azioni che a diverso titolo e a diverso livello e intenzioni si sono rivolte al patrimonio fotografico storico: dalla ricerca al saggio e alla mostra; dalla catalogazione alla tutela.
Stabilito empiricamente l’areale d’indagine e gli elementi che ne sono compresi, si trattava di provarsi a individuare le fonti e i metodi da adottare per realizzarne una mappatura sufficientemente ampia; tale da consentire di tracciare alcuni degli elementi caratterizzanti del contesto culturale che progressivamente costituivano e del quale erano espressione più o meno compiuta.
Componente determinante di questo percorso, fonte privilegiata e oggetto storiografico a un tempo sono stati i testi a stampa nelle loro numerose varianti tipologiche (dal saggio in periodico a quello in volume, al catalogo di mostra, al volume illustrato), con una prima, inevitabile attenzione e predilezione per quei contributi che si qualificavano esplicitamente come di storia della fotografia, e senza ancora chiedermi cosa si intendesse con quella definizione. Nel raccogliere quei primi materiali, nel compilare le prime voci della bibliografia di riferimento e supporto, emergeva sempre più riconoscibile una condizione (di fatto) di storiografia come autobiografia; di un lavoro di ricostruzione e di analisi che ripercorreva (certo più sistematicamente) le tappe confuse e incerte della mia formazione: i libri letti e non letti; quelli letti male; le relazioni ascoltate e presentate ai convegni; le conversazioni a margine; le determinanti necessità di fare chiarezza per mettere a punto un ciclo di lezioni o di seminari. Ne risultava un bilancio di attenzioni e di studi che intersecava e toccava a volte molto da vicino quello personale. Un elemento, una caratteristica che ho accolto a sua volta come dato costitutivo progressivamente arricchito dalle esigenze che lo sviluppo del progetto poneva e definiva con maggiore chiarezza, prima delle quali è stata proprio la crescente necessità di considerare altri modi del fare storia della e con la fotografia che non fossero solo quelli delle pubblicazioni a stampa.
Il percorso che ne è risultato (uno dei possibili, quindi) sempre più diramato col procedere della cronologia e dell’avanzamento degli studi relativi al nostro paese, rappresenta l’esito (molto personale ma -mi auguro -non personalistico) di un processo di avvicinamento e di riconoscimento delle diverse storiografie che hanno riguardato la fotografie e le fotografie (non necessariamente in questo ordine o in perfetta sincronia). Nella tensione feconda tra autobiografia e metodo, l’intento è stato quello di considerare per primi tutti quegli autori e progetti che per opinione diffusa hanno svolto un ruolo significativo nella formazione e nelle trasformazioni della cultura italiana intorno alla storia della fotografia nel nostro paese, considerandoli quindi sotto il duplice aspetto dello specifico storiografico e della loro natura di “documento/monumento” della cultura che li ha prodotti. Non si è trattato quindi di individuare l’eventuale processo di formazione di un canone, che pure progressivamente emerge e muta, ma semmai di riconoscere indizi, aspetti ed elementi che abbiano contribuito nel tempo a definire una metodologia, consentendo di comprendere e valutare criticamente il livello di congruenza tra gli assunti (magari impliciti) e gli effettivi esiti storiografici. In molti casi si è trattato anche (e purtroppo) di sottoporre a verifica l’esistenza di un’attrezzatura conoscitiva minima, indispensabile per analizzare con cognizione di causa il sistema complesso della fotografia e delle fotografie a prescindere dai presupposti teorici e dai modelli metodologici con cui queste sono affrontate. Un set minimo di conoscenze che appare scontato possedere per qualsiasi altra disciplina ma che sembra ancora essere facoltativo se non superfluo quando si parla di storia della fotografia, dove capita ancora che qualcuno si permetta di discettare a proposito di “lastre di peltro imbevute di una soluzione di bitume”, o simili. Questa è la ragione per cui il differente spazio dedicato alle discussione delle singole produzioni (saggi, mostre) non implica necessariamente alcun giudizio di valore. Ciò che è stato considerato sono invece (e semmai) i testi e relativi sottotesti, non solo verbali. Ciò ha determinato due evidenti conseguenze: il ricorso sistematico ad ampie citazioni dirette, nella convinzione che non solo i concetti ma anche i modi e le formule con cui sono stati espressi costituiscano un elemento imprescindibile per la comprensione del dibattito e della cultura di un momento storico, e un più ampio spazio di attenzione critica a quelle opere che per la loro problematicità risultavano più discutibili.
Devo a quella frase di Carlo Emilio Gadda posta in esergo la comprensione delle ragioni profonde che hanno motivato questo lavoro, e non tanto nel senso (peraltro determinante) dell’accrescimento personale quanto piuttosto nell’intravvedere un’utile chiave di lettura storiografica da cui derivare (anche) la possibilità di riconoscere e tracciare un eventuale percorso identitario. Una genealogia nel senso più comune e pieno del termine, che potesse dar conto del successivo emergere di elementi e spunti (più metodologici che teorici, a dire il vero) dei quali riconoscere una necessità e un’efficacia attuali nell’affrontare dal punto di vista storico e storiografico la fotografia e il patrimonio di oggetti e culture che questa ha prodotto. E ancora, e nello stesso tempo, altrettanto necessariamente dare corpo al desiderio di mantenere traccia delle vicende, dei dibattiti, delle opere e insomma delle culture che in Italia si sono rivolti con intenzioni e in modi diversi
alla fotografie e alle fotografie in questo arco di tempo ormai non più breve. Questo ha voluto dire comprendere come sia stata di volta in volta intesa (sebbene non definita) la fotografia; quali siano stati gli aspetti e le caratteristiche considerate, e in quale orizzonte fossero poste. Si considerino a questo proposito le più precoci narrazioni, che nella loro impostazione prettamente tecnologica sottolineavano in particolare la ‘moltiplicabilità’ di questa nuova tipologia di immagini, guardando alla comunicazione e non all’opera, in una prospettiva che sarebbe stata ripresa e sviluppata solo a metà Novecento.
Il primo dato macroscopico che è emerso dalla questa ricostruzione è che l’Italia è arrivata tardi a produrre una storia generale della sua fotografia (Zannier 1984), poiché rari sono stati i momenti e le occasioni di formazione di una precisa cultura storica e storiografica nei decenni precedenti. Si può dire, con una schematizzazione a cui cercherò di porre rimedio nel corpo del saggio, che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento questi temi hanno goduto di una vera attenzione, che si è manifestata dapprima sotto forma di produzioni espositive, meritoriamente divulgative ma non sufficientemente supportate da precedenti studi e ricerche specialistiche. Il ritardo della cultura italiana nei confronti della fotografia si direbbe dovuto all’incidenza e al perdurare di un atteggiamento che semplicisticamente diremo ‘idealistico’, in un contesto segnato da un cronico ritardo nei processi di industrializzazione. Tra gli elementi che hanno variamente condizionato e determinato le caratteristiche della storiografia italiana un ruolo non secondario è stato però anche svolto dalle culture, dalle professioni e più ampiamente dalle ragioni di chi si è di volta in volta proposto come storico della fotografia, o di coloro che noi oggi identifichiamo come tali, così come dalla tipologia di lettore ‘ideale’ cui ciascuno si rivolgeva; un modello a sua volta mutevole e storicamente determinato. Basti anche qui considerare i primi resoconti relativi alle molteplici invenzioni della fotografia, provandosi a distinguere tra cronache, cronologie e prime ricostruzioni, ma anche tra le differenti sedi di pubblicazione. Così le notizie comparse sui periodici avevano il sapore netto della cronaca, per quanto imprecisa e magari fantasiosa, mentre le prime voci enciclopediche (Minotto 1839) si distinguevano da quelle per l’intento evidente di sistematizzare e ‘spiegare’ dati ed eventi, per quanto recenti. Un atteggiamento e un metodo che caratterizzarono tutta la successiva manualistica ottocentesca, a partire dagli esempi di Giacomo Caneva e di Venanzio Sella, adottando i canoni stabiliti dalle coeve storie della scienza e della tecnologia, fondate sulla convinzione che una migliore conoscenza del passato avrebbe consentito all’utilizzatore attuale di compiere meglio il proprio lavoro. Nei decenni successivi si ebbero ricostruzioni schematiche e celebrative; certo indizio interessante della volontà (magari implicita) di collocarsi dentro la storia ma di fatto manifestazioni di una forma esteriore di religione del passato; quella stessa che portò al ricorso alla documentazione fotografica storica in occasione delle prime celebrazioni risorgimentali. Dopo la stagione pittorialista e in anni di modernismo nascente l’accento mutava e l’attenzione per la storia assumeva il tono e il senso di un processo di legittimazione di un fare che si voleva sempre più autoriale, senza escludere più o meno forti accentuazioni nazionalistiche, perfettamente aderenti all’ideologia del Regime, mantenute però sottotono dalla mancata realizzazione di un storia di produzione italiana. Questa lacuna, che non ha interessato paesi quali la Francia, la Germania e gli USA, era verosimilmente dovuta a una scarsa considerazione culturale per la fotografia e alla quasi insormontabile difficoltà di ascriverne la scoperta tra le italiche glorie nazionali. I pochi contributi databili agli anni tra le due guerre mondiali riuscirono comunque a indicare possibili, e per certi versi divergenti direzioni di ricerca, tra storia sociale attenta alle pratiche professionali (Enrico Unterveger), e storia autoriale derivata da interessi storico artistici, rappresentata dai primi saggi di Lamberto Vitali, al quale è stata assegnata la titolarità di un paradigma (più simbolico che reale però) che sarebbe risultato dominante nei decenni successivi: un atteggiamento critico così attento agli aspetti iconografici e referenziali da porre in secondo piano la necessità di comprensione degli elementi tecnici; una caratteristica ampiamente diffusa tra le prime generazioni di storici anche quando provenivano dalla professione di fotografo e di cui era indizio non secondario (e certo complesso) la consuetudine di riferirsi nelle descrizioni dei materiali alle caratteristiche tecniche della matrice negativa e non del positivo studiato.
Un disinteresse (magari non formale) per le questioni tecniche che si può anche interpretare come residuo non elaborato di avversione a quel marchio culturale originario che attribuiva alla fotografia la natura di vile immagine meccanica e, contemporaneamente ma conseguentemente, la manifestazione del desiderio di distaccarsi dalla tradizione premodernista delle storie tecniche, ma senza poi procedere a elaborazioni nuove, metodologiche e storiografiche, per ridursi infine a una più o meno consapevole interpretazione idealistica delle fotografie e dei loro autori. Ciò che era mancato era proprio una riflessione sulla specificità ontologica della fotografia, sostituita da un’assunzione di posizioni e, in parte, di metodi derivati da discipline di più lunga e solida tradizione, dimostrando carenze di ordine teoretico e metodologico che favorivano o quanto meno consentivano da un lato quel basico utilizzo referenziale dell’immagine fotografica che per troppo tempo ha connotato l’attività degli storici contemporaneisti, e dall’altro un’assunzione implicita dell’artisticità come unico elemento valoriale, forzando la storia della fotografia negli spazi nobili ma angusti della storia dell’arte. Una cultura fotografica che per lungo e troppo tempo è stata e si è considerata marginale e subalterna, ponendosi sulla difensiva, e che – si direbbe – per quella sola ragione adottava meccanismi di valutazione critica di tipo rigorosamente autoriale, che si risolvevano puntualmente in esercizi di analogia con figure o canoni ritenuti ‘alti’, vale a dire già riconosciuti dalla letteratura internazionale, senza interrogarsi troppo sul fondamento e sul senso di tali operazioni. Per analoghe ragioni temi e figure della fotografia italiana si affacciarono timidamente solo a partire da alcune storie generali pubblicate negli anni Sessanta, anche da autori italiani (Enrie, Zannier, Settimelli), certo penalizzati nelle loro ricerche da quel “vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza” che lamentava Racanicchi nel 1961, mentre si avviavano riflessioni di ordine più ampiamente culturale dovute a figure di studiosi appartenenti a diversi e magari distanti ambiti disciplinari, da Mario Praz a Emilio Servadio, ospitate in un importante numero monografico de “I problemi di Ulisse” (1967).
Fu solo sul finire del decennio successivo che si coagularono una serie di contributi e realizzazioni che hanno costituito uno spartiacque con le produzioni antecedenti, tanto da poter dire –schematizzando ancora -che hanno segnato la nascita della storiografia italiana in senso proprio. Così accanto a importanti mostre come Fotografi del Piemonte, Gli Alinari fotografi a Firenze e Roma dei fotografi, tutte del 1977, la cultura (fotografica) italiana offriva titoli di grande rilievo come l’impeccabile monografia dedicata a Michetti da Miraglia (1975) o la Storia sociale di Gilardi (1976); una proposta storiografica per molti versi eccentrica che ebbe però il grande merito di spostare l’accento sui temi della produzione e del consumo di immagini, certo inconsueti per lo scenario italiano. Il decennio si chiuse con la serie di mostre e iniziative dedicate ad “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia” che segnarono il passaggio da un uso strettamente referenziale della fonte fotografica, proprio di iniziative quali La famiglia italiana in 100 anni di fotografia (Macchieraldo 1968) o L’Italia nel cassetto (Berengo Gardin et al. 1978), a una indagine disciplinare rivolta a ricostruirne la storia (Fotografia Italiana dell’Ottocento; Fotografia pittorica 1889/1911) pur con un taglio ancora fortemente – e forse inevitabilmente – derivato dai tradizionali modelli storico artistici e in sostanziale assenza di chiare impostazioni metodologiche. Dal punto di vista editoriale la produzione più rilevante fu la pubblicazione nello stesso 1979 de L’immagine fotografica 1845-1945, il volume in due tomi curato da Carlo Bertelli e Giulio Bollati per gli “Annali della Storia d’Italia” Einaudi, che intendeva porre in relazione esplicita gli ambiti culturali e disciplinari della storia culturale e politica e della fotografia, con un’ipotesi storiografica – dovuta prevalentemente a Bollati – che leggeva le vicende fotografiche quali componenti dei processi di modernizzazione e di definizione dell’identità nazionale. La sede di pubblicazione produsse inoltre una specie di processo di legittimazione della fotografia in quanto campo di studi, favorendo inedite riflessioni critiche e metodologiche intorno alla questione della fotografia come fonte, ma su presupposti ancora metodologicamente incerti, poveri di riferimenti strutturati, così che anche i rimandi ai saggi di Benjamin e della Freund sembravano nella più parte dei casi poco più che rituali, mentre pochi raccolsero all’epoca le suggestioni psicanalitiche e ‘culturali’ del testo di Bollati. Pur tra molte contraddizioni si trattava però di un primo reale riconoscimento della fotografia, e delle fotografie, in quanto beni culturali, come titolava il convegno modenese dello stesso anno, segnando l’avvio di quel passaggio significativo che avrebbe portato a privilegiare il patrimonio e il tessuto connettivo rispetto alle ‘emergenze’, introducendo quindi i temi della catalogazione e dell’archivio; un argomento sul quale uno studioso come Quintavalle aveva da poco proposto le sue prime, mature riflessioni interrogandosi su quali dovessero essere i modelli storiografici adeguati per lo studio del fenomeno fotografia.
In anni in cui a livello internazionale emergeva una prima attenzione specifica per la storiografia di settore, derivata dalla necessità di riconsiderare i modelli canonici e di definire l’oggetto (teorico e storico) fotografia, il panorama italiano produceva importanti contributi come quelli di Miraglia e Gilardi per la “Storia dell’Arte” Einaudi (1981), dei quali interessa qui sottolineare non tanto l’incommensurabile distanza di impianto e di esiti ma la loro comune caratteristica di elaborazione autarchica; ciascuno per opposte ragioni dotato di un metodo ‘autocostruito’, solo empiricamente adeguato al proprio progetto di ricerca e apparentemente indifferente ai dibattiti teorici in corso. Così il contributo di Miraglia, che nasceva da una solida formazione accademica, risultava poi carente in termini di comprensione dei processi di produzione di questa “arte industriale”, magistralmente affrontati da Gilardi in un testo quasi orgogliosamente privo di metodo. Tentativi più circoscritti di ridefinizione e di approfondimento trovarono invece ospitalità e furono sollecitati dal fenomeno nuovo delle riviste di cultura fotografica che nel periodo 1980-1985 videro la nascita (ed anche la morte, in un caso) della “Rivista di storia e critica della fotografia” (1980-1984), di “Fotologia” (1984) e di “AFT” (1985). Erano segni di un processo di strutturazione del campo disciplinare necessario e determinante, che vide anche la progressiva estensione delle indagini a scala territoriale, a cui si accompagnarono iniziative di conservazione e tutela, e delle presentazioni monografiche: una letteratura da cui iniziavano ad emergere le figure di alcuni autori evergreen.
Superate senza iniziative degne di particolare rilievo le celebrazioni del centocinquantenario dell’invenzione, gli anni Novanta videro un primo consolidarsi dell’interesse internazionale per la storia della nostra fotografia, mentre in Italia il confronto teorico e metodologico era sostenuto specialmente dalle iniziative (convegni, seminari) promosse dall’Archivio Fotografico Toscano. La cultura storica e la riflessione metodologica che si erano andate faticosamente formando nel ventennio precedente si tradussero in una serie di progetti di ricerca ed iniziative espositive che adottavano un approccio storico filologico assumendo l’archivio quale base di studio e che si proponevano di definire un corretto standard di edizione. Certo una concezione di archivio ancora piuttosto strumentale e lontana dal più recente riconoscimento delle sue caratteristiche di “dispositivo” culturale e politico, ma che portò al consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio fotografico al di là di ogni prospettiva riduttivamente autoriale o artistica; attenzione che si tradusse in una serie di convegni (Prato 1992, 2000), nei primi tentativi di censimento a scala nazionale e nella messa a punto e poi emanazione delle norme di catalogazione delle fotografie (1999), mentre anche gli storici contemporaneisti ribadivano la necessità di definire una “diplomatica del documento fotografico” (Pavone).
Nell’ultimo quindicennio una storiografia sempre (più) sicura di sé e ormai sufficientemente radicata anche in ambito accademico, ha espresso in modo sempre più chiaro l’opportunità se non proprio la necessità di dotarsi di spazi di aggregazione e di confronto come la lista s-fotografie, la Società Italiana per lo Studio della Fotografia e la rivista che questa esprime (“RSF”, dal 2015), mentre i sistemi di catalogazione si sono aperti progressivamente al web e si è finalmente avviato l’indispensabile censimento delle raccolte e degli archivi fotografici italiani, in anni in cui la riflessione teorica ne rimetteva in discussione la stessa definizione tradizionale e si affermava il concetto, fortemente influenzato dagli apporti antropologici, di fotografia come “oggetto sociale” dotato di una sua propria biografia. I contemporaneisti d’altro canto appaiono ancora incerti tra fonte e documento, tra indessicalità e connotazione culturale ma sono forse finalmente disposti ad accoglierle entrambe, a integrare tra le loro conoscenze le riflessioni intorno alla natura primaria dell’immagine fotografica ed alle culture specifiche che questa ha prodotto. Elementi indispensabili per una decifrazione delle immagini stesse, nella consapevolezza che un riconoscimento dell’attendibilità e della veridicità del contenuto referenziale da queste trasmesso, e delle culture che esprimono, non possano che fondarsi sulla capacità di discernere le forme e i modi della trascrizione del mondo in fotografia.
È stata proprio la svolta culturalista a connotare maggiormente la più recente produzione storiografica, offrendo una serie di contributi -non solo italiani -che si propongono di individuare e riflettere intorno ad alcune caratteristiche già a suo tempo riconosciute da Bollati e ora più precisamente indagate, quali il policentrismo come specificità del rapporto, specie alle origini, tra fotografia e identità culturale italiana, o quello – di fatto complementare – tra questa e la modernità, con declinazioni non di rado di carattere essenzialista, intese a stabilire e verificare i caratteri di una possibile (o presunta) italianità della fotografia, dell’esistenza di una specifica fotografia italiana. A questa possibile ricostruzione identitaria hanno contribuito in misura determinante e necessaria gli studi settoriali, indagando relazioni e ruoli svolti dalla fotografia nei più diversi ambiti, dalla storia dell’arte e dell’architettura alla letteratura e alla geografia; dalla guerra al lavoro e all’industria, mentre le ricognizioni a scala territoriale hanno determinato un accrescimento micrometrico e continuo, quasi frattale, delle nostre conoscenze, prestando particolare attenzione al contesto e alle pratiche piuttosto che alle emergenze e facendo nettamente emergere la necessità sempre più stringente dell’integrazione dei saperi e delle consapevolezze teoriche e metodologiche come uno dei nodi centrali di una storiografia che intenda muoversi nel territorio complesso della fotografia e delle pratiche fotografiche. Per queste ragioni sono convinto che le questioni poste dall’uso come dal riuso delle immagini, anche quale soggetto storiografico, siano un portato eminentemente culturale che si può provare a comprendere solo affidandosi alle risorse di un metodo storico che si nutra delle indicazioni e degli apporti di ogni altra procedura conoscitiva, tra le quali riveste importanza sempre maggiore l’antropologia a partire dalle riflessioni che questa ha condotto ed elaborato specialmente intorno alle immagini storiche, portando a riconsiderare più consapevolmente anche la loro natura di oggetti materiali e sociali dei quali, ad esempio, si dovranno incominciare a studiare sistematicamente le condizioni economiche e il contesto di produzione e ricezione, quindi anche le specifiche relazioni con l’immaginario collettivo contemporaneo e di come la fotografia vi abbia partecipato e lo abbia condizionato, contribuendo così a delineare un ampio orizzonte di problemi e di intersezioni che riguardano anche le modificazioni storiche dell’immaginare.
Ciò che infine è emerso con maggiore chiarezza è che nel corso del lungo periodo qui considerato non è mutata solo la definizione dell’oggetto di studio, delle tipologie e ambiti che si è ritenuto di volta in volta più necessario, opportuno o interessante considerare con attenzione (studiare, valorizzare, conservare) ma soprattutto la dotazione metodologica. Così, al di là delle valutazioni di merito, ciò che risulta evidente nel considerare le produzioni più recenti sono le marcate differenze di impianto con quelle prodotte nei decenni precedenti, determinate da una coerenza epistemologica di cui quelle risultavano in diversa misura carenti. Così insieme all’identità degli oggetti si definiscono le teorie e i metodi, prendendo progressivamente coscienza del fatto che per lo storico della fotografia (una figura in fieri, come la sua disciplina) fonte e oggetto di studio coincidono. I fototipi sono infatti oggetto di studio e fonte primaria di sé stessi, di cui è indispensabile conoscere e comprendere le condizioni storiche e culturali di produzione come di ricezione, utilizzando ove è il caso attrezzi che provengono dalla cassetta di altre discipline di più consolidata (e sottilmente qualificante) tradizione, in primis certo gli storici dell’arte e dopo, più recentemente e faticosamente, ma efficacemente, etnografi, antropologi e altri studiosi sociali. Una svolta ‘culturale’ da cui ci si può attendere molto se non si ridurrà all’applicazione schematica di formule né dimenticherà i meriti delle elaborazioni passate; di chi ad esempio già negli anni Settanta parlava di “funzione della cultura di immagine in differenti momenti” come oggetto di studio (Quintavalle 1977, p. 71). Così la crescente attenzione per la materialità dell’immagine che è stato uno dei frutti succosi del material turn e il corrispondente concetto di “biografia sociale” delle fotografie non possono far dimenticare il lungo percorso di elaborazione, molto raffinato (che altri potrebbero addirittura considerare estenuato ed estenuante) dei modelli di catalogazione dei fototipi che proveniva da differenti presupposti teorici e metodologici, frutto di una concezione del fare storia della fotografia che ha inteso lavorare per la tutela e la valorizzazione del patrimonio che si andava studiando.
A conclusione di questo lavoro non posso che ringraziare tutti quelli che si sono dedicati con passione a studiare e far conoscere la storia della fotografia in Italia, e quelli che continueranno a farlo.
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AVVERTENZE:
La bibliografia citata nel testo e nelle note, nella forma Cognome anno, è consultabile nel file relativo.
Per non appesantire il testo e l’apparato di note, il rimando bibliografico viene dato in occasione della prima citazione della fonte, intendendo che tutte le citazioni successive provengono da quella sino a diversa indicazione.
Tranne che dove esplicitamente indicato, le traduzioni sono di chi scrive
Acronimi
ACS: Archivio Centrale dello Stato, Roma
AFS: Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso, ora FAST
AFT: Archivio Fotografico Toscano, Prato
“AFT”: “Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano – Rivista di Storia e Fotografia””
AIB: Associazione Italiana Biblioteche, Roma
AIM: Alinari Image Museum, Trieste
ALI: Atlante Linguistico Italiano, Torino
ANIMI: Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, Roma
ASMI: The Association for the Study of Modern Italy, London
AST: Archivio di Stato di Torino
ATAC: Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea, Torino
BREL: Bureau Regional Etnologie et Linguistique, Aosta
CAF: Civico Archivio Fotografico, Milano
CAMERA: Centro Italiano per la Fotografia, Torino
CIFe: Centro informazione Ferrania, Milano
CIHA: International Committee of the History of Art
CLN: Comitato di Liberazione Nazionale
CRA: Centro interdipartimentale di Ricerca Audiovisuale dell’Università di Napoli
CRAF: Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, Spilimbergo
CRICD: Centro Regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei beni culturali della Regione Siciliana, Palermo
CSAC: Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Parma
ECPA: European Commission on Preservation and Access, Amsterdam
ENEA: Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Roma
ERPAC: Ente Regionale Patrimonio Culturale della Regione Friuli Venezia Giulia, Gorizia
ESHPh: The European Society for the History of Photography, Vienna
FAST: Foto Archivio Storico Trevigiano, Treviso, già AFS
FIAF: Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Torino
FIF: Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino
FINSIEL: Finanziaria per i Sistemi Informativi Elettronici, Roma
GFN: Gabinetto Fotografico Nazionale – ICCD, Roma
IBC: Istituto Per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna
ICCD: Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma
ICCU: Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, Roma
ICG: Istituto centrale per la grafica, Roma (dal 2014), già ING
IFLA: International Federation of Library Associations and Institutions, L’Aia
IGM: Istituto Geografico Militare, Firenze
ING: Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, ora ICG
INGV: Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma
INSMLI: Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano
IRE: Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia
ISBD (NBM): International Standard Bibliographic Description for Non-Book Materials
ISRE: Istituto Superiore Regionale Etnografico, Nuoro
ISRSC Bi-Vc: Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, Varallo
ISTORECO: Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Reggio Emilia
ISUC: Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, Perugia
IUAV: Istituto Universitario di Architettura di Venezia (dal 2001: Università Iuav)
KIF: Kunsthistorischen Institut in Florenz – Max- Planck- Institut, Firenze
MAST: Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, Bologna
MiBAC: Ministero per i Beni e le Attività Culturali
MIUR: Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
MNAF: Museo Nazionale Alinari della Fotografia, Firenze
MUFOCO: Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo
OPAC SBN: Catalogo del Sistema Bibliotecario Nazionale
PRIN: Progetto di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale
REICAT: Regole italiane di catalogazione
RIBA: Royal Institute of British Architects, Londra
RICA: Regole Italiane di Catalogazione per Autori
RMFA: Raccolte Museali Fratelli Alinari, Firenze
“RSCF”: Rivista di storia e critica della fotografia
“RSF”: Rivista di studi di fotografia
SEPIA: Safeguarding European Photographic Images for Access
SGI: Società Geografica Italiana, Roma
SICOF: Salone Internazionale Cine, Foto, Ottica e Audiovisivi, Milano
SIGEC: Sistema Informativo Generale del Catalogo
SIRBEC: Sistema Informativo Regionale Beni Culturali della Regione Lombardia
SIRPaC: Sistema Informativo Regionale del Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia
SISSCO: Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea
SISF: Società Italiana per lo Studio della Fotografia
SPSAE: Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico
TCI: Touring Club Italiano
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Dal 1839
1839 e oltre
Le opinioni sulla data in cui collocare le origini della fotografia possono legittimamente divergere ma l’avvio della sua storiografia è certo, e risale al 1839.
“Gli inventori della fotografia – ha scritto André Jammes[1] – non attesero gli storici per far rientrare le loro scoperte nell’ordine della storia scritta. Si incaricarono loro stessi di quel compito. Collocando quelle scoperte nell’evoluzione scientifica e tecnica, definirono una tradizione che avrebbe influito su tutte le successive narrazioni: la storia della fotografia sarebbe stata la storia della sua tecnica.” Da noi se ne era accorto per tempo Giuseppe Gioacchino Belli, rilevandone anche le connotazioni nazionalistiche: “a Parigi sostienesi che il trovato è cosa francese, a Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è alemanna o britannica.”[2] Dopo le prime, necessariamente imprecise e fantasiose cronache comparse sui periodici italiani, un accurato resoconto dell’invenzione del dagherrotipo venne pubblicato sulle pagine de “Il Politecnico” già nel giugno[3] del 1839, ma la prima trattazione ‘storica’ dell’invenzione apparsa in Italia sullo scorcio di quello stesso anno fu la voce Fotografia redatta dal veneziano Giovanni Minotto, per il “Supplemento” al Nuovo Dizionario Universale Tecnologico[4]. Qui l’articolata presentazione delle vicende francesi e inglesi era arricchita da una aggiornatissima rassegna delle prime prove italiane, poi non considerata da altre opere enciclopediche, che adotteranno analoga impostazione ‘evoluzionistica’ delle voci, con un alternarsi significativo di omologazioni o distinguo tra i termini dagherrotipo e fotografia[5]. Si registrava qui – tra le prime – quella linearità genealogica che divenne ben presto canonica e si sarebbe poi ripetuta con scarse varianti sino alle grandi storie del Novecento; sino a Gernsheim e Newhall: Della Porta, Wedgwood e Davy, Niépce e Daguerre, con l’aggiunta di Talbot alla voce “fotografia”. Quella che la Nuova Enciclopedia popolare italiana pubblicata a Torino nel 1859 apriva segnalando – credo per prima in Italia[6] – lo strabiliante capitolo del Giphantie di Charles-François Tiphaigne de la Roche (1760) in cui quella era prefigurata, ma con un evidente refuso di datazione (“1670”). In perfetta aderenza alla natura di matrice moltiplicabile del nuovo procedimento, l’attenzione maggiore delle enciclopedie era però riservata a un’invenzione allora ritenuta di ben maggior avvenire quale l’eliografia (fotolitografia), oggetto di trattazioni ben più analitiche e di ampio respiro, che celebravano la possibilità per ciascuna immagine di “potersene con la stampa ottenere molte copie”[7]. Una prospettiva scarsamente frequentata poi dalla più parte degli storici del mezzo, ma che un secolo più tardi sarebbe stata cara all’Ando Gilardi della Storia sociale della fotografia.
Diverse erano invece le ragioni che imponevano di dedicare il capitolo di apertura dei primi manuali italiani a una sintetica narrazione delle vicende storiche: “La Fotografia è la successione pura del Dagherrotipo” dichiarava Giacomo Caneva in apertura del suo trattato del 1855[8], facendo seguire una breve disamina delle ragioni critiche su cui fondava quell’affermazione, con cui concludeva il paragrafo primo, da lui intitolato Origine e storia. Di ben altro tenore e impegno l’ampio manuale di Giuseppe Venanzio Sella, quel Plico del Fotografo edito a Torino l’anno successivo che si apriva con una ricca introduzione corredata di note, per complessive quarantanove pagine, in cui si ripercorrevano storia e ‘preistoria’ dell’invenzione: dalla camera oscura di Della Porta allo stereoscopio; dalle prime prove di Wedgwood alle lastre al collodio, con un’intenzione che oggi potremmo definire di consapevolezza critica del mezzo. “Da quello che precede – scriveva Sella – il lettore ha potuto conoscere in modo generale l’origine, ed i successivi progressi ed applicazioni della fotografia, ed avrà potuto convincersi che non basta una triviale conoscenza dei procedimenti pratici per possedere a fondo quest’arte incantevole.”[9] “Cenni storici sull’arte fotografica” sarebbero poi comparsi ciclicamente su periodici italiani anche non di settore, come “L’Alchimista friulano”[10] o la “Rivista periodica dei Lavori dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova”[11], a firma di Luigi Borlinetto, mentre “Il Dilettante di fotografia” di Luigi Gioppi ospitò una serie di “Appunti storici” sin dal suo primo numero del 1890[12] e, dato ancor più significativo, nella seduta inaugurale della SFI Società Fotografica Italiana[13], il 26 maggio 1889, il Consigliere Ing. Arnaldo Corsi teneva una prolusione dedicata alla Storia delle origini della fotografia[14], nel cinquantenario della sua invenzione.
Per quanto ci risulta non pare che in Italia quella ricorrenza fosse particolarmente considerata dall’editoria fotografica (nessun manuale pubblicato in quell’anno, neppure in traduzione) o dai quotidiani, né celebrata dalla comunità dei fotografi: oltre alla cerimonia di fondazione della SFI si ha notizia solo del banchetto torinese che si tenne il 28 febbraio per iniziativa di Felice Alman, presidente dell’Unione Fotografica Italiana, a cui presero parte quasi solo fotografi piemontesi.[15] Allo stesso episodico interesse possono essere attribuiti gli interventi di Luca Beltrami e di Luigi Gioppi sulle pagine della “Rivista scientifico-artistica di fotografia”, organo del Circolo Fotografico Lombardo, dedicati rispettivamente all’invenzione della camera oscura e alla triade degli inventori[16].
Più interessanti e mirate le scelte compiute nel 1898 in occasione della mostra realizzata per l’Esposizione nazionale di Firenze, dove la Società fotografica di Vienna espose nella prima sala la riproduzione del “contratto preliminare fra Daguerre e Niépce, stipulato nel 1829. (…) Così sappiamo subito a quali condizioni noi venimmo alla luce; o, meglio, a quali condizioni la luce venne a noi.” [17] Negli stessi locali Brogi mostrava “una vecchia tenda per sviluppare le lastre al collodione” accanto a una “collezione di primitive macchine Daguerre” e a fotografie ‘antiche’ con vedute di Firenze e Roma presentate da Alinari e Tuminelli [sic]. “In una parola, e per concludere – scriveva Augusto Novelli – una buona parte di questa prima sala è come un tempio dedicato alla religione del passato; religione che sentiamo tutti e le cui reliquie, se talvolta possono farci sorridere, hanno sempre diritto al nostro rispetto e alla nostra venerazione. Anzi, dirò di più; questa parte mi sembra così importante e così ben raccolta e conservata, che dovrebbe essere trasportata, fatta qualche ampliazione, alla mostra futura di Parigi. Messa colà essa direbbe chiaramente i primi cinquant’anni della vita fotografica italiana.”
Un altro “tempio”, quello del “Risorgimento Italiano” realizzato per l’Esposizione Generale Italiana di Torino nel 1884 aveva rappresentato invece l’occasione di un primo ricorso alla fotografia quale testimonianza storica, forse con valore simbolico e iconico più che documentario. In quella sede – tra gli altri cimeli – furono esposte “Fotografie a dagherrotipo delle rovine della campagna del 1848-49”[18], verosimilmente da identificarsi con la serie di calotipie di Stefano Lecchi pubblicate da Danesi nel 1849 come “tratte dal dagherrotipo”, da cui l’errata identificazione in catalogo. Quelle vedute vennero presentate anche all’Esposizione Romana per la storia del Risorgimento dello stesso anno, nella quale accanto a ritratti e gruppi diversi compariva anche una foto di “Prigionieri in Aspromonte, gruppo eseguito nel 6 ottobre 1864”[19]. Date queste prime realizzazioni non è difficile sostenere che il tema risorgimentale sia stato uno dei primi se non il primo a sollecitare una qualche forma di interesse per la fotografia storica (ma non per la storia della fotografia, ovvio). Di impianto più celebrativo che storico documentario fu invece la proposta di Aurelio Favara, fatta propria dalla Società Fotografica Italiana nella seduta del 13 aprile 1911, quindi presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma nello stesso anno cinquantenario dell’Unità; l’intenzione non era più quella di raccogliere ed esporre cimeli storici bensì di dare “visione fotografica di paesaggi e città, di piazze e di edifici, di monti e di marine che furono teatro di avvenimenti e di eroismi”, da pubblicarsi in fascicoli che avrebbero dovuto costituire “il Museo fotografico di ogni scuola d’Italia”[20]; un’iniziativa che risentiva del dibattito ormai pluridecennale che accanto allo sviluppo del pittorialismo, e quasi in reazione a questo, aveva portato anche in Italia alla nascita di raccolte, archivi e musei documentari, accompagnati da un acceso dibattito metodologico e dalle prime acquisizioni di fondi storici, considerati però esclusivamente per il loro valore referenziale[21].
Fino al primo dopoguerra la cultura fotografica italiana era tutta rivolta alla contemporaneità e i pochi testi ‘storici’ pubblicati nel più importante periodico italiano dell’epoca, “La Fotografia Artistica”, “seguivano uno stesso filo conduttore. Il ritrovamento di un’idea di tradizione nella lettura evoluzionistica delle vicende fotografiche [che] si ancora saldamente al presente, fornendo certezze sugli aspetti tecnici come valori fondativi per un conseguente sviluppo del ‘sentimento estetico’ ” [22]; un’intenzione non così lontana da quella espressa da G. V. Sella esattamente mezzo secolo prima, che si tradusse qui in una serie di articoli intitolati alla Histoire de la Photographie curati dal direttore Annibale Cominetti e tratti da periodici inglesi[23], e in un più lungo saggio pubblicato in tre parti a firma di Fanny Dalmazzo[24]. Per disporre di un primo accenno di disegno storico critico relativo alle immagini si dovette attendere il resoconto della grande Esposizione di Dresda del 1909 pubblicato da Cesare Schiaparelli[25], nel quale il noto fotografo tracciava in apertura una sintesi dell’evoluzione artistica del mezzo a partire Hill e Adamson, recentemente riscoperti[26], e le testimonianze a stampa relative al primo periodo di quella storia presentate alla Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tenne nell’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911[27], alcune delle quali appartenevano ad Adriano Tournon[28], ingegnere e autocromista en amateur, primo sintomo di un interesse collezionistico per i cimeli fotografici. Un’analoga retrospettiva si sarebbe tenuta ancora a Torino nel 1923, nell’ambito dell’importante Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia: L’Arte nella Fotografia, promossa dalla locale Camera di Commercio per onorare – con notevole ritardo – il terzo centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615), una delle glorie italiche che ben poteva essere fatta propria dalla macchina propagandistica del fascismo nascente. Secondo Pia, che era stato presidente della Società Fotografica Subalpina, ed Annibale Cominetti furono chiamati a far parte della commissione di quella mostra, presieduta da Carlo Baravalle, che con gli amici Stefano Bricarelli e Achille Bologna aveva da poco costituito il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e che proprio in quell’anno aveva acquisito la testata milanese “Il Corriere fotografico”, trasferendola a Torino. Anche in Italia si sentiva la necessità di riferirsi alla storia (e quindi di conoscerla) quale elemento fondamentale del processo di legittimazione culturale ricercato dalla ‘nuova fotografia’ (tra pittorialismo e modernismo), così come era già accaduto in altri paesi europei e negli USA.
Intorno al 1939: Lamberto Vitali e l’antica fotografia
Diversamente da quanto accadeva in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti, la cultura italiana non si misurò con la redazione di una storia generale né nazionale ed oltre le poche opere e iniziative sopra citate, le prime prove di storiografia fotografica propriamente intesa erano rappresentate dagli scritti oggi quasi dimenticati di un fotografo come Enrico Unterveger, figlio di Giovanni Battista, che nel 1922 pubblicava sul periodico torinese “Vita fotografica italiana” un suo Contributo alla storia della fotografia in Italia con speciale riguardo al Trentino e all’ex Regno Lombardo -Veneto[29] mentre altre andavano cercate in ambiti contigui ed estremamente specialistici, come il contributo di Giuseppe Albertotti Disegni fotogenici comunicati da Fox Talbot a G.B. Amici, presentato nel 1925[30]. Ben più noti e ampiamente citati dalla successiva storiografia sono invece gli interventi che Lamberto Vitali pubblicò dal 1935 su “Emporium”, la rivista di cui fu direttore per un triennio sino al 1938[31], anno in cui fu costretto a lasciare a causa delle leggi razziali emanate dal governo fascista. Al primo articolo del 1935 dedicato a Federico Faruffini fotografo[32], fecero seguito l’anno successivo Ritorno all’antica fotografia e Un primitivo della fotografia: David Octavius Hill[33], testi da intendersi in quel contesto internazionale caratterizzato da una nuova attenzione per la storia del mezzo che segnò gli anni in prossimità del centenario dell’invenzione. Nella loro diversità quegli scritti suggerivano una prima distinzione tipologica: dalle ricerche d’archivo alle indagini a scala locale e territoriale, alla riflessione fenomenologica e alla monografia.
In quello dedicato alla “antica fotografia” i soli autori italiani (o attivi in Italia) citati da Vitali erano Bettini, Marzocchini, Alinari, Bernoud e Metzger, mentre la presentazione critica della figura di D.O. Hill derivava dalla recente fortuna internazionale di questo autore e dalla “fondamentale monografia” di Heinrich Schwarz[34], citata col dovuto rilievo insieme a numerosi altri titoli nella puntuale nota bibliografica che chiudeva l’articolo; testimonianza di un approccio metodologicamente fondato e corretto ma anche di quella sua raffinata passione collezionistica che già si era espressa in altri ambiti[35]. Hill apparteneva a quel ristretto gruppo di nomi entrati ormai a far parte di un primo empireo della storia europea della fotografia; riferimenti forse non consueti ma dati almeno per noti a un pubblico di cultura medio alta sebbene non settoriale: magari lettori come quelli di “Domus”, la rivista di Gio Ponti in cui il direttore aveva pubblicato il proprio Discorso sull’arte fotografica[36] e con la quale Vitali collaborava dal 1928. Riferimenti e attenzioni che era possibile ritrovare in altri periodici milanesi come “Fotografia” e “Natura” o nelle recensioni di Edoardo Persico su “La Casa Bella”, non senza puntuali letture critiche[37]. Era la stessa attenzione testimoniata dalle pagine scritte da Raffaele Carrieri per la “La Lettura”, la rivista mensile del “Corriere della Sera”, dedicate ai ritratti in carte-de visite, dove si trattava di quello stesso “ritorno” studiato da Vitali ma con mano più lieve: “Risorgono tutti gli album di famiglia. Prima gli antiquari compravano pendoli e porcellane, ora fotografie: Niépce, Daguerre e Talbot sono diventati già dei primitivi [con evidente richiamo, quasi ironico, alle categorie utilizzate da Vitali]. Davy è una specie di Giotto della fotografia. Si stabiliscono date, si identificano i maestri ignoti. La fotografia fa parte delle collezioni. In America, le fotografie delle guerre d’indipendenza costano un patrimonio. Non parliamo di un originale di David Octavius Hill, o di un Nadar firmato.”[38]
In una lettera a Zannier datata 15 dicembre 1988 e pubblicata nel n.11 di “Fotologia” (1989), non a caso concepito proprio in quell’anno In onore di Lamberto Vitali[39], il grande collezionista citava un poco disordinatamente la sua produzione bibliografica tra fotografia, incisione e pittura; in modo non esaustivo, quasi distratto però, fornendo (per tono e contenuto) una bella testimonianza, un interessante indizio della sua personalità come della sua figura di studioso, non separabile se non strumentalmente da quella di collezionista. Quale primo titolo poneva il Ritorno all’antica fotografia e non il testo su Federico Faruffini fotografo, sebbene fosse dell’anno precedente e affrontasse una questione difficile e nuova come quella del rapporto degli artisti del XIX secolo con la fotografia[40], alla quale avrebbe dedicato uno specifico contributo solo vent’anni più tardi[41]: quasi una noncuranza o forse il segno di una predilezione, di una tenuta nel tempo del testo più programmatico e ‘militante; più strettamente legato al modello interpretativo e storiografico assegnato alle distinte genealogie del dagherrotipo e del calotipo dai curatori di Film und Foto, l’importante rassegna di Stoccarda del 1929. L’idea di fotografia di Vitali si rivelava nell’apprezzamento per quegli autori che mostravano “espressioni appropriate al nuovo mezzo”, facendo emergere così la sua avversione radicale e radicata – tutta modernista, della Milano modernista direi – ai valori pittorici e ingenuamente simbolisti del tardo pittorialismo[42], assimilato impropriamente alla pittura di genere, ciò che ci aiuta a comprendere come fosse il tema del ‘vero’ e della sua rappresentazione a costituire il centro della sua valutazione; a giustificare una considerazione per la fotografia che fu per lungo tempo prevalentemente di tipo referenziale, documentario [43]. Fotografie come testimonianze disponibili a una lettura quasi archeologica, modernamente fondata sul loro specifico; ciò che più caratterizzava quei suoi contributi era però il loro impianto storico critico e il presupposto collezionistico inteso in termini di necessità di studio e di tutela di un patrimonio allora come ora sottoposto ai rischi della dispersione.
Il Ritorno cui si riferiva il titolo del 1936 registrava in realtà il fenomeno inedito dell’interesse – poi confermato da Carrieri – per le fotografie “antiche”, tanto che ancora poteva “sembrare a tutta prima cosa stranissima” il fatto che queste potessero essere “oggetto proprio di studi, di ricerche, perfino di analisi critiche”. Le ragioni che muovevano Vitali erano certamente quelle di soddisfare il “desiderio di fissare la fisionomia di una società scomparsa” ma accanto a queste emergeva, del tutto nuova, la “ragione estetica, perché veramente la fotografia fu un mezzo d’espressione per i primi maestri.” I principali riferimenti, piuttosto scontati già all’epoca, erano a Hill, Le Secq e Nadar, riuniti impropriamente nella definizione di fotografi “dei primi tempi”, quelli che con fortunata formula, poi ripresa anche da Negro, apparivano segnati da “castità di mestiere cui naturalmente s’associa l’affettuosa, profumata castità di visione”. Era stato proprio Nadar a parlare a sua volta di “primitifs de la photographie”[44], ma nella formulazione di Vitali emergeva una sensibilità prossima se non debitrice del venturiano “gusto dei primitivi”, che aveva preceduto le sue riflessioni di giusto un decennio[45], e ancora più di una eco di quella “innocence of the eye” di cui aveva parlato Ruskin[46], qui ben distinta dalla più modesta “onestà di mestiere”[47] riconosciuta ai “regolari” italiani; ulteriore e altrettanto fortunata categorizzazione, tutta compresa nell’orizzonte temporale del 1875, data che per Vitali chiudeva il “periodo aureo” della fotografia[48]. La novità di quel breve testo risiedeva, per l’Italia, proprio nella proposta di un inedito oggetto di indagine, l’antica fotografia per l’appunto, rivolta ad un pubblico probabilmente non “del tutto ignaro di vicende, termini e nomi finora sconosciuti”[49], ma certo poco avvezzo a considerare criticamente quelle immagini. Più che un abbozzo storico, l’articolo costituiva l’aggiornatissimo riconoscimento di un fenomeno culturale e storiografico (“la decisa prosperità di scritti dedicati ad un argomento in apparenza tanto profano”) letto attraverso il filtro delle posizioni critiche espresse dalla cultura modernista internazionale. Ciò risultava evidente anche nella bella chiusa in cui dichiarava che “la rinascita della fotografia poteva avvenire soltanto con un capovolgimento completo dei termini, [con] la ricerca di effetti quali soltanto l’obiettivo può dare. Ed appunto la scoperta delle facoltà visive della lente, diverse affatto da quelle dell’occhio umano, ha determinato, con l’invenzione di un nuovo mondo, la ripresa dell’ultimo tempo: ma questo è un altro discorso.”[50]
In Italia, a considerare la letteratura nota, non pare che la ricorrenza del centenario dell’invenzione avesse sollecitato studi specifici ma solo una serie di richiami giornalistici, tra i quali merita segnalare quelli precoci di chi (tra i più attenti e informati) individuava in Niépce l’origine del percorso definitivo, anticipando così le celebrazioni di quasi un ventennio. Accogliendo le tesi esposte da Georges Potonnièe sulle pagine del bollettino della Société Française de Photographie [51], “Il Corriere Fotografico” e “Il Fotografo” ospitarono nel 1922 due articoli dedicati a Niépce[52], uno dei quali a firma di Enrico Unterveger, mentre nel maggio del 1927 un altro illustre figlio di fotografo, e importante fotografo a sua volta come Carlo Wulz curava per il Civico Museo di Storia ed Arte una Mostra temporanea di fotografie di Trieste scomparsa, composta di circa trecento stampe realizzate dal padre Giuseppe e donate per l’occasione al Museo; antecedente tanto significativo quanto poco noto di iniziative culturali che prefiguravano la nascita delle fototeche civiche. In quello stesso anno si stavano avviando i lavori per la realizzazione della Prima Esposizione nazionale di Storia della scienza, prevista a Firenze nel 1928 ma inaugurata solo l’8 maggio 1929, destinata a dimostrare “come in quasi tutti i fondamentali rami dello scibile gli italiani siano stati grandi e geniali precursori.” A quello scopo il Commissario per la sezione fotografica Luigi Castellani diramò un invito, diffuso dalle riviste di settore, affinché chiunque possedesse “un qualche cimelio o altro materiale di importanza storica, inerente a lavori di italiani nel campo fotografico o fotomeccanico” lo volesse mettere a disposizione, e inoltre “se può darci informazioni su lavori, invenzioni, applicazioni di una certa importanza inerenti alla fotografia o alle sue applicazioni, eseguiti da Italiani, le saremmo gratissimi e di questa sua collaborazione terremo il massimo conto.”[53] I risultati furono inferiori alle aspettative e per quanto risulta[54] la mostra ospitò sì molte fotografie documentarie ma quasi nessun cimelio, se si esclude un “daguerrotipo (1856) – il primo eseguito a scopo scientifico” del Museo di Antropologia di Firenze, il fototeodolite progettato da Pio Paganini nel 1878 esposto nel padiglione dell’Istituto Geografico Militare e una “Mostra Alinari” con “fotografie di scienziati o di argomento scientifico, insieme ad altre di soggetto comune.”[55]
Negli anni successivi fu soprattutto l’edizione italiana di “Galleria” ad ospitare contributi storiografici di un certo rilievo, a partire da quello di Heinrich Schwarz sulla storia della camera oscura, pubblicato nel febbraio del 1933[56], che si proponeva anche come un erudito saggio di storiografia (quasi fuori luogo in quel periodico, che ne offriva una traduzione incerta) intorno alla questione della “spiritualità della scoperta” – e non dell’invenzione quindi – provandosi a definire come si fosse manifestato nei secoli quello che chiamava “il desiderio di fotografare”; prima elaborazione di quella prospettiva storico critica che avrebbe poi sviluppato compiutamente nei suoi più importanti saggi successivi. A partire dal marzo 1938 lo stesso periodico avviava la pubblicazione di una serie di testi storici con estratti dal Trattato pratico di fotografia di Marc Antoine Gaudin, pubblicato a Torino da Jest nel 1845[57], mentre nel marzo 1939 comparve una anonima e breve rassegna dei Punti capitali della Storia della Fotografia, seguita nei mesi successivi da una serie di contributi “alla storia della fotografia” firmati dal direttore Luigi Andreis e da alcune brevi schede monografiche (Hill, Schulze ma anche Misonne), comprese in un inserto staccabile destinato a formare l’ “Enciclopedia Galleria”. Anticipando di pochi mesi l’ufficialità della ricorrenza, anche l’altro periodico torinese “Il Corriere Fotografico” celebrava il centenario con un intervento di Federico Ferrero (1938) che conteneva una interessante presa di posizione storiografica: “per me come per altri storici della Fotografia, il 1839 rappresenta il vero anno d’inizio, l’inizio ufficiale per così dire [poiché] in quel giorno [7 gennaio] per la prima volta al mondo si parla pubblicamente di Fotografia: da quel giorno comincia veramente la storia della Fotografia.”[58] Dopo aver asserito – poco coerentemente – che “il vero fondatore del moderno processo fotografico non è Daguerre (…) ma Fox Talbot” il pubblicista ricordava “la fulminea diffusione” del fenomeno a scala mondiale, lamentando infine che nessuno in Italia avesse pensato a celebrare degnamente il centenario. Al redattore del “Corriere” rispose Enrico Unterveger[59] con una lunga lettera nella quale confermava che “pochi studi storico-fotografici se ne vedono pubblicati in Italia, ove manca anche una pubblicazione di valore sulla storia della fotografia”; aggiungeva poi alcune precisazioni di non secondo rilievo tratte da fonti in lingua tedesca, evidentemente sconosciute al redattore torinese che aveva infarcito il proprio testo di gravi imprecisioni, e chiudeva proponendo che proprio “a Torino ove più di tutte in Italia si tiene in debito conto l’arte fotografica, si potrebbe iniziare qualcosa.” Fu ancora Unterveger (1939a), il primo e misconosciuto storico della fotografia in Italia, a fornire ulteriori contributi e approfondimenti, come quello dedicato a L’invenzione della fotografia nella stampa trentina del tempo, con riproduzioni in facsimile delle prime notizie sulla dagherrotipia pubblicate nei periodici della regione[60], da porre in relazione con la progettata “Mostra retrospettiva” che si sarebbe inaugurata a Trento[61]. Qui dopo “una opportuna illustrazione del contributo dato dall’ingegno italiano alla grande invenzione (Leonardo, Della Porta, Beccaria) vennero esposti “pregevoli esempi (…) di procedimenti di fotografia tramontati e sorpassati”, dal collodio su vetro e su carta all’albumina, dai pigmenti al platino; alcuni esempi di tecniche fotomeccaniche (woodburytipia, fotolitografia, zincotipia), “apparati ed apparecchi dei già lontani tempi” e una sezione bibliografica che comprendeva “il primo manuale pubblicato in Italia (1856)”, cioè, verosimilmente il Plico del fotografo di G.V. Sella, e uno dei “primi periodici (1870)”, forse quella “Rivista fotografica universale” di Antonio Montagna a cui aveva collaborato anche il padre di Enrico, Giovanni Battista. Infine “dieci pubblicazioni di Enrico Unterveger su argomenti storico-fotografici.” Fu quella la sola iniziativa espositiva legata al centenario[62]; un evento a cui quasi non fecero cenno le principali testate di settore[63], con l’esclusione de “La Gazzetta della Fotografia” di Palermo sulla quale il direttore Arturo Valle scrisse un lungo articolo[64] nel quale accentuava fascisticamente il nazionalismo proprio di molta storiografia fotografica coeva. Considerando che “come tutte le grandi invenzioni anche quella della fotografia non avrebbe potuto vedere la luce senza che precedenti invenzioni e ricerche gliene avessero dato la possibilità” e inoltre essendo “indubitato che la invenzione della camera oscura è prodotto del genio italiano (…) in ultima analisi questo basta”, per rivendicare un ruolo determinante di Della Porta[65] e quindi dell’Italia in quel processo. A Torino fu l’edizione serale de “La Stampa” [66] a ricordare La prima fotografia eseguita a Torino, riportando ampi estratti dello storico articolo del direttore della “Gazzetta Piemontese” Felice Romani[67], pubblicato il 12 ottobre 1839, ma confondendo in parte i termini a proposito della corretta sequenza delle due riprese. Al di là di queste imprecisioni l’iniziativa meritava di essere segnalata anche per la scelta di celebrare il centenario ripubblicando ampi stralci di una fonte cronachistica importante, con ciò celebrando anche l’autorevolezza e la storia dello stesso periodico, essendo la “Gazzetta Piemontese” la testata da cui derivò “La Stampa” nel 1894. Di respiro internazionale e culturalmente complesso fu invece il contributo di Giuseppe Maria Lo Duca pubblicato in due parti su “Emporium”[68]; nella prima offriva un sintetico excursus con corredo di iconografia storica, tra camera obscura e lanterne magiche, individuando “nell’evoluzione dei mezzi tecnici (…) il rapporto che conduce alla nascita dell’arte fotografica”, ma soprattutto proponendo confronti iconografici per mostrare come esistesse uno “stile comune nella pittura di Ingres e nella fotografia di Nadar e dell’Anonimo” autore di uno dei ritratti proposti. Mostrando tutta l’aggiornata competenza che gli derivava dalla sua recente emigrazione in Francia Lo Duca indicava i “nomi più importanti di questa manifestazione estetica”: da Nadar a Pierson sino a Lotar, Tabard, Kérstez (di cui pubblicava una distorsione, messa in pagina accanto al notissimo ritratto della Contessa di Castiglione), Bragaglia; Bandy, Cahun, Kesting e Man Ray, all’epoca sostanzialmente sconosciuti in Italia, e chiudeva con la trascrizione di una sua (presunta) intervista a Paul Valéry fatta “in occasione del centenario di questa scoperta”[69], che si rivelava però una rielaborazione dell’importante discorso che il poeta aveva tenuto alla Sorbona il 7 gennaio 1939 su richiesta della Société Française de Photographie et de cinématographie[70].
Questa sostanziale assenza di manifestazioni di rilievo nazionale, contrariamente a quanto avvenne in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, consente ora di comprendere meglio (pur senza chiamare direttamente in causa l’estetica crociana, che pure vi ebbe un ruolo) le ragioni per cui le fotografie non fossero comprese tra le “cose d’interesse artistico o storico” tutelate dalla legge 1089 del 1939, sebbene un Regio Decreto dl 1927 avesse almeno previsto la possibilità che fossero descritte “in appositi cataloghi (…) sotto uno stesso numero (…) le fotografie, anche non riunite in volume, se costituiscono o possono costituire una serie organica sotto una stessa denominazione.”[71] Troppo lontana, addirittura estranea alla cultura accademica e della tutela l’idea che questa tipologia di immagini, che quegli oggetti potessero avere un interesse più che strumentale. Una concezione che pare aver influito nella lunga durata anche sulla stessa nostra genealogia storiografica, sulla costruzione di una tradizione che nell’indicare le proprie origini ha celebrato i contributi di uno studioso come Vitali (che nelle proprie pubblicazioni avrebbe privilegiato le funzioni documentarie e le produzioni “irregolari”, tra arte e cronaca) relegando nell’oblio quelli di un professionista come Unterveger, più attento alla storia della pratica fotografica.
1949-1950 Carlo Mollino e il Messaggio dalla camera oscura
Primo frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu da noi il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi: Il messaggio dalla camera oscura, scritto da Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato solo nel dopoguerra[72], costituì la prima vera sintesi prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo. Come già in Film und Foto[73] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. La prima parte, che si apriva con “la più antica fotografia del mondo (Niépce 1822)” non essendo ancora nota la Veduta di Gras[74], era dedicata a una “Storia breve del gusto nella fotografia”, avendo come prima tavola fuori testo un ritratto femminile al dagherrotipo, splendidamente stampato su carta argentata da Vincenzo Bona, che era stato lo stampatore de “La Fotografia Artistica”, a conferma di una cura per la resa visuale e materiale delle immagini proposte che derivava da una chiara preoccupazione filologica; qualcosa a cui l’editoria fotografica non solo italiana si sarebbe dedicata solo alcuni decenni più tardi.
“Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo”, dichiarava Mollino analogamente a Lo Duca, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sull’analisi stringente dei rapporti di quella con la cultura visiva e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[75], anche Mollino (come sarà per Gernsheim e Vitali) condannava come decadente la “fotografia d’arte”, quella in cui “il fotografo (…) si butta alla razionale simulazione del quadro e della pittura”[76], sebbene poi pubblicasse alcuni tardi bromolii di Peretti Griva, la cui presenza giustificava essendo quello “tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico – pittorica, qui non gratuita, giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”
Silvio Negro e la fotografia a Roma
Fortemente legato a Vitali ma meno interessato alle questioni critiche era Silvio Negro, che nel 1942 pubblicava uno studio dedicato a I primi fotografi romani[77] poi posto in appendice a Seconda Roma 1850 – 1870[78] arricchito da “79 illustrazioni da documenti fotografici dell’epoca”, scelti con la collaborazione di Giovanni Scheiwiller e Lamberto Vitali[79], ma registrati senza alcuna datazione e con rare attribuzioni all’indice. La prima ricostruzione delle vicende romane[80], e la prima italiana di tale ampiezza, prendeva avvio dalla nota di Giuseppe Gioacchino Belli nel suo Zibaldone[81] e per individuare i nomi dei primi dagherrotipisti ricorreva a fonti quali i manifesti e i fogli pubblicitari oltre che a quanto veniva esposto nelle grandi mostre internazionali, come indicava il riferimento a due dagherrotipi anonimi, “rappresentanti rispettivamente il palazzo Vaticano e la fontana di Trevi”, e ad un calotipo del Colosseo erroneamente attribuito a Prevost[82], presentati “in una mostra di incunaboli della fotografia ordinata a Nuova York alcuni anni fa.”[83] La periodizzazione adottata, strettamente connessa allo sviluppo tecnologico come già in Vitali, portava con sé un giudizio di valore degli esiti che le era inversamente proporzionale: “i ritratti della loro epoca hanno ai nostri occhi una pulitezza e un potere evocativo che si perdono del tutto dopo il ’75. In questo tempo ci fu realmente uno scadimento, ed esso derivò proprio dal progresso della tecnica.” Sebbene richiamasse per primo l’attenzione per il lavoro dei fotografi che lavoravano per i pittori, per i quali “la necessità di tenersi al vero ha portato ad effetti sobri e consistenti”[84], in quel testo Negro non riservava neppure una fuggevole citazione a Caneva, che forse gli era ancora sconosciuto ma a cui avrebbe dedicato un breve saggio monografico l’anno successivo[85], né ad altri componenti di quella che sarebbe poi stata conosciuta come Scuola fotografica romana[86], facendo coincidere la nascita del professionismo in quella città con l’età del collodio e in particolare con Antonio d’Alessandri, titolare di uno specifico profilo biografico, mentre le notizie sui fotografi attivi nel campo della documentazione del patrimonio artistico (tra i quali segnalava gli Anderson) erano tratte essenzialmente dalle guide e dall’importante Elenco (…) degli oggetti spediti dal Governo pontificio all’Esposizione di Londra del 1862.
All’iniziativa di Carlo Pietrangeli ma alla competenza di Negro “che ne fu l’anima”, si doveva la successiva Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915 [87], allestita nel 1953 “con criteri topografici e romanistici”[88] un anno dopo il trasferimento del Museo di Roma nell’attuale sede di palazzo Braschi; prima organica occasione espositiva italiana fondata sull’uso della fotografia storica quale “fonte di informazione storica e di documentazione topografica e artistica.”[89] A quello scopo venne imbastita un’impresa di enormi dimensioni: 3689 pezzi esposti, di cui soltanto cinquantaquattro riprodotti in catalogo, ordinati per sezioni tematiche: Storia, Arti-Lettere-Scienze, Amministrazione Civile, Topografia, Usi e costumi, Corte e Società, Moda, Vaticano, tra le quali – come già in Seconda Roma – anche una specificamente dedicata alla Storia della fotografia a Roma[90]. Si trattava infatti di documentare le trasformazioni “che subisce ogni giorno la nostra città e la scomparsa di ambienti, di usi, di costumi e di modi di vita che si verifica continuamente sotto i nostri occhi e che ancor più avvenne nei tempi passati e specialmente nel periodo della trasformazione urbanistica e della febbre edilizia tra il 1870 e il 1885.” Roma nella fotografia quindi, più che la fotografia a Roma, con uno scarto allora forse non avvertibile e un atteggiamento analogo a quello che sarà del Vitali studioso delle immagini risorgimentali, nonostante il testo di Negro in catalogo[91], che costituiva sin dal titolo (I primi fotografi romani) una ripresa esplicita di quanto da lui pubblicato alcuni anni prima, con poche ma significative aggiunte. Tra queste la più rilevante era rappresentata dalla ‘scoperta’ delle prime opere di Caneva ( “il fotografo locale di cui si è trovata finora la più antica documentazione datata o databile […] un pittore”), però non ancora posta in relazione con quello sviluppo del genere “dei modelli vivi ed elementi di paesaggio da servire al pittore nello studio” già precocemente individuato come proprio della produzione romana nel saggio precedente. Il regesto delle opere in mostra indicava il titolo, cioè l’identificazione del soggetto, qualche volta l’autore e sempre la provenienza (alcuni enti pubblici e molte collezioni private), mentre solo raramente era riportata l’indicazione della tecnica e mai quella delle misure. Pur con questi che oggi riconosciamo come rilevanti limiti metodologici, certamente connessi anche all’intenzione – propria di Negro e dei suoi collaboratori – di fare storia con la fotografia piuttosto che una storia della stessa, la mostra e il catalogo costituivano la prima organica occasione di misurarsi con la fotografia considerandola almeno un prezioso documento storico. Nella misura in cui si interessavano anche agli autori di quei documenti e alle loro condizioni di lavoro essa rappresentava però anche un momento determinante nella formazione della storiografia fotografica italiana, soprattutto considerando che l’imponente insieme di opere esposte dimostrava che “l’Ottocento ha, fra i moltissimi suoi meriti, anche quello di aver creato un’estetica fotografica, una sua particolare ‘logica’ delle immagini meccanicamente riprodotte”, come rilevava il notista de “La Stampa”[92].
Il desiderio di illustrare più compiutamente le immagini utilizzate in quella occasione portò alla pubblicazione nel febbraio 1956 di Album romano[93], che di quella mostra fu il “catalogo postumo”. Il testo di Negro costituiva una ulteriore rielaborazione di quanto pubblicato nelle due occasioni precedenti; testimonianza di un inesauribile work in progress che ne riconfermava impianto e obiettivi, mirati prevalentemente alla ricostruzione per immagini del quadro storico (ciò che portava anche ad arbitrari tagli delle riprese originali, come nel caso di Primoli) ma con precisazioni e notazioni critiche che risultano oggi, e per ragioni diverse, sorprendenti. Mi riferisco al giudizio sprezzante riservato a “Jacopo Caneva (…) questo pittore (…) che ha fornito risultati senza rilievo anche colla camera oscura”, a cui preferiva gli anonimi calotipisti che “per nobiltà di taglio e capacità evocativa dell’ambiente si lasciano indietro di molte lunghezze il paesaggista veneto”[94] o – per converso – al precoce riconoscimento dell’opera di Giuseppe Primoli, che per lo studioso costituiva “la più vistosa eccezione [alla] scarsa vocazione locale per l’istantanea”, rendendolo “l’unico fotografo di alto livello che abbia mai avuto Roma”[95]. Un giudizio che appariva in lampante contraddizione con l’opinione, ribadita nelle stesse pagine, che “l’epoca dei mezzi e delle attrezzature rudimentali fosse anche l’epoca d’oro della camera oscura”; una valutazione critica che certo avrà pesato sulla successiva scelta di Vitali di accogliere il suggerimento di Giulio Bollati per aprire proprio con il volume dedicato a Primoli la sua collaborazione su temi fotografici con Einaudi, maturata negli stessi mesi in cui Lucilla Negro stava tentando di portare a termine il lavoro di riordino dell’archivio della Fondazione Primoli[96], interrotto nel 1959 dalla morte del marito. La pubblicazione dell’Album riscosse notevole successo così sui quotidiani come sulla stampa specializzata e il “Corriere Fotografico” gli dedicò un’ampia recensione, riproducendo ben otto fotografie, la metà essendo di Giuseppe Primoli, e segnalando come “il pittoresco quadro della vita di Roma”[97] che ne risultava oltre a costituire una “eloquente documentazione dei fasti e più ancora dei nefasti della trasformazione urbanistica subìta dalla Città Eterna dopo il 1870” fosse integrato dalle precise indicazioni descrittive a proposito di ciascuna delle immagini pubblicate[98]. Era anche quello il segno della diffusione, per quanto embrionale, di un fenomeno culturale che all’interesse per la fotografia storica e per la storia della fotografia come parte della storia di una città affiancava una consapevolezza nuova, che ne riconosceva il valore autonomo di formazione culturale, tanto che la necessità di una precisa coscienza e conoscenza storica dei fatti e delle culture fotografiche era in quegli anni fortemente sentita anche dai fotografi più attenti: si pensi al programma di iniziative del Centro per la cultura nella fotografia di Fermo, voluto da Luigi Crocenzi nel 1954 ma attivo dal 1956, che tra le “sezioni di studio” comprendeva “Storia della fotografia” e “studi storici”, ma anche “Letteratura e fotografia”, “Cinema e fotografia” e “Fotografia e arti figurative”[99]; il tutto destinato a favorire lo “studio approfondito della storia delle idee e delle poetiche che hanno condizionato la creazione di opere che sarebbe opportuno studiare per comprenderne i valori e per acquisirle come ‘classici’ della fotografia.”[100]
Ancora Lamberto Vitali
Il ruolo pionieristico svolto da Vitali[101] per il riconoscimento e la valorizzazione del patrimonio fotografico storico italiano divenne ancor più rilevante quando, nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957, promosse la mostra dedicata a Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[102] a soli due anni dalla pubblicazione di The History of Photography[103], anche con la speranza di poter creare in città un Museo nazionale della fotografia presso la stessa sede[104]. Nella Prefazione al catalogo i coniugi Gernsheim riconoscevano criticamente un nesso significativo tra il nostro neorealismo e la storia della fotografia, ricordando come “negli ultimi anni la fotografia e la cinematografia italiane hanno riportato il mondo a una interpretazione realistica della vita, lontana dalle romanticherie e dalla finzione. In ciò può essere visto un ritorno alla documentazione onesta e immediata della metà dell’Ottocento che ebbe una breve rinascita nei reportages [sic] di alcuni fotografi tedeschi, francesi ed americani fra il 1920 e il 1940”[105]. Si auguravano perciò che l’iniziativa potesse servire anche a promuovere la conoscenza della storia della fotografia italiana, di cui citavano quale unico antecedente di rilievo la mostra romana del 1953[106], esponendo comunque alcuni esemplari di autori attivi in Italia nel corso del XIX secolo tratti dalla loro collezione: James Anderson, Luigi Bardi (ma Leopoldo Alinari), Robert Macpherson[107], Antonio Perini, Carlo Ponti e un “Ignoto” napoletano attivo intorno al 1865, accanto a alcune tavole della monumentale opera dedicata alla Basilica di San Marco dall’editore Ferdinando Ongania[108].
Accanto a questi comparivano gli autori compresi nell’inedita sezione dedicata alla Antica fotografia italiana curata da Vitali, “precoce conoscitore del patrimonio culturale della fotografia”[109] nel nostro paese, formata da circa ottanta fototipi provenienti da musei e collezioni private (Marino Parenti e Silvio Negro tra gli altri). L’occasione e il momento consentirono di delineare in prima approssimazione le caratteristiche di una storia della fotografia liberata da ogni vincolo referenziale, fondata sulla “minuziosa competenza e il rigore critico” del curatore quanto sulla consapevolezza che “la storia della fotografia italiana ancora deve essere scritta, né essa potrà esserlo se non quando saranno compiute quelle ricerche, che il passare del tempo e la dispersione e la distruzione di un materiale fragile e apparentemente di poco conto rendono purtroppo sempre più difficili.”[110] Nonostante questi dichiarati limiti conoscitivi, Vitali ritenne di poter esprimere un giudizio severo a proposito della vicenda italiana, che “non ebbe operatori dalla personalità, per esempio, dello stesso Hill o di Nadar (…) anche se in Italia si ripeté la vicenda di pittori scoraggiati (il Faruffini) o falliti (il Caneva), che nella fotografia cercarono una fonte di guadagno più sicuro, bisogna riconoscere che si trattò essenzialmente di un artigianato, che tuttavia diede frutti assai saporiti.” Il testo proseguiva specificando le motivazioni non tanto dell’iniziativa in sé (“doverosa appendice alla mostra della collezione Gernsheim”) quanto dell’impostazione e della selezione delle opere, certo condizionate dalle conoscenze e dalle disponibilità di collezioni pubbliche e private ma anche dalla capacità di individuare criticamente alcuni punti nodali di quella storia: “È naturale che in un Paese come il nostro, ricco di testimonianze preziose dell’antica arte, i professionisti (…) si dedicassero soprattutto, anche per ragioni di opportunità commerciale, alla documentazione di monumenti e opere d’arte [realizzando] serie notevolissime, oggi doppiamente preziose per le trasformazioni rabbiose subite dalle città italiane nel corso degli ultimi cent’anni. Naturalmente questa non fu la sola attività dei fotografi nostrani, non tutti professionisti (…) Accanto alla fotografia di paesaggi e di architetture, prosperò quella di ritratti, forse aiutata dagli entusiasmi per la riconquistata unità e per i suoi eroi (…). Ma accanto a vedute di città (…) si è voluto attirare l’attenzione su quelli che si possono definire gli incunaboli del reportage fotografico. In una civiltà come la nostra, nella quale l’elemento visivo acquista ogni giorno più peso, anche se a scapito di ben altri valori, simili esempi, oltre alla loro importanza di documenti storici, acquistano un particolare sapore. Ed il giorno, che speriamo non lontano, in cui la personalità dei fratelli conti Primoli, Giuseppe e Luigi, ma soprattutto di Giuseppe troverà il suo illustratore, ci si accorgerà quale ‘poeta della vita del popolo’ e quale ‘avvertitissimo fotografo giornalista’ – per ripetere le parole di Silvio Negro – fosse quest’ultimo: il fotografo forse più originale e più vivo che in cent’anni abbia dato l’Italia, certo quello più vicino al nostro gusto.” [111]
Un augurio che assume, letto oggi, il senso di un auspicio e di una promessa e che rendeva ragione delle molte immagini di tema risorgimentale e delle ricchissime sequenze (circa settanta fotografie) che componevano i reportage di Primoli, cui Vitali avrebbe dedicato la prima importante monografia nel 1968[112]. Questo brevissimo testo, che si riallacciava idealmente sin dal titolo (Antica fotografia italiana) al contributo del 1936, non poteva né voleva essere quella prima sintesi storiografica (delineata semmai dagli esemplari in mostra) di cui si sentiva ormai l’esigenza e che invece prese forma più articolata, per quanto ancora necessariamente sintetica nel testo redatto dallo stesso Vitali[113] per l’edizione italiana di The Picture History of Photography di Peter Pollack [114], tradotta tempestivamente da Garzanti sulla scia del successo della mostra alla XI Triennale. Una grande opera di oltre 600 pagine, dedicata “a Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim”, strutturata in modo molto discutibile[115] sulla presentazione di un ristretto numero di “grandi autori” considerati quali figure emblematiche e qui arricchita di un capitolo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, ricco di quarantasette riproduzioni in parte corrispondenti a quelle già utilizzate nel 1957. Qui lo studioso milanese ribadiva la propria interpretazione della “storia della fotografia italiana dell’Ottocento (…) soprattutto [come] la storia di un artigianato anziché quella di singoli artisti (…) Si aggiunga che in Italia il campo d’azione era in un certo senso già segnato e delimitato (…) così i fotografi ebbero la maggior fonte di guadagno proprio dai fogli di vedute e dalla riproduzione di opere d’arte (…) Ma si trattava di un compito che richiedeva una precisione obiettiva e scrupolosa senza permettere quasi un’interpretazione personale della realtà.” Nel tracciare il profilo delle vicende italiane inevitabili emergevano i debiti, e quindi i limiti di una ricostruzione ancora prevalentemente fondata su una rete di rapporti personali tra collezionisti[116], sebbene il quadro che ne risultava considerasse ormai – e per la prima volta – tutto il territorio nazionale: così tra le più antiche testimonianze comparivano Duroni e Stefano Stampa a Milano accanto ai dagherrotipi di Girault de Prangey (in collezione Gernsheim, di cui non pubblicava alcuna immagine); Giacomo Caneva, lo pseudo Augusto Agricola[117] e il vero Luigi Sacchi “un altro dei nomi che compare con onore fra i primitivi della fotografia italiana [che] ha lasciato una serie di grandissime fotografie (…) che sono fra le più belle che si conoscano, e perché è suo uno dei più vecchi nostri esempi di reportage fotografico, quello del ponte di Magenta dopo la battaglia del 1859.” Per i decenni successivi la ricostruzione storiografica adottava la ben nota distinzione tra “regolari”, tra i quali collocava i professionisti stranieri attivi in Italia, e “irregolari”, cioè “i dilettanti, non legati ad una formula destinata a rivelare presto la sua meccanica uniformità [che] ebbero certamente un’idea della fotografia che si avvicina alla nostra quando colsero aspetti apparentemente minori della vita del loro tempo con una schiettezza e talvolta un’audacia di visione e di tagli sconosciute ai professionisti.”[118] Che il giudizio fosse quello del critico piuttosto che dello storico lo rivelava proprio il richiamo a una sensibilità riconosciuta come moderna[119], quella stessa che gli faceva privilegiare la linea documentaristica del reportage che a partire da Lecchi conduceva a Giuseppe Primoli, “un uomo che nessuno aveva preso sul serio e che tutt’al più era tenuto con compatimento per maniaco”, a proposito del quale Vitali riproponeva letteralmente il giudizio encomiastico già espresso nel 1957. Quella posizione critica non poteva che implicare il rifiuto della “cosiddetta fotografia artistica”, tenuta ben distinta dalla fotografia dei pittori, a cui per primo aveva dedicato le sue cure col breve saggio su Faruffini del 1935 e qui ripresa a proposito dei rapporti tra De Gori e Signorini. L’avversione al pittorialismo e alla sua genealogia (analoga, credo, a quella per la pittura accademica e di storia), quella stessa che lo aveva portato nel 1957 a chiedere ai Gernsheim – senza successo – di escludere la Cameron ed Emerson dalla selezione per l’XI Triennale, individuava nei “nuovi procedimenti di stampa e [nella] pratica del detestabile ritocco” le caratteristiche principali di quella “disgraziata tendenza, che aveva tutti i favori dei sedicenti competenti, tanto la maniera dei ‘primitivi’ sembrava superata; gli esempi qui riprodotti del milanese Giovanni Battista Silo [ma H.P. Robinson[120]] e del piemontese Guido Rey (…) mostrano come ormai si fosse lontani dalle nettezze del dagherrotipo e dalle mediocri virtù della carte de visite, e quale eredità in questo clima provinciale si andasse preparando ai fotografi del secolo successivo.” Un giudizio che confermava la condivisione delle posizione critiche moderniste ancora a trent’anni di distanza[121], ma che contemporaneamente si distanziava e quasi si contrapponeva a quello di Heinrich Schwarz, a cui come sappiamo Vitali aveva guardato con grande interesse, che nella mostra da lui curata nel 1928, Die Kunst in der Photographie, aveva tracciato una genealogia che comprendeva anche Robinson. Oggi, quando a partire anche dal magistero di Vitali le nostre competenze storiche si sono fatte più ampie e strutturate, oltre a comprendere meglio quella sua avversione contestualizzandola, potremmo forse tornare a condividere in parte quel giudizio, ma per altre ragioni. Ora siamo consapevoli che la breve stagione pittorialista (e non la sua lunga, lentissima agonia salonistica e concorsuale, che ha avuto altre ragioni e significati) costituì uno snodo fondamentale per la formazione di una specifica cultura e produsse opere anche di altissimo livello, a cui corrispose però una sconfortante riflessione estetica, fatta di poco consapevole riproposizione di riflessioni, tesi e argomenti già ampiamente presenti negli anni intorno alla metà del XIX secolo e ormai consunti. Senza aggiungere elementi veramente significativi, senza sentirsi addosso l’alito incombente della tragedia e poi della modernità.
Per Vitali il 1960 fu l’anno de La fotografia e i pittori, pubblicato in estratto nella Biblioteca degli Eruditi e dei Bibliofili di Sansoni[122], anello cronologico di congiunzione tra quella Fotografia italiana dell’Ottocento compresa nella Storia di Pollack e la trilogia einaudiana. A partire dalle ricerche svolte per la pubblicazione del Diario di Delacroix[123], Vitali riprendeva – pur nella brevità del testo – alcuni temi già affrontati nel primo saggio dedicato a Faruffini per illustrare la funzione di ‘regista’ svolta da Telemaco Signorini nella realizzazione delle fotografie di Giulio de Gori e, più in generale, l’interesse anche strumentale dell’artista nei confronti della fotografia[124]. Nella lettura critica di questo breve intervento Paolo Costantini avrebbe poi riconosciuto il “ritorno a una questione grande, calata tutta nell’analisi del documento (…) Qui, ancora una volta, Vitali dimostra la volontà di rimanere vicino e aderente all’opera e insieme di muoversi con sicurezza in un terreno affatto indagato, intorno al quale non esisteva alcun comune consenso su cosa significasse fare critica, né su cosa si volesse prendere a oggetto di storia.”[125] Notazione affettuosa ma anche eccessivamente generosa, poiché se era vero che quei temi e quelle posizioni critiche erano ancora tabù per molta critica d’arte non solo nostrana, va ricordato che l’argomento era stato da poco affrontato da Jean Adhémar in una mostra da lui curata per il Cabinet des Estampes della Bibliothèque Nationale di Parigi, in cui veniva per la prima volta presentato “un insieme di opere molto varie, di epoche molto diverse che fa emergere i legami, le connessioni e le opposizioni fra la fotografia e la pittura”[126] e che sempre nel 1955 era comparso sulle pagine di “Fotografia” un articolo di Heinrich Schwarz[127] nel quale si sintetizzavano i contenuti di un suo importante intervento sui rapporti tra arte e fotografia[128]. Il tema sarebbe stato ripreso poco dopo in una lunga, importante intervista di Piero Racanicchi a Carlo Ludovico Ragghianti[129], al quale si doveva anche la riscoperta delle fotodinamiche dei Bragaglia, dovuta al fortuito ritrovamento nel catalogo della libreria antiquaria torinese Bottega d’Erasmo del numero de “La Fotografia Artistica” del maggio 1913 che ospitava l’articolo di Edoardo di Sambuy loro dedicato[130], da lui ampiamente chiosato nel proprio saggio per “sele arte”[131]; una fonte allora insostituibile essendo quasi “impossibile venire in possesso [dell’] introvabilissimo” volume originale di Fotodinamismo futurista prima della sua riedizione[132].
1967-1978
Il posto dell’Italia nelle storie generali
Il 1960 fu l’anno in cui venne dato alle stampe il primo tentativo italiano (quasi dimenticato) di redigere una ‘storia’ della fotografia di tipo manualistico o almeno, come modestamente ammetteva l’autore, un suo “facile compendio”. La Società Editrice Internazionale di Torino, di proprietà della Congregazione Salesiana, con forte indirizzo pedagogico e scolastico, pubblicava Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie, fotografo ben noto almeno in Piemonte e più in generale in ambito religioso per essere stato il secondo in ordine di tempo a riprendere ufficialmente la Sindone in quello stesso 1931 in cui partecipava con alcune sue interessanti opere all’edizione torinese della Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista[133]. Quel testo, per il quale non ci sentiamo di condividere il giudizio di Zannier che lo ha considerato un “rigoroso manuale”[134], era caratterizzato da una narrazione prevalentemente tecnico aneddotica, forse redatta per larga parte ben prima della sua pubblicazione come sembrava suggerire la sistematica italianizzazione dei nomi stranieri e la mancata citazione di Pollack tra “gli autori stranieri che lo precedettero”, ai quali rendeva omaggio pur con qualche refuso e qualche dimenticanza: “al grande storico della fotografia Joseph Maria Eder, al Potonnié, a Raymond Lecuyer, a Erich Stenger, al Newhall, al Gernsheim ed agli italiani Gioppi, Bettini, Santoponte, Rodolfo Namias, Enrico Unterveger ed altri, dai cui scritti raccolsi come l’ape dai molti fiori.” Questi, di fatto, i soli nomi italiani citati nel compendio, che non comprendeva Vitali né Negro, mentre l’apparato illustrativo presentava opere di Alinari e di un buon numero di ritrattisti (Sorgato, Brogi, Schemboche, D’Alessandri, Bernieri, Bolletti e Verri, Montabone, Sebastianutti & Benque, Ecclesia) ma riproducendo solo il verso delle carte de visite: indizio certo di un embrione di collezionismo. Accanto a questi autori ottocenteschi comparivano due delle opere presentate alla Mostra Futurista, comprese nel capitolo dedicato a Trucchi e fotomontaggi, e una piccola antologia di immagini di Sella, Rey, Massaglia, Sommariva, Bertoglio, Bricarelli, Peretti Griva e del fratello Angelo Enrie, prevalentemente tratte (ma senza dichiararne l’origine) dalle pagine degli annuari “Luci ed Ombre”[135] editi tra il 1923 e il 1934. Nonostante questi limiti l’opera presentava più di un motivo di interesse quali la conferma ‘poetica’ della distinzione tra dagherrotipia e fotografia[136]; l’accenno a temi di sociologia della fotografia quali la diffusione delle carte de visite; le pratiche fotomeccaniche ed anche i rapporti fra fotografia e letteratura. Certo non era, e non voleva essere “uno storico trattato”, di cui non possedeva né l’impostazione né la cura filologica nella presentazione dei materiali e delle opere, ma certamente era l’indizio, anche editoriale, di una prima considerazione per questi temi in un ambito diverso da quello del pubblico colto e del collezionismo erudito. Un’opera per certi versi da collocare accanto a un’iniziativa di tutt’altro genere e risonanza (e chissà se maggiore) come la pubblicazione nel 1966 delle sei figurine Liebig dedicate alla Storia della Fotografia (La camera oscura; Gli esperimenti del dottor Schultze; Le Eliografie di Nicéphore Niépce; La stereoscopia; Una preziosa alleata del giornalismo; Le più recenti conquiste)[137], mentre sulle pagine del “Notiziario” del Museo nazionale del Cinema di Torino Maria Adriana Prolo avviava la pubblicazione di fonti per la storia della fotografia italiana, sistematizzando notizie e dati raccolti in un quarto di secolo di amorevoli ricerche sulla storia del cinema muto italiano[138].
Anche la traduzione italiana di A Concise History of Photography[139] dei coniugi Gernsheim venne pubblicata nel 1966 da Adelphi sotto il marchio Frassinelli; il volume conservava l’impostazione dell’opera maggiore, suddivisa in due parti ancora poco integrate tra loro: “L’evoluzione tecnica della fotografia” e “I risultati artistici della fotografia”. Intenzione evidente era quella di superare i modelli storiografici di impianto tecnologico senza spingersi però sino a proporre una autonoma storia delle immagini e dei loro usi, articolata per problemi, come aveva iniziato a fare Newhall. Quale fosse la ‘posizione’ dei curatori rispetto al fare storia risultava esplicitamente da un’intervista raccolta da Angelo Schwarz nel 1977 nella quale il grande collezionista affermava con orgoglio di non essere “stato guidato da una metodologia storica, assolutamente, non ne avevo bisogno. Quando uno ha tra le mani cento immagini della Cameron o i famosi tre album di Lewis Carrol, ha tra le mani la vita.”[140] Per Ando Gilardi quell’opera era “largamente derivata da quella meravigliosa di Eder (…). Di originale, nel libro dei Gernsheim, si trova specialmente quanto può essere vantaggioso per accrescere la loro collezione di fossili e cimeli della fotografia, non solo in quanto tali, ovvero oggetti curiosi, ma opere d’arte: la qual cosa accade inevitabilmente quando i ruderi sono delle immagini.”[141] Sebbene – come in Newhall – si potessero riscontrare un’eccessiva propensione per la produzione anglosassone[142] e certe posizioni critiche oggi discutibili come la condanna assoluta del fenomeno pittorialista, il ruolo svolto dall’opera dei Gernsheim è stato rilevante specialmente nei confronti del panorama italiano essendo rimasta per almeno un ventennio, sino alla traduzione einaudiana di quella di Newhall, l’opera più nota in Italia. Dopo la mostra milanese del 1957 e il volume di Pollack la storia della fotografia italiana si era conquistato un piccolo spazio nella narrazione generale delle sue vicende, ma nella Storia dei coniugi Gernsheim non si faceva che un cenno indiretto all’utilizzazione del dagherrotipo nell’ambito della ritrattistica[143], mentre più ampi erano i riferimenti alla documentazione architettonica: venivano ricordate le riprese italiane di Girault de Prangey e quelle realizzate per Alexander John Ellis da Achille Morelli e Lorenzo Suscipi, considerati autori delle “più antiche fotografie d’Italia giunte sino a noi”, e soprattutto la meraviglia di John Ruskin a Venezia, di cui si citavano ampi stralci della nota lettera al padre.[144] Ancora all’ambito della documentazione del patrimonio storico erano riferibili gli altri autori attivi in Italia citati nel volume: da Eugène Piot a Robert MacPherson[145], segnalato come “uno dei più importanti fotografi di architetture del diciannovesimo secolo”, mentre il solo “che poteva reggere il confronto” con questi era ritenuto James Anderson, non a caso ben rappresentato nella collezione dell’autore[146]. Brevi citazioni erano riservate anche a Luigi Sacchi, Antonio Perini, Carlo Ponti e naturalmente agli Alinari, sciogliendo implicitamente l’equivoco attributivo della mostra del 1957, determinato dal fatto che “tutte le loro fotografie più antiche e più belle del 1854-1855 (…) portano stampigliato il nome di Bardi, cosa questa che portò naturalmente ad attribuirle a lui.” A questi si aggiungevano Giacomo Caneva, membro del “piccolo circolo di fotografi animato dal conte Flacheron”, Vittorio Sella col padre Giuseppe [Venanzio], “autore tra l’altro, del primo manuale generale di fotografia pubblicato in Italia”. Di Giuseppe Primoli si proponeva invece un interessante accostamento a Jacques Henri Lartigue (poi accolto anche da Daniela Palazzoli nella sua monografia del 1979), entrambi compresi da Gernsheim nel novero di quelle centinaia di “fotografi dilettanti, totalmente indifferenti alle esposizioni e alle accademie, [che] si servirono della macchina fotografica per istinto come del mezzo più appropriato per rappresentare i vari aspetti della vita in modo diretto e obiettivo, senza sentire il bisogno di manifesti che illustrassero le finalità ultime della fotografia.”
Alle tempestive traduzioni dei volumi di Pollack e Gernsheim fecero seguito le prime proposte sistematiche di una nuova generazione di autori italiani, a volte fotografi essi stessi come Ando Gilardi e Italo Zannier, o Renzo Chini, che nel discutere questioni di linguaggio fotografico[147] forniva anche alcuni elementi di storia. In ambito fotografico Chini fu tra i primi in Italia a confrontarsi con le posizioni di Roland Barthes, da poco tradotto, in un contributo compreso nel sessantunesimo fascicolo monografico de “I problemi di Ulisse”, dedicato a Cento anni di fotografia[148], pubblicato nel novembre del 1967 in occasione del ventennale del periodico. Le ragioni della pubblicazione erano indicate nella premessa di Maria Luisa Astaldi, che riconosceva alla fotografia il ruolo di “progenitrice e base di ogni tipo di riproduzione, che ormai si estende dal giornale e dal libro al cinema e alla televisione”, ma anche “in considerazione del fatto che ricorrono oggi cento anni dacché fu scoperta”; affermazione di per sé incomprensibile e contraddetta dalla stessa precisa Cronologia essenziale posta in appendice al fascicolo. Prescindendo da questo, l’insieme dei brevi saggi costituiva certamente il primo autorevole contributo italiano a una riflessione complessiva sul ruolo della fotografia nella società e nella cultura contemporanee, sino ad allora oggetto di scarsi e scarni interventi giornalistici, qui affidato a intellettuali di grande levatura: da Mario Praz a Cesare Brandi, Gillo Dorfles, Emilio Servadio, Mario Spinella ed altri. Nel generale intento di considerare i diversi aspetti del fenomeno risiedeva forse la ragione della scarsa e un poco eccentrica presenza di studiosi provenienti dall’area fotografica vera e propria (Chini, Ando Gilardi, Piero Berengo Gardin)[149] e l’altrettanto ridotta presenza di storici italiani: assenti Negro e Vitali come i più giovani Bertelli, Racanicchi o Zannier, il saggio di apertura venne affidato proprio a Gernsheim, seguito da un contributo di Jean Keim, entrambi però circoscritti al tema delle possibilità artistiche della fotografia[150]. Le questioni storiche e storiografiche risultavano quindi nominalmente assenti da quella ricognizione ad ampio raggio, sebbene ampi e significativi riferimenti e riflessioni fossero comprese nella maggior parte dei saggi ed Emilio Servadio, all’epoca presidente della Società Psicoanalitica Italiana, affrontasse i comportamenti di chi fotografa[151] a partire dalle analogie utilizzate da Freud ne L’Interpretazione dei sogni; quelle stesse a cui avrebbe fatto ricorso circa dieci anni più tardi Giulio Bollati a proposito di “fotografia e storia”[152].
Si doveva invece a un “bravo giornalista e cronista di nera” come Wladimiro Settimelli – così lo avrebbe un poco velenosamente definito Angelo Schwarz – la Storia avventurosa della fotografia[153] pubblicata nel 1969 con un anno di ritardo rispetto ai programmi editoriali. L’autore ne proponeva una ricostruzione dichiaratamente soggettiva e parziale, con esplicita esclusione delle vicende italiane per le quali riteneva “necessario un ulteriore lavoro di ricerca”; ciò che avrebbe dato i suoi discutibili frutti alcuni anni dopo. Il lavoro, costruito avendo in mente il “modello di letteratura popolare: il feuilleton”[154], assunse l’andamento di una sequenza di avvenimenti piuttosto che di immagini, adottando il tono e i titoli propri dei rotocalchi “popolari” (“Daguerre il furbo scende per le strade”, “Carta all’albume: una strage di uova”, per citarne alcuni) nella convinzione – errata – di essere utilmente provocatorio e didascalico; volendo proporsi come popolare ma essendo invece populista, inanellando perciò una serie ininterrotta di colpi di scena che toglievano interesse anche alle parti più ricche ed innovative, quali il capitolo dedicato a “Guerra – Rivoluzioni e repressioni”, certamente una novità importante nell’ambito della storiografia disponibile in Italia. Quella Storia avventurosa fu il solo riferimento bibliografico italiano citato da Zannier (1974) nel dare alle stampe una versione notevolmente ampliata della sua Breve storia della fotografia del 1962, che era stata il suo primo contributo storiografico in volume. La versione ampliata confermava una definizione del mezzo quale “prodotto di due diverse esperienze scientifiche, l’una nel settore dell’ottica (…) l’altra in quello della chimica”, che avevano consentito alla luce di “disegnare” “l’apparenza delle cose”. Adottando un andamento cronologico che riprendeva il modello di Newhall, Zannier procedeva per temi caratterizzanti (“Nasce un’industria” ma anche – più interessante – “Nasce un linguaggio”) secondo una trama evoluzionistica che si svolgeva senza soluzioni di continuità dalla “Preistoria” alla “Panoramica contemporanea”, a partire dalla considerazione fondamentale che “la fotografia, con tutte le prerogative che questo linguaggio ha nella civiltà contemporanea, nasce in definitiva con Talbot.” Scorrendo quelle pagine si comprendeva bene come i sintetici cenni alle vicende italiane non potevano ancora essere l’esito di fondate considerazioni storico critiche ma, più empiricamente, il frutto di una insufficiente conoscenza generale del patrimonio fotografico complessivo e delle relative fonti primarie, surrogato dal ricorso sistematico a informazioni ricavate dalle poche storie generali allora disponibili (Lécuyer, Newhall, Gernsheim, Pollack, l’edizione americana di Eder), senza ricorrere agli studi di Unterveger o di Negro, pur brevemente richiamati nel testo. Così Alessandro Duroni risultava il solo dagherrotipista citato e poco più che elencate erano le “oleografiche astrazioni architettoniche” di Alinari e Brogi o le “romantiche vedute romane” di MacPherson e di Anderson, già molto apprezzate da Gernsheim. Escludendo Primoli, trattato sulla scorta degli interventi di Piero Racanicchi e della recente monografia di Vitali, il resto si riduceva a poco più che un’elencazioni di nomi, determinando accostamenti che apparivano motivati da superficiali analogie formali, come nel caso di Faruffini, Rey e Peretti Griva, mentre uno spazio ampio era dedicato alla fotografia futurista: dai Bragaglia al Manifesto di Marinetti e Tato, pubblicato integralmente, dimostrando una per noi rara considerazione per l’edizione delle fonti.
Ancor meno fortuna ebbero le vicende nostrane in un’altra Breve storia, quella di Jean-Alphonse Keim[155], che citava solo di sfuggita pochissimi nomi, tra i quali il solito Anton Giulio Bragaglia, presentato come “fotografo [che] tenta talvolta di servirsi dello sfocato [sic] per ottenere un effetto di velocità.” Quando venne pubblicata la traduzione della sua Histoire, Keim era noto da noi per la sua collaborazione a “I problemi di Ulisse”[156] e per la pubblicazione di un interessante contributo sulle pagine di “Popular Photography Italiana” in cui aveva posto, seppure in modo necessariamente poco articolato, alcune questioni nodali e inedite per il panorama italiano: “Che cosa si deve intendere con ‘storia della fotografia’? E come affrontarne un’elaborazione? (…) Due appunti si impongono immediatamente, che paiono evidenti agli storici di mestiere, ma che spesso sono stati dimenticati da autori di diversa formazione. Comunque si affronti la storia della fotografia, essa si è sviluppata nel quadro della storia generale, della quale fa parte pur se essa ne viene molto spesso esclusa. Essa non può dunque venir studiata utilmente che posta nel contesto del momento, dei movimenti politici, economici e sociali dell’epoca.” [157]
Considerazioni indiscutibili ma di fatto prive di conseguenze visibili in quella Breve storia, arricchita da un’appendice sulla fotografia italiana firmata da Settimelli con una soluzione analoga a quella adottata per il volume di Pollack di quasi vent’anni prima. Il testo, redatto in origine per una collana di divulgazione, apriva infatti con questa imbarazzante definizione: “La fotografia è essenzialmente un’immagine del mondo ottenuta senza che l’uomo vi svolga un’azione diretta” e chiudeva coerentemente (cento pagine dopo) ricordando che “la fotografia si è allargata: non vi è più soltanto la luce a riprodurre il reale. I raggi fuori dallo spettro visivo (…) impressionano nuove superfici sensibili.”[158] Nel mezzo, una narrazione per schemi canonici (dalla preistoria al colore) che ricalcava la struttura utilizzata da Gernsheim, adottandone a volte anche i titoli di capitolo o di paragrafo, e forniva una sintetica sequenza di figure e vicende da cui era escluso non solo ogni riferimento più che generico “alla storia generale” ma anche qualsivoglia presa di posizione critica da parte dell’autore, che tendeva così ad oggettivare il contenuto del proprio discorso.
Di ben diversa impostazione e impegno la Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi[159] che Feltrinelli pubblicava nel 1976, della quale merita richiamare l’impatto che ebbe sulla cultura fotografica italiana, sebbene proprio le sue caratteristiche critiche e narrative (strutturali e testuali) la rendessero un prodotto culturale difficile da ‘maneggiare’, cioè da considerare e utilizzare secondo le consuete convenzioni della storiografia[160]. Il volume costituiva lo sviluppo e la sistematizzazione di ricerche già comparse su alcune riviste italiane come “Ferrania”, “Popular Photography Italiana” e in particolare “ Photo 13” ma – come ha ricordato l’autore nella premessa alla seconda edizione (2000) – l’opera venne scritta “nell’estate del 1976, pressato dall’Editore (…) appena in tempo per essere pubblicata come libro strenna per il Natale. Questo significò che non ebbi il tempo per modificarne due o tre volte la forma della scrittura, com’era mia nevrotica abitudine[161]. Com’era perché oggi so con assoluta certezza che quando viene riveduta e corretta la forma peggiora.” Pochi allora si accorsero che la sua copertina costituiva un’immagine a chiave e non una semplice figura antologica, essendo una citazione di quella del n. 140 di “Popular Photography Italiana” (maggio 1969), il più gilardiano dei numeri di quel periodico, dedicato al Calendimaggio della fotografia e al Primo Incontro Nazionale di Fotografia che si era tenuto a Verbania dal 31 maggio al 2 giugno di quello stesso anno[162]. Una inequivocabile scelta militante quindi; una presa di posizione fondata su di un assunto critico determinante e innovativo, e non solo per l’asfittico panorama italiano dell’epoca: “La fotografia (…) ha un secolo e mezzo, ma con essa da tempo si producono in un giorno qualunque più immagini di quante non ne sono state realizzate con tutti gli altri mezzi nella storia dell’uomo”; per questo la fotografia doveva essere considerata “l’ultimo dei procedimenti per fabbricare figure, il quale aggiunge alle proprie le possibilità di tutti gli altri”. Si trattava allora di affrontare le questioni poste dalla fotografia in quanto fenomeno di massa, considerandone gli aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi per insistere sulla comunicazione piuttosto che sulla produzione, abbandonando di fatto ogni prospettiva autoriale e estetica -ma anche linguistica – per affrontare piuttosto i nodi inestricabili che avevano legato storicamente produzione e consumo di questa “polvere iconica indistinta” determinata dalla moltiplicazione fotomeccanica di cui lo stesso Gilardi fu appassionato cuoco bulimico. Posizione non inedita, anzi patrimonio comune di molta cultura di secondo Ottocento, riconoscibile in molte voci enciclopediche o negli scritti di autori quali Paolo Mantegazza e Domenico Vallino[163] per limitarsi all’Italia, ma qui declinata avendo ben presenti Mac Luhan (“la galassia Niépce”) e Benjamin, a cui dedicava una bella voce del Dizionario in appendice al volume (“Linke Melancholie”). Accanto a questi numi tutelari si poteva riconoscere qualcosa di più che una traccia, una consonanza politica e culturale neppure troppo sotterranea con l’antiautoritarismo del decennio che si stava amaramente chiudendo. L’attenzione per l’iconografia delle figure sociali e culturali marginali (per la cultura, non solo materiale delle classi popolari) ed emarginate (dal delinquente lombrosiano all’alienato) si legava alle riflessioni filosofiche e politiche nate dal lavoro sulle istituzioni totali (da Basaglia a Goffmann, Laing e Foucault) nell’interpretare quelle immagini e le pratiche da cui derivavano come espressione di una società classista che intendeva la fotografia anche come strumento di controllo sociale. Secondo quella interpretazione i processi fotomeccanici, e non la fotografia in quanto tale (come voleva il titolo) costituirono l’esito di un processo (per Gilardi un progresso) di affinamento delle tecniche di moltiplicazione dell’immagine che aveva portato alla comunicazione di massa.
Anche la struttura del testo risultava innovativa, con andamento tematico più che cronologico, dove il titolo di ciascun capitolo costituiva – come in Settimelli – una sintesi icastica del contenuto (“Quell’industria sognata da Niépce poi chiamata la fotomeccanica”; “Il foto ritratto: dall’atelier alla galera, dallo schedario al computer”) strutturato su tre narrazioni parallele (testo/ immagini/ ampie didascalie), che fornivano suggestioni e percorsi di lettura poco praticati allora e dopo. Si veda a titolo di esempio l’analisi della serie di Figurine Liebig già ricordate, corredate da una nota che mettendo a confronto disegno, fotografia e fotoincisione costituiva a sua volta una sineddoche dell’intero impianto storiografico. Il solo dato mancante in quella lunga, virtuosistica didascalia era proprio la data di emissione (1966), e anche questa assenza costituiva un elemento caratterizzante del lavoro di Gilardi. Non che le date fossero sistematicamente assenti, né che si potesse sostenere che solo sul loro trattamento si dovesse fondare la valutazione di quell’opera, ma questa lacuna era significativa e più che interessante. Ciò che mancava clamorosamente a quella Storia era proprio un metodo storico ovvero, ancor più semplicemente, l’adesione minima alle regole della correttezza delle informazioni fattuali e della verificabilità delle fonti mediata dalla citazione archivistica o bibliografica. Adottando la distinzione semantica della lingua inglese potremmo dire che qui si trattava di Story e non di History; quello che veniva proposto era un racconto fortemente personalizzato, una narrazione pura (ma non arbitraria né – quasi mai – d’invenzione)[164]. Riprendendo una sua stessa, recente definizione (cui si sarebbe di certo fieramente opposto) potremmo dire che Gilardi è stato un caso tipico di “storico borghese (…) uno scrittore che scrive romanzi, ma crede o vuol far credere di essere uno scienziato”[165]. Il suo interesse prevalente era rivolto ai processi e agli ambiti, agli uomini di scienza e di varia cultura, meno ai fotografi; poiché le immagini citate (e poveramente riprodotte) erano da intendersi come esempi e tipi e non come realizzazioni emblematiche: da qui il disinteresse quasi assoluto per i loro autori. Era proprio nel continuo richiamo al ruolo centrale delle tecniche, in particolare quelle fotomeccaniche, alla sociologia dell’industrializzazione dell’immagine in termini di produzione e, in misura minore, di ricezione che risiedevano la novità e l’interesse di quel lavoro, accanto alla considerazione, allora altrettanto inedita, per le pratiche ‘culturalmente’ marginali ma socialmente e politicamente più rilevanti: le schedature operate da medici legali, psichiatri e polizia[166], la fotografia pornografica e quella anonima; prestando sempre una grande attenzione (più affabulatoria che analitica) alle loro relazioni con l’immaginario e l’iconografia di tradizione ‘popolare’.
In quella prospettiva evoluzionistica e sociale in cui lo sguardo si spostava necessariamente dalla fotografia, intesa come forma specifica per quanto diversificata di raccontare il mondo, all’universo generale delle immagini, non mancavano prese di posizione critiche allora certo non comprese ovvero considerate bizzarre. Basti pensare alla determinante riflessione sui fondamenti tecnologici (“avevamo sempre sospettato – come dirlo? – che la prima fotografia doveva essere il primo negativo, e non gli strani oggetti corrosi dagli acidi e dalla ruggine che vengono abitualmente proposti come tale, e che nessuno si azzarda a definire positivo o negativo”[167]) o alla posizione controcorrente espressa in merito alla fotografia artistica: “Da inqualificabili storiografie e critiche fotografiche improvvisate e correnti, le immagini del genere sono catalogate come ‘pittorialiste’ e addirittura decadenti e sono considerate non il massimo sforzo di ricerca prima di tutto tecnica sperimentale, ma come libera scelta fra varie possibili soluzioni espressive (…) Incredibilmente le storie della fotografia parlano di quella dell’Ottocento dimenticando che è stata prodotta con macchine e materiali che erano essi stessi medesimi quasi sempre sperimentali e alla sperimentazione costringevano anche chi non voleva.” Ancor più rilevanti alcune proposte di studio, come quella su uno dei “maggiori consumi fotografici di massa del nostro paese (…) relativo all’uso che ha fatto il fascismo della fotografia per la promozione del consenso al regime”, a cui dedicava un’importante voce del suo Dizionario, con puntuali indicazioni di ricerca ancora oggi scarsamente frequentate, come quella sul “fotoamatorismo come attività organizzata del tempo libero” o “all’impiego dell’immagine meccanica per l’organizzazione e la promozione del consenso”, riconoscendone l’elevata qualità al di là di ogni preconcetto ideologico.
Il volume conteneva anche un imponente Dizionario degli antichi termini, miti e personaggi dell’immagine ottica, di ben cento pagine, che si rifaceva alla tipologia di lunga tradizione dei dizionari, glossari e prontuari tecnici presenti in ogni buon manuale ottocentesco, mutandone però radicalmente il senso proprio nella scelta dei lemmi così come nelle caratteristiche di una scrittura barbaramente immaginifica, che rinunciava volentieri – come in tutti i suoi scritti del resto – alla correttezza filologica o storica a favore della fascinazione affabulatoria (si veda l’esempio ricordato da Tempesti del lemma Acqua di Javelle al posto del più ordinario e comprensibile Candeggina). Completavano gli apparati una “Biblioteca del fotografo dell’Ottocento”, che si proponeva di integrare la ricca bibliografia prodotta da Buguet e Gioppi[168] nel 1892, estendendola sino all’anno 1900, e una più sintetica “Biblioteca moderna”.
Data la sua posizione critica e l’impostazione del volume che da quella coerentemente derivava, sarebbe stato difficile attendersi dalla Storia sociale di Gilardi, un riferimento sistematico alle vicende italiane e ai nostri autori, fossero questi Stefano Lecchi o l’amato Francesco Negri, alla cui prima monografia aveva pur collaborato nel 1969, ma di cui non si peritava di fornire dati tecnici errati in merito ad alcuni singolari materiali sensibili da quello utilizzati[169]. Lui era più interessato ai processi che agli autori; alle caratteristiche generali dei fenomeni piuttosto che alle loro manifestazioni nazionali o locali, ricordando semmai figure minori o minime (come Rebughi – Candiani e C. di Brescia o Arrighi di Portoferraio, sconosciuto allo stesso Becchetti[170]) ma funzionali al proprio discorso. In questo contesto andava inteso quindi solo in parte come un’eccezione il capitolo quattordicesimo[171], tutto dedicato all’ideologia del “socialismo fotografico” espressa dalla Società Fotografica Italiana e dal suo primo presidente Paolo Mantegazza, che produsse alcuni dei “documenti fondamentali per mettere a fuoco (è il caso di dirlo) la questione sociale della fotografia alla fine dell’Ottocento, e non solo nel nostro, ma qual è in tutti i paesi industriali.” Analoghe furono le ragioni per collocare numerosi esempi di fotografia ‘sociale’ (briganti, criminali politici e comuni, soggetti lombrosiani in genere) nell’ambito del successivo capitolo dedicato al ritratto, uno dei più efficaci argomenti di ricerca e divulgazione di Gilardi, a cui due anni più tardi avrebbe dedicato una monografia.[172] Altre importanti suggestioni riguardavano poi un ambito che da sempre aveva connessioni profonde con le vicende italiane, vale a dire “l’accoglienza da parte della Chiesa, romana specialmente ma poi delle organizzazioni religiose nell’insieme, del nuovo mezzo di produzione delle immagini, ovvero dei procedimenti fotografici”, a partire dal commento al testo del gesuita Pietro Antonacci, scritto nel 1847 “per comodo delle Missioni straniere”[173].
Dizionari ed enciclopedie
Alla fotografia dedicavano un rinnovato interesse, e uno spazio maggiore, anche le varie opere di consultazione che si andavano pubblicando in quel periodo. Nel quarto volume dell’Enciclopedia Europea edita da Garzanti la redazione della voce specifica venne affidata a Oscar F. Ghedina[174], prolifico autore di manualistica, il quale le diede – coerentemente – una impostazione evoluzionistica su base tecnicistica ma facendola precedere da una sintetica sezione dedicata alla Nascita ed evoluzione del mezzo fotografico, strutturata diacronicamente per coppie di categorie o concetti ma sorprendentemente inficiata da strafalcioni tecnologici, ben esemplificati dalla descrizione della “lastra di peltro spalmata con una sospensione bituminosa di sali d’argento” di cui si sarebbe servito Niépce. Da questo quadro incerto emergeva però qualche suggestione culturalmente più aggiornata, quale la lettura della diffusione del ritratto come fenomeno connesso alla “ascesa sociale e [al] desiderio di affermazione mondana dei nuovi ceti benestanti”, che riecheggiava le tesi di Gisèle Freund, pubblicate in Italia l’anno precedente su sollecitazione di Bertelli[175]. L’edizione italiana della notissima “The Focal Encyclopedia of Photography” (1969) venne pubblicata dalla Fabbri Editori a dieci anni di distanza, rivista e aggiornata da Maurizio Capobussi, come “Enciclopedia pratica per fotografare”; destinata al grande pubblico dei fotoamatori, con una tiratura iniziale di 100.000 copie ben presto cresciuta a 160.000. Ciò che distingueva nettamente quella edizione era la presenza in ciascun fascicolo di inserti dedicati ai più interessanti autori italiani contemporanei curati da Quintavalle, al quale si doveva anche la corposa introduzione ai volumi, in cui delineava un “territorio della fotografia (…) ampio quanto la nostra cultura”[176]. Le finalità eminentemente pratiche dell’opera e la scelta di individuare “un sistema letto orizzontalmente, cioè tutto contemporaneo” portarono al rifiuto del “modello arcaico delle figure-guida, dei capolavori fotografici” ma anche alla ridotta presenza di elementi di storia nelle quasi 2.700 pagine complessive, che pure contenevano una voce non banale dedicata al Pittorialismo[177], né comparivano altro che nell’introduzione riproduzioni di fotografie storiche, essendo le voci corredate di efficaci, didascalici disegni. Con una qualche realistica ragione i curatori originari avevano ritenuto che la storia non rientrasse tra i principali ambiti di interesse di chi si dedicava alla “Amatoriale, fotografia”, di coloro cioè che “praticando un mestiere o una professione qualsiasi, occupano una parte del loro tempo libero con la fotografia”[178]. Per colmare questa lacuna si ritenne indispensabile “fornire al pubblico italiano una enciclopedia della tecnica fotografica e della sua storia”: per colmare “un vuoto che è anche il vuoto della cultura dell’idealismo, il vuoto dell’arte contrapposta alla tecnica (…) per dare a lui ed a tutti coloro che vogliono concretamente sperimentare e ricercare, uno spazio diverso, una differente dignità culturale”[179]. Lodevole intenzione che non si tradusse però in una radicale revisone del’impianto originario né teneva sufficiente conto del fatto che alla “storiografia fotografica” era dedicata una specifica voce, verosimilmente non apprezzata da Quintavalle per la sua impostazione, datosi che vi si affermava perentoriamente che “lo scopo principale delle storiografo fotografico è quello di trattare l’evoluzione tecnica. Oltre a ciò deve menzionare gli uomini che impiegarono le tecniche e i risultati da questi raggiunti. La storia della fotografia è infatti anche la storia di fotografi e fotografie.”[180] La concezione qui espressa da Andor Kraszna-Krausz, fondatore della Focal Press e curatore dell’edizione originale, certo piuttosto distante dalle più recenti riflessioni storiografiche, si rifletteva chiaramente nella struttura e nel trattamento generale dei temi di storia, che trovavano spazi concreti di sviluppo specialmente nelle voci tecniche e non in quelle dedicate ai ‘generi’ o agli ambiti di applicazione: quelli che meglio avrebbero consentito una presentazione storico critica culturalmente aggiornata. Nonostante questi limiti l’intento di offrire alcuni primi elementi di orientamento al pubblico fotoamatoriale fu certo positivo, specie considerando che gli strumenti sino ad allora disponibili erano di livello incommensurabilmente inferiore. Basti considerare a questo proposito una pubblicazione come la “Enciclopedia generale della fotografia” delle Edizioni AFHA Italia di Milano, che nel primo volume conteneva un breve testo anonimo che raccoglieva Aneddoti sulla Storia della fotografia, illustrato con disegni al tratto di sapore incongruamente e involontariamente ottocentesco. Un contributo che non merita neppure di essere commentato ma che costituiva – accanto alla voce curata da Ghedina per Garzanti – un buon indicatore di quale potesse essere considerato il livello minimo di conoscenze nell’Italia degli anni Sessanta – Settanta, prima che si avviasse anche da noi una prima e più attrezzata riflessione generale su questi temi.
Anche Cesco Ciapanna, noto editore di manualistica e della rivista “Fotografare”, pubblicava un Dizionario della fotografia[181] prevalentemente tecnico, nel quale però “non potevano mancare i nomi dei personaggi che hanno contribuito a creare la storia della fotografia, o con le loro ricerche, o con le loro immagini”; dove per “ricerche” si dovevano implicitamente intendere quelle fotochimiche o tecnologiche, datosi che risultavano mancanti le voci dedicate a Gernsheim o a Newhall, del quale Zanichelli aveva tradotto in italiano il saggio sulle origini della fotografia[182], e lo stesso Josef Maria Eder era ricordato principalmente quale scopritore “dell’azione indurente del cromo e dei cromati sulla gelatina.” Sorte non migliore toccava agli studiosi italiani, mancando ogni riferimento a Negro, Vitali, Gilardi o Miraglia, mentre a Zannier, “critico fotografico e fotografo”, era dedicata una voce piuttosto esauriente, con ampi riferimenti bibliografici. Altrettanto lacunosa risultava la serie delle voci dedicate ad autori storici della fotografia italiana[183], tanto che lo stesso Zannier nel recensire il volume indicava come “in una prossima edizione [fosse] opportuno integrare l’elenco dei fotografi, specie dell’800, in parte mancanti, perlomeno quelli italiani.”[184] Analoghe lacune connotavano la più recente edizione de La nuova enciclopedia dell’arte edita da Garzanti nel 1986, per la quale le voci specifiche furono redatte da Enzo Minervini e Roberta Valtorta. Nell’accurata recensione critica che ne diede Renzo Chini poneva però un problema diverso, derivato dalla difficoltà di “segmentare la cultura fotografica per riferirne in modo organico in una enciclopedia dell’arte”[185], certo un problema comune a questa tipologia di opere, ma ne segnalava anche alcuni limiti di impianto poiché “le voci specifiche non inquadrano abbastanza i fotografi presentati” essendo “impostate in modo alquanto pregiudiziale secondo il principio che solamente il genere della fotografia creativa è creativo”, mentre “il fatto che sorprende di più è l’assenza della voce fotografia, nel testo e nel dizionario dei termini in appendice.”[186]
Storie italiane: Archivi, fondi, raccolte
Nel 1967 venne pubblicato un numero monografico di “Imago – Proposte per una nuova immagine”, l’innovativo house organ della Bassoli Fotoincisioni di Milano[187], che conteneva “un piccolo Museo del Risorgimento in miniatura che è al tempo stesso un piccolo Museo delle origini della Fotografia in Italia”[188], utilizzando parte dei materiali presenti nella mostra Immagini del Risorgimento, prodotta dal CIFe nel 1967[189]. Nella sezione intitolata La fotografia arte diabolica Settimelli[190] citava una serie di documenti che testimoniavano come “voler fissare immagini effimere fosse un’offesa a Dio”, poste a commento della riproduzione anastatica dell’Editto cardinalizio del 28 novembre 1861 che vietava la detenzione non dichiarata di apparecchi fotografici, ben noto agli storici della fotografia a Roma. Quel documento venne poi pubblicato anche da Gilardi che ne dava però un’interpretazione diversa, connessa a questioni poliziesche[191] più che ecclesiastiche, tanto da polemizzare indirettamente (anche) con l’amico Settimelli: “si legge in alcune storie fotografiche di una opposizione, addirittura, che l’organizzazione religiosa avrebbe mosso, nell’Ottocento, all’immagine fotografica accusandola di diavoleria. Non esiste affermazione più infondata e sciocca di questa.”
Lo stesso Settimelli avrebbe di lì a poco raccontato La fotografia italiana in appendice al volume di Keim[192], dichiarando in apertura che “c’è ancora molto da indagare, qui da noi, sulla fotografia intesa soprattutto come fenomeno con spiccatissime caratteristiche sociali”. A quell’intenzione corrispondevano una serie di dichiarazioni velleitariamente ‘controculturali’ (“il ruolo rivoluzionario dell’immagine ottica”, la fotografia come strumento per “negare al potere la possibilità di ‘interpretare’ la realtà a proprio uso e consumo” e simili), per certi versi comprensibili nel clima di quegli anni sebbene poco consone a un giornalista di una testata ortodossa come “L’Unità”; prese di posizione che già all’epoca dovevano apparire come espressioni di una rozza superficialità ammantata di pretese politiche, incommensurabilmente lontana – solo per fare un esempio cronologicamente prossimo – dalle raffinate interpretazioni di Bourdieu, ben note in Italia per essere state pubblicate da Guaraldi nel 1972[193]. A queste sembrava comunque riferirsi polemicamente Settimelli nel criticare “i sociologi, gli specialisti in scienze umane e persino gli stessi studiosi marxisti [che] continuano ad avere, con la fotografia, un tipo di approccio poco rigoroso (…) Si rinuncia così – e questa può essere la sola logica spiegazione – ad utilizzare il lavoro di alcune centinaia di colti e bravi fotografi italiani dell’Ottocento.”[194] Il testo che seguiva, che sarebbe stato difficile definire sistematico, pescava a piene mani dall’ancora scarsa pubblicistica precedente – per altro mai citata – e si segnalava soprattutto per la scarsa accuratezza delle informazioni fornite[195], a cui non riusciva a fare da contrappeso l’estensione dell’arco temporale sino agli anni Cinquanta, come di lì a poco avrebbe fatto anche Zannier con un contributo specificamente dedicato al nostro Novecento[196].
Gli evidenti limiti della storiografia italiana di quegli anni si nutrivano di elementi diversi: da un lato l’assenza totale, quasi ingenua, di preoccupazioni metodologiche di ricerca e di elaborazione, sostituite nei casi migliori da una verve militante che soffriva però ancora troppo della formazione giornalistica degli autori; dall’altro una cronica carenza di dati, di materiali e di fonti disponibili per lo studio e l’indagine, a cui si tentava di porre rimedio con iniziative diverse per intenzioni e impegno, sebbene non scarse. Così accanto alle ricognizioni locali e territoriali, sovente però di stampo revivalistico, si assisteva a uno sviluppo per noi inedito di monografie, sia nella forma di articoli o allegati monografici ai periodici, in particolare “Popular Photography”, sia in quella più impegnativa del saggio autonomo o del catalogo di mostra, a loro volta legati a una prima preoccupazione conservativa per il patrimonio fotografico storico che si manifestava con programmi e interventi anche a livello centrale.
Tra il 1968 e il 1970 la Fototeca della Ferrania – 3M Italia aveva acquisito, con la cura di Roberto Spampinato, gli archivi di Ghitta Carell, di Elio Luxardo e di Attilio Badodi[197], mentre nel 1971 si costituiva come organismo separato l’Archivio fotografico del Comune di Roma, diretto da Lucia Cavazzi, e due anni dopo il Ministero per la Pubblica Istruzione emanava l’importante notifica di vincolo – la prima di tal genere in Italia – dei negativi costituenti l’Archivio Alinari, avanzata dal Soprintendente alle Gallerie di Firenze il 7 aprile e firmato dal Ministro Salvatore Valitutti il 18 giugno successivo[198]; atto che costituiva la conclusione – che crediamo inattesa – della proposta di vendita allo Stato fatta dallo stabilimento fiorentino di tutto il proprio archivio in bianco e nero, in previsione di convertirsi “nel ramo del colore.” L’offerta non venne accolta poiché la cifra richiesta era “assolutamente al di sopra di ogni ragionevole previsione di spesa e, a parere dello scrivente, sproporzionata al valore effettivo della collezione, per quanto esso sia veramente ingente”, ma l’impossibilità di un’intesa suggeriva a Carlo Bertelli, di applicare lo strumento della notifica, “nel caso in cui vi fosse una concreta minaccia di dispersione”, anche se, avvertiva, “non si sa se la legge consentirebbe di estendere la notifica alle lastre fotografiche (in tal caso sarebbe allora assai più urgente notificare quanto è rimasto degli archivi Reali e Sansoni, che sono stati quasi interamente acquistati dalla Frick Library di New York).” [199] La difficoltà di tutelare ex lege il patrimonio fotografico rendeva ancora più significative e rilevanti alcune iniziative del 1975: a livello statale, la costituzione dell’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e dell’ING – Istituto nazionale per la Grafica e la Fotografia (questa la denominazione completa, dal 2014 modificata in ICG – Istituto Centrale per la Grafica), nel quale confluirono il Gabinetto nazionale delle Stampe e la Calcografia Nazionale, quali organismi del neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, e la nascita a Parma, del Centro Studi e Museo della Fotografia, poi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione[200], voluto da Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università, che avviò una innovativa politica di acquisizione e tutela degli archivi (o parte di essi) di studi e autori italiani: da Orlandini e Villani a Bruno Stefani, promuovendo importanti mostre di Ugo Mulas, Nino Migliori, Luigi Ghirri e Mario Giacomelli.[201]
Fu lo stesso Quintavalle a firmare nel 1978 l’introduzione al volume dedicato a un altro, sommerso e negletto patrimonio archivistico, quello delle famiglie italiane. La mostra L’Italia nel cassetto[202] che si tenne alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nei primi mesi del 1978 prendeva le mosse dal programma televisivo Album: fotografie dell’Italia di ieri, curato da Piero Berengo Gardin e Virgilio Tosi con la collaborazione di Iole Sabbadini e contributi filmati di Raffaele Andreassi. L’esposizione, strutturata in diverse sezioni tematiche[203], si presentava quasi come una storia per immagini della nazione, frutto di una raccolta pubblica che mirava alla costituzione di un archivio fotografico, così che i materiali raccolti vennero riprodotti e ristampati tutti nello stesso formato, quindi filmati e – appunto – presentati nel corso di sedici puntate su RAI2 a partire dal 26 aprile 1977. I problemi metodologici e critici di quell’operazione vennero affrontati in apertura di catalogo da Quintavalle[204], offrendo al grande pubblico una serie di ‘istruzioni per l’uso’, a partire dal fatto che le poche centinaia di immagini presentate in mostra non potevano corrispondere né alla totalità di quelle inviate né di quelle selezionate per la trasmissione, sulle quali, inevitabilmente, Berengo Gardin e Tosi erano intervenuti con modalità diverse: dalla lettura del singolo esemplare con movimenti di macchina in truka all’ordinamento in una nuova sequenza temporale o spaziale. Non solo: la scelta di lavorare su riproduzioni uniformi cancellava ogni caratteristica originale dei materiali, riducendone ulteriormente il valore documentario, qui sottoposto a un doppio e distinto ordine di trascrizione per la mostra e per il catalogo. Quella assunzione di consapevolezza critica, da trasmettere e condividere col visitatore e col lettore, si accompagnava alla verifica delle possibili opzioni che sarebbero potute derivare da un diverso processo operativo, quello della conservazione degli originali: l’analisi dei differenti “codici della fotografia” presenti in quei materiali ma anche “l’organizzazione storica di una rassegna della fotografia in Italia”. Operazione allora “sostanzialmente impossibile” per ammissione stessa dell’autore, perché “debbono passare ancora molti anni di indagine (e di scoperta) dei materiali, e la nostra cultura su questo particolare modello di trascrizione (la foto appunto) deve diventare molto più acuta e soprattutto deve conoscere ben di più di quanto, oggi, ci è dato conoscere della produzione fotografica nel nostro paese.” Scartata quindi l’ipotesi di una restituzione storica, restava aperta la prospettiva sociologica “e, al meglio, antropologica dei fatti, cioè delle immagini proposte”; non quindi delle fotografie. Ne derivava la necessità di comprendere o almeno ipotizzare i criteri e le censure operate a monte dalle stesse persone che raccolsero l’invito, per provarsi poi – in sede critica – a suggerire alcuni problemi di comprensione della cultura visiva che quelle stesse fotografie esprimevano. Muovendosi lungo percorsi e ipotesi da sempre centrali nel lavoro storico critico di Quintavalle, si trattava di far emergere le relazioni non esplicitate con l’universo del visivo: dai generi pittorici, all’illustrazione e alla grafica, nella consapevolezza che “la sociologia dell’immagine comunque passa, o dovrà passare, per meglio dire, anche dall’analisi del senso che le immagini stesse assumono grazie al modello della loro trascrizione. La scrittura infatti è il modello attraverso il quale le immagini ‘sono’ e la scrittura è la loro materialità.”[205]
Posizioni critiche molto diverse, dovute a una differente formazione piuttosto che alla distanza temporale, erano state espresse da Tullio Seppilli giusto un decennio prima in apertura del catalogo della mostra L’evoluzione della famiglia italiana in cento anni di fotografia[206], che lo vedeva tra i curatori. L’antropologo aveva infatti parlato di “immagine fotografica” e non di fotografia, considerandola la “registrazione di una realtà (…) un’operazione (e il suo risultato) attraverso la quale a partire da una determinata realtà viene prodotta una sorta di ‘impronta’ o di ‘matrice’, stabilmente capace di provocare nell’osservatore una immagine percettiva (visiva, acustica) analoga a quella che egli avrebbe direttamente ricevuto dalla realtà stessa trovandosi al posto dell’apparecchio registratore.” [207] I debiti con la prima semiologia francese risultavano evidenti, piegati però a una specie di ‘ingenuità’ fenomenologica che riduceva il concetto barthesiano di messaggio senza codice a un meccanicismo positivista, essenzialmente tecnologico, (“la immagine fotografica non rinvia a un significato mentale ma direttamente alla realtà”) da cui sembrava escluso qualsivoglia elemento di connotazione culturale e linguistica, sebbene Seppilli riconoscesse poi che “l’impiego della fotografia può tuttavia comportare una codifica di significati mentali, e perciò il ricorso a un ‘linguaggio’, dando luogo a un vero ‘messaggio’ e quindi a un processo di comunicazione in senso stretto”[208], circoscritto però alla sola, esplicita e consapevole intenzione dell’operatore. Per Roberta Valtorta, che aveva dedicato a quelle due esperienze la propria tesi di laurea[209], si era tentata la “strada del censimento fotografico realizzato grazie alla diretta collaborazione dei cittadini e delle famiglie attuato attraverso i mass media”, utilizzando la fotografia “come strumento per cercare nel passato l’identità presente del paese, indagata con intenzioni democratiche nel suo tessuto sociale grazie alla partecipazione dei protagonisti stessi”, con un’intenzione di fondo che non poteva dirsi quindi altro che politica, sebbene sottintendesse anche quel “recupero di sapore revivalistico dell’immagine fotografica di utilizzo popolare” che avrebbe avuto proprio in quel decennio un primo considerevole sviluppo.
Le nostre prime e più estese ricognizioni del patrimonio fotografico non furono quindi di tipo storico ma antropologico e sociologico[210], perfettamente coerenti con i profili intellettuali dei curatori (da Gilardi a Seppilli), poco interessati o propensi a una riflessione sul linguaggio e orientati per converso ad una utilizzazione in termini strettamente referenziali (da qui le avvertenze di Quintavalle) come testimonianza delle condizioni di vita delle diverse classi sociali lungo circa un secolo. Certo contro le stesse intenzioni e aspettative dei curatori quelle realizzazioni costituirono di fatto l’antecedente e il modello di una sterminata serie di nostalgiche esposizioni locali, solo di rado condotte con criteri e obiettivi scientifici, anche quando originavano ed erano animate da intenzioni positive, come la ricerca condotta dai soci del Fotocineclub di Fermo che portò alla pubblicazione del volume Fermo, …ieri (1969) così recensito da Gilardi sulle pagine di “Popular Photography”: “io sono profondamente convinto che il fatto che dei soci di un circolo fotografico italiano si occupino di una ricerca storica (…) è storico davvero (…) è serio e, per quel che mi riguarda, rappresenta una svolta nella storia patria dell’immagine ottica. (…) Il senso dei discorsi ‘antipecora’ di Verbania era anche, forse soprattutto questo.”[211] Più interessato a comprendere il senso generale di quel genere di operazioni, e lucidamente critico, fu Franco Fortini, che offrì una lettura diametralmente opposta del fenomeno: “Oltre la moda, non l’intento di avvicinare bensì quello di distanziare mi pare dominante. È come pubblicare l’epistolario dei nonni. Portare a conoscenza storica, si dice. In verità: sbarazzarsi (…) volersi separare da un ieri ancora troppo vicino.” Le ragioni profonde di questo inconscio atteggiamento collettivo risiedevano “nel mezzo fotografico: saldato alle sue origini, alla causale della sua nascita, che è naturalistica, scientistica, verista, lassù nell’Ottocento. E fintanto che noi viviamo in una società dell’immagine (…) ogni nostro sforzo per liberarci di quell’ottica (e del suo inverso, simbolistico e magari surrealista) equivale a liberarci da quell’eccesso di vicinanza e di parentela (…). Quella illusione ci incolla addosso le generazioni fotografate, nell’album o nella cornice della credenza. Ricoverandole nell’ospizio della cultura istituzionale, nella esposizione e nel museo, crediamo di poter essere nuovi, di dimenticare il ‘caro estinto’ ”.[212]
Carlo Bertelli, “Popular Photography” e la fotografia storica
Anche l’Enciclopedia del Novecento, pubblicata nel 1978, conteneva la voce Fotografia, redatta da Carlo Bertelli, nella quale lo studioso ne restituiva il percorso collocandolo criticamente nel solco generale della storia della produzione e della ricezione (i modi e i codici) delle immagini; ponendo l’accento sulla industrializzazione delle tecniche e dei prodotti e sulla conseguente “moltiplicazione dei produttori [che] si ripete negli avvertimenti estetici impartiti dalle riviste specializzate”. Accanto a quel fenomeno collocava la scoperta e l’accettazione dell’imprevisto che avevano aperto le porte all’affermarsi della fotografia quale strumento di esplorazione e di narrazione soggettiva del mondo, contribuendo così alla riconsiderazione critica e al riconoscimento del valore storico della fotografia pittorialista (a cui l’anno successivo sarebbe stata dedicata la prima mostra italiana[213]), qui intesa quale momento di rottura con la concezione documentaria ottocentesca e come anello di congiunzione e avvio dell’avventura modernista. In quella prospettiva attenta alla fotografia come elemento costitutivo della modernità, poco spazio era concesso alle vicende italiane poiché “per molti anni, per tutto l’Ottocento e fino a questo dopoguerra, salvo rare punte isolate, la fotografia italiana risente del tono provinciale delle arti figurative, del giornalismo, della ricerca scientifica e, in genere, della mancanza di strutture del nostro paese”. Così il parco elenco di nomi considerati (oltre ai grandi studi: da Alinari a Sommer) comprendeva solo Cugnoni, Michetti, Morpurgo, Nunes Vais e Primoli, vale a dire tutti e soli quegli autori i cui fondi (con l’eccezione di Cugnoni e Primoli) erano stati acquisiti dal GFN nei primissimi anni Settanta[214] proprio per iniziativa di Bertelli. Alcuni di questi erano inoltre stati oggetto di recenti monografie edite dalla casa editrice Einaudi, di cui Bertelli era consulente, curati da studiosi romani a loro volta dipendenti (Miraglia) o in stretto contatto (Porretta) col Gabinetto Fotografico Nazionale e quindi con l’Istituto Nazionale per la Grafica di cui lo stesso Bertelli era stato via via direttore[215]. Il ruolo svolto dallo storico dell’arte milanese nella formazione e nella promozione di una cultura storica della fotografia in Italia e per la tutela del patrimonio prodotto nel corso di quella stessa storia è stato fondamentale, sebbene nella sostanza prevalesse ancora in lui il riconoscimento delle qualità del “fotografo interprete sensibile dell’oggetto”[216], vale a dire una concezione documentaria, per quanto raffinata, della fotografia. Altrettanto rilevante fu lo sforzo di portare questi temi all’attenzione del più vasto pubblico amatoriale, provandosi ad utilizzare sapientemente il canale offerto dalle riviste di settore per avviare iniziative che era allora impossibile proporre né tantomeno realizzare in quella che avrebbe dovuto essere la loro sede istituzionale.
I primi contatti con “Popular Photography Italiana” risalivano al 1970, quando Bertelli scrisse a Gilardi in risposta a “un suo gustoso articolo” comparso nel numero di aprile, per lamentare il fatto che, se si fossero incontrati, il Direttore avrebbe potuto fargli risparmiare “qualche grossa inesattezza”; in quella stessa occasione suggeriva che “Popular Photography dibattesse a fondo il problema della documentazione fotografica del patrimonio artistico, magari in una tavola rotonda cui sarei lieto di partecipare. Penso infatti che sia buon giornalismo risalire alle fonti.”[217] Nei successivi scambi epistolari Gilardi[218] propose, anche “a nome del direttore”, la stesura “di un articolo che la nostra rivista sarebbe lusingata di pubblicare”, trovando consenso in Bertelli che lo intendeva “come avvio di un dibattito più ampio.”[219] Ebbe così inizio un’importante per quanto problematica collaborazione che nel maggio 1971 vide la messa in cantiere di un censimento concepito da Bertelli che avrebbe dovuto essere condotto da “Popular Photography Italiana”: si trattava di realizzare “un repertorio degli archivi fotografici, sull’esempio di quello prodotto dalla Direction de la Documentation in Francia (1966), pubblicando in appendice al periodico una serie di schede “sul tipo di quelle francesi”, anche in considerazione del fatto che “naturalmente ci vorrà molto perché da noi un ministero compia un lavoro del genere.”[220] Il direttore della rivista accolse l’invito[221] proponendo a sua volta una collaborazione al periodico sotto forma di “rubrica fissa storica” che segnalasse anche le attività del GFN; nei giorni immediatamente successivi venne stabilito il titolo (Entroterra fotografico[222]) e definita una scaletta per i primi numeri: Morpurgo, Chigi, Valenziani, Cugnoni, Michetti, temi sui quali Lanfranco Colombo avrebbe poi coinvolto il GFN nell’edizione del SICOF di quell’anno.
Il censimento era a sua volta accompagnato da un Questionario agli uomini d’immagine, che aveva lo scopo di “accertare quanto la cultura fotografica entri nel bagaglio normale delle persone interessate all’immagine e di avviare in grandi linee un censimento delle raccolte fotografiche esistenti in Italia”, intendendo però prevalentemente quelle professionali (fotografi e agenzie) piuttosto che quelle istituzionali.[223] Il questionario apriva con la richiesta di informazioni in merito all’eventuale acquisto di fotografie, alla loro tipologia, cronologia e quantità, chiedendo infine di indicare le ragioni di quella raccolta e se la professione dell’intervistato avesse qualche “attinenza con l’immagine”. Nessun cenno invece, per quanto marginale, alla formazione culturale e agli eventuali mezzi per raggiungerla e aggiornarla (libri, mostre, periodici), ciò che rendeva piuttosto singolare lo stesso scopo dichiarato in apertura. Le parti destinate al vero e proprio censimento (“Repertorio alfabetico” e “Repertorio analitico”) confermavano il carattere strumentale dell’indagine, prevedendo oltre ai dati anagrafici del proprietario o del responsabile della collezione, una breve descrizione “al massimo di una ventina di righe” e la qualificazione professionale del titolare (Agenzia o fotografo professionista, per settore; editore; “servizio pubblico”; collezionista; “uno specialista che aggiunge la fotografia alla sua attività principale”). A queste informazioni seguiva una più articolata indagine quantitativa per generi (arte, ritratti, usi e costumi, istituzioni, fotografie scientifiche, ecc.) e tipologia (b/n o colore).
A chiusura del SICOF di quell’anno, che nella propria sezione culturale aveva ospitato una mostra dedicata a Michetti[224] e un incontro col direttore del GFN, Bertelli scrisse alla rivista un “letterone post-Sicof”[225] che il redattore capo Pier Paolo Preti decise però di non pubblicare perché “dal punto di vista redazionale (cioè del pubblico destinatario) la lettera risulta un po’ confusa”.[226] A questo rilievo il mittente rispose notando che “la lettera era stata letta da diverse persone prima di inviarla, ed era apparsa chiara a tutti, ma evidentemente non ci configuravamo il lettore-tipo di Popular photography sul modello del lettore di Grand Hotel.” Ciò che però gli premeva maggiormente era che si fosse lasciata cadere l’ipotesi di censimento, rispetto alla quale Preti confermava invece l’interesse del periodico, specie in quella fase in cui se ne stava ridefinendo l’impostazione. Nella lettera in questione Bertelli aveva lamentato anche lo scarso interessamento del pubblico del SICOF, “venuto essenzialmente per vedere i films [sic] di e su Michetti, sull’argomento che mi sta più a cuore, che è, per enunciarlo in termini burocratici, quello del contributo del fotografo alla conservazione e alla fruizione del bene culturale. Sono anzi gratissimo a Franco Leonardo [sic, per Ferdinando] Scianna, che con un paio di interventi calzanti mi ha consentito di accennare (…) ad alcuni dei temi più pressanti.” Scianna fu in quell’occasione, con Jean-Claude Lemagny, Giorgio Lotti e Lamberto Vitali, tra i pochi a intervenire al dibattito intorno a un possibile “Museo fotografico”, sollecitato anche da una piccola mostra del Cabinet des Estampes della Bibliothéque Nationale di Parigi, curata per quella stessa edizione da Lemagny, alla cui conferenza di presentazione però – notava sconsolato Bertelli – “c’eravamo, se ricordo bene, soltanto Lei [L. Colombo], io e [Lello] Mazzacane; un isolamento vergognoso, che fa temere che la sensibilità a un problema grave di organizzazione culturale sia scarsissima quando non vi sia la prospettiva di un inserimento in un apparato industriale.”[227]
La sezione culturale del SICOF (dal 1969) era un’invenzione e una creatura di Lanfranco Colombo[228], una delle figure centrali della fotografia italiana della seconda metà del Novecento, che contribuì non poco a sviluppare l’interesse per la fotografia storica nel nostro paese presentando nelle diverse edizioni non pochi autori e temi che negli anni successivi avrebbero goduto di grande interesse: dalla produzione degli Alinari (1969 e 1977) a Naya (1977); dalle fotografie del brigantaggio (1970)[229] a quelle dell’emigrazione italiana nelle Americhe (1973), ottenendo però scarsi riscontri poiché “la recente riscoperta della fotografia in Italia non nasce dal momento di una politica culturale anche nostrana, ma piuttosto di rimbalzo: dagli USA, dalla Francia, dall’Inghilterra (…) E non è solo un problema di egemonia economica.”[230] Nel marzo del 1966 Colombo era divenuto comproprietario e condirettore di “Popular Photography Italiana”, pubblicata dal 1957 come edizione italiana della testata statunitense sotto la direzione dell’architetto Alessandro Pasquali[231]; col numero 105 la testata si rese indipendente dall’edizione americana e la rivista uscì con una nuova veste, dovuta a Giancarlo Iliprandi. Crebbe in quegli anni anche lo spazio dedicato ad argomenti di storia della fotografia, con interventi tra gli altri di Gilardi, Settimelli, Turroni e Schwarz, redattore dal 1970, mentre si avviava una collaborazione con il fotografo e scrittore praghese Petr Tausk, al quale venne affidata una rubrica dedicata a La fotografia del ventesimo secolo. Appunti per una storia della fotografia, accompagnata da Note storiche redatte da Giuseppe Turroni[232]. Nulla più che uno zibaldone di considerazioni varie ma certo un inizio e un indizio. Col 1971 l’interesse si accrebbe, se pure non si può dire che si precisasse, con le collaborazioni degli studiosi legati al GFN e con gli interventi di Jean A. Keim e Oreste Grossi, in collaborazione con Gilardi, alle soglie del nuovo mutamento di testata: dal 1972 la rivista assunse infatti il nome de “Il Diaframma – fotografia italiana” per diventare poi semplicemente “il Diaframma”[233], come la galleria aperta da Lanfranco Colombo a Brera nel 1967, la prima ad essere esclusivamente dedicata alla fotografia. Nell’opinione di Ando Gilardi[234] la prima “versione italiana, arricchita con poveri testi tecnici e critici di produzione locale, fu in principio ancor peggiore di quella americana” nonostante la presenza di un redattore capo, poi condirettore, come Pietro Donzelli e di una rinnovata serie di collaboratori qualificati che comprendeva tra gli altri Piero Raffaelli, Luigi Crocenzi, Morando Morandini, Bruno Munari, Gualtiero Castagnola e Piero Racanicchi, ai quali ultimi Beaumont Newhall espresse in quegli anni il proprio apprezzamento “dal momento che nessun altro periodico di fotografia ha mai avuto la costanza di ospitare in ogni suo numero articoli di tal genere.”[235] Tra i rari interventi dedicati ad autori italiani sulle pagine della rivista[236], particolarmente significativo risulta ancora oggi il breve ma denso saggio del 1961 che Racanicchi dedicò a quello che era allora il solo nome italiano a godere di fama e considerazione internazionali: Vittorio Sella[237]. L’interesse del testo non risiedeva tanto nell’analisi critica del grande fotografo quanto piuttosto in alcune considerazioni di ordine generale e di metodo che l’autore pose significativamente in apertura: “A volte mi domando se sarà mai possibile tracciare un disegno organico della fotografia italiana. Dalle prime ricerche, che qualcuno di noi ha già condotto, è emerso chiaramente e dolorosamente il vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza di coloro che avevano in consegna tale materiale. Specie se risaliamo indietro nel tempo, agli anni lontani del dagherrotipo e del collodio, sentiamo il peso di questa lacuna; ed allora ci rendiamo materialmente conto di quanto sia significante, in questo lavoro di ricerca, la mancanza di elementi concreti e di riferimenti precisi. Uno storico della fotografia che si rispetti, infatti, non può prescindere dallo studio diretto del materiale riferentesi ad autori dei vari periodi presi in esame. (…) Ne viene fuori un panorama della nostra fotografia che manca di compiutezza e di sintesi. E questo non può che disorientarci nel nostro lavoro di ricerca, specie se consideriamo il vantaggio competitivo dei critici americani, francesi ed inglesi, ben assistiti e coadiuvati da istituzioni ed enti, pubblici e privati, che da tempo e con cura si sono assunti il ruolo di archivisti scrupolosi di una massa di immagini fotografiche, che oggi vengono offerte allo studio attento degli storici e dei ricercatori. In Italia, probabilmente – proseguiva Racanicchi – fece difetto agli enti pubblici ed ai mecenati privati, una opportuna valutazione del significato informativo ed estetico di questo moderno linguaggio, proprio perché fu estranea alla coscienza dei più una idea precisa della sua moderna funzione sul piano dei valori visivi. (…) Trascurando così di valutare per le sue effettive possibilità un mezzo tra i più funzionali nel settore del linguaggio figurativo, gli italiani negarono alla fotografia quel credito di cui essa invece aveva bisogno. Perciò i nostri fotografi – molti sono gli anonimi o quasi – fecero del loro lavoro una seria produzione artigianale e niente di più, tralasciando le impegnative ricerche estetiche che difficilmente avrebbero avuto un pubblico men che disattento ed indifferente.” Analisi lucidissima, che non solo denunciava con largo anticipo lo status assegnato dalla cultura italiana al patrimonio fotografico, ma individuava – anche storicamente – nelle nostre condizioni socio culturali le ragioni e i condizionamenti che avevano connotato come ‘artigianale’ la produzione italiana, senza limitarsi – come invece aveva fatto Vitali, col quale condivideva le preoccupazioni per la dispersione del patrimonio – a segnalarne quasi di sfuggita i “frutti saporiti”. Questo e altri articoli monografici di Racanicchi vennero poi raccolti in due fascicoli di “Critica e storia della fotografia”[238] ma la rubrica che li ospitava ebbe vita breve; “poiché – come ricordava Renzo Chini – non vi era motivo intrinseco di interrompere tale rubrica, forse la prima del genere mai tentata, almeno in Italia, è da supporre che la sospensione sia stata la conseguenza del poco gradimento da parte dei lettori della rivista. La nostra ipotesi è avvalorata da giudizi ingiusti e insipienti su quegli articoli da noi ricevuti oralmente anche da parte di dilettanti così detti evoluti.”[239]
Piero Becchetti e le prime ricognizioni a scala locale e territoriale
Tra istanza revivalistica e interpretazioni psicanalitiche, ma anche con intenti di ricostruzione storica, si produssero tra anni Sessanta e Settanta una trentina tra volumi e cataloghi di mostra di argomento locale. Eterogenei per impostazione e interesse, molti di questi rimandavano sin dal titolo a una equivoca nostalgia dello sguardo, ricorrendo più volte a lemmi come “ieri”, “cent’anni fa” (e varianti), “antica”, “vecchia” (Asti, Bergamo, Oneglia, Torino); accanto a questi si potevano trovare alcuni, ancora pochi esempi di approccio storico e storiografico più consapevole[240], quali la pubblicazione nel 1963 del facsimile dell’album di Edouard Delessert del 1854 dedicato alla Sardegna[241], e i primi studi di storia della fotografia a Roma di Piero Becchetti, tra cui la mostra Roma cento anni fa nelle fotografie del tempo[242], che costituiva di fatto l’anello di congiunzione con l’iniziativa analoga curata da Silvio Negro nel 1953, anche per la presenza tra i curatori di Giovanni Incisa della Rocchetta, che era stato uno dei membri di quel Comitato esecutivo. A quella avrebbero fatto seguito negli anni successivi la monografica dedicata a Enrico Valenziani, con immagini provenienti dal fondo omonimo del GFN, e la mostra itinerante dedicata a Roma intorno alla metà del XIX secolo, con fotografie provenienti da collezioni romane e danesi, che dopo Palazzo Braschi venne presentata al Museo Thorwaldsen di Copenhagen e al Museo Ludwig di Colonia.[243] Pur con le dovute differenze queste mostre romane, come altre analoghe torinesi degli stessi anni[244], fondavano il loro interesse, e l’impianto storico critico che le sosteneva, sul delicato equilibrio tra rappresentante e rappresentato, certo imprescindibile e fondante per questo genere di fotografia documentaria, ma con una eccessiva accentuazione del secondo termine della relazione, orientandole ancora verso una storiografia urbana che vedeva nelle fotografie la propria fonte più accattivante e ostensibile.
Un primo tentativo di spostare l’accento sul patrimonio fotografico in quanto tale, quindi anche sugli autori e sulle opere fu proposto da Giorgio Avigdor, fotografo e collezionista, che ideò e diresse una prima ricerca sistematica presso le principali istituzioni della regione, poi confluita nella mostra Fotografi del Piemonte 1852-1899[245], riconosciuta come “una tappa metodologica importante [che] costituirà un modello di ricerca per mostre successive.”[246] Il catalogo valorizzava sin dal sottotitolo la presenza delle “duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana” presentate in mostra, ciascuna corredata da una scheda descrittiva che – nonostante le indicazioni dichiarate[247] – non contemplava la tecnica ma forniva ogni altra indicazione catalografica (titolo, data, misure, iscrizioni, collezione di appartenenza); anzi, a sottolineare l’importanza di quei dati le “schede delle opere esposte”, accompagnate da brevi note biografiche e dalla bibliografia relativa a ciascun fotografo, precedevano le riproduzioni a piena pagina, purtroppo stampate in un uniforme inchiostro seppiato. Scopo primo della ricerca era stato, ancora, quello di utilizzare e confrontare “materiali prodotti negli anni della prima diffusione del mezzo fotografico in Piemonte (…) per le sue implicazioni dirette con la storia dei luoghi”[248], ma arricchito da più complesse suggestioni originate dalla lettura di un dialogo in cui Carlo Bertelli e Giovanni Romano[249] avevano invitato a riflettere sull’efficacia dello studio dell’antica fotografia per gli autori delle nuove generazioni. Accanto alla funzione storico documentaria se ne riconosceva così la sua valenza di forma espressiva, di manifestazione di cultura che necessitava di essere studiata e materialmente salvaguardata. I due contributi in catalogo di Maria Adriana Prolo[250] e di Rosanna Maggio Serra[251] davano conto delle prime attività dagherrotipiche a Torino, non considerate dalla ricerca, e dell’importante fondo di documentazione archeologica e architettonica raccolto da Alfredo d’Andrade, senza tentare – se non tangenzialmente – un primo profilo storico complessivo; quello che avrebbe ricostruito Marina Miraglia pochi anni più tardi[252]. La ricerca, la mostra e il catalogo che ne dava conto presentavano rilevanti elementi di novità rispetto al povero panorama italiano, a partire proprio dalla volontà di fornire i primi elementi utili a ricostruire storicamente l’attività fotografica in quel preciso contesto territoriale e culturale. Da quei presupposti derivava la definizione delle stesse modalità dell’indagine, condotta prevalentemente in archivi pubblici e biblioteche, facendo emergere per la prima volta un patrimonio negletto, ora accuratamente studiato facendo ricorso a fonti primarie coeve e presentato in originale. L’approfondimento dell’analisi, sollecitato se non imposto dal misurarsi con un contesto circoscritto, e il confronto con le fonti, che obbligava a rinunciare alle generalizzazione e alla genericità, fornivano le prime occasioni per elaborazioni metodologiche di portata più generale, mentre la progressiva estensione del repertorio dei fotografi attivi in Italia offriva la base per delineare progetti di più ampio respiro.
Più complessa e articolata dell’esempio piemontese si presentava in quello stesso 1977 la mostra fiorentina dedicata agli Alinari[253], curata da Settimelli e Filippo Zevi, nuovo titolare della società dopo la scomparsa di Vittorio Cini che l’aveva fortemente voluta, marcando una svolta significativa nella considerazione della ditta fiorentina del valore storico ed economico del proprio patrimonio. Diversamente da quanto si era fatto per Fotografi del Piemonte, per la grande mostra al Forte Belvedere, poi trasferita a Torino a Palazzo Reale[254], si era scelto di ristampare e ingrandire le vecchie lastre “con le tecniche più aggiornate” invece di esporre gli originali, “così – dichiarava Zevi – la fotografia rispetta il suo compito primario: che è di trasmettere una ‘registrazione’, qualunque essa sia”[255], privilegiando ancora la consolidata funzione e concezione referenziale, sottoposta invece a stringente verifica nei numerosi, importanti saggi in catalogo. Questi costituivano dal punto di vista storico critico la vera, determinante novità del progetto e dimostravano in concreto la necessità e la possibilità di affrontare i diversi aspetti della storia della fotografia con i più affilati strumenti metodologici.
Il volume apriva con una attenta ricostruzione delle vicende della famiglia Alinari, redatta da Settimelli in uno stile insolitamente sobrio, ed era corredato di un accurato regesto delle opere esposte, che per ciascuna immagine riportava gli elementi identificativi delle lastre originali[256]. Una prassi certamente importante ma viziata da una contraddizione interna, avendo come esito la descrizione puntuale di oggetti non corrispondenti a quelli esposti e pertanto ignoti all’enorme pubblico di visitatori[257], sebbene potesse forse trovare una qualche ragione d’essere nella volontà di soddisfare contemporaneamente esigenze di comunicazione divulgativa e di correttezza metodologica, almeno tendenziale. Una lettura criticamente attrezzata qualificava invece la sezione dedicata alla documentazione d’arte, curata da Massimo Ferretti con Alessandro Conti ed Ettore Spalletti, tre giovani storici dell’arte formatisi tra Bologna e Pisa. Il primo affrontava il tema nodale della ridefinizione storico critica dei concetti, e dei rapporti, tra traduzione e riproduzione, a partire dalla constatazione che “non sembra infatti opportuno presentare l’avvento della fotografia nella riproduzione d’arte come una frattura immediata e totale, un rapido voltar d’angolo, dietro il quale si incontrerebbero subito I Maestri del Colore e le tardive, spesso un poco talmudiche, letture italiane di Walter Benjamin”[258]; meglio seguire “le tappe di quella rivoluzione frenata e non sempre avvertita che fu la riproducibilità dell’opera d’arte”, coniugando trasformazioni tecnologiche (nella capacità di trascrizione del colore, ad esempio[259]) e allargamento delle fasce culturali e sociali degli stessi destinatari, dal momento che “la fotografia diventò uno strumento di conoscenza più facile e immediato”, per la cui lettura non era più necessaria la competenza specifica del conoscitore di stampe. “La fotografia d’arte – proseguiva Ferretti – è un codice non meno complesso di quelli stabiliti nei vecchi procedimenti, ma il suo utilizzo è più vasto e meno specializzato. Per questo motivo le testimonianze degli ‘addetti ai lavori’ sull’importanza e sulla funzione della fotografia nello studio dell’arte non vanno sopravvalutate.” Mostrando una certa sintonia con Gilardi ricordava infine come l’utilizzo della riproduzione fotografica non avesse più che tanto influito sulla disciplina storico artistica e sul suo insegnamento, poiché semmai “la svolta si avverte acuta e definitiva (…) quando la fotografia esce dalle cartelle dei collezionisti ed entra nei libri d’arte.” Le due altre sezioni, dedicate rispettivamente a Firenze e all’attività ritrattistica, erano curate da un gruppo di studiosi di diversa formazione[260], alcuni dei quali avrebbero poi dato vita all’Archivio Fotografico Toscano. Mentre il testo di Silvestrini su Firenze restituiva il contesto storico economico degli anni considerati dalla mostra, senza affrontare il problema del cosa e del come gli Alinari avevano raccontato la loro città contribuendo non poco alla sua fortuna turistica, l’intervento di Fernando Tempesti, che solo l’anno precedente aveva curato una mostra dedicata ad analoghi temi[261], entrava nel merito dei modi e degli stilemi della loro produzione ritrattistica, utilizzando quale termine di confronto i ben noti “appunti pratici per chi posa”, dati alle stampe da Carlo Brogi nel 1895[262]. A considerarlo oggi il saggio di Tempesti presenta ancora una scrittura convincente ma notevoli limiti metodologici e più propriamente storiografici: nell’adottare quel testo e nello svolgere le proprie riflessioni, infatti, lo studioso non aveva tenuto conto di alcuni elementi che appaiono con grande evidenza determinanti, a partire dal fatto che Brogi si rivolgeva al soggetto piuttosto che all’operatore. Pur volendo prescindere da quell’artificio retorico restavano però aperte almeno altre due questioni altrettanto dirimenti: che esistesse una corrispondenza, non dimostrata, tra i modi di Brogi e quelli di Alinari, e che le modalità e i canoni adottati nei loro primi ritratti, datati verso il 1860, fossero rimasti immutati in quel trentennio cruciale che li separava dalla pubblicazione del ‘manuale’, redatto ormai a ridosso del nuovo secolo.
La mostra fiorentina costituì il primo evento di risonanza mediatica legato alla valorizzazione del patrimonio fotografico storico, privato in termini economico produttivi ma pubblico per incidenza culturale, che invitava a letture spinte oltre la superficie documentaria: “La mostra degli Alinari a Firenze – scrisse Stefano Reggiani – ha fatto capire che quando al documento si aggiunge l’autore, la vecchia fotografia diviene preziosa e articolata come un saggio. Per esempio, i monumenti d’Italia sono stati inventati dagli Alinari, che ne hanno stabilito in celebri immagini la forma ufficiale, la prospettiva vincolante. Ma come? Con che diritti? Diventando interpreti della realtà anche artistica, sovrapponendo alla bellezza una loro lucida, un pochino frigida e punitiva inclinazione moralistica. E così la gente, gli interni fotografati dagli Alinari sono documenti già elaborati e consegnati agli storici con un’aggiunta che bisogna ‘togliere’ e valutare.”[263] Una breve notazione giornalistica, certo, ma ben consapevole della necessità di superare il puro dato referenziale per interrogarsi sulla funzione culturale, di prodotto e produttore di cultura, di una certa cultura, di quelle fotografie e dei loro autori.[264]
A quelle prime analisi monografiche (una regione, un’impresa) si affiancò poco dopo un’indagine di taglio orizzontale, che considerava tutto il territorio italiano: il fondamentale repertorio che Piero Becchetti dedicava a Fotografi e fotografia in Italia[265], adottando una titolazione che avrebbe avuto nei decenni successivi grande fortuna editoriale in opere declinate a scale diverse. Il lavoro, presentato da Fortunato Bellonzi come il “primo contributo sistematico ad una storia della fotografia in Italia che è ancora da scrivere”, era per larga parte fondato sulla raccolta personale dello studioso, testimoniando ancora una volta il legame strettissimo tra pratica collezionistica e storiografia che caratterizzava molte produzioni di quegli anni. Esso costituiva cronologicamente il frutto maturo di quel decennio che possiamo far iniziare con la pubblicazione del saggio di Vitali dedicato a Primoli, di cui diremo, e che si sarebbe di lì a poco compiuto con la pubblicazione del secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi. Il riferimento alla propria personale passione collezionistica posto in apertura, sebbene sotto tono, trovava la propria ragione e giustificazione anche nella quasi totale assenza di ricerche a scala regionale o locale che avrebbero potuto svolgere per lo studioso la funzione di fonti secondarie, mentre di una certa utilità era risultato il ricorso ad alcuni titoli stranieri, compresi i cataloghi di vendita delle principali case d’asta. Delle circa duecento immagini pubblicate, la prima ricca esemplificazione a scala nazionale, Becchetti forniva indicazioni in merito ad autore, soggetto, data, formato e tecnica, corredando a volte la didascalia di brevi note di contenuto, ricalcando cioè il modello editoriale utilizzato da Vitali, di cui riprendeva anche alcune formule testuali[266]. Il saggio introduttivo aveva andamento cronologico: dalla diffusione della notizia dell’invenzione alle relazioni di Talbot con studiosi italiani sino a “L’impero del collodio”, ampiamente trattato con approfondimenti relativi ad alcuni particolari ambiti di applicazione quali il ritratto, la stereoscopia e la fotografia scientifica, a cui si aggiungevano tre brevi capitoli di più ampia contestualizzazione. Da questi si distingueva quello relativo alla Grande panoramica con i combattimenti del 1849, con un salto di scala e di ambito che risultava difficilmente comprensibile nell’economia generale del volume ma che era dettato dalla volontà, poi frustrata, di pervenire a una corretta datazione di quella discussa immagine a partire dall’analisi dei referenti urbani, non considerando però quelli oggettuali né la tecnica, come se – ancora – la fotografia fosse in sé trasparente.[267] I singoli capitoli derivati dalla “umiltà severa della ricerca di Becchetti”[268] costituivano a quella data la più compiuta sistematizzazione dei periodi considerati, condotta con ampi riferimenti alle fonti archivistiche e bibliografiche coeve, non solo italiane, ciò che gli consentì di correggere e precisare alcuni dati forniti dai pochi studiosi precedenti che si erano misurati specialmente con la ricostruzione del periodo delle origini, da Silvio Negro a Maria Adriana Prolo, e di fornire alcune chiavi interpretative che dovevano favorire, in anni di sostanziale ignoranza del tema, una prima, diffusa comprensione dei fenomeni storici connessi alle innovazioni tecnologiche come la riproducibilità del calotipo o l’introduzione del negativo di vetro con emulsione al collodio, quando “la fotografia (…) cessò di essere considerata una meraviglia ottica o una curiosità. Con la folgorante introduzione del collodio termini come dagherrotipia e talbotipia, che pure avevano suscitato deliranti entusiasmi, vennero presto dimenticati ed eliminati dall’uso comune”. Un altro punto di svolta da lui precisamente indicato fu l’industrializzazione dei materiali sensibili e la conseguente diffusione amatoriale della pratica fotografica, portando di fatto – come per Negro e Vitali – alla conclusione della “grande stagione” della fotografia (in Italia e non solo). In quella periodizzazione andavano perciò individuate le ragioni, per altro non esplicitate, dell’arco cronologico considerato dalla sua ricerca, ma del resto questo lavoro di Becchetti si proponeva non tanto come una storia quanto come un repertorio (anzi, per molto tempo a venire: il repertorio) originato e condizionato dalla sua stessa, preziosa passione collezionistica piuttosto che dall’applicazione di un metodo in senso proprio. Le ragioni critiche credo possano essere invece riconosciute nella condivisione delle opinioni espresse dai maggiori studiosi che lo avevano preceduto: “Nonostante la rapida diffusione del mezzo fotografico e la sua immediata fortuna, la fotografia in Italia non ebbe personalità di rilievo tali (…) da farla considerare una fotografia d’eccezione. Essa ebbe uno sviluppo simile a quello di altre nazioni europee dove la produzione non raggiunse vertici altissimi pur esprimendosi attraverso valenti e qualificati artisti.” Oltre a questo giudizio pesava la consapevolezza, altrettanto condivisa, della necessità imprescindibile della ricerca di base, e delle sue lacune: “Dopo i pochi qualificati saggi che sono stati pubblicati sulla fotografia italiana, attualmente siamo in condizione di poter affermare che in Italia si è fotografato molto e bene ma non siamo ancora in grado di poter dare un giudizio critico complessivo a causa del grave ritardo con il quale nel nostro paese sono stati intrapresi questi studi. Per questo motivo, gran parte del materiale fotografico è ancora disperso in mille rivoli di difficile accesso o peggio ancora molto è andato inconsultamente distrutto. Solo quando il patrimonio fotografico residuo, che giace ancora negletto in biblioteche, archivi o soffitte, avrà avuto l’esatta collocazione storica e critica, integrata anche da ampie ricerche presso musei e biblioteche straniere, sarà possibile valutare nella sua interezza la fotografia italiana.”[269] Di quale potesse essere l’entità di questo patrimonio residuo dava indirettamente conto l’incredibile repertorio di circa 1.300 fotografi attivi in Italia dal 1839 al 1880 che costituiva la parte più rilevante e il contributo fondamentale di questo lavoro di Becchetti per la costruzione di una storia della fotografia nel nostro Paese, ordinato topograficamente per luogo di attività. Di ciascuno erano fornite informazioni di diverso livello e rilevanza, condizionate dalla disponibilità delle fonti, nella gran parte costituite dai soli supporti secondari dei fototipi reperiti, di cui in alcuni casi venne fornita la riproduzione, mentre solo per i maggiori Becchetti poteva disporre di documentazione bibliografica o archivistica, a sua volta indizio del loro contributo alla cultura e non solo alla pratica della fotografia; mi riferisco alle schede dedicate a grandi tecnici come Giuseppe Venanzio Sella, di cui ancora non era nota la produzione fotografica, Luigi Borlinetto o Giuseppe Pizzighelli e agli editori dei primi periodici come Ottavio Baratti e Antonio Montagna.
Le prime monografie
Con quelle iniziative si andavano delineando due distinti e per certi versi opposti filoni di ricerca, rivolti rispettivamente alla definizione di un contesto o all’approfondimento autoriale (dall’amateur ai grandi studi). La ricerca condotta da Becchetti aveva per la prima volta tentato la messa a punto di un repertorio sistematico, mentre la mostra dedicata agli Alinari, pur condividendone la dimensione territoriale (qui garantita dall’areale geografico della loro attività) rappresentava un importante modello di studio monografico, che da noi aveva ancora pochi precedenti, specialmente se espresso sotto forma di catalogo di mostra.
Un importante ruolo di promozione era stato svolto in tal senso dalle iniziative realizzate dal CIFe, il Centro Informazioni Ferrania, istituito nel 1961 dalla società omonima e chiuso nel 1972[270]. Il primo direttore era stato Guido Bezzola, capo delle pubbliche relazioni della Società Ferrania e direttore della rivista omonima, poi docente di Letteratura italiana all’Università statale di Milano, che firmò il testo della mostra dedicata alle Immagini del Risorgimento[271] (1967), prodotta ancora come Ufficio stampa e pubbliche relazioni della società. Quando la direzione passò a Marcantonio Muzi Falconi dopo l’acquisto da parte della 3M Italia vennero realizzate altre mostre di interesse storico, con cataloghi editi in collaborazione con la Cooperativa ”Il libro fotografico” di Bergamo, nata per iniziativa di Antonio Arcari, Cesare Colombo e altri[272]. Scopo della cooperativa era quello di “pubblicare libri che rispondano a certe esigenze di ordine ‘ideologico’, non nel senso politico certamente, ma nel senso di un nostro particolare modo di intendere la fotografia”[273], dando vita a “una attività editoriale fotografica culturale in un senso abbastanza largo del termine”, ma senza perdere di vista gli aspetti commerciali dell’impresa. Tra gli argomenti prospettati, tutti segnati da un preciso intento sociale e politico, “La condizione della donna in Italia” (…) “emigrazione, Scuola, Sport ecc. [che] potrebbero essere i titoli di una collana di ‘Storia italiana’, un progetto che da tanto sta a cuore di molti di noi.” Accanto ai volumi era prevista una “attività marginale, di minor impegno economico, ma di più precisi interessi culturali (…) rivolta all’attuazione di due ‘quaderni’ di 60-80 pagine che trattino problemi di storia e di cultura fotografiche, soprattutto nelle sue relazioni con il mondo della pittura e della grafica. La critica fotografica e gli agganci che essa ha creato in questi ultimi anni con i cultori di altre discipline è in grado di realizzare saggi che possono proporsi come contributi alla conoscenza e all’approfondimento di aspetti particolari e a volte decisivi della nostra civiltà dell’immagine. Per esempio: la fotodinamica futurista. Il fotomontaggio dada. Le rayografies [sic]. Toulouse Lautrec e la fotografia. Nascita del fotoromanzo. ecc.”[274] Ipotesi particolarmente suggestive e innovative, si pensi all’attenzione per un prodotto popolare come il fotoromanzo, in alcune delle quali si riconosceva, forte, l’influenza di Piero Racanicchi, ma che per più ragioni si tradussero in uscite editoriali più ‘moderate’ come La famiglia italiana in 100 anni di fotografia (1968) e le monografie dedicate a Francesco Negri fotografo a Casale (1969) e a Giovanni Verga fotografo (1970), a ridosso della scoperta dell’archivio fotografico dello scrittore fatta da Giovanni Garra Agosta nel 1966[275]. Il riscontro cronologico dei materiali verghiani aveva subito mostrato come quella sua passione si fosse manifestata solo nella fase declinante della sua attività di romanziere (“compagna di giorni stanchi”, la definì con esattezza Bertelli[276]) aprendo quindi interrogativi non ovvi sul più ampio tema del rapporto tra verismo e fotografia, tra letteratura e pittura: da Capuana a Michetti, ma dal quale, solo per apparente paradosso, dovevano essere escluse proprio quelle immagini. “Possiamo istituire un parallelo tra la narrativa di Verga e la sua fotografia? Sarebbe troppo – scriveva Enzo Siciliano – Queste immagini che il tempo ha ingiallito sono state l’occasione, a volta a volta cercata, per distrarsi da una feroce ipocondria.”[277] In conseguenza di queste e analoghe valutazioni critiche, lamentava deluso Settimelli, “chi pensava che la scoperta di un Verga anche fotografo stimolasse una analisi più precisa del rapporto tra fotografia e verismo è stato, fino a questo momento, smentito dai fatti perché non è successo niente di niente. (…) quella del Verga fotografo mi pare sia stata una grande occasione fatta cadere anche dai ‘verghiani’ più preparati e soprattutto dagli studiosi dello scrittore siciliano che si rifanno a Marx e Gramsci.”[278]
La monografia dedicata a Francesco Negri[279] da un gruppo di studiosi coordinati da Cesare Colombo era stata invece l’esito di un primo incarico di ricerca assegnato a Settimelli e alla moglie Fridel Geiger dall’Amministrazione comunale di Casale Monferrato nell’ambito delle iniziative promosse nel 1967 per “studiare e sviluppare l’azione necessaria per la rivalutazione e la divulgazione dell’opera di Francesco Negri e per degnamente onorarne la memoria” in vista del cinquantesimo anniversario della morte (1974). Il Comitato appositamente costituito aveva già promosso una prima pubblicazione ampiamente illustrata da immagini del fotografo casalese ma in un contesto di ricostruzione delle vicende ottocentesche della città[280], mentre il nuovo volume affrontava tutti gli ambiti di applicazione della fotografia coi quali Negri si era misurato, ciascuno affidato a un singolo studioso, preceduti da un testo di inquadramento generale della sua figura a firma di Settimelli. La presenza di differenti competenze consentì diverse letture e contribuì certamente a mettere in rilievo l’interesse dell’opera e del ruolo da lui svolto nella cultura fotografica italiana coeva, specialmente in qualità di sperimentatore curioso e qualificato di varie tecnologie, sebbene poi mancasse ogni e qualsivoglia descrizione delle caratteristiche tecniche delle immagini pubblicate. Come ricordava Settimelli, Francesco Negri “ha sperimentato di persona, volta a volta, nuove tecniche e nuovi strumenti ed ha messo a punto attrezzature mai usate prima. (…) Usa lastre di ogni genere e formato”, e così via enumerando, ma poi mai che si dicesse delle immagini riprodotte quali fossero le misure del negativo (non essendo quasi sopravvissute stampe), quale l’emulsione e la data di ripresa[281]. Unica eccezione la sezione dedicata alle tricromie, curata da Fabrizio Celentano, in cui si ripercorrevano le vicende delle prime ricerche sul colore sino agli ultimi anni di attività di Negri, pur non considerando la comparsa coeva delle autocromie Lumière con le quali si era pur sporadicamente misurato. Le modalità applicate e il quadro che ne era risultato erano per molti versi stimolanti e innovativi ma non ancora compiutamente coerenti, incerti com’erano tra un certo revivalismo neppur troppo celato (forse attribuibile alle esigenze della committenza) e una propensione all’analisi storico critica non ancora sostenuta dagli strumenti e dalle metodologie necessarie.
Ben più autorevole e accurata era stata la ricostruzione storico documentaria offerta dalla monografia dedicata al conte Giuseppe Primoli[282], di cui Vitali decise finalmente di diventare l’ “illustratore” dando la stura a una sequela di titoli fondati sulle testimonianze fotografiche di questo autore che ha avuto pochi confronti in Italia[283]. L’uscita del volume si collocava a poco più di un decennio di distanza dalle prime entusiastiche segnalazioni e costituiva un omaggio alla cara memoria dell’amico Silvio Negro, a cui era dedicato. L’avvio dell’importante saggio era canonico, trattandosi dello sviluppo di tesi già ampiamente annunciate nei più brevi testi precedenti, mentre molto più netta e incisiva era l’enunciazione dell’ipotesi storiografica, che legava sviluppo tecnologico e innovazione linguistica: “quando, attorno al 1880, dalla negativa al collodio umido fu possibile passare a quella della gelatina secca, si può dire che veramente avesse inizio un tempo nuovo per le sorti della fotografia. Fu, ancora una volta, l’ingresso rinnovatore degli ‘irregolari’ della fotografia”. E più oltre: “la fotografia di reportage o di attualità, quale noi l’intendiamo, quella che ormai ci opprime e rischia di sopraffarci talvolta con una mancanza di tatto e di scrupoli veramente inscusabile[284], la fotografia con i personaggi in azione fu conseguenza naturale del ritrovato di lastre più sensibili, che abbreviarono i tempi di posa da minuti primi a frazioni di secondo; così tutto un nuovo modo di intendere la fotografia si apriva agli operatori e non soltanto a quelli che ne esercitavano la professione.” Oggi siamo più consapevoli della rilevanza e del ruolo che gli amateurs ebbero nella pratica e nella costruzione di una cultura della fotografia, ben prima del processo di massificazione consentito e avviato dalle emulsioni alla gelatina e – ancor più – dall’uso dei supporti plastici, ma la rilevanza della notazione di Vitali non può essere diminuita dal riconoscere che era (anche) strumentale alla migliore presentazione critica del protagonista del saggio, introdotta dalla messa a punto di una genealogia italiana del fenomeno che gli serviva per “spiegare come il caso dei due fratelli Primoli non possa essere considerato eccezionale se non per i risultati.” Basti a questo proposito confrontarla con l’interpretazione riduttiva del fenomeno espressa solo pochi anni prima da Helmut Gernsheim, per il quale “usando apparecchi piuttosto semplici e, nella stragrande maggioranza, privi di un’educazione specifica, questi nuovi dilettanti non avevano mai sentito parlare di teorie compositive e si limitavano a fare istantanee facili e spesso molto graziose. (…) Facendo fotografie unicamente per il proprio piacere, la maggior parte dei dilettanti della nuova generazione è rimasta sconosciuta. Per questa ragione l’opera di alcuni di loro è venuta alla luce solo recentemente. Le numerosissime fotografie che il conte Giuseppe Primoli fece tra il 1885 e il 1905, per esempio, descrivono con ammirevole immediatezza e straordinaria originalità di concezione infiniti momenti di vita romana, tanto dell’aristocrazia quanto del popolo minuto.”[285]
Dopo aver affrontato in termini metodologicamente significativi la questione attributiva, assegnando al solo Giuseppe la più parte del corpus di immagini superstiti, e di fatto relegando il fratello Luigi in posizione assolutamente marginale, Vitali affrontava l’analisi del suo lavoro secondo categorie che – un poco contraddittoriamente – ricavava dal reportage moderno, considerando Giuseppe Primoli “come un vero e proprio ‘primitivo’ del reportage”; un autore che “del fotoreporter ha l’occhio sicuro, la decisione pronta, la rapidità d’azione, la curiosità insaziabile e inesauribile di tutti gli aspetti della vita che si anima intorno a lui”; il desiderio – si potrebbe dire – di cogliere l’immagine di quella vita “passante frammentaria e fuggevole” di cui scriveva il contemporaneo Marcel Proust[286]. Quella sua disposizione “alla creazione di una serie di immagini (…) è la stessa pratica che adottano al giorno d’oggi tutti i fotoreporters a principiare dai più illustri (…), i punti di contatto con gli operatori attuali sono altri ancora e non meno singolari. Primoli insegue l’avvenimento e non se ne lascia sfuggire nessuna fase. (…) E ancora: anticipando di mezzo secolo i Cartier-Bresson e i Bill Brandt – e qui veramente precorre il gusto d’oggi – Primoli ritrae spesso non l’avvenimento, ma l’avvenimento riflesso nelle impressioni degli astanti”[287]. A quella analisi delle qualità narrative di questo autore avrebbe reso omaggio Carlo Bertelli[288] un decennio più tardi riconoscendo “quella divinazione letteraria – tanto bene individuata da Lamberto Vitali – che dava al Primoli la capacità d’intervenire tagliente come un epigramma, e sempre al momento giusto. (…) Primoli è il vero e geniale fotografo zoliano: è suo il miracolo di una ‘rappresentazione esatta della realtà’ (…) [poiché] accetta la totalità della fotografia, ossia la sua incapacità di selezione e di organizzazione dell’immagine altro che in rapporto al tempo. (…) Avido di notizie, scatta dello stesso episodio quattro, cinque lastre in rapida successione, trovando di continuo, nell’osservare la scena, uno sviluppo che aggiunge qualcosa al già detto, al già fermato, quasi con un senso infelice del tempo che già non è più, dell’ora irripetibile. Allora la difesa, se non si vuole essere trascinati da una mania sconfinante, è l’ironia, la garbata ironia”. Le ragioni di quella disposizione narrativa erano riconosciute da Vitali nell’essere Primoli “doppio memorialista, scrittore e fotografo”, tanto che “Primoli fotografo non si spiega se non con Primoli memorialista, si può dire che uno nasca dall’altro.” L’analisi proseguiva serrata, considerando i moduli compositivi adottati[289] per svilupparsi con grande finezza interpretativa anche a proposito di quegli aspetti che Vitali giudicava negativamente, come le opere “ispirate alla pittura del tempo” nelle quali riconosceva un gusto non solo “essenzialmente letterario” ma anche scarsamente sensibile alle proposte più innovative del momento, pur riconoscendo che Primoli “fu salvo” dalla tentazione “di ottenere, con stampe alla gomma o al bromolio, effetti che rivaleggiassero con quelli della pittura più scadente.”
L’autorevolezza di quel modello e il successo del volume determinarono una diffusa attenzione editoriale per la produzione amatoriale dei rappresentanti della nobiltà italiana a cavallo tra Otto e Novecento: così dopo le Memorie fotografiche di Francesco Chigi[290] si pubblicarono le conturbanti pose della Contessa di Castiglione accanto alle più familiari fotografie di Casa Pignatelli, di Giuseppe Caravita Principe di Sirignano, del Marchese di San Giuliano, di Wladimir d’Ormesson, di Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia[291] o dei Lorena in Toscana. In quella occasione la selezione dei materiali piuttosto che fornire complesse testimonianze di vita o far trasparire un peculiare sostrato ideologico consentiva semmai di riconoscere le forti affinità espressive con altre analoghe produzioni del fotoamatorismo borghese coevo, tanto da indurre i commentatori a non “nascondere, sotto sotto, un senso di delusione per aver scoperto un mondo che credevamo e volevamo diverso, meno banale e meno quotidiano; delusione alla quale si sostituisce però ben presto il piacere di una lettura più partecipata di una visione di persone, luoghi e vicende colte nella loro reale, e quindi più genuina e sincera, dimensione umana.”[292] Un caso non infrequente in cui l’analisi non si spingeva oltre quelle descrizioni retoricamente superficiali, riducendo così di molto l’interesse della pubblicazione dei materiali presentati.
Nobiltà e alta borghesia come committenti e produttrici di corpora fotografici inestricabilmente connessi a un’intenzione più o meno consapevole, se non proprio a un progetto di costruzione di un’immagine di classe[293], furono in quegli anni il soggetto privilegiato di saggi e mostre, come fu per il banchiere fiorentino Mario Nunes Vais, al quale tra 1974 e 1978 vennero dedicate ben due esposizioni con relativi cataloghi e due volumi monografici, tutti derivati dalla donazione del fondo fatta dalla figlia Laura Weil al GFN[294]. Quel gesto consentì al nuovo direttore Oreste Ferrari di avanzare l’ipotesi della costituzione di un museo della fotografia, utilizzando gli altri fondi conservati da quell’istituto: “troppo poco, forse, per presumere di parlare d’un vero e proprio Museo storico della fotografia italiana; ma intanto c’è un nucleo di base che consente almeno di assolvere dignitosamente parte di quei compiti di informazione e di promozione degli studi che del Gabinetto Fotografico Nazionale sono peculiari e che meglio esso potrà assolvere quando farà parte integrante di quel nuovo Istituto per il Catalogo e la Documentazione dei Beni Culturali che è previsto dal progetto del Ministro Spadolini.”[295] Diametralmente opposta, decisamente riduttiva in termini di potenzialità museale e preciso sintomo di una divergenza nella definizione dei reciproci ruoli istituzionali ben riconoscibile ancora oggi, l’opinione di Bertelli, passato alla direzione dell’ING, che riteneva invece che fosse “da escludere che il vecchio Gabinetto Fotografico, ora confluito nell’Istituto Centrale per il Catalogo, possa essere ancora un promotore di cultura fotografica. Nella situazione attuale sarebbe innaturale. L’Istituto del Catalogo si occupa del catalogo delle opere d’arte. È il suo compito primario, e compie ogni sforzo per assolverlo. Quando il Gabinetto Fotografico fu assorbito dal nuovo Istituto proposi che le sue raccolte storiche fossero assegnate al nuovo Istituto per la Grafica, dove la fotografia avrebbe avuto un posto diverso, quello documentario.[296] Mi sembrava che le fotografie di attori di Nunes Vais, quelle della bella gente di Mario[297] Chigi, quelle dell’industria lombarda di Bombelli, o quelle del mondo meridionale di Michetti (tutti fondi che avevo acquisito io, e forzando le cose, al vecchio archivio del Gabinetto Fotografico) non avessero rilevanza per la documentazione delle opere d’arte e che avrebbero trovato la loro collocazione più ragionevole in un istituto che si fosse dedicato all’opera multipla, stampa, serigrafia, fotografia. Non fui capito e fu perduta un’occasione storica. Il lavoro potrà essere ripreso ora sul piano regionale e delle soprintendenze, con ben altre difficoltà, e con un’ottica inevitabilmente provinciale.”
La fotografia come pratica e strumento di rappresentazione borghese non era invece una categoria storico critica immediatamente applicabile (nonostante le forti componenti classiste) a quella che fu in quegli anni una delle ‘scoperte’ di maggiore successo editoriale e commerciale: l’opera di Wilhelm von Gloeden, che pian piano emergeva dalla damnatio memoriae in cui l’avevano relegata dapprima il fascismo e poi la cultura perbenista (tra cattolicesimo e comunismo) del secondo dopoguerra. Dopo il profilo biografico romanzato da Roger Peyrefitte[298] e la ricostruzione d’ambiente di Pietro Nicolosi, la lussuosa monografia edita nel 1964[299], con belle riproduzioni in fototipia applicate su fogli di carta uso mano, aveva presentato una ristretta selezione di ritratti, corredandoli con una breve nota autobiografica. La scelta dei soggetti era certo stata prudenziale ma aveva portato a considerare un nome sino a quel momento escluso dalle storie della fotografia, nelle quali iniziò a comparire solo a partire dal 1975, quando Cecil Beaton ne pubblicò un arcadico gruppo con veduta sul golfo[300]. Difficile dire oggi sino a che punto le modificazioni dei costumi e dei comportamenti sociali indotte dai movimenti politici della fine degli anni Sessanta influirono sulla possibilità stessa di considerare un autore la cui opera era stata caratterizzata da quello che Goffredo Parise aveva definito uno “sguardo omosessuale”, segnalando – con crudele slittamento semantico – come questo fosse “rigettato dagli estetisti storiografi”[301], ma credo che non sia priva di significato la concentrazione di saggi e di mostre, in gallerie prevalentemente private[302] e quindi anche, certo, con scopi commerciali, dedicate al barone di Taormina negli anni tra il 1977 e il 1980, con ampie proliferazioni successive.
Un percorso di avvicinamento ancora diverso aveva segnato un pittore come Michetti, col quale a sua volta Von Gloeden stesso si era dichiarato in debito per l’avvio della propria attività fotografica, anch’egli oggetto di una articolata serie di studi e di mostre originate dalla riscoperta del suo archivio fotografico. Tra la fine degli anni Quaranta del Novecento e l’inizio del decennio successivo una concatenazione di iniziative e di eventi aveva richiamato l’attenzione sulla figura e sull’opera del pittore abruzzese, ma fu solo nel 1966 che Raffaello Delogu durante un sopralluogo a Francavilla a Mare[303] aveva scoperto l’archivio di Michetti segnalandolo a Bertelli che, “in diverse mostre, fra il ’67 e il ’71, [si era provato] a dare un ordine cronologico al vasto materiale (2921 lastre, 9349 disegni), collegando certe fotografie a dipinti noti e supponendo che l’interesse autonomo per la documentazione di ciottoli, rocce, foglie e acque appartenesse agli ultimi tempi. Affidai la classificazione di tutto il materiale prima a Francesca Galli, poi a Marina Miraglia. Con mia sorpresa vidi, dallo studio accurato e di molti anni compiuto da Marina Miraglia (…) che non mi ero sbagliato.”[304] La catalogazione e la duplicazione del Fondo (1968-1970) avevano infatti costituito l’occasione per una prima mostra fortissimamente voluta da Vitali per gli Amici di Brera[305], curata dallo stesso Bertelli nel 1968 e prontamente segnalata da Giuseppe Turroni: “Se la storia della fotografia è ancora tutta da scrivere – notava – bisognerà certo aggiungere un capitolo su questo grande pittore (…) il quale fece della fotografia non soltanto uno strumento pratico di lavoro (…) ma anche un mezzo espressivo”, sottolineando il fatto singolare che “Michetti è stato forse il primo a saper catalogare così bene le sue fotografie” poiché per ciascuna redigeva “schede disegnate, con riferimenti agli elementi più interessanti.”[306] Pochi anni dopo l’interesse per le fotografie di Michetti venne ulteriormente sollecitato dalla mostra prodotta dal GFN per la sezione culturale del SICOF 1970[307] e da una serie di articoli pubblicati in riviste di grande diffusione come “Popular Photography Italiana”[308] e “Photo 13”[309]. Il contenuto ma ancor più il titolo (Il vizio segreto di Michetti) adottato in quell’ultimo caso irritarono però non poco Bertelli che ne scrisse all’autrice Marina Cacciò: “Ho visto, naturalmente, l’articolo e non direi che mi sia piaciuto. Intanto il titolo, mi sembra che confonda un po’ le cose: perché sembra in relazione con le fotografie dei nudi e perché toglie alla scoperta di Michetti fotografo uno dei suoi aspetti più curiosi, e cioè che attraverso la fotografia la sua esperienza artistica si faccia europea e dunque tutt’altro che ‘segreta’. (…) dispiace che una scoperta originale di Marina Miraglia, e su cui la stessa stava lavorando con serietà, sia già stata divulgata prima che l’autrice abbia ancora potuto definirla e presentarla come meglio avrebbe creduto. Intendo tutta la storia della documentazione fotografica per la rappresentazione della Figlia di Iorio.”[310] Considerazioni per più motivi ancora oggi interessanti: perché mostrano quale distanza, diciamo così, deontologica vi fosse tra la ricerca storica metodologicamente fondata e la pubblicistica di divulgazione e perché il disappunto di Bertelli smascherava l’atteggiamento ammiccante comune a tutte le testate giornalistiche di fotografia dell’epoca (e non solo), talmente pervasivo da connotare anche temi di interesse storico. Il lavoro che si stava conducendo produsse ulteriori interventi rendendo nota la figura di Michetti ben oltre i confini degli addetti ai lavori[311], consolidata infine dalla monografia che gli dedicò Miraglia nel 1975, esplicitamente intitolata a Francesco Paolo Michetti fotografo, uscita nella collana “Einaudi Letteratura” in cui erano già stati pubblicati il Fotodinamismo di Bragaglia (1970) e La fotografia di Mulas (1973), mentre l’anno successivo comparve l’altro saggio sollecitato da Bertelli: Ignazio Cugnoni fotografo, a firma di Sebastiano Porretta[312].
Già solo considerando il sommario, il volume curato da Miraglia forniva importanti indicazioni metodologiche, evidenti nell’articolazione dei capitoli che prevedeva in apertura la sintetica descrizione dell’archivio fotografico, vero fondamento e fonte primaria per qualsiasi ipotesi di studio e valutazione critica dell’opera di un autore[313]; a quella faceva seguito un capitolo di inquadramento generale che collocava l’opera di Michetti pittore nell’ambito della cultura del suo tempo e affrontava il tema nodale di quella “crisi di espressione che porterà il maestro a rinunziare definitivamente alla pittura”, considerando il rapporto arte – fotografia con ampi riferimenti al contesto europeo, ricavati dall’attenta lettura dei saggi di Aaron Scharf[314] (1962-1968) e di Van Deren Coke (1964) come delle più recenti mostre Malerei nach Fotografie (1970) e Combattimento per un’immagine (1973), ciò che le consentiva di sottoporre a revisione critica le prime notazioni in merito formulate da Ugo Ojetti e le indicazioni a suo tempo fornite da Costantino Barbella, scultore amico di Michetti. L’ultima parte era invece dedicata alla lettura delle fotografie, nella quale considerava “non tanto il riporto nella pittura di modelli fotografici (…) ma il contributo della fotografia come linguaggio ed espressione al rinnovarsi dell’arte”, tenendo però presente che “se anche prima del ritrovamento del fondo fotografico di Michetti, era inequivocabile, a ben guardare, il ricorso alla fotografia, altrettanto inequivocabile risulta, dall’esame delle fotografie, che tale ricorso non trovò mai un percorso in senso inverso dalla pittura alla fotografia”. Si stabiliva così un giudizio di merito sulla ‘modernità’ di Michetti fotografo rispetto alla sua produzione pittorica, anche se – per stessa ammissione dell’autrice – “forse è forzato pensare ad un Michetti che, dati i tempi aberranti della fotografia contemporanea, puntualizzi il problema con la stessa lucidità d’analisi che costituisce il presupposto della verifica n.1 di Mulas.”
Il libro di Miraglia costituì un evento importante non solo dal punto di vista del merito ma anche e forse soprattutto, perché rappresentava il primo sistematico contributo italiano all’analisi dei rapporti tra pittura e fotografia, già accennato a suo tempo da Vitali e più recentemente antologizzato in modi che destarono più di una perplessità nella mostra Combattimento per un’immagine[315], condotto con gli strumenti e le metodologie propri di uno storico dell’arte, ciò che di riflesso legittimava anche quell’area di studi a considerare il rapporto dei pittori con la fotografia come un possibile ambito di ricerca, superando rimozioni e censure. A distanza di anni il volume assume però un ulteriore valore testimoniale, rappresentato da quelli che oggi ci appaiono come alcuni rilevanti limiti dell’opera, che più che essere ascrivibili all’autrice ci sembrano ben rappresentare lo stato degli studi e la disponibilità, a quella data, di adeguati strumenti metodologici e conoscitivi: mentre la raffinata lettura storico artistica poteva contare su di una strumentazione teorica e metodologica consolidata da una lunga tradizione, alla nascente e meritoria consapevolezza della necessità di mettere in relazione tecniche e modalità espressive non corrispondeva ancora un bagaglio di competenze e di conoscenze storico tecnologiche adeguato a interpretare correttamente il corpus di opere analizzate[316], determinando così una evidente discrasia tra i vari piani analitici, che non solo restarono nettamente separati ma anche pericolosamente disequilibrati.
La consapevolezza della necessità di partire dalla realtà materiale e tecnologica dei fototipi analizzati costituì il fondamento del successivo volume dedicato alla Collezione Cugnoni, nel quale una gran parte venne dedicata alla descrizione delle caratteristiche delle lastre conservate presso il GFN[317], corredando il testo anche di un sintetico glossario delle tecniche. Sebbene non esistesse una documentazione esauriente, la realizzazione di quel cospicuo insieme di lastre (4.515) venne assegnata all’architetto Ignazio Cugnoni, qualificato sin dal titolo come fotografo, da annoverarsi tra gli “irregolari” poiché “in effetti egli non fotografa per vendere a terzi, ma per sé, per la propria professione; così la sua espressività può definirsi libera, ma solo in quanto svincolata dal mercato”[318]. Tale condizione era allora parsa sufficiente a giustificare quell’insieme di materiali eterogenei per soggetto, cronologia e modalità di ripresa, oggi più ragionevolmente comprensibili come repertorio di immagini raccolte a scopo professionale attingendo dai cataloghi di autori diversi, da Filippo Belli a Carlo Baldassarre Simelli ed altri.[319]
Arte e fotografia: contatti
La questione dei rapporti tra la fotografia e le altri arti visive, la pittura in particolare, che Miraglia aveva analizzato a proposito di Michetti, era stata affrontata per la prima volta in una mostra tenutasi alla Bibliothéque Nationale di Parigi nel 1955[320] e aveva goduto di una considerazione sempre maggiore nei due decenni successivi anche in area italiana, con gli interventi di Ragghianti su “seleArte”[321], di Racanicchi in “Popular Photography Italiana” (1963)[322] e con altri raccolti nel gà citato numero monografico di “Ulisse” del 1967[323]. In ambito internazionale i contributi più sistematici di quel periodo vennero dal volume divulgativo del cineasta e fotografo André Vigneau e dagli studi di Beaumont Newhall, di Van Deren Coke, storico dell’arte ma anche fotografo, allievo di Ansel Adams, di Otto Stelzer (1966)[324] e di Aaron Scharf (1968)[325]. Per quanto riguarda la situazione italiana va ricordato che nel 1969 Paolo Fossati aveva proposto a Lamberto Vitali di curare “un libro sul lavoro dei pittori italiani fine Ottocento inizio del ‘900 condotto su fotografia – pittura. Si tratta di proporre un buon numero di esempi che illustrino il problema, quasi interamente illustrato e perciò in termini visivi. (…) si dovrebbe procedere più a provocare, come conseguenza di una proposta del genere, in altri il bisogno di lavorare al tema”[326]. Vitali declinò l’offerta, ma in un panorama artistico segnato dalle più mature esperienze concettuali e comportamentali il tema era nell’aria, così che poco dopo la chiusura della grande mostra di Monaco Malerei nach Fotografie: von der camera obscura bis zur Pop Art. Eine Dokumentation[327], si apriva a Milano nell’ambito della Sezione culturale del SICOF 1970 la mostra Arte e Fotografia curata da Daniela Palazzoli[328]. In occasione dell’inaugurazione si svolse la tavola rotonda Rapporti tra arte visuale contemporanea e fotografia, a cui presero parte la stessa Palazzoli, Gillo Dorfles, Pier Paolo Preti, Pierre Restany e Lea Vergine[329] e vennero proiettati lavori di Luca Patella e Franco Vaccari, anch’essi presenti, che scatenarono le ire dei convenuti. Nella cronaca offerta da Dorfles “la cosa più sorprendente della serata fu l’inattesa reazione del pubblico, formato in maggioranza da fotoamatori. Ebbene, costoro trovavano poco interessanti e belle (fotograficamente parlando) le immagini proiettate ed esposte e si scagliarono contro gli oratori che, a loro avviso, parlavano non di fotografia ma di ‘arte’, dimostrando così come, purtroppo, non basti maneggiare, anche ottimamente, una tecnica, per intendere il valore artistico: come cioè tra arte e tecnica ci sia spesso un baratro incolmabile.”[330] Non migliore il ricordo di Lea Vergine che parlava di “una massa urlante di frustrati – a livello ‘ottico’ beninteso”, mentre a sua volta Preti, in una lettera aperta pubblicata nel successivo numero di gennaio di “Popular Photography”, accusava il gruppo dei critici non solo di aver manifestato pubblicamente il loro disprezzo per quel pubblico ma anche di aver dato una lettura strumentale e quindi riduttiva dell’utilizzo del reperto (e del riporto) fotografico da parte degli artisti considerati. Le risposte di Lea Vergine e soprattutto di Daniela Palazzoli, pubblicate sullo stesso numero furono molto articolate e appropriate, mettendo in evidenza e sottoponendo a un forte giudizio critico le convenzionalità e quindi le ingenuità di opinione della cultura fotoamatoriale sostenuta da Preti e vivacemente espressa dal pubblico dei presenti, misurando così quale fosse ancora a quella data l’incommensurabile, paradigmatica distanza tra questi due universi di produzione e cultura dell’immagine.
Quando Palazzoli propose a Luigi Carluccio[331] di realizzare la mostra che poi si sarebbe chiamata Combattimento per un’immagine[332], trasformandosi quasi in una formula idiomatica[333], la ripresa del tema aveva certo anche il sapore di una sfida e di una scelta di campo, essendo ora destinata a un contesto museale. La sua elaborazione, avviata sul finire del 1971, entrò nella sua fase esecutiva nella primavera successiva, quando si formularono anche alcune ipotesi di titolo; tra queste la ripresa di Arte e Fotografia, apprezzata anche dal gallerista newyorkese Leo Castelli, ebbe per molto tempo la miglior fortuna, sino a che Carluccio propose alla presidente dell’ATAC il titolo definitivo, più mediaticamente efficace, a soli quindici giorni dall’apertura della mostra alla Galleria civica d’Arte Moderna di Torino il 28 febbraio 1973[334]. In quella sede vennero presentate circa 500 opere, secondo un percorso che procedendo da Canaletto giungeva sino alle più recenti opere concettuali, ma agendo per sommatoria piuttosto che per accostamenti e confronti critici, di numero piuttosto ridotto. L’intenzione era infatti quella di “costituire una specie di antidoto alla visione prospettica che crea la storia, e che fa di ogni storia un fatto a sé”, come dichiarava Palazzoli nel testo in catalogo, caratterizzato da un titolo che rafforzava l’assunto della mostra (Descrizione di una battaglia: l’Immagine) sebbene poi ricorresse più volentieri al concetto di dialogo, poiché “invece che delle differenze, siamo portati a diventare sempre più consapevoli dei legami che uniscono disciplina a disciplina, immagine a immagine.”[335]
Antonella Russo ha ricordato che “l’esposizione riscosse un enorme successo e fu accolta con grande soddisfazione specialmente dalla comunità fotografica, che vide finalmente ammessa, anche in Italia, la fotografia in un importante museo d’arte. Gli storici dell’arte, invece, riservarono non poche critiche, lamentando la genericità dell’impostazione della mostra.”[336] Le prime avvisaglie di quelle riserve si potevano rintracciare già in uno scambio epistolare tra Paolo Fossati e Carlo Bertelli del 1972, in cui il primo, prospettando la calendarizzazione dell’uscita del volume di Gisèle Freund scriveva: “forse si potrebbe uscire per il prossimo inverno quando di fotografia, pittura e simili si parlerà, e a vanvera spesso”[337]; giudizio poi confermato e ulteriormente articolato in una recensione in cui lo stesso Fossati contestava i presupposti critici che avevano governato la concezione della mostra, fondati sulla presunta contrapposizione tra manualità delle tecniche artistiche e meccanicità della fotografia, per poi mettere in luce (e un poco alla berlina, anche) il rifiuto da parte dei due curatori di “ogni connotazione di tipo filologico e storicistico” per affidarsi “a contesti intuizionistici e lirici variamente motivati.”[338] Quel richiamo alle mancate attenzioni filologiche venne plasticamente espresso in una delle didascalie a corredo del dialogo tra Carlo Bertelli e Giovanni Romano, pubblicato a mostra appena conclusa, in cui si segnalava come fosse stato presentato come originale, datandolo al 1900 ca, un fotomontaggio relativo a Gli storpi di Michetti, che invece era stato eseguito nel 1968 a cura del GFN con fotografie tratte dall’archivio del pittore.[339] Il giudizio dei due storici dell’arte sulla mostra torinese fu senza appello: certo – ammetteva Bertelli – era doveroso riconoscere che gli organizzatori avevano dovuto “impegnarsi in una battaglia non facile. Fra l’altro dovevano distaccarsi da (…) «Malerei nach Fotografie», pittura dalla fotografia [ma «Pittura dopo la fotografia»], allestita a Monaco due anni fa. Era una mostra d’una precisione infallibile nella ricostruzione puntigliosa delle relazioni segrete tra pittura e fotografia e soprattutto aveva il merito di far sentire con forza lo “scandalo” di questi rapporti”. I limiti però risultavano evidenti e ingiustificabili: dall’assenza di alcune importanti figure come Signorini alla mancanza di una bibliografia di riferimento in catalogo, sino allo stesso allestimento, che sembrava fatto apposta per confondere le idee. “Che senso può avere – notava Romano – un bruttissimo Renoir accanto alle fotografie di Nadar; il confronto è troppo ingeneroso, anche per chi non amasse l’impressionismo. Fino a che limite è credibile il confronto tra il commovente incunabolo di Niépce rifotografato, stampato, ingrandito, sgranato e un disegno di Seurat? Le domande potrebbero continuare (…). Si è tenuto troppo poco conto della qualità, che esiste anche tra i fotografi (…).” Ancor più perentorio il giudizio espresso da Quintavalle che riconosceva come “una volta fu di un certo interesse un grave errore di prospettiva storica, quello di costruire le vicende contrapposte della pittura e della fotografia che semmai, sono reciprocamente funzionali, sono una storia soltanto; l’errore fu proficuo, almeno da noi, perché mostrò il livello culturale degli interventi, perché chiarì come non si potesse far storia delle tecniche ma storia di queste legata alle ideologie. Chiarì anche la povertà metodologica, la disarmante ingenuità degli ‘esperti’.”[340] Alcune macroscopiche esemplificazioni di quel procedere vennero poi fornite da Piergiorgio Dragone, che recensendo l’edizione italiana del volume di Scharf, notava come il lettore avrebbe potuto stupirsi “nello scoprire che questi casi [esposti in mostra] erano solo alcuni dei numerosi esempi illustrati nel volume inglese e che invece nel catalogo della mostra torinese non si fosse neppure riusciti a citare Scharf (…) ma neppure Van Deren Coke viene mai nominato. (…) Se, dopo aver letto il libro di Scharf, andando a sfogliare il catalogo di Torino ci si sentisse quindi un po’ delusi, e quasi ingannati, ci si potrebbe però sempre consolare consultando quello curato da Erika Billeter (…). Si vedrebbe così come, lavorando seriamente, si possa approfondire davvero un problema col risultato di fornire una corretta informazione e un effettivo contributo critico, allargando anche le conoscenze sull’argomento con nuove scoperte filologiche ed originali osservazioni storiche.”[341]
Fotografia e ideologia
Tra i rari italiani a meritare una certa attenzione nel catalogo della mostra torinese compariva Anton Giulio Bragaglia, mentre solo alcuni fotogrammi di Luigi Veronesi potevano costituire un richiamo alla fotografia italiana del periodo tra le due guerre mondiali, poco considerato anche dai più attenti studiosi italiani[342] specialmente per la difficoltà di misurarsi con le forti implicazioni ideologiche che tale analisi comportava.
L’imponente produzione degli anni del fascismo era stata sino ad allora utilizzata prevalentemente per nostalgiche ricostruzioni iconografiche quali la Storia fotografica di Mussolini e del fascismo prodotta nel 1952 dal “Meridiano d’Italia”, settimanale fiancheggiatore del Movimento Sociale Italiano, o, nel 1961, la Storia del fascismo: rassegna fotografica dal 1914 al 1945, curata da Pietro Caporilli, già membro del Partito Nazionale Fascista sino alla Repubblica Sociale Italiana, per la sua casa editrice Ardita[343]. Solo nel 1973 il direttore dell’Istituto LUCE, Ernesto G. Laura, avrebbe pubblicato un primo vasto repertorio di immagini del fascismo costruito quasi come un reportage; “una serie di immagini fotografiche, veri e propri emblemi per una lettura critica del periodo, accompagnate da brevissime didascalie esplicative che inquadrano storicamente l’immagine a cui sono sottese”[344], mentre negli anni immediatamente successivi vennero realizzate alcune mostre che a quella produzione facevano riferimento, tutte segnate da un preciso impegno politico sebbene diversamente manifestato. Così la mostra dedicata alla colonizzazione del territorio[345] prodotta dai membri del gruppo fiorentino UFO (Carlo Bachi, Lapo Binazzi, Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Titti Maschietto), tra gli esponenti di punta dell’architettura radicale italiana, con la collaborazione di Daniela Palazzoli, che trasse dall’archivio del Touring Club Italiano la documentazione sull’Italia agricola negli anni del fascismo; la mostra curata da Luigi Crocenzi e Luigi Ricci sulle Marche dal fascismo alla Repubblica[346], organizzata dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione, e quindi la prima iniziativa critica esplicitamente dedicata alla produzione di quegli anni: Fascismo 1922-1943: modi e tecniche di utilizzazione della fotografia al servizio dell’ideologia fascista, curata da Italo Zannier per la sezione culturale del SICOF ‘75[347]. La mostra fu successivamente esposta a Pordenone e alla Galleria d’Arte moderna di Bologna, qui in parallelo col ciclo pittorico di Renzo Vespignani Tra due guerre, rispetto al quale l’iconografia fotografica era ancora intesa come “un utile documento per meglio comprendere il clima ‘rivisitato’ dall’artista.”[348] “Quel maledetto ventennio – scriveva Zannier – incuriosisce, da un po’ di tempo, forse più del lecito, tanto da suscitare un diffuso interesse filologico e critico per tutto ciò che, in un modo o nell’altro, abbia avuto a che fare con il fascismo: moda o freudiana paura?” La risposta doveva rivelarsi tutto meno che semplice se poco dopo lo stesso autore poteva avanzare alcune osservazioni che oggi possono sorprendere: “le immagini del fascismo fanno dunque ridere, tutte”; e inoltre: “questa fotografia fascista di cui vogliamo raccontare la storia, non è mai esistita, se non in tracce assai deboli e sporadiche; è però un’assenza di cui vale la pena parlare.”[349] Tale affermazione, palesemente provocatoria, era un poco retoricamente giustificata dalla presunta contraddizione in termini tra la coercizione esercitata dal regime e la presunta libertà che avrebbe caratterizzato la pratica fotografica in quanto tale, risolvendosi infine nel riconoscimento risolutivo di una costante azione mistificatoria. Un’interpretazione che sembrava voler liberare i fotografi dalla responsabilità di adesione o connivenza al regime, riducendone molti a semplici “documentatori inconsapevoli (…) di un’Italia risibile e assurda”, mentre altri (i fotoamatori) si sarebbero rifugiati in un “atteggiamento aristocratico” di distacco dalla realtà, dimenticando però come fosse possibile ritrovare i nomi di molti autori in entrambe le categorie.
L’attenzione per la produzione di quel periodo si fece più ampia e sistematica specie per merito del CSAC, che in una serie di mostre successive presentò diverse produzioni emblematiche, quasi a indicare possibili tipologie. La prima monografia venne dedicata a Luigi Veronesi, tra gli artisti italiani più seguiti dalla critica senza soluzioni di continuità e ancora ben attivo in quegli anni, di cui si proponeva una sintesi del percorso artistico a partire dai primi lavori degli anni Trenta. Già Zannier[350] aveva pubblicato nel 1966 un ampio intervento dedicato alla sua opera, posta sotto l’egida delle “arti della visione”, segnalando come fosse stato il solo in quegli anni in Italia a praticare una fotografia “che impropriamente chiamiamo astratta”, sebbene il ricorso a quella tecnica fosse da intendersi soprattutto come “un mezzo per esprimere la sua semantica figurativa al pari del disegno e della pittura”, inserendo “le sue immagini fotografiche, quasi ad integrazione, in talune strutture pittoriche e specie nelle scenografie.” Notazione interessante, che non teneva però criticamente conto della incommensurabile differenza tra segno grafico e impronta fotografica. Era quella una problematica che non si era ancora imposta alla considerazione critica e metodologica degli studiosi, come del resto indicavano anche altri contributi di poco successivi, quali la breve nota che apriva il catalogo della torinese Galleria Martano del 1970, in cui Maurizio Fagiolo parlava di “discorso parallelo tra le diverse tecniche”, suggerito con evidenza visiva dagli accostamenti pubblicati in catalogo[351], che riportava anche alcuni bellissimi esempi di grafica applicata all’editoria. Anche Paolo Fossati avrebbe chiarito in apertura del proprio testo critico che sarebbe stato “inesatto” isolare le fotografie e i fotogrammi dal resto della sua produzione, specie per evitare che una mostra dedicata a Veronesi fotografo corresse “il rischio di divenir equivoca, mentre è indispensabile e utile. Equivoca perché con la moda artistica della fotografia che ci troviamo oggi a misurare, lo scoprire un Veronesi ottimo fotografo assolve due compiti di cattiva coscienza: lo rende artista, in quanto fotografo degno di un capitolo sperimentale di grande impegno da Schad a Moholy Nagy e dintorni, e lo evacua dal fortilizio della pittura -pittura astratta, facendo così tornare i tormentatissimi conti.”[352] Il bel testo di Fossati scandagliava criticamente il percorso e le opere di Veronesi confermandone i legami internazionali ma anche “la solitudine pressoché assoluta” rispetto alla scena fotografica italiana, tanto da risultare poco comprensibile e immotivata la sua adesione nel 1947 a La Bussola, a cui partecipò “con ben altro materiale”, chiamato da Cavalli e Vender solo alla vigilia della sua costituzione[353].
Quell catalogo per molti versi esemplare era però segnato da una impostazione storica (e quasi ideologica) che presentava più di un aspetto problematico, a partire dalla scarsa propensione a definire e considerare criticamente le relazione con altre importanti figure della scena milanese degli anni tra le due guerre come Boggeri, Grignani, Munari o Carboni, ed a interpretare la loro attività alla luce dei rapporti non occasionali con l’universo della comunicazione e delle ‘arti applicate’ durante il regime fascista; vale a dire, cioè, dei rapporti di quegli autori col fascismo [354]. Quasi l’effetto lungo di una pervicace rimozione.
In un decennio fortemente politicizzato come quello chiuso dal sequestro Moro sembrava quasi di cogliere, anche nei migliori tra gli studiosi, una certa forma di autocensura che rendeva difficoltoso, quando addirittura non impediva la formulazione di un giudizio in grado di comporre valutazioni critiche e condizioni storiche, superando fondamentali quanto inevitabili condizionamenti ideologici, quasi che – nonostante le esplicite dichiarazioni contrarie – sopravvivesse ancora una concezione idealistica dell’arte e del lavoro degli artisti, avulsi dal contesto sociale e liberi da condizionamenti che non fossero quelli di una espressione liberamente scelta.
Analoghe reticenze si potevano riscontrare nella monografia dedicata a un fotografo tout court come Bruno Stefani, tra i professionisti più attivi in Italia a partire dalla fine degli anni Venti specialmente nell’ambito della fotografia di documentazione di luoghi e monumenti; un autore tanto presente in periodici e volumi illustrati, come quelli del Touring Club Italiano, da rinnovare e modificare i canoni rappresentativi definiti nel corso del XIX secolo dal ‘modello’ Alinari. L’analisi che ne fece Roberto Campari[355] adottava lo strumento interpretativo dei ‘generi’ – qui la fotografia turistica – seguendo indicazioni metodologiche a suo tempo fornite da Quintavalle[356] per considerare gli stereotipi visivi e narrativi reiterati nel racconto per immagini realizzato da Stefani in decenni di lavoro. La consistenza del fondo recentemente acquisito dal CSAC (circa 150.000 fototipi) precludeva al momento “ogni possibilità di rassegna unitaria” e suggerì di presentare una selezione di immagini di soggetto milanese, distribuite lungo l’arco di poco più di un trentennio a partire dal 1925, sulle quali venne esercitata una puntuale e raffinata lettura critica, che individuava una serie ampia di riferimenti che spaziavano dagli annuari di “Luci ed Ombre” al cinema di Ruttmann e Ivens, e poi di Visconti, passando per Hokusai e Cartier-Bresson. Della complessa retorica fascista dell’immagine, a cui pure doveva sottostare un professionista con solide committenze pubbliche durante il Ventennio, neppure un cenno fuggevole, anche quando le immagini avrebbero più facilmente consentito di farvi riferimento, come nei due fotomontaggi con la ciminiera fumante e il Duomo in secondo piano. A una ulteriore tipologia di produttori, lo studio fotografico, venne dedicato un altro catalogo dello CSAC, primo esito della donazione di circa centomila lastre dello Studio Villani di Bologna[357] favorita da Nino Migliori, all’epoca docente di Storia della fotografia al Corso di perfezionamento in Storia dell’arte dell’Università di Parma e curata da Paolo Barbaro. Il catalogo della mostra apriva con un ampio saggio di Quintavalle che prima di entrare nel merito della produzione della ditta bolognese dedicava alcune dense pagine al rapporto tra archivi, storia e storiografia, interrogandosi – tra le altre cose – su quello che chiamava “spazio degli archivi (…) quello che modella l’ampiezza dei riferimenti, l’ampiezza delle aree che l’archivio stesso tocca; (…) Esiste uno spazio dei generi, ed anche, più sottilmente, uno spazio tra generi, che nasce dalla storia della loro organizzazione, dalla loro interna gerarchia, dalla loro trasformazione nel sistema della fotografia. Un grande studio è anche un sistema che vive in rapporto ad una società, non è morta gora di ombre trasparenti ma punto di riferimento per una cultura che vi si riconosce e vi si trova, appunto, come condensata, in nuce, o, meglio, in vitro.” [358] Per queste ragioni era indispensabile riconoscere nella loro produzione, nella “costruzione del sistema di segni dell’icona fotografica (…), icone fornite nell’ottica dei proprietari [committenti] che rispondono a modelli specifici, a modelli rigorosamente storicizzabili.” In quella sede Quintavalle riconosceva, certo, che dalle loro immagini degli anni Trenta emergeva “l’epica del lavoro per la patria”[359], ma come di sfuggita, quasi un incidente di poco conto in un percorso luminoso guidato dalle stelle di John Ford, del Bauhaus e ancora di Ruttmann, Visconti ed Eisenstein, pur ammettendo che questo “al massimo, agli operatori di Villani poteva essere noto indirettamente.” Notazione solo apparentemente marginale questa, e certo non sviluppata per evitare l’insorgere di contraddizioni interne, ma di cruciale importanza storiografica. La lettura del saggio di Quintavalle, come di quello precedentemente citato di Campari era allora, e rimane, un compito affascinante che lasciava però insoddisfatti: mentre si apprezzava l’esercizio funambolico del citazionismo – seppur ridotto a una circolarità di nomi – si coglieva il limite di un’analisi non sostenuta da altro che non fosse la ricerca di analogie che in mancanza di riscontri storico documentari rischiavano di essere solo superficiali. Risultava così eccessivo il ruolo assunto dal critico, che – certo involontariamente – colonizzava l’opera relegando ai margini la sua storia di produzione così come l’esistenza storica dell’autore; senza domandarsi mai come si potesse costruire, se e in quali condizioni poteva darsi, quella “cultura che vi si riconosce”; quali le condizioni di circolazione e ricezione di quei riferimenti, di quei modelli di cui l’intelligenza dello studioso supponeva la funzione. Al di fuori del metodo storico queste componenti e queste tracce correvano e corrono ancora il rischio di ridursi a schemi applicati ex post, non ricostruzioni e verifiche del farsi di una cultura, anche visiva, personale e collettiva; dei suoi canali, occasioni, contesti.
Pur non adottando esplicitamente la categoria interpretativa dei ‘generi’, anche il lavoro condotto su parte dell’archivio di Giuseppe Pagano[360], coordinato da Cesare de Seta, considerava separatamente le singole voci di soggettazione da lui adottate; un lemmario che era “il derivato di una cultura tardo positivistica ancora viva ed operante al Politecnico di Torino negli anni di studio dell’immediato dopoguerra.”[361] E già il riferirsi alle aggregazioni operate dall’autore era una chiara e importante indicazione di metodo, essendo quelle riconducibili “ad alcuni interessi dominanti della sua cultura ed alle sue precise scelte di gusto.” Quale fosse, e come si collocasse la sua produzione fotoamatoriale (“ma questo, sia detto subito ad evitare equivoci -avvertiva De Seta – non vuol certo diminuire la qualità della sua produzione”) in relazione alla sua formazione e professione di architetto fu il compito assunto dai numerosi collaboratori al volume. Così emerse che “tutto ciò che Pagano riprende viene fotografato in funzione dell’architettura (…) per cui tutte le foto del suo archivio sono in qualche misura foto di architettura”[362], destinate a entrare a far parte, come lui scriveva, “di un vocabolario di immagini che parlano dell’Italia a modo mio e per me”[363], insoddisfatto come molti architetti della sua generazione dei repertori di derivazione ottocentesca come della nuova iconografia veicolata dalle pubblicazioni del TCI. Non minore attenzione venne mostrata per le fotografie che si riferivano al fascismo e alla guerra[364], tralasciando però, forse per una malintesa forma di pudore censorio, ogni esplicito riferimento al tragico percorso ideologico di Pagano, dall’adesione al PNF sino alla morte in campo di concentramento a Mauthausen, così da ridurre a nulla più che una sensazione il fatto che “nelle immagini del covo [di via Paolo da Cannobio, sede del “Popolo d’Italia”] ci pare di cogliere qualche oscuro presagio.”
Il decennio che separava le monografie dedicate a Primoli ed a Pagano ha segnato un periodo importante di sviluppo della storiografia italiana, che in quegli anni mise a punto i propri strumenti e metodi registrando anche un mutamento di figura sociale dei propri attori. Si stava infatti passando dall’impegno quasi volontaristico (e politicamente connotato) dei fotografi, giornalisti e tecnici riuniti intorno a Crocenzi o al CIFe ai primi interventi di studiosi di formazione accademica, tra storia dell’arte e dell’architettura, con l’eccezione luminosa di un outsider come Vitali, che traeva il proprio magistero da una raffinata cultura collezionistica. In quelle variegate e determinanti produzioni due erano gli elementi che sembravano emergere al di là dei singoli esiti: il ricorso sempre più sistematico all’archivio e la lettura a più mani della produzione di un autore o di uno studio. Quasi un riconoscimento implicito della complessità della fotografia come campo d’indagine.
A più di dieci anni di distanza dalla monografia su Primoli e dopo la raccolta monografica dedicata a Nadar[365],Vitali pubblicava nel 1979 Il Risorgimento nella fotografia, dedicato alla moglie America Campagnani appena scomparsa. Un volume che fin dal titolo, nella scelta accurata della preposizione, affermava il prevalere della funzione documentaria, tradotta nella “volontà critica di stabilire legami quanto mai stretti con la cultura del medesimo periodo, [nella] lettura simultanea e comparata di fotografia e fonti letterarie”, la sola che riuscisse a soddisfare la sua volontà di restituzione del tema[366], ma rischiando troppe volte la pura reciprocità didascalica, illustrativa. Lo scopo era chiarito sin dalle prime righe dell’introduzione: “Questo libro si propone di dare un corpus delle fotografie risorgimentali, che documentano, cioè, fatti e personaggi di quel periodo”, modificando il giudizio espresso vent’anni prima a proposito dei “rarissimi esempi” di qell’epopea. Vitali non si mostrava interessato a comprendere le funzioni assegnate o svolte dalla fotografia in quel contesto; non era nelle sue intenzioni la redazione di un saggio (neppure visuale) come indicava anche la mancanza di una bibliografia di riferimento. Semmai l’intento era di realizzare un album storico che fornisse anche l’occasione di mettere a punto un primo repertorio (poi vedremo quanto esauriente), con la segnalazione di alcuni nomi (Lecchi, Mehédin, il suo Sevaistre[367], Sommer) e brevi notazioni critiche a proposito del fenomeno della circolazione e al conseguente problema dell’attribuzione di molte di quelle immagini, specialmente ritratti, con cui di fatto terminavano le due paginette che aprivano il volume e ne costituivano la sintesi introduttiva. Che l’interesse risiedesse principalmente nel referente più che nella specificità delle immagini risultava chiaro sia dalla scarsa cura per le attribuzioni autoriali[368] sia dallo stesso impianto del volume, che relegava all’Indice delle fotografie i dati concernenti autore, misure e collezione di provenienza, con rare indicazioni tecniche[369] riservate ai soli ‘calotipi’ ma senza distinguere tra originali e copie; per non dire di alcune indicazioni erronee quali la definizione di “stereogrammi” per le carte salate di Stefano Lecchi, già presentate nella mostra Immagini del Risorgimento. Le origini della fotografia in Italia[370], in cui era compresa anche la serie di fotomontaggi raffiguranti la fuga di Orsini[371]. Anche dal punto di vista più propriamente storico il saggio di Vitali si prestava a numerose riserve[372]: il suo era un Risorgimento oleografico e d’élite, fortemente ideologico, dal quale – ed era l’elemento più eclatante – era stato espunto ogni riferimento al fenomeno, anche fotografico, del cosiddetto brigantaggio[373], ormai ben noto e definito se Becchetti aveva potuto scrivere giusto un anno prima che “la inumana pagina del brigantaggio che insanguinò le provincie meridionali, disseminando lutti e rovine, ebbe una agghiacciante documentazione da parte di numerosi fotografi spesso anonimi.”[374] Su questo tema, e nonostante l’encomiastica valutazione espressa nel risvolto di copertina (“Col suo metodo di lavoro egli ha aperto una strada lungo la quale bisognerà cercare di seguirlo”), il contributo di Vitali non poteva reggere il confronto con le coeve considerazioni svolte da Giulio Bollati nel testo introduttivo agli “Annali” einaudiani dedicati alla fotografia, che merita riportare per esteso: “andrà ricordata la sua [della fotografia] partecipazione al moto risorgimentale e la sua non indifferente interpretazione di quei fatti (…) Il problema non è tecnico, ma politico e storico, e su questo piano la fotografia italiana ha una sua preziosa e autonoma verità da comunicare: l’immobilità, le lacune, sono elementi essenziali, non accidentali, del processo storico in questione. (…) non è difficile separare i ritratti autentici dalle effigi apologetiche o dai fotomontaggi e dalle fiorite composizioni grafiche influenzate dalla industria cattolica delle immagini. (…) I militari, solitamente così avari di immagini, rivelano un’improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio (…). Ecco che d’un tratto l’impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all’obbiettivo (…). Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione. (…) La guerra al brigantaggio segna, in campo fotografico, il primo esordio di una pedagogia unitaria destinata a crescere rapidamente diramando in ogni direzione.” [375]
Il confronto tra l’interpretazione di Bollati e la lettura delle fotografie risorgimentali avanzata da Vitali impone almeno di interrogarsi (e magari di provarsi a rispondere) sulle ragioni profonde che hanno portato a identificare in lui il padre nobile della storiografia fotografica italiana. Certo la sua militanza culturale, il suo attivismo di lunga data nell’organizzazione di mostre importanti; certo il lavoro dedicato a Primoli, che ha rappresentato un momento determinante per la formazione di una specifica considerazione culturale della fotografia storica in Italia, dovuto però più al prestigio della sua figura e all’autorevolezza della sede di pubblicazione che alla esplicitazione di un metodo storico che aderisse alla complessità della fotografia oltre il suo valore testimoniale. Un prestigio che gli derivava dall’essere un raffinato conoscitore d’arte, un fine studioso di pittura, come aveva acutamente notato Antonio Arcari, che aveva riconosciuto nel successo del volume dedicato a Primoli soprattutto un “avvenimento editoriale”[376]. Per queste ragioni non è condivisibile e risulta quasi incomprensibile una valutazione come quella ancora recentemente espressa da Antonella Russo, secondo la quale invece “le sue [di Vitali] analisi critiche erano volte alla descrizione e alla ricostruzione dell’œuvre di un fotografo, all’identificazione di simbologie e influenze artistiche, grafiche e letterarie. Vitali, infatti, tendeva a ricondurre la fotografia all’interno della tradizione umanistica attraverso una puntuale analisi filologica che rintracciava l’origine di ciascuna opera collocandola nell’ambito del sapere umano nel senso più alto del termine.”[377]
Se il Primoli di Vitali era stato a tutti gli effetti un buon esempio di equilibrio storiografico, certo significativo dal punto di vista del rapporto tra storia della e storia con la fotografia, in quegli anni molti altri ricorsero allo scandaglio del patrimonio fotografico per indagare aspetti diversi delle vicende italiane. Non storia del mezzo e delle sue immagini e neppure, o non solo, storia attraverso le immagini ma raffigurazione e rappresentazione di un processo con forti intenzioni e implicazioni identitarie, socio antropologiche, inversamente proporzionali si direbbe alle dimensioni del territorio e delle comunità indagate.
Che in quegli anni l’interesse per la fotografia storica, se non proprio per la storia della fotografia[378], che è questione problematica ancora oggi, fosse ormai entrato a far parte (ma quasi come un esotismo temporale) della cultura diffusa, lo testimoniava l’iniziativa del Touring Club Italiano Foto d’archivio: Italia tra ‘800 e ‘900, che prese corpo in due volumi editi rispettivamente nel 1979 e nel 1982, il primo dei quali corredato di due magistrali testi di intellettuali tanto distanti quanto potevano esserlo Cesare Zavattini e Paolo Monti[379]. “Credetemi – scriveva Zavattini traducendo nell’apparente bonomia del suo dire una questione su cui si interrogava anche Barthes – fino a poco tempo fa una stessa istantanea di me, immediatamente sviluppata, creava perfino nel mio cuore una diversità di me con me, malgrado il mio unico e imperturbabile nome e cognome”, invece ora – proseguiva – con il “presente revival (…) passato e presente si uniscono nel mio animo. (…) Adesso mi identifico coi miei antenati e antenatissimi al punto da sentirmi ‘fotografato’ con loro. (…) Ora, ripeto, sento che costoro (…) mi assomigliano così inesorabilmente da avere i mie medesimi problemi morali e di gusto.” Che era un bel modo per sintetizzare una parte, superficialmente profonda verrebbe da dire, delle ragioni che stavano alla base di quella inedita e un poco spasmodica curiosità per la fotografia storica già a suo tempo riconosciuta da Carrieri e Vitali e che Zavattini identificava ora come un fenomeno sociale di gusto (revival) più che specificamente culturale. Monti invece si rammaricava del fatto che la cultura italiana “non si accorse” per tempo della fotografia, tanto che “ci troviamo ora, dopo due guerre mondiali che hanno cambiato la faccia della terra, a chiederci come era prima l’Italia e solo poche sono le fotografie che ce lo dicono. (…) Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza, mentre all’estero la fotografia entra, a mio avviso di fotografo, fin troppo trionfalmente nei musei e nei quadri di tanti nuovi pittori rompendo limiti e tradizioni della loro arte, siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.”[380] Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli.
“La storia, il collezionismo, i maestri, le tecniche, i mercanti, i capolavori, i prezzi”
Intorno alla metà del decennio la casa editrice Bolaffi, la più importante impresa italiana attiva nell’ambito del collezionismo, dedicava alla Fotografia un numero speciale di “Bolaffiarte” [381], allora diretto da Umberto Allemandi, sintetizzando nell’ampio sottotitolo – qui citato in apertura – tutte le componenti che andavano a formare la fisionomia dell’inedito fenomeno che interessava il mercato internazionale dell’arte. Tra i due poli costituiti dalla storiografia e dal mercato, entrambi crescenti, gli interventi dei numerosi specialisti invitati (tra gli italiani: Castagnola, L. Colombo, Fossati, Gilardi, Palazzoli, Quintavalle, Racanicchi, Schwarz, Settimelli, Turroni, Zannier) tracciavano i primi abbozzi di una situazione in profondo mutamento, delineandone le tendenze e i problemi a favore del pubblico italiano e in particolare dei lettori della rivista, storico punto di riferimento per il nostro collezionismo medio. Per quella ragione il numero si offriva quasi come un vademecum se non proprio come un manuale nel quale il lettore poteva trovare sintetiche risposte alla maggior parte delle curiosità e domande nate da un primo approccio al tema. Così l’editoriale di Racanicchi affrontava l’argomento, particolarmente pertinente alla sede, della fotografia come opera d’arte, illustrando “i nodi del confronto che da tempo oppone l’arte come categoria concettuale alla fotografia intesa come sottoprodotto dell’intelligenza”, mentre i contributi degli altri esperti spaziavano da una breve storia alla segnalazione dei grandi maestri (esclusi gli italiani, trattati a parte) e dei grandi libri, proponendo anche un “museo ideale” in circa centocinquanta immagini. Con intenti più immediatamente pragmatici si affrontavano poi i meccanismi di formazione del valore commerciale delle fotografie (coi più eclatanti risultati d’asta del periodo 1972-1976), corredati da un indispensabile glossario dei termini tecnici, non privo di macroscopici errori, e da temibilissime istruzioni per il restauro fai da te di calotipi e specialmente dagherrotipi, che prevedevano anche il “ripristino” chimico della leggibilità dell’immagine.[382]
“Cominciano a parlarne un po’ tutti – scriveva Quintavalle in altra sede, quasi chiosando quella pubblicazione – anche se ne sanno generalmente ben poco, ma, soprattutto, cominciano a venderla in molti e, questi, ne sanno certamente qualcosa di più. Alludo alla fotografia, che sta ormai assumendo, nel contesto del mercato dell’arte italiano, la funzione di un volano possibile e, certamente, quella di una rassicurante riserva di caccia. Da noi, in Italia, di fotografia, salvo per gli studi pionieristici di Lamberto Vitali, si era parlato ben poco almeno fino a tre-quattro anni fa; esisteva infatti una frattura ben netta tra fotoamatori da un lato, con le loro riviste soprattutto tecniche, e storici della fotografia dall’altro. Questi ultimi erano, appunto, in Italia quasi inesistenti e cosi era ancora un enorme paesaggio senza ‘figure’, una eventuale possibile storia della nostra fotografia. In questo disegno ancora da colorire, o, meglio, in questo foglio ancora da disegnare, sono intervenuti rapidamente e stanno ancor di più intervenendo coloro che gestiscono il mercato”[383]. Un mercato che era quello dell’arte, certo, falcidiato dal crollo dei prezzi delle opere ‘maggiori’ determinato dalla prima grande crisi energetica conseguente alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973; sebbene poi quello mercantile non fosse il solo elemento a determinare e condizionare questo interesse inedito, almeno per la scena italiana, dove la necessità di disporre di strumenti e di conoscenze sistematiche era fortemente sentita e condivisa in vari contesti, e credo dovesse essere messa in relazione non solo con l’ambito del collezionismo e degli studi storici ma anche con l’inedito ruolo e posizione assunte da certa fotografia contemporanea in relazione stretta con le altre ricerche visuali coeve, specie di area concettuale, che portarono a una ridefinizione profonda della consapevolezza di sé del fotografo come autore, sino al suo ribaltamento in autore come fotografo, contribuendo così anche al formarsi di un’esigenza più diffusa di comprensione storico culturale delle vicende della fotografia. A questi elementi si doveva aggiungere, e non in posizione secondaria, il progressivo passaggio culturale, epistemologico (e poi giuridico), a cui qui possiamo solo accennare,dal concetto di opera, proprio di una storiografia artistica estetizzante a quello antropologicamente fondato di bene culturale, nel cui novero doveva essere inteso anche il progressivo riconoscimento della fotografia quale componente imprescindibile del patrimonio culturale della modernità, per certi versi riconosciuto già al momento dell’istituzione del Ministero per i Beni Culturali[384] nel 1975, sebbene poi si dovesse attendere l’emanazione del Testo Unico D.L. 490/ 1999 per comprendere “le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico” (art.2, comma e) tra le categorie passibili di tutela.
In riferimento a quella sensibilità nuova andava intesa anche la nascita della collana di “Biblioteca di Storia della Fotografia” della casa editrice modenese Punto e Virgola, fondata nel 1977 da Giovanni Chiaramonte, Luigi Ghirri e Paola Borgonzoni con Ernesto Tuliozi, Ornella Corradini e Susetta Sirotti. Il primo titolo fu il volume di Zannier 70 anni di fotografia in Italia, che forniva un inedito profilo sistematico della storia della fotografia nel nostro paese; una pioneristica “breve cronistoria”[385], quindi più descrittiva che interpretativa, delle vicende novecentesche della nostra fotografia che si apriva con una crudele citazione da Roland Barthes: “L’immagine è ciò da cui sono escluso.” L’avvio, come sarebbe sempre stato costume in Zannier, era privo di mediazioni e individuava il punto di partenza del proprio percorso in un articolo di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy del 1901 e nella questione cruciale che con andamento carsico attraversava tutto il volume, della artisticità della fotografia, qui posta immediatamente in relazione, e reazione, con la sua industrializzazione e conseguente massificazione. I consueti giudizi negativi venivano immediatamente confermati (“la granulosità di queste carte e l’implacabile ritocco, conducono a un irrimediabile kitsch, che a fatica oggi si tenta di rivalutare, nel vento del revival”[386]), ma risultavano qui più articolati e inseriti in un quadro interpretativo complesso, che teneva conto anche di un altro aspetto della diffusione della fotografia tra XIX e XX secolo, quello della sua moltiplicazione a mezzo stampa, in evidente consonanza con le posizioni espresse da Gilardi: “il destino della fotografia è di essere diffusa tramite il giornale, sulla carta stampata ad inchiostro; lo sfalsamento di tempi, tra il progresso tecnico della fotografia e la concreta possibilità di utilizzazione nel giornalismo, ha favorito il ‘pictorialism’, che tende così a cristallizzare la fotografia nell’immagine unica, irripetibile e perciò artistica”; fenomeno di lunga durata se ancora negli anni tra le due guerre mondiali le diverse manifestazioni della nuova visione avevano “per contro la ‘lux et umbra’ di un pictorialism deprimente e cimiteriale, dove al vedutismo oleografico, si alterna il ritratto ritoccato o la scenetta populista, in posa”. Qui, per Zannier, “l’equivoco della fotografia ‘artistica’ si fa esplicito, nell’assenza assoluta di immagini documentaristiche, che sino al secondo dopoguerra sono insistentemente, con varie motivazioni, messe al bando dai salon” poiché “i fotografi ‘creativi’ insistono nel non comprendere o nel non accettare la ‘specificità’ del linguaggio fotografico, preferendo esercitarsi nelle raffinate alchimie del pittorialismo, che li identifica e sottrae alla ‘volgarità’ della fotografia diretta, quotidiana, che pare essere ormai alla portata di tutti.” L’elenco degli autori compresi in quell’ambito spaziava da Guido Rey a Domenico Riccardo Peretti Griva e Silvio Maria Buiatti[387] e comprendeva ancora l’improbabile “Giovanni Battista Silo [che] realizza a sua volta quadri fotografici nell’atelier”; evidente retaggio del fraintendimento proposto da Vitali nel catalogo delle mostra alla Triennale del 1957, mentre una serie di Tipi siciliani di Von Gloeden era visivamente accostata alle fotografie di Giovanni Verga. Altri argomenti e nuclei tematici risultavano più convincenti, come il breve richiamo alle prime vicende italiane di musei e archivi; la nascita e le successive trasformazioni del giornalismo fotografico; la descrizione dell’Italia contadina e delle tradizioni popolari in quelli che definiva, integrando le categorie di Vitali con un’ulteriore analogia pittorica, quella dei “fotografi naif (…) visualizzatori tanto spietati quanto magnificamente inconsci”: categoria nella quale accanto a un autore raffinato e colto come Luciano Morpurgo collocava l’orologiaio di Nismozza di Busana Amanzio Fiorini o l’oste di Marone Lorenzo Antonio Predali, tanto amato da Giovanni Testori[388]. Più innovativa e utile – considerata a distanza – era la ricostruzione dei punti salienti che portarono anche in Italia al rinnovamento espressivo avviato dalle fotodinamiche dei Bragaglia e poi dalla fotografia futurista, come, su di un altro fronte, i progressivi avvicinamenti ai dettami della Nuova Visione a partire dagli interventi di Antonio Boggeri del 1929 su “Natura” e “Luci ed Ombre”, sino ai Concetti per fotografi moderni che Mario Bellavista pubblicò nell’edizione italiana di “Galleria”; tutti curiosamente posti sotto il titolo dubitativo di “Fotografia fascista?”. Una stagione che vide tra i principali protagonisti soprattutto i grafici e gli architetti con i loro periodici come “Campo Grafico”, “La Casa bella” o “Domus” e che per certi versi si chiuse con l’importante annuario Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che per Zannier rivelava “l’esistenza di una fotografia a livello europeo, insospettata (…), le immagini scelte per questo volume dimostrano l’intenzione di far dimenticare il grigio crepuscolo di almeno quarant’anni di pittorialismo fotoamatoriale e di epica fascista, ma soprattutto di suggerire i nuovi orizzonti di questo linguaggio.” Giudizio forse troppo generoso, che non considerava opportunamente le contraddizioni interne, evidenti nella scelta degli autori e delle immagini; i possibili condizionamenti, anche politici, posti da una realizzazione che cadeva in uno dei periodi più difficili di quei lunghi anni di guerra, ma certo una pubblicazione che ha rappresentato uno snodo e un cardine nella storia della fotografia italiana[389].
Pur con i limiti critici che si sono detti il lavoro costituiva il primo tentativo di ricostruzione storiografica delle vicende novecentesche della nostra fotografia, supportato da un ampio ricorso a fonti bibliografiche coeve quando non a esperienze dirette dell’autore, ma nonostante quelle caratteristiche ci fu chi accolse quella sintesi come il lavoro di “un ‘professorino’ lontano dal mondo tumultuoso di chi produce immagini, dalla sua vivacità, dai suoi contenuti, e dico questo dopo aver letto il libro di Zannier, dove chiudendo l’ultima pagina si ha una sensazione di smarrimento, di pochezza di contenuti. Scrivere una storia della fotografia italiana, mescolando tutte le carte, significa anche prendere ‘posizione’, scrivere con una metodologia, inquadrare ‘la storia’ in un contesto più ampio (vedi per tutti la storia d’Italia edita da Einaudi). Invece che troviamo nella storia di Italo Zannier? Il fritto e rifritto, una sequenza di nomi per non far dispiacere a nessuno, scelte arbitrarie, mancanze vistose (…) e allora che senso ha questa operazione di giocare all’ammucchiata?”[390] Zannier, in quegli anni primo titolare di corsi universitari dedicati alla fotografia allo IUAV di Venezia e al DAMS di Bologna, poteva allora essere compreso in quella categoria che Quentin Bajac ha definito dei “fotografi storici”, quelli che “attraverso testi, mostre, collezioni, interpretazioni e riscoperte di figure dimenticate hanno contribuito, accanto agli storici e ai collezionisti, a scrivere la storia della loro tecnica.”[391] Accanto a quella, che comprendeva anche autori come Cesare Colombo e Ando Gilardi, altre erano le tipologie professionali e i percorsi intellettuali che avevano segnato la formazione dei primi e per lungo tempo più importanti protagonisti della storiografia italiana di quegli anni, che nel loro insieme costituivano un nucleo consistente per quanto variegato nella formazione e nelle esperienze: alcuni provenivano dal giornalismo, non necessariamente di settore (come Racanicchi, Schwarz e Settimelli), altri avevano fatto nascere la ricerca storica dalla loro passione collezionistica, come Vitali e Becchetti, mentre si affacciavano studiosi con una formazione accademica come Bertelli, Quintavalle, Palazzoli e Miraglia, ciò che dava ragione delle diverse metodologie e posizioni critiche espresse, fortemente condizionate dagli ambiti culturali e professionali di provenienza piuttosto che da posizioni epistemologicamente fondate.
Si assisteva in quegli anni a una crescita esponenziale di iniziative, tanto che l’ottava edizione della Sezione culturale del SICOF, del 1979, mentre prendeva atto che “anche gli enti pubblici cominciano ad assumere iniziative e ad organizzare mostre sull’argomento”, riconosceva che era “necessario introdurre un certo rigore che consenta di impostare e approfondire correttamente l’argomento, per evitare che l’attenzione verso la fotografia si riduca solo ad una moda e che l’attuale, felice momento risulti, di qui a qualche anno una ‘occasione mancata’. Bisogna cioè impostare dei temi, dei filoni di ricerca, delle ipotesi di lavoro e presentare quindi dei materiali suscettibili di elaborazioni e di sviluppi successivi. In questa fase le ‘personali’ delle grandi ‘vedettes’ della fotografia non bastano più, a meno che non siano il risultato di una seria revisione critica e storiografica. L’obiettivo che si deve ora porre per la fotografia è infatti quello di ampliare e approfondire metodicamente le conoscenze della sua storia e di acquisire dei validi strumenti di analisi dei suoi risultati e delle attuali tendenze di ricerca.”[392] A questo impegno programmatico, così lontano da alcune grandi manifestazioni di quell’anno come Venezia ’79: La Fotografia, corrisposero in particolare due delle sezioni principali della manifestazione milanese: quella dedicata alla prima messa a punto di una storia dell’utilizzazione della fotografia nei periodici italiani, curata da Angelo Schwarz[393], e quella sul ritratto curata da Piergiorgio Dragone[394], il quale – pur consapevole delle difficoltà insite nell’affrontare “un fenomeno che è ancora sostanzialmente sconosciuto” – ne illustrava le varianti fotografiche collocandole nel solco lungo della tradizione pittorica, a partire dalla considerazione che “la fotografia non è che un modo di produrre delle immagini e che quindi ogni analisi va riferita al contesto generale della cultura figurativa del periodo.” Posizione forse eccessivamente connotata dall’assunzione del punto di vista dello storico dell’arte, ma che certo colpiva nel segno quando lamentava come la situazione fosse “sconfortante per quanto riguarda gli aspetti metodologici [perché] prima che un metodo ampiamente impiegato per analizzare la produzione degli altri settori delle arti figurative venga utilizzato anche da chi si occupa di fotografia trascorrono di solito alcuni decenni.” Una condanna senza appello, ulteriormente ribadita nel descrivere i cultori di storia della fotografia “ancora legati ad un modo aneddotico o tutt’al più formalistico o vagamente ‘estetico’ di descrivere le immagini.”[395] Ulteriori limiti storico critici erano individuati in apertura del contributo di Schwarz, il quale riconosceva con qualche ragione che “pure tra coloro che si sono occupati, più specificamente, di critica fotografica, è difficile rintracciare articoli, saggi e studi utili per valutare e ricostruire la storia del periodico illustrato. Spesso, costoro si sono limitati a trattare figure più o meno eroiche di reporter fotografi e non hanno studiato quando, dove e come le immagini vennero pubblicate. Ciò essenzialmente per due ragioni: (…) a causa dell’esigenza di riscattare la bistrattata qualità estetica dell’immagine fotografica (…) e la difesa della professionalità giornalistica del fotografo, misconosciuta dagli editori e dalla maggioranza dei loro colleghi di penna.” Una condizione che Schwarz si proponeva di correggere mostrando e commentando antologicamente le fonti, vale dire le pagine di quei periodici in cui le immagini vennero pubblicate, a partire dal torinese “Mondo illustrato” edito da Giuseppe Pomba dal 1846, ricorrendo ad ampie citazioni di testi relativi alle difficoltà produttive degli apparati illustrativi, nella convinzione che “in quel prodotto industriale che è il periodico illustrato dell’Ottocento sono già presenti molte delle situazioni tutt’ora caratterizzanti la fabbricazione degli attuali settimanali in rotocalco”, da integrare con ulteriori dati di carattere economico e culturale sulla composizione sociale del pubblico dei lettori, condividendo quella impostazione col “fotografo, storico e critico della fotografia Ando Gilardi.”
Intorno al 1979
Grandi mostre
La casa editrice Electa costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente e sorprendente di iniziative concentrate nell’anno 1979, in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali di interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o gli eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del SICOF.
Quelle iniziative, che avevano lo scopo di creare una domanda editoriale e magari collezionistica sino ad allora quasi inesistente, coinvolsero e coagularono personalità di studiosi con formazioni variegate e interessi complessi (dal collezionismo al professionismo, dalla storia alla conservazione) e portarono alla realizzazione di una serie altrettanto ricca e variata di progetti espositivi che li videro a diverso titolo protagonisti, e di cui Electa si aggiudicò la realizzazione dei cataloghi, affidando contestualmente a Daniela Palazzoli la curatela della collana “Visibilia -Fotografia”, i cui primi titoli furono affidati proprio ai membri del Comitato tecnico scientifico di Venezia ’79[396]: la porzione più ricca e spettacolare del panorama italiano di quell’anno mirabile [397].
La prima di quelle iniziative si caratterizzava per avere un programma di forte e per noi inedito impegno economico[398], che prevedeva ventisei mostre con cinquecento autori, per un totale di circa 3.500 fotografie, a cui si aggiungevano quarantacinque workshop di cinque giorni ciascuno tenuti da fotografi e studiosi di fama internazionale, specialmente statunitensi. Insomma, come dichiarava apoditticamente il titolo, Venezia ’79: la Fotografia. Nulla di meno.
La scelta di Venezia quale sede e la prima definizione della proposta si dovevano all’International Center of Photography di New York diretto da Cornell Capa, che nel 1978 aveva a suo volta coinvolto l’UNESCO, mentre i finanziamenti provenivano da numerosi sponsor privati, non solo di settore (Kodak, Polaroid e Philip Morris tra gli altri) e dal Comune di Venezia, anche in previsione della costituzione a Palazzo Fortuny di un centro permanente per la fotografia, orientando in tal senso l’indicazione compresa nell’atto di donazione fatta al Comune nel 1956, che imponeva che fosse “utilizzato perpetuamente come centro di cultura in rapporto con l’arte”[399]. La prima bozza di programma messa a punto negli USA venne discussa e modificata da alcuni membri italiani del Comitato tecnico scientifico (Daniela Palazzoli, Alberto Prandi, Italo Zannier)[400], ma anche nella sua versione definitiva esso venne fortemente criticato per una troppo marcata tendenza mercantilistica e per l’eccessiva acquiescenza ai voleri degli sponsor. Nel presentare il catalogo Carlo Bertelli[401] dichiarava che l’intento non era di “aspirare, nonostante l’insegna ambiziosa, ad offrire un’enciclopedia universale della fotografia, ma soltanto testimoniare l’opera di alcuni riconosciuti maestri e presentare alcune tendenze attuali nella fotografia. Venezia ‘79/ La Fotografia è un’impresa di grande impegno divulgativo che potrà essere il punto di riferimento per l’organizzazione di altre manifestazioni che documentino il significato della fotografia in ogni civiltà e cultura.” Tra i “riconosciuti maestri”, da Atget a Weegee, erano compresi anche gli italiani Michetti e Primoli, oggetto di due sezioni monografiche curate rispettivamente da Miraglia e Palazzoli, mentre agli autori della nostra contemporaneità era riservata una sezione specifica, con catalogo proprio, curata da Zannier[402] che aveva disegnato un percorso che muovendo da Cavalli e Veronesi giungeva sino a Ghirri e Toscani. Anche i workshop, così come le mostre, erano prevalentemente orientati alla contemporaneità ma riservavano uno spazio non secondario a temi di carattere storico come Storia, teoria e tecnica del fotogramma, tenuto da Luigi Veronesi; Storia della società e documento fotografico, di Settimelli e Storia della fotografia di Helmut Gernsheim[403], a cui era collegata la conferenza di Palazzoli Lineamenti della storia della fotografia italiana, anticipando così la collaborazione e la struttura del volume che lo studioso inglese avrebbe pubblicato due anni dopo con Electa nella collana diretta dalla stessa Palazzoli[404].
La “impostazione monografica intesa nel senso più elitario e fuorviante possibile”[405] era certo distante dal progetto degli “Annali” einaudiani a cui lavorava in quei mesi Bertelli, ma quella non era certo la sola contraddizione o il solo limite dell’iniziativa. “Venezia – la fotografia è, secondo me, un gigantesco errore di prospettiva e un consistente affare finanziario soprattutto per la città che la ospita e che l’ha voluta a tutti i costi”, scriveva Piero Berengo Gardin[406], mentre per Lanfranco Colombo, che aveva declinato l’invito a partecipare, “il problema della fotografia [doveva essere] affrontato con ben altro impegno storico e scientifico soprattutto quando viene chiamato in causa il grande pubblico. Gli enti pubblici sono chiamati ad una attività di ricupero, di conservazione di questo patrimonio culturale che sta andando in malora e di catalogazione disponibile allo studio.”[407] Analoghe considerazioni vennero espresse anche da Quintavalle il quale, partendo dalla fondamentale obiezione che il progetto non fosse stato “elaborato all’interno della civiltà fotografica del nostro paese [ma] calato dall’esterno, sopra le nostre strutture culturali”[408], si chiedeva quale dovesse essere “il compito del critico, dello storico, dello studioso, insomma dell’intellettuale di fronte a fatti del genere.” L’analisi che ne seguiva indicava compiutamente i limiti di quell’impresa a partire dal fatto che “il problema della fotografia non è di vedere semplicemente, anche se è importante questo, mostre in serie di grandi fotografi, ma di prendere coscienza e far prendere coscienza al pubblico dell’importanza dei singoli contesti, dell’importanza delle singole situazioni. Sinceramente mi fa molto poca impressione una mostra di un grande fotografo, o medio o piccolo che sia (quando si espone in mostra si suppone che il fotografo sia ‘grande’, la mostra infatti è un canale che media capolavori per antonomasia) ma mi interessa invece in che contesto culturale opera, perché opera, quando opera, mi interessa, insomma, non l’idealismo nascosto (la reazione nascosta) nella raccolta delle belle immagini ma la storia. Ebbene il problema è che manca proprio la storia, la nostra storia, e la storia della cultura fotografica occidentale, se si vuole meglio precisare, in questo programma. Manca un metodo, o, meglio, esiste un metodo che è ‘altro’, che è diverso. Un metodo che dovremo analizzare. Ma a che serve dunque una rassegna fotografica? Serve naturalmente a promuovere la fotografia; ebbene questa promozione rischia proprio di risolversi nel suo contrario; quando avremo una antologia di grandi nomi, una serie di maestri che necessariamente devono essere raccolti nei futuri musei della fotografia del nostro paese, avremo completamente perso di vista la funzione della fotografia che è quella di contesto, che è quella di struttura della comunicazione. Il punto è proprio questo, mancano ancora in Italia una analisi ed un censimento del patrimonio di immagini fotografico (un aspetto solo del problema), manca ogni e qualsiasi politica della conservazione (…) manca ogni e qualsiasi politica che non sia di semplice e sconsiderata raccolta di materiali reputati ‘esteticamente’ significativi da parte di Enti Pubblici. E neppure esiste, finora, un mercato reale[409] della fotografia.” Affiancavano la kermesse altre importanti iniziative comprese sotto il titolo comune di “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia”[410], affidate a un comitato scientifico costituito da Miraglia, Palazzoli e Zannier, con Filippo Zevi, Michele Falzone del Barbarò e Giuseppe Marcenaro.
Il nucleo principale era costituito dalla grande esposizione dedicata alla Fotografia italiana dell’Ottocento[411], con un importante catalogo che rifletteva e dava conto della complessità del fenomeno studiato, misurando l’enorme sviluppo delle ricerche, specialmente a scala regionale e soprattutto locale condotte dagli autori dei testi e delle schede monografiche, ma anche dei lavori pur disomogenei realizzati da altri cultori italiani nel corso del ventennio precedente e ampiamente citati in bibliografia. Si delineava così non solo una prima sommaria storia della fotografia in Italia nel corso del XIX secolo, ma anche una geografia degli studi e degli studiosi; frutto di una rete di relazioni anche personali in grado di connettere e interpretare i dati emersi dalle indispensabili ricerche a scala territoriale, spesso condotte nell’indifferenza se non nella perplessa ostilità degli studiosi di altre discipline e dei responsabili delle istituzioni, come mostrava bene questa testimonianza di Daniela Palazzoli a proposito delle ricerche condotte presso la Biblioteca Reale di Torino: “Entro in quella splendida biblioteca e domando se hanno album fotografici. No, mi rispondono con fastidio. Invece gli album c’erano. Centocinquanta, duecento album fotografici. (…) Compilo un elenco delle cose che mi interessano e poi chiedo i prestiti in vista della mostra. In prima battuta la Biblioteca rifiuta, adducendo come motivazione il valore delle opere. Alla fine il prestito fu concesso ma ciò che mi sconvolse era che prima non sapevano cosa avevano.”[412] Il catalogo apriva con una presentazione di Helmut Gernsheim, che sottolineava il legame ideale con la mostra per la Triennale del 1957, seguita da un estratto del bellissimo testo di Giulio Bollati di imminente pubblicazione negli “Annali” della “Storia d’Italia”, mentre la sequenza dei saggi affrontava la ricostruzione delle vicende italiane secondo una partizione cronologica articolata con accenti diversi a seconda degli autori. Così Palazzoli dava conto di come La notizia dell’invenzione dello “specchio dotato di memoria” fosse arrivata in Italia; Miraglia trattava de L’età del collodio e Zannier affrontava il problema de La massificazione della fotografia. A questi tre interventi facevano seguito ampie schede regionali, cui corrispondeva una bibliografia di analoga ripartizione, le schede biografiche dei fotografi e un opportuno indice dei nomi. L’apparato iconografico si presentava ricco, con alcune riproduzioni anche a colori, ma piuttosto sorprendentemente per una pubblicazione di quel livello, le didascalie alle immagini riportavano solo autore e titolo, senza alcuna indicazione di data né di tecnica, misure e collezione di provenienza. Mancava, infine, un pur striminzito glossario dei termini, tanto più necessario in una iniziativa espositiva ed editoriale destinata al grande pubblico in un momento in cui il lessico della fotografia storica non poteva essere certo considerato patrimonio comune neppure dei cultori più attenti.
Palazzoli[413] – come si è detto – ricostruiva puntualmente la sequenza degli annunci comparsi sulla stampa italiana, dei primi esperimenti locali e della produzione editoriale legata all’invenzione del dagherrotipo (dalla manualistica alle raccolte di vedute) e alla conseguente rivoluzione nella pratica del ritratto, per passare quindi alle vicende di Talbot e dei suoi ‘amici’ italiani, segnalando anche la presenza eccezionale di “tre disegni fotogenici firmati, se ho decifrato bene, Faggiarani”, che avrebbero rappresentato “con ogni probabilità il primo tentativo italiano in questa direzione”[414], ma di cui non venne fornita alcuna riproduzione in catalogo. Diversa l’impostazione dello scritto di Miraglia[415], che si poneva immediatamente il problema dei rapporti tra tecnologia e “significato che, nella concezione ottocentesca, veniva attribuito alla fotografia come nuovo ‘medium’ nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine”, con una lettura dei fenomeni posta sotto il segno di Bourdieu e della Freund, da cui ricava anche le ragioni per formulare una risposta alle interpretazioni dell’amato Vitali: “manca in Italia una figura come Nadar perché manca quel contesto culturale, storico e sociale che caratterizzò il raffinatissimo ambito intellettuale in cui Nadar si mosse.” L’analisi proseguiva con l’identificazione dei generi più praticati posti in relazione con le rispettive tradizioni iconografiche per sottolineare come “uno dei motivi che maggiormente contribuì all’affermarsi della fotografia fu (…) il suo carattere conservativo nei confronti della tradizione rappresentativa dello spazio.” Un testo importante, che rivelava la formazione specifica e fortemente strutturata della storica dell’arte e che mostrava quanto fossero indispensabili strumenti raffinati e complessi per la lettura e la comprensione delle immagini, a partire da quello – precisamente posto – dell’autorialità, concetto che sarebbe stato sottoposto da più parti a profonde verifiche nei decenni successivi e radicalmente contestato in quello stesso 1979 da Franco Vaccari[416]. Il testo di Zannier trattava invece dello sviluppo della “diffusione delle immagini”, sebbene con generalizzazioni oggi non più condivisibili che accomunavano produzione e riproduzione, camera obscura e calcografia, ma sottolineando opportunamente che “la massificazione dell’iconografia fotografica nasce con la stessa fotografia; è latente nelle intenzioni degli inventori e implicita nel suo procedimento, che si riassume nella riduzione del tempo di produzione dell’immagine” [417]; un processo che contemplava tra le proprie conseguenze anche “una crescente illusione che l’immagine sia in effetti la realtà, una realtà che sbalordisce, perché è sempre più sconosciuta.” L’interesse per i processi comunicativi quali elementi morfogenetici e il richiamo implicito all’idea di simulacro – pur semplicisticamente posti – contenevano elementi di quella che nello stesso arco di tempo si andava definendo come interpretazione postmoderna della società e della cultura, in particolare per merito di Jean Baudrillard[418], e consentivano a Zannier di individuare la nascita di un “nuovo concetto di ‘qualità’ che obbliga a considerare anche la ‘quantità’”, ciò che conduceva inevitabilmente a un rifiuto, per quanto implicito, delle posizioni critiche espresse da Vitali: nell’accezione comune di “massificazione della fotografia” (…) vi è implicita l’accusa di decadimento, volgarità, banalità di un’ ‘arte’ che pare uscire da una vicenda storica irripetibile e sublime”, mentre si doveva riconoscere (riferendosi a Primoli) che “le fresche, estrose immagini, a volte persino felicemente disordinate, libere dai rigidi condizionamenti compositivi della noiosa fotografia ‘ufficiale’ [rappresentavano] una positiva conseguenza di quella massificazione della fotografia che si insiste nel considerare deleteria.”
Ai tre saggi seguivano schede regionali di diversa ampiezza e impianto, presentate come Appunti sulla fotografia nell’Italia dell’Ottocento. Così se per tutta l’Italia settentrionale e in parte centrale si procedeva su base geografica, con approfondimenti che nel caso del Veneto – trattato da Alberto Prandi – assumevano la forma di una vera e propria piccola monografia, per la restante parte della nazione il criterio di ripartizione era invece storico politico (lo Stato Pontificio, il Regno delle due Sicilie, entrambe redatte da Miraglia), con una suddivisone che solo in parte celava la difficoltà di disporre delle informazioni sufficienti a trattare in forma autonoma alcune regioni come le Marche, l’Umbria o lo stesso Lazio, poiché la trattazione dello Stato Pontificio considerava in effetti la sola città di Roma, “fra le poche che sia stata oggetto di studi approfonditi; essa rappresenta un’isola privilegiata che già da tempo ha rivelato la propria fisionomia sotto varie angolazioni.” Chiudevano il volume i profili biografici di più di duecento autori, compresi anche alcuni anonimi (tutti di area romana o meridionale) ma escludendo editori come Baratti e Borlinetto (ma non Montagna) o un tecnico come Pizzighelli, mentre venne incluso Ignazio Cugnoni la cui responsabilità autoriale rispetto al fondo che portava il suo nome era stata messa in discussione da Piero Becchetti solo l’anno prima. Quella eterogeneità di impianto e di approcci rendeva evidente l’assenza di una metodologia storico critica aggiornata e condivisa e in molti casi il riproporsi, come scriveva Massimo Ferretti[419], “di una storia scandita da singole istanze creative, da colpi d’ala, da maestri o da opere; in una parola la vecchia, non necessariamente spregevole, ma semplicemente diversa, storia dell’arte. Cresciuta, di necessità, dalle esperienze di un collezionismo raro e fascinoso, fra i comprensibili entusiasmi del pionierismo, la storiografia fotografica stenta talvolta a superare certi atteggiamenti che di quelle esperienze sono tratti tipici.” Ancora più sferzante fu il giudizio di Arturo Carlo Quintavalle che comprendeva quella rassegna fra “gli episodi più penosi” della recente storiografia italiana[420], non tenendo in conto le attenuanti prima considerate. Sebbene quelle non fossero sufficienti a giustificare le gravi lacune d’impianto né quelle redazionali, che lasciavano più che perplessi, non si può negare che la serie di mostre fiorentine e veneziane costituì un punto di svolta nella crescita, per quanto difficoltosa e necessariamente incerta, di una attenzione diffusa per la fotografia storica in Italia che superasse gli opposti limiti della ricerca erudita e dell’amatorismo.
Una novità ulteriore e per certi versi più rilevante era costituita dalla mostra Fotografia pittorica 1889/1911, coordinata da Alberto Prandi con testi in catalogo di Miraglia e Zannier e schede firmate da alcuni degli autori già coinvolti nel progetto maggiore. L’iniziativa affrontava in modo sistematico, per la prima volta in Italia, quel fenomeno che altri più correttamente chiamavano pittorialismo[421] ovvero, da noi e negli anni del suo massimo rigoglio, “fotografia artistica”[422], come ben precisava un autore coevo: “L’appellativo di ‘Pictorial’ che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composizione”.[423] Una certa considerazione per quella stagione della fotografia, rifiutata da Newhall, Gernsheim e Pollack, così come da Negro e Vitali, era stata espressa per la prima volta nell’immediato secondo dopoguerra da Raymod Lécuyer[424] in un testo che però ebbe rara circolazione in Italia, quindi per certi versi rinnovata dallo stesso Gernsheim[425] che, messi da parte gli anatemi di appena un decennio prima, a proposito di “pittoricismo” ora scriveva di “malaugurata tendenza (…) anche se interessante”[426] e soprattutto ne pubblicava numerosi esempi, alcuni dei quali (Rejlander e Robinson, Stieglitz e il gruppo della Photo Secession) sarebbero poi stati meravigliosamente visibili nella discussa mostra torinese Combattimento per un’immagine: fotografi e pittori[427] del 1973, che aveva però altri presupposti e obiettivi. In Italia era stato Giuseppe Turroni tra i primi a dedicare brevi articoli alla fotografia artistica nel 1960[428], a cui era seguito un intervento di J. A. Keim[429], per il quale “la Prima Esposizione di Fotografie Artistiche a Torino nel 1902, nel quadro della Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative Moderne, costituì uno degli avvenimenti più importanti della storia della fotografia.” Soprattutto importante era stato l’interesse per il fenomeno manifestato da Italo Zannier, che pure come fotografo proveniva dalla cultura ‘neorealista’ del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, il quale nella seconda edizione della sua Breve storia (1974) aveva rielaborato alcuni contributi sul tema già proposti su vari periodici nel decennio precedente, dedicando al pittorialismo l’intero primo paragrafo del capitolo intitolato Nasce un linguaggio; i giudizi lì espressi erano ancora fortemente limitativi e in parte contraddittori[430], ma consentivano per la prima volta di delineare approssimativamente il fenomeno anche a scala internazionale.
“In genere gli studi e le mostre fotografiche che si sono prefisse di scandagliare questo specifico settore -scriveva Miraglia nel catalogo veneziano prendendo in parte le distanze dal presunto Combattimento – hanno sottolineato il contributo che la fotografia ha offerto o ha potuto offrire (…) alla pittura e alla sua espressione. Lo studio della ‘fotografia pittorica’ sottolinea invece un percorso inverso dalla pittura alla fotografia.”[431] Questo chiarimento implicava la definizione preliminare del più generale quadro di riferimento storico critico, sebbene con giudizi che oggi possono far sorridere, quale la definizione di Rejlander come “autore del più mostruoso quadro allegorico del pittoricismo, dal titolo Le due vie della vita”; un lavoro che Gernsheim si era limitato a definire “la più ambiziosa composizione allegorica dell’intera storia della fotografia”[432] e che la stessa studiosa di lì a poco avrebbe più correttamente definito “ambizioso e complesso” scrivendone per il saggio pubblicato da Einaudi.[433] Diversamente da quanto proposto da Bollati[434], che collocava il fenomeno nel più ampio contesto culturale e ideologico italiano, l’analisi del pittorialismo proposta dalla studiosa era circoscritta all’ambito propriamente fotografico, nel quale ritrovava le connessioni, e quasi la dipendenza dalla diffusione della fotografia amatoriale così come l’influenza contraddittoria (e, oggi lo sappiamo, fraintesa: “in termini apparentemente veristi”, scriveva Bertelli in quegli stessi mesi[435]) della Naturalistic Photography di Emerson, senza rilevarne invece le forti connotazioni elitarie di reazione a quella stessa massificazione amatoriale che le nuove tecnologie avevano consentito e determinato. Il saggio procedeva intercalando quelle che oggi possono apparire come semplificazioni con considerazioni critiche che invece segnarono un definitivo punto di svolta e ancora oggi mantengono tutta la loro efficacia. Mi riferisco all’assunzione in un’unica linea genealogica del “pittoricismo” di Rejlander e Robinson e del pittorialismo[436], oggi non più accettabile, e per converso al riconoscimento del fatto che “la fotografia pittorica abbia offerto la prima occasione per una riflessione critica sul destino della fotografia, anche nei suoi aspetti meno appariscenti, come quando, ad esempio, sottolinea e verifica, ai fini dell’espressione, l’importanza dei vari processi fotografici e dei segni che li caratterizzano”. Per queste ragioni – ribadiva Miraglia – va riconosciuto al fenomeno “il ruolo storico che esso giocò verso la definizione di una fotografia in senso moderno.”[437] A queste precisazioni faceva seguito quella che fu a tutti gli effetti la prima ricostruzione delle vicende della fotografia artistica in Italia, con una considerazione particolare per il ruolo di aggregazione e conoscenza del fenomeno svolto dalla rivista omonima di Annibale Cominetti, con un termine posto significativamente al 1911 non solo per il ruolo svolto dalle due mostre del Cinquantenario a Torino e a Roma, ma anche perché fu intorno a quell’anno, o poco prima, che le fotodinamiche dei Bragaglia avrebbero aperto le porte alla modernità[438].
Il compito di descrivere e analizzare i “processi fotografici e i segni che li caratterizzano” venne svolto da Zannier nel saggio successivo[439], da leggersi necessariamente in parallelo con quello di Miraglia, con la quale condivideva l’opinione che “l’avanguardia in fotografia inizia, paradossalmente, con il kitsch del flou o della gomma bicromatata [ma] questo deprecato pittoricismo va inteso anche come un atto di fiducia nella fotografia quale prodotto culturale, sebbene d’élite”. Questa prima parte del saggio, seppur molto ricca di informazioni intese a connettere soluzione tecnica ed espressione formale, mancava però di rilevare con sufficiente chiarezza quanto quelle scelte corrispondessero e fossero manifestazione di un bisogno di unicità dell’opera, di una malintesa concezione della manualità come garanzia e quasi sinonimo di artisticità, in opposizione dichiarata alla riproducibilità consentita e quasi indotta dalle nuove emulsioni e, soprattutto, dai processi di stampa fotomeccanica. La seconda parte era invece composta da un susseguirsi mirabolante di descrizioni dei diversi processi, tratte dai manuali di Rodolfo Namias e Luigi Gioppi, con precisazioni e termini che non potevano che suonare esoterici in quel mitico anno (antracotipia; charbon-velours, “da non confondersi” – ovvio – col carbondir, e altri consimili), in una spensierata commistione testuale che la avvicinava alla pubblicistica per il fai da te, ma consentiva anche di intuire, se non proprio di scoprire quale fosse stata la ricchezza anche tecnica, la maestria artigianale che quelle superfici sensibili celavano, ben oltre l’apparente banalità e un’espressione di gusto discutibile e ormai datata. Insomma un invito a riconsiderare storicamente il fenomeno, ma drasticamente contraddetto dalla chiusa del testo: “Tutte queste tecniche -scriveva Zannier – sono state applicate in modo volgare nella produzione di immagini kitsch che oggi si è troppo spesso disposti a rivalutare, e che sono comunque un prodotto emerso da un concetto deformato della funzione della fotografia, intesa non nella sua autonomia di linguaggio, ma come concorrente della pittura e per giunta di una pittura provinciale e reazionaria.”[440] Un giudizio drastico, che sembrava cancellare l’opportunità e il senso stesso di quella mostra.
Tracce evidenti di quelle incertezze erano ben riconoscibili nella scelta degli autori, tanto eterogenea da collocare ad esempio Oreste Bertieri o Giuseppe Caravita principe di Sirignano e Mario Nunes Vais con Federico Maria [ma Pietro] Poppi, e questi con Guido Rey, ma anche Luigi Ceradini e Filippo Rocci[441] accanto a Wilhelm Pluschow e Wilhelm von Gloeden. Non poteva essere maggiore la distanza dalle posizioni di Carlo Bertelli[442], il quale – rileggendo Von Gloeden attraverso Harald Szeemann – parlava invece di “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” influenzata da Alma Tadema e Max Klinger; restituendo la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare.” Il lungo percorso trasversale compiuto da Bertelli intorno a questo tema aveva un ben più lontano avvio: dal “fine artistico” di una “grandissima parte di queste immagini realistiche di tema apparentemente sociale” destinate ai pittori intorno alla metà del secolo XIX, coniugando pittoresco e verismo, ma anche dalla fotografia di nudo, che “poneva in modo perentorio il problema della fotografia artistica [poiché] la fotografia del nudo è la fotografia inventata per eccellenza.” Altre ancora erano le feconde indicazioni critiche di quel testo, quali la precisa individuazione delle dinamiche che consentirono alla fotografia di “avere un oggettivo valore estetico soltanto [arrivando] a imporsi come stampa, e ciò poteva avvenire soltanto in un contesto di raffinato livello tecnico e dentro un sistema di scambi che desse un valore reale alla stampa d’autore”; per questo “il movimento dei pictorialists in fotografia assomiglia molto a quello degli artisti incisori”[443], poiché “i fotografi – artisti rivendicano la creazione contro la riproduzione; sanno che i tempi in cui le associazioni dei fotografi si occupavano di promuovere il progresso tecnico sono finiti dal momento che di questo si occupano direttamente le branche chimiche, ottiche e meccaniche delle grandi industrie fotografiche. (…) I fotografi artisti constatano l’enorme facilità della fotografia del loro tempo, l’indifferenza della stragrande maggioranza della fotografia che si produce verso problemi estetici; (…) la fotografia pittorica reagisce alla casualità meccanica per riaffrontare un lavoro fotografico consapevole.” Anche l’origine della (s)fortuna critica di quella stagione era puntualmente individuata da Bertelli nel giudizio a suo tempo espresso dalle avanguardie, “così perentorio da convincere pressoché chiunque abbia tentato di avvicinarsi alla storia della fotografia che il periodo pittorico sia stato una deviazione aberrante, una non-fotografia. Si dimentica che cosa fosse la fotografia commerciale negli anni ’85-90, quanto falsate dai ritocchi fossero le fotografie che dovevano onestamente ‘documentare’ e come la fotografia ‘artistica’ fosse un passaggio obbligato per la stessa avanguardia, che è nata proprio all’interno della fotografia simbolista”, prova ne sia che “le fotografie di Bragaglia furono accettate subito e con molto favore dalla redazione della ‘Fotografia Artistica’ (…) Nessuno ne fu sconvolto, nessuno vi avvertì il pericolo di una rottura con un modo di pensare intorno alla fotografia, o intorno all’arte” poiché “la fotodinamica non usciva dall’orizzonte della fotografia artistica italiana. Secondo la tradizione italiana, non si preoccupava di un rinnovamento dei temi, ma di una trasfigurazione di quelli noti, del ritratto specialmente.”[444]
La fotografia come bene culturale
Il convegno organizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Modena nei primi giorni di novembre del 1979 e dedicato a La fotografia come bene culturale[445], venne messo a punto da un comitato scientifico costituito da Andrea Emiliani, Massimo Ferretti, Daniela Palazzoli e Italo Zannier e costituì la prima importante occasione di confronto sulle necessità conoscitive, sull’archivio fotografico (nelle sue più diverse accezioni) come fonte e come patrimonio da tutelare e valorizzare. Il dibattito venne orchestrato intorno a tre aree tematiche: il ruolo delle istituzioni, le funzioni culturali (insegnamento, editoria, mostre, associazionismo e professionismo) e infine “esperienze e metodi di ricerca storiografica”. Fu quello l’esito di una prima stagione di elaborazione già sufficientemente raffinata, sebbene poi alle “grandi invocazioni, agli ottativi ormai un po’ stentorei dei conservatori” avesse corrisposto “ben poca vera attività”[446]. In quella progressiva presa di coscienza, anche politica, svolgeva un ruolo determinante la cultura amministrativa emiliana, espressa in particolare con la costituzione nel 1974 dell’ IBC – Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (con Andrea Emiliani e Lucio Gambi tra i promotori), quale strumento della programmazione regionale e come organo di consulenza degli enti locali nel settore dei beni culturali. La Premessa dell’Assessore al catalogo della mostra Antiche fotografie nelle collezioni civiche modenesi[447] costituiva una chiara testimonianza di quale fosse il livello di consapevolezza politica raggiunto, specie per quanto riguardava la necessità di “considerare il materiale fotografico non come corpo staccato dalle raccolte e dai materiali presenti negli Istituti, ma come parte integrante della documentazione più generale in essi conservata. (…) Questa considerazione metodologica generale risulta utile anche per affrontare tutta una serie di problemi relativi ai modi ed alle tecniche di archiviazione e divulgazione dei materiali. (…) Mentre da un lato si dovranno risolvere con urgenza i fatti propriamente tecnici della conservazione (…) è possibile ipotizzare come strumento conoscitivo unificante [il] ‘catalogo’ che insieme alla schedatura dei reperti dovrà consentire, con la riproduzione delle immagini, una utilizzazione delle medesime aperta e pubblica, rivolta a molteplici utenze.” “È nel catalogo – ribadiva Andrea Emiliani nella stessa occasione – che le sapienti istanze dei conservatori dei convegni e delle tavole rotonde possono abbandonare l’enfasi per acquistare – se mai la possiedono – la fragranza di un atto finalmente pragmatico, finalmente operativo. È proprio nel catalogo, infine, che la sonda della microstoria mette a punto le sue possibilità, offrendosi al futuro.” Un programma di politica culturale quanto mai chiaro, ma di realizzazione quasi utopica in quei tempi di riproduzione inevitabilmente analogica, come rilevarono alcuni interventi al convegno e come purtroppo avrebbero dimostrato le vicende italiane dei decenni successivi.
La prima sessione di lavoro comprendeva gli interventi di Emiliani, Oreste Ferrari e Tea Martinelli dell’ICCD a cui si affiancavano le relazioni dedicate alla Francia di Jean Claude Lemagny, responsabile delle collezioni fotografiche della Bibliothèque Nationale di Parigi, e alla Gran Bretagna di Barry Lane, referente per la fotografia dell’Arts Council di Londra; nella seconda a Paolo Lazzarin, Paolo Fossati e Settimelli succedevano i responsabili delle maggiori associazioni fotografiche italiane (Michele Ghigo; Maurizio Bizziccari; Fabio Simion). Più prossima ai nostri interessi attuali la terza parte con interventi di Helmut Gernsheim (Fondamenti e metodi delle ricerche inerenti a una storia della fotografia), di Giulio Bollati, che presentava gli esiti del lavoro realizzato per gli “Annali” einaudiani in corso di pubblicazione, di Maria Adriana Prolo, sui rapporti tra fotografia e cinema, e infine di Marina Miraglia, che illustrava Risultati e prospettive della ricerca storiografica conseguenti ai lavori per la mostra sulla ‘Fotografia Italiana dell’800’, un testo che avremmo volto leggere con grande curiosità e interesse. Tra i relatori spiccava la mancanza di alcuni dei “nostri più brillanti e intelligenti studiosi come Arturo Carlo Quintavalle, Carlo Bertelli, Ando Gilardi, Lamberto Vitali, che potevano dare testimonianza delle loro originali e importanti ricerche sul tessuto storico della nostra produzione fotografica [che] hanno preferito disertare il convegno, in polemica col comitato scientifico che da alcuni anni monopolizza l’attività in questo settore”[448]. Assenze che per molti versi limitarono il giudizio positivo sull’importante iniziativa modenese, rispetto alla quale del resto risulta oggi impossibile esprimere compiute valutazioni di merito poiché le vicende di quell’incontro per molti versi fondativo si conclusero con un vero e proprio atto mancato, non giungendo alla pubblicazione delle relazioni presentate, così che la sola traccia nota è costituita dalla trascrizione dell’importante intervento di apertura di Emiliani[449]. Un’accorata e alta riflessione di politica culturale, aperta con sconsolata ironia da una sintetica ricostruzione delle povere vicende italiane che avevano portato al riconoscimento della fotografia come bene culturale e da un’avvertenza sull’esito fallimentare a cui sarebbero stati destinati quei progetti di ricerca che si fossero proposti di “dare al mondo raccolte fotografiche e loro relativi cataloghi senza preoccuparsi di denotare e illuminare le circostanze di origine culturale, di committenza e dunque di economia”; anche per questo, esprimendo preoccupazioni analoghe a quelle di Quintavalle[450], invitava a prendere coscienza del fatto che la spinta che aveva condotto al riconoscimento della fotografia come bene culturale proveniva essenzialmente da un “motore privato e mercantile”, mentre invece aveva bisogno di aprirsi e dilatarsi “verso l’orizzonte unificante del concetto di patrimonio (…) verso la più generale visione di un’idea di cultura.” Altre preziose informazioni si potevano ricavare da un resoconto a firma di Andrea Jemolo[451], a partire dalla constatazione che “solo ora che la fotografia si è ormai solidamente installata nella nozione di bene culturale, le amministrazioni locali si sono accorte di possedere un vasto patrimonio di immagini fotografiche e di dover procedere ad un suo riordino per poterlo utilizzare sistematicamente”, sebbene poi proprio tra i maggiori difetti del convegno vi fosse stato, a suo parere, “quello di non essere riuscito a indicare chiaramente che cosa si debba intendere per ‘Fotografia come bene culturale’. (…) Ma il convegno di Modena ha messo soprattutto in risalto l’estrema arretratezza della nostra cultura fotografica nei confronti di analoghe esperienze di altri paesi europei [dove] anche grazie ad ingenti sostegni statali, la ricerca storiografica è attiva e fertile già da vari decenni.” Proprio in quel senso numerosi interventi avevano auspicato che si potesse pervenire “attraverso l’Istituto Centrale per il Catalogo, ad un sistema di schedatura unica per tutti i reperti fotografici che sono conservati nel nostro paese”, ma come è noto quell’auspicio si concretizzò solo un ventennio più tardi e senza ottenere la necessaria adesione di tutte le istituzioni interessate.
Gli Annali della Storia d’Italia Einaudi
Da quella imponente serie di iniziative, ma certo non dal convegno modenese, prendeva neppure troppo implicitamente le distanze l’altra grande realizzazione editoriale di quell’anno: la pubblicazione dei due tomi de L’immagine fotografica 1845-1945[452], con l’affettuosa dedica “A Lamberto Vitali”. Secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi, curato da Carlo Bertelli[453] e Giulio Bollati[454] proprio nell’anno in cui si consumava la rottura tra l’editore e il suo prestigioso direttore generale.
La progettazione
Il precedente volume della “Storia d’Italia”, l’Atlante pubblicato nel 1976, era stato concepito come “una raccolta di materiali visivi attinenti alla storia non in forma meramente accessoria, ma come prolungamento del discorso ‘storico’ portato sui linguaggi della visione e della figurazione (…). Avremmo voluto già allora – scriveva Giulio Einaudi – dedicare un capitolo alla fotografia, ma la situazione provvisoria del settore – tuttora impegnato nella ricerca e nella sistemazione dei materiali e nella sperimentazione di autonomi criteri storici e metodologici – ci indusse ad allungare i tempi per ampliare lo spazio della trattazione e arricchire di inediti la documentazione, nello spirito di un contributo ai ‘lavori in corso’ che è tipico della Storia d’Italia.”[455] Confermava quelle intenzioni, rivelando alcuni retroscena, una lettera di Bollati a Bertelli del febbraio 1977: “Non so se a quest’ora hai ricevuto e letto o almeno sfogliato l’Atlante (…). Se così fosse non ti sarà sfuggito che, mentre la prefazione insiste non poco sulla storia della percezione visiva, il volume difetta almeno su due fronti. Lasciamo il cinema, che pure meriterebbe un discorso. Ma la fotografia! Quale triste e lamentabile lacuna! Ti dirò in confidenza che il capitolo apposito era stato progettato e affidato. Malissimo affidato, tanto che si dové rinunciarvi. Allora a qualcuno era sembrato eccessivo ‘disturbare’ te, già bersagliato da altri impegni. Ma a cose viste, si è capito che quel capitolo non era dei minori, ma dei maggiori, e che l’autore andava cercato a livelli alti. Hai già capito che sto chiedendoti di farlo tu ora: cento immagini e quaranta – cinquanta cartelle di testo (salvo variazioni in più a tua discrezione). Potremo, inizialmente, distribuire il fascicolo come supplemento, in un secondo tempo, abbastanza ravvicinato, farlo rientrare in una ristampa del volume. Alla proposta, che Giulio Einaudi sottoscrive di persona, ci associamo noi tutti. Penso che per te potrebbe essere un lavoro non gravoso e ricco di ‘invenzione’ e ‘divertimento’.”[456] Bertelli accolse la proposta, indicando anche alcuni possibili ambiti d’indagine (le donne, città e paesaggio) così che nei mesi successivi il progetto prese corpo anche se tra indecisioni e incertezze come sembra indicare il passo di un’altra lettera di Bollati all’amico in occasione dell’uscita del primo volume degli “Annali”: “Guarda bene quel grosso tomo, e immagina come sarà importante il volume II a firma Carlo Bertelli, magari anche sdoppiato in due tomi.”[457] Lettera di evidente lusinga, dalla quale risultava che a quella data il piano non prevedeva ancora la doppia curatela, come confermavano anche i verbali di una riunione editoriale di poco successiva[458], nel corso della quale lo stesso Bollati illustrando il “programma di libri fotografici” citava fra gli altri “l’Annale di Bertelli che è l’Italia vista dai fotografi. Bertelli stesso ci ha segnalato due libri tedeschi: uno su Arte e fotografia di Otto Stelzer[459] e un altro che è una storia della fotografia.[460]” Le difficoltà di realizzazione dovettero però essere non solo numerose e impreviste ma anche di diversa natura se in un Promemoria[461] all’editore Bollati arrivava a scrivere che “la situazione resta acrobatica e impone uno sforzo notevole. Com’era da aspettarsi, man mano che la nostra ricerca procede, Bertelli deve rivedere le sue ipotesi di partenza, sulle quali non ha mai potuto riflettere con la concentrazione che un’opera così vasta richiede. Nell’incontro che gli abbiamo dovuto praticamente imporre, avvenuto a Milano giovedì 11 [gennaio 1979], abbiamo dovuto anche imporgli di ripensare il piano dell’opera, e di farlo subito, compitando insieme i temi intorno a cui organizzare la raccolta del materiale. Il risultato di questo lavoro si può vedere nell’allegato, che rispecchia una fase ancora provvisoria e disordinata, ma che, rispetto al niente di prima, è già una traccia per il completamento della raccolta di fotografie (condotta finora cercando di indovinare il pensiero di Bertelli, ma anche con molti contributi personali). La raccolta del materiale continua. Quando Bertelli vedrà le foto, dovrà probabilmente adattare il testo alle molte cose nuove trovate. Per il momento la situazione del testo è questa: Cap. I: L’obiettivo sugli italiani (…) Cap. II: La realtà trasformata (…) Cap. III: (…) da scrivere. Il progetto prevede che a questo punto segua nel volume il materiale fotografico, diviso in sezioni tematiche (ho voluto una sezione ‘eventi’, se no troppe cose storiche sarebbero rimaste fuori). (Mi accorgo che manca ancora una sezione scienza e tecnica). Ogni sezione sarà introdotta da un cappello. Ovviamente nel libro, rispetto all’elenco allegato, il numero delle sezioni diminuirà notevolmente. Concluderà l’opera un’appendice di documenti sulla fotografia: testi critici, testi di ‘poetica’, testi insomma di interesse storico e tecnico o di riflessione teorica. La ricerca fotografica, dicevo, va avanti. Abbiamo finito l’importante esperienza dell’Istituto Luce (…). Questa settimana completiamo Torino: Museo della Montagna (fatto Sella e Rey); Fondo D’Andrade (quello del borgo medievale, il primo soprintendente italiano, grande disegnatore e fotografo di monumenti); le raccolte della Biblioteca Reale; quelle del Museo del Cinema; le minoranze etniche e culturali (ebrei, valdesi, occitani). Poi E.M. [Enrica Melossi] ha un programma emiliano, al quale mi unirò se necessario. Andrò di sicuro, invece, a Venezia, Trieste, Firenze. Non ho il coraggio in questo momento di organizzare un’indispensabile visita a Napoli. Qualcosa intanto ho trovato a Mantova. Rifiniture a Roma: è necessario ritornare al Gabinetto Fotografico Nazionale. Molte cose le sta mandando avanti E.M. da sola d’accordo con me. Malgrado l’apparenza, abbiamo chiuso i capisaldi – luoghi e cose – della ricerca, non navighiamo alla cieca. Pensiamo anche di poter chiudere a un segnale convenuto – dovrà venire da Bertelli – senza farci pescare con omissioni gravi. Anche entro febbraio, non è escluso. Se mai, si tratta di limare e integrare i singoli casi.” Alcuni capisaldi, infatti, erano delineati: la struttura del volume col testo separato dalle immagini, la presenza di una appendice di documenti, ma altri aspetti fondamentali risultavano ancora tutt’altro che chiari; in primis l’arco cronologico di riferimento, che a quella data prevedeva ancora un’estensione sin “dopo il ’45”, ma soprattutto l’articolazione tematica era ben lontana da una soddisfacente soluzione e la settantina di lemmi individuati richiamava più un soggettario che una struttura discorsiva[462]. L’altro dato rilevante e per molti versi inatteso che emerge da questi documenti è il ruolo svolto dai due studiosi: nonostante la competenza specifica e la lunga esperienza di Bertelli come direttore del GFN e dell’ING fu infatti Bollati a coordinare e svolgere in prima persona le ricerche iconografiche negli archivi italiani, pubblici e privati. Non solo: fu lui a definire l’orizzonte storiografico del progetto. Come scriverà anni dopo Bertelli ricordando l’amico scomparso “Giulio Bollati si mise alla ricerca di quegli elementi che nei caotici archivi fotografici italiani permettevano di riconoscere linee di tendenza corrispondenti a una modernità che, malgrado tutto, premeva e infine s’imponeva. (…) Bollati era andato a cercare le tracce del cambiamento negli archivi delle società industriali più direttamente interessate alla concorrenza cosmopolita e, con notevole intraprendenza, in quel lembo d’Italia austriaca che erano state Trento e Trieste. (…) Eppure, nella ricerca a tappeto condotta in tutta la penisola, l’autore era consapevole delle lacune e dei silenzi. Macabre fotografie di banditi del sud ce n’erano (…) per contro quasi nulle le fotografie relative alla classe operaia.”[463]
Struttura e contenuti
“L’uscita di questo volume – scriveva Giulio Einaudi nella nota di apertura – cade, per una coincidenza significativa, in un momento di interesse particolarmente intenso per la fotografia, la sua storia, il suo significato, il suo legame con la vita italiana. Le origini del volume sono, comunque, autonome e risalgono al progetto culturale che sotto il titolo di Storia d’Italia ha dato luogo, a partire dal 1972, alla pubblicazione di un’opera di cui gli Annali costituiscono la continuazione e lo sviluppo. (…) I due autori dell’opera, Carlo Bertelli e Giulio Bollati, partono da premesse e da formazioni diverse, ma concordano nella necessità di collegare la fotografia, come sistema linguistico e produttivo, alle strutture e ai problemi della organizzazione della cultura.”[464] Una dichiarazione programmatica chiara, che collocava precisamente la nuova realizzazione nel progetto storiografico dell’intera opera, sinteticamente richiamato nelle righe finali e di cui si potevano trovare ampie tracce in molti dei volumi già pubblicati[465]. Il volume apriva con l’Elenco delle [676] illustrazioni, organizzato per temi che non trovavano immediata corrispondenza nell’articolazione dei saggi, costituendo così un ulteriore spazio discorsivo. Di ciascuna immagine erano indicati nell’ordine Soggetto, Autore, Data e Provenienza (collezioni pubbliche e private, ma anche da fonti bibliografiche), senza fornire però – se non per alcuni calotipi assegnati a Tuminello, poi attribuiti a Caneva da Becchetti – alcuna indicazione tecnica, come se questa non appartenesse e non fosse anzi costitutiva del “sistema linguistico e produttivo” della fotografia. Seguivano i saggi dei due curatori e quindi quello che con discutibile scelta terminologica[466] venne definito l’Apparato fotografico sviluppato nei due tomi, il secondo dei quali chiudeva con una importante Appendice di testi e documenti e con l’Indice dei fotografi.
L’immagine contrastata fu il titolo emblematico scelto da Bollati per il primo paragrafo del suo saggio, qualificando così i nodi problematici, gli scenari e i contesti del proprio territorio d’indagine, segnato da un’apertura che invano avremmo cercato nelle altre produzioni coeve. “Questo libro non è una storia d’Italia attraverso la fotografia, né una storia della fotografia in Italia – scriveva in quel suo citatissimo incipit – (…) Si situa di proposito in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista. Abbiamo del resto motivo di credere che la nostra scelta sia appropriata alla fase attuale della fotografia, questa ultima arrivata nella nostra lungamente estranea e diversa cultura.” L’origine di quella estraneità era riconosciuta nella “persistenza di una tradizione culturale di antica ascendenza classica” e nel ritardato ingresso del nostro paese nel mondo industriale avanzato. Per queste ragioni “la fotografia, riportando alla superficie[467] il tema primordiale dell’immagine e dei suoi rapporti col pensiero, si è trovata coinvolta in sommovimenti profondi della nostra eredità culturale [poiché] all’apparire del nuovo mezzo, la cultura figurativa tradizionale si sentì in pericolo e diede l’allarme: con la pretesa di fare arte mediante una macchina e il sussidio di reazioni chimiche, il mondo dell’industria rompeva un antico confine e invadeva il territorio dei valori consacrati.” Da quella interpretazione storica del fenomeno Bollati faceva derivare una precisa posizione critica, considerando un errore “mantenere la fotografia (…) dentro quella continuità estetico – figurativa che essa, appunto, ha interrotto, e nell’aspettarla alle prove di una annosa concezione dell’ ‘opera d’arte’ ”. Non solo: facendo proprie una serie di suggestioni che muovevano da Benjamin sino all’ultimo Barthes[468], Bollati invitava a riconoscere che “malgrado l’educazione estetica che abbiamo ricevuto, il nostro rapporto con la fotografia è più grossolano e affonda nell’indistinto dell’esperienza: tende a privilegiare come valore il contenuto, di più, inclina a confondere l’oggetto e la sua rappresentazione, scivolando inavvertitamente nella mentalità magica del cacciatore paleolitico. La fotografia ci fa regredire a uno stadio in cui l’immagine si sottrae al controllo del pensiero razionale (…) ha risvegliato l’arcaico e il demonico dormienti nel profondo”. Questi alcuni dei nodi che per Bollati era indispensabile riconoscere e sciogliere se si intendeva affrontare la presenza della fotografia nella storia della società italiana; l’elemento di continuità nel rapporto dialettico “tra la risvegliata ‘naturalità’ della percezione (sedimentata da una precedente storia antropologica, psicologica, ecc.) e la cultura dominante, che cerca di non perdere il controllo del fenomeno”. Si precisava così l’intenzione di “tracciare l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana, dedicato alla visione e con particolare riferimento alla fotografia”, recuperando “prescrizioni e divieti, minacce e lusinghe intesi a fissare la linea del vedere e le norme per la produzione di immagini visuali”. Un programma perfettamente coerente e rappresentativo di quella che allora si definiva ancora nouvelle histoire, nella specifica accezione di storia delle mentalità.
Nei paragrafi seguenti l’ipotesi interpretativa prendeva corpo intorno ad alcuni temi centrali quali l’industrializzazione; i rapporti con la tradizione estetica o lo stato e ancor più lo spirito dei luoghi, le cui rappresentazioni avrebbero contribuito a definire L’inventario fotografico dell’Italia unita (come recitava il titolo del terzo paragrafo): “Un vasto campo di lavoro si apre alla fotografia come strumento di unificazione. (…) Più in generale essa collabora alla creazione di una retorica nazionale didattica e celebrativa, traducendo in immagini i tòpoi derivati da varie fonti o producendone copiosamente di propri. (…) La raccolta di ‘bellezze naturali’ del Bel Pese sarà compiuta da un esercito di fotografi spesso di basso e infimo livello, capaci però di comporre un mosaico di stereotipi visivi tanto tenaci, che molti luoghi e paesaggi reali ne saranno ‘sostituiti’ per sempre.”[469] Quelle immagini oleografiche e retoriche, ma anche la retorica di quelle immagini e di quell’immaginario si riveleranno ben presto strumentali – ci ricordava Bollati – a quell’ “occultamento del reale” che avrebbe poi segnato una buona parte del modernismo del ventennio fascista e l’opera dei “nostri fotografi di ruralità artistiche”; un’ironica definizione che compendiava il giudizio su quel “pittorialismo ricchissimo di Kitsch e tuttavia capace in alcuni casi di sorprendenti riuscite.” Un fenomeno di cui Bollati individuava i riferimenti culturali non solo e non tanto nella più immediata aspirazione all’artistico ma – con sguardo più ampio e profondo – in quel “neoidealismo italiano” già richiamato in apertura che aveva innalzato “una barriera tra la cultura italiana e la cultura del mondo industrializzato, e al riparo di quel muro esteti di varia estrazione, letterati, moralisti scendono in campo contro il nemico comune: il materialismo.”
Con una lettura che appariva debitrice dell’interpretazione gramsciana del futurismo, sarebbe stata la Grande Guerra, scriveva Bollati, a gettare improvvisamente l’Italia in quella modernità industriale di cui costituiva una “violenta intensissima esperienza”[470]; occasione in cui “nel trionfo della demenza autoritaria, la fotografia scopre se stessa, la sua democraticità, l’assolutezza del suo rapporto con le cose. Le fotografie della Grande Guerra sono spesso ‘solitarie’, come se non dovessero essere viste da nessuno, neppure da chi ha premuto il pulsante della Kodak portatile”. Il successivo ventennio fu invece la “grande e infamante occasione per la fotografia italiana, chiamata a documentare la realtà dell’inesistente[471] mentre il reale viene sistematicamente occultato”, sebbene poi per la sua stessa natura la fotografia rivelasse “tutto quello che le si ordina di nascondere. Basta ormai la faccia di un bambino, o una colonna di fumo sullo sfondo di una periferia per sfatare i colli fatati e i medioevi cristiani, cavallereschi e comunali.” Per Bollati la sola produzione dotata di una certa autonomia era stata quella “legata soprattutto a ricerche architettoniche, pubblicitarie, di design industriale. Si assiste come al formarsi di una grammatica e di una sintassi della visione moderna, che sul terreno della ricerca formale trova il contatto con esperienze internazionali d’avanguardia [che] maturano anche il pittorialismo italiano di base a effetti di più aggiornata trasposizione letteraria del reale. (…) Dopo una lunga sottomissione all’alta cultura aristocratica dei vati e dei moralisti, e dopo il confino fascista, con la fine della guerra la fotografia italiana esce finalmente dall’isolamento e raggiunge in breve tempo traguardi alti. Ma non diremmo che sia sicura di sé, né, del resto, che possa esserlo.”[472]
Diversi l’impianto e gli obiettivi del successivo saggio a firma di Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, che si proponeva come inedita sintesi storica fondata sulla chiara necessità storiografica di collocare le vicende della fotografia in Italia nell’ampio e mutevole contesto storico del lungo periodo considerato e in un rapporto di scala che col progredire dei decenni necessariamente si ampliava. “Lo sforzo di uno storico della fotografia – scriveva Bertelli – deve mirare a collegare il più possibile il documento fotografico a una trama storica, assumendolo non come riflesso di una realtà storica ipotetica, ma come una parte, a seconda delle circostanze più o meno rilevante, della stessa.”[473]. Altre considerazioni di ordine generale erano poste in chiusura del saggio, a proposito delle ragioni industriali, commerciali ed economiche che avevano da poco suscitato “un nuovo e quasi inedito interesse verso il collezionismo fotografico estendendo fino ai livelli attuali la concezione di una fotografia destinata al libro, alla mostra, al museo. Il tipo di storiografia che ne è stato sollecitato, ricalcato sullo schema della storia dell’arte, conviene perfettamente allo scopo. Poiché in una ricerca di meriti, il problema di fondo di che cosa abbia costituito la fotografia nella storia della società italiana è rimandato alla speranza di scoperte successive che dimostrino, contro ogni evidenza, che l’Italia può entrare nel consesso dei paesi che hanno una storia della fotografia con gli stessi titoli. Quando si deve invece riconoscere che l’Italia è un caso diverso, che non ha gli stessi titoli e non ha nessuna ragione per cercare questo tipo di promozione fra i paesi industriali. Al contrario sarà proprio una più approfondita conoscenza della nostra storia industriale e dei suoi complessi intrecci con le industrie estere che potrà contribuire a conoscere la storia della fotografia in Italia, la storia cioè della forma di documentazione, di comunicazione e di riproduzione tipica della moderna società industriale. Sapremo così ascoltare anche il silenzio, e interpretarlo.” Lascia oggi qualche perplessità quella disposizione all’ascolto del silenzio degli innocenti in cui pare di cogliere ancora una traccia, se non proprio una consonanza, per quanto incommensurabilmente più articolata, con le posizioni a suo tempo espresse da Negro e Vitali. Sono convinto che ormai da tempo (e fortunatamente) nessuno storico della fotografia italiana si applichi ai propri studi alla ricerca di un primato da verificare, ma nella consapevolezza, del resto enunciata dallo stesso Bertelli in apertura, che la fotografia e i suoi prodotti sono stati e sono parte della storia e della cultura di un Paese e che questa è la sola ragione, necessaria e sufficiente perché debbano essere studiati.
La varietà dei temi e la maestria con cui sono stati affrontati ha fatto di quest’opera un riferimento imprescindibile per ogni storico a venire, anche quando risultava inevitabilmente condizionata dai differenti livelli di conoscenza disponibili all’epoca, determinando attenzioni e approfondimenti di cui a volte è difficile stabilire quanto fossero l’esito di scelte critiche oppure di condizionamenti contingenti. Pur senza pretesa di antologizzarla credo sia utile dare conto almeno di alcuni degli elementi più significativi, così come di quelle che ora paiono incertezze di comprensione da cui derivarono improprie considerazioni storico critiche: ne costituiva un buon esempio l’esclusione del calotipo dalla sequenza tecnologica significativa, senza cogliere la novità determinante, linguisticamente inedita del primo processo negativo/ positivo, del quale tutto ciò che ricordava Bertelli era che “anche la nuova invenzione (…) del negativo su carta (calotipo) ha una sua fase accademica in Italia attraverso lo scienziato modenese Giovanni Battista Amici”. La cultura tecnologica, come già nei volumi da lui ispirati dedicati a Michetti e Cugnoni[474], doveva essergli sostanzialmente estranea se non proprio ostica se poco dopo possiamo leggere che “il calotipo ha una granulosità strana, che ricorda il disegno, ma che, per non dipendere dalla carta, bensì da una sospensione di materie meno fini nel pigmento stesso che forma l’immagine, lascia interdetti [i contemporanei, si suppone] e si risolve in una curiosa sensazione atmosferica, con una incertezza di definizione che si presta al racconto.”[475] Brano incredibile, che misurava concretamente la distanza tra inoppugnabili dichiarazioni di principio e competenze che (almeno in ambito fotografico) si rivelavano ancora incommensurabilmente lontane dalle necessità di comprensione dei processi propri di una tecnologia di produzione che forse più di altre di questi viveva e da questi era determinata, anche e soprattutto nelle proprie possibilità espressive.
Meglio allora guardare alle più raffinate considerazioni critiche di lettura dell’immagine di Bertelli, molte delle quali ancora oggi efficaci sia in termini di definizione generale[476] che di interpretazione storicamente circoscritta, ricordando ad esempio che “attraverso la fotografia la medicina ottocentesca tocca una delle punte più appariscenti della sua immersione nell’individuo e nel contesto sociale cui appartiene.” Un richiamo che consente di sottolineare l’ampiezza e la novità dei temi proposti da Bollati e variamente scandagliati da Bertelli, che accanto ai generi canonici di derivazione pittorica (la veduta, il ritratto, il nudo) ne affrontava di sostanzialmente inediti, suggerendo percorsi di ricerca tuttora validi: emigrazioni e catastrofi; gli scrittori e la fotografia; lo sport[477] e la moda; la fotografia geografica e di montagna; la fotografia di guerra e quella industriale; o ancora quella editoriale in rapporto alla grafica e al linguaggio cinematografico: “dal momento in cui la fotografia si trova a confrontarsi non più soltanto con la pittura, ma anche con il cinema, è costretta a una concentrazione di significato che dia alla singola fotografia una densità narrativa enorme, che ormai non può essere ottenuta con prestiti dai modi della pittura, ma si attua in una scomposizione della realtà, secondo le esigenze ottiche e meccaniche della fotografia, tale da estrarne immagini simboliche.” In questo ricchissimo excursus alcuni temi o contesti costituivano un terreno privilegiato d’indagine: autori come Michetti o Nunes Vais, ma anche le successive declinazioni della fotografia artistica e la politica dell’immagine nel ventennio fascista e sino alle prime reazioni del secondo dopoguerra. Sorprendeva invece lo spazio marginale, poco più che un cenno, riservato alle funzioni e al ruolo della fotografia dell’arte, a proposito della quale rimarcava come “ancora più indicativa del dissidio fra fotografia e cultura è l’assenza di una riflessione sulla fotografia delle opere d’arte”, senza menzionare non dico alcune campagne ottocentesche allora forse sconosciute ma neppure il magistrale esempio del Piero della Francesca di Roberto Longhi[478] o i necessari antecedenti di Adolfo Venturi, Corrado Ricci e Pietro Toesca che pure dovevano essergli ampiamente noti, non foss’altro che per il ruolo istituzionale da lui svolto in quell’arco di tempo.
La ricezione dell’opera e la questione della fotografia come fonte
La rilevanza e il significato dell’impresa editoriale, così come le questioni metodologiche poste, sollecitarono un’ampia serie di riflessioni critiche da parte sia di storici contemporaneisti che di quelli di fotografia, anticipate però da una importante intervista allo stesso Bollati[479]. Quell’opera, chiariva, andava intesa come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia. (…) Non c’è distanza fra i testi e le foto. Il mio saggio è nato insieme alla ricerca del materiale. Ne è scaturito l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana dedicato alla visione, con particolare riferimento alla fotografia.” Per Mario Accolti Gil, che lo intervistava, le foto riprodotte non potevano però essere “un campione statisticamente attendibile di quello che è stato prodotto e consumato nel periodo (…) c’è una certa sfasatura fra la corposità dei testi e le foto che dovrebbero comprovarli”[480], ragione per cui “un impianto statistico avrebbe dato maggiore consistenza alla sistemazione che questi Annali si limitavano a delineare con taglio saggistico.” Bollati riconosceva che “l’obiezione metodologica di una mancata scelta di campo” era stata messa in conto, ma si augurava che il libro potesse “contribuire a uscire da schemi un po’ appartati che non portano molto lontano. (…) Più in generale le dirò che in fatto di teoria e lettura della fotografia abbiamo ancora tutti molto da imparare e studiare (…) Se mai un libro è stato fatto con passione di scoperta è questo. Ho dovuto studiare, ricercare. Siamo partiti dai repertori classici (GFN, Bertarelli, Luce, IGM), ma poi abbiamo battuto campagne, la provincia, le case private. Non è un libro nato sull’onda della moda; è stato pensato anni fa nel quadro della Storia d’Italia Einaudi [ciò che era vero solo in parte]. Gli stessi difetti che lei sembra riscontrarvi lo dimostrano. Ma questo libro è anche, passata questa fastidiosissima voga che incontra oggi la fotografia nel nostro paese, un invito a lavorare seriamente a riordinare il patrimonio fotografico, che in Italia è profondamente dissestato, e a scandagliarlo ancora perché siamo appena agli inizi.” In quella stessa occasione Bollati si era dichiarato curioso di sapere “come giudicheranno questi Annali i Gilardi, i Colombo, i Settimelli, per parlare della vecchia guardia, o la Palazzoli e Quintavalle, per citare i più sofisticati, i novissimi”, ma le prime reazioni non vennero dal fronte fotografico, né furono immuni da distinzioni legate alle diverse posizioni ideologiche. Così Nicola Tranfaglia sottolineava l’interesse della fotografia come “fonte significativa per cogliere l’immagine che gli italiani vollero lasciare di sé stessi ma anche aspetto non marginale del rapporto tra intellettuali e potere”[481]; un elemento individuato anche da Paolo Spriano, che apprezzava “lo scrupolo e l’acume di scelta dei due studiosi italiani della storia attraverso la fotografia (e della fotografia attraverso la storia) (…) che ci hanno dato, per un secolo intero, un’immagine complessiva della borghesia”, ma con una notazione ulteriore a proposito di una certa “sensazione così sottile che finisce per prevalere: pare tutto così lontano, il 1845 come il 1940, ciascuna data con le sue tragedie ma anche ciascuna con la sua impronta di ‘tempo scomparso’. Insomma c’è un sottofondo permanente di Italia piccolo-borghese.”[482] Il nodo centrale, storico e storiografico, del rapporto tra identità nazionale e rappresentazione fotografica venne ripreso e sviluppato da Anne Marie Sauzeau Boetti, per la quale piuttosto che chiedersi “se si tratta più della storia della fotografia in Italia o di quella dell’Italia moderna (…) è meglio porre il problema in altri termini: come si inventarono gli italiani, intendiamo la neonata nazione italiana attraverso la fotografia? Oppure (ma si tratta della stessa cosa) come inventarono, gli stessi italiani, la grammatica progressiva di un tessuto di rappresentazione e di comunicazione, moderno per eccellenza, il linguaggio dell’immagine fotografica? (…) Il luogo mentale della raccolta è il confine fragile, ribollente di speranze e di nostalgie, tra antica e degradata cultura regionale e vocazione di potenza moderna, persino coloniale. Di questa mutazione, il testimone è stato un occhio nuovo, appunto la scatola nera del fotografo.”[483]
Altri recensori si soffermarono invece su questioni più squisitamente storiografiche: dopo aver tempestivamente segnalato l’uscita del volume, Rosario Romeo ritornava sull’argomento dichiarando preliminarmente di non voler seguire “i curatori nelle attente analisi che accompagnano questa raccolta di fotografie (…) per mancanza di competenza e un po’ anche di interesse”; preferiva semmai considerare la “questione dei rapporti tra fotografia e storia” rilevando che “la raccolta sembra un po’ troppo orientata per costituire una documentazione convincente. Troppo poco essa offre di fotografia scientifica e di altri ‘generi’ per natura più ‘realistici’: e quasi nulla di momenti così riccamente documentati come le due guerre mondiali. (…) Nonostante i fieri propositi e gli intenti ideologici e politici enunciati nella presentazione, la raccolta sembra guidata più da criteri estetici che di documentazione storica: e questo ne diminuisce la significatività nella sede scelta per la pubblicazione. Certo, essa non reca molto sostegno a chi vede nella fotografia una fonte importante per la ricerca storica. Che la fotografia appaghi talune superficiali curiosità è evidente. Ma resta il fatto che i momenti della storia sono quelli che meno si prestano a farsi fotografare. (…) Questo andrebbe detto, mi pare, a evitare che si disperdano energie a caccia a base fotografica [sic] destinata a restare al margine dei veri problemi della ricerca.”[484] Una lettura meno condizionata ideologicamente e una critica meno radicale al progetto fu quella di Giuseppe Galasso, che richiamava in termini generali il permanere nella cultura degli storici del pregiudizio della ‘oggettività’, della costante dicotomia oggettività/ costruzione, riproduzione/ espressione, documento/ arte; proprio per questo apprezzava quella “indeterminatezza” su cui si apriva il saggio di Bollati, che costituiva “motivo di grande pregio sul piano di una storia della fotografia in Italia” sebbene potesse far nascere “qualche perplessità sul piano più strettamente storico-cronistico.”[485] Ancora al tema “della fotografia come documento, se vogliamo come fonte storica” era dedicata la recensione di Franco Cardini[486] che confermava come “gli italiani non hanno una buona sensibilità per le fonti iconografiche, e in particolare gli storici trascurano spesso di servirsene o le sottovalutano. È un errore a correggere il quale una pubblicazione di questo genere può senza dubbio servire egregiamente” nonostante qualche rischio di retorica. Ancora sul contributo di Bollati si soffermava Cesare de Seta, per il quale “nonostante le sue reticenze, nonostante il suo discretissimo modo di presentare le sue analisi al lettore” esso costituiva “il più asciutto ed originale scandaglio della complessa relazione che si istituisce tra cultura del testo e la cultura dell’immagine” [487]; opinione condivisa anche da Federico Zeri che considerava “di non comune interesse il capitolo sull’ ‘immagine contrastata’, sulla polemica tra foto-documento e foto-opera d’arte, e sulle componenti storiche, sociali e culturali dalle quali vengono evidenziati o depressi certi temi di ripresa (sino all’ ‘occultamento del reale’)”. Il grande storico dell’arte liquidava invece in poche parole “il saggio di Bertelli [che] è di carattere storico”[488], molto apprezzato invece da De Seta per il quale rappresentava “la più sistematica ed ampia analisi attualmente disponibile sulla fotografia italiana: anche se naturalmente sono privilegiati quei momenti e quei passaggi che sono stati fino ad ora meglio indagati”; anche se, vale a dire, non presentava novità di rilievo. Più severo il giudizio di Guido Bezzola che lo considerava nulla più che “una gradevolissima e azzeccata serie d’interventi su episodi della storia e del gusto fotografici in Italia”, segnalando nel contempo alcuni errori nell’identificazione delle immagini, elemento che qui interessa richiamare soprattutto come indizio di un più ampio problema di metodo, che negli anni successivi avrebbe interessato in particolare gli storici con la fotografia, ponendo la questione cruciale della corretta edizione delle fonti.[489]
La “indeterminatezza” apprezzata da alcuni era invece vista come un elemento di debolezza da parte di qualche esponente della “vecchia guardia” dei critici militanti: dalle pagine di “Phototeca” Roberta Clerici e Ando Gilardi segnalavano infatti “una nota di ‘insicurezza’, del resto caratteristica di tutti gli studiosi, pur di solida cultura visiva, quali Bollati e Bertelli, che si cimentano con la fotografia. La fotografia resta alla fine essenzialmente ‘un processo’ tecnico e industriale e si pensa di doverlo conoscere dall’interno, come tale, per trattarne in piena sicurezza. Ora i due autori non sono, e non pretendono di essere, tecnici esperti, e nemmeno storici dei procedimenti fotografici. È la ragione per cui si muovono con tanta circospezione.” Interpretazione certo riduttiva sia della fotografia come fenomeno storico sia delle scelte storiografiche espresse in quegli “Annali”, ma in certa misura supportata e giustificata sia dalla mancata considerazione delle tecniche fotografiche sia dall’analisi quantitativa condotta dai recensori sui nomi citati nell’opera, dalla quale risultava che nel saggio di Bollati solo il 4% erano di fotografi e solo il 7% in quello di Bertelli. Sarebbe però errato – scrivevano i due attenti recensori con intenti polemici – considerare questo “come un difetto dell’opera. È solo un modo di usare la fotografia fuori dai suoi confini. Entrambi gli autori intendono recuperarla alla cultura ‘vera’, alla ‘buona’ cultura: la storiografia, l’arte tradizionale fatta a mano, la psicologia, la sociologia, la critica del costume e dei nuovi consumi intellettuali promossi dall’industria ecc. C’è, probabilmente, anche una ‘seria’ cultura fotografica [che] riguarda la fotografia ‘ancora da fare’, vale a dire le vicende delle industrie fotografiche: vicende produttive, commerciali e promozionali (…) fino a quando questa storia della fotografia non sarà stata scritta, o almeno definita nella sua impostazione, la ‘buona’ cultura potrà interessarsi alla fotografia, intesa come supporto interessante per la dotta speculazione. Ma la cultura fotografica resta da fare.”[490] Lo stesso Gilardi ribadiva queste posizioni in una successiva recensione[491] riconoscendo che i due tomi erano “più che indispensabili per chi studia fotografia. I fotografi debbono essere grati all’Einaudi perché la stampa di questi volumi segna, di per sé, il primo solenne ingresso della fotografia come forma di cultura particolare, nella forma generale della cultura accademica ufficiale. (…) i testi del Bollati, del Bertelli e del Gilardi, in fondo, li leggono con attenzione e sottolineandoli (come meritano) solamente il Gilardi, il Bertelli e il Bollati. Poi li legge Arturo Carlo Quintavalle, i testi del quale, anche per debito, proviamo onestamente a leggere, ma sia pure spingendo lo sforzo allo spasimo, non ce la facciamo. Per ragioni di limite esoterico. Continuiamo a scherzare, infantilmente.” In questi volumi, proseguiva con ironia affettuosa, “c’è dentro tanto lavoro, tanta ricerca, tanta intelligenza. E tanta modestia: Bollati chiama il suo scritto ‘note’ e Bertelli il proprio ‘schede’. Insieme all’editore si affannano a ripetere che non si tratta di una ricerca sufficiente, e nemmeno di un’analisi piena.” La chiusa era tutta dedicata a Bertelli, che aveva individuato “nel riutilizzo da parte di altre ‘cose’ (la pittura, la grafica, l’architettura, il tempo libero, l’antropologia eccetera) l’unica possibilità di dare alla fotografia uno scopo. Quando si esaurisce in sé stessa si esaurisce, appunto. Chi scrive questa segnalazione è tristemente noto per una sua conferenza, troppe volte ripetuta, che ha per tema ‘La fotografia non è arte, non è comunicazione e, quel che è peggio, non è nemmeno fotografia, ovvero: meglio ladro che fotografo!’ però confessa che in fondo al cuore gli restava una speranza d’avere torto. L’amico Bertelli, con il suo fare timido da cobra rispettoso, gliel’ha tolta.”
Su alcune discordanti caratteristiche dell’opera insisteva anche Angelo Schwarz, ma avviando la propria trattazione con una notazione singolare:” C’è una cosa che va detta subito: la noia scorrendo i testi e guardando le immagini non ti sorprende mai. Non è cosa da poco per un’opera, anche, di storia della fotografia” [492], riconoscendo ai due autori l’abilità nel fornire ai dati storici “un contesto e una scrittura adeguata”; più in particolare considerava esemplare il contributo di Bollati per essere riuscito a “rompere l’isolamento della fotografia come storia particolare”, mentre agli “storici della fotografia, postulanti, canonizzati o da canonizzare” mancava una “adeguata metodologia storica (ancora da inventare)”. Da questo punto di vista anche il considerevole contributo di Bertelli restava, nonostante i riconosciuti pregi, “disperante” poiché vi si toccava “con mano l’insufficienza di studi seri sulla fotografia, di una ricerca che non può essere relegata a un gruppo di sparuti ricercatori”, conseguenza – anche – dell’assenza di specifici corsi di formazione universitaria. Per questo “i rilievi (…) concernenti imprecisioni, dimenticanze presunte o reali (…) diventano marginali se non li si riconducono ai grossi vuoti di documentazione dispersi nelle memorie individuali.”[493]
Di genere più propriamente storiografico le riserve espresse da Quintavalle a proposito dello stesso saggio, che considerava “interessante” ma “discutibile”, essendo la predilezione per “alcune personalità ben individuate” espressa da Bertelli inconciliabile con la necessità di conoscere e considerare un contesto come quello italiano che era ancora sostanzialmente insondato; “in secondo luogo perché operare solo sull’insieme dei supposti artefici protagonisti, degli ‘artisti’, è certamente un’operazione di stretta marca idealistica, crociana; e ancora perché proprio il rifiuto di analizzare la fotografia come strumento della comunicazione preclude a chiunque la possibilità di comprendere la realtà della storia: una storia della fotografia per genii, per figure-guida appare essere contrapposta alle storie reali, al tessuto reale, quelle storie, quel tessuto che decenni di critica ci hanno insegnato a rispettare e a considerare come strutturante.”[494]
1980-1988
L’Italia nelle storie generali / Alcuni modelli storiografici
La risposta del pubblico alle molteplici iniziative del 1979 aveva sollecitato gli editori a considerare diversamente la cultura della fotografia e la sua storia, tanto che in meno di un decennio si pubblicarono le maggiori sintesi storiografiche generali allora disponibili, sia contributi originali sia traduzioni, mentre si assisteva a qualche timido ma prezioso tentativo di riedizione delle fonti[495]. Il periodo, delimitato quasi esattamente dalla pubblicazione dei due volumi della Storia della fotografia di Gernsheim (Le origini, 1981; L’età del collodio, 1987), vide nel 1982 l’uscita della Storia e tecnica della fotografia di Zannier e nel 1984 la traduzione italiana dell’ultima edizione di quella di Beaumont Newhall, seguita due anni dopo dalla traduzione della Storia curata da Jean-Claude Lemagny e André Rouillé, che proponeva un nuovo modello storiografico.
A chiudere editorialmente il 1979 era stato un volume di Settimelli dedicato alle origini della fotografia[496], che aveva il lodevole scopo di far sì che “il lettore, stufo di tante opinioni diverse [potesse] giudicare con la propria testa”. Così nel breve spazio di poco più che cento pagine venivano compendiati, come recitava il sottotitolo, I fatti, i pionieri, gli eroi, le polemiche, le tecniche e i documenti inediti dal 1820, con qualche riferimento alle vicende italiane. Nella breve Prefazione, e forse con qualche bonaria intenzione ironica, l’autore dichiarava di non avere “molto da dire” a proposito delle ragioni del libro e del tema (inteso ancora come controverso) dell’invenzione della fotografia, essendo però consapevole del fatto “che un libro in più non faccia male a nessuno.” La narrazione delle vicende riprendeva l’andamento romanzato già adottato per il volume del 1969, compreso quel gusto nella titolazione dei capitoli improntato a criteri e modi da copywriter pubblicitario (“Daguerre e Niepce [sic] fanno impazzire il mondo”). Anche in questo caso l’aneddoto prevaleva sull’accuratezza delle informazioni fattuali e tecniche[497], così come sulle considerazioni storico critiche, tanto che uno degli assunti fondamentali, quello che distingueva tra dagherrotipia e fotografia in senso proprio era liquidato sommariamente notando che “si trattava, insomma, del principio del negativo e del positivo ancora oggi d’uso corrente” ed anche la dichiarazione che “i veri inventori della fotografia, così come noi oggi la conosciamo (…) furono in realtà Henry Fox Talbot e Hippolyte Bayard” era quasi celata nel corpo di una semplice didascalia. Ne risultava uno zibaldone di testi e immagini poco coerenti tra loro sia in termini strutturali che cronologici, tanto da far pensare a un instant book realizzato sull’onda della nascente curiosità per la fotografia storica piuttosto che all’esito di un meditato progetto di ricerca. Il solo merito di quel volume era rappresentato dalla pubblicazione di alcune fonti “a volte di faticosa lettura” (intendendo – credo – di difficile reperibilità), scarsamente utilizzate dai pochi che lo avevano preceduto (come Federico Arborio Mella[498]) e che solo a partire dagli “Annali” einaudiani dello stesso anno avrebbero avuto in parte maggiore circolazione. La pubblicazione di quei testi, mai contestualizzati, assumeva però una dimensione preponderante e scarsamente giustificata nell’economia generale di un volume riccamente illustrato (trenta pagine su ottanta) che si chiudeva con una breve bibliografia ottocentesca tratta dal Manuale di Gioppi del 1887, ovvero una versione povera di quanto proposto da Gilardi nel 1976, e con un elenco altrettanto striminzito dei “principali fornitori italiani di articoli per fotografi”, desunto dalla stessa fonte ma impropriamente e improbabilmente datato al 1864 sebbene registrasse la presenza di Cappelli e di Dringoli, cioè dei primi produttori italiani di lastre alla gelatina bromuro d’argento.
Nella “Collana di fotografia” diretta da Daniela Palazzoli venne pubblicato nel 1981 il primo dei due volumi in ottavo della Storia della fotografia di Gernsheim[499], dedicato alle origini, che si segnalava anche per la particolare cura editoriale posta nella riproduzione dei dagherrotipi, molti dei quali stampati su fondo argento (in un caso anche in quadricromia) per evocare almeno la loro peculiarità percettiva, come già aveva fatto alcuni decenni prima Carlo Mollino. Com’era prevedibile il testo di Gernsheim non offriva esplicite indicazioni metodologiche ma entrava subito in argomento con un breve capitolo dedicato alla “preistoria della fotografia”, posto a capo di una sequenza argomentativa strutturata su base tecnologica (eliografia, dagherrotipia, disegno fotogenico, calotipia), con approfondimenti dedicati ad alcune aree geografiche, compresa l’Italia, affidata alla direttrice della collana, mentre gli apparati contenevano una biografia dell’autore, l’indice dei nomi e una “bibliografia essenziale, non sistematica, per chi volesse approfondire l’argomento”, da cui erano escluse quasi tutte le fonti a stampa citate nelle note ai capitoli. La ricostruzione delle vicende, sovente condotta su fonti inedite, era molto vivace e ricca di dettagli ma condizionata – come era già stato notato per la sua prima Storia[500] – da una impostazione finalistica e da continui rimandi alle opere conservate nella propria collezione. Il secondo volume, dedicato all’età del collodio, vide la luce nel 1987, con analoghe caratteristiche editoriali, ma la meritevole intenzione di offrire una “traduzione efficace dell’effetto visivo degli originali” ebbe in quel caso risultati poco soddisfacenti poiché la rinuncia alla stampa in quadricromia a favore di un uniforme color seppia, che avrebbe dovuto evocare “la colorazione media degli originali”, risultava inadatta quanto filologicamente insostenibile. Operando su di un arco cronologico ristretto e un orizzonte tecnologico definito, l’articolazione del discorso si concedeva una struttura meno rigida del precedente, con capitoli dedicati ai generi che allora si andavano definendo (“d’arte”, istantanea, ritratto, paesaggio e architettura, montagna) così come a certe forme della sua diffusione commerciale, dalle carte de visite alle stereoscopia, ma forse con entusiasmi non storicamente verificati, quali l’opinione che il procedimento al collodio avrebbe fatto “finalmente della fotografia un hobby popolare”; affermazione insostenibile e contraddetta del resto dallo stesso autore nel momento in cui riconosceva che “la popolarità del procedimento al collodio non deve far pensare che avesse reso più facile la fotografia che, anzi, era diventata più difficile.” Prescindendo da quelli che a noi paiono dei limiti di interpretazione, il testo presentava la consueta leggibilità accompagnata da grande ricchezza di fonti e di dati, anche di tipo statistico sulla diffusione della professione fotografica, sul costo dei materiali e dei prodotti finiti e sull’uso delle varie tecniche, anche se purtoppo limitati alla sola Gran Bretagna. Nell’edizione italiana il sommario del primo volume prevedeva – come si è detto – uno specifico contributo dedicato al nostro paese affidato a Palazzoli, che sulla scia di Vitali e poi di Settimelli svolgeva in estrema sintesi le vicende legate alle origini e rimandava per approfondimenti al testo da lei redatto per il catalogo della mostra del 1979. Tale vincolo obbligava l’autrice a cenni anche interessanti, come il richiamo alla tradizione italiana della camera obscura e alle riflessioni di Francesco Algarotti[501], ma senza riuscire poi a trarne le dovute conseguenze in termini storici e storiografici, così che il testo non risultava essere altro che una sintesi cronologica dei modi della conoscenza italiana delle due magnifiche invenzioni: dalle relazioni personali di Talbot coi “savants Italiens” alla diffusione delle notizie intorno al dagherrotipo, tra stampa periodica e scientifica, sottolineando in particolare l’interesse di Macedonio Melloni per le possibilità insite nel processo di fotoincisione messo a punto da Alfred Donné, in un accenno di interpretazione che pareva in forte debito con Gilardi. Seguiva una breve disamina della sola produzione vedutistica legata al dagherrotipo (Artaria, la raccolta Ellis) e un cenno alla pratica del ritratto, giudicata “assai standardizzata, finalizzata a conservare le memorie fisionomiche e ad abbellire grazie al ritocco la somiglianza [sic].”[502] Nel secondo volume lo spazio dedicato da Gernsheim alle nostre vicende fu di poco maggiore, con una accentuazione per la documentazione del patrimonio artistico e architettonico, che riconosceva come una peculiarità della fotografia italiana; forse per questa ragione l’opera non venne integrata da un capitolo generale sul nostro Paese. Anche in quella occasione, com’era caratteristica di Gernsheim, il punto di vista risultava quanto mai personale e collezionistico, così lo spazio maggiore della sezione italiana era destinato a Robert Macpherson, un autore da lui studiato a partire dagli anni Cinquanta[503], che considerava “un vero artista (…) le cui fotografie sono descrizioni poetiche e non semplici trascrizioni di uno scenario classico”, mentre all’attività di Alinari, Anderson, Ponti e Sommer erano dedicati solo brevissimi cenni.
Uno spazio maggiore venne riservato loro nella nuova Storia e tecnica della fotografia che Zannier pubblicò nel 1982 con un corredo antologico di testi che consentiva anche ad un pubblico non specializzato di avvicinarsi alle fonti più significative della letteratura fotografica. Come già in Gernsheim, anche in Zannier la questione storiografica non era affrontata esplicitamente, ma era possibile intuire un’impostazione che anche qui potremmo definire ‘evoluzionistica’: “l’occhio dell’uomo è diventato più versatile mediante la fotografia, come se questa fosse una protesi che alimenta la capacità di osservazione, integrando le carenze della percezione visiva, adeguandola quindi alle esigenze fisiologiche e psicologiche determinate dall’inarrestabile sviluppo tecnologico. (…) La fotografia, come strumento, si è realizzata attraverso una estenuante ma ineluttabile gestazione di un’idea (la memoria dello sguardo), che si è radicata nel grembo dell’umanità mentre stava formandosi il linguaggio, di cui si è preso coscienza lentamente, durante l’evoluzione storica.” Dopo due capitoli dedicati alla genesi ed ai suoi primi inventori, lo svolgimento proseguiva abbandonando la consueta scansione cronologica a favore di una serie di trattazioni per ambiti tematici (da “Fotografia e scienze” a “Linguaggio e avanguardie”) ciascuno trattato diacronicamente e intessuto di rimandi continui alla situazione italiana e ai suoi protagonisti, sottolineando analogie e differenze, ma non senza alcune disomogeneità che forse potevano essere intese come impliciti giudizi di valore, quali la succinta descrizione della diffusione della dagherrotipia o i brevissimi cenni alla stagione pittorialista, rispetto alla quale si limitava ad accostare in forma di elenco, le “scene fiamminghe” di Guido Rey e le “scene di efebi” di Von Gloeden.
Accanto a queste fiorirono altre iniziative che si proponevano, pur in modi e a livelli diversi, quali strumenti per una informazione di base che non fosse circoscritta ai puri aspetti tecnici[504]. Così in quegli anni l’editoria offriva al pubblico italiano anche la traduzione dallo spagnolo della Storia della fotografia[505] di Mauricio Wiesenthal, enologo e fotografo spagnolo, pubblicata nel 1983 e integrata da una sezione italiana curata da Giuseppe Bonini, già redattore de “Il Progresso fotografico”, e – nello stesso anno – la Storia della fotografia[506] edita da Jaca Book con un testo di Giovanni Chiaramonte illustrato da Paola Borgonzoni e Giuliana Panzeri, in coedizione con l’americana Aperture.
L’andamento del volume di Wiesenthal era canonico, con andamento cronologico alternato a brevi capitoli dedicati alle figure notevoli di questa storia, ma con una tale messe di confusioni, imprecisioni ed errori, frutto anche di una traduzione sciatta e di una analoga cura editoriale, da risultare difficilmente accettabile anche per un pubblico generico, mentre la sezione sulla fotografia italiana pur mantenendo un tono discorsivo risultava sufficientemente accurata e aggiornata rispetto allo stato degli studi a quella data, con una buona definizione del contesto che ne vide la prima diffusione, e giudizi non banali su alcuni momenti cruciali delle sue vicende[507], seguite lungo un arco cronologico esteso sino alle Verifiche di Ugo Mulas. Il volume Jaca Book faceva parte della collana di “Biblioteca di Storia della fotografia” della serie “Punto e Virgola”, già marchio editoriale di Chiaramonte e Ghirri poi assorbito dalla casa milanese, e si presentava come un sussidiario storico dedicato ai giovani e giovanissimi[508]. L’incerta impressione che quello dovesse essere il pubblico dei potenziali lettori, e che l’iniziativa fosse un interessante esempio di sperimentazione storiografica ed editoriale, era suggerito dall’uso sistematico dell’illustrazione grafica, nella più parte dei casi didascalicamente efficace[509], come dal tono affabulatorio dei testi: un’accoppiata che richiamava irresistibilmente altre imprese divulgative quali Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie (1960) o le enciclopedie per ragazzi degli stessi anni. Anche la struttura del discorso storico non ne era lontana, sintetizzando in sessanta brevi schede tematiche il lungo percorso culturale che da Brunelleschi giungeva a Willian Eggleston passando per Cristoforo Colombo, Galilei e Vermeer (per non citare che alcuni), a sostegno dell’assunto che “la fotografia (…) è specchio della realtà”. Concezione quantomeno bizzarra per quegli anni e per la responsabilità dell’autore, tra i più colti e interessanti fotografi della sua generazione, ma almeno dotata di grande coerenza interna se consentiva di credere che dalla campagne fotografiche Alinari usciva “l’immagine più vera dell’Italia del tempo.”
Nel 1984 si pubblicava finalmente, da Einaudi, nella traduzione di Laura Lovisetti Fuà[510], la prima edizione italiana della Storia della fotografia di Beaumont Newhall, condotta sulla quinta edizione ampliata pubblicata negli USA due anni prima. Com’è noto l’autore si proponeva di dar conto “del crescente contributo della fotografia alle arti visive (…) storia di un mezzo più che di una tecnica, vista attraverso gli occhi di coloro che per anni hanno lottato per conoscerlo, per capirlo, per adeguarlo alla propria visione.”[511] Una storia per autori quindi. Da questa impostazione derivava una struttura narrativa, rivista rispetto alla precedente edizione del 1964, organizzata in sedici capitoli svolti lungo un arco cronologico che dal XV-XVI secolo giungeva sino agli ultimi anni Settanta del Novecento procedendo per coppie di opposti, riconducibili per certi versi alla dicotomia documentario/ artistico, ma senza distinguere – si direbbe -tra generi, tipologie e movimenti veri e propri, così da intitolare ad esempio un capitolo alla “fotografia pittorica” e un altro alla “visione istantanea”. Pur presentandosi come una storia generale (nell’originale: The History, come in Gernsheim) il lavoro di Newhall manteneva quella impostazione “irrimediabilmente etnocentrica” (Boris Kossoy) e autoreferenziale che era già stata sottoposta a dure critiche da parte degli studiosi statunitensi e americani delle generazioni successive; in Italia invece si sottolineava ancora il “rilevante argomento di interesse del metodo di lavoro di Newhall, poiché consente di valutare le esperienze ‘nazionali’ sullo sfondo o alla luce delle vicende internazionali”, nella convinzione inespressa (ma condivisa dal recensore[512]) che esistesse “una sorta di dominio culturale degli Stati Uniti continuamente ribadito da cinema e letteratura)” tale da spingere lo studioso “a una progressiva ma sempre più evidente identificazione delle elaborazioni teoriche e sperimentali della fotografia americana con quelle dell’intera produzione internazionale.” Non sappiamo quanto quella interpretazione corrispondesse alle intenzioni di Newhall, ma certamente apparteneva all’orizzonte critico di Paolo Costantini, particolarmente sensibile alla nuova fotografia americana di paesaggio che si andava affermando in quegli anni dopo le prime esperienze del gruppo dei New Topographics[513]. Al di là di questa adesione prospettica e del riconoscimento di quella “più puntuale relazione con il materiale letterario direttamente considerato (testi, articoli, interviste ecc.) che ha differenziato il lavoro di Newhall da parecchie altre storie della fotografia, definendo un ambito disciplinare e un procedimento storiografico più preciso per queste ricerche”, il recensore avanzava alcune riserve sulla “preminenza attribuita alle personalità degli autori e alla scelta e al commento di opere particolarmente emblematiche” utilizzando “tali elementi (…) come gli anelli di uno sviluppo necessario e continuo della fotografia”; alla ricerca di quella “unità di stile in un dato contesto ambientale o in un dato periodo [che] appare infatti piuttosto caratteristica degli intenti precisati dall’autore in questa nuova edizione.” Numerosissimi, in quel volume, erano i nomi di italiani citati nell’indice, dall’Alberti a Zavattini, ma quasi nessun fotografo, non volendo includere nelle categoria, per rispetto delle sue volontà, Anton Giulio Bragaglia. Pochi altri comparivano nelle pagine relative alla dagherrotipia: Lorenzo Suscipi in relazione al progetto Ellis e i milanesi Alessandro Duroni e Stefano Stampa, non compresi nelle precedenti edizioni e verosimilmente segnalati da Lamberto Vitali, il solo italiano citato nei ringraziamenti, al quale si doveva anche la conoscenza del lavoro di Giuseppe Primoli, qui accostato visivamente a Paul Martin riprendendo una suggestione critica di Ian Jeffrey, che lo aveva definito “il più prolifico notista dell’era di Stieglitz (…) un irriverente predecessore del fotogiornalismo degli ani ’30.”[514]
La “sorprendente ristrettezza di vedute” delle più note storie della fotografia fondante “su una visione nazionalistica affatto contestabile” venne stigmatizzata da Alfredo De Paz[515] in uno studio che si proponeva di fornire una lettura storico sociologica della fotografia estesa ben oltre i “ristretti limiti di un solo paese” in cui parevano rinchiudersi gli storici della disciplina; una ristrettezza di orizzonti che “potrebbe far sorridere se la posta delle storie della fotografia non risiedesse, precisamente, in un mondo i cui limiti si restringono senza posa”.[516] “Questo libro – scriveva De Paz – si presenta soprattutto come una ricerca di sociologia della cultura, applicata a quella particolare istituzione sociale che è la fotografia, la pratica fotografica considerata per certi aspetti nel suo svolgimento storico (…) e per altri aspetti nella sua essenza istituzionale, strutturale, sociologica particolarmente in rapporto al presente.” Una “sociologia storica della fotografia”[517] quindi, che consentisse anche di rinnovare gli “approcci storici alla fotografia [che] si riassumono essenzialmente in cataloghi articolati, ripetitivi, contraddittori. (…) Ciò dipende tanto dalle difficoltà evocate più sopra[518] che dalla necessità dell’immagine. (…) Si ha così spesso l’impressione, a sfogliare le ‘storie’, che una selezione di belle immagini, spesso importanti nelle svolgimento storico (…) serva a giustificare qualsiasi tesi. Il fatto che la maggior parte delle storie della fotografia riproducano le stesse immagini tranne alcune varianti di rilievo, accentua questo sentimento di povertà del discorso storico.” Non di quello sociologico però, si sarebbe detto, se con tutta evidenza l’apparato iconografico di quel volume riproponeva pedissequamente il consueto e per molti versi certamente logoro repertorio internazionale. Per mantenersi coerentemente lontano dall’innegabile e disdicevole nazionalismo di cui sopra, in questo interessante lavoro l’autore escludeva perciò ogni riferimento alle vicende italiane[519], evidentemente non riconoscendo a queste alcun valore emblematico, neppure – ed era certo un dato singolare per un progetto di “sociologia storica della fotografia” – per quel che riguardava le funzioni e l’uso che del mezzo aveva fatto il regime fascista. Non ultimo limite di uno studio che si poneva un obiettivo nobile e culturalmente stimolante al quale corrispondevano però ingenuità di ogni tipo e un disequilibrio sostanziale e irrisolto tra analisi sociologica e desiderio di esaustività storico critica.
L’ampliarsi del confronto critico con studiosi di altre discipline e il contestuale approfondimento di studi e ricerche settoriali portarono in quegli anni alla definizione e alla produzione di storie della fotografia che si distaccavano nettamente dagli esempi sino ad ora esaminati per impostazione metodologica e approccio critico, facendo emergere la necessità di mettere in cantiere opere che ad una precisa progettualità curatoriale facessero corrispondere un’articolazione costruttiva per parti o capitoli affidati a singoli specialisti. Il primo compiuto esempio in tal senso fu quello di Jean-Claude Lemagny e André Rouillé che nel 1986 pubblicavano la loro Histoire de la photographie, tradotta due anni dopo in Italia da Sansoni conservandone anche l’impianto tipografico[520]. Essendo “finito il tempo in cui un solo autore poteva scrivere tutta questa storia”[521] il volume conteneva diciotto saggi – affidati a 15 autori di nazionalità e competenze diverse – disposti secondo un andamento cronologico che conteneva e presupponeva anche specifiche ipotesi critiche, arricchite da articolazioni tematiche interne (applicazioni, aree geografiche). L’insieme era completato da due appendici: una cronologia sinottica ed una serie di schede relative ai procedimenti tecnici, esito evidente del consolidarsi a livello internazionale di una più puntuale considerazione dei nessi tra tecnologia e storia delle immagini e – contemporaneamente – della consapevolezza dei problemi conservativi posti dall’insieme delle fotografie storiche, per le quali si stava consolidando l’uso della locuzione “patrimonio fotografico”. La sottile quanto fondamentale distinzione che avrebbe dovuto consentire al lettore di orientarsi tra storia e storiografia veniva richiamata sin dalle prime righe dell’introduzione: “Il modo stesso di scrivere la storia della fotografia ha ormai una storia. L’innocenza non è più possibile – scriveva ancora Lemagny – e, davanti a tante opere accumulate, si impone la necessità di fare delle scelte, di riprendere in mano la massa brulicante e straripante dei fatti per rimisurarne il lungo scorrere e i profondi sommovimenti. (…) L’appassionante e l’impossibile, quando si affronta la storia della fotografia, è che questa ha a che fare con tutto: tecnica, società, arte, ecc. E per molto tempo lo storico è stato assillato dalla necessità di raccontare tutto ciò che la fotografia aveva ricevuto e dato, i suoi rapporti con la pittura, con la stampa, con la scienza… Era una storia per mezzo della fotografia. Perché si instauri una storia della fotografia sarà necessaria una riflessione da parte della fotografia su se stessa.” “Benché breve – aggiungeva Rouillé[522] – la storia della fotografia è ricca, molteplice, complessa Ogni pretesa di esaustività, in questa sede, era quindi illusoria. Più di un’impossibile summa enciclopedica, abbiamo proposto approcci nuovi e notevolmente diversi da quelli degli autori che, prima di noi, si sono dedicati allo studio storico della fotografia. (…) Per comprendere la situazione attuale e le trasformazioni in corso della fotografia, la storia è un mezzo insostituibile, ma a patto di considerare in ogni momento il fenomeno ‘fotografia’ nella molteplicità delle sue dimensioni, nella sua mutevolezza e nelle sue diversità geografiche. È quello che abbiamo tentato di fare in quest’opera, in parte grazie alla partecipazione di autori diversi, cioè di punti di vista necessariamente vari, con la speranza di rispondere alle attese di una presentazione rinnovata della storia della fotografia e di aprire la strada ad altri modi di pensarla e di scriverla.” A fronte di queste lodevoli intenzioni, nate da una consapevolezza storiografica inedita nel panorama internazionale, gli esiti generarono non poche perplessità e non solo per l’obbligata, insufficiente dimensione concessa ai singoli contributi. Così Fernando Tempesti fece notare che “se è già possibile scrivere una storia delle storie della fotografia (…) non altrettanto pacifico è a tutt’oggi come si può scrivere una storia della fotografia”, lamentando la “mancanza di un centro, di una chiara, anche se molto articolata, nozione di quello che è di fatto l’oggetto del narrare, cioè proprio la fotografia” [523], senza domandarsi se non fosse proprio quella “mancanza” o, meglio, il suo riconoscimento magari ancora implicito a costituire il pregio maggiore di quel progetto.
Anche nella maggior parte dei saggi contenuti nel volume di Lemagny e Rouillé si sarebbe cercato invano poco più che un cenno fugace alle vicende italiane, poiché allo scopo di “non subordinare ciascuna delle grandi tappe a un solo criterio” i diversi contributi consideravano situazioni e figure che risultavano rilevanti vuoi per la loro emblematicità vuoi per la loro specificità; per la capacità metonimica di illuminare altre situazioni analoghe o per la loro singolare irriducibilità. A quella scarsa considerazione generale corrispondeva un’analoga conoscenza effettiva, che non consentiva di comprendere storicamente il senso di alcune esperienze, anche non secondarie. Basti vedere l’opinione di Rouillé sui Fratelli Alinari, che avrebbero finanziato “grazie ai proventi dei ritratti-cartes de visite [sic], le loro attività fotografiche predilette”[524], ciò che costituiva un errore dal punto di vista sia storico che critico, lasciando intendere quasi che la documentazione del patrimonio artistico fosse stata una lodevole passione amatoriale e non il nucleo portante della loro attività imprenditoriale. Altri analoghi fraintendimenti si ritrovavano nel paragrafo dedicato a un movimento specificamente italiano come il futurismo, nel quale si potevano leggere affermazioni che cancellavano d’un solo colpo più di un decennio di studi e ricerche: “Quando i futuristi si associarono con dei cronofotografi – scriveva Molly Nesbit – non scelsero dei professionisti ma i Bragaglia, che sperimentavano la tecnica per svilupparla, per farne qualcosa di più di una descrizione del movimento. (…) Per quanto breve e limitata, questa unione del 1913 fra l’artista d’avanguardia e il fotografo è storicamente importante. Era la prima volta che essi studiavano lo stesso problema plastico come artisti, su basi comuni e su un piede di parità.”[525] Il solo contributo a noi strettamente pertinente era quello di Angelo Schwarz dedicato all’Italia fascista, che subito prendeva le distanze da coloro (e il riferimento implicito era alle grandi mostre parigine e bolognesi dei primi anni Ottanta) che tendevano a far coincidere la fotografia del periodo con le varie declinazioni moderniste, mentre invece “nella fotografia italiana del Ventennio si trova di tutto e la questione storiografica potrebbe essere quella di dar conto del come il culto nazionalsocialista dello Stato, impastato con pretese socializzanti e con l’esaltazione del modernismo, abbia creato rapporti sovente ambigui con le avanguardie storiche. (…) La rilevante quantità delle immagini fotografiche prodotte in Italia durante il periodo fascista da centinaia di oscuri e meno oscuri fotografi poco aveva a che fare con una estetica così culturalizzata. Ma furono proprio queste immagini più ‘triviali’ che il regime usò ampiamente.”[526]
Quale storia della fotografia
A fronte della disponibilità di queste opere di riferimento generale il decennio vide anche e soprattutto una crescita esponenziale di approfondimenti della situazione italiana, che segnarono il passaggio dal pionierismo degli anni Settanta al tentativo, sebbene ancora immaturo e non sempre riuscito, di fondare metodologicamente la disciplina e di approfondirne temi, ambiti e fonti, affrontando per la prima volta in modo così ampio aspetti tra loro profondamente differenti sia in termini di contenuto sia di scala; lavori che sviluppavano in direzioni diverse e non di rado contrastanti le migliori sintesi allora disponibili, pubblicate nelle due grandi opere einaudiane della “Storia d’Italia” e della “Storia dell’arte italiana”. Nonostante l’impegno e gli esiti importanti di quella prima generazione italiana di studiosi non era però ancora possibile dire che fosse “nata nel nostro paese una storia della fotografia sufficientemente articolata e con prospettive corrette di sviluppo”[527], anzi per alcuni a quella crescita quantitativa non corrispondeva affatto un analogo accrescimento qualitativo: “Sono sempre più nauseato – scriveva Bertelli[528] – da quello che si scopre e che si scribacchia sulla fotografia dell’Ottocento. Dattilografe scontente, professoresse di scuola media impazienti degli orari di insegnamento, cronisti falliti, fondatori di circoli di tric trac, tutti quanti scoprono i nonni fotografi, trovano banche, enti, vinai e birrai pronti a pagar monografie, mostre, giri vari. (…) Sono cose che si decanteranno da sé. All’Ottocento italiano corrisponde la fotografia italiana dell’Ottocento. È tutto qui.”
Le ragioni di quella condizione erano state individuate da Quintavalle nella cronica assenza di corsi universitari, a cui non poteva supplire “qualche sparso insegnamento condotto da specialisti di altro ambito che diventano intenditori di fotografia in alcune accademie”[529], quando sarebbe invece stato necessario “porsi il problema della grafica e della sua storia, il tema dell’opera d’arte e delle sue ‘scritture’, cioè delle sue critiche trascrizioni (…). Finché questo non avverrà la storia della fotografia, di quello che conveniamo chiamare fotografia, nel nostro paese resterà terreno chiuso, campo che solo pochissimi potranno, e anche loro con fatica, tentare di arare, ma i frutti saranno sempre scarsi.” Un’ indicazione critica tanto interessante quanto riduttiva, non essendo possibile circoscrivere la questione fotografica solo a quell’ambito, e anche per certi versi ingenerosa nei confronti di chi come Miraglia si era misurato con impegno e capacità in quel senso. Più dirimente e necessaria la successiva indicazione a proposito della questione della “pubblica raccolta dei materiali della fotografia”, rispetto alla quale lo studioso lamentava il tramonto “della possibilità di una collezione generale, unitaria, sufficientemente ampia da dar conto dei principali nodi culturali di oltre un secolo e mezzo di produzione fotografica”, auspicando “la costruzione di un nodo unico o di pochi nodi funzionali a livello nazionale, e collegati, che si occupino della raccolta, della integrazione reciproca e soprattutto dell’analisi, conservazione e organizzazione dei materiali superando le barriere locali.” Per Quintavalle era mancata “una politica, a livello nazionale, di raccolta dei materiali”, compito che il GFN Nazionale non aveva saputo (o voluto) svolgere; la situazione si era poi aggravata con la “industrializzazione del mercato fotografico e quindi la capitalizzazione – ma anche la dispersione[530] – dei materiali della fotografia, della loro svendita oppure del loro accaparramento da parte dei privati”, che aveva portato alla distruzione irreversibile dei patrimoni degli studi fotografici; “strumento base indispensabile per la ricostruzione della nostra storia della fotografia” poiché costituivano “il tessuto connettivo dentro il quale, e solo al suo interno, si poteva pensare di spiegare la realtà della fotografia, la sua cultura certamente ‘regionale’ nel nostro paese, le presenze di modelli, di fotografi legati a situazioni diverse”, mentre troppe delle iniziative editoriali ed espositive precedenti erano ancora segnate dalla “rimozione, con l’accento cioè, su poche presenze ed enormi assenze. Nessuno infatti ha il coraggio di dire che il patrimonio delle immagini ottocentesche ancora superstiti è certamente di milioni, forse decine di milioni di pezzi; nessuno ha il coraggio di dire che un singolo ‘artista’ poteva aver prodotto, nella propria esistenza, diverse decine di migliaia di pezzi, lastre e stampe, quindi, e nessuno, fino ad oggi, ha neppure pensato a censire quello che resta, a stabilire la realtà del tessuto della cultura ‘di studio’, della civiltà degli studi. L’ho detto altrove, lo ripeto, si tratta di un’impresa di decenni, una impresa che riserva le massime sorprese perché molti dei fotografi che riteniamo chiave risulteranno essere parte di un tessuto, e usciranno decine di figure-guida diverse, soprattutto si capirà che o si comincia a fare un discorso corretto sugli studi, oppure si cede semplicemente, a pochissimi rivenditori, l’intero nostro patrimonio culturale di oltre un secolo di produzione di icone fotografiche senza avere, come contropartita, altro che qualche magro catalogo, povero di cosciente ricerca e di impegno critico, esaltante figure spesso modeste o modestissime. Ma chi potrà mai, dunque, indagare questa storia degli archivi se questi sono di proprietà privata?” Si trattava insomma di superare anche operativamente “la contraddizione di fondo della storiografia sulla fotografia, o almeno della sua gran parte (…) la concezione idealistica che la vicenda fotografica sia costruita per punte, per vette, per figure chiave, per ‘geni’ e che il tessuto, il contesto sia da rimuovere, anzi, che sia, di fatto, rimosso. Dunque chi fa storia della fotografia, o meglio, chi tenta, abbandona il contesto, neppure lo prende in esame e considera questa operazione assurda come l’unica lecita.”[531] Altre riflessioni avevano più specifica valenza critica: ponendo il tema della natura del “tempo degli archivi” Quintavalle introduceva elementi di portata altrettanto rilevante, individuando “un tempo di riproduzione o, se si preferisce, di scrittura”, vale a dire quello della ripresa, ben distinto dal “tempo d’uso [con] una sua specifica durata che è stata programmata al momento stesso della sua organizzazione” e infine “il tempo dell’uso dell’icona che resta quello chiave per la comprensione della questione nel suo insieme. Ed infatti tempo dell’uso dell’immagine non è (…) tempo stabile ma del tutto mobile in quanto legato alla situazione, al modello storico, dunque un tempo che non si stabilizza in una interpretazione ma che ne propone altre, un tempo che prende in considerazione all’interno dell’archivio fatti magari già posti ai margini (…), dando a questi temi un grande rilievo e spazio e dimensioni differenti, insomma portandoli in primo o primissimo piano e mettendo dietro altri casi un tempo rilevanti. (…) il senso muta non solo al di fuori del contesto prefigurato dei fruitori ma soprattutto quando cambia la cultura, cambia la situazione storica.” Detto altrimenti, quello che oggi è noto come problema della risemantizzazione.
Non è possibile oggi, e non lo era allora[532], condividere la prospettiva centralista espressa da Quintavalle, sebbene esistessero impellenti ragioni di conservazione e tutela; quelle stesse che lo avevano portato alla costituzione del CSAC. Dal punto di vista culturale ancor prima che metodologico essa appariva priva di senso, persino dannosa e soprattutto concettualmente impropria rispetto alle manifestazioni storiche della fotografia, in aperta contraddizione con la stessa necessità da lui espressa di conservare quel “tessuto connettivo” senza il quale sarebbe stato impossibile comprendere le vicende della fotografia in Italia. In quegli anni, per provarsi a far fronte a quella necessità si sarebbero avviate le prime esperienze e riflessioni sul tema della catalogazione, contribuendo ad accrescere la consapevolezza che i ‘materiali fotografici’ potevano e dovevano essere conservati e studiati (catalogati) certo all’interno di un quadro politico culturale unitario, quindi secondo criteri standardizzati e condivisi, ma conservando sempre, ove possibile, il legame storico, quindi anche territoriale, con la loro storia di produzione e raccolta. Fondamentale era l’appello dello studioso ad abbandonare ogni concezione “di stretta marca idealistica, crociana” per impostare una ricerca rivolta alle storie del “tessuto reale”, per “comprendere la realtà e l’importanza dei singoli studi fotografici dove si hanno e si potranno ancora avere le maggiori scoperte proprio di fotografi di grande ingegno e qualità, certo molto superiori ai pochi amateurs che, comunque, non hanno costruito – né lo potevano – alcuna immagine collettiva, non hanno svolto alcuna funzione nel contesto della cultura di immagine di tutti.” La vis polemica lo portava forse ad affermazioni apodittiche, ma la ricchezza di temi e riflessioni contenute nell’Introduzione alla raccolta di saggi da lui pubblicati nel decennio precedente rendeva questo testo il contributo sino ad allora più organico, argomentato e complesso in merito alle varie problematiche che interessavano e condizionavano la storiografia fotografica in Italia, a partire addirittura dall’inedita questione della “classe sociale, la classe di provenienza, o meglio di inserimento, di appartenenza quindi degli storici della fotografia; capire la loro classe, capire le loro intenzioni, comprendere la funzione che questi storici svolgono nel sistema equivale a comprendere una buona parte dei modelli cui fanno riferimento e a chiarire la realtà della situazione della nostra storia della fotografia in relazione a quella internazionale.” Nella consapevolezza che “certo, per adesso si tratta di una petizione di principio, di un assunto non dimostrato, ma sarà sempre cosi finché non si tenterà un’analisi.”
L’analisi poi non venne, almeno non in quella occasione, sostituita da un confronto necessariamente impietoso con i contesti di formazione di paesi come gli Stati Uniti che faceva semmai emergere le ragioni per le quali “mancando da noi una couche universitaria, una preparazione filologica appena decente, non sono gli storici a costruire le conoscenze e a formare i giovani ma sono limitati gruppi di amatori che si sono improvvisati nel tempo o galleristi oppure storici e sono soprattutto fotografi che spendono parte del loro tempo, meritoriamente da un certo punto di vista, a fare i manager oppure a costruire brevi saggi sulla fotografia. Sarà anche per questo ma, da noi, la fotografia manca completamente del livello filologico che è lo strumento necessario per una considerazione dei materiali che almeno sappia di che materiali si deve trattare.” Di più, nel lavoro storiografico sino a quel momento prodotto Quintavalle riconosceva un prevalere di inaccettabili (e inefficaci) posizioni idealistiche, sebbene esistesse “nel nostro paese una diversa organizzazione dei modelli storiografici, una narrazione storica che esce dall’ambito del realismo e della sua cultura di marca marxista che vede alcuni protagonisti ben presenti sul versante del dibattito e con attenzioni storiche a volte precise, altre più marginali ma comunque sempre miranti a ricostruire un’altra storia da quella ufficiale ed élitaria di cui si è parlato.” “Serve – proseguiva Quintavalle – che attraverso la formulazione di un preciso progetto per la storia della fotografia, attraverso un preciso progetto di organizzazione e integrazione della cultura, si giunga ad una formazione di quadri di storici dell’immagine che non separi la fotografia dal contesto ma ritrasformi la funzione dello studioso dell’immagine in storico delle ideologie che stanno a monte delle immagini.” Per questo, analogamente a quanto era consueto per altre discipline, per altre storiografie, ogni lavoro di ricerca sulla fotografia non poteva che “essere fondato su una analisi seria del problema, coordinata da documentazione ineccepibile sul dibattito precedente, la famigerata bibliografia sull’argomento, da una discussione attenta e corretta delle tesi che sono state avanzate da altri sul medesimo problema, e da un materiale di base coordinato con attenzione che possa servire al lettore come strumento per procedere nell’analisi e negli svolgimenti di questa. Senza una operazione di questo tipo, noiosa quanto si vuole ma determinante e necessaria, non avrà certamente senso costruire monografie di alcun genere, opere di insieme o altro. Ma il problema più importante (…) resta quello del tipo, del genere di storia che si vuole e si deve proporre.”
Quale storia allora? E anche, inevitabilmente, come? Una prima indicazione proveniva dalla necessità di superare il lavoro condotto dal singolo studioso, di allargare e aggiornare culturalmente la sua formazione ponendo il problema della crescita della ricerca “in maniera corretta, cioè in stretto legame, in stretto rapporto con l’organizzazione della conservazione dei materiali, che pure dovrebbe essere il compito precipuo, primario, di ogni operazione”, ciò che implicava più o meno implicitamente il problema dei modelli. E allora il rifiuto, certo, dell’ideologia “post-crociana dei capolavori” per delineare un’altra modalità (ancora senza precisa identità epistemologica sebbene più oltre parlasse di “metodo sociologico”) in grado di organizzare “un discorso più articolato”; ciò che implicava di necessità, tra le altre cose, l’analisi e lo studio delle modalità operative dei fotografi, abbandonando la logica celebrativa della singola immagine per dedicarsi piuttosto a considerare le serie, di cui riconosceva la valenza linguistica e discorsiva con una posizione analoga a quella manifestata da Ian Jeffrey[533]. Stabiliti i limiti dell’approccio idealistico Quintavalle si provava a definire il nodo centrale “della metodologia da impiegare, cioè il problema dell’analisi delle icone secondo metodi che non chiudano (…) le possibilità di ulteriore sviluppo ma che svolgano, semmai, una funzione diretta e contrapposta. Ma per andare oltre su questa strada dobbiamo chiarire che gli assi della lettura delle immagini sono quelli diacronico e sincronico, storico e contemporaneo, della linguistica post-saussuriana; senza questa premessa generale si rischia infatti di non comprendere il peso e il senso reale delle problematiche, non si dice della sola fotografia ma di qualsiasi testo. L’analisi storica delle immagini costringe a una considerazione dell’icona come parte di un sistema, anzi, di una tradizione storica entro la quale l’immagine stessa determina delle fratture, opera delle varianti in genere cariche di senso; l’analisi sincronica delle immagini fissa le varianti di senso entro un contesto contemporaneo e quindi organizza un discorso propriamente strutturale. Bene, le due linee, quella storica e quella sincronica, devono necessariamente e sempre essere collegate se non si vuole correre il rischio di non comprendere il senso di quello che veniamo analizzando. (…) Dunque l’impatto delle due metodologie, delle due linee, è necessario e l’integrazione del doppio metodo determinante per la comprensione del ‘documento’ fotografico’ [534], [infatti] nella storia delle immagini che si cerca di restituire non può esistere una linea cronologica unitaria perché regolarmente le tradizioni dell’icona portano indietro o spostano avanti il nodo dei riferimenti.”[535]
Prime riflessioni sulla fotografia come fonte per la storia
Quel riferimento al ‘documento fotografico’ rimandava di necessità alla questione complessa del ricorso alla fotografia quale fonte per la storia, al dibattito che in quel periodo sottoponeva a verifica la sua stessa legittimità e che qui proveremo a delineare in estrema sintesi. Una importante occasione di confronto si era data nel 1979 a partire dalle sollecitazioni contenute nel testo di Giulio Bollati per gli “Annali” einaudiani, presentati come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia” e ancor più dalle diverse recensioni a quell’opera, che di volta in volta avevano considerato la fotografia quale “fonte significativa”[536] ovvero “come documento, se vogliamo come fonte storica” [537], sino a ritenere che il ricorso alle fotografie poteva appagare al più “talune superficiali curiosità” ed era perciò destinato “a restare al margine dei veri problemi della ricerca”[538]. Più pertinenti, anche se culturalmente meno influenti, erano le riflessioni che provenivano dalla ricerca etnoantropologica, nel cui ambito un fotografo come Lello Mazzacane (1975) aveva richiamato i problemi ideologici sottesi al rapporto fra fotografia e storia e individuato alcune questioni metodologiche centrali, quali il riconoscimento della fotografia “come documento storico” e i problemi posti dalla “interpretazione del ‘documento fotografico’. ” In particolare per quanto riguarda il primo aspetto aveva chiarito che “ovemai non lo fosse [un documento storico] si dovrebbe chiarire cosa si intenda per documento e non cosa è una fotografia”, avanzando riflessioni che sarebbero state riprese e sviluppate solo dal dibattito storiografico più recente.
A fronte di questo variegato panorama c’era invece chi – come Michele Giordano[539] – riteneva che “ormai nessuno storico, nemmeno il più fedele custode della tradizione politico-diplomatica, sarà disposto a negare alla fotografia un posto, magari in piedi, al raduno delle fonti storiche”, ma suggerendo curiosamente l’opportunità di accostarsi a questa problematica fonte dimenticando “provvisoriamente gli aspetti peculiari della fotografia”, cioè disconoscendo proprio le cruciali questioni interpretative poste da Mazzacane, vale a dire la necessità di riconoscere e comprendere le connotazioni storico culturali delle fonti fotografiche. Forse per questo Giordano riteneva che non si trattasse “più di chiederle che ci procuri delle conoscenze sul passato – una domanda che onestamente non possiamo rivolgerle – ma si tratta di illuminare l’azione ideologica che essa esercitava sugli uomini del suo tempo”; azione che pure – si direbbe – doveva appartenere al novero delle “conoscenze sul passato”. I gravi limiti teorici e metodologici di quel “famigerato”[540] testo, ben presto segnalati da altri studiosi, non possono però farci dimenticare che esso costituì a tutti gli effetti il primo contributo specifico sul tema da parte degli “storici professionali” (la definizione è di Tomassini), in anni in cui la discussione risultava ben più serrata e coinvolgente in ambito etnografico. Nel 1983 la rivista “Campo” aveva dedicato un numero monografico al tema, aperto da un intervento di Rino Mele che misurandosi con l’ultimo Roland Barthes de La camera chiara, ma anche con una qualche eco di Jacques Lacan, affermava che “la fotografia ci documenta non ciò che è stato ma la disposizione degli oggetti, il come è stato. Dovremmo allora dire che essa ha la funzione di registrare e non quella di documentare (…) a meno che non limitiamo l’uso della fotografia documentaria a ciò che già si dispone come documento, a ciò che è già immobile in una sua inamovibile messa in posa.”[541] Anche qui si esprimeva una sorta di diffidenza nei confronti dell’immagine fotografica, di questo “testo-traccia” che “registra soltanto in un momento delimitato la sezione del tempo (…) il micro set della fotografia è una trappola del tempo (…) non documenta che l’uccisione del tempo registrando i limiti spaziali su cui il taglio è avvenuto”, tanto che “il processo fotografico nel tagliare il tempo taglia il rapporto significante-significato”. Conclusione forse curiosa, debitrice di una concezione piuttosto riduttiva sul doppio fronte delle teorie del segno e del concetto storiografico di “documento”, ma certo esito di una meditazione disciplinare complessa a cui contribuì anche Clara Gallini riflettendo su di una nota serie di fotografie spiritiche per giungere alla conclusione – certo più convincente – espressa in chiusura del suo breve saggio: “Non chiediamoci dunque se la nostra fantasma dal volto di biscuit sia ‘vera’ o ‘falsa’: essa [cioè la sua immagine fotografica] è comunque reale, di una realtà che è anzitutto storica e culturale.”[542] Meno consapevole e accorto appariva ancora in quegli anni il livello di elaborazione in ambito storico, come suggeriva questa tautologica definizione di Luigi Goglia[543], per il quale la fotografia era “tutto ciò che esce impressionato da una camera fotografica e successivamente sviluppato e stampato da un laboratorio”; pertanto se essa “vuole essere considerata dagli studiosi e avere il suo posto sul tavolo degli storici, non va semplicemente guardata (…) essa va letta (…). E la lettura di una fotografia richiede tutta l’attenzione e la serietà con la quale si legge un altro qualsiasi documento, le conoscenze specifiche di questo tipo di documento e un altro elemento ancora terribilmente soggettivo: la sensibilità di recepire dall’immagine quanto più essa può offrire”[544]. Era difficile dissentire, forse, da queste considerazioni al limite dell’ovvio, così come risultava impossibile concordare con l’opinione ‘radicale’ (e un poco sorprendente) di Giuseppe Papagno, che liberava il discorso da ogni aspetto problematico asserendo che “le fotografie attestano la veridicità delle parole; esse sono una ‘evidente’ base ‘documentaria’ del fenomeno oggetto del discorso. (…) Lo strumento e il suo prodotto (…) stabiliscono per la prima volta un collegamento ‘diretto’ tra fatto fissato in immagine e tutti i non-testimoni, fondandolo però non sulla ‘fiducia’ verso l’autore ma invece su un sistema di ‘validità’ meccanico.” [545] Una concezione viziata di positivismo verrebbe da dire; qui solo lievemente arricchita da una serie di cautele metodologiche quali il riconoscimento dei codici culturali di rappresentazione e l’analisi delle forme materiali e narrative con cui sono organizzate le immagini, ciò che portava lo storico a ritenere che “ciò che si presenta a un primo approccio come fonte è già un prodotto ampiamente elaborato”, cioè, diremmo, un documento, sebbene lo studioso non si spingesse a tanto. A fronte della ribadita necessità di comprendere i processi di elaborazione e codificazione delle fotografie Papagno riconosceva sconsolato che le difficoltà potevano essere superate solo “se si disponesse di un metodo appropriato per la valutazione di tali fonti in tutta l’ampia gamma di interrogativi che esse pongono. Ma che esso esista e sia di facile accesso è ancor oggi da escludere in buona misura. Quindi gli oggetti fotografici (come insiemi) hanno, come fonte, una validità assai precaria e instabile”, attribuendo loro un limite che era invece intrinseco allo sguardo “terribilmente soggettivo” dello storico. Una resa incondizionata insomma e una buona testimonianza di quelle che Luigi Tomassini ha affettuosamente definito “la cautela e la diffidenza degli storici verso il documento fotografico”; elementi che – forse – potevano aver costituito “un contributo importante, un filtro del tutto necessario sul piano scientifico, rispetto all’ingenuo entusiasmo”[546], ma che risultavano certo sconfortanti nella loro genericità e nell’assenza di ogni richiamo o rimando ad altri ambiti di studio e di riflessione epistemologica -dall’antropologia alla semiologia – impegnati in confronti di ben altro livello.
A quelli guardava invece uno storico dei media come Peppino Ortoleva[547] in un saggio compreso in un lavoro a più mani esplicitamente dedicato alle questioni di metodo della ricerca storica contemporaneista. Dopo aver ribadito che “la fotografia è pressoché inutilizzata, nei fatti se non in teoria, come documento, come fonte storica autonoma”, lo studioso individuava tra le principali cause di quella diffidenza “il problema della durata”, di quella “atemporalità” che avrebbe messo in discussione “la stessa compatibilità tra la fotografia ed una visione storica del mondo”, ma anche un più radicale “problema di linguaggio”, di difficoltà di “verbalizzazione del ‘messaggio’ fotografico” e infine l’incapacità di distinguere tra “apparenza e realtà” che nasceva proprio dalla fatica necessaria per superare criticamente l’immediato fascino referenziale dell’immagine fotografica. Lo storico riconosceva insomma gli impedimenti disciplinari nel fare i conti con le feconde ambiguità della fotografia; non ultima “la presenza, di un elemento di scelta”, fortemente condizionato dal contesto e più in particolare da quell’insieme di regole che Ortoleva racchiudeva nel più ampio concetto di “cultura fotografica”, ripreso da Max Kozloff[548], il cui studio avrebbe dovuto “servire ad integrare tra loro questi diversi aspetti e a fare della fotografia una fonte e insieme un aspetto di una più generale storia della società.”[549] Quel “breve ma importante saggio di carattere metodologico”[550] ebbe una vasta eco nelle riflessioni dei contemporaneisti e in particolare tra gli studiosi vicini alla rete degli istituti per la storia della Resistenza, che in quegli anni fu tra le sedi privilegiate del dibattito sulle nuove fonti; tema affrontato in vari convegni e sulle pagine di “Italia contemporanea”, “Movimento operaio e socialista” (dal 1991 “Ventesimo secolo”) ma anche di “AFT”, che nel 1986 aveva ospitato l’intervento di uno storico dei secoli “senza fotografia” come Franco Cardini, il quale ribadiva come “sul campo della riflessione propriamente metodologica relativa all’utilizzazione della fotografia nella loro disciplina, gli storici sono tuttora a un livello appena elementare.”[551]
Eppure già Marc Bloch nella sua Apologia della storia (1949) si era chiesto “se per essere storica sia sufficiente che una foto rappresenti un soggetto del passato o sia stata eseguita nel passato”[552], dando per scontata la sua legittimità di fonte. A quel magistero si era riferito uno studioso e fotografo come Corrado Fanti sulle pagine di “Fotologia”, facendo propria la lezione delle “Annales” per dire che “è storica ogni fotografia che risponde a un problema storico”[553], procedendo quindi a individuarne elementi, condizioni e criteri di trattamento critico per richiamare infine la necessità di “considerarla soprattutto come fonte della concettualità che ne ha guidata la redazione in una certa maniera (…) Sono le motivazioni che hanno commissionato e guidato la rappresentazione del reale (…) ed il fatto che a quella immagine sia stata giustapposta una didascalia e sia stata impaginata ed utilizzata in un certo modo che, nel quadro culturale dell’evento registrato, offrono spunti per ipotesi di lavoro utili allo storico.”[554] Anche Maria Teresa Sega[555] aveva ribadito “il disinteresse o la diffidenza degli storici nei confronti della fotografia come documento” ma individuandone le ragioni nei “problemi insiti in una storia della fotografia ancora recente [e connotata come ‘artistica’] e dall’impossibilità di trasferire ad essa categorie interpretative utilizzate per altre fonti (…) (autenticità, veridicità, esattezza)”. Anche per questa studiosa l’immagine fotografica doveva essere considerata essenzialmente come un documento relativo “alla società che la produce e consuma secondo determinati bisogni”, ragione per cui “per lo storico tutte le fotografie sono ‘vere’ e ‘false’ nello stesso tempo. (…) A differenza che per l’attualità, dove può essere fonte di grossi e dolorosi equivoci, un falso fotografico diventa documento per lo storico (…) poiché permette di documentare proprio le assenze, i silenzi, le distorsioni.”[556] Per quanto riguardava infine la questione fondamentale del “valore epistemologico” dell’istante “rispetto alla complessità del reale”, l’autrice ribadiva che “come per le altre fonti non la singola immagine, ma un insieme di immagini fotografiche è documento per lo storico”, confermando così una precedente notazione di Fanti per il quale appariva “chiaro come l’operazione filologica capace di far luce nel rapporto fra la realtà e il fotografo, fra il fotografo e la cultura in cui è inserito (…) non possa quasi mai (tranne rare occasioni) applicarsi ad una singola immagine che viene così ad apparire come una frase o brano, pur di senso compiuto, di un più ampio testo costituito dall’intera sequenza, dalla campagna fotografica all’interno della quale si inserisce quella sequenza, e dall’intero archivio di immagini prodotte da quel fotografo.”[557] Da quella serie di interventi emergevano due distinti ordini di problemi e questioni: quella più generale che riguardava le ragioni della diffidenza degli storici nei confronti della fotografia e quella più specifica, di ordine metodologico, relativa alla appropriata critica di queste fonti e alla loro corretta edizione. A quelle date, ed era uno studioso qualificato come Adolfo Mignemi a riconoscerlo, “la riflessione sulla fotografia come fonte storica è e rimane patrimonio degli storici della fotografia”[558], sebbene anche e specialmente per suo merito il tema stesse ormai entrando a far parte degli argomenti affrontati dai contemporaneisti che riconoscevano la necessità di confrontarsi con le nuove fonti e i nuovi strumenti di indagine offerti dall’informatica. In occasione di una serie di seminari svoltasi a Rimini e Torino nel 1988-1989 dedicati a Gli archivi e la memoria del presente, Mignemi aveva delineato l’orizzonte culturale nel quale si era formata l’idea stessa di fotografia, cogliendone i legami con la figurazione prospettica occidentale, qui intesa come “forma simbolica” secondo la lezione di Erwin Panofsky, e aveva individuato nella “progressiva spettacolarizzazione della politica manifestatasi nella società contemporanea soprattutto dopo il primo conflitto mondiale”[559] una delle ragioni determinanti per le quali gli storici avrebbero dovuto occuparsi di fotografia. Oltre a queste considerazioni, certo interessanti ma non inedite, il suo contributo si qualificava per un primo tentativo, poi da lui stesso successivamente sviluppato, di ricavare dalla diplomatica strumenti di analisi applicabili al documento fotografico, contribuendo così alla riflessione intorno a uno dei nodi problematici posti dalla critica delle fonti, quello dell’autorialità, legato ai modi caratteristici della produzione di questa tipologia di documenti e che implicavano una precisa conoscenza e considerazione di quei processi; quella stessa che gli consentiva di indicare un’altra “questione metodologica di rilevanza fondamentale: il materiale negativo e quello positivo costituiscono elementi documentali con una propria autonomia. Così come (…) autonomia propria ha la fotografia e la sua riproduzione con procedimento poligrafico.” Forse oggi quel concetto di autonomia necessiterebbe di una migliore definizione critica, così come la questione dell’autorialità, ma certo erano quelle le basi su cui si sarebbe poi costruita la più appropriata strumentazione metodologica dei contemporaneisti e non solo.
Storie italiane
La storiografia dedicata alle vicende italiane ebbe in quel periodo esiti di grande rilevanza; primo risultato maturo delle ricerche e delle iniziative che avevano segnato gli anni appena trascorsi. Sebbene fosse stato pubblicato nel 1981 per ragioni editoriali, deve essere storicamente collocato e criticamente compreso nella temperie di studi e iniziative della fine del decennio precedente il fondamentale saggio di Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), compreso nella “Storia dell’arte italiana” di Einaudi[560]. Accanto alla rilevanza dell’opera risultava particolarmente significativa la stessa sede di pubblicazione, che costituiva di fatto, per il contesto italiano, una ulteriore legittimazione degli studi fotografici ponendoli accanto a quelli – di tradizione indiscussa – della storiografia artistica.[561]
Il titolo, molto tecnico e quasi impersonale avendo espunto la significativa qualificazione ancora presente nella prima stesura (“Note critiche per una storia…”)[562], introduceva una interessante serie di variazioni rispetto a quello adottato da Bertelli per il proprio saggio negli “Annali”, che ne costituiva il termine di confronto più immediato e autorevole, indicando con questo anche i differenti scopi e presupposti metodologici: non più “la fotografia nella storia” ma “storia della fotografia”, come ben spiegava la stessa studiosa in una lettera a Paolo Fossati: “una storia della fotografia per tecniche, specificandone di volta in volta le caratteristiche e i particolari effetti al fine di giustificare le scelte dei vari fotografi anche dal punto di vista estetico. Farei emergere il contributo dei maggiori al divenire della fotografia come espressione, specificandone le origini regionali e facendo seguire, in appendice, un elenco dei fotografi minori che hanno lavorato in questa o quell’altra città.” [563] Si trattava di accogliere e sviluppare le suggestioni del coordinatore editoriale dell’intero progetto[564], con Giulio Bollati, che sulla scia del successo del volume dedicato a Michetti fotografo aveva proposto alla studiosa di “tracciare delle indicazioni di studio e di ricerca dagli inizi della fotografia in Italia ai primi del ‘900 [affrontando] i problemi di riproduzione in concorrenza con l’incisione, di documentazione, la fotografia come forma autonoma, via via fino a quei problemi di mercato, diffusione ecc. (…). Si tratta di dare nel contesto di un’opera prevalentemente sulla pittura e scultura i problemi critici che la foto solleva.”[565] Programma più definito di quanto potesse apparire da queste parole ricordando che il tema critico della documentazione, anche fotografica, dell’opera d’arte era già stato affrontato da Ettore Spalletti[566] nel secondo volume della stessa grande opera; mentre all’illustrazione romantica era dedicato il saggio di Ferdinando Mazzocca[567] che insieme quelli di Miraglia e Gilardi di cui si dirà formava il secondo tomo di Grafica e immagine.
Spalletti, già autore di uno dei testi in catalogo della mostra Alinari del 1977[568], aveva considerato criticamente il ricorso all’immagine ottico meccanica ponendolo in relazione con la tradizione calcografica, sottoponendo di volta in volta a verifica le competenze culturali e tecnologiche che avevano consentito di interpretare l’opera attraverso la traduzione operata dall’incisore da parte di quella “aristocrazia intellettuale (…) ritenuta perfettamente in grado di ricostruire la realtà complessa dell’opera presa a modello attraverso una avvertita lettura del linguaggio analogico proprio dell’incisione.” Il passaggio dal concetto di traduzione, proprio delle immagini manuali, a quello di riproduzione, fondato sul preconcetto tipicamente positivistico dell’oggettività dell’immagine fotografica, cioè su di una insufficiente comprensione critica delle implicazioni tecnologiche e culturali proprie del nuovo mezzo, “portò scarsissimi vantaggi metodologici e anzi ritardò fin quasi ai nostri giorni una seria riflessione sul ruolo svolto dall’operatore fotografico, che non sarà mai considerato un traduttore – come invece era avvenuto per l’incisore – ma soltanto un assistente neutrale di un processo chimico e meccanico di cui egli doveva semplicemente controllare la precisione e l’efficienza.”[569] Di più: “nonostante i suoi limiti e le sue imperfezioni il nuovo mezzo di produzione delle immagini fu capace di alterare irrimediabilmente e in breve tempo quella ‘taratura’ sulla rigorosa sintassi interpretativa della traduzione a stampa che aveva consentito in passato un armonico e mirabile equilibrio fra documentazione figurativa e intelligenza critica. (…) La querelle fra l’infedele interpretazione a stampa e la meccanica fedeltà all’originale della fotografia (…) ebbe dunque come risultato l’alterazione profonda del sistema tradizionale di documentazione figurativa, non sostituito per il momento da altre soluzioni ugualmente valide.” Solo i miglioramenti tecnologici e produttivi dell’ultimo decennio dell’Ottocento consentirono una maggiore diffusione della documentazione fotografica e un suo utilizzo più sistematico e metodologicamente avvertito da parte degli studiosi, sino al superamento di schemi visivi obsoleti determinato “dal grande rinnovamento dei modi di vedere il fenomeno artistico che fu provocato dal formalismo della critica purovisibilistica e dalla spregiudicatezza intellettuale delle avanguardie storiche. Soltanto in connessione con quegli eventi – proseguiva Spalletti – la fotografia si dimostrerà capace di portare un contributo determinante all’elaborazione di nuovi schemi visivi e intellettuali di percezione dell’opera d’arte e, più in generale, della realtà.”
Potendo per la prima volta estendere lo sguardo all’intero contesto nazionale lungo un arco cronologico esteso dalle origini sino al primo anteguerra, la trattazione adottata da Miraglia si sviluppava per grandi aree tematiche, ciascuna svolta alternando considerazioni di ordine generale (storico, iconografico, tecnico) ad approfondimenti, anche esemplificativi, relativi a singoli autori ed opere. Nel ricco apparato di riproduzioni fuori testo, con andamento parallelo al saggio, ciascuna immagine era finalmente corredata di opportuna didascalia con indicazioni relative ad autore, titolo, data, collezione di provenienza e naturalmente tecnica, anche se proprio su questo aspetto – certo all’epoca fortemente condizionato dalla scarsa disponibilità di studi e modelli autorevoli – oggi possono essere avanzate non poche riserve[570]. Il lungo saggio, che certo avrebbe meritato anche un’edizione autonoma, prendeva avvio col capitolo dedicato a Fotografia e società nell’Italia preunitaria, aperto dalla considerazione, anche programmatica, che “non sono molti anni che in Italia si è definito un preciso interesse nei confronti della fotografia e che si indaga sul peso che essa ha esercitato, o ha potuto esercitare, come veicolo di comunicazione e come espressione nel campo della cultura e dell’arte, nel tentativo di ricostruire una fisionomia storica in chiave critica.” Primo esito di quella attenzione nuova era stato il riconoscimento di “personalità di notevole spicco (…) e tali da poter spesso ambire a posizioni di tutto rispetto nei confronti di quei fotografi, di nazionalità varia, che le storie della fotografia indicano come i protagonisti della vicenda ottocentesca”. Dichiarazione che non solo costituiva una chiara sottolineatura dei limiti della storiografia internazionale, ma che rappresentava anche, e forse soprattutto, una sostanziale revisione critica delle posizioni espresse a suo tempo da Vitali, dal quale Miraglia prendeva le distanze anche in virtù del fatto che questi sembrava “non attribuire un eccessivo rilievo culturale ed espressivo a nessuno dei professionisti italiani dell’Ottocento”. La disamina procedeva quindi per raffronti storici con quanto era accaduto nelle altre nazioni in termini di ricezione della novità tecnologica e culturale dell’invenzione della fotografia, condotta in particolare attraverso l’analisi critica della stampa periodica specializzata. In Italia questa risultava caratterizzata da un sostanziale tecnicismo, essendo “molto rari gli articoli cosiddetti di estetica fotografica o riguardanti l’uso sociale”; ragione per cui “nei primi anni della storia della fotografia è difficile ricostruire il volto della fotografia italiana e dei suoi protagonisti o risalire al giudizio coevo sulla fotografia stessa”. Un problema storiografico fortemente condizionato dalla disponibilità delle fonti, specialmente in conseguenza del “mancato intervento statale alla formazione di raccolte pubbliche. (…) Chi studia le origini della fotografia italiana deve rintracciarne gli elementi sparsi un po’ dovunque (…) spesso facendo leva su rapporti personali di amicizia e senza nessuna certezza circa l’esito delle proprie ricerche. Anche in base alla scarsa quantità di documentazione che le collezioni pubbliche del passato (…) hanno inteso raccogliere e tramandarci, possiamo valutare a pieno il significato storico della tardiva consapevolezza culturale nei confronti della fotografia e della problematica che essa comporta come comunicazione e come espressione.” Una fondamentale riflessione metodologica e storiografica troppo spesso passata sotto silenzio, a cui sarebbe stato necessario aggiungere, quale conseguenza ed esito di quelle stesse dinamiche storiche, una riflessione in merito alla figura e alla dotazione culturale di quegli stessi che in Italia si erano dedicati a compilare ‘storie’ della fotografia; privi di una formazione specifica, non dico disciplinare ma almeno storica in senso proprio, surrogata nei migliori dei casi da una grande passione e dalla consapevolezza della ineluttabilità del compito.
Miraglia interpretava le vicende fotografiche italiane in riferimento all’ascesa della borghesia, ciò che rendeva ragione non solo delle precoci affermazioni della fotografia nelle aree più industrializzate del paese già in epoca preunitaria, ma anche della particolarità della produzione professionale italiana nell’ambito “del vedutismo e della riproduzione dell’opera d’arte”, di cui la studiosa chiariva sia le relazioni con la tradizione iconografica sia le problematiche specifiche poste da quell’uso documentario. Addentrandosi nello specifico espressivo di questo genere fotografico ricordava opportunamente che “un problema molto importante (…) è quello connesso al punto di vista della ripresa”, poiché per soddisfare le esigenze del committente o del possibile acquirente “la fotografia deve presentarsi il più possibile fedele all’originale e rispecchiarne insieme lo spirito.” Questioni che interrogavano le capacità tecniche e culturali del fotografo, che trovava nella sempre più vasta manualistica risposte canoniche alle questioni tecniche, mentre apparteneva alla cultura del singolo l’eventuale “capacità critica di lettura nei confronti delle singole personalità dell’arte e dei diversi periodi della sua storia”. Da verificarsi caso per caso quindi, come hanno ormai dimostrato molti studi dei decenni successivi, considerando adesioni e scarti dalla tradizione iconografica e interrogandosi sugli eventuali, possibili rapporti con studiosi di diversa formazione (da Crescentino Caselli a Corrado Ricci, da Pietro Toesca a Roberto Longhi), ma – credo – senza poter confondere i ruoli. Si sarebbe potuto aprire qui uno spazio per accennare almeno al tema rilevantissimo del contributo epistemologico e metodologico della fotografia alla stessa definizione in senso moderno delle discipline storico artistiche, ma la questione venne completamente elusa, come già nel saggio di Bertelli per gli “Annali”. Dopo il contributo di Massimo Ferretti al catalogo Alinari il tema era stato ripreso da Spalletti nel saggio sopra citato, ricco di suggestioni e di dati ma poco interessato a verificare sistematicamente l’influenza della fotografia sulla stessa definizione disciplinare della storia dell’arte, forse anzi introducendo una sottile distinzione nel momento in cui ribadiva l’influenza della fotografia “sulla scienza dell’attribuzione e sulla cultura dei conoscitori.”
Nella seconda parte della trattazione Miraglia spostava il proprio sguardo dall’ambito documentario a quello estetico indagando i rapporti tra Pittura e fotografia. Punto di partenza era la questione, ancora centrale per la cultura del XIX secolo, della mimesis, dove il ‘vero naturale’ coincideva ancora “con il vero della prospettiva lineare concepita più che come una rappresentazione simbolica (…) come forma oggettiva e indipendente dello spazio”. Da lì “la rivalità subito accesa tra pittura e fotografia”, letta criticamente adottando l’ipotesi della “messa in questione dell’iconismo” elaborata da Filiberto Menna nel 1975[571], accostata alle altre “tendenze della critica d’arte ad applicare, all’indagine estetica, l’approccio strutturalistico e ad adottare nuovi criteri di lettura e di giudizio che istituiscono legami sempre più stretti fra arte e percezione, fra arte e psicologia.” Adesione importante non solo in sé ma quale segno preciso di un modo e di un metodo che riconosceva la costruzione storiografica come necessario processo critico e non come presunta e illusoria, ordinata ricostruzione cronologica di fatti, com’era stato costume non solo nella produzione italiana sino ad allora. Ne risultava un tracciato ricco di suggestioni e di spunti, come la segnalazione della lampante coincidenza tra le opinioni espresse a poco meno di un secolo di distanza da Francesco Algarotti (1763) e da Eugène Delacroix (1854) a proposito del fascino (sognato o realizzato) esercitato da “un quadro fatto di mano della Natura medesima”[572] o la sottile ma fondamentale distinzione tra le diverse modalità di ricezione della fotografia da parte dei pittori accademici, “attratti dall’apparente oggettività del modello fotografico” e per contro degli impressionisti, “tesa a captare le suggestioni di alcuni specifici della fotografia”, come avevano del resto ben documentato mostre e pubblicazioni sul tema edite nel decennio precedente. In quella ricostruzione risultava centrale il consapevole processo di ‘liberazione’ dagli schemi prospettici operato dalla pittura che la studiosa estendeva però – con una certa forzatura – anche alla fotografia che “già nel corso dell’Ottocento tende a definirsi come visione alternativa del mondo fenomenico e quindi come espressione”, ponendo in essere un corto circuito critico difficilmente condivisibile se espresso in forma così apodittica[573]. Nel considerare successivamente modalità e tipologie di rapporti che i pittori italiani ebbero con la fotografia si perdevano però le tracce di quelle riflessioni teoriche e l’attenzione spaziava da Faruffini a Signorini seguendo le tracce dei primi studi di Lamberto Vitali, ma senza dimenticare altri artisti che ricorsero alla fotografia per le sue capacità mimetiche senza ancora riflettere sulle sue specificità linguistiche. Nella maggior parte dei casi considerati da Miraglia infatti i pittori avevano guardato “alla fotografia come a un appunto per la memoria (…) una composizione particolare che il pittore interpreta poi in assoluta libertà creativa di linguaggio (…) lontano dai valori fortemente chiaroscurali del suo modello fotografico.” Analisi in buona parte condivisibile e sostanzialmente confermata dai numerosissimi studi dedicati a questi temi che sono stati pubblicati nei decenni successivi[574], ma che pareva in netta contraddizione con gli assunti prima dichiarati. Più interessante e feconda la ricostruzione di un percorso e la formulazione, quasi in filigrana però, dell’ipotesi che considerava l’influenza della messa in scena (da Faruffini a Bernando Celentano, Cabianca, Giulio Aristide Sartorio) nel percorso che avrebbe portato ai tableau vivant di Giuseppe Primoli e, aggiungiamo noi, di Guido Rey, cioè a una delle espressioni più colte della nascente fotografia artistica, sebbene non si potesse concordare con la periodizzazione storica proposta dalla studiosa quando affermava che fu attraverso “il simbolismo e il movimento preraffaellita (…) in questo momento di trapasso e di crisi (…) [che] fotografia e arte (…) appaiono strettamente vincolate da una medesima problematica espressiva (…) prima di separarsi definitivamente per seguire strade affatto divergenti.” Se abbiamo ben compreso ci pare anzi l’opposto: in quegli anni a cavallo tra XIX e XX secolo era la fotografia che sentiva ancora, e per l’ultima volta in modo così drammatico, la necessità di guardare alla pittura, nelle sue espressioni più desuete, prima di conquistare quell’autonomia linguistica ed espressiva che l’avrebbe fatta partecipe dei turbolenti destini delle avanguardie storiche. Erano questi i temi del capitolo dedicato a Pittoricismo e fotografia pittorica (1857-1911), vale a dire alla ricostruzione del dibattito e all’analisi di quegli autori e di quelle opere che hanno segnato la riflessione intorno alle “possibilità estetiche della fotografia”, con una definizione dell’arco cronologico che ne individuava l’inizio in quel 1857 in cui Rejlander espose a Manchester The Two Ways of Life, sebbene poco prima nel testo fosse citata la serie di dagherrotipi di John J.E. Mayall The Lord’s Prayer (1845) e altre sue analoghe immagini presentate all’esposizione di Londra del 1851 e segnalate a suo tempo da Gernsheim. Opere che per questo avrebbero dovuto costituire il termine a quo per la nascita di quel fenomeno che lo studioso aveva più opportunamente definito “art photography” e non “pittoricismo”, e sempre che non si volessero considerare in senso ‘artistico’ alcune nature morte di Daguerre del 1837-1839 o gli scorci di giardino di Talbot e Bayard, tutti palesemente realizzati avendo come riferimento la produzione pittorica coeva. Ciò a dire che ci si poteva aspettare, al 1979-1981, una maggiore accuratezza nella definizione dei termini del problema e non l’adozione, forse inconsapevole, proprio del modello interpretativo pittorialista; quello che aveva riunito in una sola linea genealogica nobilitante la catena di autori che muovendo da Hill e dalla Cameron giungeva sino alla contemporaneità di Alvin Langdon Coburn o di George Seeley passando per “Camera Work”. La difficoltà di tenere insieme fenomeni e autori tanto cronologicamente e culturalmente lontani, si accompagnava a giudizi ancora fortemente critici, imputando a questa “vera e propria malattia infettiva (…) il contagio”[575] della presunta purezza di quei primi, mitici autori, ma senza poi descrivere i modi e le ragioni di questo “lungo periodo di oscurantismo che la fotografia europea visse dagli anni ’50 agli anni ’80-90” (ma ben oltre per la scena italiana), né tantomeno motivando sufficientemente le opinioni espresse. Un’incertezza che attraversava tutto il capitolo sino ai suoi esiti finali, quando alla riconosciuta necessità di una revisione almeno parziale “di questo particolare momento della cultura fotografica” faceva da immediato riscontro la ripresa dei concetti già espressi da Lamberto Vitali a proposito di un allontanamento “dalla purezza delle origini (…) attraverso una via chiaramente viziata nei suoi presupposti, cioè mimando la pittura, [ma] è anche vero che essa fornì la prima occasione per una riflessione più partecipe e attiva sui processi fotografici, sui segni che li caratterizzano e sul loro porsi come altro rispetto al reale.”
Più convincente risultava l’interpretazione della mancata ricezione e adesione della cultura fotografica italiana a quella tendenza, le cui cause Miraglia individuava nei problemi politici che portarono alla nascita dello stato italiano e soprattutto nella “tardiva affermazione della borghesia come classe politica al potere”, che nello specifico prese forma nelle nascenti Società fotografiche, nelle Esposizioni nazionali e nei primi Congressi. Furono quelli i luoghi e le occasioni di confronto e di dibattito che culminarono nella grande mostra torinese del 1902 e nella conseguente nascita de “La Fotografia Artistica”[576]; una stagione di cui la studiosa segnalava alcuni autori considerati espressione di differenti modalità di adesione agli stilemi della ‘fotografia pittorica’, come Nunes Vais, Von Gloeden e Filippo Rocci, a cui qualche anno dopo avrebbe dedicato uno studio monografico[577]. Da questa articolata esposizione derivavano le considerazioni critiche poste in chiusura, che identificavano quella che era ancora definita “crisi espressiva del medium fotografico”, intesa quale “riflesso di una crisi ben più profonda di tutte le espressioni figurative, che (…) si muovono nell’ambito di una sperimentazione espressiva che allontanandosi dal verismo ottocentesco, prepara l’arte moderna. In questo momento (…) che vede sgretolarsi il mito ottocentesco della fedeltà al dato naturalistico, si verifica, fra pittura e fotografia, uno straordinario avvicinamento, mai verificatosi in maniera così stringente, se non forse ai nostri giorni, nel lungo percorso dei rapporti arte-fotografia.” Posizione critica ben definita, che le consentiva di delineare un preciso tracciato storiografico segnato da una costante considerazione del mutare dei linguaggi espressivi la cui efficacia, a nostro parere, sarebbe stata accresciuta da una più puntuale periodizzazione e analisi storico critica, tale da distinguere e non congiungere in un lungo ‘momento’ tendenze e poetiche tanto distanti quanto il movimento preraffaellita e il futurismo, che non potevano certo essere accostati solo sulla base della comune presa di distanza dalle diverse forme del ‘verismo’, essendo con tutta evidenza determinante almeno un altro elemento: quello della direzione presa.
La storia della fotografia, ora ne siamo più consapevoli, è però fatta anche di pratiche ordinarie, quotidiane, che Miraglia distingueva e affrontava nel capitolo dedicato al Professionismo, dove prendeva in considerazione in particolare gli ambiti della fotografia di documentazione del patrimonio storico artistico ed architettonico a partire dall’età del collodio, quando l’effettiva riproducibilità per la prima volta impose la fotografia come “medium alternativo nel campo della produzione e riproduzione dell’immagine”, ponendola in forte competizione con la stampa calcografica. La rilevanza del fenomeno, per la cui interpretazione confermava i riferimenti alla Freund e a Bourdieu ma senza dimenticare Spalletti, era individuata nel suo essere “espressione di tutto un sistema di valori e della visione del mondo da parte di un intero gruppo” sociale come nell’incidenza che quell’attività ebbe nella formazione diffusa di un gusto fotografico; poiché “il professionista che fornisce i propri prodotti alla società è egli stesso infatti un membro di quella società, ne interpreta le esigenze e le ideologie dopo averle assorbite, sottolineando implicitamente, con la produzione delle proprie opere, il rapporto di reciproca relazione che lo lega alla società stessa.” Paradigmatica in tal senso, e ampiamente trattata, era la vicenda Alinari, a cui seguivano pagine dedicate ai Brogi e ai principali studi fotografici delle maggiori città italiane: da Roma, dove descriveva il mai sopito conflitto tra Calcografia e GFN, a Venezia, Napoli e Palermo; da Torino alla Milano di Luigi Sacchi e poi di Giuseppe Beltrami, assimilato sbrigativamente al torinese Mario Gabinio, accreditato a sua volta di un “occhio da Atget italiano” per quelle sue “riprese quasi surrealiste di una città in cui l’elemento umano è quasi assente”, condividendo la lettura critica proposta dal suo primo esegeta[578]. La ricostruzione di Miraglia non dimenticava neppure un centro minore ma più che rilevante per la storia italiana come Biella, sede di quella che la studiosa individua come una vera e propria ‘scuola’, formata da quell’insieme di autori legati da strette relazioni parentali, sociali e professionali che da Giuseppe Venanzio Sella procedeva sino al figlio Vittorio, a Vittorio Besso, Guido Rey e al più giovane Emilio Gallo, tutti accomunati da un profondo interesse per la fotografia di montagna. Dato incontrovertibile che oggi non risulta però più sufficiente a definire un gruppo né tantomeno una ‘scuola’, essendo semmai il minimo comun denominatore di gran parte dei fotografi amateur piemontesi ancora ben dentro il primo Novecento; per non dire dell’insopprimibile distinzione di poetica che separava Sella figlio da Rey. Ricca di indicazioni era invece l’analisi della complessa personalità di Giuseppe Venanzio Sella e del ruolo da lui svolto nella formazione di una specifica cultura italiana negli anni intorno all’Unità (le due edizioni del suo Plico del fotografo si collocavano al 1856 e al 1863) ma anche per i primi contatti indiretti con le sperimentazioni di Talbot, di cui possedeva tre esemplari che pure, palesemente, non potevano essere stati “fatti da lui nel 1839” come pretendeva il figlio Vittorio, seguito in questo dalla stessa studiosa, invece incerta sulla corretta indicazione dei corrispondenti e mediatori[579]. Secondo la categorizzazione introdotta a suo tempo da Vitali, e qui esplicitamente richiamata, ai professionisti non potevano che fare da contraltare gli ‘irregolari’, qui intesi come fenomeno proprio dell’industrializzazione fotografica, dei quali Miraglia sottolineava opportunamente la rilevanza del ruolo (per quanto inconsapevole) svolto nella rivoluzione linguistica del mezzo; conseguenza dello sganciamento “dalle esigenze di mercato implicite nella pratica del professionismo” e della comparsa di “modi alternativi, tutti ugualmente validi, perché possibili, di leggere il dato naturale.”[580] Da queste premesse chiarificatrici e ancor valide non vennero però tratte tutte le conseguenze che ci si potevano attendere, poiché se da un lato ribadiva con Benjamin che fu “questo approccio ingenuo e non intenzionale” a sottolineare “in maniera stringente quelli che sono i meccanismi ottici della camera” poi sosteneva che fu solo “il dilettante colto (…) a contribuire al divenire della fotografia (…), che ha impresso un nuovo corso alla storia della stessa.” Furono insomma solo gli “uomini di cultura, legati per consuetudine di amicizia e di comunità d’intenti ai protagonisti della vicenda artistica dell’Ottocento”, considerati addirittura “espressione dell’avanguardia”, a raccogliere e far fruttare quelle suggestioni implicite, accostando tra loro autori tanto dissimili quanto Giuseppe Primoli e Francesco Paolo Michetti ma anche Federico Faruffini, la più improbabile di quelle presenze se non altro per ragioni generazionali, essendo morto nel 1869. Quella contraddizione storiografica pareva potersi risolvere introducendo una ulteriore distinzione: “Nell’ambito ottocentesco della fotografia amatoriale – scriveva Miraglia – i risultati estetici sono piuttosto sporadici. Dovuti più alla felicità del caso che non a una precisa volontà espressiva dell’operatore” poiché “l’ ‘inconscio ottico’, ossia la casualità dei meccanismi fotografici e l’ingenuità nell’uso della camera non sono mai stati mezzi legittimi di creazione.”[581] “Nell’ ‘irregolare’ invece, la coerenza dello stile, la casistica delle immagini esteticamente riuscite e riferibili all’unità di un’ispirazione costante, ci permettono di individuare, insieme a un’innegabile vocazione fotografica, la precisa consapevolezza di una fotografia che andava definendosi come veicolo di una nuova visione del mondo.” Pur posto in questi termini, per altro discutibili, il problema interpretativo restava sostanzialmente irrisolto: non solo perché non si provava neppure a definire o illustrare in termini storico critici quei risultati estetici che avrebbero dovuto servire da parametro di valutazione, ma anche perché, poco oltre, la studiosa esprimeva un punto di vista ben diverso, riconoscendo che “la lastra alla gelatino bromuro d’argento [rappresentò] l’inizio di un’ampia e articolata sperimentazione con la camera da parte di centinaia di migliaia di dilettanti (…) Questi irregolari della fotografia [forse da distinguersi da quelli precedentemente considerati?] che solo molto più tardi vennero riconosciuti come i veri precursori della fotografia moderna.”
Come ha notato ancora recentemente Antonella Russo, quell’importante lavoro di Miraglia “divenne testo di riferimento per la storiografia della fotografia italiana ottocentesca” [582] e ciò specialmente perché si offriva come modello metodologico, mostrando per la prima volta concretamente come dovesse e potesse essere affrontato lo studio della storia della fotografia, superando le precedenti impostazioni aneddotiche o puramente cronologiche per indicare – pur con i limiti che abbiamo indicato, certo meglio riconoscibili a distanza di tempo – quale fosse il livello di complessità posto dalla comprensione delle vicende della fotografia (anche italiana) e quali dovessero essere gli strumenti e le strategie di analisi critica da mettere in atto per affrontarla; quali gli indispensabili problemi e strumenti metodologici da definire e adottare, necessari per costruire un’attrezzata comprensione storico critica, culturale e sociale delle vicende connesse alla produzione, ricezione e uso di questa particolare tipologia di documenti/ monumenti. Ciò che costituiva la vera novità, per il povero e nascente ambito della storiografia fotografica italiana, ciò che poteva essere considerato e magari preso a modello nel testo di Miraglia era soprattutto il metodo, la ricercata sistematicità di molti confronti come il rispetto canonico delle forme (e delle regole) della verificabilità dei dati presentati dalla ricerca storica, attuati mediante i consolidati strumenti delle citazioni, delle note e degli apparati.
Di tutto questo non si trovava quasi traccia nel secondo, ampio saggio dedicato alla fotografia compreso in quello stesso tomo della “Storia dell’Arte”, che l’intelligenza del curatore Federico Zeri aveva affidato a Ando Gilardi, accostando a un compiuto esempio di applicazione del metodo storico un testo virulento e programmaticamente asistematico, grandguignolesco e – per quel contesto, ovvio – quasi sovversivo, seppure einaudianamente più moderato nei toni di quanto l’autore ci avesse abituati dalle pagine di “Photo 13” (1970-1974)[583] e della sua Storia sociale della fotografia (1976). Il suo Creatività e informazione fotografica apriva con considerazioni sullo stato dell’arte non dissimili da quelle espresse da Miraglia, ma spostando l’accento sulle lacune dei processi formativi: “Non si fa torto al lettore supponendo che gli siano sconosciuti alcuni dati fondamentali della storia delle origini della fotografia in generale – scriveva Gilardi – e che sono logicamente indispensabili per una miglior comprensione delle vicende della fotografia italiana. La storia della fotografia, e in particolare quella che riguarda l’evoluzione dei suoi mezzi e procedimenti tecnici, rimane fino a oggi al di fuori della cultura artistica, anche se di buon livello: la maggior parte dei trattati di storia dell’arte non se ne occupano o se lo fanno le assegnano poco spazio e quasi sempre dedicandolo alla citazione di pochi nomi di fotografi famosi. Eppure una conoscenza sia pur minima dei processi fotografici è, a nostro parere, necessaria perché nel fare fotografia, il mezzo ha un’importanza fondamentale non solo in rapporto alle qualità del prodotto, ma altresì agli usi del medesimo, al suo apprezzamento artistico proclamato ed effettivo: due punti di vista, per la fotografia, ben distinti. Questa influenza dei caratteri del mezzo su quelli del prodotto non è strettamente peculiare alla fotografia: avvenne la medesima cosa, sia pure in forma più blanda, con tutti i mezzi impiegati in circa sei secoli per fabbricare immagini in serie, mezzi chiamati genericamente ‘matrici’. La matrice potrebbe essere definita come un’immagine prolifica perché ne genera molte altre, chiamate stampe o copie. In rapporto a un altro tipo d’immagine che per restare in metafora chiameremo sterile, piuttosto di unica (e al suono di questa parola ormai d’istinto pensiamo a un pregio oggettivo), la fertilità della matrice appare e apparve quasi sempre scandalosa alle virtù dell’apprezzamento estetico. E lo scandalo è tanto maggiore quanto più grande la fertilità della matrice: la sua produttività.”[584] Una chiamata in causa che era anche una dichiarazione programmatica, che riprendeva (e non poteva essere altrimenti) l’impostazione teorica della Storia sociale, in cui la fotografia era definita come “l’ultimo procedimento per fare figure”, cioè l’ultima “immagine prolifica” in ordine di tempo, individuando in questa moltiplicabilità (anche) il marchio d’infamia originario del suo riconoscimento artistico così come la ragione del suo trionfo in termini di consumo di massa, e quindi di comunicazione. Erano i due poli identificati dal titolo, che lasciavano intendere una gerarchia di attenzioni richiamata in una delle pagine più esplicite in cui Gilardi scriveva che “il fulmineo diffondersi della fotografia non ha nemmeno lasciato molto tempo agli artisti (…) per meditare e prepararsi a quel radicale rinnovamento dell’arte che si è realizzato nello stesso periodo; e questo potrebbe essere inteso anche in termini di nazionalità. Più chiaramente: la fotografia si diffonde in Italia, sia pure all’interno di quel periodo di cent’anni o poco più, in modi e tempi diversi da quelli, ad esempio, americani. Affermare che l’arte moderna e contemporanea si possa analizzare anche da questo punto di vista può sembrare stravagante, ma forse solo per il momento: l’aggiornamento è solo questione di tempo. Se si ammette l’ipotesi affermata, respingendo l’etichetta di stravaganza; se si supera cioè definitivamente ogni ‘complesso di superiorità’ dell’arte che non ha bisogno di matrici feconde, una ricerca storica sulla fotografia italiana – come di ogni altro paese, ovviamente – assumerebbe un’importanza assai maggiore di quella che normalmente le si concede. In questo saggio tenteremo, nel limite della sua brevità, di arricchire quell’ipotesi. Possibilmente con elementi nuovi e che si trovano a monte di quelli che da qualche tempo vengono presi in esame tutte le volte, ormai numerose, che si affronta la questione dei rapporti fra la fotografia e l’arte in quanto ‘contaminazione’ formale, ovvero sfruttamento dei materiali della prima da parte della seconda. O addirittura in termini di ‘combattimento’ fra le due immagini, intendendolo come gara dimostrativa delle migliori capacità espressive. E questo sarebbe davvero un punto di vista stravagante.”[585]
La chiave interpretativa era individuata nella peculiare “produttività”, intesa in senso industriale, della fotografia, nella convinzione che “la storia delle immagini prolifiche (…) ubbidisce, sotto sotto, più a regole economiche che estetiche, anche se in genere si parla più di meriti artistici che produttivistici del mezzo”; prova ne sia che “è l’antica industria tipografica che impiantando nuovi reparti di fotoincisione ricava i più grandi vantaggi dall’invenzione della fotografia [utilizzando] quella unica copia che da sola è sufficiente per ricavarne l’impronta foto incisa, moltiplicabile praticamente all’infinito (…) per i materiali, gli utensili, i procedimenti con cui si fabbrica, quella fotografica è un’arte industriale per la quale la manualità, come intervento più o meno determinante nella fabbricazione, costituisce una imperfezione del procedimento, non un contributo qualificante.”[586]
La considerazione della fotografia come “arte industriale” in senso proprio comportava per Gilardi, più esplicitamente che in altri, la ridefinizione della sua cultura nel corso del XIX secolo e una stringente considerazione della téchne, non solo perché “le forme e i generi dell’immagine ottica-meccanica dipendono dai meccanismi in modo stretto”, ma anche nella convinzione che “se affermiamo che tra la fotografia italiana e quella di altri paesi vi è la stessa distanza, o se si vuole il medesimo ritardo, che si può verificare fra i rispettivi modi di produzione industriale, o almeno: che può essersi verificato per un certo periodo, non enunciamo affatto un concetto paradossale. Al contrario, riutilizziamo un concetto corrente della cultura fotografica (…) nel periodo che va dall’invenzione di Daguerre, Herschel, Talbot, alla prima guerra mondiale”, essendo che “dell’arte industriale quella fotografica pretende di essere il nocciolo, il simbolo migliore.” La novità della posizione era di grande rilevanza e non tanto per l’evidente modello interpretativo di derivazione marxiana – comune e diffuso tra gli storici dell’industrializzazione e già richiamato da Giulio Bollati nel suo saggio per gli “Annali” einaudiani[587] – quanto per la sua applicazione allo studio della fotografia e, ancor più, per il fatto stesso di proporre e utilizzare un modello interpretativo specifico, allontanandosi così dalle prime narrazioni storiografiche che potremmo definire ‘archeologiche’, destinate a portare alla luce i reperti e i resti di quella storia ma senza tentarne poi un’interpretazione che non fosse in termini di primati e derivazioni. La contrapposizione tra industrializzazione e manualità (artigianale e forse artistica) aveva per Gilardi ulteriori implicazioni se la si poneva in parallelo con quella tra fotografia ‘diretta’ (e quindi per definizione vera) e fotografia ‘artistica’, specie nell’accezione pittorialista, per definizione manipolata. Far accettare all’universo degli amatori fotografi il “dogma” che identificava “fotografia del vero” e “vera fotografia” era risultato conveniente “in ogni senso: economico, politico, propagandistico; non solo per chi ha prodotto informazione visiva ma anche per le industrie fotografiche, di apparecchi come di materiali sensibili”, perché a un uso limitato e non standardizzato di prodotti, tipico della fotografia artistica, si contrapponevano i materiali e le tecniche della fotografia ‘pura’ che erano “come tutti sanno, totalmente omologate, anzi! l’immagine risulta tanto più ‘genuina’ in quanto frutto di una omologazione universale del procedimento fotografico. Il quale (…) può essere offerto dall’industria come un servizio reso a un pubblico che è diventato sempre più numeroso.”
Quella critica politica riconosceva la fotografia come prodotto di una cultura industriale in cui l’artistico si rivelava come ideologia e falsa coscienza e costituiva il “mito che, fin dal principio, è stato edificato per promuovere il procedimento, [la] sfrenata rettorica che circonda la fotografia fino dai primi decenni e intende gratificare, più ancora delle immagini, le virtù quasi ‘soprannaturali’ del mezzo che le ‘crea’ ”. Dati questi presupposti non poteva stupire l’assenza di qualsivoglia considerazione delle opere di “maestri più o meno illustri” e il richiamo a una ancora inedita categoria di fotografi: gli “anonimi della fotografia: i fotografi ambulanti, o peripatetici, o esterni, o itineranti, come diversamente si chiamavano.” Un universo di presenze incommensurabilmente distante dagli ‘irregolari’ amati da Lamberto Vitali e da Jean Adhémar come dai “naif” segnalati da Zannier.
L’attenzione era rivolta semmai ad ambiti e momenti che meglio di altri fossero in grado di esprimere e rivelare le logiche profonde della fotografia come pratica sociale ed economica, accennando a temi poco frequentati (anche dopo) quali la fotografia missionaria, che Gilardi considerava una parte essenziale della fotografia ottocentesca di viaggio e di esplorazione, o la fotografia industriale, vale a dire quella “di promozione dell’industria e dei suoi prodotti. Insomma, per usare il termine meno gratificante: la fotografia pubblicitaria”, a cui sola (o quasi) riconosceva il valore di fotografia artistica. Accanto a questi, riproponeva temi per lui più consueti come la fotografia segnaletica, già trattata in Wanted (1978), o la critica politica della fotografia amatoriale italiana di inizio Novecento, che “era diventata il rifugio estremo di un’idea dell’arte tanto più sublime quanto più utile a dimenticare gli affanni del mondo [e] così come si era rifiutata di accorgersi della [prima] guerra mondiale, si rifiutò di accorgersi del fascismo”, promuovendo “una vera e propria ‘mistica’ dell’immagine fotografica”, di cui Gilardi individuava la prima e massima espressione ne “La Fotografia artistica” ed anche nei più tardi annuari di “Luci ed Ombre”, a cui pure riconosceva il merito di aver riallacciato “le fila di un certo internazionalismo pubblicando brevi relazioni sui ‘movimenti fotografici’ in Australia come nel Canada, negli Stati Uniti come nella sconfitta Germania.”[588] Altrettanto rilevanti, inediti e scarsamente considerati in studi successivi i puntuali richiami ad alcuni problemi tecnologici e alle loro ricadute ‘documentarie’, come il rapporto (occulto) tra sensibilità cromatica delle emulsioni e ‘fedeltà’ riproduttiva dei dipinti, inteso da Gilardi come una testimonianza di quel “passaggio non discontinuo (…) fra la riproduzione totalmente manuale dell’arte e quella fotografica”; o la riflessione sulla rilevanza linguistica e culturale della pratica dell’ingrandimento, che aveva soppiantato la pratica della stampa a contatto da negativi poi considerati di grande o grandissimo formato, rivoluzionandone i criteri compositivi e gli usi in maniera altrettanto profonda della commercializzazione di quelle emulsioni alla gelatina che costituirono l’avvio della massificazione della fotografia e determinarono, nel corso di qualche decennio, la miniaturizzazione dei formati e il necessario ricorso all’ingranditore.
Come è facile comprendere anche da questa breve sintesi, i temi affrontati da Gilardi, pur declinati localmente, avevano rilevanza più generale e questo suo lavoro si proponeva ancora come una storia più sociale che italiana, sebbene comparissero qua e là i nomi di Alinari e Brogi, Edoardo Di Sambuy, Secondo Pia e soprattutto Anton Giulio Bragaglia, considerato una delle poche, vere glorie della nostra fotografia anche per la sua produzione di scrittore e critico, sebbene poi gli fosse rimproverato di non aver compreso la novità, e condannato anzi “la sconcezza della sua realisticità brutale e la pazzia dell’istantanea”[589], allineandosi così al giudizio dei molti che sostenevano il valore estetico della fotografia più meditata e tecnicamente sofisticata, magari manualmente reinterpretata. Battaglia destinata al più clamoroso insuccesso poiché “al fianco della ripresa sempre più facile mobilitavasi la nascente industria degli apparecchi e dei materiali sensibili.” A voler essere ancora più precisi, e nonostante la collocazione in una sede così prestigiosa e storiograficamente definita, come già nel 1976 non era proprio di una storia che si trattava e questo sia per ragioni redazionali (dettagli scelti “senza ordine cronologico, ma con il criterio di una più scorrevole argomentazione”, dichiarava l’autore) sia per più profonde convinzioni critiche, poiché i fenomeni analizzati “compressi in un ciclo breve, non solo nel tempo, ma altresì nello spazio, val meglio osservarli in una certa contemporaneità.” Opinione rispettabile che non avrebbe però dovuto avere come macroscopica conseguenza la rinuncia ad ogni verificabilità dei dati e delle fonti; il deserto delle citazioni e dei rimandi, l’assenza di una pur minima bibliografia, cioè di tutti quegli strumenti che consentono la condivisione e la crescita di ogni cultura disciplinare. Nonostante questi limiti non secondari il saggio di Gilardi, certo meno influente sulle generazioni successive del contributo di Miraglia, aveva una sua necessità che non ha perduto nel tempo; per quei suoi rimandi alla realtà socio economica dei dati di produzione, per quei suggerimenti analitici che derivavano da una conoscenza tecnica e professionale che pochi studiosi avevano allora (e ancor meno hanno oggi) e che nessuno era in grado di coniugare efficacemente, vitalisticamente quasi coi grandi tracciati della ricostruzione storica.
A proposito di cultura fotografica
In questo processo di progressivo consolidamento della storiografia italiana un ruolo fondamentale venne svolto dalle nuove riviste di cultura fotografica[590]; un fenomeno inedito per l’Italia che offrì stimoli e occasioni per la pubblicazione di analisi e approfondimenti monografici, mentre cresceva l’interesse per le fonti archivistiche (archivi e fondi fotografici) e bibliografiche; per le parole della e intorno alla fotografia e alle fotografie, per la ricostruzione delle culture che avevano intersecato e incrociato quella fotografica. Dava corpo al consolidarsi di quella attenzione un importante volume curato nel 1985 da Italo Zannier e Paolo Costantini (così in copertina), che sotto il titolo di Cultura fotografica in Italia 1839-1949 raccoglieva e ampliava, sistematizzandola, la ben più circoscritta raccolta di testi a corredo degli “Annali” einaudiani[591] o quelli di differente natura raccolti ne Gli scrittori e la fotografia di Diego Mormorio[592], la prima antologia dedicata al tema a livello internazionale. Le ragioni storiografiche che stavano a monte del progetto erano individuate da Costantini nella necessità di offrire strumenti in grado di corrispondere e servire a una consapevolezza nuova, derivata dal fare storia proprio della scuola francese delle “Annales”: “La moltiplicazione del nostro atteggiamento nei confronti dell’oggetto comporta necessariamente anche un mutamento del contesto figurale in cui esso si trova costretto. Un unico punto di vista risulta perciò insoddisfacente (e persino pericoloso e sviante) per esplicitare tutta la complessità dell’opera, i suoi molteplici rapporti e in definitiva il suo valore relativo.”[593] Più nello specifico l’autore riconosceva che “l’essenzialità di tutto l’apparato delle fonti scritte per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia non sembra invece essere ancora stata pienamente avvertita. La maggior parte dei trattati, dei manuali, delle storie, delle notizie e articoli, di appunti, epistolari, diari, biografie, di documenti e inventari relativi alle vicende e ai personaggi della storia della fotografia, rimane variamente dispersa tra gli scaffali di qualche biblioteca, spesso privata, i fondi di remoti archivi, i cataloghi delle librerie antiquarie e le bancarelle di improbabili mercanti di fotografia, in attesa di essere riscoperta, collazionata nel suo insieme, analizzata nelle sue correlazioni e posta a confronto con la contemporanea produzione di immagini. (…) Riconosciuto in tal modo l’ ‘intrinseco valore storico’ [della documentazione, secondo la formulazione di Julius von Schlosser] una storia delle fotografia e della trattatistica fotografica (…) non sembrerebbe allora meno legittima e rilevante delle tradizionali narrazioni sui principali fotografi.” Per queste ragioni, e rinunciando esplicitamente “a moltiplicare gli esempi e a esplicitarne ogni volta l’intricata serie di relazioni” i curatori scelsero di presentare “una campionatura piuttosto significativa (…) una raccolta (chiaramente limitata e parziale: una antologia, appunto)” del primo secolo di letteratura fotografica italiana; tale da “servire da stimolo per una nuova lettura di testi e esperienze della storia della fotografia in Italia, piuttosto che offrire una sintesi forzatamente conclusiva.”
Il volume, aperto dai testi dei due curatori, era organizzato in sei capitoli dedicati alla presentazione diacronica di questioni considerate nodali per le vicende della fotografia (le prime indagini, la manualistica, le applicazioni documentarie, i regolamenti e le istituzioni, l’estetica) con la sola significativa eccezione del primo, che affrontava sincronicamente quella che fu la diffusione aurorale della notizia. Tra i temi selezionati non compariva però la storiografia, essendo i due soli testi a questa riferibili, il Ritorno all’antica fotografia di Vitali (1936b) e I primi fotografi romani di Negro (1942) collocati nella sezione intitolata all’estetica. Certo l’esito di un doppio vincolo storico, determinato da una produzione effettivamente scarsa nel periodo cronologico considerato, come si è visto anche nelle pagine precedenti, ma anche di una certa quale disattenzione dei curatori per i pochi testi comunque disponibili e di livello non certo inferiore a molti di quelli lì pubblicati relativi ad altri aspetti. Un’assenza sorprendente allora, che sembrava corrispondere alle stesse riflessioni poste in premessa da Costantini, che lamentava come “l’essenzialità di tutto l’apparato di fonti scritte per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia non sembra essere stata ancora pienamente avvertita [e] una storia della storiografia e della trattatistica fotografica (…) non sembrerebbe allora meno legittima e rilevante delle tradizionali narrazioni sui principali fotografi.”[594] L’articolazione tematica determinava a sua volta una narrazione, una possibile storia della fotografia di cui di volta in volta si fornivano, magari implicitamente, alcuni elementi connotativi, qualificanti. Si consideri ad esempio il riconoscimento del rapporto stretto e ineludibile che connetteva “la sua natura di medium ‘meccanico’ (…) all’evoluzione tecnologica, in sintonia con quella culturale, con reciproci stimoli”[595], ciò che dava ragione del fatto che “il ‘problema tecnico’ (…) fu l’oggetto principale della pubblicistica relativa alla fotografia, fino agli ultimi decenni del secolo scorso [XIX], quando era sembrato di aver ridotto veramente ‘alla portata di tutti’ questa tecnica che ora ambiva a diventare arte, proprio nel momento in cui stava massificandosi”[596]. Un fenomeno che a sua volta portò alla moltiplicazione di manuali e periodici destinati al sempre più vasto pubblico dei dilettanti, “questi proto-fotoamatori, perlopiù ‘nobili e benestanti’ [che] alimentarono gli studi, anche scientifici, sulla fotografia, proprio per la loro particolare estrazione culturale e sociale, che consentì loro anche molte trasgressioni alle regole dell’artigianato quotidiano, che altrimenti rischiava di fossilizzarsi in stereotipi banali e tecniche stantie.”[597] La rivendicazione di un nuovo statuto autoriale, tra gli esiti culturali più significativi di quella stagione, determinò anche un inedito e forte interesse per una estetica della fotografia, alla “ricerca di un carattere linguistico specifico, una letteratura fotografica che tendeva ad analizzare anche la sua storia, in termini non soltanto di riassunto dei vari ritrovati tecnici (…); gli studi di storia della fotografia (…) vennero seguiti particolarmente proprio negli anni in cui più intensa fu l’indagine sul linguaggio, quasi cercando nella storia le sue motivazioni.”[598]
La “Rivista di storia e critica della fotografia”
Sino alla fine del decennio precedente la pubblicistica periodica aveva offerto solo sparsi esempi di saggistica storica, così che costituì un’impresa più che coraggiosa e una novità sorprendente la pubblicazione del primo numero della “Rivista di storia e critica della fotografia” (“RSCF”) nell’ottobre del 1980; la seconda testata europea specificamente dedicata a questi temi, “diretta dall’entusiasta Angelo Schwarz”[599] ed edita a Ivrea da Priuli & Verlucca. Il direttore proveniva da “Il Diaframma Fotografia Italiana”, di cui era stato capo redattore dall’ottobre 1974 alla sua chiusura nel febbraio 1979, e per quel periodico aveva curato anche alcuni inserti monografici di taglio storico, “ma con un certo timore reverenziale verso un accademico fare storia”[600]. Fu proprio da quell’esperienza che nacquero “le premesse dirette della nascita della ‘Rivista’ (…), nell’insufficienza dell’attività giornalistica (nelle riviste di fotografia) per la costituzione di un sapere storico senza il quale la stessa attività critica, o anche soltanto informativa, mi appare assai aleatoria.”[601] Affermazione forse un poco ingenerosa nel merito, considerando i contributi sparsi ma certo non secondari di Racanicchi e Zannnier, per non dire di Gilardi e Settimelli, ma per altri versi interessante perché ribadiva a più di un secolo di distanza le opinioni espresse dai primi manualisti italiani come G.V. Sella a proposito della necessità ineludibile di conoscere la storia per comprenderne gli esiti culturali[602]. Quello era il contesto nel quale prese forma l’intenzione di realizzare la “Rivista”, diretta da un giornalista critico teatrale e cinematografico che aveva una concezione articolata e complessa delle vicende storicamente connesse alla fotografia, e che si dichiarava insoddisfatto della storiografia di settore quanto della scarsa considerazione che gli storici più accreditati riservavano alla fotografia[603]. Nella Nota per il lettore che apriva il primo numero si esplicitavano le linee programmatiche: “Ciò che recita questa testata, Rivista di storia e critica della fotografia, non è un’affermazione, ma l’indicazione di una prospettiva, di un’ipotesi di lavoro. (…) Contrariamente a quello che molti credono, o si possa credere, l’arcipelago fotografia non ha isole privilegiate. (…) una ipotesi di lavoro che non intende rinchiudere i problemi posti dalla produzione, uso e consumo delle immagini fotografiche nel ristretto campicello della specificità, al contrario propone (cercando di offrire degli esempi concreti) di sottoporre le fotografie al setaccio di griglie diverse, dalla psicologia della percezione all’economia, dalla teoria dell’informazione alle scienze sociali, dalla tecnologia alla storia dell’arte, tanto per fare alcuni esempi. Sulla base di premesse del genere costruire una rivista non è facile e solo con il tempo si riuscirà ad arrivare a una scrittura non elitaria, a una omogeneità redazionale non di maniera, impersonale (che è quello che assolutamente vogliamo evitare). Intraprendere un cammino e anche accettare rischi nuovi, cercare e trovare interlocutori.” Programma impegnativo e nobile, soprattutto inedito in quella forma per il contesto italiano e non solo dove le riviste di settore, rivolte a un pubblico prevalentemente fotoamatoriale, avevano pubblicato negli anni solo rari interventi di tipo storico, prevalentemente descrittivi, mentre qui si proponevano approfondimenti analitici che connotavano ogni singolo numero monografico, con una attenzione equamente suddivisa tra temi legati alle situazioni di conflitto – dalla guerra al colonialismo – e questioni teoriche e storico critiche (sulla natura della fotografia; fotografia e ideologia latente; il tempo e le cose) offrendo in traduzione italiana contributi di autori importanti (Fontcuberta, Kossoy, Mandery, Von Waldthausen tra gli altri). Penso in particolare alla traduzione con testo a fronte del saggio di Rudolf Arnheim, On the Nature of Photography, tratto (ma senza indicare i necessari riferimenti bibliografici) dal primo numero di “Critical Inquiry”, nel quale si proponeva in abbozzo anche una possibile periodizzazione della storia della fotografia, articolata in due fasi: “il periodo iniziale durante il quale, per così dire, trascendeva la momentanea presenza degli oggetti ritratti a causa della durata dell’esposizione e dell’ingombrante attrezzatura; e la seconda fase, che ha sfruttato la possibilità tecnica di catturare il movimento in una frazione di tempo.”[604] Lo spunto non venne ulteriormente sviluppato da Arnheim né da altri interventi successivi, semmai più orientati (come del resto prometteva l’editoriale del primo numero) alla fenomenologia e psicologia della percezione, vale a dire agli svariati aspetti della comunicazione per immagini, con una predilezione per i rapporti tra fotografia e testo nella stampa periodica, sia storica che contemporanea.
La “Rivista” non ospitò testi specificamente dedicati a questioni storiografiche, che emergevano implicitamente dalla scelta e dalla strutturazione stessa di alcuni temi di indagine come dalla presentazione degli esiti di ricerca, ovvero costituivano brevi riflessioni comprese in saggi di ordine più circoscritto e specifico. Si vedano a questo proposito i paragrafi introduttivi del testo di Boris Kossoy dedicato a Hercule Florence nel quale, in una prospettiva che allora si sarebbe detta terzomondista, richiamava la necessità di “una revisione e una discussione a proposito dei tradizionali approcci verso i modelli ‘classici’ della storia della fotografia. Chiaramente ciò sarà possibile solo nella misura in cui verranno alla luce nuovi contributi al tema, ampliando così la bibliografia storiografica esistente che, nella sua notevole proporzione, ha come scenario esclusivo gli episodi avvenuti nei grandi centri europei e statunitensi. La bibliografia esistente sulla storia della fotografia risente a tutt’oggi di una [mancata] discussione a livello del metodo, molto più che di una maggiore divulgazione della produzione storiografica realizzata in altri spazi. Soltanto in quest’ottica gli studiosi del campo potrebbero percepire meglio la traiettoria reale che la fotografia ha seguito durante il XIX secolo, con la massima attenzione nell’accogliere le nuove ‘rivelazioni’, per gli avvenimenti anteriori, pregni ormai di valori istituzionalizzali e consacrati dal sistema come veritieri e importanti.”[605]
Anche i contributi originali prodotti dal direttore e dai membri della redazione offrivano interessanti esempi di applicazione storiografica piuttosto che riflessioni squisitamente metodologiche. Basti considerare a questo proposito gli articoli pubblicati nel primo numero, dedicato a La guerra rappresentata[606] nel quale la produzione riguardante il primo conflitto mondiale venne analizzata nella molteplice prospettiva della “produzione, uso e consumo delle immagini fotografiche”, con un implicito rimando ad alcune recenti riflessioni di Carlo Bertelli, poste in esergo al primo saggio, sebbene in forma imprecisa e – soprattutto -senza citarne l’autore[607]. Quel numero monografico, che di fatto inaugurava per l’Italia un filone di studi e iniziative particolarmente fecondo, si proponeva meritoriamente di analizzare le immagini della Grande Guerra da vari punti di vista, fornendo letture certo ancora imprecise[608] ma innovative, di fenomeni quali l’estetizzazione ideologica delle fotografie pubblicate sui giornali illustrati e nei fascicoli a dispense, i meccanismi di funzionamento della censura militare o la definizione antropologica e le funzioni degli anonimi autori delle migliaia di immagini che circolavano, giungendo alla conclusione – importante – che le fotografie come fonte per (fare) la storia dovevano essere considerate “nella loro estensione ‘quantitativa’, più che per la loro dimensione ‘qualitativa’.”[609]
Dopo gli incidenti di percorso del numero relativo al colonialismo[610], per la confezione di quello dedicato alla conquista italiana di “un posto al sole”[611] la direzione della rivista preferì rivolgersi a un gruppo di studiosi esterni e storici di professione, affidando a Giuseppe Papagno[612] il compito di definire i termini storiografici dell’utilizzo della fotografia come fonte per la storia (del colonialismo e non solo), mentre i saggi seguenti fornivano interessanti analisi dell’ideologia veicolata dalle varie forme illustrative di matrice fotografica: dalle cartoline alla stampa periodica, ribadendo ancora una volta che “basterebbe il dato quantitativo a far riflettere sull’importanza della fotografia in rapporto alla guerra: riflessione di cui non si trova quasi traccia nelle storie della fotografia interessate alla produzione dei grandi fotografi piuttosto che alle forme sociali di produzione, circolazione e consumo delle immagini”[613]. Una lacuna grave, specie considerando – come aveva indicato Jacques Le Goff[614] – che proprio l’analisi quantitativa poteva costituire uno strumento fondamentale per la costruzione di una storia delle mentalità, a cui partecipava di diritto anche l’impiego della fotografia nell’indagine etno-antropologica[615]. Nonostante la prevista cadenza quadrimestrale dall’ottobre 1980 al dicembre 1984 vennero pubblicati solo sei numeri, molti dei quali monografici[616], con testi prevalentemente in italiano e abstract in inglese, mentre le poche e brevi recensioni erano bilingue. Pur contando su 500/600 abbonamenti e sulla vendita diretta in una quarantina di librerie del centro nord Italia e sebbene la redazione lavorasse a titolo gratuito, così come gratuite erano le collaborazioni esterne, l’impresa risultò ben presto troppo onerosa per la casa editrice e di difficoltà forse superiore alle poche forze redazionali. Così già il terzo numero non rispettò la cadenza di pubblicazione né si davano ai lettori garanzie che ciò non potesse accadere in futuro perché – nelle parole della redazione – “non siamo disposti a tralasciare lo sforzo di offrire una serie di testi al meglio delle nostre capacità solo per arrivare puntuali all’appuntamento. (…) Perché questa storia particolare è ancora nel suo farsi: sempre che per storia della fotografia non sia da intendersi l’ormai solita scoperta, giorno dopo giorno, di un nuovo autore, l’esercizio delle attribuzioni di questa o quella fotografia, di una storia dell’immagine chiusa in sé stessa. Di poi, in Italia non siamo certo favoriti nella frequentazione dei fondi fotografici. E mancano pure, nel nostro Paese, i ricercatori di questa storia della fotografia e quei pochi che ci sono di lavoro sono oberati quand’anche collaborino, o meno, a questo periodico. Quello che quindi diciamo ai lettori è che se qualche ritardo, più o meno lungo, in futuro ci sarà, è perché vogliamo offrirvi un prodotto per mezzo del quale sia possibile far uscire la fotografia dal ghetto in cui, salvo rare eccezioni, è rinchiusa a metà tra la moda culturale e l’antiquariato.”[617]
Nel dicembre 1984, allo scadere di quella importante esperienza, la Nota per il lettore che apriva il sesto e ultimo numero dichiarava con la consueta chiarezza le difficoltà: “Fare una «rivista di storia e critica della fotografia» senza poter pagare redattori, collaboratori e corrispondenti, facendo leva sul volontariato, è una impresa quasi disperata. Tutto diventa lento e ne sanno qualcosa i nostri lettori. Comunque non demordiamo (…) Ecco cosi, con un rituale ritardo, rispetto alle scadenze che ci eravamo date, un nuovo numero della rivista dei più densi tra quelli fino ad ora pubblicati. Uno solo dei saggi che seguono potrebbe qualificare qualsiasi rivista di fotografia e uno qualunque dei saggi qui proposti giustifica l’acquisto di questa rivista (almeno cosi crediamo e così speriamo). Qualcuno magari ci potrà rimproverare di non concedere ai nostri lettori alcuna svagatezza: non abbiamo difficoltà a riconoscere l’eventuale rilievo. A ciascuno il suo. Da quattro anni, con questa testata, ci siamo fatti carico, forse sopravvalutando le nostre forze e le nostre cognizioni, della preoccupazione «che quando la fotografia entra in campo – come scrive Paolo Fossati – si parli sul serio, coerentemente di fotografia e sia chiaro su quali binari ci si muove, che cosa nasconde operare fotograficamente e che cosa può aiutare a capire». Non soltanto: ci siamo fatti carico di promuovere, con degli esempi nostri per deboli che siano, una storia della fotografia non più dilettantesca né più antiquariale. Ciò scritto, non vogliamo rivendicare primogeniture, non vogliamo spiegare quale debba essere la critica fotografica, non vogliamo indicare chi storico della fotografia è e chi non è; quelle che offriamo sono una sorta di sperimentazioni sul campo e ciò che chiediamo sono confronti, possibilmente rilievi con esemplificazioni circostanziate e dichiariamo che non ci piacciono, comunque, anonimi tiri a mitraglia.” L’ultima notazione doveva riferirsi a un commento di A.C. Quintavalle che l’anno precedente, nell’Introduzione alla sua raccolta di saggi[618] aveva affermato senza mezzi termini che nel nostro paese “non esiste una rivista seria di storia della fotografia”, liquidando così senza appello questo esperimento tanto interessante quanto generoso. La stessa Nota, pur richiamando difficoltà scientifiche e gestionali, non faceva però alcun cenno all’imminente chiusura, nonostante tutto ancora non prevista né ipotizzata se a quella data erano in progetto ben tre nuovi numeri. La testimonianza offerta dal direttore alcuni anni più tardi segnalava semmai un altro ordine di criticità a proposito della adeguatezza stessa del “medium cartaceo per una rivista di storia. (…) Man mano che sviluppavo la mia riflessione – scriveva Schwarz – rilevavo tutti i limiti che poneva e pone una rivista di storia tradizionale: limiti nella elaborazione della ricerca storica stessa; limiti nella comunicazione dei risultati della ricerca; limiti nell’utilizzazione della ricerca. La linearità della scrittura e dei media librari e paralibrari è un ostacolo difficilmente superabile nei confronti di un universo complesso e quantitativamente esteso come quello delle immagini fotografiche.” [619] Nobile interpretazione di una vicenda dai risvolti molto più prosaici ma soprattutto formulazione di un’ipotesi certamente innovativa, che prospettava l’utilizzo dell’ipertesto su supporto informatico, prefigurando per certi versi il web 2.0 e i modi della Public History. I ripetuti e (forse) non retorici richiami all’azione volontaristica e a una formazione inadeguata al compito (“sopravvalutando le nostre forze e le nostre cognizioni”; “con degli esempi nostri per deboli che siano”) restituivano le incertezze e le giuste preoccupazioni – non così comuni purtroppo – per quella condizione ancora inevitabilmente autodidattica che allora e ancora per lungo tempo sarebbe stata largamente condivisa dalla maggior parte degli studiosi italiani, a partire dallo stesso Schwarz che riconosceva come la sua formazione non fosse di storico (“tutt’al più sono stato un consumatore di testi di storia”), per estendersi ai principali redattori, all’epoca insegnanti di scuola superiore o impiegati, che dopo la chiusura della “Rivista” non ebbero più modo di misurarsi con la storiografia o la critica fotografica. In quel quadro problematico andava intesa anche l’alternanza di numeri monografici e miscellanei, costituendo questi ultimi non solo un’occasione per offrire contributi considerati di un certo interesse ma anche, più pragmaticamente, un modo per garantire una ragionevole periodicità. Risulta infatti evidente che alcuni degli argomenti (Gioacchino Altobelli, “Camera Work”, Hercule Florence, Germaine Krull) rientravano perfettamente in quella “storia dell’immagine chiusa in se stessa” a cui intendeva opporsi il progetto culturale della “Rivista”, né fornivano impostazioni storico critiche tali da costituire un possibile modello storiografico alternativo, con la sola eccezione del saggio di Fontcuberta dedicato al “contenuto ideologico” del tardo pittorialismo di José Ortiz-Echagüe[620]. Nonostante i limiti del periodico, del resto ben presenti allo stesso Direttore, tra i quali, non ultima, una certa disinvoltura nel trattamento delle fonti e dei testi, la “Rivista” dimostrò, magari non nel merito ma fornendo un esempio possibile, che la fotografia poteva e doveva essere studiata facendo ricorso a tutti quegli strumenti e modelli analitici e storiografici che costituivano moneta corrente in ambiti più prossimi come il cinema o la storia dell’arte e per queste ragioni va considerata una realizzazione di rilevante importanza per la cultura fotografica italiana.
“Fotologia”
Commemorando Paolo Costantini a poco più di un anno dalla scomparsa[621], Italo Zannier ne ricordava i primi incontri sintetizzando le vicende che avrebbero portato alla pubblicazione di “Fotologia”: nella nuova testata, pubblicata nel giugno 1984 dalle Edizioni Belborgo di Ravenna, erano infatti confluiti i testi messi a punto per “Fotografis, rivista di storia e cronaca della fotografia” (con un sottotitolo che conteneva un evidente rimando polemico all’impresa di Schwarz), l’organo dell’omonima galleria bolognese diretta da Alfredo Nesi e sul cui primo ed unico numero venne pubblicato il primo saggio di Costantini, all’epoca ancora studente[622]. Di quella “che non è una rivista”, come affermava perentoriamente Zannier nell’editoriale del numero due, ma un “Quaderno” (per i primi due numeri) e che sarebbe poi diventata una raccolta di “Studi di storia della fotografia” (a partire dal numero 3/ 1985, con la nuova gestione Alinari) vennero pubblicati 24 numeri in diciannove volumi, essendo doppi quelli a partire dal 14/15, datato primavera estate 1992, tutti in grande formato (in 4° dal n.2, che assunse la veste grafica e la strutturazione definitive) con riproduzioni in b/n e a colori di buona qualità, testi in italiano o in inglese e una ricca rassegna bibliografica.
Il primo numero, pur non ospitando esplicite note programmatiche (sostituite da una dedica alla memoria di Antonio Arcari, da poco scomparso), presentava già l’articolazione tematica a cui il periodico si sarebbe attenuto lungo tutto l’arco della sua non breve (almeno per il panorama italiano) vita: indagini storico critiche si alternavano a succinti portfolio di autori sia storici che contemporanei, offrendo spazio anche a interventi di ordine teorico e metodologico, ai quali in quella prima uscita venne accostata l’utile riproposizione di tre interviste fatte da Zannier a Pierpaolo Pasolini, Leonardo Sinisgalli e Gio Ponti, originariamente pubblicate nella rivista “Fotografia” negli anni 1959-1960[623].
Le ragioni del progetto vennero esplicitate nel successivo numero del 1985, richiamando la necessità di offrire “un contenitore aperto a studi e ricerche scientifiche soprattutto sulla storia della fotografia italiana, anche in connessione con altre discipline (…), un nuovo punto di riferimento per il dibattito sulla cultura fotografica in Italia; un luogo di incontro, al di là di ogni settarismo (…) una nuova occasione di scambio e di dibattito, per l’integrazione e il perfezionamento di queste ricerche, superando provincialismi e personalismi, non tanto in senso moralistico, ma per un lavoro più finalizzato e quindi proficuo.” Tale prospettiva era necessaria in un contesto in cui “regna il caos (nell’editoria, nelle esposizioni, nella scuola…); l’entusiasmo, la voglia di dire, di fare, di mostrare, di pubblicare dopo lo choc (e le polemiche) dovuti alle sia pure discutibili iniziative collegate alle megamostre e ai convegni di Venezia, Firenze e Modena del 1979, non hanno trovato certamente in questi anni una struttura culturale che potesse utilmente raccogliere e coordinare queste attività, spesso troppo enfatiche e dispersive, in un progetto generale di ricerca e di studio, a partire dal settore storico-filologico (…) che possa finalmente coinvolgere e mettere in contatto tutti gli studiosi di questo settore, che sono ormai parecchi e bravi, ma isolati, e offrire (…) con i suoi ‘quaderni’ (…) il suo spazio concreto, senza discriminazioni che non siano quelle riferite alla qualità del lavoro, specie ai giovani, alcuni dei quali, dentro e fuori dall’Università, stanno affrontando con rigore scientifico l’affascinante settore di studi sulla storia e l’archeologia della fotografia, che in Italia ha anche il fascino della novità.”[624]
Analizzando i ventiquattro numeri pubblicati nel ventennio 1984-2003 (ma con una periodicità sempre più incerta a partire già del 1992[625]) si trova ampia conferma al proposito di dare spazio a “studi e ricerche (…) sulla storia della fotografia italiana”, in particolare sui protagonisti della fotografia del XIX secolo, con schede e saggi di maggior impegno e approfondimento[626], ma anche per quegli autori della scena torinese di primo Novecento, da Guido Rey a Riccardo Peretti Griva[627], che avevano fornito un contributo importante alla nostre vicende nazionali. I legami con l’editore si manifestavano invece nella costante presenza di pagine dedicate alle nuove acquisizioni e all’attività di Alinari ed anche, in modo più indiretto, ospitando saggi che anticipavano ricerche in corso[628] quando non riproponevano materiali già editi per mostre e cataloghi, con modalità che traducevano in modo sin troppo estensivo l’intenzione manifestata dal presidente Claudio de Polo nell’ Editoriale del 1985. Poco spazio restava, per quanto riguardava la sezione storica di questi “Studi”, per le questioni squisitamente storiografiche cosi come per argomenti connessi quali la conservazione e il restauro o la descrizione di archivi e fondi istituzionali, sui quali si sarebbe invece orientata la rivista dell’Archivio Fotografico Toscano, mentre va ricordata la pubblicazione a partire dal 1989 di alcune pagine e degli indici del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, a cui nel n.12/1990 venne dedicato un breve saggio tratto dalla tesi in corso di Elvira Puorto[629].
Nell’ambito delle ricerche dedicate alla fotografia ottocentesca era però possibile riconoscere un filone privilegiato di studi, a cui non doveva essere estranea la forte connotazione produttiva degli Alinari ma da porre in relazione con la formazione e con il contesto universitario del gruppo redazionale[630]. Mi riferisco all’interesse per la fotografia di ‘documentazione’ della città, a cui Costantini dedicò importanti interventi relativi a temi veneziani[631], derivati o connessi alle ricerche svolte per la propria tesi di laurea, come a quella d’architettura, analizzata nello specifico di singoli progetti o problemi, dalle tecniche di ripresa agli ambiti di applicazione[632], sempre intesi e letti in relazione al più ampio quadro culturale dell’epoca, restituito attraverso le posizioni di alcune figure paradigmatiche: da Pietro Estense Selvatico[633] a Corrado Ricci[634], Bernard Berenson e Aby Warburg[635]. A questi altri temi si affiancavano, altre occasioni di riflessione fondate su di un confronto serrato, analitico con materiali d’archivio, sia documentali che propriamente fotografici, consentendo così di offrire agli studiosi inediti corpora di immagini e importanti occasioni di riflessione critica e metodologica. Non mancavano però interventi di ben diverso tenore, che costituiscono oggi una testimonianza preziosa, un parametro di descrizione e di misura di quale fosse il livello delle conoscenze e degli studi di storia della fotografia in quegli anni: basti ricordare l’affermazione di un collezionista e studioso molto attivo sulla scena italiana come Michele Falzone del Barbarò che in un breve saggio dedicato ad Alphonse Bernoud affermava che le immagini da lui presentate permettevano “di scoprire un genere fotografico: quello del paesaggio del tutto sconosciuto, almeno sin’ora, nei fotografi italiani delle origini.”[636] Ciò che qui importa non è di provarsi a contestare quell’affermazione, palesemente infondata, ma appuntare la nostra attenzione sul fatto che potesse trovare ospitalità in una delle poche sedi qualificate allora disponibili in Italia, a testimonianza di quale fosse ancora – a un decennio dalle grandi iniziative del 1977-1979 – la condizione di grave incertezza e approssimazione di una cultura fotografica che si mostrava scarsamente dotata di strumenti e conoscenze storico critiche. Sarà stato forse per questi limiti che molti dei contributi più strutturati, e non fosse che per questo più interessanti, provenivano da vari ambiti che avevano relazioni strette con la fotografia e le sue pratiche. Penso alla lettura antropologica offerta da Francesco Faeta[637] dell’opera di un autore come Wilhelm von Gloeden, già allora tra i più studiati[638], che allontanandosi dai più ovvi riferimenti all’iconografia pittorica ne interpretava l’opera alla luce dei “rapporti intercorrenti tra aristocratici e popolo” e in particolare considerava la tematica “dell’immagine delle classi subalterne, così come scaturisce dall’elaborazione colta” come “espediente di socializzazione [nel contesto di una] economia politica del desiderio”, così che il percorso di Von Gloeden poteva essere sintetizzato nel passaggio “da un’ottica puntigliosamente verista (…) attraverso passaggi successivi, alla logica del desiderio.”
In altri casi potevano essere gli esiti di un progetto di catalogazione a fornire l’occasione per riflessioni di ordine metodologico e storico critico, affrontando il tema nodale della riedizione di matrici d’epoca, indagando i problemi teorici insiti nel recupero del “fascino di una pratica fotografica quale momento di cultura tecnico-scientifica non disgiunta da una manualità che avvicinava il fotografo alla tradizione lunga dell’artigiano (…) alla ricerca di una consonanza che consenta di indovinare il gesto del fotografo, di spiarne i passi che hanno portato al risultato finale, la relazione non mediata con l’emergere dell’immagine.”[639] Riflettendo sui termini e sul significato di un’operazione che altri avrebbero poi affrontato riducendo l’approccio filologico alla risoluzione di aspetti eminentemente tecnici[640], si cercava di definire lo statuto di quelle immagini ricavate da una matrice autentica[641] ma secondo una “storia di produzione” non prevista né (inevitabilmente) gestita dall’autore e pertanto dotata di una notevole dose di arbitrarietà. Ricorrendo ai modelli teorici forniti da Nelson Goodman e dalla semiologia si riconosceva così la doppia esistenza dell’immagine fotografica, allografica/autografica in misura inversamente proporzionale alla concorrenza dell’autore. Per queste ragioni le stampe eseguite ex novo da antichi negativi non potevano essere – per mancanza di intenzione – né falsi né contraffazioni, ma non potevano essere neppure intesi come riproduzioni o duplicazioni; semmai occasioni per “una interpretazione dell’immagine, un intervento (…) operato sulla sua originaria disponibilità”[642], da non confondersi quindi (se non pericolosamente, appunto) con alcuna pretesa riproposizione ‘filologica’.
Ulteriori contributi di rilievo provenivano da incontri di studio, come il convegno di Cerisy-la-Salle del 1988 dedicato a Les Multiples Inventions de la Photographie[643], a cui aveva partecipato Zannier, nel corso del quale A.D. Coleman era intervenuto a proposito di Rationalism and the Lens, considerando l’influenza della lente sulla cultura occidentale e così proseguendo una riflessione avviata nel 1985. I due contributi dello studioso statunitense, Minestra di lenticchie: una meditazione sulla cultura della lente[644] e La lente: appunti di storia culturale[645], vennero poi ospitati nei numeri 12/ 1990 e 14-15/ 1992 di “Fotologia” pur senza indicarne né la sede originaria né la data di pubblicazione; per una cultura ancora subalterna come quella nostrana questi erano considerati aspetti di scarso rilievo, dei quali anzi neppure ci si rendeva conto; soddisfatti di poter accedere in comoda traduzione italiana a testi che inducevano alla riflessione, che mostravano quanto fosse necessario assumere il paradigma della complessità se ci si voleva provare a comprendere un sapere complesso come quello legato alla fotografia. Con Coleman si affacciava in embrione quel concetto di storia culturale che tanta fortuna avrebbe avuto da noi ben più tardi; quell’idea che un elemento apparentemente tecnologico come la lente potesse invece essere più proficuamente inteso come un esempio di “tecnologia di definizione”, in grado di esprimere legami metaforici o concreti tra diversi ambiti: dalla scienza alla letteratura[646].
“AFT”
Il 4 maggio 1985 venne presentato il primo numero di “AFT” semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano[647], il servizio istituito dal Comune di Prato e cofinanziato dalla Regione Toscana, nato nel 1980 per iniziativa di Arnaldo Salvestrini, Fernando Tempesti e Luigi Tomassini, tra i membri del comitato scientifico della mostra Alinari 1977[648], i quali ne avevano già illustrato una prima bozza costitutiva al convegno di Modena del 1979 “sullo slancio di mostre e di iniziative che si erano concluse con risultati più o meno soddisfacenti”, come scrisse Tempesti nell’editoriale. Pur non potendo analizzare nel merito la ricca vicenda di “AFT”, va qui almeno richiamata la singolarità, e l’eccezionalità, di una iniziativa che si sviluppava all’interno di un servizio pubblico, discostandosi così – per logiche editoriali e propositive – dalle altre iniziative consimili ma nate da sforzi quasi individuali (come “RSCF”) o legate all’Università ma di fatto sotto la regia di una firma commerciale (come “Fotologia”). Scopo del periodico era quello di “proseguire e affiancare il programma dell’Archivio dal quale prende il nome” attraverso il duplice strumento dell’immagine e della parola, vale a dire “ privilegiando la presentazione, senza dogmatismi e chiusure, di quei fondi che fanno già parte dell’Archivio”, ma anche “puntando a una problematizzazione, non astrusa ma incalzante, di quella che è la complessa tematica che lentamente si viene delineando intorno alla fotografia. In queste prospettive, tanto modeste che rasentano l’ambizione, questo primo numero della rivista si propone come un avvio, come un punto d’inizio e un invito al più sommesso livello.” La composizione del sommario prevedeva “una tripartizione grosso modo così articolata: una prima parte dedicata all’archiviazione, con tutto ciò che essa comporta (…); una seconda parte dedicata alla storia della fotografia in senso lato; una terza parte dedicata più in generale ai problemi del dibattito sulla fotografia e del lavoro culturale sulla fotografia.”[649] Vale a dire catalogazione e conservazione; soprattutto quest’ultima. Temi di storia e storiografia della fotografia, specialmente in relazione con aree di studio quali la storia sociale e la storia dell’arte o l’antropologia, che si ponevano quali posizioni (e i filtri, anche) da cui considerare le fotografie e -forse – la fotografia. Una parte altrettanto rilevante e in molte occasioni prevalente sino a connotare monograficamente un numero era dedicata a fondi o materiali dell’Archivio, presentati nel loro contesto di produzione piuttosto che studiati dallo specifico punto di vista fotografico, con un lavoro storico critico che privilegiava gli insiemi archivistici piuttosto che le singole opere o gli autori.
A quel profilo corrispondeva un altro elemento fortemente connotativo che distingueva nettamente “AFT” da ogni altra simile esperienza: la distonia – in molte pagine radicale e quasi straniante – tra testi e immagini, costituendo le seconde non l’argomento del discorso dei primi ma un percorso indipendente di presentazione del Fondo considerato in quel determinato numero, mentre per i testi di diverso argomento semplicemente non era previsto nella più parte dei casi alcun corredo di immagini, ciò che si configurava come una scelta certo legittima ma piuttosto discutibile per un luogo in cui si intendeva riflettere intorno alla fotografia[650].
Dal n. 9/ 1989, a segnare la crescita del numero di studiosi e dell’interesse del pubblico per la “storia della fotografia e i problemi connessi” alla testata venne aggiunto il sottotitolo di “Rivista di Storia e Fotografia”, a indicare una prospettiva di metodo orientata al confronto pluridisciplinare, poi esplicitata nell’editoriale del numero 19 (giugno 1994): “L’attenzione per la fotografia da parte di “AFT” (…) si colloca in quel territorio non privo di ambiguità e di incertezze, ma stimolante per i problemi che pone, dove l’interesse per la fotografia in senso stretto convive con l’interesse per le discipline con le quali la fotografia entra in contatto e collabora in ragione dei contenuti che esprime. Tra queste, prima su tutte la storia (…) Le ambiguità e le incertezze alle quali precedentemente si alludeva non riguardano ovviamente l’individuazione del territorio, che anzi è chiara, ma il modo di discuterlo e di farne tema; e questo per oggettive difficoltà a cogliere la sottile linea che discrimina e distingue la fotografia dalle discipline contigue, rendendola nella sua specificità di contenuti e di metodo. Può succedere che a proposito di fotografia e storia o fotografia e antropologia o altro ci troviamo a registrare come molto si parli di storia o di antropologia, poco di fotografia.”[651] Dichiarazione di apprezzabile problematicità ma espressa in modo non sufficientemente definito, poiché la linea sottile non poteva certo essere quella che distingueva in sé, poniamo, la fotografia dall’antropologia (ciò che pare semplice anche ai più esperti), ma semmai quella dell’uso e delle relazioni con e tra i vari ambiti. Né pareva che quella difficoltà a parlare di fotografia potesse essere giustificata, come si faceva nella stessa occasione, riconoscendo “analoghi equivoci e incertezze (…) anche a proposito della storia della fotografia dove, a motivo di una non ancora ben individuata e definita identità dell’oggetto e del metodo, le fotografie sembra facciano spesso da illustrazione a un più generale discorso sulle tecniche, sulla diffusione del mezzo e sulla pratica fotografica. Riferita ad ‘AFT’, e all’Archivio, la scelta appena esposta ha un suo motivo che deriva dal convincimento che alla fotografia spetti, oltre il momento tecnico e formale, una specifica funzione di conoscenza che si configura come modo di entrare in contatto con il reale che ci circonda e ci riguarda. Il problema, e conseguentemente l’obiettivo, è di saper cogliere la specificità nella forma di questo contatto, alternativo o complementare al discorso (…).”[652] La riflessione intorno a questi temi cruciali venne ripresa nell’editoriale del successivo n. 21 (1995) affrontando il problema del contesto e dei materiali, “intendendo con questi le fonti bibliografiche, qualsiasi altra testimonianza e, naturalmente, le fotografie”. Un tema che si andava “sempre più imponendo all’attenzione degli storici della fotografia; e di tutti quegli studiosi che della fotografia si occupano e se ne servono nei rispettivi ambiti di ricerca. Tutto questo a testimonianza del crescente interesse per la fotografia come documento, ma anche della riconosciuta necessità di una consapevolezza metodologica sempre più lucida e analitica. Di contro alla tendenza ‘volgare’ di vedere nella fotografia essenzialmente una ‘illustrazione’ buona a far da ‘contorno’ a qualcosa di scritto oggi sono sempre più numerosi gli studiosi e non solo gli storici che mettono la fotografia al centro di una loro ricerca, come si dice, a tutto campo: ricerca che va di pari passo con quella di una rigorosa metodologia di studio. In questo senso si può incominciare a dire che, pur con qualche lentezza, l’approccio filologico-esegetico, tradizionalmente riservato ai testi letterari, ai documenti d’archivio e ai monumenti della storia dell’arte, si va applicando anche alla fotografia.”[653] Tracce di quelle incertezze, di quelle oscillazioni metodologiche emergevano dai vari numeri come un fenomeno carsico; così a un uso delle fotografie come occasione e strumento ma non come elemento sostanziale di etnostoria[654] si alternavano su quelle pagine interventi di grande lucidità interpretativa, quali l’analisi comparata delle fotografie realizzate da Paul Scheuermeier, condotta da Giovanni Contini con i metodi della storia orale, a partire anche dalla considerazione – fondamentale e solo apparentemente scontata – che l’analisi non poteva (e non può) che derivare dalle “immagini e dalle informazioni che già avevo interiorizzato prima di vederle, e che avevo ricavato dalla mia personale esperienza”[655].
Lo sguardo lungo condotto sull’insieme delle annate di “AFT”[656] fa però emergere un numero considerevole di casi in cui l’argomento delle fotografie pubblicate costituiva poco più che un pretesto per la pubblicazione di ricerche che di quelle stesse immagini tenevano poco o nulla conto [657], sino al paradosso (tutto editoriale) di corredare con fotografie un saggio che esplicitamente, metodologicamente direi, si proponeva di analizzare il funzionamento narrativo di un testo volutamente privo di illustrazioni[658]. Certo questi che ora paiono elementi quanto meno di disequilibrio derivavano dalla volontà di valorizzare i materiali costituenti i numerosi fondi acquisiti in originale o in copia dall’Archivio Fotografico Toscano, ma ciò di cui si percepiva e pativa la mancanza era proprio la messa a disposizione di strumenti metodologici per la loro comprensione e il loro trattamento storiografico: mi riferisco ai casi per me emblematici dei numeri 9/1989 e 36/ 2002 dedicati alle fotografie di due famiglie borghesi, realizzate rispettivamente da Michele Cappelli e da Anna Müller Paoli. Ciascun insieme, a sé preso, costituiva un ottimo esempio di costruzione su scala temporale dell’immagine di un nucleo familiare realizzata al proprio interno, anzi, da uno solo dei suoi membri, ma non poteva essere questa la sola ragione che ne giustificasse la pubblicazione. Come le immagini di Cappelli nulla avevano a che vedere con il suo ruolo di pioniere dell’industria fotografica italiana così quelle della famiglia Paoli non potevano essere sbrigativamente (e generosamente) considerate un “raro e prezioso esempio (…) di home made communication” [659], lasciando poi tutto lo spazio redazionale alle ricche interviste e memorie che ricostruivano la vita di quella famiglia pratese. Rispetto a quello che fu uno degli ambiti di maggior interesse e di più consueta indagine, quello dei fondi e degli album di famiglia, la posizione espressa dai contributi pubblicati nel corso di più di un ventennio da “AFT” sembrava non essere né coerente né aggiornata rispetto alle ben più avanzate posizioni espresse in certi editoriali programmatici. Era sin troppo ovvio che non potevano essere le varie vicende familiari a rappresentare il nucleo di interesse degli studiosi al di fuori dell’ambito locale, costituendo semmai ciascuna di queste una delle possibili e concrete variazioni sul tema del rapporto tra famiglia e fotografia; variabili socialmente (e magari nuclearmente) connotate di un fenomeno che poteva essere indagato solo affrontando un’analisi comparativa che consentisse di individuare eventuali ricorrenze e mutazioni rispetto alle distinte tipologie di cui le stesse annate della rivista fornivano così ampia esemplificazione. Era questo un grave limite di molti interventi di argomento genericamente etnografico ospitati da “AFT”: quello di individuare e poi ancorare – sebbene non fosse poca cosa – ciascun nucleo di immagini al contesto e alla sua storia di produzione, ma considerandolo poi quasi come una monade, senza allargare lo sguardo intorno alle migliaia di altre immagini analoghe e tipologicamente fungibili; senza provarsi cioè a indagare le ragioni di certe costanti rappresentative, anzi riconducendole, e riducendole anche ogni volta a un loro ristretto particulare. Altro elemento di forte contraddizione e quasi di equivoco, del resto perfettamente corrispondente alle condizioni sopra descritte, fu la scarsa considerazione critica per le valenze e le modalità narrative degli album in cui quelle erano comprese, dai quali venivano estrapolate per la pubblicazione singole immagini, selezionate secondo criteri mai esplicitati e quindi arbitrari, negando così la funzione fondamentale dello stesso oggetto per il quale si manifestava interesse[660]. Notevoli indicazioni e spunti di riflessione si potevano ritrovare invece nei contributi che nel corso degli anni vennero dedicati al rapporto tra guerra e fotografia, nel quale possiamo comprendere, con una certa strumentale arbitrarietà, anche i testi dedicati a temi coloniali[661] (già considerati a suo tempo anche dalla “RSCF”), a cui accostare in un progressivo allargamento del cerchio, quelli relativi al postcolonialismo africano[662] e alla contemporaneità, in quello sforzo collettivo di “verificare l’impatto della fotografia nella società” esemplificato da Tomassini in un ampio contributo dedicato alla diffusione della fotografia pornografica in Francia e in Italia comparso sul secondo numero di “AFT”[663] e proseguito poi, oltre che indagando i rapporti già segnalati tra guerra e fotografia, con una serie di interventi relativi alla Società Fotografica Italiana[664] e agli Alinari[665]; occasione ulteriore per constatare come purtroppo “gli studi più approfonditi sono stati compiuti sul versante della storia dell’arte, del rapporto della fotografia con la storia dell’arte, mentre meno sviluppati sono gli studi sull’impatto più generale sulla cultura, sui modi di vedere e percepire”[666]. Un limite che era espressione e conseguenza della breve e ancora incerta storia italiana di questa disciplina.
Il bilancio dell’esperienza di questi periodici, pur nei limiti e contraddizioni che si è cercato di rilevare (che erano quelli della cultura italiana coeva intorno alla fotografia) non può che dirsi largamente positivo sia per la funzione di stimolo svolta nel confronto dello sviluppo degli studi in Italia, sia per i suggerimenti o gli orientamenti metodologici forniti. Pur nelle palesi diversità di approccio e, ancor più, nella differente coerenza di impostazione che ha caratterizzato ciascuna di quelle iniziative, l’indicazione che le accomunava tutte riguardava il riconoscimento della fondamentale necessità di uscire dagli ambiti angusti dello specifico per considerare la fotografia e la sua storia in relazione ai vari contesti, quindi alle diverse culture – non solo disciplinari – in cui essa di volta in volta si era o era stata collocata. Una indicazione questa che andava messa in relazione se non proprio fatta derivare dalle posizioni espresse da Giulio Bollati giusto in apertura degli “Annali” einaudiani del 1979, poiché quei periodici si proponevano di andare oltre quella “zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”[667] Era cioè indispensabile che quelll’effetto si tramutasse in riflessione metodologica e poi storiografica, vuoi proponendosi di “scrivere non di storia della fotografia, e nemmeno di storia attraverso la fotografia, ma di storia e fotografia” (“AFT”) vuoi privilegiando “studi e ricerche scientifiche soprattutto sulla storia della fotografia italiana, anche in connessione con altre discipline” (“Fotologia”), vale a dire sottoponendo “le fotografie al setaccio di griglie diverse, dalla psicologia della percezione all’economia, dalla teoria dell’informazione alle scienze sociali, dalla tecnologia alla storia dell’arte, tanto per fare alcuni esempi.” (“RSCF”).
La fotografia e le arti: studi sul Novecento
La serie di mostre del 1979 aveva fornito un quadro sintetico delle conoscenze relative al primo secolo di fotografia italiana, ulteriormente approfondite nel saggio redatto da Marina Miraglia per la “Storia dell’Arte” einaudiana. Restava invece in gran parte da conoscere e approfondire il Novecento, in particolare l’arco compreso tra le due guerre mondiali, rispetto al quale i contributi del decennio precedente e i saggi di Bertelli e Bollati avevano fornito solo alcune prime indicazioni e suggestioni, per quanto utili e feconde. Poco altro risultava allora disponibile[668]: i primi studi di Giovanni Lista sui rapporti tra futurismo e fotografia; le monografie dedicate ad autori impegnati ben oltre lo specifico fotografico (Boggeri, Grignani, Veronesi); la riscoperta di Giuseppe Pagano fotografo e non ultimi, di minor peso ma di ben maggiore diffusione, i supplementi de “Il Diaframma -Fotografia italiana” dedicati ad alcune figure centrali del nostro modernismo. Nel nuovo decennio presero corpo una serie di progetti espositivi che si proponevano di indagare alcuni degli elementi cruciali della scena artistica e culturale italiana dei primi decenni del XX secolo (il Futurismo, gli anni Venti, gli anni Trenta) e che divennero occasioni per collocare e studiare contesti nei quali ruoli, funzioni e presenza della fotografia erano ormai incommensurabilmente distanti da quelli espressi dalla cultura ottocentesca e oltre, fino alle prime manifestazioni del pittorialismo.
Forse per la prima volta in Italia, la fotografia venne ospitata all’interno di una grande mostra monografica d’arte in occasione dell’esposizione dedicata alla Metafisica, aperta alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel maggio-agosto 1980, per la cura di Renato Barilli e Franco Solmi. L’intervento di Zannier, curatore della sezione, si limitava però più prudentemente e correttamente a parlare di “fotografia in Italia negli anni Venti”[669] invece di analizzare possibili nessi e relazioni col movimento rappresentato da De Chirico e Carrà; anzi riconosceva in apertura che “la nostra produzione fotografica rivela, quasi un test proiettivo, il provincialismo, la confusione ideologica, il sottosviluppo culturale del nostro territorio, specialmente nel periodo tra le due guerre, quando senza vie d’uscita, siamo penetrati nell’oscuro imbuto del fascismo”, mentre “negli anni che hanno preceduto il primo conflitto mondiale vi furono episodi di rilievo nella storia della nostra fotografia, sia nel settore giornalistico (Luigi Barzini, Luca Comerio …) che in quello sperimentale (il ‘fotodinamismo’ dei fratelli Bragaglia); ma non vennero considerati con sufficiente attenzione e convinzione.” “Neppure il ‘secondo futurismo’ – proseguiva lo studioso – promosse una seria ricerca sul segno fotografico e si dovette attendere sino al 1930” la redazione del Manifesto di Marinetti e Tato poiché, infine, “nessuna alternativa [era] possibile all’artigianato e al pittoricismo (…) perché la fotografia, quando non è fascista (…) è borghese, stereotipata, convenzionale.” Riprendendo una lettura del fenomeno già avanzata da Giuseppe Turroni[670], Zannier considerava il mondo fotoamatoriale rinchiuso su se stesso e non solo: “culturalmente reazionari, i fotografi rimangono invischiati nel miele del romanticismo di maniera e si soffermano in inutili diatribe.” Da quel desolante panorama si salvavano solo alcuni (Achille Bologna, Cesare Giulio, Stefano Bricarelli, Alfredo Ornano, Mario Bellavista e pochi altri) senza provarsi poi a comprendere dove si fosse formata la loro diversa cultura visiva se molti di questi – come i torinesi -erano legati a una rivista come “Il Corriere Fotografico”, che poco prima era stato tacciato (non senza una qualche ragione) di promuovere una “fotografia che sfiora costantemente il kitsch ed ha come modello Fontanesi, Segantini, Corot, Turner [sic], piuttosto che De Chirico o Morandi.” Secondo Zannier solo alcune figure di proto-reporter come Adolfo Porry-Pastorel e qualche rappresentante del nascente fotogiornalismo, nonostante la ferrea censura fascista, indicavano allora direzioni nuove della pratica fotografica, mentre uno spazio innovativo – come aveva già indicato Antonio Boggeri nel 1929 – era offerto dall’utilizzazione delle fotografie nella grafica e nella pubblicità, sottraendole “all’edonismo del ‘fotografo-artista’ ”, ma anche qui “il regime accolse benevolmente il geometrismo dei fotografi modernisti” poiché di fatto “non esisteva una fotografia clandestina”; ciò che ancora oggi pare essere un dato indubitabile. Un testo più politico che storico critico, che solo a grandi linee si soffermava ad analizzare le modalità espressive, a comprendere influenze e derivazioni per provare a dare conto di atteggiamenti e (mancati) ruoli sociali. Una condanna senza appello che certificava una distanza incommensurabile della fotografia italiana dalla cultura visiva internazionale, magari dalla cultura tout court, confermando forse involontariamente un secolare pregiudizio.
Di taglio più compiutamente critico l’intervento di Claudio Marra che apriva con due lunghe citazioni parallele di De Chirico e Proust per riflettere su cosa “può esserci di comune tra la poetica della metafisica e la poetica della fotografia nel suo complesso”[671], secondo una prospettiva “culturologica” qui preferita al “confronto tra metafisica e fotografia, la strada fiscalissima della ricerca di punti di contatto e di vicinanze, esclusivamente espressivo-formali. (…) Tale strada si dimostra però subito impraticabile, se non altro perché come indiscutibilmente ci fanno capire gli autori presenti in mostra, la ricerca di quegli anni, in Italia, seguiva tutt’altre direzioni. In più imboccando tale strada di confronti formali, si rischierebbe subito di incappare nel classico errore di chi piega le ragioni di un settore debole (la fotografia) a quello di un settore forte (la pittura).”[672] Precisazione di indubbia chiarezza e senso ma viziata da una selezione (quella per la mostra) di cui non erano dichiarati i criteri e i limiti e che quindi correva il rischio di trasformare il giudizio in un corto circuito tautologico, fondato sull’ipotesi – più arrischiata che radicale – che “non è esistita una fotografia formalmente metafisica perché non ce n’era bisogno, essendo la fotografia, nel suo complesso, per scelte di poetica, assai vicina, se non addirittura coincidente, con le scelte operate dalla metafisica.” Consapevole della difficoltà di sostenere sino in fondo tale assunto, pur giocato criticamente in modo accattivante, lo studioso riconosceva poi, quasi a margine, che “verso gli anni quaranta, quando ormai la stagione ufficiale della metafisica si è esaurita da un pezzo, la fotografia italiana improvvisamente scopre e fa sue soluzioni stilistiche e compositive che si potrebbero certamente definire, senza difficoltà alcuna, metafisiche.” La questione della storia, e della storia della cultura in particolare, temporaneamente scacciata dalla culturologia tornava ad affacciarsi e a porre le proprie ineludibili domande.
Negli stessi mesi in cui Bologna ospitava la grande mostra dedicata alla Metafisica si apriva a Torino l’altro importante evento espositivo italiano di quell’anno, che prese il nome dal manifesto firmato da Balla e Depero nel marzo 1915 sulla Ricostruzione futurista dell’universo[673]. Il ricco ed articolato progetto curatoriale di Enrico Crispolti intendeva affrontare e mostrare “i compresenti livelli comunicativi” e la “totalità dell’intervento creativo futurista”, anche in ambito fotografico quindi, ma con una comprensione della rilevanza del fenomeno che si sarebbe voluta migliore.[674] Le prime fotodinamiche erano infatti poco più che citate ma non specificamente analizzate, poste anzi in second’ordine rispetto al ruolo di A.G. Bragaglia come pubblicista, gallerista e regista di un film sperimentale come Thais, forse anche perché per Crispolti era necessario stigmatizzare “l’insensatezza del voler ridurre la questione [della primogenitura Balla Bragaglia a proposito delle immagini cinetiche] in termini di scoperta di modi di visualizzazione del movimento (che erano in realtà già noti), anziché di significato particolare dell’uso di tali modi.” Uno spazio solo di poco più ampio era dedicato alla fotografia negli anni del secondo futurismo e in particolare alla figura di Tato (Guglielmo Sansoni) e al Manifesto della fotografia futurista da lui firmato con Marinetti nel 1930, nel quale si proponeva “tutta un’eventualità di esiti fotografici nuovi (…) composizioni surreali e per assurdo di oggetti, cioè praticamente quasi delle sculture fotografiche”, ma senza poi indagare se e quale influenza o riscontro il Manifesto ebbe sulla fotografia, anche solo italiana, e sulle (poche) mostre di fotografia ‘futurista’ che si tennero in quegli anni[675].
Nel 1979 Giovanni Lista aveva dedicato alla fotografia futurista un primo, importante studio monografico, dando corpo a un tema non inedito ma che da quella avrebbe assunto una consistenza e un interesse sempre maggiori. L’analisi condotta in quella occasione si estendeva a vasto raggio considerando “tre elementi di indagine: le conseguenze e le implicazioni concettuali che l’immagine fotografica ha prodotto nelle più diverse manifestazioni del pensiero umano (…); il reciproco rapporto di influenza e di stimolo che è intercorso tra la fotografia e le arti plastiche; infine la qualificazione estetica della fotografia. (…) Nel suo aspetto più specifico, tutta la storia della ‘fotografia futurista’ è innervata dai più diversi tentativi di rivitalizzare l’immagine nell’intenzione di cogliere la manifestazione interiore della realtà nel suo farsi per e attraverso lo sguardo.”[676] L’uso degli apici per qualificare il proprio oggetto di studio corrispondeva a una relativizzazione del concetto stesso e alla varietà poetica ed estetica delle manifestazioni che Lista intendeva sottoporre a verifica. “La problematica affrontata in quest’opera – scriveva – (…) lascia appunto perplessi circa l’esistenza di una ‘fotografia futurista’ quale categoria formale autonoma. (…) In realtà anche nel campo della fotografia il futurismo rimase imbrigliato nel sistema dell’immagine rappresentativa allo stesso modo di quanto avvenne in pittura. In questo senso, Bragaglia ha tentato di fare del ‘futurismo fotografico’ piuttosto che della ‘fotografia futurista’. Tutto ciò che di nuovo vi fu nella fotodinamica venne fuori conseguenzialmente, imponendosi per virtù della sensibilità ottica del mezzo fotografico e non rispondendo ad un’ipotesi creativa preordinata.” [677] Due anni più tardi lo studioso curava per il Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris la mostra sulla Photographie futuriste italienne, 1911-1939[678], in cui almeno in termini di titolazione, e quindi di comunicazione anche mediatica, le precedenti cautele apparivano superate. Nel Prologo l’autore ribadiva come sino a quel momento fosse stata solo l’opera di Anton Giulio Bragaglia[679] a richiamare l’attenzione degli studiosi, mentre quell’esposizione voleva essere “il risultato di un tentativo di ricostruzione di un fenomeno culturale nella totalità dei suoi aspetti.”; per queste ragioni aveva riunito “opere di artisti futuristi che si sono dedicati alla creazione fotografica; opere di professionisti che hanno guardato all’estetica fotografica, e infine opere di artisti legati a due altre correnti dell’avanguardia italiana, l’Immaginismo e il movimento di Campo Grafico”, con i primi fotomontaggi di Veronesi e le prime composizioni di Boggeri. Un arco di tempo – di cui individuava quattro fasi – che si estendeva per circa un ventennio a partire dal 1911, nel corso del quale, contrariamente all’opinione comune, “il futurismo italiano non ebbe alcuna dimensione monolitica”, comprendendo sotto quell’etichetta semmai l’idea comune di un “combattimento per il futuro inteso come avvento di una nuova cultura.” Un’interpretazione basata sull’assunto che “la ricerca fotografica d’avanguardia è nata in Italia, al volgere del primo decennio del secolo, sotto l’impulso delle idee estetiche elaborate dal futurismo. Ma di fatto, era la pittura futurista che, per prima, aveva saputo trarre dalla fotografia alcune delle sue migliori ipotesi di lavoro per la creazione di un’arte moderna. Si perpetuava così, in forme nuove, il reciproco scambio che i due codici dell’immagine, la pittura e la fotografia, intrattenevano a partire dalla metà dl XIX secolo.” Con la successiva mostra del 1985 l’indagine di Lista si allargava ulteriormente ai rapporti tra “creazione fotografica e immagine quotidiana”[680], a partire dalla considerazione che “la riscoperta di opere fondamentali, attuata in questi ultimi anni, non esclude però la necessità di ricostruire le vicende e il tessuto connettivo della creazione fotografica delle avanguardie. (…) Considerata sempre in termini di opera e di creazione, la fotografia d’avanguardia apparirebbe tuttavia come esperienza parallela alla pittura laddove chiede invece di essere rivisitata in funzione dell’odierna ‘civiltà dell’immagine’. In altre parole, non si tratta più di individuare l’artista che ha firmato il capolavoro, ma di reperire la globalità di una prassi comportamentale tra effimero e creazione d’immagine.” Questa riflessione conteneva più di un elemento di interesse storiografico, non circoscrivibile al solo studio delle avanguardie, non tanto per la novità dell’impostazione quanto per la chiarezza con cui faceva sintesi dei problemi. La necessità del “superamento dei vecchi orizzonti” (condiviso ampiamente anche da altri giovani studiosi come Marra) implicava infatti un mutamento di paradigma, che del resto ben si prestava allo studio di una produzione estensiva come quella fotografica: dalla singola opera al tessuto connettivo, dall’eccezionalità alla globalità della prassi, secondo una logica storico critica che in quegli anni costituiva ormai patrimonio comune per altre aree di studio contigue quali l’architettura e la storia dell’arte, fortemente influenzate e permeabili al più ampio dibattito politico dei due decenni precedenti e di cui l’affermarsi stesso del concetto di bene culturale (contrapposto quasi politicamente a quello di opera d’arte) non costituiva che la testimonianza più evidente. Per queste ragioni Lista prendeva in considerazione tutte quelle produzioni fotografiche in cui fosse possibile riconoscere un legame di qualsiasi grado con l’esperienza e l’estetica futuriste; scopriva “occasioni segrete e risvolti molteplici che vanno dal documento iconografico all’opera, unendo, senza soluzioni di continuità, la banalità del quotidiano alla creazione”, secondo un procedere per “assi di differenziazione e di schedatura” applicati a generi quali la ritrattistica, la documentazione di opere disperse e il reportage di azioni teatrali, ma anche – nello specifico – la fotodinamica vera e propria, i fotomontaggi e la produzione di immagini in cui “la fotografia emblematizza il gesto comportamentale, o la posa propagandisticamemte improntata in studio, ma proponendosi comunque come iconografia paradigmatica dell’arte-vita futurista.”[681]
Nel catalogo della grande mostra parigina dedicata a Les Réalismes (1980) Zannier riproponeva l’idea del “test proiettivo” per studiare la produzione italiana tra le due guerre, introducendo sin dal titolo la dicotomia illusione/ realtà, dove – pare di capire – il primo termine doveva corrispondere alle manipolazioni indotte dal regime e alla produzione amatoriale, mentre il secondo riguardava la produzione, pur censurata, del reportage o le immagini “quasi naif di modesti artigiani come Amanzio Fiorini”[682]. La descrizione di quelle vicende aveva inizio con le fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia (a cui riconosceva anche il ruolo di fotografo) contrapposte alla banalità del pittorialismo e del ritratto di studio, mentre il nascente fotogiornalismo (Barzini, Comerio, Porry-Pastorel) era escluso dal dibattito sulla fotografia come arte, sebbene “con la guerra, è il reportage che finisce per assumere importanza”. Il testo procedeva restituendo in forma combinatoria i contenuti del saggio redatto per la mostra dedicata agli Anni Venti (Zannier 1980c) ma con un di più di riguardo per le modalità della comunicazione fotografica del regime e qualche aggiornamento (Longanesi, Pagano), per chiudere infine con l’Annuario Domus del 1943.
La successiva mostra milanese dedicata agli Anni Trenta[683] ospitava in catalogo un saggio di Francesca Alinovi che restava rigidamente fedele alla categoria critica del postmodernismo, già adottata nelle sue prime interessanti riflessioni sulla fotografia[684], sino a rischiare qui l’anacronismo (del resto una delle tendenze pittoriche del momento) quando definiva gli anni Trenta come quelli “in cui il modernismo (…) si incrocia con una sensibilità postmoderna che, in termini più precisi, potrebbe essere identificata con la poetica del ‘realismo magico’ e con una certa foto artistica che si sviluppa in quegli anni”, facendo forzosamente coincidere le suggestioni letterarie di Massimo Bontempelli (autore a cui guardava anche Marra) col perdurante pittorialismo, solo lievemente aggiornato, che connotava la maggior parte della fotografia amatoriale, cioè ‘artistica’ ancora in quel decennio. Se possiamo attribuire e intendere quella posizione critica, manifestamente antistorica, come debito pagato alla moda critica del momento, così come alcuni equilibrismi semantici (“fotografia pura”/ “fotografi puri” ma senza che autore e concetto si corrispondessero) non di meno va riconosciuto al saggio della Alinovi il merito di aver delineato attraverso una rilevante serie di dati e di analisi delle fonti il contesto variegato e complesso della fotografia italiana e delle varie figure che vi contribuirono, anche se, di nuovo, era difficile concordare con la studiosa quando affermava che “sarebbe un errore considerare l’Italia degli inizi degli anni Trenta come bigottamente autarchica e strapaesana dal punto di vista culturale.” Se ciò fu certamente vero per molte riviste letterarie, di cinema e soprattutto di architettura, non ci sentiremmo di estendere il giudizio a quelle fotografiche, neppure a “Galleria” che pure costituiva l’edizione italiana di una testata internazionale. La stessa Alinovi pareva poi contraddire in parte il proprio assunto nel momento in cui riconosceva il ruolo svolto dalla produzione legata all’architettura e alla grafica pubblicitaria, nel cui ambito – strettamente modernista – “la sperimentazione (…) viene concepita come analisi metodologica interna delle possibilità di funzionamento del mezzo stesso”, mentre a detta della studiosa “i capolavori di foto artistica, in questi anni, ci vengono dati dal secondo futurismo (Tato) e da fotografi di studio come Luxardo, Ghitta Carell e Arturo Ghergo a Roma, o Badodi, Sommariva e Castagneri a Milano.” La rosa degli autori considerati era sorprendentemente ampia e variegata, così come non poteva che essere considerata una importante indicazione metodologica quella di avvalersi degli archivi dei fotografi e di considerare congiuntamente, nella produzione di ciascuno, la fotografia di ricerca e quella applicata, maggiormente condizionata dalla propria funzione d’uso e dalle esigenze della committenza ma anche, e per le stesse ragioni, più determinante nella formazione della cultura visuale del periodo. Un saggio affascinante, ricco di approfondimenti e suggestioni[685], ulteriore testimonianza di una scena critica metodologicamente attrezzata che si andava definendo e consolidando in quegli anni ma anche, per altri versi e specialmente dal punto di vista storico, sorprendentemente reticente: nella ricostruzione delle due contrapposte vie del modernismo di derivazione Bauhaus secondo la linea “Moholy-Nagy -Arnheim” e della “sensibilità postmoderna” dei cultori del realismo magico mancava infatti ogni riferimento al fascismo e al ruolo complesso che quella cultura politica svolse nei confronti dell’immagine, dei suoi usi come dei suoi produttori e utenti finali: una lettura veramente metafisica[686].
Indagini a scala territoriale
Nonostante i limiti riscontrati da molti, le sollecitazioni provenienti dalle numerose iniziative della fine degli anni Settanta stimolarono una fioritura di studi e ricerche conoscitive rivolte alla ricostruzione delle vicende fotografiche di ambito locale; una serie di indagini a cui diedero notevolissimo impulso le pubblicazioni periodiche, e in particolare “AFT”, da considerare in parallelo con le analisi condotte alle diverse scale territoriali, che a loro volta costituirono occasione di ulteriori messe a punto metodologiche, di approfondimento delle conoscenze ma anche di iniziative di conservazione e tutela del patrimonio considerato[687].
Valle d’Aosta
La Valle d’Aosta era stata di fatto esclusa dalle principali ricognizioni nonostante la disponibilità di alcune ricostruzioni[688], e la prima indagine sistematica che la riguardava[689] venne posta sotto il segno di una controversa riflessione pasoliniana: “non c’è progresso senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie [per le condizioni di vita anteriori]”[690]. Da quella suggestione derivava una narrazione quantomeno insolita, non essendo orientata alla ricostruzione storiografica in quanto tale, ma piuttosto, con intenzione più pragmatica e quasi corporativa[691], alla “rivalorizzazione” dell’impegno e della “cultura dei fotografi che ci hanno preceduto (…) per affrontare il problema della standardizzazione dell’immagine fotografica scattata oggi in Valle d’Aosta, povera dei valori di ricerca tecnici ed estetici come d’impegno espressivo, interpretativo e creativo”. Ulteriore scopo, come dichiarava una nota posta irritualmente in calce al frontespizio, era quello di favorire la creazione, poi non compiuta[692], “di una fondazione fotografica che sia fulcro e centro studi-archivio nonché spazio espositivo per la fotografia” avendo in mente verosimilmente il CSAC, a cui del resto faceva esplicito riferimento Lanfranco Colombo nella sua presentazione al volume, condividendo la necessità di “impegnare mezzi a salvare, prima che vadano del tutto dispersi (e Dio solo sa quanti ne abbiamo irrimediabilmente smarriti in questi decenni) tutti gli sparsi brandelli del patrimonio fotografico locale, regionale, nazionale.”[693] “Al di là di tutto – avvertiva prudenzialmente Colombo – di ogni eventuale, e inevitabile, menda; di lacune nell’attribuzione o nella datazione; di incertezze biografiche o storiche” da quella prima ricognizione del patrimonio fotografico storico valdostano emersero – anche se appena accennate – le figure di una ventina di fotografi attivi in Valle tra XIX e primo XX secolo, escludendo cioè i pur notissimi autori italiani e stranieri che l’avevano frequentata occasionalmente (uno per tutti: Vittorio Sella). Di ciascuno erano fornite sintetiche note biografiche seguite da una scelta antologica di immagini, ben riprodotte a colori ma con didascalie generiche[694] e sistematicamente prive di indicazioni in merito alla materialità dell’oggetto (tecnica, misure, supporti). Ne risultava non tanto un profilo (per quanto scarno) della storia della fotografia in Valle d’Aosta quanto un repertorio di immagini che al più contribuiva ad estendere la quantità di materiali disponibili all’analisi estensiva degli andamenti, delle variazioni, delle eventuali mutazioni (anche geografiche) dei generi più diffusi e consueti: dal ritratto (singolo e di gruppo) al paesaggio; mentre emergevano alcune figure di religiosi interessati alla ricognizione etnofotografica[695] delle loro comunità, una pratica e una produzione che in area valdostana sarebbero divenute oggetto di studio solo alcuni decenni più tardi[696].
Piemonte
Il 3 maggio del 1980 aveva aperto a Torino nelle prestigiose sedi di Palazzo Madama, Palazzo Reale e della Palazzina della Promotrice al Parco del Valentino una grande mostra dedicata alla Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna: 1773-1861, curata da Enrico Castelnuovo e Marco Rosci[697], che aveva tra i membri del Comitato scientifico Marina Miraglia ed anche, in una posizione più defilata e operativa, Piero Racanicchi quale componente della Giunta esecutiva. L’importante progetto aveva previsto e offriva una ricognizione a tutto campo perfettamente corrispondente al titolo e dedicava quindi ampio spazio alla fotografia, ospitata nelle sale di Palazzo Reale in una sezione a sé che adottava una partizione tipologica (la fotografia, appunto) che si differenziava nettamente dai criteri storici o tematici con cui erano state individuate le altre (Ancien régime, Restaurazione, Architettura e urbanistica ecc.), che pure in alcuni casi ospitavano importante documentazione fotografica[698]; forse la testimonianza di una perdurante difficoltà di rapporto con la fotografia e la sua cultura, analoga – sebbene su piani e per ragioni differenti – a quella espressa giusto negli stessi giorni da Roland Barthes, per il quale “il nome del noema della Fotografia sarà quindi (…) l’Intrattabile.”[699] Pur vivendo ancora questa condizione di separatezza quella iniziativa riconosceva, credo per la prima volta in un progetto di tali dimensioni, l’imprescindibile necessità di considerare opportunamente il ruolo della produzione fotografica nello studio della cultura visuale di un periodo che comprendeva gli anni della sua invenzione e della sua prima massiccia diffusione professionale e sociale.
La possibilità di delineare una convincente sintesi di quella attività nel Regno di Sardegna era favorita da una precoce per quanto disomogenea fioritura di studi recenti[700], in parte confluiti nelle schede regionali redatte per la mostra dedicata alla Fotografia italiana dell’Ottocento (Falzone del Barbarò per Piemonte e Sardegna; Marcenaro per la Liguria) mentre in termini metodologici si guardava semmai alla mostra del 1977 dedicata ai Fotografi del Piemonte, specie per quanto riguardava la riconosciuta necessità di una accurata descrizione dei materiali presentati. A Miraglia, che in quei mesi stava lavorano alla revisione delle proprie Note[701], venne affidato l’incarico di illustrare Le origini della fotografia nel Regno di Sardegna (1839-1861), mentre le schede dei circa centocinquanta oggetti in mostra, compresi alcuni apparecchi fotografici, erano a firma di Michele Falzone del Barbarò[702]. Il testo in catalogo apriva ricordando che “nella storia della fotografia dell’Italia preunitaria, il Regno di Sardegna occupa un posto di particolare rilievo per la precocità degli interessi subito accesisi intorno ai vari processi fotografici, interessi che si estrinsecano, con straordinaria coerenza, in una ricca produzione di immagini e in un’altrettanto copiosa serie di iniziative, grafiche ed editoriali, tendenti a sottolineare l’importanza del nuovo mezzo e insieme a divulgarne i principi. Queste caratteristiche [consentono] di guardare al Piemonte come allo Stato italiano in cui con maggiore chiarezza e con una più precisa determinazione, la fotografia sia andata man mano individuando i propri ruoli, imponendosi contemporaneamente come tecnica alternativa nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine.” A partire da questo assunto, forse eccessivamente generoso per quanto riguardava la pratica della “riproduzione dell’immagine”, cioè della documentazione del patrimonio artistico, il saggio si sviluppava per periodizzazioni caratterizzate da continui rimandi al contesto politico ma sacrificando un poco sorprendentemente, vista anche l’occasione e la sede, il confronto con la produzione pittorica e grafica coeve, soffermandosi invece sull’aspetto tutto nuovo della modernità tecnologica connessa alla sua meccanicità”[703], quindi anche alla “riproducibilità seriale”, fenomeno che ne determinava la “forte connotazione culturale di diffusione dell’immagine e di veicolo di idee il cui diretto utente è la borghesia.”
Dopo la mostra torinese del 1977 l’area piemontese aveva visto un infittirsi di iniziative che oscillavano tra la rievocazione nostalgica[704], esito nei casi migliori di una accurata indagine d’area[705], e la costituzione di veri e propri repertori, per certi versi strutturati sul modello adottato da Becchetti nel 1978 ma dedicati a una sola e specifica tipologia, come fu per il volume che nello stesso 1980 Claudia Cassio dedicò ai fotografi ritrattisti attivi. Scelta singolare e non motivata, a cui peraltro corrispondeva in premessa un’affermazione che è difficile conciliare con gli esiti della grande mostra che era ancora in corso al momento della pubblicazione: “Non è ancora possibile al presente – scriveva l’autrice – comporre in una storia notizie e problemi sulla fotografia in Piemonte; i dati che mano a mano riemergono, durante la ricerca o nelle pubblicazioni di settore – fino ad oggi articoli o schede di catalogo – sono frammentari ed ognuno di essi rimanda ad argomenti e studi diversi, come l’economia, la sociologia e la storia della cultura figurativa.”[706] Era in quella presunta incertezza che doveva essere maturata la necessità di circoscrivere l’oggetto di studio[707], ma anche dalla convinzione che “la fotografia in Piemonte ha peso ed autonomia significativi; ma la sua storia pare piuttosto legata al genere del ritratto”. Affermazione paradossale, che pareva ignorare volutamente non solo i più recenti contributi ma la stessa fondamentale esperienza della mostra del 1977, alla cui realizzazione aveva partecipato la stessa Cassio.
Considerando gli autori piemontesi oggetto delle prime monografie semmai si aveva conferma che le specificità regionali, ammesso che potessero essere riferibili a un genere, dovevano essere ben altre: ne furono riprova non solo la presentazione dell’archivio di Secondo Pia ad opera di Luciano Tamburini e Michele Falzone del Barbarò, che consentì di far conoscere a un più ampio pubblico le preziose “ricreazioni fotografiche” che questo colto amateur dedicò al patrimonio architettonico e artistico piemontese[708], da sempre ben note agli addetti ai lavori e ai funzionari di Soprintendenza, ma anche, e forse soprattutto, le due monografie che TCI, CAI e Museo Nazionale della Montagna dedicarono a Vittorio Sella ad un anno di distanza l’una dall’altra.
Liguria
Importanti nuclei di immagini di soggetto ligure erano stati esposti e studiati nella mostra sul Regno di Sardegna, costituendo di fatto il più significativo antecedente del volume dedicato alla Liguria da Giuseppe Marcenaro nel 1984, con una prima parte caratterizzata dall’alternanza tra scansione tecnologica (dagherrotipo, ambrotipi, ferrotipi) e cronologica, poi monografica (dalle firme più note agli anonimi). A questa seguiva una sezione organizzata per partizioni critiche riferite alle tipologie, ai generi e anche alle “retoriche dell’immagine”, in una commistione che poco contribuiva alla chiarezza e alla qualità del discorso, penalizzata anche da mediocri riproduzioni in bianco/nero[709] e da didascalie (pubblicate come apparato e in un elenco a parte) prive di qualsivoglia indicazione di data, tecnica, misure, per non dire delle collezioni di provenienza[710]. Dopo aver redatto la scheda regionale e alcune voci monografiche per la mostra del 1979 e dopo aver curato nel 1980 la mostra sui Fotografi Liguri dell’Ottocento, Marcenaro ritornava sul tema intendendo questo nuovo lavoro come un ulteriore Appunto per una possibile storia della fotografia in Liguria[711], esito di “sovrapposizioni che ho via via apportato a un’esile traccia originaria che, nel tempo, si è trasformata in articoli, saggi, nel catalogo di una mostra.” Questo approccio si segnalava per il suo positivo relativismo e per la conseguente sospensione di giudizio che portava l’autore a non assolutizzare gli esiti delle proprie ricerche; a dichiarare che quella proposta non voleva essere “la” storia ma una delle possibili storie della fotografia ligure, consapevole che “si tratta di operare una continua messa a fuoco: il soggetto, infatti, si sposta continuamente”, essendo necessario considerare e indagare “le implicazioni dell’immagine con la letteratura [come mostrerà in un contributo successivo], con l’estetica e in genere con la complessità del fenomeno cultura”[712], anche a discapito del contenuto e del valore documentario. Per queste ragioni, per il prevalere di un’intenzione specialmente attenta al contesto, l’analisi lo aveva intenzionalmente portato “a trascurare l’uso delle immagini in senso stretto (…) considerandolo troppo evidente e quindi ovvio.” Una presa di posizione interessante ma forse riduttiva e certo intrinsecamente contraddittoria se confrontata col fatto che – come affermava poco oltre – “occorre restituire al fotografo dell’Ottocento una sua precisa funzione, quella di testimone, narratore e interprete del contesto in cui è vissuto.”
Lombardia
Solo quantitativamente più ricca appariva la produzione editoriale lombarda della prima metà degli anni Ottanta, di fatto circoscritta a Milano per quanto riguardava la storiografia propriamente fotografica[713], mentre si segnalavano alcune iniziative di documentazione storico sociale in area cremonese[714]. Nonostante la scheda firmata da Palazzoli e le opere di importanti autori milanesi esposte alla mostra del 1979, dopo un primo libro di taglio revivalistico[715] il Civico Archivio Fotografico di Milano pubblicava nel 1982 un volume dedicato alla Milano di Icilio Calzolari[716], realizzato con immagini per la maggior parte provenienti dalla collezione di Stefano Bisconcini, autore anche delle brevi note biografiche, mentre il succinto testo introduttivo di Giuseppe Turroni costituiva poco più che il sunto della scheda del 1979, con corredo di notazioni e analisi che si faticava ad assegnare a quello che all’epoca era considerato uno dei più importanti critici italiani: “Calzolari – scriveva Turroni – si dedica soprattutto alle riprese degli aspetti urbanistici e civili di Milano. Il taglio non è del genere descrittivo-turistico caro (…) a non pochi fotografi meridionali. Egli attua scorci, a volte prospetticamente arditi e comunque sempre alquanto espressivi, di questa ‘bella capitale’ che ama sopra ogni cosa il progresso e l’ordine.” Di non migliore qualità scientifica ed editoriale il successivo volume[717], giocato in parte sul confronto ieri/oggi della scena urbana, secondo una consuetudine piuttosto diffusa in quegli anni, che fornì però almeno l’occasione per ricordare che “il Castello Sforzesco custodisce, fra l’altro, una raccolta fotografica fra le più nutrite e rigorose. (…) I pezzi più antichi sono dagherrotipi e calotipi”. Essendo la modificazione urbana il tema d’indagine, delle fotografie si forniva localizzazione (titolo) e data, ma senza quasi mai indicarne l’autore, forse non riconosciuto. Così dev’essere accaduto per la nutrita serie di Giuseppe Beltrami, di cui pure negli “Annali” einaudiani erano state pubblicate alcune immagini, a riprova di una assenza di osmosi, di una impermeabilità totale tra i disparati mondi che pure ruotavano intorno alla fotografia storica.
Nello stesso 1985, nella serie dei “Quaderni” della “Rivista milanese di economia”, finalmente si pubblicava il primo studio metodologicamente attrezzato sull’attività fotografica a Milano sul finire del XIX secolo, ad opera di una storica dell’arte e di un fotografo: Giovanna Ginex e Carlo Cerchioli[718]. Sebbene l’attenzione prevalente fosse dedicata alla ricostruzione delle vicende del 1898, lo sguardo era esteso all’intero contesto dell’attività fotografica in città, lamentando le difficoltà della ricerca, dovute al fatto che “nel campo ancora tutto da esplorare delle origini della fotografia in Italia e a Milano, ci si imbatte in una disarmante mancanza di coordinamento tra i vari studi. Ci troviamo di fronte ad una serie di lavori di ricerca in cui troppo spesso le valutazioni dei singoli fatti e dei vari personaggi sono falsate dalla mancanza di un contesto più generale di riferimento. La necessità di una paziente ricostruzione della realtà degli studi fotografici milanesi, di una vera e propria microstoria della fotografia delle origini, diviene pressante appena ci si avventuri ad analizzare, come in questo caso, fotografie che non rientrano nei consueti canoni e generi iconografici frequentati dai professionisti dell’epoca.” A nuovi obiettivi di ricerca dovevano corrispondere nuovi e più attrezzati strumenti metodologici quindi, scontando le diffidenze derivate dal fatto che “chi si è occupato finora delle ‘terribili’ giornate del maggio ‘98’ non ha considerato come fonte documentaria il materiale fotografico prodotto in quei giorni sulla piazza, durante e dopo gli scontri.” Un doppio fronte di difficoltà quindi, a cui gli autori risposero sottoponendo a verifica i dati e le ricostruzioni con una lettura condotta su più piani: dalle modalità narrative adottate dai fotografi ai meccanismi censori e alla diffusione selettiva e mirata che queste immagini ebbero sugli organi di stampa.
Anche la ricostruzione delle più generali vicende della fotografia a Milano, condotta da Silvia Paoli nel 1989 rielaborando la propria tesi di laurea per le pagine di “AFT”[719], ricorreva al confronto con “i documenti dell’epoca (riviste, articoli, manuali, trattati) al fine di tracciare un quadro il più possibile rigoroso di quello che fu il milieu dei primi fotografi nei suoi legami con gli ambienti culturali, artistici e scientifici; al fine poi di interpretarne il materiale fotografico a partire dal pensiero dell’epoca circa le immagini e le nuove tecniche di riproduzione della realtà”[720]. Per delineare il quadro generale di riferimento la studiosa adottava le partizioni tecnologiche utilizzate da Gernsheim (dagherrotipia e calotipia, collodio, gelatina bromuro d’argento), individuando per ciascuna le caratteristiche salienti in termini di figure autoriali e di produzione ma sacrificando – quasi di necessità – l’analisi iconografica delle opere. Ne emergevano alcuni aspetti salienti, come la precocissima produzione di vedute tratte da dagherrotipi (Artaria, 1840) che, sebbene ancora tradotte manualmente[721], anticipavano di molto le produzioni che poi avrebbero caratterizzato i maggiori centri di attrazione italiani o la successiva nascita di una vera e propria industria di settore e di iniziative editoriali “volte a diffondere il nuovo sapere scientifico”[722], dando avvio a una tendenza che si sarebbe consolidata nei decenni successivi, quando “si andava precisando il carattere imprenditoriale e commerciale della regione lombarda.”[723] In quel clima avevano preso forma due fenomeni di differente natura e dimensione, nodali però per la cultura fotografica nel suo insieme, quali la proposta di costituzione di un Archivio fotografico pubblico presso la Biblioteca Braidense[724], e l’irrompere sulla scena milanese di quegli “irregolari” di cui per primo aveva parlato Vitali.
Veneto
La ricca scheda dedicata al Veneto nel catalogo della mostra del 1979, firmata da Alberto Prandi, aveva tracciato il primo profilo per una storia regionale, riconoscendo le coordinate culturali in cui si era manifestato e poi consolidato l’interesse veneziano per la nuova invenzione, soprattutto in ambito scientifico ma sotto l’influenza di una tradizione settecentesca di critica delle arti particolarmente attenta, agli “ordigni [destinati] a meglio conoscere e a rappresentare la natura.”[725] Centrali risultavano allora i legami dei pittori con la fotografia, a partire da Domenico Bresolin, e la grande questione (non solo veneziana) del rapporto con la nascente e crescente industria del turismo e delle risposte imprenditoriali a diversa scala che ne derivarono, sino ai grandi editori come Ongania. Negli anni immediatamente successivi l’interesse si era rivolto alla produzione di uno dei principali studi ottocenteschi, quello di Carlo Naya[726], sollecitato anche da una mostra alla George Eastman House di Rochester[727], che proprio dall’analisi della fortuna commerciale di questa come di analoghe imprese fece derivare una interessante ipotesi storiografica a proposito dello scarso interesse dimostrato sino ad allora dagli studiosi anglosassoni nei confronti della produzione italiana del XIX secolo: “Le storie generali della fotografia relative ad altri paesi non sempre definiscono il modo migliore per affrontare la comunità fotografica italiana. Il grande successo commerciale di alcune firme, il numero di copie vendute, il basso prezzo di vendita, la grande quantità di manodopera necessaria per eseguire il lavoro sono tutte cose che hanno ridotto l’impressione che esistessero personalità veramente artistiche o, se c’erano, che fossero distinguibili dall’enorme massa di prodotti commerciali che li circondavano.”[728]
Altri aspetti, altri nodi storiografici e critici sollevati dalla più precoce produzione veneziana, vennero studiati da Paolo Costantini nei primi numeri di “Fotologia”. Derivati in parte dalla sua tesi di laurea, per compattezza di temi e di trattamento si potevano leggere come un lungo saggio a puntate pubblicato nell’arco di circa un lustro piuttosto che come contributi autonomi; tutti caratterizzati da un procedere metodologico che muoveva da una condizione specifica, un personaggio, un’impresa, per interrogare e definire il contesto che intorno a quello si formava e viveva, nella consapevolezza che “non è possibile giudicare il valore della nuova ‘presenza’ della fotografia ignorando i presupposti culturali e i complessi e molto particolari meccanismi che regolano il dibattito artistico ottocentesco. Questi meccanismi ci aiutano a capire i processi di formazione dell’idea fotografica, analizzando i rispettivi e sempre diversi ruoli degli storici e dei critici d’arte, degli insegnanti delle Accademie, degli architetti e dei restauratori.”[729] Da qui l’interesse per figure quali John Ruskin, Pietro Selvatico Estense, Camillo Boito e Ferdinando Ongania, attraverso le quali indagava le diverse condizioni e il mutare dei rapporti tra la fotografia, l’architettura[730] e le arti, quindi anche con i modelli e gli stereotipi di raffigurazione delle città e dei monumenti. Nelle sue ricostruzioni, i commenti di Alexander John Ellis si incrociavano, anticipandoli, con quelli di Selvatico[731], e si approfondiva l’analisi della produzione di vedute, segnata per Costantini da un cambio di paradigma determinato dall’utilizzo non mediato dell’immagine dagherrotipica rispetto alle prime serie pubblicate da Artaria e da Lerebours[732]. Sulla produzione veneziana di Ellis Costantini sarebbe ritornato ancora a pochi anni di distanza[733], analizzando più minutamente l’articolazione sintattica di quella serie e collocandola sullo sfondo recentissimo della prima diffusione della notizia dell’invenzione a Venezia e della prima circolazione di questa inedita tipologia di immagini; un evento che determinava “una rottura con una tradizione di prassi di studio e [introduceva] una prassi nuova, che si svolge secondo regole differenti entro un differente universo di discorso.”[734]
Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige
Nell’anno delle grandi mostre veneziane e fiorentine Zannier aveva dato alle stampe gli esiti della propria ricerca sulla Fotografia in Friuli 1850-1970[735], primo volume della collana “Fotografia per regioni”, interrotta dopo soli due titoli, che intendeva delineare storie regionali conducendo il discorso sino alla contemporaneità. Un’opera che si proponeva come “una cronistoria per immagini [che] sollecita una lettura ‘aperta’ sulla vicenda umana di una intera regione, che la fotografia propone anche tramite l’accumulo, la sovrapposizione di significati, che il nostro sguardo curioso indaga, alla ricerca, si spera, non solo del ‘tempo perduto’, ma della nostra attuale identità.” Sembrava emergere da quelle parole l’intenzione di redigere non una storia della fotografia ma piuttosto una storia attraverso, sebbene poi l’ampio testo introduttivo circoscrivesse a quella la ricostruzione delle vicende, dedicando all’indispensabile quadro storico economico uno spazio di poco maggiore a quello che gli era stato riservato nella scheda per il catalogo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, redatta dallo stesso Zannier con Guido Sedran, che già in apertura avvertiva come “oltre che dalla situazione politica e territoriale, lo sviluppo della fotografia nella zona friulana e in quella triestina è stato condizionato dalla differente economia delle due aree”[736], una sola delle quali – la più povera e arretrata – venne allora presa in considerazione. Il saggio confermava quanto il titolo prometteva, con attente, capillari ricostruzioni delle biografie dei numerosissimi fotografi considerati, attivi sia a Udine sia nei centri minori, lette sempre in relazione alla scena italiana. A questo esito non corrispondeva però altrettanta cura editoriale nella pubblicazione delle immagini: non dico della qualità delle riproduzioni, certo penalizzata per ragioni economiche, ma delle povere didascalie, che tranne rarissimi casi (sei su centoquarantasei) non consideravano la tecnica e mai le misure. Forse per questa ragione, allora, per questa mancanza di attenzione filologica per la cultura anche materiale della fotografia non ne poteva che derivare una “cronistoria”, contraddicendo così lo stesso impegno tematico del progetto.
Il secondo titolo della collana, Fotografia nel Trentino. 1839-1980, curato nel 1981 da Floriano Menapace, era il risultato di una ricerca avviata per la propria tesi di laurea, discussa con Zannier di cui fu il primo laureato , che presentando la ricerca lamentava quanto “lo studio di questa fotografia [fosse] ancora condotto in modo quasi clandestino, tra la disattenzione della cultura ufficiale”[737]. Sulla scia del recente convegno di Modena indicava anche, come condizione per una conoscenza effettiva della storia della fotografia, la necessità di un censimento, la costituzione di una banca dati fondata su “un’esplorazione capillare, oltre che sistematica (…) un lavoro di ricerca in ogni archivio e collezione, pubblica o privata, senza naturalmente tralasciare l’album di famiglia, anche il più modesto”, nella convinzione che “la fotografia invecchia bene, per merito soprattutto della sua capacità di accumulare significati nuovi, che la storia via via sedimenta su di essa.”[738] Il testo di Menapace, segnato da una singolare interpretazione storica, secondo la quale “il periodo pionieristico della fotografia terminò con la decadenza del dagherrotipo”, pur non costituendo l’esito di un ancora impossibile censimento[739], sintetizzava le conoscenze sino allora note[740] arricchendole con gli esiti di nuove ricerche. La ricostruzione dell’attività fotografica a partire dal 1839 consentiva di accrescere il repertorio dei fotografi attivi nella regione delineando sinteticamente l’attività e le opere dei maggiori, in un arco teso tra le polarità costituite da Giovanni Battista Unterveger e dal figlio Enrico, che segnarono la fotografia trentina sino alle soglie della modernità rappresentata poi da Sergio Perdomi e dai fratelli Pedrotti. Lo studio apriva richiamando la condizione storica del Trentino come “regione ai confini”[741], ponendo così un primo, necessario riferimento al tema, già allora piuttosto discusso[742], della qualificazione identitaria, nazionale, della fotografia, che altri consideravano “pressoché impossibile [da definire] (…). La situazione per quel secolo [XIX] appare molto complessa, con linee tangenziali, relazioni e dipendenze che sono progressivamente mutate in relazione alle vicende dell’unità nazionale. Inoltre il sovrapporsi di varie culture non consente che si possa individuare una tendenza espressiva italiana.”[743] Date queste premesse l’indagine non poteva che condursi avendo sempre ben presente il contesto storico politico ed economico e rifiutando “il ‘revival’ per il ‘buon tempo passato’”. A quell’impegno storiografico non corrispondeva però un’analoga cura per gli oggetti del discorso: la maggior parte delle fotografie era infatti stampata in un penalizzante monocromo grigio, con alcune, rare variazioni cromatiche tanto arbitrarie da apparire bizzarrie tipografiche[744]. In assenza di schede, le didascalie riportavano correttamente autore, titolo/soggetto, data e collezione di provenienza, ma solo saltuariamente fornivano indicazioni sulla tecnica, utilizzando anche qui la consuetudine, allora piuttosto diffusa (come si è già avuto modo di vedere) di riferirsi a quella del negativo e non del positivo pubblicato. Paradossale conferma di un rilievo critico espresso da Zannier nella stessa presentazione: “la disinformazione sulla fotografia, anche riguardo le sue tecniche elementari (quanti tra gli addetti ad archivi, biblioteche, musei, sanno riconoscere un dagherrotipo, un calotipo, una stampa all’albumina?) e quindi sui criteri e sui metodi di conservazione, è stata per lungo tempo motivo di disastri, spesso irreparabili, che oggi, con tutto il chiasso che s’è fatto attorno alla fotografia, non sono più giustificabili.”[745] Non potremo mai sapere le ragioni per cui le nefaste conseguenze di quel “chiasso” toccassero anche il volume curato da Menapace.
Emilia Romagna
Il contesto politico e culturale dell’Emilia Romagna favorì in quegli anni una ricca messe di iniziative di ricerca e di studio dedicate alla conoscenza del patrimonio fotografico storico[746], in particolare quale testimonianza e fonte per la definizione dell’immagine identitaria di quella regione.
Particolarmente significativo in tal senso il progetto relativo alle fotografie degli archivi Alinari coordinato da Andrea Emiliani, che muoveva da punti di vista disciplinarmente distinti e non necessariamente convergenti, quali la pianificazione (Pierluigi Cervellati), la geografia (Franco Farinelli), la percezione urbana (Carlo Gentili) e la Storia dell’arte (Massimo Ferretti), escludendo quindi, almeno nominalmente, la storia della fotografia in quanto tale ma proprio per questo mostrando quanto potesse essere necessario e produttivo lavorare intorno alla fotografia storica adottando punti di vista in grado di far emergere e porre in evidenza i legami complessi che ne hanno definito di volta in volta la posizione e il ruolo nei più svariati contesti culturali storicamente determinati. Così la concezione documentaria, apparentemente riduttiva, espressa da Cervellati consentiva di riconoscere a quel corpus di immagini la valenza di “documento di un preciso atteggiamento culturale e nello stesso tempo (…) di una ‘cultura del monumento’ che influenzerà metodi di analisi e criteri progettuali per tutti gli anni successivi”, riconoscendo seppur schematicamente due diverse tipologie nel “lavoro svolto sin dall’inizio dagli Alinari”[747], vale a dire la ripresa monumentale, che per ragioni di produzione e ricezione avrebbe trasformato il ‘tipo’ in stereotipo, contrapposta a quella ‘ambientale’ più rara, in cui “l’oggetto non è ‘messo in posa’: la foto diventa documento, messaggio, ricerca. Diventa ‘stato di fatto’ di quel momento. (…) Si esprime così il dualismo fra l’ ‘opera d’arte’ e il tessuto edilizio minore, fra ciò che appartiene alla storia del passato e del futuro e quello che si ritiene il quotidiano, il momento presente.”[748] Un’analoga tendenza alla restituzione ‘atemporale’ (quindi implicitamente astorica) del soggetto era riconosciuta da Farinelli anche nella rappresentazione del paesaggio, nella scelta dei temi come dei modi della rappresentazione, fornendo “un’immagine dell’Italia che soltanto negli ultimissimi anni [vale a dire con la mostra del 1977] si è iniziato a relativizzare. È stato proprio il carattere egemone di tale immagine, dovuto alla capillarità e all’intensità della sua circolazione e diffusione, a far dimenticare la natura soggettiva della visione spaziale a cui essa obbedisce, a fornire cioè al concetto di paesaggio una valenza oggettiva mai posseduta in passato.”[749] Questa funzione definitoria si accompagnava e si inseriva dialetticamente in un meccanismo che Carlo Gentili – richiamandosi a Lucio Gambi – definiva di “ricodificazione, ridimensionamento, riplasmatura e controllo dello spazio nei suoi patrimoni ambientali”. Non solo. La messa in atto di tali processi aveva importanti conseguenze anche sulle forme specifiche del discorso fotografico: “Se la tendenza al vedutismo, alla ripresa del paesaggio – urbano e no – poteva essere considerato un inevitabile lascito di quella cultura pittorica a cui per molti decenni la fotografia ancora soggiacque, è d’altra parte evidente che l’esigenza della documentazione a tappeto, che sostituisce man mano la predisposizione lirica dei primi ispirati pionieri, segnala l’affermarsi di un nuovo interesse verso lo spazio e verso l’ambiente e, ciò che più conta, di un nuovo tipo di committenza”[750], ma anche – aggiungo qui – la progressiva mutazione delle forme del racconto, che passava dalla necessaria e a volte magistrale sintesi dell’immagine singola alla più complessa articolazione sintattica delle serie, in cui le inevitabili influenze della tradizione iconografica permanevano semmai (quasi come residui) nei modi compositivi di ciascuna inquadratura. Ciò che insomma costituiva il valore immediatamente storico critico e quindi, in prospettiva, storiografico di questi interventi era il costante richiamo alla necessità richiamata da Massimo Ferretti di strutturare un discorso che doveva “continuare a dipanarsi fra rischi ed avvertenze” per evitare fin troppo facili fraintendimenti interpretativi, a partire dalla piena consapevolezza delle “ragioni seriali, costanti, programmate, che produttivamente regolavano queste immagini”; dal fatto che “la natura stereotipa di queste riproduzioni d’arte corrisponde alla loro realtà commerciale e alla loro specifica funzionalità culturale”[751]. Modalità e condizioni ampiamente riconoscibili nella produzione di tutta la “seconda generazione delle grandi dinastie fotografiche [a cui si doveva] una più infittita documentazione dell’arte e dell’ambiente storico; una, talvolta banale, riduzione schematica del ‘tipo Alinari’; come anche la sperimentazione convinta di rinnovati modelli visivi, più facilmente legati ad un’ambientazione naturale.”[752]
Umbria e Lazio
L’impegno di quegli anni oscillava quindi tra occasioni di riflessione metodologica e indagini estensive, come quella relativa all’Umbria condotta nel 1984 da Diego Mormorio e Enzo Eric Toccaceli, rinunciando “per una precisa scelta metodologica” al “tentativo di scrivere una storia dell’Umbria attraverso le immagini [per] indagare specificamente sul patrimonio fotografico dell’Umbria (e non sull’Umbria)”; per “tracciare un primo censimento dei fotografi (…) dalle origini della fotografia alla Liberazione”[753] in una regione di fatto esclusa dal panorama restituito dalla grande mostra sulla fotografia italiana dell’Ottocento, aggiungendo elementi alle prime indagini conoscitive avviate in quello stesso 1979 dalla Commissione fototeca dell’Istituto per la Storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione. Una proposta di qualità che non poteva essere inclusa in quel “crescente proliferare di libri, saggi, articoli, portfolios ecc. sulla storia della fotografia” per il quale uno studioso attento come Oreste Ferrari scriveva nel 1983 di provare “tedio crescente.” [754] Insieme al tedio quel testo conteneva anche una qualche incertezza di giudizio però, se a parere dell’autore “i protagonisti della storia critica” erano considerati Gernsheim e Keim, Benjamin e la Sontag e Newhall, “e, da noi, Vitali, Gilardi, Settimelli e Bertelli”. Singolare elenco di nomi, tanto per le presenze e gli accostamenti impropri (come quello tra Benjamin e Keim, che gridava vendetta) quanto per le poco cortesi assenze tra gli italiani: Miraglia, Quintavalle e Zannier, almeno, ma anche e soprattutto Silvio Negro, ricordato solo (e un poco ingenerosamente) quale pietra di paragone su cui “misurare l’ingente cammino percorso, il dilatarsi in ‘messa a fuoco impeccabile’, dell’orizzonte conosciuto” posto in atto col volume che stava presentando. Nonostante le riserve che una tale posizione poteva suscitare, restava condivisibile il giudizio sui “pochi avanzamenti compiuti verso quel sistematico vaglio delle conoscenze fattuali che pure deve restare il fondamento che verifichi l’atto critico, quale che ne sia l’orientamento metodologico. Poca e sporadica è stata l’indagine filologica, ossia documentale”, cioè – ci pare di intendere -della fotografia anche in quanto materialità costitutiva della sua natura di documento, che era un tema vivo e dibattuto in quegli anni di prima formazione di una cultura catalografica applicata a questa famiglia di immagini, richiamata in chiusura di presentazione ponendo il problema di “un patrimonio di documenti fotografici che reclama – e lo dico anche ‘pour cause’ – impegni di studio e conservativi da parte delle istituzioni, non inceppati da anguste pratiche quali le attuali, più solleciti a funzioni di trasmissione pubblica della conoscenza in senso permanente e non effimero.”[755]
Queste parole erano poste in apertura di un nuovo studio di Piero Becchetti dedicato a La fotografia a Roma dalle origini al 1915[756], in cui lo studioso raccoglieva e sistematizzava gli esiti del suo più che decennale impegno[757], offrendo una summa delle ricerche a scala locale condotte sino a quella data; un volume che avrebbe rappresentato non solo l’ineludibile punto di riferimento per ogni ricerca successiva ma anche un modello editoriale di pubblicazione, con una struttura fatta di testo, tavole e repertorio dei fotografi simile a quella adottata nel 1979 per il catalogo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, cui lo stesso Becchetti aveva collaborato redigendo alcune schede[758]. Pur nella consapevolezza del “grave ritardo, rispetto ad altre nazioni, degli studi sulla fotografia”[759], che poneva tra le principali cause della dispersione dei fondi fotografici antichi, Becchetti non pareva interessato ad alcuna riflessione storiografica né alle questioni iconografiche e tutto il suo impegno era rivolto alla ricomposizione fattuale delle vicende della fotografia a Roma e soprattutto alla preziosa ricostruzione delle biografie professionali dei circa settecento fotografi registrati in quel repertorio, applicando alla capitale il modello descrittivo adottato nel 1978 per Fotografi e fotografia in Italia[760]. Il volume si presentava con una periodizzazione canonica (Origini, Età del collodio, La fotografia per tutti), ma non per questo gli esiti furono meno rilevanti, per messe di informazioni tratte da fonti inedite o poco considerate e per una acribia filologica che gli consentiva di ridiscutere attribuzioni che parevano ormai consolidate, in particolare quelle a proposito del fondo Tuminello, in cui riconobbe la determinante presenza di immagini di Caneva, e quella del fondo intitolato a Ignazio Cugnoni, argomento di una monografia appena edita da Einaudi[761], del quale escluse di fatto una qualche significativa attività fotografica, assegnandone la prevalenza delle immagini a Carlo Baldassarre Simelli.
Campania e Calabria
Di ben altro rilievo metodologico l’indagine condotta da Daniela del Pesco sulla situazione napoletana, esito di un lungo lavoro di scavo e di approfondimento condotto nell’ambito della Scuola di perfezionamento in Storia dell’arte medievale e moderna dell’Università di Napoli. A partire dalla considerazione, di stampo ‘francofortese’, che “un’immagine non si coglie in modo esauriente se non attraverso la ricostruzione della sua funzione storica” [762], la ricerca era rivolta alla definizione delle condizioni sociali e culturali di “una produzione che oscilla tra la elaborazione sperimentale di una immagine documentaria e il conformismo di un’immagine commerciale, cioè tra la più convenzionale e turistica resa di un paesaggio genericamente pittoresco secondo la tradizione dell’incisione e della guache souvenir e l’approfondita ricerca espressiva sulle possibilità del nuovo mezzo di rappresentazione.”[763] Il riconoscimento e l’analisi di quella tensione bipolare, tutta interna e quasi costitutiva di quella produzione, risultava particolarmente efficace nella disamina delle fotografie di paesaggio in quanto prodotto di una strategia commerciale, mettendo così “in evidenza il rapporto tra una città come Napoli alla fine dell’800 e la mediazione tendenziosa della sua rappresentazione fotografica. (…) È facile accorgersi – proseguiva Del Pesco – dell’elaborazione ma al tempo stesso della semplicità e della ripetitività degli schemi cui può essere riportata. (…) Queste fotografie sono il risultato di un lavoro di serie che ha investito con un flusso costante, ritmato dalle leggi del mercato, gli elementi eterogenei di ognuna, dimensionandoli secondo procedimenti estremamente complessi relativi alle esigenze della riproducibilità, ai modi della distribuzione e della vendita, alla domanda del consumatore e dell’editoria.” Tutti elementi che sottolineavano la continuità del fenomeno, tanto da poter affermare che “l’immaginario collettivo viene a costituire per l’intero ciclo sociale-economico del fatto fotografico la quota più alta di risorse produttive.” Dal riconoscimento e dall’utilizzazione di questa chiave di lettura discendeva una ricostruzione attenta della realtà professionale legata alla fotografia in area napoletana, rilevandone le strategie imprenditoriali e pubblicitarie; le varie tipologie e ‘generi’; i prezzi di mercato valutati in relazione ai salari degli addetti del settore e “la composizione sociale del pubblico degli acquirenti e dei fruitori della fotografia a Napoli [che] si può dedurre anche da una topografia della rete commerciale.” Solo dispiace che a questa efficace impostazione generale corrispondesse poi uno scavo analitico limitato all’attività di Alinari e Brogi, certo importante ma altrettanto eccentrica, e non solo in termini geografici, rispetto alla scena napoletana, in cui imprenditori come Achille Mauri, la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati e specialmente Giorgio Sommer ampliavano la loro offerta produttiva e commerciale ben oltre la fotografia. Questo riferimento fortemente orientato se non proprio limitato all’attività e al corpus di immagini delle due firme fiorentine, con la sola aggiunta di Gustavo Eugenio Chauffourier, era l’esito di una scelta che considerava “metodologicamente corretto partire da un corpus storicamente definito”[764], ma condizionava non poco lo svolgimento delle analisi come l’apparato iconografico di parti rilevanti del volume, che si sarebbe certamente giovato di una maggiore selezione di opere dei principali professionisti napoletani del periodo, i quali verosimilmente avevano dovuto porre in atto strategie diversificate per corrispondere a uno scenario culturale ed economico differente e solo in piccola parte assimilabile a quello delle ditte attive a scala nazionale.
La ricostruzione della scena napoletana era preceduta da un importante saggio di Mariantonietta Picone Petrusa dedicato ai rapporti tra Linguaggio fotografico e ‘generi’ pittorici, che apriva ponendo chiare questioni di metodo, specialmente necessarie in una fase in cui “si sta di fatto rifondando una disciplina nel momento stesso in cui si definiscono i ruoli e i significati che essa ha ed ha avuto in passato. (…) La fotografia ribadisce la sua specificità e nello stesso tempo alimenta le sue vocazioni interdisciplinari.”[765] Uno dei primi problemi era quello della definizione dello stesso oggetto di studio, vale a dire la questione – allora piuttosto rilevante – di cosa si dovesse intendere per “originale” in fotografia, giungendo alla ragionevole conclusione che “in fotografia è sì originale il negativo ma lo sono anche tutte le stampe positive dell’autore della fotografia.”[766] L’altro “nodo metodologico” non poteva che riguardare le distinte e quasi contrapposte posizioni storiografiche emerse sino ad allora, “schematizzabili in due tendenze: quella che percorre la storia della fotografia attraverso i nomi di punta (…) e quella che cerca di ricostruire un contesto più ampio e che pertanto non disdegna la storia degli studi e del professionismo, sottolineando l’aspetto economico-mercantile, di produzione e di fruizione dell’immagine fotografica, accanto all’esame del suo linguaggio specifico”, che era con tutta evidenza l’impostazione scelta per la conduzione della ricerca presentata in quel volume, pur con i limiti che già sono emersi. Così più che la ricostruzione della rete di rapporti commerciali del professionismo napoletano e della “distinzione fra dilettanti e professionisti còlta da Vitali (…) vera spina dorsale di una moderna storiografia della fotografia”, nel saggio di Picone Petrusa assumeva rilevanza il tema dei rapporti fra la fotografia e le altre arti visive (quindi non solo la pittura, ed era elemento non secondario), la cui “natura è tutt’altro che univoca.” L’analisi procedeva tracciando approfonditi e affascinanti percorsi che davano conto dei rapporti, anche professionali, con le tecniche antecedenti come delle ambiguità della terminologia e dell’iconografia pubblicitaria utilizzate dai fotografi ancora ben oltre la seconda metà del XIX secolo, per considerare poi i vari modi in cui gli artisti napoletani utilizzavano la fotografia: dal ritratto alla documentazione delle proprie opere sino al ben più complesso uso strumentale come repertorio di modelli ‘sul vero’ per figure e paesaggi, secondo percorsi ad andamento ciclico in cui la produzione fotografica non guardava certo “nella direzione delle ricerche più aggiornate e progressive, ma verso (…) le immagini di consumo (…). La schematizzazione e l’esistenza stessa di generi fotografici (…) non sono una invenzione dei fotografi, ma esistevano già in quelle botteghe di incisori da cui molti (…) provenivano”; non per questo le nuove immagini potevano essere considerate solo in termini derivativi anzi – e questa era un’acquisizione critica importante – nella fotografia di paesaggio emergeva chiaramente “la concomitanza dell’esigenza pittoresca e di quella documentaria. (…) Che nella fotografia di paesaggio giochi un doppio modello (pittorico-documentario) è anche confermato dal fatto che (…) i fotografi che stiamo esaminando non ricorrono mai alle sfocature dei lontani”. Per questo poteva dire che “la fotografia di monumento è in realtà l’estensione su scala urbana della foto di opera d’arte, così come il paesaggio costituisce un prolungamento dello stesso genere di visione su scala territoriale: un pezzo di città come monumento.”
Ritroviamo qui ben esemplificate le competenze analitiche di Picone Petrusa[767], la sua capacità di vincolare gli aspetti linguistici propri della tecnica fotografica ai problemi iconografici; ciò che ancora oggi dovrebbe costituire un presupposto irrinunciabile per la comprensione di ogni produzione specialmente ottocentesca, rispetto alla quale risulta determinante tener conto delle convenzioni legate alla codificazione per generi così come dei processi di sclerotizzazione che portarono agli stereotipi. Quella posizione non era però di così piana condivisione né la chiave metodologica di uso così consueto se ad esempio Miraglia, che pure in altre occasioni aveva affrontato tangenzialmente il problema dei generi[768], ne faceva un uso poco più che lessicale nelle sue importanti Note edite nello stesso 1981[769]. Più strutturata e criticamente definita la posizione assunta da Quintavalle, che avendo dapprima rifiutato sarcasticamente certe distorte utilizzazioni ‘critiche’ del concetto (“le mostre si organizzano come sistema sulla base dei contenuti delle immagini e abbiamo (…) la mostra delle nature morte e quella dei ritratti”[770]) aveva da tempo accolto l’esistenza dei generi, “dato che essi hanno una precisa cadenza iconologica, dato che essi strutturano le immagini contribuendo a veicolarne il significato.”[771] “I generi – precisava alcuni anni più tardi – sono strumenti narrativi, fatti portanti della costruzione di senso, come insegna certamente la moderna narratologia, ma i generi, in area fotografica, sono legati alla tradizione pittorica almeno alle origini, e, come tali, vanno indicati nella loro gerarchica costruzione per quanto attiene l’intero periodo ottocentesco. Ecco quindi, prima di tutto, il ritratto (…) e, da ultimo, la natura morta mentre a parte è la storia dell’analisi dei monumenti che ha, da noi, svolgimenti specifici che la pongono in parallelo al genere ‘foto di storia’ in quanto foto della storia, dei luoghi della storia (…)”[772]. Solo molti anni più tardi a questo dialogo indiretto si sarebbe aggiunta la voce di Lello Mazzacane (2006) per ricordare che “esiste un rapporto stretto tra genere fotografico e mercato. Solo nella misura in cui un genere occupa una fetta di mercato può alimentare, infatti, l’attività dello studio e di converso trarre impulso da essa”, avvertendo “però che l’individuazione di un prodotto di mercato è condizione necessaria ma non sufficiente per la nascita di un genere. Il genere è debitore, oltre che del mercato, anche della declinazione linguistica che deve acquisire per essere riconoscibile come tale. Il genere, infatti, è pur sempre un’espressione linguistica condivisa, e in quanto tale codificata.”
Costruite su di uno scambio fecondo tra lettura etnoantropologica e indagine storico critica furono invece le indagini condotte sulle pratiche fotografiche amatoriali in area calabrese da Francesco Faeta e Marina Miraglia; pubblicate nel 1988 a partire dalla produzione di un esponente della piccola nobiltà calabrese di inizio Novecento come Alfonso Lombardi Satriani. Un esempio evidente di quanto fruttuosa potesse essere la capacità di intendere le immagini come “forme culturali”, ricavandone “informazioni meno lineari, più oblique, più indirette, ma anche più colme di indicazioni ideologiche di quelle mediate dalla scrittura”. Una lettura critica che molto doveva alla strumentazione antropologica, forse la sola in grado di misurarsi – come avrebbe ricordato Miraglia anni dopo – con quelle “brutte fotografie, di una banalità orrenda (…) immagini [che ] non mi dicevano assolutamente niente”[773]. Immagini apparentemente mute, che ponevano in scacco una posizione teorica e metodologica che derivava dalla tradizione lunga della Storia dell’arte. Era necessaria una diversa attrezzatura e, di più, un diverso atteggiamento per riconoscere e trarre informazioni che rivelassero “innanzitutto, all’interno delle classi egemoni, modi di vita più disomogenei, frammentati, stratificati, ma anche più aggiornati e nazionalmente significativi, di quanto altre fonti, più convenzionali, non facciano. [Quelle fotografie] mostrano, inoltre, nella cultura e nella vicenda delle classi subalterne particolari, in genere, occulti o rimossi, tratti che spesso anche la demologia non seppe o non volle registrare. (…) La fotografia ci trasmette così, non certo attraverso l’ingenuo postulato positivista della sua veridicità, ma per la sua particolare semeiotica e semiologia, uno dei più ricchi, complessi, attendibili patrimoni di dati sulle forme della vita, sulla cultura e sullo sguardo (cioè sull’ideologia) che si abbia nella regione ai primi decenni del Novecento. In particolare rispetto all’ideologia – proseguiva Faeta – mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione. Attraverso le fotografie possiamo avvicinarci, dunque, in modo privilegiato alla sfera simbolica, distinguendo, nell’operare sociale, la virtù dalla necessità, il bisogno di trascendenza dalle molte ipoteche dell’immanenza.”[774]
Poche altre furono le indagini a scala regionale, di cui le schede approntate per la mostra del 1979 avevano fornito un primissimo resoconto e avrebbero potuto costituire un riferimento e un punto di partenza. Ciò pareva doversi attribuire a due divergenti fenomeni: da un lato l’egemonia storica e culturale dei capoluoghi, che aveva condizionato le vicende passate e segnava anche l’avvio degli studi[775] relativi ad aree come la Toscana o il Lazio, ma anche la Campania; dall’altro intere regioni storicamente ed economicamente più marginali che risultavano di fatto prive di attenzioni e di studio[776], quando non costrette in una monocultura autoriale riduttiva e penalizzante, come fu per la Sicilia, che nel periodo considerato venne di fatto ridotta alla sola presenza di Von Gloeden, mentre il tema degli scrittori fotografi, già in auge nel decennio precedente, pareva in quegli anni aver perso di interesse[777].
Monografie
Il mutevole tempo degli archivi costituì negli anni successivi, anche per ragioni di misura editoriale, l’ambito privilegiato di indagine degli studi ospitati dai periodici, e in particolare da “AFT”, mentre buona parte delle altre proposte espositive e soprattutto editoriali dava corpo alle preoccupazioni espresse da Quintavalle e continuava ad esercitarsi solo su alcune, poche figure chiave: Wilhelm von Gloeden innanzitutto (e, quasi di conseguenza, Guglielmo Plüschow), a cui nel periodo considerato vennero dedicati ben cinque titoli che si aggiungevano alla ricca produzione degli anni della ‘scoperta’ nella seconda metà del decennio precedente; poi Giuseppe Primoli, sul quale si pubblicarono nel triennio 1980-1982 ben quattro saggi oltre alla riedizione del volume di Lamberto Vitali, e ancora: Giorgio Sommer e Alphonse Bernoud, Robert Macpherson e gli Anderson; gli Alinari naturalmente, e Bresolin e Naya; Brosy e Unterveger; la dinastia dei Wulz; Pietro Semplicini e Icilio Calzolari, mentre emergeva la figura di Pietro Poppi, oggetto di ben quattro studi (tra i quali una tesi di laurea[778]) nel periodo 1980-1987. Nomi e figure che ricorrevano nelle pagine dei cataloghi e dei volumi editi sullo scorcio degli anni Settanta, sottoposti ad attenzioni nuove che si traducevano – nei casi migliori e più interessanti – in ricognizioni archivistiche o nell’ampliamento del repertorio, ma con un generale atteggiamento, forse necessario, forse inevitabile, di scavo archeologico, di pura riesumazione del reperto e del dato, tipiche di quel clima di fervore e confusione, di vitalismo delle iniziative e degli studi di cui si sentiva grande necessità ma che ancora doveva darsi metodo e misura. Tra i circa centoquaranta contributi monografici pubblicati negli anni Ottanta, più rari risultavano quelli dedicati a fotografi di ambito strettamente locale, nei quali l’interesse per la loro produzione toccava aspetti diversi: dalla storia della pratica fotografica (del mestiere di fotografo) alla testimonianza antropologica e di costume, considerate sempre nelle loro specificità documentarie e tenendo ben lontana ogni lusinga revivalistica. La loro distribuzione geografica si concentrava in quelle aree in cui più precoce e attrezzata si era dimostrata la preoccupazione per il patrimonio fotografico storico: il Veneto, la Toscana e soprattutto l’Emilia Romagna, con i diversi poli rappresentati dall’IBC, dal CSAC e dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, la cui Fototeca diretta da Laura Gasparini, promosse in quegli anni una serie di studi monografici legati ai fondi progressivamente acquisiti[779].
La prima monografia su Vittorio Sella[780] – certo tra gli autori più noti del nostro XIX secolo – riguardava le sole campagne extraeuropee, e si avvaleva di un lungo saggio introduttivo a firma di Piero Racanicchi[781], tra i primi in Italia ad analizzare criticamente le opere di questo fotografo[782], che ne ricostruiva a grandi linee gli anni di formazione e di attività, attingendo verosimilmente anche a documentazione conservata presso l’archivio di famiglia ma purtroppo senza mai indicare alcuna fonte, senza fornire rimandi in nota, com’era del resto consuetudine nella pratica giornalistica, anche la più qualificata.
Nel presentare l’anno successivo il catalogo della mostra a lui dedicata, il direttore del Museo Nazionale della Montagna di Torino, Aldo Audisio, richiamava quel precedente, in cui era stato “tracciato un profilo preliminare e divulgativo”, ma ne prendeva le distanze in termini di impostazione e di metodo: “nuovi collaboratori, seguendo una logica di rinnovamento nella ricerca, si sono affiancati a quanti in passato dedicarono tanto lavoro al Sella. Hanno individuato nuove fonti e documenti d’archivio che integrati alle preesistenti ricerche delineano e individuano altri lati della polivalente e composita personalità del grande fotografo.”[783] Il gruppo di lavoro impegnato nell’impresa coincideva di fatto con quello dei redattori di “RSCF”, del resto pubblicata da Priuli e Verlucca, coeditore del catalogo, a cui si affiancarono Giuseppe Garimoldi, grande specialista della fotografia di montagna, e Lodovico Sella, presidente della Fondazione omonima e pronipote di Vittorio, autore della cronologia biografica. Le scelte metodologiche adottate sia in ambito storiografico che espositivo ed editoriale, essendo questi aspetti strettamente congiunti, erano chiare: non si era inteso infatti produrre “una pura esposizione-ricostruzione della figura e dell’opera” di Sella, né fornirne un quadro completo, ma delinearne “i rapporti con un complesso humus culturale, politico, economico; le relazioni che intrattenne con gli esploratori, con gli alpinisti fotografi e i fotografi alpinisti (…); i rapporti che la sua opera ebbe con la fotografia e la cartografia.”[784] Scontate certe ingenuità declamatorie, il risultato fu di grande rilievo; frutto evidente di una precisa consapevolezza critica che si misurava anche con gli aspetti più propriamente filologici dell’esposizione e della pubblicazione, sottolineando come non fosse sufficiente pensare alle immagini in termini riduttivamente referenziali ma ci si dovesse rivolgere alle fotografie, considerate nella loro materialità di oggetto culturalmente determinato. Pur condividendo in certa misura le opinioni in proposito espresse a suo tempo da Settimelli, la scelta curatoriale si era orientata in tutt’altra direzione: “Certo: in fotografia, se si può parlare di originale, questo può essere solo il negativo, sebbene, come ben si sa, anche il negativo possa essere riprodotto [ma] dalle stampe che qui per comodità definisco originali e che sono da intendersi come prodotte dall’autore, si impara molto di più che dalle migliori riproduzioni. (…) E comunque, tenendo come punto di partenza il negativo, le stampe positive d’epoca prodotte dall’autore sono quasi certamente le interpretazioni più autentiche del negativo stesso.”[785] Per analoghe ragioni si scelse di “riprodurre senza il minimo taglio le immagini, comprendendo in questa operazione anche i bordi annotati personalmente da Sella, gli ‘appunti’ che andava prendendo sulle fotografie e, in alcuni casi, le linee tracciate a matita per eventuali tagli e ingrandimenti; di qui l’esporre in mostra, accostandole l’una all’altra, stampe differenti della medesima immagine, per evidenziare la diversa percezione che si ottiene con manipolazioni e formati diversi.”[786] Una produzione esemplare[787] tra quelle che segnarono quegli anni di prima effettiva attenzione storiografica per la fotografia italiana e più in particolare per la fotografia alpina, tema che il Museo nazionale della Montagna avrebbe approfondito negli anni successivi, e sino ad oggi, nell’ambito di un “Progetto Alpinismo” che vide tra le realizzazioni successive le mostre dedicate a Guido Rey, ai fratelli Piacenza e a Mario Gabinio. Mentre queste ultime nascevano da suggestioni varie[788], la prima monografia[789] dedicata a Guido Rey ne ribadiva il ruolo di figura centrale della cultura pittorialista italiana tra XIX e XX secolo; un autore che Miraglia aveva compreso tra i componenti della “scuola biellese” sulla base di una presunta comunanza di interessi per “la ripresa e la documentazione d’alta montagna con fini scientifici”[790], senza però tener conto del fatto che Rey era stato non più che “un buongustaio dell’alpinismo”, come aveva già a suo tempo chiarito Massimo Mila[791]. Fu comunque quello l’ambito privilegiato d’indagine della mostra torinese, mentre Angelo Schwarz affrontava in catalogo la questione della sua produzione pittorialista, non senza aver sottoposto a revisione la legittimità di quella stessa aggregazione “biellese” cui pure aveva a suo tempo aderito[792]: “Ma di scuola veramente si tratta (…)? Se la storiografia della fotografia non si esaurisce nella fotografia & fotografia, e tutt’al più nella storia dell’arte, forse si possono prospettare altre eventualità. In una certa parte dell’aristocrazia nobiliare, dell’alta borghesia imprenditoriale e degli intellettuali piemontesi, un ruolo non secondario giocano il rapporto con l’ambiente montano, collinare e lo sport dell’alpinismo.”[793] Precisazione necessaria, che apriva importanti prospettive nella comprensione dell’attività di altri torinesi delle generazioni successive, da Gabinio ai membri del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, figure centrali del nostrano passaggio a un moderato modernismo[794]. Restavano però da comprendere gli eventuali nessi con la produzione pittorialista[795], la sola a cui lui di fatto affidava e su cui ancora oggi si fonda la sua fama di fotografo. Per provarsi a darne conto Schwarz delineava una breve sintesi storica del fenomeno e della fortuna critica di Rey così come del suo ambiente di formazione, tra Biella e Torino, ma senza poi indagare le possibili ragioni di quella dicotomia profonda tra fotografie di montagna e composizioni in costume, tra resoconto e invenzione citazionista se non credendo di riconoscere nelle sue “composizioni fotografiche permeate di intimismo domestico, storicismo ed esotismo” una manifestazione dei “malori (…) della sua generazione, e di una parte della classe al potere, che fatica a reggere il confronto con le emergenze sociali.”
Le numerose iniziative in territorio veneto avevano mostrato una inevitabile predilezione per la scena veneziana[796] ma senza escludere attività e autori operanti in altre città. Nell’affrontare la produzione di Moritz Lotze, attivo a Verona, e in misura minore dei suoi figli, i curatori[797] delineavano le figure e le pratiche che avevano segnato quel territorio negli anni determinanti del passaggio al Regno d’Italia del Lombardo Veneto e dell’affermazione delle lastre al collodio, assegnando alla cultura, anche artistica, di Lotze come alle sue capacità imprenditoriali le ragioni della sua affermazione, determinata anche dalle numerose collaborazioni con quegli studiosi attenti ai “nuovi criteri di verità” nella restituzione del reale che la fotografia era in grado di offrire. Quella rete di relazioni, di occasioni e di stimoli dava ragione dell’eterogenea produzione di Lotze, dal ritratto alla fotografia di documentazione scientifica e d’arte, alle vedute, nelle quali “la presenza della natura e l’attenzione tardo romantica verso la rovina, prevalgono sulla rappresentazione documentaria del monumento.”[798] Era quello un ulteriore, autorevole esempio che dava corpo a un problema posto da alcuni già in quegli anni e che si sarebbe poi ripresentato in modo più articolato nell’ultimo decennio, vale a dire quello della difficoltà se non proprio della sostanziale impossibilità di riconoscere ancora nella prima età del collodio una fotografia che potesse dirsi italiana; provandosi semmai a segnalare le tracce di un percorso di formazione che del resto si incrociava con la stessa nascita, non solo istituzionale, della nazione. Da quelle preoccupazione era uscito “uno dei più impegnati studi sull’Ottocento fotografico italiano indagato nei suoi stessi protagonisti. Il tratto saliente e più significativo (…) sta soprattutto nell’apertura di campo, legata alla sensibilità dei suoi curatori (…) giustamente persuasi che la storia della fotografia non possa prescindere, anzi sia strettamente legata all’analisi della cultura, specie figurativa, del periodo in cui si pone.”[799] La novità e il contributo più rilevanti in termini di metodologia erano però costituiti dal catalogo delle opere, articolato per generi, dove ciascuna sezione era aperta da un’antologia di immagini significative a cui seguiva il repertorio specifico, con riproduzioni minimali di tutte le fotografie, ciascuna dotata di una accurata scheda didascalica con indicazione di autore, titolo e tecnica del fototipo pubblicato[800], misure e collezione di provenienza, mentre in una sezione a parte erano riportate e descritte le tipologie e le varianti di supporti secondari e timbri commerciali. Questi importanti criteri di edizione di un repertorio fotografico vennero adottati anche per la pubblicazione del successivo catalogo dedicato alla Studio Ferretto di Treviso, che vedeva tra i curatori ancora Alberto Prandi[801]. Qui, anzi, il senso dell’operazione assumeva valenza più ampia e rifletteva il progetto da cui era nata l’esposizione, vale a dire l’inventariazione (pratica allora rara) dei fondi della Biblioteca Comunale di Treviso avviata due anni prima, verificandone datazione e provenienza e predisponendone l’ordinamento. In quella prospettiva venne definito il progetto di mostra, che non doveva limitarsi ad essere un “patinato excursus storico, ma [doveva agire da] forza trainante per il lavoro interno di sistemazione, versando le pur importanti acquisizioni monografiche in un metodo, nella messa a punto di strumenti suscettibili di ulteriori applicazioni”[802]. Quel progetto delineava inoltre un nuovo possibile ruolo della Biblioteca civica, che si candidava ad essere il polo di attrazione e raccolta delle collezioni sparse sul territorio e a rischio di dispersione, prefigurando per molti versi il FAST (Foto Archivio Storico Trevigiano) che nacque pochi anni più tardi, nel 1989, ma per iniziativa dell’ente provinciale.
Tra catalogo e repertorio si muovevano anche le Note metodologiche anteposte da Giancarlo Roversi[803] alla schedatura del Fondo Poppi conservato nelle collezioni d’arte della Cassa di risparmio in Bologna, nelle quali affrontava una serie di problemi posti dal riordino archivistico e dalla catalogazione dei fototipi che qui interessa richiamare, pur senza entrare nel merito, per sottolinearne la novità metodologica e per la loro stessa presenza, più inedita che inconsueta a quella data. Quelle Note facevano parte della prima monografia dedicata a Pietro Poppi, con testi di Andrea Emiliani, Italo Zannier, Giovanni Ricci e un primo, accurato repertorio dei fotografi bolognesi a firma di Franco Cristofori. Negli anni immediatamente successivi comparvero ulteriori indagini e letture critiche della sua opera[804], che richiamavano ancora (come per gli Alinari letti da Cervellati) l’idea di catalogo come censimento del patrimonio artistico e architettonico e per questo non riuscivano a integrare in un insieme organico la produzione ‘artistica’ di Poppi, per la cui interpretazione credo che sarebbe stato utile provarsi a un confronto con un autore tanto apparentemente lontano quanto Von Gloeden[805]. Nel saggio di apertura di quel primo volume Emiliani richiamava fin dal titolo i concetti espressi nel suo intervento modenese dell’anno precedente e chiariva come in quel contesto collezionistico l’interesse del Fondo Poppi risiedesse prevalentemente “sul referente, e cioè sul ‘rappresentato’, ponendolo in ogni modo in rapporto con la fruttuosa ricerca circa l’origine storica, i modelli culturali ed economici, gli strumenti tecnici dei primi fotografi attivi nella città di Bologna.”[806] Le ragioni di quella posizione erano chiarite poco dopo: “se insisto, come faccio, per il riconoscimento di una esatta dimensione strumentale ed operativa del documento fotografico, è anche perché molte fra le proliferanti, spesso notevoli iniziative di ‘scoperta’ oppure di ‘riscoperta’ della fotografia, sembrano poggiarsi tranquillamente su sopori e sapori estetici e formali, arricchiti magari da nozioni di squisita tecnologia dell’immagine: entro le cui degustazioni tuttavia il referente, cardine sovente primario della volontà dell’immagine, sua promozione e causa, si smaglia e si degrada a occasione indifferente.” È per questa precisazione, per quello specifico richiamo alla “testimonianza fotografica come documento e come istante esistenziale”, come opera che si colloca “esattamente nel punto ove si intersecano la realtà e ciò che della realtà suppone conoscere l’operatore (e quindi fra l’oggetto e la visione che la società ne esprime)” che possiamo apprezzare ancora oggi una posizione che di primo acchito poteva sembrare riduttiva e che invece conteneva, oltre che una grande maestria storica, la volontà di coniugare le recentissime suggestioni del ‘realismo’ barthesiano de La chambre claire con la necessità di adottare “un metodo corretto e il paragone di concrete opportunità che ne portino il valore fino alla soglia della conoscenza e del pubblico servizio.”[807]
La novità ulteriore della produzione saggistica di quel decennio era però rappresentata da un crescente interesse per autori del XX secolo (Gabinio, Balocchi, Massimo Sella) e per la puntuale ricostruzione di elementi cruciali della vicenda fotografica tra le due guerre quali il ruolo svolto dagli annuari del “Corriere Fotografico”, offrendo materiali ulteriori per la costruzione di una storia italiana estesa sino alla contemporaneità.
Nel corso della riunione editoriale Einaudi del 6 dicembre 1978 Giulio Bollati presentava ai colleghi “il libro di Avigdor su Gabinio. È bellissimo”[808]. Il volume, concepito forse sulla scia del buon successo della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte dell’anno precedente curata dallo stesso Avigdor, per ragioni non note venne pubblicato solo nei primi mesi del 1981 e non dovette godere di immediata circolazione se il nome di Gabinio non compariva tra quelli degli autori considerati da Alinovi, sebbene “gli anni trenta, lungo i quali si esaurisce la [sua] biografia, offrono i risultati più alti, nel segno di una ricerca sempre più raffinata delle possibilità che son dentro la fotografia.”[809] Quella puntuale indicazione critica, verosimilmente dovuta a Bollati, a cui il volume era dedicato e che aveva avuto larga parte nella sua realizzazione, riscattava la figura di questo autore portato agli onori delle cronache nel 1974 nell’ambito di una nostalgica iniziativa espositiva dedicata alla Torino degli anni Venti[810]. La monografia di Avigdor[811], tra le prime dedicate in Italia a un autore del Novecento, presentava numerosi motivi di interesse sia nel merito specifico sia in termini di metodo per la puntuale descrizione delle caratteristiche tecniche delle stampe riprodotte e per l’accuratezza degli apparati posti in appendice[812]. Ancora intorno alla scena torinese ruotava il lavoro dedicato agli annuari Luci ed Ombre[813] pubblicati da “Il Corriere Fotografico” tra il 1923 e il 1934; il ruolo svolto dalla rivista torinese e dal Gruppo piemontese per la fotografia artistica nella promozione di un misurato rinnovamento della fotografia italiana era presentato nel contesto della “città laboratorio” torinese di gramsciana memoria, qui delineato da Valerio Castronovo, per essere poi più compiutamente descritto nei due saggi di Zannier[814] e Costantini. Il primo poneva immediatamente la questione, certo nodale, dei rapporti con il fascismo e la sua appropriazione di una visione modernista, ma traendone conclusioni affrettate a proposito del fatto che sulle pagine di “Luci ed Ombre” non si facesse “cenno alla mistica fascista, alle sue pretese estetiche.” Se questo era in buona parte vero non poteva però essere considerato un elemento di fronda o almeno di distanza, essendo molti dei protagonisti di quella vicenda (Bologna, Bricarelli, Bellavista, Parisio, solo per citarne alcuni) attivi e presenti con proprie immagini in molte pubblicazioni del Regime. Il tardo pittorialismo che caratterizzava la prima produzione così come le caute aperture moderniste successive erano semmai tutte interne a un esercizio della fotografia come diletto, priva di implicazioni o di funzioni sociali che non fossero riservate all’universo salonistico promosso e favorito dagli stessi periodici e associazioni fotografiche. Si potrebbe forse dire che il nodo della questione, neppure accennato in quel contributo, stava nella dicotomia quasi schizofrenica che vedeva non pochi dei fotografi presenti sulle pagine di quell’annuario, e certo i più importanti, assumere posizioni e ruoli differenti: da un lato il professionismo, progressivamente condizionato quando non esplicitamente aderente alla cultura fascista, dall’altro la ricerca amatoriale avulsa dal contesto, quasi che solo nel distacco dalla realtà, anche tragicamente politica, potesse esserci luogo per una produzione che si voleva artistica. Posizione ancora tutta e pienamente ‘pittorialista’ quindi, a prescindere dagli esiti e dagli aggiornamenti formali. Ma forse queste erano questioni troppo specifiche, inappropriate al taglio divulgativo dell’occasione, e quindi del saggio, che procedeva didascalicamente considerando in modo puntuale i diversi autori. Quasi un ragionato elenco[815]: un nome un commento, proseguendo anno per anno col segnalare gli esiti più significativi ma confermando di fatto le pesanti riserve già espresse nei saggi degli anni precedenti. Mentre Zannier guardava alle immagini, il saggio di Costantini[816] si rivolgeva piuttosto all’analisi dei testi posti a commento, alla ricerca delle varie posizioni critiche, per quanto embrionali e poveramente espresse, rispetto al problema della formazione di una cultura fotografica italiana. “La rivista, e più tardi il suo annuario, attraverso il suo gruppo dirigente, si vuole proporre come un laboratorio della fotografia italiana ‘moderna’, in cui si confrontino coloro che si interessano ‘privatamente’ di fotografia”, escludendo o meglio separando e distinguendosi (almeno apparentemente, come si è detto) dalla professionalità e dai ruoli che questa implicava. Pur con questi limiti “quella di Luci ed Ombre, o dello stesso ‘Corriere Fotografico’, non fu dunque, nel suo complesso, un’esperienza di eccezionale incisività per la definizione del carattere della fotografia, ma vi contribuì comunque in maniera decisiva con un’autorità inedita alle altre pubblicazioni.” Il giudizio, per molti versi condivisibile, si mostrava però fortemente condizionato dai limiti eccessivamente circoscritti entro i quali veniva formulato, derivati da un confronto tutto interno a quell’esperienza, ancora tradizionalmente, ambiguamente ‘artistica’, che non teneva nel debito conto quanto negli stessi anni accadeva in termini di rinnovamento della cultura e del linguaggio fotografico, specialmente in area milanese, in riviste come “La Casa bella”, “Domus”, “Natura” o “Campo grafico”, il cui primo numero era uscito nel 1933.[817]
La Storia della fotografia italiana di Zannier
Facendo tesoro delle ricognizioni documentarie condotte per la pubblicazione del volume dedicato alla Cultura fotografica in Italia[818] Zannier pubblicava nel 1986 presso Laterza la sua Storia della fotografia italiana[819]; un’ampia rassegna con un apparato iconografico[820] di peso sostanzialmente equivalente a quello del testo che per la prima volta considerava tutto l’arco cronologico delle vicende della nostra fotografia, organizzata in sei ampi capitoli articolati in brevi paragrafi tematici, con una sintetica “Bibliografia generale” che conteneva però solo una piccola parte degli studi utilizzati e citati in nota[821]. Con una scelta certo singolare la copertina mostrava un’opera di Luca Patella, assunto forse a simbolo di quell’ approccio ‘concettuale’ che sembrava essere stato l’apporto più significativo della stagione artistica appena trascorsa e uno degli elementi che aveva maggiormente contribuito alla riconsiderazione della fotografia nel suo insieme. Quella suggestione si riverberava anche sull’interpretazione della preistoria del mezzo, che individuava la camera obscura come “stimolo concettuale per coloro che erano pervenuti all’invenzione della fotografia” e il nuovo medium come “conseguenza logica della prospettiva”, ma senza poi soffermarsi a motivarne il senso o eventualmente trarne conseguenze storiografiche, poiché l’autore preferiva dedicarsi alla registrazione se non proprio dei fatti almeno dei dati e delle notizie. Per queste ragioni il libro, privo di introduzioni o premesse, apriva direttamente con la questione delle origini e della diffusione della notizia in Italia (riprendendo lo schema adottato per la mostra e il volume del 1979) ma senza apportare innovazioni né di metodo né di merito, anzi la repertoriazione delle fonti e della bibliografia pareva anch’essa ferma a quasi un decennio prima, nonostante la recente pubblicazione dell’antologia curata con Costantini. Così a proposito delle prime sperimentazioni italiane col dagherrotipo Zannier parlava di “prove leggendarie, delle quali però, anche se oggettivamente eseguite, non rimane traccia”, dimenticando la Veduta della Gran Madre di Dio realizzata a Torino da Enrico Federico Jest nell’ottobre del 1839 che era stata esposta alla mostra Fotografi del Piemonte del 1977 e poi pubblicata nel 1980[822]. Un indizio significativo delle modalità di progettazione e strutturazione del volume, strettamente dipendenti dalla ricerche pregresse dell’autore, ciò che si rifletteva non solo nelle eventuali lacune ma anche in una distribuzione dei pesi a cui risultava difficile assegnare un valore solo storico critico. Così nel considerare opportunamente il fenomeno dei primi fotografi itineranti o migranti il quadro che ne risultava non pareva tanto condizionato dalle difficoltà di reperimento e studio delle fonti quanto dal riuso (per quanto legittimo, ovvio) di elaborati precedenti, come accadeva per la figura di Ferdinand Brosy o – in altro contesto – per il rapporto tra Talbot e Amici, la cui scelta come casi di studio appariva dettata dalla disponibilità di materiali semilavorati piuttosto che da rilevanti ragioni storico critiche.
Il capitolo successivo considerava l’introduzione delle emulsioni al collodio e la nascita dei grandi atelier, avviati da fotografi con una inevitabile formazione autodidatta ma che furono in grado, come nel caso paradigmatico degli Alinari presentato da Zannier, di tramutare la loro dimensione operativa da studio ad azienda. Dinamica certamente vera, ma – diversamente da quanto lì suggerito – che Italia si definì in un periodo significativamente più lungo di quello della cosiddetta età del collodio, né la proposta assimilazione dei loro operatori agli operai della nascente industria, per quanto suggestiva, pareva tener conto delle forti individualità impiegate specie in fase di ripresa. Più interessante dal punto di vista metodologico il richiamo alla necessità di studiare i cataloghi a stampa, dei quali però non venne considerata tanto la rilevanza e la novità quali strumenti di strategia commerciale quanto il loro interesse come fonte testimoniale dei “valori da essi assegnati (…) ai monumenti e alle opere” riprodotte, derivati e dipendenti “dagli stereotipi settecenteschi”, ciò che – secondo l’autore – non era però frutto di un’adesione ai modelli dominanti della cultura visiva quanto piuttosto una deriva biografica di questi “mediocri pittori o intraprendenti calcografi”, che si erano rivolti alla fotografia perché “sembrava poter assolvere per sé stessa alla carenza di un talento artistico autentico”, ripercorrendo così pedissequamente le tracce critiche indicate da Silvio Negro giusto un trentennio prima. L’accenno all’estrazione sociale e culturale di quella generazione di fotografi recuperava una sua dignità storico sociologica nel prosieguo del capitolo, sino a definirne la struttura discorsiva, fatta di brevi paragrafi intitolati alle professioni di provenienza (aristocratici e benestanti; ottici, meccanici e macchinisti; pittori-fotografi; farmacisti, ingegneri e medici; fotografi di bottega) ma come accadeva sovente in Zannier, sul disegno generale prevaleva il dettaglio aneddotico e non emergeva il senso dell’interpretazione storica del fenomeno, tanto meno quando a questa disamina subentrava un “rapido itinerario [e] sintetico elenco”, ordinato ora su base geografica. Connesso sin dal titolo a una più specifica lettura critica era invece il terzo capitolo, che affrontava il passaggio dalla massificazione alla fotografia artistica con il delinearsi del ‘dilettante fotografo’; figura sociale nuova a cui era destinata una sempre più ricca produzione editoriale di periodici e specialmente di manuali di forte impronta tecnicistica, influenzata quando non direttamente determinata dalla nascente industria fotografica. Secondo uno schema ben noto, Zannier interpretava come reazione al processo di massificazione la nascita del fenomeno che lui stesso variamente definiva pittoricismo, pittorialismo o fotografia artistica, a cui aggiungeva, con una intuizione inedita, la considerazione che “ad alimentare il mito della fotografia artistica non potevano comunque mancare gli artisti per antonomasia, ossia i pittori.”[823] Le fonti sinora disponibili sembrano contraddire una tale convinzione, che avrebbe potuto assumere almeno un suo preciso e stimolante valore interpretativo se fosse stata criticamente sviluppata, ma il testo procedeva con la reiterata damnatio della retorica “sbracata” della produzione pittorialista “che spesso invece oggi il revival o la considerazione della rarità dei procedimenti hanno condotto a una inconsulta rivalutazione, che potrebbe trovare spazio o interesse soltanto a livello filologico”; con ciò lasciando intendere in quale considerazione avesse l’esercizio della filologia. Più interessante e definito il giudizio sulla lunga durata del fenomeno che almeno in Italia “resistette fino alla fine degli anni ’30 e fu anche un alibi per eludere durante il fascismo, quegli impegni e quelle responsabilità che il fotografo, come testimone della storia, avrebbe invece dovuto accettare come funzione primaria del mestiere.” Era quell’ “occultamento del reale” di cui aveva parlato Bollati nel 1979, comune anche al fotogiornalismo del periodo, di cui più oltre Zannier ribadiva la “banalità”, da intendersi semmai come accondiscendenza quando non come esplicito sostegno al Regime, ma con una articolazione e una complessità (propria di gran parte del mondo culturale di quegli anni) che qui non venne affrontata, limitandosi semmai a segnalare opportunamente quelle esperienze e quelle produzioni che in qualche modo fecero fronda, come “Omnibus” di Leo Longanesi, o che si caratterizzavano per lo sforzo di una comunicazione editoriale aggiornata quale il mondadoriano “Tempo”, considerato, “l’unica esperienza di orientamento internazionale del fotogiornalismo italiano”, facendo così proprio il giudizio di Carlo Bertelli.
Il percorso cronologico tornava a muoversi a ritroso per affrontare gli ambiti della Fotografia scientifica e istituzionale; tema quanto mai complesso e interessante per essere quello che in modo più cogente da sempre interroga e mette a frutto, magari ideologicamente, l’apparente oggettività della documentazione fotografica, la sua capacità di ‘riproduzione’ ancor prima e oltre la sua riproducibilità, con ciò consentendo “il passaggio dalla scopia alla grafia” e il conseguente lavoro analitico e comparativo di matrice positivista. Peccato che a questa affermazione critica non facessero seguito le necessarie considerazioni epistemologiche e tutto fosse ridotto, ancora una volta, a una sequenza di paragrafi la cui stessa grande parcellizzazione era indice della difficoltà di articolare storicamente i fenomeni. Si passava così dalla microfotografia alla fotogrammetria, senza dimenticare quella giudiziaria né la documentazione del patrimonio artistico e architettonico, ma senza cogliere o suggerire nessi; senza una cornice che non fosse quella data dal titolo del capitolo. Sola, intrigante intuizione era il riconoscimento del legame tra ideologia dell’oggettività e pratica della fotografia spiritica[824], ma si trattava di poco più che un cenno all’interno di una rassegna in cui erano fatte rientrare anche le riprese della Sindone realizzate da Secondo Pia nel 1898. Il capitolo che seguiva era posto sotto l’insegna modernista de La ricerca dello specifico, sebbene poi oltre il titolo ci fosse ben poco: la consueta rassegna di nomi ed episodi disgiunta dalla lettura critica delle numerose immagini che pure erano pubblicate. L’apertura era dedicata al Fotodinamismo dei Bragaglia, riconosciuto quale “primo episodio di fotografia concettuale”, ma per Zannier “la trasgressione ai canoni tradizionali della fotografia (…) era stata in apparenza troppo radicale, senza concessione alcuna ai canoni estetici della fotografia di quegli anni, per essere considerata un modello. (…) Basta scorrere gli indici delle riviste specializzate (…) pubblicate in quel periodo, per comprendere la distanza dei Bragaglia da tutto ciò che allora si intendeva per fotografia.” Nonostante il ricorso a una formula limitativa (“in apparenza”) il giudizio risultava netto ed opposto a quello espresso da Carlo Bertelli nel 1979 che, proprio basandosi su alcuni giudizi espressi da Anton Giulio a proposito di “Arte fotografica” rilevava quanto fosse “lontano dal riconoscimento dei nuovi valori” sostenuti dalla giovane critica italiana di Lionello Venturi e Roberto Longhi, sensibili alle suggestioni delle avanguardie. L’incertezza della produzione italiana del periodo venne restituita da Zannier con brevi cenni alle influenze pittorialiste che segnarono la produzione di Mario Nunes Vais ed Emilio Sommariva, accostate alle oscillazioni del gusto nelle ricerche, curiosamente definite “fotoamatoriali”, di autori come Achille Bologna, Stefano Bricarelli e Italo Bertoglio, mentre mancava ogni cenno all’operare eccentrico di Mario Gabinio, a cui pure era stata recentemente dedicata una importante monografia[825]. L’indagine si addentrava poi nel decennio che precedeva la seconda Guerra mondiale richiamando le suggestioni offerte dell’edizione italiana di “Galleria” ed il ruolo svolto da Mario Bellavista, la cui ricerca – per Zannier – era “stata assai vicina a quella di Weston o di Renger-Patzsch”. Apprezzamento di cui non si sa se accogliere benevolmente le intenzioni o stigmatizzare il pressapochismo, mentre più interessante e proficuo appariva il richiamo al ruolo di rinnovamento svolto dalle riviste di architettura e in parte dagli architetti fotografi come Pagano o i BBPR “che parteciparono al lavoro redazionale di ‘Tempo’ (…) con fotoracconti sulla città, in una prospettiva insolita, assi critica e rivelatrice”, così come dalle prime prove “non oggettive” di grafici come Grignani e Veronesi o – in diversa misura – Boggeri. Infatti “la fotografia ‘astratta’, che diveniva pagina pubblicitaria o copertina di un libro, non dava fastidio al Minculpop, preoccupato semmai di controllare l’immagine ‘riconoscibile’ del paese”, mentre gli stilemi della ‘nuova visione’ internazionale erano fatti propri dalla comunicazione istituzionale del Regime, come ben dimostra il caso esemplare della Mostra per il decennale della rivoluzione fascista del 1932.
Dallo specifico all’estetica fotografica il passo è breve e si compiva nel paragrafo successivo, dedicato alla messa a punto delle esperienze di quella nuova generazione di fotografi e critici che si era affacciata sulla scena italiana sullo scorcio degli anni Trenta, offrendo “il primo organico tentativo (…) di sistematizzare la problematica del linguaggio e dell’estetica fotografica, indicandone alcuni valori specifici”. Ne era derivata per Zannier addirittura la formulazione di una “teoria della fotografia” di ispirazione crociana, su cui fondavano la contrapposizione (che sarà cruciale anche per il successivo manifesto de La Bussola) tra fotografia artistica e documentaria, ma che soprattutto fu una “bella testimonianza di queste malinconie giovanili su cui si innesta un autentico rifiuto”[826]. Esito e sintesi di quel momento importante per il relativo rinnovamento della fotografia italiana fu come è noto l’annuario pubblicato da Domus nel 1943[827], a proposito del quale Zannier confermava il giudizio nettamente positivo già espresso nel 1978. Il racconto proseguiva poi sino alla più stretta contemporaneità con analogo impianto mentre si riconfermava, forte, il senso di mancanza di un disegno storiografico identificabile, di un’analisi storica e culturale (ma le due mappe sono in parte sovrapponibili) delle forme e varianti della produzione e della comunicazione fotografica, troppo spesso poco più che accennate, nella convinzione ingenua, ribadita ancora recentissimamente nella riedizione di quest’opera, che sia possibile fare una “storia ‘pura e semplice’, una collezione letteralmente sterminata di fatti ben documentati che non hanno bisogno di interpretazioni sofisticate, che sono accessibili a tutti.”[828] Per Paolo Costantini che lo recensì si trattava di una “sintesi storica, quindi necessariamente condizionata dalla obbligata sinteticità (…) che offre numerose coordinate per analisi più circostanziate, cui questo volume si pone ora come preziosa cornice di riferimento”[829], mentre per Sauro Lusini il lavoro di Zannier non presentava “grosse novità; è piuttosto un’esposizione aggiornata e sufficientemente completa di quanto già si sapeva per essere stato scritto in saggi e interventi di varia natura e di vario spessore (…) il merito indubbio è di aver dato sistematicità di trattazione all’argomento in una esposizione piana, di facile lettura (…) e non è merito da poco questo che permette oltretutto a un vasto pubblico di accedere a notizie altrimenti disponibili solo per il ristretto numero degli addetti ai lavori.”[830]
Intorno al 1989
Il decennio appena trascorso era stato segnato dallo svolgersi di un’ampia e variegata serie di iniziative (libri, mostre, periodici) che testimoniavano un interesse per la storia della fotografia (non solo italiana) certo crescente ma ben lontano, almeno da noi, dall’essere consolidato e unanimemente accolto. Così, ad esempio, mentre Luigi Ghirri redigeva una serie di appunti di argomento storico per un suo importante ciclo di lezioni[831], una storica dell’arte autorevole come Paola Barocchi – che pure ne avrebbe poi considerato la storia “una disciplina nuova e fondamentale per analizzare e ricostruire mondi visivi diversi”[832] – non ritenne di includere alcun testo relativo alla fotografia nella preziosa raccolta di fonti sulla Storia moderna dell’Arte in Italia[833]. In un simile contesto l’anno centocinquantenario dell’invenzione (convenzionale come molti altri) costituì l’occasione per realizzare alcuni importanti progetti, elaborati da Paolo Costantini e Italo Zannier[834], ma vide anche, accanto a quelli e indifferente alle ricorrenze celebrative, la pubblicazione dell’importante saggio di Abruzzese a Grassi compreso nella “Letteratura italiana” di Einaudi. A questi si affiancarono numerose iniziative a scala regionale (Trentino Alto Adige, Toscana) e locale, interessando sia i centri maggiori che alcune aree più periferiche e marginali, ma non meno rilevante e significativa fu anche la pubblicazione di alcuni repertori e di numerosi studi monografici sia in forma di articolo che di volume o catalogo di mostra.
Lontani e quasi ignari delle inquietudini storiografiche della nascente critica postmoderna[835], gli studiosi italiani si confrontavano con due produzioni di impostazione diversamente modernista quali le traduzioni italiane del catalogo della mostra curata da Peter Galassi nel 1981 per il MoMA e della storia della fotografia scritta a più mani sotto la direzione di Jean-Claude Lemagny e André Rouillé[836] di cui si è detto, tradotta in italiano quasi allo scadere del 1988.
Proprio Galassi e Lemagny furono tra i principali relatori al convegno che si tenne a Genova il 7 e 8 aprile 1989, promosso dall’Ansaldo in occasione del riversamento su videodisco del proprio archivio fotografico. L’incontro intitolato alla Fotografia: dallo specchio del reale alla perdita di identità intendeva mettere a confronto studiosi di settore, storici e archivisti[837] intorno a questioni da lunga data irrisolte quali la nozione di documento applicata alla fotografia o le sue valenze artistiche, in un contesto culturale e tecnologico che si collocava alla soglia della rivoluzione digitale (essendo già ben presente l’informatica nell’elaborazione di basi di metadati a supporto dell’archiviazione elettronica delle immagini su memorie ottiche). In quell’occasione Galassi ripropose diligentemente le tesi del 1981, del resto ribadite nella Nota all’edizione italiana datata giugno 1988[838], mentre Lemagny avanzò alcune riflessioni sul rapporto tra fotografia di documentazione e fotografia d’arte. Altrettanto generali i termini dell’intervento di Zannier a proposito di Emergenze, stereotipi e trasgressioni nella storia della fotografia italiana, che offrì “un impianto problematico-interpretativo minimale ma comunque tale da produrre risultati interessanti” perché, nonostante numerose riserve, “ci pare pur sempre fuor di dubbio che procedere ad un lavoro di sistemazione di questi 150 anni di attività fotografica secondo questa prospettiva sia comunque lavoro importante, e per alcuni versi preliminare e necessario.”[839] Dopo una serie di interventi monografici e la presentazione di ricerche settoriali[840] la rassegna si chiudeva con alcune considerazioni di Fabrizio Celentano a proposito di conservazione, nelle quali sollecitava la convergenza di ricerche fisico chimiche e storico critiche, essendo la conoscenza delle tecniche “assolutamente imprescindibile per la conservazione del materiale”, dovendo però quelle indagini fondarsi “su una conoscenza approfondita delle tecniche in uso all’epoca in cui fu effettuata la fotografia (…) in un processo circolare di continuo accrescimento delle conoscenze [che] possono portare a confermare o approfondire le conoscenze degli storici.”[841] Indicazione importante, già avanzata in occasione della tavola rotonda su Conservazione e restauro delle fotografia quando, pur includendo ancora – pericolosamente – i processi di intensificazione tra i possibili interventi di ‘restauro’, lo studioso aveva richiamato la necessità di “iniziare un serio lavoro di ricomposizione delle due culture [poiché] questo non è lavoro da letterati o storici dell’arte, quali sono tradizionalmente la maggior parte dei conservatori. Ma non è neppure lavoro da tecnologi privi delle conoscenze indispensabili per comprendere i valori che si vogliono salvare.”[842] Questione nuova per la nostra cultura, ma certo non inedita essendo in parte stata affrontata già nel corso della tavola rotonda conclusiva del I Convegno nazionale sulla conservazione delle immagini fotografiche[843], coordinata da Arturo Carlo Quintavalle e dedicata a La ricerca fotografica per la conservazione e il restauro di immagini fotografiche. In quella occasione l’accento dei relatori[844] venne posto in particolare su procedure e tecnologie, ma con importanti aperture dedicate alla lettura filologica delle caratteristiche dell’immagine dovute ad Anne Cartier-Bresson, che aveva negato esplicitamente ogni validità alle ipotesi ancora attive di restauro chimico.
Il resoconto dei lavori del convegno di Genova redatto da Tomassini per “AFT”[845] assunse le caratteristiche di una approfondita riflessione metodologica fondata sul riconoscimento di due accezioni contrapposte e irrisolte della fotografia, intesa come espressione artistica (Zannier) o come forma e fonte documentaria (Ortoleva), senza che dai lavori fosse emersa una posizione unificante in grado di tener conto e applicarsi all’immenso campo di produzione, uso e studio della fotografia, poiché gli storici contemporaneisti disponevano di un impianto metodologico più solido ma collocato in un contesto in cui “l’analisi del linguaggio fotografico era utile e finalizzata a fare non una storia della fotografia, ma a fare storia attraverso la fotografia.” Restava cioè non risolta, e in parte addirittura non colta, la questione che “a 150 anni dall’invenzione di Daguerre, ancora ci dobbiamo interrogare (…) sul fatto se si possa configurare una disciplina capace di unificare nella sua analisi lo studio di tutto quello che si è prodotto in questo secolo e mezzo; una disciplina autonoma, con una metodologia ed un contenuto propri, con un accettabile statuto epistemologico; oppure se si debbano mutuare strumenti metodologici tipici di altre discipline, come appunto la storia o la storia dell’arte, per analizzare volta a volta i diversi tipi di produzione fotografica.” Tra le possibili strade da percorrere per affrontare metodologicamente il problema, di particolare interesse si prospettava quella indicata da Giulio Bollati, che aveva esteso l’orizzonte dei temi di indagine sino a prefigurare la necessità di una storia culturale: “Ci possiamo forse oggi domandare se esista la possibilità di fare una storia, oltre che della fotografia in quanto tecnica, o della fotografia in quanto forma d’arte, anche del modo in cui la fotografia si è collocata nel contesto della cultura del tempo, del modo in cui la fotografia è stata accettata (o respinta) dalla cultura dell’epoca e come se ne è definita volta a volta l’essenza e il concetto. Poiché ci pare non si possa negare che volta a volta il modo di vedere, o di valutare, di concettualizzare la fotografia è cambiato durante le varie epoche. (…) In altre parole, al di là dell’esempio specifico, quello che andrebbe studiato è il contenuto di modernizzazione della cultura da parte della fotografia come mezzo di comunicazione visiva: ovvero il modo in cui la fotografia partecipa al processo di sviluppo complessivo della società e della cultura fra Ottocento e Novecento.”[846]
Il triplice riconoscimento di “emergenze, stereotipi e trasgressioni” enunciato al convegno di Genova costituì il criterio con cui venne imbastita la mostra romana 150 anni di fotografia in Italia: un itinerario curata da Zannier e Costantini (così al frontespizio), costruita intorno all’opera di sedici grandi autori oltre alla firma Alinari: da Giuseppe Venanzio Sella a Paolo Gioli, secondo criteri che richiamavano inevitabilmente l’impostazione adottata da Peter Pollack nel 1958 e che già all’epoca avevano sollevato più di una perplessità. La breve introduzione al catalogo si segnalava per genericità (“Nei centocinquant’anni che sono trascorsi, oltre alla curiosità, l’emozione per la fotografia non è mai venuta meno”; “Paolo Monti veste la fotografia con una patina di cultura, che si rapprende in immagini di poesia” , ecc.) e per la riduzione del panorama storico a una serie cronologicamente ordinata di medaglioni, con scarsi nessi reciproci e senza alcuna attenzione per i vari momenti e contesti della vicenda culturale a cui ci si era richiamati a Genova, solo vagamente accennati nelle schede dedicate a ciascun autore. Non era certo quello di cui la storiografia italiana aveva bisogno per crescere e consolidarsi, così come risultava di scarso interesse l’ennesima riproposizione di immagini ben note, come la bella sequenza veneziana di Giuseppe Primoli già pubblicata da Vitali o le fotografie tardo pittorialiste di Massimo Sella (il terzo nella serie delle presenze di questa importante famiglia), di cui venne riproposto con poche varianti il portfolio già presentato su “Fotologia”[847], ma qui collocandolo sotto l’etichetta barthesiana[848] della “insistenza dello sguardo”; quella che aveva dato nome all’altra mostra, aperta poco prima a Venezia con il sottotitolo Fotografie italiane 1839-1989 e un gruppo di curatori (ora rigorosamente in ordine alfabetico) costituito da Palo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola e Italo Zannier.[849] Il testo omonimo di Costantini dichiarava in apertura l’intenzione di indagare criticamente “la natura della fotografia e la sua capacità di estendere la nostra percezione”, invitando l’osservatore “a porsi il problema di cosa possa esistere in una fotografia al di là della descrizione letterale della realtà quotidiana. (…) Mentre fissa con insistenza il suo sguardo indagatore e talora inquieto, la fotografia ha il potere di suggerire altre indicibili realtà, celate sotto una minuziosa descrizione superficiale.” Non la ricostruzione di un tracciato ma la messa a punto di un’ipotesi critica che potesse offrire elementi sufficienti per definire e leggere Un panorama (questo il titolo della prima sezione) della contemporaneità italiana più inquieta (tra suggestioni neotopografiche e ghirriane), in qualche modo supportata, almeno nelle intenzioni, dal riconoscimento di Una tradizione (così la seconda sezione). Una possibile genealogia che consentisse di rintracciare almeno idealmente le origini di “questo atteggiamento analitico e metodico”, scegliendo “opere della tradizione della fotografia italiana diverse per stile, tecnica e periodo nel quale sono state prodotte: ma che partecipano di un comune temperamento estetico sul visibile e l’atto stesso del vedere.” Non l’indicazione di una possibile storia della fotografia in Italia quindi, ma una proposta critica storicamente verificata allo scopo di presentare e interpretare una certa idea di fotografia italiana contemporanea, nella consapevolezza che “quello stesso atteggiamento meno immediato nei confronti del mondo reale (…) si ritrova in alcune immagini storiche”. Un’operazione di legittimazione genealogica per certi versi analoga a quella posta in atto giusto sessant’anni prima con la mostra Film und Foto (FiFo) organizzata a Stoccarda dal Deutscher Werkbund nel 1929.
Al testo di Costantini corrispondeva la sezione contemporanea, mentre il contributo di Zannier La fotografia è la fotografia apriva e accompagnava il percorso storico offrendosi come “una sintesi nel coacervo della sua storia” , destinata a illustrare la centralità di “questa nuova arte” nella società coeva. La serie di riflessioni e pensieri che lo costituivano affrontava il nodo della fotografia “nella logica della crescita esistenziale”, riconoscendo già qui le emergenze e i “conseguenti stereotipi”, le trasgressioni e le anomalie; anzi affermando come fossero proprio “queste ultime soprattutto [che] abbiamo voluto evidenziare” , ma senza poi procedere a una definizione esplicita di questa categoria interpretativa, che anzi ci pare fosse in palese contraddizione con l’assunto generale che ne determinò le scelte, condotte a partire dalla “attenzione specifica (…) del fotografo nei confronti della realtà; ossia la sua meditazione, anche istintiva, sull’identità linguistica della fotografia.” (corsivo dell’autore). Da queste contraddizioni non risolte discendeva l’articolazione generica della seconda parte (quella che avrebbe più propriamente potuto definirsi come storica) in cui la presentazione delle svariate forme e modalità di quello che Zannier chiamava il “mestiere dello sguardo” si risolse in una più che prosaica antologia, semplicemente disposta a ritroso, in cui inevitabilmente si ritrovavano molti degli autori presenti anche nell’esposizione romana: affinché si potesse chiudere il cerchio.[850]
Il contributo firmato da Alberto Abruzzese e Carlo Grassi per la “Letteratura Italiana” Einaudi offriva ben altri motivi di interesse e, quasi a voler rispondere alle migliori attese espresse dal convegno di Genova, riconosceva nell’avvento “della fotografia, che dell’immagine industriale e di massa è l’evidente affermazione” la forma originaria dei rapporti tra letteratura e media[851]. Per i due studiosi si trattava di provarsi “a risalire di volta in volta alle fasi genetiche del linguaggio preso in esame. (…) Se il punto cruciale dell’impatto tra letteratura e media sta (…) nel rapporto tra analogicità e digitalità dei linguaggi e se lo sfondo temporale, la chiave interpretativa che ne deriva, risiede nei ‘passaggi’ dalle tecnologie preindustriali alla riproducibilità tecnica e da questa alle tecnologie elettroniche, allora il primo capitolo non può che essere dedicato all’incrocio tra letteratura e fotografia, all’arco delle sue evoluzioni, dalle sue origini alla sua vita attuale.”[852] Ciò che rendeva notevole quel testo ben al di là del merito specifico era il contributo metodologico proposto e attuato, pur con grandi cautele critiche (che anzi lo rendevano prezioso) dai due studiosi, che individuavano il nodo problematico e il filo conduttore della loro analisi nella “pura e semplice ‘composizione’ del mezzo fotografico e [nella] natura del suo uso: il suo essere ‘luogo’ avanzato delle contaminazioni tra lavoro umano e lavoro meccanico, soggettività e automatismo, oggettività e interiorità, sguardo individuale e sguardo collettivo, produzione consumatrice e consumo produttivo. Autonomia ed eteronomia del linguaggio visivo, inscrizione e straniamento dell’attore.” Ne conseguiva che “il potere innovativo della fotografia non fu tanto o soltanto nella trasformazione della qualità e della quantità delle immagini socialmente operanti sul territorio (…) ma soprattutto nell’avere introdotto un rapporto epocalmente nuovo tra percezione umana del mondo e processi di automazione ‘artificiali’. Proprio con l’avvento di un dispositivo che verrà spesso teorizzato o pubblicizzato come rappresentazione autentica della realtà, l’uomo comincia a perdere il controllo del reale, a precipitare nell’irrazionalismo, nella ‘disumanità’, nel dominio fascinatorio della tecnica.” Da qui l’interesse mostrato per le origini, per l’avvento della fotografia in Italia “che va colto nel suo nascere come notizia, nel suo apparire come curiosità ‘europea’ (…) nel suo darsi alla divulgazione come racconto ibridamente sospeso tra scienza e mito, nel suo essere letteratura d’anticipazione, fascinazione ‘meccanica’ e ‘chimica’.” Ne risultava una trattazione che non si sottraeva a quella stessa ibridazione, facendo ricorso anche ai cosiddetti “antecedenti prefotografici” (da Della Porta a Celio) di evoluzionistica memoria contro cui aveva giustamente tuonato Schwarz a Genova, ma aprendo poi a suggestioni affascinanti e metodologicamente tanto utili quanto poco adottate nel contesto specifico della nostra storiografia fotografica. Si pensi a quella “forte consapevolezza della corrispondenza stretta tra nuove sensibilità dell’uomo industriale e linguaggio fotografico” che gli autori riscontravano “nella frequenza stessa con cui si diffondono in Italia i manuali per fotografi dilettanti (…) L’attrezzo e la fantasia si accendono sul mercato”; o ancora alla precisa individuazione di alcune caratteristiche fondamentali del rapporto pittura fotografia, uno dei leitmotiv di qualunque storia dedicata al mezzo, qui interpretato a partire dalla condizione specifica della relazione col testo che già fu dell’illustrazione, ma giungendo a considerazioni di ordine più generale: “L’immagine pittorica (in qualche misura anche omologabile, almeno per ‘tradizione’, al ‘prodotto artistico’), nel suo scarto palese tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione, produce uno spaesamento ma lo consegna alle capacità mentali dei fruitori. Al contrario l’immagine fotografica (in larga parte affidata a meccanismi automatici che escludono la presenza dell’uomo e dunque, sempre secondo la tradizione, in una condizione anti-artistica), nel suo scarto occulto tra rappresentazione e oggetto della rappresentazione produce uno spaesamento che non può essere compensato, colmato, né dalla presenza/ assenza dell’immagine né dalla sola mente del fruitore. (…) La fotografia non può legarsi con ogni forma di scrittura, ma solo con quelle che rivelano un equivalente salto tecnologico, una modificazione altrettanto intensa del lavoro intellettuale impegnato nella produzione e nel consumo. (…) Analogamente la fotografia non può legarsi con ogni tipo di forma pittorica ma solo con quelle che rivelano un equivalente salto tecnologico e le modificazioni strutturali di cui sopra. Solo a questo punto la fotografia sviluppa la tradizione dell’arte, si fa pittura. Nel primo caso si tratta nel nuovo legame che viene a stabilirsi tra immagine fotografica e giornalismo o figure di letterati particolarmente attenti alle strategie di consumo. Nel secondo caso si tratta dell’innesto tra fotografia e avanguardie storiche.” [853] Su quelle premesse cresceva e si sviluppava l’analisi del rapporto tra scrittura e fotografia, affrontando alcuni momenti topici come il Verismo, il Futurismo o i rapporti con la carta stampata, ma anche le figure di Elio Vittorini e di Italo Calvino, offrendo contributi interpretativi che per coerenza e valore ancora oggi devono essere meditati da chiunque intenda affrontare un discorso più ampio sulla fotografia nel contesto della cultura italiana.
Alcune indagini a scala locale e la questione dei generi
Il più significativo fenomeno del periodo fu però la crescita esponenziale di mostre e pubblicazioni dedicate a contesti locali; in troppi casi segnate dalle lusinghe di un “distorto ricorso alla storia, delle fughe nel tempo (ma nell’unità abitudinaria di luogo), in breve la nostalgia del com’era.”[854] Da Accadia (FG) a Zeri (MS) furono almeno una trentina le località di differente dimensione urbana e culturale[855] di cui in quell’anno si scoprì e si offerse al pubblico l’iconografia fotografica storica, solo in pochi casi cogliendo l’occasione per studiare l’attività e la figura di chi l’aveva prodotta. La qualifica di ‘locale’ racchiudeva però, e a volte occultava, problemi e accezioni tra loro dissimili, né direttamente proporzionali alla rilevanza del luogo. Così, ad esempio, il volume dedicato ad Amelia un secolo di storia allo specchio 1860-1960, curato da Franco della Rosa per il locale Gruppo di ricerca fotografica, si presentava come “paradigmatico ed esemplare, rispetto a un vero e proprio ‘genere’ che ha già prodotto molte prove di diverso valore (…) [che ha] una sua validità euristica (…) perché offre un frammento di visione di una realtà altrimenti irrecuperabile, [poiché] la cura della buona riproduzione, il rispetto per l’aspetto tecnico e oggettuale della fotografia, appare quasi, in questo campo, un equivalente della filologia nell’edizione di documenti per la storia.”[856] Notazione fondamentale questa espressa da Tomassini, che indicava un discrimine per la storiografia fotografica e non solo per l’edizione delle sue fonti iconiche, in contrasto con l’opinione espressa sulle stesse pagine da Fernando Tempesti, che recensendo un nuovo studio dedicato alla Trieste dei Wulz[857] segnalava come positivo il fatto che in questo volume “l’oggettualità delle foto è meno in primo piano.”[858] L’occasione che questi studi offrivano e sollecitavano per riflessioni di più ampio respiro non costituiva l’ultima delle ragioni del loro interesse, dovuto però alle qualità ermeneutiche dei recensori piuttosto che dei produttori, in particolare per quanto riguardava le questioni documentarie e il loro rapporto con la storia, che Tomassini intendeva come “attribuzione di senso, percorso logico che lega e connette i documenti in una visione della realtà che consiste essenzialmente nella ricerca di un nesso cronologico e causale fra gli eventi: e niente ha a che fare con i singoli pezzi di realtà che si rispecchiano nel documento isolato.”[859] Di più, e per meglio comprendere i limiti di queste operazioni, quando la storia locale non era in grado di formulare “una domanda di ordine generale (…) alle testimonianze offerte da un campo di esperienza limitato”[860], allora era “proprio la negazione della storia” ciò che ne risultava; produzioni che solo occasionalmente riuscivano a sollecitare almeno un interesse per il patrimonio locale non effimero né equivoco.
Altre furono le intenzioni, altri i presupposti e gli esiti di alcune ricerche a scala territoriale o urbana pubblicate in quell’anno, come i progetti relativi al Trentino Alto Adige e Tirolo[861] o alla Toscana[862]. Mentre il primo si presentava come un sintetico tentativo di delineare le vicende storiche della fotografia in quell’area di confine, e di conflitto, sulla scia lunga degli studi di Enrico Unterveger e poi di Floriano Menapace, il secondo si proponeva obiettivi più ambiziosi, confidando anche su una disponibilità di ricerche d’area incomparabilmente maggiore. Vennero così presentate alcune figure nuove e magari inedite di autori, nella consapevolezza che “la storia della fotografia a Firenze negli anni cruciali subito dopo la scoperta a tutt’oggi aspetta uno studio sistematico che possa ricostruire (…) le reali tendenze di stile e le personalità più emergenti dell’epoca”, con uno sforzo più che encomiabile di uscire dal rischio di appiattimento sul fenomeno Alinari (e in subordine Brogi); per non “dimenticare che prima o contemporaneamente ad Alinari nella città l’arte di fotografare veniva praticata da un sempre più alto numero di fotografi, della maggior parte dei quali però, e per le ragioni più varie, sono andate perdute le tracce, o comunque sono pervenute testimonianze assai ridotte rispetto alla reale posizione che dovevano occupare all’interno della categoria”. Fonte privilegiata per il recupero di quelle tracce, e del resto non nuova per la storiografia nazionale[863], furono le guide turistiche e commerciali, analizzate anche per comprendere “gli schemi di interpretazione e di percezione del mondo che la cultura dell’epoca metteva a disposizione”[864] di quel pubblico di ‘forestieri’ che costituiva il bacino di utenza della produzione legata alle città d’arte (toscane e non solo). Il riconoscimento di quella dinamica consentiva di comprendere perché da quelle fotografie “non traspare se non minimamente il cambiamento della città”, tema che evidentemente non riscuoteva l’interesse degli acquirenti, mentre si confermavano gli stereotipi della tradizione vedutistica, solo e inevitabilmente aggiornati dal linguaggio proprio del nuovo mezzo. Ben diversa l’interpretazione del fenomeno avanzata da Paolo Costantini[865] a proposito di Venezia, che parlava invece di “un non trascurabile mutamento nel modo di percepire e di valutare dati familiari, causato dall’ingresso della fotografia (…). La fotografia è stata spesso erroneamente considerata come una semplice modificazione di natura prettamente tecnica rispetto alla tradizione grafica e incisoria (…). Tale considerazione è frutto di un apparente inserimento del nuovo paradigma fotografico in questa tradizione, che una frettolosa storiografia ha preso per buono”, sebbene poi, poco oltre fosse portato a riconoscere che “la fotografia partecipa invece subito della cultura e della sensibilità figurativa legate all’immagine topica settecentesca e alla sua istituzione come sottogenere vedutistico.” Una questione derivativa che diremmo tuttora aperta e valida per qualunque analisi che si muova all’interno dei ‘generi’ di tradizione grafico pittorica, ma considerando opportunamente le conseguenze di quello che lo studioso chiamava “nuovo paradigma”, richiamandosi direttamente al concetto definito da Thomas Kuhn per la filosofia della scienza. Un mutamento generale da verificarsi di volta in volta considerando il più ampio contesto produttivo e culturale nel quale quelle produzione erano calate, in un continuo meccanismo di feedback che implicava anche il ricorso degli stessi studi fotografici alle guide, specialmente locali, quale traccia per la scelta delle opere da fotografare.
Ancora ai problemi storico critici di interpretazione dei generi era dedicato un intervento di Mariantonietta Picone Petrusa che sviluppava alcune riflessioni già esposte in un suo saggio del 1981 e si soffermava ora sulle ‘fotografie di costumi’, intendendo con questo termine “due cose distinte che hanno origini iconografiche distinte: e precisamente la ripresa del costume inteso come abbigliamento tipico di un paese o di una regione, oppure la rappresentazione di una serie di mestieri ambulanti o delle abitudini di vita dei ceti popolari urbani o rurali.”[866] Senza entrare nel merito della serrata analisi condotta dall’autrice tra iconografia artistica e nascente cultura etnografica, ciò che emergeva era l’interpretazione di questo fenomeno che non solo viveva di tradizioni rappresentative analoghe a quelle relative ai luoghi ma condivideva con le fotografie dei monumenti “gli stessi canali mercantili delle incisioni e delle gouaches, rivolgendosi allo stesso pubblico di viaggiatori stranieri”, con la necessaria avvertenza però che qui lo stereotipo assumeva un senso in parte distinto, più esplicitamente ideologico, in cui “l’intento conoscitivo si confonde con quello propagandistico e (…) il risultato comporta una edulcorazione, quando non un occultamento dei reali disagi delle classi subalterne. Questo dato ideologico rappresenta il nocciolo della costante iconografica e assicura quindi una continuità dall’incisione e dalla pittura alla fotografia”, confermando e conservando una distanza dal reale che, appunto, era possibile riconoscere anche in molta produzione coeva di fotografie di monumenti e di veduta urbana destinate al pubblico dei viaggiatori.
Una sintesi della questione, con un particolare accento sulla lunga durata, è stata di recente proposta da Miraglia[867] che ha ricordato come “i generi, fagocitati, digeriti e spuntati fuori con abiti totalmente difformi rispetto a quelli tradizionalmente indossati (…) mostrano la propria validità e la propria utilità comunicazionale.” Procedendo in un rapido excursus storico la studiosa ricordava le ragioni per cui la fotografia non poté “adottare se non i generi bassi della pittura [natura morta, paesaggio], il che inevitabilmente la travolse in quei giudizi di demerito e di sommo disprezzo che, prima del suo avvento, avevano così pesantemente gravato sui medesimi generi delle arti sorelle, tanto più che al limite della manualità denotata della pittura realistica era venuta a sostituirsi la meccanicità involontaria di un processo che automaticamente la escludeva da ogni possibilità interpretativa e autoriale.” Meno convincente, e forse per questo in contraddizione apparente con quanto precedentemente affermato, il passaggio critico successivo secondo il quale “il lento fluire dalla denotazione alla connotazione fotografica [avrebbe portato] quindi, implicitamente, verso il superamento” di quello stato di cose, poiché “smantellare o cercare di smantellare il monopolio ideativo e formalizzante della pittura alta (…) equivaleva a riconoscere l’autorialità del medium meccanico e, simmetricamente, a incamminarsi, con decisione, sulla strada del superamento dei generi.”[868]
La necessità di “interpretare il materiale fotografico soprattutto a partire dal pensiero dell’epoca circa le immagini e le nuove tecniche di riproduzione della realtà”[869] rappresentava ormai una acquisizione metodologica largamente condivisa, che implicava “una ricerca tesa a valorizzare i documenti dell’epoca (riviste, articoli, manuali, trattati) al fine di tracciare un quadro il più possibile rigoroso di quello che fu il milieu dei primi fotografi nei suoi legami con gli ambienti culturali, artistici e scientifici”[870] sebbene fossero ancora da scontare non poche difficoltà nel reperimento delle fonti. Questi richiami erano il chiaro indizio di un clima nuovo, di un diverso modo di intendere anche in Italia il fare storia della fotografia, che si proponeva di adottare e adattare al proprio specifico le metodologie proprie degli ambiti di più lunga tradizione di studi, mentre si faceva sempre più pressante e qualificato il dibattito intorno al trattamento stesso delle fonti primarie, vale a dire la catalogazione delle fotografie e la costruzione di veri e propri repertori[871] dei fotografi attivi nelle varie realtà territoriali. Un ambito di ricerca specialmente sviluppato in quegli anni in area emiliana anche per impulso dell’IBC, tra i promotori del convegno di Modena del 1979 e da sempre attento al tema del patrimonio fotografico storico.
“Un moderno museo di fotografia – scriveva Paolo Costantini in quell’anno[872] – raccoglie due categorie di materiali: le collezioni di opere alle quali ci si riferisce come i principali testi della produzione di un fotografo (‘master print’ il termine inglese) e i fondi archivistici, dove si raccolgono prove di stampe, versioni alternative, contatti, negativi, corrispondenze, manoscritti, e ogni altro genere di materiali che possano essere considerati utili allo studio della vicenda artistica, sociale e personale di un determinato autore. Sempre più si avverte la necessità di avvicinare il fotografo non solo attraverso l’esame delle sue opere più o meno conosciute, ma anche attraverso lo studio dei suoi, spesso apparentemente irrilevanti, materiali d’archivio. Talvolta, dal contatto tra queste due categorie, possono anche scaturire nuove informazioni, inattese precisazioni, folgoranti illuminazioni. Tuttavia, al ricercatore non può sfuggire la natura frammentaria, mai neutrale e spesso ingannevole di questi brandelli d’evidenza, che richiedono un supplemento d’interpretazione prima di poter diventare documenti dell’esperienza fotografica. Che solo inseriti in un preciso quadro di riferimento storico, pazientemente catalogati e archiviati secondo norme scientifiche, possono perdere la loro opacità (mantenendo però il delicato ‘sapore’ di quel passato), e aprirsi alla nostra comprensione e interpretazione.” Nonostante il permanere di alcune resistenze e cautele, legate a una concezione ancora sostanzialmente formalista dell’opera fotografica, ritroviamo in questo passo conferme degli indizi già prima segnalati di un mutato atteggiamento storiografico, che non possiamo dire fosse del tutto nuovo ma del quale si deve collocare in quegli anni la progressiva, magari contraddittoria estensione. A questo proposito e solo a titolo di esempio ricordiamo che le pagine che seguivano queste riflessioni di Costantini ospitavano sì una ricca e variegata serie di documenti legati alle vicende dell’atelier triestino dei Wulz, ma riprodotti in formati illeggibili, per puro ornamento[873], così come il trattamento editoriale delle fotografie era ben lontano dall’accuratezza filologica che ci si poteva attendere, con date di realizzazione prevalentemente mancanti, indicazioni tecniche sospette[874] e una qualità di riproduzione che uniformava al grigio la maggior parte delle immagini riprodotte. Questo orientamento a favore “dell’immagine vera e propria e della sua più interna problematicità”, che ne relegava in secondo piano la specifica materialità di oggetto era però apprezzata – come si è visto – da uno studioso come Fernando Tempesti perché, a suo dire, consentiva di svincolare “i ‘fatti’ da certi ormeggi fin troppo ravvicinati, per avviarli a più lontani e desiderabili approdi, che promettono, anche grazie a più approfondite conoscenze in materia di fotografia, novità e scoperte riguardo a tutto il visibile.”[875] Brani che sono utili indizi, segni di contraddizioni forse involontariamente convergenti, non dissimili da quelle che avevano determinato la stessa iniziativa: l’occasione di pubblicazione fu infatti la mostra triestina che celebrava l’acquisizione dell’Archivio Wulz da parte degli Alinari, con conseguente trasferimento a Firenze presso l’omonimo Museo di Storia della Fotografia. Occasione discutibile se mai ve ne fu una, nella quale una città ricca di tradizioni culturali come Trieste festeggiava il depauperamento di una parte del proprio patrimonio fotografico storico[876]. La più rilevante anzi, a prestar fede alle stesse, puntuali analisi contenute nel volume; basti considerare il lungo saggio di Elvio Guagnini, Trieste nella camera oscura, che leggeva la storia dei Wulz come “osservatorio privilegiato” da cui guardare alle più disparate accezioni del “testo fotografico” considerandone anche il “grandissimo valore documentario (…) che riveste oggi nella ricerca di ogni genere: dello storico tout court, dello storico dell’arte, dello storico del costume, dello storico delle tradizioni popolari, dello storico dei fatti economici, del geografo, dello studioso di urbanistica, dello storico dell’architettura ecc.”[877], nella consapevolezza che doveva valere, certo, anche l’inverso e che quindi l’attività di un fotografo non potesse essere considerata al di fuori del proprio contesto e che fosse quindi necessario “guardare e distinguere all’interno di una produzione amplissima” come è quella di una città importante, in cui “anche la quantità aveva il suo significato.”
Monografie
Un’attenta ricostruzione del contesto, condotta sulla base di inedita documentazione archivistica e sull’analisi documentale delle molte fotografie della sua collezione, caratterizzava come di consueto anche gli studi monografici di Piero Becchetti pubblicati in quell’anno, in un continuo approfondimento della scena fotografica romana. Tale era la prima, fondamentale monografia dedicata a Giacomo Caneva[878], che risolveva definitivamente il problema attribuzionistico di molti esemplari, specialmente negativi, compresi nel fondo Tuminello conservato presso l’ICCD e definiva per la prima volta organicamente, sebbene con alcuni riferimenti non documentati[879], il profilo della produzione del fotografo di origine padovana. Meno incisiva risultava invece la lettura critica, poiché all’affermazione ancora in parte condivisibile che “il linguaggio fotografico di Caneva [è] superiore a quello dei suoi colleghi della Scuola Romana”, fondata anche sulla convinzione (meno solida) che il suo fu “un grande e primario impegno fotografico, mai pensato sino ad allora da nessun fotografo europeo”, non corrispondeva poi una adeguata analisi del corpus di immagini o delle singole stampe , ciascuna corredata da puntuale scheda tecnica (che sopperiva in parte alla povertà delle riproduzioni) ma con commenti puramente referenziali o generici (“la foto veramente originale del Muro Torto”) in alcuni casi ripresi direttamente da Silvio Negro[880], che sebbene non fosse mai citato nel testo costituiva il riferimento implicito di Becchetti, che pure non ne condivideva le valutazioni. Il prevalere delle ricostruzioni storico archivistiche sull’analisi critica delle immagini, che ha da sempre costituito la cifra dello studioso, si ritrovava anche in un altro suo contributo di quell’anno dedicato a un protagonista minore della scena romana della ‘età del collodio’ come Michele Mang[881], a proposito del quale si provava a tracciare un profilo inserito in quella che, sulla base di relazioni più fattuali che culturali o stilistiche, definiva ‘scuola tedesca’, a partire da alcune osservazioni precedenti di Alberto Prandi il quale però, a dire il vero, non si era spinto a parlare di ‘scuola’, sottolineando semmai come “la presenza tedesca [a Roma] appare più discreta, ma non per questo meno intensa.” [882]
Dall’insieme dei titoli monografici pubblicati in quell’anno emergeva in modo sempre più netto il disegno d’insieme delle pratiche fotografiche nell’Italia del XIX secolo, almeno per quel che riguardava i centri maggiori o di maggiore frequentazione turistica, mentre le ricerche destinate a confrontarsi con la loro diffusione alle varie scale territoriali solo di rado assumevano la forma organica e strutturata dell’indagine storica, come nel caso di Orvieto studiato da Diego Mormorio e Enzo Eric Toccaceli. Troppo sovente si privilegiava invece la riproposizione localistica e ambigua, tra nota aneddotica e atteggiamento nostalgico, al più con una spolverata di etnografia politicamente corretta, ma senza essere poi in grado di restituire dignità e senso all’attività degli ‘irregolari’, ai quali vennero dedicati solo pochi studi, portando l’analisi del fenomeno sin dentro il Novecento.
Marina Miraglia aveva aperto il suo breve saggio dedicato alla prima attività fotografica di Francesco Saverio Nesci[883], piccolo nobile di Calabria, richiamando opportunamente un passo di Luigi Gioppi del 1894 in cui si definiva il dilettante come colui che “è libero del suo tempo, è fornito di un corredo di studi superiori e, il denaro non facendogli difetto, ha il mezzo di scegliere, come l’ape sui fiori, il meglio di ciò che vede, di ciò che si fa, di ciò che si sa, di ciò che impara (…). In altre parole il dilettante fa spesso e molto di nuovo ed aiuta direttamente e indirettamente il progresso della scienza.”[884] Per queste ragioni, e (forse) specialmente in quei contesti la studiosa ribadiva la necessità di “non trascurare tutti quegli aspetti della storia del mezzo che interessano in modo più esplicito la parallela storia della cultura e le sue implicazioni antropiche e sociali”, nella consapevolezza che oltre il portato referenziale ogni fotografia contiene e “trasmette anche una serie di informazioni aggiuntive che, più direttamente, ci parlano del soggetto fotografante, delle sue pulsioni umane, del suo io sociale e politico, della sua sensibilità e della sua particolare formazione culturale. Ed ecco perché la parallela, innegabile, importanza degli ‘irregolari’ nei confronti dei professionisti; mentre questi aderiscono infatti alle esigenze espressive e rappresentative della committenza della propria epoca, rispecchiandone in pieno aspirazioni e ideologie, l’ ‘irregolare’, pur partendo dai medesimi contesti, è capace, come persona di cultura, di significare apertamente i propri giudizi critici, di prendere posizioni più apertamente personali e soprattutto (…) di anticipare e precorrere i tempi, di elaborare cioè – con scarti chiaramente apprezzabili – modi nuovi, linguisticamente nuovi, di vedere ed esprimere il reale.” Particolarmente interessante nel passo citato quel riferimento al contesto comune che coinvolgeva entrambe le categorie anche se, va rilevato, con differenze di ruolo non trascurabili e che forse meriterebbero (ancora oggi) di essere analizzate e magari spiegate. Poiché se è vero – come suggeriva Miraglia – che gli ‘irregolari’ appartenevano alle stesse classi e ceti che costituivano la clientela dei professionisti, allora restavano da chiarire le ragioni per le quali “le esigenze espressive e rappresentative” manifestate come committenza fossero diverse da quelle espresse in sede di autoproduzione. Forse un peso non marginale in questo strabismo visuale dovette svolgerlo la distinta funzione, commerciale o privata, assegnata a quelle categorie di immagini, essendo le seconde, per definizione, “più apertamente personali” e in quanto tali suscettibili di interpretazioni strettamente connesse al soggetto fotografante (o almeno a ciò che di questo sappiamo o crediamo di sapere). Anche per queste ragioni, poi, risultava difficile accogliere l’equivalenza quasi aprioristica tra pratica irregolare, discontinua della fotografia e creazione di modi linguisticamente nuovi di rappresentare la realtà (certo non dimostrata dalle fotografie lì pubblicate) senza introdurre almeno l’elemento quantitativo della produzione di massa, della costruzione tanto collettiva quanto involontaria di una nuova grammatica e di una nuova sintassi propria di un certo tipo di fotografia. Certo non di tutta, come dimostrava a sufficienza la diffusione di un fenomeno tipicamente ‘irregolare’ come quello rappresentato dalla lunghissima stagione, sempre più esangue del pittorialismo. La vecchia distinzione, anche storiografica, introdotta da Adhemar e fatta propria da Vitali sembrava non reggere a una verifica più stringente o – almeno – rivelava tutti i limiti del proprio schematismo nel momento in cui la storiografia raffinava i propri strumenti e l’estendersi delle ricerche consentiva di conoscere nuove figure. Si consideri Secondo Pia, oggetto di una nuova monografia edita in quell’anno per celebrare la donazione di larga parte del suo archivio al Museo nazionale del Cinema di Torino[885]; anche l’avvocato Pia aveva un profilo sociale non dissimile da quello di Nesci; anche lui apparteneva a una famiglia di proprietari terrieri e seguiva l’amministrazione dei propri beni: era insomma un rentier. Anche per lui la fotografia non fu mai professione ma le analogie si fermavano qui perché per Pia, al contrario di Nesci, essa costituì l’impegno principale e costante per quasi mezzo secolo; non solo: il suo ambito di interesse fu sempre precisamente orientato e circoscritto alla puntuale, analitica documentazione (non di rado ricca di scoperte) del patrimonio architettonico e artistico piemontese. Nulla che si possa assimilare alla figura venata di romanticismo dell’amateur “irregolare” di buona memoria. Come dimostrava l’accurato Repertorio dei luoghi, edifici, monumenti e oggetti riprodotti, che costituiva il contributo di maggior interesse del volume a lui dedicato, l’autore astigiano (e altre figure analoghe come Pietro Masoero, Francesco Negri o più tardi Mario Gabinio o Stefano Bricarelli) si era mosso all’interno di un progetto perseguito con grande determinazione. Allora proprio in questo, nella presenza coerente di questo elemento e del suo perseguimento potrebbe risiedere un elemento di valutazione storico critica e poi storiografica dei fotografi che si muovevano al di fuori della professione ma ciascuno con modalità differenti, specie a partire dall’avvento delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento. Un passaggio determinante, su cui concorda tutta la storiografia ma del quale nel panorama italiano sono stati indagati e studiati l’ambiente e le figure (singolari o sociali) degli utilizzatori dimenticando di fatto i produttori: scorrendo i titoli pubblicati nel 1989 si poteva vedere come il solo Cesare Colombo avesse dedicato un breve intervento alla vicenda professionale di Michele Cappelli[886], titolare della prima importante industria italiana di materiali fotosensibili, descritta coniugando felicemente informazione storica e competenza tecnologica, quella che troppo sovente è mancata e manca a molti storici della fotografia.
Verso la catalogazione
Il convegno genovese di cui si è detto aveva anticipato i principali argomenti di confronto e di ricerca: dalle sintesi storiche alle monografie e agli studi di settore relativi a due ambiti con più di un nesso in comune come la fotografia industriale e quella militare e bellica, oltre all’affacciarsi prepotente delle questioni legate alla conservazione e alla catalogazione del patrimonio. Come rilevava l’Editoriale del giugno 1989 di “AFT” considerando il tempo trascorso dalla pubblicazione del suo primo numero (1985), “da quella data la situazione è cambiata: i progetti di intervento per la tutela delle raccolte e l’istituzione di archivi fotografici sono aumentati; molte amministrazioni pubbliche, ma anche istituzioni private, hanno cominciato a investire nel settore, più frequenti si sono fatti gli incontri tra gli addetti ai lavori (…). I tempi sembrano maturi anzi per interventi normativi e legislativi specifici, nonché per l’avvio di una seria azione di coordinamento e indirizzo a livello istituzionale.” L’ultimo, sacrosanto richiamo, indiscutibile nel merito, serviva a introdurre l’intervento di Giuseppina Benassati[887] che apriva il fascicolo preannunciando la pubblicazione imminente de La Fotografia: manuale di catalogazione, da lei curato per la Soprintendenza per i Beni Librari e Documentari della Regione Emilia-Romagna. Il volume, che avrebbe visto la luce solo alla fine dell’anno successivo, rappresentava il primo tentativo organico e compiuto di offrire risposte a un problema che si poneva in termini sempre più urgenti e meno equivoci a cui, com’è noto, gli organismi centrali avrebbero dato una prima risposta solo un decennio più tardi adottando un impianto concettuale profondamente diverso[888].
Nonostante una certa preoccupazione di Benassati che nella “foga dibattimentale che percorre un po’ tutto il paese” i due temi della conservazione e della catalogazione fossero troppo sovente oggetto di “continua commistione”, il fenomeno in sé non poteva che essere considerato di grande interesse da più punti di vista, non ultimo quello storiografico. Solo la conoscenza del patrimonio e l’accesso alle fonti (categorie che in questo settore sovente coincidono) rappresentano da sempre la condizione necessaria, anche se non sufficiente per il formarsi e per la crescita di una solida cultura storica e storiografica, poiché “una esigenza elementare di comparazione, confronto, riaggregazione (…) è essenziale per liberare la ricerca e il lavoro culturale sulla fotografia dal pesante condizionamento derivante dall’isolamento e dalla dispersione del materiale documentario”[889]. Già Fabrizio Celentano nel proprio intervento al convegno genovese aveva ribadito quanto i due temi fossero e dovessero essere strettamente connessi e se il primo termine del problema era quello delle metodiche conoscitive (storiche e tecnologiche) l’altro era costituito dalle condizioni e dai criteri per la condivisione dei loro esiti, vale a dire quello degli standard di descrizione e delle norme di catalogazione, su cui era impegnato da tempo il gruppo di lavoro coordinato da Benassati ma di cui “quasi non si era sentito il bisogno di parlare” al convegno di Genova, cosa che – ancora nelle parole di Tomassini – “non faceva ben sperare.”
Neppure il convegno promosso dall’ICCD in chiusura dell’annata di celebrazioni (Roma, 6 ottobre) offrì le risposte tanto attese, mostrando semmai quanto scarsa fosse ancora la considerazione dei problemi legati alla catalogazione e quindi alla storia della fotografia; quanto grande e infido fosse l’equivoco che presiedeva all’interesse per questa categoria di beni[890]. Lo testimoniava il titolo Le fototeche come conoscenza, tutela e valorizzazione dei Beni Culturali, che non faceva che ribadire la pura riduzione strumentale con cui il tema veniva ancora considerato in quel contesto istituzionale, che pure aveva avuto tra i suoi più autorevoli dirigenti uno studioso attento come Carlo Bertelli, che molto precocemente aveva compreso che “le fotografie più antiche valgono come monumenta esse stesse di un dato periodo storico, e come tali [sono] meritevoli di conservazione e di censimento.”[891] Al 1989 ci si doveva accontentare ancora di radi sebbene interessanti indizi semantici di un possibile ma ancora lontano cambio di rotta, come quelli riconoscibili nel titolo dell’intervento dell’allora direttore Oreste Ferrari, dedicato a Le Fototeche come Beni Culturali, che sembrava indicare almeno nella struttura se non proprio ancora nei beni componenti l’elemento da tutelare. Così Lusini poteva icasticamente notare nel suo puntuale resoconto dei lavori che “di fotografia, nel senso proprio del termine, nel convegno non se ne è parlato.”[892] Erano segni evidenti del ritardo, sebbene non generalizzato e geograficamente disomogeneo, della cultura italiana nei confronti del patrimonio fotografico; della sua conoscenza (anche attraverso la catalogazione), della sua analisi storica e della sua interpretazione storiografica, in parte questa dipendendo da quella ma viziata ancora da una insufficiente coerenza teorica e metodologica, sempre oscillante tra un modello variamente formalista di derivazione ‘artistica’ (non esplicitamente assunto ed anzi, a volte, esplicitamente negato) e l’approccio puramente referenzialistico comune agli storici contemporaneisti e agli storici dell’arte o dell’architettura, non di rado inconsapevoli delle valenze come delle insidie celate sotto la superficie delle fotografie.
1990 -2003
Nuove storie della fotografia
Era ancora Bertelli ad offrire in apertura di decennio[893] un nuovo sintetico quadro, e giudizio, sulla storiografia italiana, dolendosi che a dieci anni di distanza da alcune sue prime segnalazioni, un certo tema non avesse “suscitato (…) l’attenzione che merita fra gli storici della fotografia. Ed è comprensibile che così sia stato, dato che l’impegno degli storici è consistito soprattutto nel riportare la fotografia nell’ambito delle metodologie e degli obiettivi della storia dell’arte, con la conseguenza di privilegiare i momenti della ricerca indipendente rispetto a quelli che presumono un rapporto con la committenza.” Le ragioni di quella scarsa considerazione risiedevano per Bertelli nella “necessità, avvertita dagli storici, di rottura con quanto poteva apparire come un’accettazione passiva del mezzo fotografico, e il desiderio opposto di separare nell’universo della fotografia le espressioni alte da quelle correnti, [necessità] particolarmente avvertita proprio in un libro uscito dalla Scuola di Francoforte negli anni Trenta e che ha agito da vero battistrada. Intendo quello di Gisela Freund su fotografia e società, dove il contrasto fra la banalità del gusto corrente e l’audacia degli innovatori è enunciato nei termini più eroici.” Il riferimento, indiretto, poteva forse essere costituito dagli studi di Miraglia, che alla Freund si era più volte richiamata esplicitamente, ma senza difficoltà era possibile estenderlo alla maggior parte della produzione degli storici italiani, del resto per larga parte provenienti proprio da una formazione storico artistica o architettonica, in anni in cui Zannier era quasi il solo a fornire insegnamenti di storia della fotografia e della sua cultura ai curricula universitari.
La volontà di realizzare un’impresa storiografica svincolata dai modelli tradizionali avrebbe connotato la Nouvelle Histoire de la Photographie, firmata nel 1994 da una équipe internazionale diretta da Michel Frizot e mai tradotta in Italia. Se la scelta di redigere un’opera a più mani la accomunava alla precedente Histoire prodotta in Francia (Lemagny et al. 1988), altre ne erano le premesse fondamentali: “Noi abbiamo tentato – si affermava in premessa – di rendere giustizia a tutti, alle forme pure dell’arte così come alla spontaneità delle espressioni popolari: la fotografia non è che il fragile prodotto di una scatola nera più o meno orientata, più o meno stabile, più o meno affidabile; ed è un individuo più o meno abile che maneggia il dispositivo. Al limite ci interessa di più capire perché si fotografa (bene o male) piuttosto che mostrare come si fotografa bene. Quest’opera è quindi l’esplorazione di un genere di immagini che sono considerate contemporaneamente esotiche malgrado la loro prossimità, sospette di prelevare una porzione dell’essere, portatrici di memoria, e che producono ancora delle tensioni, risvegliano delle immagini mentali, provocano desiderio o repulsione. (…) E’ nell’insieme di questi intrecci presentati con chiarezza che noi speriamo di aver reso giustizia in uno stesso momento alla seduzione di ciascuna immagine ed alla coerenza costante del medium.”[894] Date quelle premesse, “fare la storia della fotografia oggi” equivaleva a “comportarsi come uno scrittore: ricercare delle informazioni, raccogliere delle immagini, e scrivere una specie di avventura: la vita delle fotografie.”[895] Ciò che sembrava implicare una parziale rinuncia al rigore metodologico a favore di una maggiore ricchezza interpretativa, con un percorso per certi versi analogo a quello compiuto da Roland Barthes nello scrivere la Camera chiara: quasi un arrendersi alla necessità di allontanarsi dall’analisi semiotica per mettersi in gioco in prima persona; poiché “l’obiettivo da raggiungere, al di là della necessaria cronologia delle tecniche e delle applicazioni, è prima di tutto la storia delle funzioni – ciò che ci si attendeva da queste immagini -; la storia dei fatti ottici e degli spazi attraversati (e inventati) dalla fotografia; quindi la storia del senso delle fotografie in ciascun periodo di modificazione delle funzioni.”[896] A queste intenzioni corrispondeva una struttura testuale che adottava una disposizione cronologica organizzata su tre diversi livelli di lettura: i capitoli, incentrati in generale su di un periodo, una pratica sociale, una analisi del contesto o una nozione fotografica che connotava tutta un’epoca; i dossier, che a intervalli regolari proponevano un tema specifico, presentato attraverso un numero accresciuto di immagini che ne illustravano visivamente le articolazioni; i riquadri di approfondimento di una particolare questione storica, una certa novità determinante, un polo di convergenza estetica. Gli apparati del ponderoso volume comprendevano infine le schede delle più diffuse tecniche di stampa e una ricca bibliografia nella quale veniva in parte recuperata, come in trasparenza, quell’attenzione per la fotografia d’autore che era stata relegata in secondo piano nelle premesse metodologiche.
Una sintetica storia della fotografia era compresa anche nel volume che Cesare de Seta (1999) aveva dedicato al “secolo della borghesia”, di cui costituiva l’ultima sezione, connotata da quell’eroica predilezione per “l’audacia degli innovatori” di cui aveva parlato Bertelli (et al. 1990), sebbene poi cenni a questa invenzione e alle pratiche connesse si ritrovassero in molte parti del testo. Qualche perplessità poteva far sorgere il titolo assegnato al capitolo, La fotografia negli anni dei pionieri, poco coerente rispetto all’arco cronologico indicato (1839-1899), che estendeva le periodizzazioni normalmente adottate sino a comprendere i decenni della sua prima massificazione, per altro non considerata. Ciò che però dichiarava con maggiore evidenza i debiti con certa storiografia artistica era la serie di medaglioni dedicati a poche figure ‘chiave’ delle vicende ottocentesche, ordinati secondo un impianto di quasi vasariana impronta che si chiudeva cronologicamente con Nadar, senza neppure un cenno al ruolo svolto da George Eastman o, per non volersi misurare con i risvolti sociali dell’industrializzazione, almeno alla nascita del Pittorialismo. Ne risultava una narrazione per episodi scarsamente connessi, con indicazioni non di rado piuttosto generiche quando non imprecise o errate[897], che non sembravano corrispondere alle promesse fatte al lettore in apertura dell’opera, di nobile ascendenza winkelmaniana[898]: “non c’è opera di cui si discorre in questo volume che non sia stata parte della diretta e personale esperienza: sono troppo insoddisfatto di critici e storici dell’arte non vedenti [corsivo dell’autore] che costruiscono le loro matasse concettualizzanti sfogliando volumi e cataloghi senza abbandonare la scrivania.” Poiché la riconosciuta autorevolezza dello studioso imponeva di prestar fede alle sue parole, i pesanti limiti di quella ricostruzione storiografica non potevano che derivare da una insufficienza di strumenti conoscitivi ed empirici. Come spiegare altrimenti le ragioni che lo portarono a scrivere che la notissima Point de vue du Gras di Niépce venne realizzata “provando ad esporre questa volta lastre di vetro preparate con lo speciale bitume”, per procedere poi ponendo “la lastra su di una cassetta contenente iodio, con la parte sensibilizzata esposta verso il basso. Riscaldato a temperatura ambiente [sic], lo iodio sprigionava dei vapori che andavano a depositarsi sulla lastra che, scurendo le zone d’ombra, forniva i voluti contrasti tonali.” Credo non sia necessario procedere oltre nell’esemplificare questo imbarazzante tentativo di ricostruzione delle prime sperimentazioni tecnologiche, dove la volontà di sintesi si tradusse in una confusione indescrivibile, che mescolava liberamente procedimenti propri di tecniche diverse (qui eliografia e dagherrotipo, e non solo), svuotando di senso il magnifico e più che condivisibile assunto iniziale, secondo il quale “per cogliere appieno le caratteristiche, espressive ed estetiche, peculiari del mezzo fotografico, è dunque necessario considerare gli sviluppi dei processi tecnici e stilistici che caratterizzarono la ricerca avviata dai pionieri della fotografia e direttamente riferirsi all’evoluzione tecnica e formale del loro linguaggio.”
Una ben maggiore coerenza coi principi enunciati da De Seta caratterizzava il primo manuale scolastico italiano di storia della fotografia, curato da Walter Guadagnini (2000). Il volume si presentava strutturato in tre parti, dedicate rispettivamente alla storia della fotografia mondiale, letta nei suoi rapporti con la società del tempo; ai principi tecnologici e agli aspetti tecnici della pratica fotografica per chiudere infine con una serie di letture critiche di quelle opere che a giudizio dell’autore avevano maggiormente influenzato lo sviluppo del linguaggio fotografico, formula questa che avrebbe poi ulteriormente sviluppato nella serie di volumi pubblicati nel 2010-2013[899]. A quella singolarità di impianto, per certi versi derivata dalla migliore manualistica ottocentesca, corrispondeva un testo che pur nella schematicità richiesta dal progetto sviluppava e offriva considerazioni non ovvie, come quelle a proposito del fatto che “non esiste ‘l’inventore della fotografia’ ma esistono diversi personaggi (…). Ognuna di queste figure ha inventato un proprio metodo (…). Dall’incrocio di questi metodi e delle sempre più incessanti sperimentazioni è nato infine il processo più efficace per fissare e riprodurre meccanicamente l’immagine, quello che oggi chiamiamo fotografia.” All’interno di questa concezione darwiniana quella che appariva come la carenza maggiore era la totale assenza di ogni richiamo alle vicende italiane, trattate solo a partire dal secondo dopoguerra, in una specie di a parte, senza che alcuna immagine di autore nostrano fosse indicata tra le opere paradigmatiche, quasi a certificare ancora a quella data una sostanziale dipendenza dai modelli storico critici stranieri.
Pochi, e per più ragioni insoddisfacenti, gli altri studi che si misurarono col compito difficile di restituire un ampio quadro storico di un fenomeno così complesso e articolato come la presenza della fotografia nella società. Giovanni Fiorentino (2001b) interpretava correttamente a fotografia come epifania della modernità, tra “protesi della realtà” e “consumo dello sguardo”, in un testo che pareva concedere troppo al fascino della narrazione mediologica e all’ellitticità propria del ‘genere’, dove alla buona, vecchia licenza poetica[900] si sacrificava non di rado l’accuratezza fattuale e storica, con conseguenze non irrilevanti[901]. La Fantastoria di Zannier (2003) narrava invece alcune vicende o storie della fotografia nella forma del diario di bordo del viaggio onirico di Olatiz (anagramma di Italo Z.) sulla pirocorvetta Magenta[902], alla ricerca delle fonti oscure di questa invenzione, con capitoli settimelliani (ormai una categoria dello spirito o, almeno, un genere letterario)[903]; di fatto un pamphlet le cui origini e motivazioni andavano forse individuate nel mancato coinvolgimento del professore nelle celebrazioni del centocinquantenario degli Alinari, che ricorreva proprio quell’anno, e nei duri giudizi critici sulla sua opera espressi in quell’occasione da Arturo Carlo Quintavalle[904]. Nessuno invece che cogliesse le suggestioni del bel saggio di Régis Durand, Quale storia (quali storie) della fotografia, testo di una conferenza tenuta al Museo d’Arte Moderna di Bordeaux nel 1992 noto anche da noi per essere stato meritoriamente pubblicato nel fascicolo monografico de “L’Asino d’oro” dedicato a Letteratura e fotografia. Qui lo studioso suggeriva di pensare la storia della fotografia come “storia di una abiezione (…), scritta non a partire dalle tecniche o dagli individui, ma attraverso alcune nozioni specifiche che sembrano legate alla fotografia sin dalle sue origini. Questa intensità negativa legata alla fotografia sin dagli esordi, credo sia un caso abbastanza eccezionale (…). A quanto pare, niente di simile ha colpito le altre arti in modo così continuo (…). Sembra che vi sia proprio qualcosa di peculiare alla fotografia nello svilimento di cui è fatta oggetto in vario modo.” [905] I limiti intrinseci di questi vari modi di declinare possibili storie generali della fotografia per il pubblico italiano resero ancora attuale e utile la pubblicazione nel 2003 della traduzione della Concise History di Ian Jeffrey a più di vent’anni dalla sua edizione originale (1981). In una introduzione acuta e provocatoria l’autore faceva polemicamente i conti con tutta la tradizione storiografica precedente e trasformava il saggio in qualcosa di molto distante da una “breve storia” destinata al mercato dei tascabili: “Vi sono difficoltà intrinseche nello scrivere una storia generale della fotografia – affermava Jeffrey – C’è, è vero, un canone fotografico condiviso (…). Ma nessuno può affermare con certezza che noi sappiamo tutto dei maggiori fotografi che hanno operato, né che mai lo sapremo. Intere carriere sono state cancellate. Altre difficoltà sorgono. C’è ad esempio la questione dell’unità di misura basilare della fotografia, che storici e commentatori hanno inteso essere la singola immagine, come se la storia della fotografia fosse una storia della pittura in miniatura. Tuttavia non tutti i fotografi intendevano il loro lavoro in quel modo.(…) In Europa e in America gli archivi fotografici ci offrono una messe di materiale grezzo col quale noi costruiamo incessantemente nuove immagini del passato, sovente [presentato] come un tempo idilliaco.” Coerentemente agli assunti, il testo era strutturato per ambiti tematici radicalmente differenti dai modelli precedenti, con una forte connotazione analitica, nei quali la chiave interpretativa e problematica prevaleva nettamente sulla scansione cronologica (L’osservazione della natura, Problemi e vantaggi dell’istantaneità, Verità oltre le apparenze, Autoaffermazione -Autonegazione, solo per citarne alcuni)[906], mentre l’esplicita volontà di costruire un percorso storiografico fortemente connotato determinava scelte non sempre condivisibili, quali l’esclusione assoluta della figura di Niépce e la citazione quasi di sfuggita di Daguerre. Rilevante e significativa era anche la scelta dell’apparato iconografico, costituito prevalentemente da immagini tratte da pubblicazioni, a sottolineare esplicitamente il ruolo ed il peso sociale, la funzione comunicativa prima che estetica della fotografia, secondo un’impostazione che in Italia era stata da sempre propugnata da Ando Gilardi.
Percorsi trasversali e storie settoriali
Il tentativo di produrre una storia della fotografia “dalle origini a oggi” adottando una strategia lontana dal consueto approccio generalista, ma senza proporsi esplicitamente come studio di settore (come sarebbe stata, ad esempio, una storia della fotografia di architettura) connotava il volume Corpo e figura umana nella fotografia (1998) in cui Elio Grazioli ricorreva a un filtro tematico analogo a quello recentemente adottato per la mostra del centenario della Biennale di Venezia[907] per costruire una storia vista “attraverso il prisma del corpo e della figura umana”. Una storia che intendeva proporsi come “storia del gusto, del costume, dell’immaginario, della società”, una storia culturale quindi, destinata in particolare agli studenti di fotografia, a partire dalla pura e semplice “constatazione di un vuoto bibliografico” del panorama editoriale italiano in anni in cui nelle nostre facoltà si stavano moltiplicando i corsi di storia della fotografia, trovando per molti versi impreparato il mercato[908]. Ben consapevole di “tutti i rischi che comporta questo tipo di operazioni divulgative” e didattiche l’autore si assumeva anche quello – che non diremmo condivisibile – di rinunciare “all’indicazione precisa di ogni indicazione riportata, rimandando piuttosto alla bibliografia che segue il testo”. Più convincente risultava la riflessione in merito al trattamento delle illustrazioni: “certo non vogliamo dimenticare di dire quanto confidiamo anche nell’efficacia delle immagini in un libro su di esse, sia per il rapporto con il testo sia per loro stesse, nel loro accostamento e nella loro distanza. La loro scelta ha per questo costituito un ulteriore sforzo per tessere altre trame da intrecciare al testo”. Ne risultava un doppio registro storiografico, esplicitamente organizzato su due livelli, ma né la scelta del tema unificante né l’andamento narrativo produssero quel significativo distanziamento dalla consuetudine che era lecito attendersi, tanto che il punto di vista assunto per la trattazione poteva addirittura apparire pretestuoso e quasi ininfluente in termini epistemologici. Era sufficiente leggere il sommario, con la sua rigida progressione cronologica, solo di rado scardinata per approfondire un tema (Il corpo tragico, ad esempio), per comprendere come di fatto il tema della rappresentazione del corpo e della figura si riducesse quasi a un comodo pretesto destinato a ottenere un apparato iconografico omogeneo, per consentire di operare una selezione “nella vastità del materiale altrimenti imbarazzante”. Anche i pochi tentativi di intrecciare i diversi piani del discorso ponendo in dialogo testo e figure si traducevano in accostamenti azzardati, quali la selezione di immagini di Monti, Sellerio, Donzelli e Giacomelli nel capitolo dal titolo quanto meno fuorviante di La scuola di Chicago e la fotografia ‘soggettiva’. Il lavoro di Grazioli, ricco di suggestioni specie per quanto riguardava i rapporti del mondo della fotografia con la scena artistica del secondo Novecento, rappresentava una testimonianza significativa delle difficoltà che ancora sussistevano anche tra gli studiosi più qualificati a produrre una storia della fotografia in grado di confrontarsi con la complessità del fenomeno o – almeno – capace di efficaci strategie per una sua possibile riduzione ad analisi parziali o a percorsi settoriali.
Ancora alla rappresentazione del corpo, ma in una delle sue forme meno mediate e simboliche, quella comunemente definita pornografica, o, meglio, ai provvedimenti legislativi destinati a contrastarne la diffusione, era stato dedicato un precoce studio di Luigi Tomassini, che si era proposto di verificarne i principi e le formule nel contesto degli “sforzi di ‘moralizzazione’ negli anni d’inizio del nuovo secolo [XX]” esemplificati dalle immagini “destinate alla educazione morale dei giovani (…), provenienti da due delle maggiori case editrici italiane e francesi dell’epoca. (…) Fotografia e morale pubblica, potrebbe essere quindi questo il sottofondo comune, colto nei suoi due aspetti estremi e perciò significativi dei limiti della questione, che sono l’educazione morale della gioventù e la depravazione della medesima ad opera dell’immagine pornografica.”[909] In realtà l’intento di Tomassini andava ben oltre il caso di studio e si proponeva come compiutamente metodologico, essendo quello di mostrare che “se si vuole fare una storia della fotografia che non sia solo interna delle tecniche o una storia delle tendenze artistiche (…), se si vuole verificare l’impatto della fotografia nella società, occorre probabilmente affrontare la storia della fotografia anche dall’esterno, per così dire, o indirettamente, verificando in altri settori di indagine quella che è la portata della diffusione del mezzo fotografico. (…) In altre parole, ad esempio, nel nostro caso, la fotografia si pone come un potente fattore di modernizzazione (…).”
L’intenzione di “verificare l’impatto della fotografia nella società” muovendosi in continuum tra “interno” ed “esterno”, come percorrendo un anello di Moebius, aveva segnato da sempre l’atipica produzione storiografica di Ando Gilardi, che dal 1980 aveva curato i fascicoli di “Phototeca”[910] e “Index”, da cui trasse i materiali per la pubblicazione del volume del 2002 dedicato alla “fotopornografia”, derivando da quelli anche parte del titolo, che perse però per strada (certo una scelta del nuovo editore) il qualificativo di “infame”. Il primo dei dieci libri in cui era suddivisa la Storia della fotografia pornografica entrava subito in corpore vili affrontando il nodo centrale, archetipico, del rapporto tra il sacro e l’osceno, e lo faceva studiando la prima produzione avviata nel centro della cattolicità, dove “tutte le immagini ex morali che cercano pigramente di sopravvivere (…) per merito o per colpa della nuova immagine presa a macchina, si traducono, peggio o meglio che nel profano, nell’osceno.” L’eroina di questa vicenda non poteva che essere Costanza Diotallevi, della cui attività Gilardi si attribuì la scoperta, dovuta “a una successione di eventi colpevolmente taciuti dagli autori delle insipide storie ufficiali della fotografia, da sempre espurgate con meticoloso moralismo, fin oltre il limite del grottesco palese.” In questa dichiarazione apodittica si poteva ritrovare in sintesi estrema la cifra del procedere del suo autore, che non esitava a piegare il dato storico o storiografico alla più efficace esposizione delle proprie tesi, non tenendo conto – come in questo caso – che della nota vicenda si erano già occupati, sebbene in termini più circoscritti e in modi meno affabulatori ed efficaci, numerosi altri studiosi, a partire da Piero Becchetti[911]. Il principale bersaglio polemico era l’autocensura degli storici[912], ben esemplificata secondo Gilardi dal secondo fascicolo di “AFT”, che uscì in concomitanza col primo volume dell’edizione in fascicoli di questa Storia e che conteneva alcuni contributi dedicati al tema della fotografia pornografica; tra questi il saggio di Tomassini sopra citato, molto apprezzato da Gilardi[913], che manifestò però forti riserve in merito all’utilizzo delle immagini, cioè di quelle stesse figure alla cui analisi i testi critici avrebbero dovuto essere dedicati: “parliamo della questione delle fotografie che illustrano e non illustrano i saggi dedicati da “AFT” alle vicende dell’ottica del bene e del male – scriveva Gilardi – Le porno mancano completamente mentre le ‘oneste’ abbondano. Si ripete così un’esperienza storica di enorme importanza che prova ancora una volta la potenza terrificante della fotopornografia, la quale unica fra tutte le forme e i modi della rappresentazione, se viene talvolta narrata si narra alla cieca, senza immagini proprie. Su questo punto vi invitiamo a riflettere: della fotopornografia, quando si parla ad alto livello, ‘seriamente’, fra dotti, si sottintende che tutti la conoscano bene, da consumatori pratici dell’osceno visivo, ovvero si sottintende che non occorra fare esempi concreti. Tuttavia questo discorso non vale per le visioni del bello e del casto che, almeno nel nostro caso concreto, si direbbero sensazionali. Delle molte risposte possibili, nessuna può liquidare la verità malinconica che, in qualunque maniera si affronti questo sociale fenomeno, l’oscuramento totale dell’oggetto visibile è il prezzo che bisogna pagare per avere la licenza sociale, e fino a poc’anzi legale, di parlarne impunemente. Ma la censura è in se stessa una condanna e una calunnia. Il tono sereno e professionale dei testi, malgrado ogni sforzo, suona stonato. Il famoso ‘distacco’ dello scienziato dal suo reperto, che resta addirittura invisibile, è perlomeno sospetto. Le pagine di “AFT” sono illustrate con la narrazione della colpevolità senza mostrare le colpe: si discutono pubblicamente i ‘pro’ e i ‘contro’ in assenza di un imputato che solo l’autore ha conosciuto, o crede di avere conosciuto, che a lui nel privato è forse gradevole. Lo storico, il saggista, anche se non lo vorrebbe, assume la funzione nemmeno del giudice ma peggio del censore. (…) Ogni società e cultura lasciano sul loro cammino innumerevoli impronte iconiche. Le più vere e sincere non sono, non vogliono e non devono essere quelle dell’arte, i falsi meravigliosi che non illustrano la realtà ma i sogni. Sono invece le immagini di più quotidiano e banale consumo, spaventosamente ingenue: tutti sappiamo che mentono e per questo motivo non mentono. Se ci pensate bene, fuori da ogni successivo discorso come i nostri o del tutto diversi, mai nella storia dell’iconografia ci furono immagini più ‘pure e semplici’ delle prime fotografie pornografiche.” Notazioni malinconiche e cruciali, puntualmente storiografiche[914] se ammettiamo che la pratica del fare storia è una delle più complesse manifestazioni di una cultura; se riconosciamo che la rimozione e la censura ne sono elementi determinanti, particolarmente evidenti quando ci si avvicina ai nodi profondi delle questioni esistenziali. Se la morte, anche tragica e feroce, aveva ormai raggiunto e conquistato una sua visibilità, anche eccessiva e quotidiana, banalizzante, lo stesso non si poteva e non si può dire delle immagini del corpo desiderante, della sessualità esplicita. Nelle pagine dedicate a Nudo artistico e pornografia (e già il titolo dichiarava la chiave critica) anche Elio Grazioli aveva riconosciuto che nel XIX secolo “la società borghese ha un conto in sospeso con la nudità e la sessualità” e che una certa ambiguità “tra artisticità e malizia pornografica” aveva segnato “la prima presenza del nudo in fotografia”, ma poi -confermando le notazioni di Gilardi – non proponeva immagini riferibili alla seconda categoria, pur riconoscendone la funzione inedita, culturalmente innovativa: “sono questioni che non restano isolate nell’ambito della pornografia ma che finiscono con l’essere preliminari a ogni analisi della modernità, potendo senza forzature essere trasposte pressoché tali e quali su di essa: basti pensare, per esempio, alla definizione del Modernismo come privilegio appunto della vista (…) In fondo la totale visibilità che promette l’immagine pornografica va a scapito dell’intoccabilità di fatto del reale che pretende di evocare; d’altro canto essa corrisponde anche alla definizione modernista stessa del segno come ciò che sta in vece di, in luogo di, ma anche al suo posto: mai più qui e insieme mai più là dov’era.”
I volumi di Gilardi e Grazioli appartenevano alla categoria delle storie settoriali, che costituiva una delle possibili modalità di trattamento delle vicende fotografiche a scala sovranazionale, così come accadeva anche per un ambito tanto distante quanto quello della fotografia di architettura, affrontato da Zannier (1991) con la consueta sapienza combinatoria. Due sezioni storiche (una delle quali intitolata “Tipologie” pur essendo scandita per tecniche) derivate da una generica storia generale e due quasi manualistiche: una strumentale e l’ultima operativa (“Come fotografare l’architettura”). Sebbene sparsi, vi si potevano ritrovare alcuni interessanti spunti critici, come quelli relativi alla stessa difficoltà di definizione del tema e alla messa in questione del ‘genere’[915], che per l’autore doveva comprendere e considerare anche la “fotografia giornalistica”, nella quale “l’architettura fa quindi ‘da sfondo’ al soggetto dell’immagine, ma ne è pur tuttavia un elemento sostanziale, i personaggi assumono significato nel suo spazio, che non può essere inteso soltanto come una neutrale scenografia (…). L’architettura, finalmente, non viene messa ‘in posa’, ma vista in ‘istantanea’ ”. Questione interessante, che avrebbe potuto aprire a riflessioni ontologiche e critiche in merito alle valenze documentarie della fotografia, ma posta in modo sbrigativo, non tenendo conto neppure delle intenzioni (dell’autore, del committente, ma anche del fruitore) vale dire del contesto di produzione e di ricezione[916].
Un altro dei temi che in quel decennio fu oggetto di un’attenzione nuova e più criticamente attrezzata era quello della fotografia di montagna, che accanto all’interesse mai sopito per Vittorio Sella[917] aggiunse quello per altri importanti autori che si erano variamente misurati con questo ‘genere’ di difficile collocazione, tra pratica agonistica, rilevamento geografico e tradizione paesaggistica. Dopo i primissimi studi dei Fratelli Pedrotti (1973), a loro volta notissimi fotografi di montagna, e il numero monografico de “Il Diaframma -Fotografia italiana” curato da Giuseppe Garimoldi e Angelo Schwarz nel 1976, un breve cenno, quasi scontato, all’opera di Sella era contenuto negli “Annali” einaudiani del 1979, in cui si pubblicavano anche alcune immagini di Vittorio Besso, contemporaneamente presente nella grande mostra dedicata alla fotografia italiana del XIX secolo[918]. Mancava però ancora una ricognizione sistematica, anche a scala sovranazionale, avviata solo nel decennio successivo con una serie di mostre monografiche prodotte a Trento e a Torino, che con il Festival dedicato alla Montagna e con la sede del Museo Nazionale costituivano i due principali centri di studio del settore.[919] Nel 1992, a partire dalle collezioni conservate presso il Centro di Documentazione del Museo, che di lì a poco avrebbe pubblicato il repertorio dei propri fondi (Museo Montagna 1995) veniva organizzata una mostra dedicata alle Montagne della fotografia, “un tema avvincente che coinvolge la storia dell’alpinismo, della montagna e dell’esplorazione in tutte le componenti”, come si dichiarava in apertura di catalogo mostrando quale fosse ancora il ruolo subalterno riservato alla produzione fotografica anche in termini di interesse museale, come indicavano le due produzioni precedenti dedicate rispettivamente a Le montagne della pubblicità (1989) e Le montagne del cinema (1990). Nel saggio di apertura la curatrice del volume, Silvana Rivoir[920], memore dell’impostazione critica acquisita negli anni di collaborazione con Angelo Schwarz per la “RSCF”, invece di dedicarsi alla lettura referenziale delle singole immagini preannunciata dal Direttore, ne ricostruiva i meccanismi e le modalità di diffusione attraverso i periodici, “per capire la concezione che si aveva della fotografia nell’ambiente alpinistico di fine secolo”, seguendone gli sviluppi anche in relazione al progressivo raffinamento delle tecniche di stampa tipografica. Questo interessante percorso conoscitivo toccava poi il tema delle esposizioni, intese quale ulteriore canale e occasione di diffusione e conoscenza della fotografia alpina, proponendosi come il primo tentativo di sintesi di orientamento storico sociale, certo fondamentale per incominciare a comprendere un fenomeno di così vasta portata ma ancora troppo connotato dalla prevalenza di ricostruzioni cronologiche[921]. Di impostazione esplicitamente storico critica era invece il saggio in cui Giuseppe Garimoldi (1995) affrontava il rapporto tra fotografia e alpinismo facendo sintesi di un ventennio di ricerche e producendo quello che fu considerato il primo testo organico di storia generale della fotografia di montagna o, per meglio dire, sui rapporti tra alpinismo e fotografia, essendo esclusa dai suoi interessi tutta la produzione di taglio più o meno consapevolmente etnografico. Si trattava di un contributo nel quale lo specialismo risultava fondamentale per imbastire una prima ricostruzione in grado di offrire visibilità e legittimità a questo genere e ai suoi principali autori, ben consapevole del fatto che “una storia esauriente della fotografia di montagna potrà essere scritta solo su un’ampia base di lavori (…) un complesso di materiali che, fatta qualche rara eccezione, oggi non esiste.”[922] Riconoscendo un tratto analogo a quello proprio di un ambito disciplinare tanto distante quanto la storia dell’arte, Garimoldi ricordava che “la storia dell’alpinismo non sarebbe quella che è senza l’apporto della fotografia”, mentre, più specificamente, fondava la propria analisi sul riconoscimento del ruolo dell’alpinista in quanto fotografo, poiché “l’espressione originale dei caratteri culturali e psicologici dell’autore, prima ancora di diventare fotografia determina le scelte sul modo di avvicinare l’ambiente alpino. Trova cioè concretezza nella qualità e nelle forme di quel salire che sono la chiave di volta dell’operazione.” In questo senso quindi “una storia della fotografia di montagna potrà essere scritta solo [prendendo in esame] le vicende relative alle varie realtà di gruppi e associazioni sparse nel mondo, di analisi sui singoli autori con indicazioni sulla loro formazione e sulla loro influenza.” Un’indicazione metodologica che ribadiva quanto la storia dell’alpinismo internazionale fosse stata sin dalle origini tutta determinata dalla forza e dalle iniziative assunte dalle numerose realtà associative[923] e delle loro manifestazioni, non ultime le esposizioni e i periodici di settore ben più che in ogni altro ambito, compreso quello propriamente fotografico. La ricostruzione di vicende sino ad allora quasi dimenticate riprendeva in certa misura le consuete periodizzazioni ma introducendovi un’estensione geografica “oltre l’orizzonte europeo” che costituiva uno dei meriti non secondari di quel lavoro. La conoscenza approfondita della materia consentiva poi a Garimoldi di adottare, specificandola doverosamente, quella distinzione critica tra alpinisti-fotografi e fotografi-alpinisti, basata sul riconoscimento di “due modi diversi di intendere il rapporto fra fotografia e montagna” che lui stesso aveva avanzato nel 1976[924] e che successivamente era stata ripresa da altri studiosi di area torinese come Rivoir ed Enrico Camanni[925]. Così formulata essa rappresentava uno strumento critico certo efficace (specie se non utilizzato in modo manicheo, come del resto invitava a fare l’autore) di cui eventualmente verificare l’applicabilità ad altri ‘generi’ o ambiti quali la documentazione dell’architettura e delle opere d’arte o la fotografia scientifica, in cui le distinzioni tra le varie figure in campo risultano più nette. Considerata da questo punto di vista la fotografia di montagna pare aver avuto non solo una sua evidente specificità di genere ma aver espresso anche una sua propria modernità ante litteram, contemplando commistioni di ruolo che in altri contesti avranno ragione d’essere solo a partire dai primi decenni del Novecento, quando la cultura modernista espresse ad esempio numerose figure di architetti che si dedicarono alla fotografia con esiti anche di grande rilievo.
All’illustrazione o all’analisi dei rapporti tra alpinismo e fotografia furono dedicati diversi contributi pubblicati in quegli anni[926], ciascuno dei quali circoscriveva il proprio ambito di interesse alla definizione più ovvia e ristretta del tema: che si trattasse di alpinisti o di fotografi ciò che connotava il genere e ne condizionava la valutazione storico critica era il rapporto diretto con la montagna in quanto entità geografica e ambientale, estendendo semmai lo sguardo alle esplorazioni artiche e antartiche. Era invece escluso tutto quanto riguardava l’immaginario alpino, una componente sempre più rilevante della società contemporanea, almeno a partire dalla diffusione del turismo e della fotografia amatoriale e certo favorita dal cinema. Esplicitamente orientato al recupero critico dell’immaginario visuale legato all’idea di montagna (e non solo alle montagne) fu il volume dedicato nel 2003 all’Archivio fotografico del Museo nazionale, nell’ambito di una collana che si proponeva di presentare i principali archivi italiani[927] coniugando buona divulgazione e rigorosa trattazione catalografica dei materiali pubblicati. Distinguendosi dagli esempi sopra citati la prospettiva storiografica lì adottata assumeva come specifico punto di vista quello della Montagna come invenzione della cultura urbana, propria di quella fase di affermazione della borghesia che comprendeva anche l’invenzione della fotografia, in un contesto di formazione illuminista e poi positiva che aspirava a una conoscenza del mondo analitica, empiricamente verificabile e tendenzialmente infinita, a cui si sarebbe progressivamente affiancata (e sostituita in parte) l’idea di montagna come spettacolo da vivere in forma sempre più mediata e indiretta. Da qui la necessità di prendere in considerazione, accanto alle fotografie alpinistiche propriamente dette, una vasta tipologia di immagini solo apparentemente eterogenee che comprendeva le riprese in studio con fondali posticci, le serie stereoscopiche destinate al consumo casalingo ma anche le fotografie di scena di un genere cinematografico a sua volta declinato in molte e differenti accezioni, dal documentario all’immaginario, in un circolo virtuoso che si autoalimentava utilizzando tutti i canali della cultura di massa[928].
Una verifica ulteriore delle componenti culturali riconoscibili nelle fotografie di quella collezione ha preso recentemente corpo in una mostra curata da Veronica Lisino (2015) che trovava nella citazione da Wittgenstein da cui prendeva il titolo (Frammenti di un paesaggio smisurato) la propria chiave di lettura. Dal riconsiderare la ricca collezione di “fotografie delle origini”[929] del Museo e dalla ricostruzione delle sue vicende di formazione scaturiva infatti il riconoscimento della sua natura inevitabile di collezione di frammenti, ciascuno destinato a dare forma visiva a una certa concezione del paesaggio montano, inteso come “proiezione soggettiva del territorio” (la definizione è di Eugenio Turri[930]), ma in un’accezione tale per cui quella stessa soggettività si declinava a scala culturale e sociale, anche nazionale e nazionalistica quindi. A partire da questi presupposti il testo e la stessa impaginazione delle immagini si muovevano tra i poli complementari costituiti dalle mutevoli concezioni che del paesaggio si sono storicamente date e da quelle restituite dalle fotografie[931], attraverso una lettura attenta delle modalità tecniche ed espressive di quella produzione, dove il rispetto del canone rappresentativo ha avuto non di rado la meglio sulla restituzione delle caratteristiche geografiche e antropiche dei luoghi raffigurati[932]; una connotazione più che evidente anche in una delle maggiori produzioni editoriali destinate al turismo tra XIX e XX, quella delle fotocromie. Questa storia tecnologica e commerciale era stata ricostruita ancora da Lisino (2012) a partire dalla ricca collezione del Museo in un catalogo aperto da uno scritto di Bruno Weber[933], direttore della Graphische Sammlung della Zentralbibliothek di Zurigo e pioniere degli studi su Photochrom, in cui la curatrice[934] sintetizzava le vicende che mutarono la fotografia nell’epoca della sua riproducibilità cromolitografica, collocando il fenomeno in un contesto che sempre più esprimeva il desiderio di possedere “fotografie nei colori della natura”, in anni in cui la tradizione del Grand Tour[935] si stava trasformando in quella del turismo di massa.
Elementi di storia della fotografia italiana
In generale
La pubblicazione nel 1996 del numero monografico di “History of Photography” curato da Maria Antonella Pelizzari[936] testimoniava dell’accresciuta attenzione internazionale per la storia della fotografia nell’Italia del XIX secolo, offrendo interessanti contributi di studiosi stranieri da tempo impegnati in ricerche sulla documentazione del patrimonio architettonico e archeologico, come Graham Smith, Andrew Szegedy-Maszak e la stessa curatrice, mentre gli storici italiani come Miraglia e Tomassini sintetizzarono alcuni loro contributi precedentemente editi in volume (Miraglia et al. 1992) o sulle pagine di “AFT”. Nel coevo Dictionnaire mondial de la photograhie des origines à nos jours (Photo 1996), pubblicato da Larousse avvalendosi di un qualificatissimo gruppo di collaboratori, tra i quali – sola italiana – Silvana Turzio, lo scopo dichiarato era di trattare la materia da “una prospettiva critica, storica, tecnica e tematica”, ciò che escludeva voci dedicate ai singoli Paesi a favore di ambiti, generi, movimenti e autori. Erano quindi quelle le sole che fosse possibile considerare per rintracciare un profilo della fotografia italiana che proprio la sintesi obbligata rendeva particolarmente significativo: la registrazione di un ‘luogo comune’ corrispondente alle opinioni diffuse sull’argomento. La scelta comprendeva Alinari, Naya e Ponti, i due Sella e Pietro Semplicini ma – con criteri di difficile comprensione – non Brogi o Sommer, e analoghe incertezze si ritrovavano a proposito dei fotografi attivi tra le due guerre: Luxardo, Mollino, Parisio, Tato e Achille Bologna, ma non Stefano Bricarelli, il cui ruolo di direttore per lungo tempo de “Il Corriere Fotografico” avrebbe meritato maggiore considerazione. Riflessioni non meno interessanti si potevano trarre dal considerare le firme dei redattori: mentre le voci dedicate a Caneva o agli Alinari portavano la firma di Michel Frizot e quella relativa a Giuseppe Primoli era siglata Anne de Mondenard, certificando così (si direbbe) la riconosciuta rilevanza internazionale di quegli autori, altre vennero affidate a più giovani studiosi o alla redattrice italiana (Lecchi, Luxardo, Michetti, Mollino e Sella tra le altre) secondo un trattamento nel quale risultava difficile non riconoscere una certa declinazione gerarchica.
Intorno al dagherrotipo
Nuove indicazioni storiografiche, anche se non sistematiche, erano state proposte in quegli anni da Paolo Costantini riflettendo sulla diffusione italiana del dagherrotipo e, in particolare, a partire dalla constatazione della “ sostanziale ignoranza dei primi momenti della storia della fotografia nel nostro paese. Pochi i materiali, difficili i confronti, scarse le notizie (…). Ecco che categorie tratte dalla storia dell’arte, come ‘autore’, ‘opera’ o ‘stile’, si rivelano, in questo particolare contesto fotografico, decisamente ambigue quando non completamente inservibili.”[937] Il riferimento alle formulazioni di Rosalind Krauss era evidente[938] ma utilizzato diremmo in modo strumentale, per stigmatizzare gli esiti di certa deriva storico critica e storiografica condizionata “dalla scarsa attenzione assegnata finora al dagherrotipo”, che aveva prodotto “la ripetizione scontata di generalizzazioni spesso fuorvianti”, dovute “essenzialmente al fatto che il dagherrotipo viene continuamente confuso con la fotografia, e considerato come un momento di passaggio necessario lungo un filo storico dispiegato verso un unico fine improntato al mito del progresso”. Per Costantini invece era indispensabile saper distinguere tra le due tipologie e alla produzione dagherrotipica non potevano essere applicate le teorie fotografiche convenzionali, specie in termini estetici; da qui la necessità di “cercare altrove (…) rivolgendo l’attenzione al contesto culturale in cui hanno avuto spazio e si sono affermati i progetti dei giardini settecenteschi, i dipinti di paesaggio e i panorami e i diorami (…) nuovi sistemi di rappresentazione che hanno organizzato lo spazio e il tempo secondo principi radicalmente innovativi. Questa situazione problematica spinge dunque a moltiplicare gli approcci al fenomeno fotografia, a farne emergere la pluralità, a rendere manifesta l’irriducibilità del complesso di elementi (storici, culturali, sociali, economici) che chiamiamo genericamente con il termine ‘fotografia’ (…). Moltiplicare gli inizi dunque, affrontare da diversi punti di vista le ‘molteplici invenzioni della fotografia’ per provare a far emergere nuove aperture alla riflessione critica. Il ‘voler conoscere’, di cui ha parlato Foucault, spezza l’unità del soggetto.”[939] La necessità di “moltiplicare gli inizi” sottoponendo a verifica storica i modi effettivi di produzione e circolazione della produzione dagherrotipica nel contesto storico e culturale dell’Italia preunitaria fu all’origine del progetto dedicato a L’Italia d’argento 1839/1859[940] ; la produzione più importante del periodo e primo capitolo di un programma di lavoro che sarebbe poi proseguito con l’analogo volume dedicato alla calotipia (Aubenas et al. 2010). Si trattava di un’impresa curatoriale che riuniva studiosi della seconda e terza generazione in un’indagine condotta a scala nazionale ma rispettando l’ordinamento statale dell’Italia al tempo del dagherrotipo, restituito in una serie di contributi monografici che pur nei limiti imposti da una insufficiente dotazione di risorse offrivano una buona sintesi delle conoscenze sino al momento disponibili e, specialmente per alcune aree precedentemente meno indagate, fornivano importanti arricchimenti e precisazioni, quando non vere e proprie scoperte[941].
La cornice storica in cui si inserivano le opere in mostra era delineata nel saggio di apertura, a firma di Monica Maffioli e Luigi Tomassini, che per le sue qualità rappresentava una testimonianza chiara della lunga strada percorsa dalla storiografia italiana in poco più di un ventennio. A quei dagherrotipi veniva ora riconosciuto lo statuto di “reperti oggi residui di una ‘invenzione’ che (…) introduceva un modo di rappresentazione della realtà che avrebbe modificato profondamente la comunicazione visiva dell’epoca contemporanea (…) e perciò i modi con cui il dagherrotipo fu presentato e inserito nella cultura del tempo non riguardano solo questa particolare e suggestiva tecnica di produzione delle immagini, ma condizionano profondamente lo statuto culturale della fotografia nel suo complesso” e rimandano “a una diffusione di pratiche sociali che si definiscono già come qualificate politicamente e ideologicamente, nel caso specifico come accessibili a tutti e quindi come ‘democratiche’.”[942] Sebbene gli esempi presentati in mostra riflettessero la consueta prevalenza del genere del ritratto, il secondo saggio era dedicato ad analizzare la produzione vedutistica, anche per colmare le lacune conoscitive, e quindi storico critiche, relative a questo genere di immagini, già a suo tempo segnalate da Costantini[943]. Quel rimando arricchiva di ulteriore senso, quasi una dichiarazione di filiazione storiografica, la citazione di Heinrich Schwarz posta in esergo da Maria Francesca Bonetti[944], che considerava quella produzione dagherrotipica un elemento cruciale “nell’evoluzione della cultura dello sguardo” sull’Italia, considerando come “tali ‘vedute’ – che pure appartengono soltanto ad un breve periodo della storia – si pongano e si offrano quale ineludibile, necessario anello di congiunzione tra approcci e forme di conoscenza e di rappresentazione dei luoghi tra loro sostanzialmente diversi.” Alla definizione di questo nodo rappresentativo Bonetti dedicava uno studio puntuale, sorretto da un apparato minuzioso di note che dava sostanza alle considerazioni critiche, interpretando le serie di riprese realizzate per le Excursions Daguerriennes, legate alla tradizione anche selettiva dei Voyages pictoresques, e di quelle prodotte dai ‘milanesi’ Artaria, di tono “più borghese e locale”, anche come “tentativi di superarne [del dagherrotipo] i limiti di immagine unica, non riproducibile, per assicurarne comunque una fruizione il più possibile ampia e alla portata di un pubblico sempre più vasto e indifferenziato”, sebbene ancora, di necessità, socialmente circoscritto.
Lo spazio discorsivo della stereoscopia
Un ulteriore momento di particolare rilevanza culturale e sociale venne individuato nella diffusione della nuova modalità narrativa della stereoscopia; celebrata dalle figurine Liebig nel 1966 ma solo marginalmente considerata dagli studi di storia della fotografia italiana[945] nonostante la precoce attenzione dimostrata da Maria Adriana Prolo con la mostra al Museo del Cinema di Torino in quello stesso anno. Fatti salvi i riferimenti contenuti in monografie e opere di carattere generale (Becchetti 1978), la letteratura italiana sul tema non aveva offerto titoli specifici sino al 1992, sempre rigidamente circoscritti al tema generale del vedutismo e del paesaggio, mentre mancavano e mancano a tutt’oggi studi specifici sull’applicazione della stereofotografia ad ambiti tanto distanti quanto ampiamente praticati come la fotografia erotica e pornografica; il rilevamento territoriale e architettonico; le applicazioni scientifiche, specialmente in ambito anatomopatologico; le svariate forme del reportage e le serie narrative di diverso genere. Una nuova occasione di studio venne offerta dalla pubblicazione della collezione di stereoscopie appartenute a Henri Le Lieure, pervenuta nel 1995 all’ICCD attraverso l’acquisizione diretta da una discendente[946]. Quel lavoro condotto a più mani costituì “il primo grosso progetto relativo solo alla stereoscopia in vetro del XIX secolo”; una tipologia di materiali solitamente trascurata dalle grandi collezioni pubbliche, che invece nel decennio successivo godette di una rinnovato interesse, almeno per quanto riguardava la più diffusa versione su carta. Basti pensare alla pubblicazione dei ricchi repertori della Biblioteca Vallicelliana di Roma[947]; alla discussione del posto occupato dalle stereoscopie nella produzione di due grandi studi come Alinari e Brogi[948] e infine all’illustrazione di alcuni temi specifici, quali la stereoscopia a Roma[949] e la serie palermitana di Eugène Sevaistre del 1860[950].
L’eterogeneità dei soggetti e dei trattamenti delle opere raccolte da Le Lieure mostrava con evidenza come si fosse in presenza di serie dovute a vari autori ed editori, imponendo agli studiosi una accurata ricostruzione delle differenti storie di produzione di quei materiali, svolta in modo esemplare da John B. Cameron, che analizzava sia le tecniche di intervento dello studio Le Lieure[951] sia i numerosissimi cataloghi di vendita editi dai due studi francesi Ferrier & Soulier (poi Léon & Lévy) e J. Lachenal & Favre, ulteriore riprova di quale fosse il livello di razionalizzazione delle strategie commerciali in un comparto come quello della produzione e vendita di stereoscopie, certo il più rilevante in termini economici.
Particolarmente attento alle peculiarità e specificità narrative di queste immagini fu in quegli anni Giovanni Fanelli[952] che, studiando un corposo insieme tematico incentrato sul fortunato caso di Firenze e della Toscana, chiosava le parole di Helmut Gernsheim per richiamarne la scarsa fortuna critica, conseguenza della “nostra naturale ammirazione per le grandi immagini”[953]. Il particolare riconoscimento del valore documentario era sottolineato da Fanelli che nell’indicarne le ragioni segnalava, oltre alla dimensione quantitativa, proprio il fatto che “essa abbia contemplato, almeno in alcune aree e in certi periodi, una gamma di soggetti più ampia e più varia rispetto agli altri tipi fotografici; in particolare, per quanto riguarda le vedute di architettura, di città e di paesaggio, sono più frequenti le vedute ‘animate’ o ‘istantanee’, che documentano non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani ma anche i modi del loro uso nel tempo. Quando si segnala l’importanza della veduta animata non è per gusto del pittoresco o per inclinazione veristica, ma perché, casuale o frutto della consapevole intenzione del fotografo che sia, la presenza di persone e cose nell’immagine fotografica è un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti di un’ampiezza e di una qualità confrontabili soltanto con le punte più avanzate del realismo pittorico ottocentesco e della sua indagine, senza molti precedenti, della realtà sociale dei luoghi.”[954] Il riconoscimento di una fortuna critica inversamente proporzionale alla loro diffusione e rilevanza storica suggeriva all’autore di offrire una sintetica ricostruzione della storia della fotografia stereoscopica nel XIX secolo[955]. Considerando i problemi di linguaggio due erano gli elementi determinanti introdotti dalla stereoscopia: una prima e precoce affermazione dell’istantaneità[956], possibile già intorno al 1856, quindi ben prima delle emulsioni alla gelatina, e l’adozione di un trattamento seriale dei soggetti, contrapposto alla consuetudine che diremmo sintetica e icastica delle riprese di grande formato, ciò che consentì l’affermarsi di una diversa estetica, caratterizzata da ridotti legami con la tradizione iconografica. Accanto a questi andava considerata e compresa la dimensione semi industriale dei maggiori editori del settore; una modalità che contemplava anche – come fu per Le Lieure – ricorrenti fenomeni di acquisto o scambio di fondi fotografici quando non di vero e proprio plagio tra ditte. Alcune di queste questioni vennero illustrate e discusse nel numero monografico di “AFT” edito in occasione della mostra e nel volume che fungeva da catalogo dell’esposizione Luoghi toscani in stereoscopia, promossa nel maggio 2001 dall’Archivio Fotografico Toscano e curata da Fanelli[957], che ebbe modo di esplicitare la rilevanza per le attuali discipline storiche e sociali dell’enorme produzione di quella particolare tipologia di immagini, progressivamente estesa dal contesto editoriale a quello amatoriale[958], avendo modo di verificare – a proposito della Toscana[959] – che in termini di commerciabilità delle serie tematiche si confermava la prevalenza dei soggetti fiorentini e pisani. In quella stessa occasione Monica Maffioli[960] illustrò la specifica produzione degli stabilimenti Alinari e Brogi[961], segnalandone un uso quasi cronachistico e così fortemente aderente alla contemporaneità da essere poi espunto dai cataloghi successivi.
Società fotografiche ed editoria periodica
“Se non si vuole limitare la storia della fotografia al riesame dell’opera dei singoli fotografi – scriveva Tomassini nel 1992 – avulsi dal contesto e dai circuiti attraverso cui avveniva la circolazione delle idee e delle informazioni, l’analisi delle riviste appare fondamentale.”[962] “La scelta metodologica di ripartire dalle fonti per far progredire lo stato delle conoscenze nell’ambito della storia della fotografia”[963] aveva caratterizzato da circa un decennio i lavori seminariali e le tesi di laurea afferenti alla cattedra di Storia dell’arte contemporanea dell’Università di Napoli tenuta da Mariantonietta Picone Petrusa e dal quel contesto nacque anche la tesi di Elvira Puorto dedicata al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”; poi pubblicata integralmente, in memoriam, nel 1996 per iniziativa di un gruppo di amici e docenti[964], mentre un primo estratto era stato ospitato, “su affettuosa richiesta di Zannier”, sulle pagine di “Fotologia” [965], che a partire dal n. 11/ 1989 andava pubblicando in riproduzione alcuni estratti e gli indici del periodico. Quel contributo costituiva una parziale revisione del capitolo della tesi in cui si delineavano le caratteristiche editoriali del “Bullettino”, considerando in particolare i dati desumibili dalle pagine pubblicitarie delle principali ditte italiane produttrici di materiali fotografici. Un fonte ed un tema nuovi, non considerati ad esempio nella pur ampia analisi che Costantini aveva dedicato a “La Fotografia Artistica”. Coerentemente con gli assunti metodologici espressi dalla relatrice i restanti capitoli della tesi non si soffermavano sull’analisi critica delle posizioni culturali assunte dal “Bullettino” ma utilizzavano quelle pagine come fonte per la ricostruzione di alcuni aspetti ed eventi centrali di quella stessa cultura, quali il rapporto arte fotografia, il dibattito intorno al diritto d’autore o l’istituzione di scuole di fotografia. All’arricchimento di queste ricerche contribuì di lì a poco la scoperta, fatta da Annarita Caputo Calloud[966], dell’archivio della Società Fotografica Italiana presso l’Istituto statale d’Arte di Firenze, ciò che consentì di ricostruirne alcuni momenti cruciali come la nascita del sodalizio o le ragioni di politica culturale che a pochi mesi dalla costituzione della Società portarono alle dimissioni del primo presidente Paolo Mantegazza, sino alla liquidazione della Società nel 1915. Al ruolo svolto da questa e dal suo organo a stampa “AFT” aveva già dedicato in anni precedenti alcuni importanti contributi[967], richiamati da Tomassini in un breve intervento pubblicato in parallelo col saggio di Caputo Calloud, nel quale avvertiva come non si dovesse “sopravvalutare il ruolo di una associazione che si dichiarava nazionale ma che in realtà era ben lungi dal coprire la stratificata e variegata realtà del mondo della fotografia in un contesto nazionale così poco accentrato, anche culturalmente, come quello italiano”[968]. Ciononostante proprio quelle contraddizioni interne offrivano “uno spaccato reale dei problemi con cui si doveva confrontare la fotografia italiana, non per vivere (…) ma per assumere un ruolo più rilevato all’interno della cultura italiana del tempo”, costituendo così un caso di studio di particolare interesse anche per la funzione precipua di strumento di diffusione di testi anche stranieri svolta dal “Bullettino”.[969] Quella apertura internazionale, qui assunta come posizione programmatica ed estetica aveva ancor più caratterizzato la breve vita de “La Fotografia artistica”, che per Paolo Costantini (1990) aveva rappresentato “la presenza più importante e significativa della cultura fotografica italiana, accogliendo nelle sue pagine tutto il clima di tensione e di rinnovamento che è proprio (…) della svolta di fine secolo.” Opinione condivisibile, ma solo a patto di collocarla storicamente in un contesto sociale e culturale ben circoscritto e parziale; di considerarla cioè manifestazione di un fenomeno di élite, una punta avanzata del gusto. Se lo studio fosse stato rivolto alla cultura diffusa, a delineare una sociologia storica della pratica e della produzione fotografica, allora certamente il ruolo di “presenza più importante” avrebbe dovuto essere assegnato ad altre testate, verosimilmente a “Progresso Fotografico”. Nonostante questa interpretazione parziale lo sguardo su quella cultura (su quelle culture) portato dall’ “osservatorio particolare della rivista torinese” aveva consentito di far emergere “contrasti e contraddizioni lungo un filo conduttore: un’idea di modernità continuamente ribadita ma mai compiutamente precisata, una volontà di rinnovamento verso una ‘lingua’ moderna che si vorrebbe in continuità, senza alcuna mediazione critica, con la tradizione”. Quasi una costante della fotografia italiana ancora nel periodo tra le due guerre se si pensa al ruolo e alle pagine dell’altro, successivo periodico torinese “Il Corriere Fotografico”. Per comprendere quelle che a noi possono apparire come contraddizioni Costantini scelse di analizzare “la pluralità di voci (…) che trovano spazio e amplificazione nella rivista di Cominetti, per porre in evidenza il modo in cui in Italia, in questo particolare momento si è intrecciato il discorso delle fotografie con l’autorità delle parole. La necessità di ‘andare oltre lo sguardo’ appare infatti tanto più evidente per chi intenda fare storia delle ambigue e altrimenti sfuggenti immagini realizzate nel mito della ‘fotografia artistica’, un momento cruciale della storia della fotografia che vuole entrare nella modernità. Ma anche per guardare queste (e altre) fotografie perché dentro c’è qualcosa da vedere.” Quella necessità costituiva una definitiva affermazione della cultura fotografica quale oggetto del fare storia e corrispondeva a un segno di raggiunta maturità della storiografia italiana, già manifestatosi esplicitamente in alcune analoghe iniziative precedenti[970]. In quell’occasione però il rapporto tra i due termini risultava addirittura ribaltato[971] e ad una approfondita ricostruzione delle vicende e dei nessi tra i vari contributi pubblicati nella rivista diretta da Annibale Cominetti non corrispondeva poi una analoga considerazione per le immagini presentate su quelle pagine, riprodotte in quantità modesta e mai specificamente commentate sebbene fosse proprio alla loro realtà fattuale ed estetica che andava semmai assegnata la funzione “cruciale” di contraddittorio snodo verso la modernità, finalmente riconosciuto anche da noi dopo gli anatemi sprezzanti degli storici delle generazioni precedenti[972]. Quello “splendido e raffinatissimo periodico”, di cui con giudizio opposto a Tempesti apprezzava la “qualità critica dei testi pubblicati”, venne considerato anche da Miraglia nello studio che in quello stesso arco di tempo dedicava alle formazione e allo sviluppo delle culture fotografiche torinesi[973], ma senza soffermarsi troppo sui testi quanto piuttosto sulle immagini, al fine di dimostrare come i dilettanti torinesi “più che mimare pedissequamente i temi e i modi della contemporanea pittura, abbiano partecipato attivamente, pur se con esiti fra loro qualitativamente diversi, del clima culturale in cui vissero”[974], introducendo un’interessante analogia tra quanto avveniva in fotografia e quanto era accaduto poco prima nell’ambito dell’acquaforte, quando sulla scia di Antonio Fontanesi si assistette a un “recupero segnico della tecnica scelta per spingerla, al di là della rappresentazione, verso i destini diversi di un’espressività moderna.”
L’analisi storico critica di una fonte a stampa costituì anche l’obiettivo della tesi di Specializzazione in Storia dell’Arte contemporanea discussa da Silvia Paoli nell’anno accademico 1992-1993[975] presso l’Università Cattolica di Milano, avendo come relatore lo stesso Paolo Costantini, dedicata a Fotografia – Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, il numero unico edito da Domus nel 1943, già allora tanto citato quanto poco studiato[976]. Adottando in parte il modello costituito dallo studio dedicato a “La Fotografia Artistica”, Paoli rilesse i principali contributi al dibattito italiano sulla ‘nuova’ fotografia pubblicati sui più importanti periodici, evidenziando il ruolo di apertura e di mediazione delle esperienze internazionali svolto in particolare dalle riviste di architettura e di grafica, alla ricerca della definizione modernista dello specifico del mezzo, a cui contribuirono personalità attive in settori diversi, presentate in profili sintetici in quella che possiamo individuare come seconda parte del saggio, identificandone di volta in volta i contributi selezionati per l’ “Annuario”. A una ricostruzione molto accurata delle vicende e della rete di relazioni sottese a quell’impresa editoriale corrispondevano però valutazioni solo in parte condivisibili: proprio il confronto con le esperienze accuratamente descritte dalla studiosa non consentiva infatti di considerare l’ “Annuario” come “l’affermazione più decisa, in quegli anni, della fotografia ‘moderna’ (…) punto d’arrivo fondamentale del dibattito tenutosi sulle riviste nei due decenni precedenti”, come aveva già a suo tempo sostenuto Zannier; semmai mostrava quanto la riflessione critica alla base di quel progetto fosse ancora incerta e comportasse un sostanziale ripiegament, tutta rivolta com’era al chiuso mondo del puro esercizio fotografico e alla sin troppo ovvia messa alla berlina di quelle “generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi dei valori etici e morali della nostra cultura.”[977] Un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, al 1943.
Studi settoriali
La documentazione del patrimonio architettonico ed artistico, che così ampia parte aveva avuto nelle vicende fotografiche nell’Italia della seconda metà del XIX secolo, divenne oggetto di numerosi studi monografici, che costituirono importanti occasioni di approfondimento conoscitivo e di ulteriore messa a punto di strumenti metodologici. Il primo di questi, firmato da Monica Maffioli nel 1996[978] era rivolto alla documentazione delle principali architetture italiane del XIX secolo e mostrava bene la distanza, metodologica e di risultati, da un’opera divulgativa come quella di poco antecedente di Zannier (1991), specialmente per quanto riguardava la sistematicità con cui erano affrontati i temi: dalle prime realizzazioni alla nascita dei grandi stabilimenti e studi sino all’uso editoriale come strumento documentario, ma considerando solo marginalmente un tema centrale per la fotografia di architettura e di ingegneria del XIX secolo come quello delle campagne di committenza pubblica. Per Maffioli l’assunto di fondo era rappresentato dall’intendere la fotografia come “atto interpretativo”, quindi storicamente e culturalmente determinato, sebbene poi l’aver limitato il novero di soggetti considerati alle sole architetture coeve riducesse di molto la possibilità di definire le caratteristiche autoriali dei fotografi presi in esame,[979] rispetto alle quali sarebbe stato indispensabile un confronto allargato a tutta la loro produzione di settore.
Anche la complessità dei rapporti intercorrenti tra fotografia, storiografia architettonica, tutela e restauro venne affrontato in quegli anni in modi più attrezzati e disponendo di più solide basi di dati[980] rispetto alle primissime, generiche indagini[981]. Era stato Paolo Costantini (1985) a riflettere sulle posizioni critiche di Pietro Selvatico, tra i primi intellettuali ‘italiani’ a considerare in modo organico le possibilità offerte dal nuovo strumento sul duplice fronte della didattica e del rilevamento finalizzato alla tutela del patrimonio artistico e architettonico. In particolare lo studioso padovano aveva anticipando di alcuni decenni il tema poi centrale degli archivi documentari e delle relative campagne fotografiche, come quella dedicata alla Apulia Monumentale realizzata nel 1891-1892 da Romualdo Moscioni[982], riproposta integralmente e studiata in un volume (Gelao et al. 1999) edito per celebrare il centenario della partecipazione della Puglia all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898. Ciò che sorprendeva di quella realizzazione era però la scarsa, quasi inaccettabile cura editoriale posta nel garantire la qualità delle riproduzioni, come se non fossero proprio le immagini a rappresentare l’oggetto primario di conoscenza e l’elemento di maggior interesse; contemporaneamente fonte e opera compiuta, qui relegate in secondo piano rispetto agli interventi esegetici. L’aspetto positivo era invece costituito dalle metodologie e dagli strumenti di ricerca utilizzati, quali il ricorso sistematico alla documentazione d’archivio e all’analisi comparata delle fonti scritte per riconoscere i presupposti (culturali in senso lato, anche nei risvolti economici) delle vicende studiate, ma anche l’accostamento di analisi testuale e iconografica per considerare cioè la fotografia come documento/ monumento in senso proprio ovvero, per dirla in termini più immediati, conducendo le ricerche intorno e sulla fotografia privilegiando il metodo storico rispetto alla semplice lettura dei dati referenziali o alla pura, per quanto necessaria, valutazione estetica.
Ancora a Pietro Selvatico si doveva la definizione della fotografia come “fac-simile”, datata 1872, e all’affermarsi di quella concezione vennero dedicate alcune verifiche storico critiche come quella condotta da Roberto Cassanelli a proposito del primo esempio di expertise corredata di fotografie[983], con Selvatico nel ruolo di antagonista, mentre chi scrive ricostruiva le vicende, anche di strategia della comunicazione, che portarono un’istituzione come l’Armeria Reale di Torino ad affidarsi alla fotografia per la documentazione e la divulgazione del proprio patrimonio, in un progressivo allontanamento dalla tradizione rappresentativa delle arti del disegno[984]. Proseguendo una riflessione teorica e metodologica da tempo avviata Marina Miraglia affrontava invece i modi e i nodi della traduzione linguistica operata dalla restituzione calcografica e poi fotografica degli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina[985], fornendo una serie di indicazione operative che per sistematicità assumevano valore di metodo. In quell’occasione la studiosa aveva mostrato come le svariate modalità di restituzione rappresentativa, contrariamente alle opinioni coeve, dovessero essere intese sempre e comunque come forme di traduzione dell’opera, recuperando all’attualità fotografica quella capacità di comprensione critica delle incisioni che era stata propria delle “gens judicieux” di cui aveva scritto Michael Huber nel 1787[986]. Anche per Massimo Ferretti[987] “la riproduzione fotografica, almeno nel suo primo mezzo secolo di vita, corrisponde ad un’attitudine visiva già precedentemente orientata in tal senso”, mentre fu l’avvento delle sua riproduzione tipografica a determinare l’insorgere di “un ‘occhio nuovo’ (nel senso reso familiare da Baxandall)”[988], vale a dire un occhio che esprimeva un paradigma conoscitivo corrispondente a un nuovo orizzonte di attese, determinato anche dal fatto che “senza eccessivi ritardi, la riproduzione fotografica rappresentò un cambiamento di natura quantitativa. Nell’intero ventaglio delle sue funzioni, la fotografia dell’arte è un aspetto della cultura industriale.”
Aprendo la sessione del convegno di Prato del 1992 dedicata a Fotografia e storia della fotografia, Fernando Tempesti aveva invitato a riflettere sul problema dei fondamenti, proponendo di “costruire una storia della fotografia che sia specifica e non assomigli, quando si va a leggere, ai manuali di storia dell’arte”[989]. In quell’occasione l’invito venne però sostanzialmente disatteso se non da Claudio Marra, che offrì il solo contributo storiografico teoricamente rilevante[990] per quanto limitato da un riferimento tutto interno alla storiografia artistica, quindi ben lontano da quello ‘specifico’ fotografico auspicato da Tempesti, col quale condivideva però l’opinione che “la storiografia fotografica (…) non si fosse mai preventivamente interrogata, con atteggiamento critico, sull’oggetto dei propri studi.”[991] Rielaborando un’intuizione di Ugo Mulas, per il critico bolognese la fotografia costituiva un oggetto dotato di una logica di funzionamento che lo distingueva radicalmente dalla “famiglia dell’immagine tradizionalmente intesa” e lo accomunava a quella dei ready made; da qui la necessità di considerare l’azione fotografica come luogo della concettualità contrapposto a quel luogo della formalità che era il quadro. “É chiaro – proseguiva Marra – che accettando questa logica la storiografia del settore dovrebbe rivedere tutta una serie di giudizi negativi espressi sull’automaticità del lavoro fotografico e sull’invadenza del reale proposto dalle immagini, ma soprattutto dovrebbe riconoscere di avere tra le mani un oggetto che, per logica di funzionamento, risulta del tutto differente rispetto a quello che acriticamente si pensava.” Ne conseguiva il riconoscimento dell’irrilevanza di “tutti gli elementi formali di lettura mutuati dalla tradizione pittorica” e l’estensione della concettualità a ogni attività fotografica, ben dentro le pratiche comuni e correnti in cui “questo principio si manifesta in tutta la sua rilevanza e primarietà”, giungendo infine a ritenere che “la fotografia (…) col suo altissimo realismo speculare, sia stata una sorta di anticipazione storica di tutti gli attuali fenomeni che chiamiamo di simulazione.” Pur addebitando allo spirito del tempo il ricorso disinvolto a certa terminologia allora di moda in ambito postmoderno digitale, quello di Marra risultava un intervento connotato da posizioni critiche innovative, di grande interesse e significato, che però di fatto non vennero colte e neppure prese in considerazione dagli interventi e dal dibattito successivo, a cui contribuirono prevalentemente storici contemporaneisti e antropologi, senza che gli storici della fotografia, già così scarsamente presenti, facessero sentire la propria voce. Un’interpretazione storico critica delle vicende della fotografia tutta interna all’universo storico artistico non era certo una novità, risalendo almeno alle posizioni espresse da Heinrich Schwarz, ma ciò che qui risultava assolutamente innovativo era l’individuazione e la definizione dello scarto concettuale determinato dal nuovo mezzo, posto in relazione con le vicende di tutta l’arte del Novecento.
In occasione dello stesso convegno di Prato, ma in un’altra sessione di lavoro, Giovanna Ginex aveva dato conto degli esiti delle proprie ricerche ponendo con chiarezza la distinzione “tra l’ambito relativo alla storia dell’arte in relazione alla storia della fotografia e quello della fotografia come documento per la storia, in questo caso documento per la storia dell’arte. I materiali qui considerati sono infatti le fotografie eseguite da artisti nel corso dell’elaborazione di un’opera di pittura e più raramente di scultura” [992]; artisti che si fecero fotografi per ragioni prevalentemente strumentali, analogamente a quanto accadeva per gli illustratori[993], ma senza dimenticare l’eventuale influsso della fotografia sulle loro modalità espressive e stilistiche. Accanto a queste considerazioni di ordine storico critico Ginex pose con forza il problema della conservazione del “patrimonio fotografico concreto” da loro prodotto, sovente affidato all’oblio dagli stessi artisti e dai loro esegeti, in una malcelata intenzione di preservarne la purezza dalle contaminazioni fotografiche. Così facendo si era perpetuata e riprodotta, sino ad anni recentissimi, una analoga pratica sommersa e ‘inconfessabile’: come il pittore aveva negato il ricorso alla fonte fotografica così continuavano a fare i critici e gli storici dell’arte che ne studiavano l’opera, nonostante l’esempio precoce di Vitali[994]. Altri importanti contributi alla sessione furono quello di Silvia Paoli[995], che si soffermava sui problemi posti dall’errato trattamento catalografico delle fotografie di documentazione delle opere d’arte, che ancora privilegiava le informazioni proprie del referente piuttosto che del documento fotografico, invitando perciò gli storici dell’arte a “riconsiderare la fotografia, [a] riflettere sulla specificità del suo linguaggio”[996], rimandando così a questioni che in quella occasione erano state puntualmente affrontate dall’intervento di Miraglia, per ragioni organizzative ospitato in una diversa sessione di lavoro[997]. La storiografia artistica, e forse in misura maggiore e più criticamente attrezzata di quella fotografica, si misurava in quegli anni sul tema del rapporto dei pittori con la fotografia, verificato in specifici casi di studio. Una prima sintesi era stata proposta da Silvia Bordini (1990) con un saggio ospitato nel secondo dei due volumi dedicati alla pittura dell’Ottocento in Italia curati da Enrico Castelnuovo, ciò che certificava l’avvenuta presa di coscienza da parte degli storici dell’arte moderna dell’imprescindibilità storico critica del tema[998]. Anche in questo caso la trattazione prendeva le mosse dalla ricezione dell’invenzione in un paese come l’Italia che per storia e condizione non disponeva ancora di “metodi di interpretazione adeguati per la nuova scoperta [sic]; si tendeva a ricorrere a criteri di valutazione tradizionali, si esitava a prendere coscienza della specificità del mezzo, ponendo così le basi di una serie di ambiguità e disconoscimenti tra arte e fotografia; ambiguità che era facile riscontrare nella stessa terminologia adottata per descriverne gli esiti, in cui come è ben noto, ricorrevano i termini di “pittura”, quadro” e “disegno”, ciò che sottintendeva “l’esigenza di riassorbire le potenzialità [della fotografia] nei codici tradizionali dell’arte”, sebbene poi “nei fatti gli artisti si trovarono ad avere tra le mani e negli occhi uno strumento di interpretazione della realtà sempre più articolato e foriero di nuove domande.” Lo studio di Bordini proseguiva considerando il mutare degli atteggiamenti e le numerose tipologie d’uso assegnate alla fotografia nel corso del XIX secolo, non escluso l’utilizzo quale mezzo privilegiato di riproduzione delle proprie opere, gestito in proprio dagli artisti o con la mediazione degli studi fotografici. Questa circolazione ampia determinò poi un progressivo “processo di scambi e ritorni, con fotografie che si ispiravano ai dipinti e che a loro volta erano studiate dagli artisti, con un rimescolamento di stereotipi e di linguaggi evidente soprattutto nel comune repertorio della produzione bozzettistica e illustrativa”, tanto invasivo da far assumere al qualificativo di ‘fotografico’ applicato all’esito pittorico una connotazione dispregiativa. “Si ribadiva implicitamente che la cultura visiva dominante rimaneva, anche con l’avvento del nuovo mezzo e delle nuove immagini, quella della pittura, con il peso determinante quanto problematico e forse ingombrante di un’immensa tradizione. Una radicata certezza che di lì a poco il rimescolamento delle avanguardie avrebbe messo in discussione.”
Una diversa interpretazione di quei fenomeni venne offerta da Miraglia (2000) in un saggio dedicato alla memoria di Paolo Costantini e Philippe Neagu col quale intendeva “attirare l’attenzione sul ruolo svolto dalla visione fotografica nella formulazione e nella definizione delle estetiche pittoriche e, al di là di eventuali esempi, determinare i veri punti di contatto epistemologico tra le aspirazioni della fotografia e quelle del campo vicino della pittura, a un momento dato”. Si trattava cioè di considerare l’analisi di quei rapporti come strumento di verifica della ‘modernità’ di culture visive in profonda mutazione lungo un arco di tempo segnato dalla presenza di due autori agli antipodi dal punto di vista “cronologico, linguistico e concettuale” come Michetti e Bragaglia. In quella fase storica “non era più la pretesa denotazione [della fotografia] a interessare i pittori (…) ma, al contrario, le sue caratteristiche linguistiche, nelle quali gli artisti ritrovano una guida incomparabile per studiare, comprendere, conoscere il ‘vero’ ed esplorare la relazione dialettica tra vero e visione”[999], tanto che “l’antagonismo iniziale si trasforma in scambio.” Sottolineando gli elementi di discontinuità piuttosto che la condivisione di stereotipi rappresentativi, Miraglia assegnava alle relazioni tra pittura e fotografia un ruolo determinante nella genesi della “crisi generale dell’arte” occidentale, che “prima di dissociarsi definitivamente dal ‘vero’ si interroga, non senza nostalgia, sulla perdita del primato della rappresentazione” nello stesso momento in cui “la fotografia (…) tenta di definire, in modi spesso contradditori, il campo sfuggente e complesso del suo dominio, che si definisce sempre attraverso una identità incerta, fatta di sensibilità e di intelligenza, sempre oscillante tra concretezza e astrazione”, ovvero tra denotazione e connotazione. Più in particolare, per quanto riguardava i pittori italiani che utilizzarono la fotografia, Miraglia riteneva che “fotografia e pittura si sono evolute con lo stesso passo poiché esse erano coinvolte in una ricerca estetica comune e motivate dal medesimo desiderio di penetrare sempre più a fondo i segreti della natura e il mistero dell’apparenza delle cose.” Per lo stesso catalogo Silvia Bordini intitolava il proprio contributo Sogno e realtà[1000], con una citazione esplicita (e forse a chiave) del titolo del trittico di Angelo Morbelli realizzato nel 1905, che pur nella sua semplicità compositiva mi pare contenesse qualcosa di più che una eco della retorica simbolista di Fading Away di Henry Peach Robinson, 1858. Il sottotitolo esplicitava l’argomento: Morbelli, Previati e Sartorio, sulla fotografia, a dire che questi autori ebbero con questa una “attitudine relativamente autonoma rispetto all’uso che ne facevano i pittori” o, meglio, che potevano essere scelti per rappresentare quelle distinte modalità d’uso e di relazione con la fotografia già descritte da Miraglia ma precisando meglio i fronti opposti, qui rappresentati da Gaetano Previati, che lamentava la “prolissità della fotografia” e da Giulio Aristide Sartorio che nella sua splendida invenzione letteraria affrontava la questione ben più ampia e complessa del simulacro e della sua messa in discussione della realtà fattuale e storica[1001].
I numerosi contributi di quel decennio testimoniavano una notevole crescita di interesse per il tema in termini quantitativi e qualitativi, costituendo occasione per approfondimenti e precisazioni ma senza apportare significative modifiche al disegno generale, che ne risultava sostanzialmente confermato sebbene arricchito di dettagli. È quanto accadeva anche con un autore già molto studiato come Michetti, del quale Renato Barilli si provò dapprima a indagare (senza ironia alcuna) il Combattimento per un’immagine[1002] negli anni della sua crisi pittorica, ma anche la successiva mostra, rivolta anche alla produzione decorativa e di arredi, non offrì alcun contributo storico critico innovativo, distinguendosi semmai per l’accuratissima catalogazione delle foto pubblicate: un apparato che si presentava sempre più come qualificante nell’editoria fotografica di quegli anni.
Nuovi studi vennero dedicati anche al tema più che ricorrente del movimento futurista, soggetto della mostra di apertura della Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra nel 1998 e ancora, nella stessa sede, nel 2001, di un’esposizione in cui si trattava il rapporto di quel Movimento con la fotografia. Una nuova edizione, integrata da una ricca sezione relativa al cinema, venne presentata al MART di Rovereto nello stesso anno, corredata da un volume curato da Giovanni Lista[1003] la cui novità dichiarata dal titolo – Cinema e fotografia futurista – doveva essere rappresentata proprio dalla considerazione parallela dei due “media dell’occhio meccanico”. Nell’interpretazione del curatore “l’incontro (…) avrebbe dovuto essere immediato e fecondo. Fu invece tardivo e laborioso” poiché i “futuristi marinettiani”, opportunamente distinti dai futuristi eterodossi e indipendenti come i fratelli Ginanni-Corradini e Bragalia, “svolgevano un dialogo segreto con il cinema e la fotografia. Ma si trattava soprattutto del cinema e della fotografia scientifica”, non riconoscendoli in quanto medium in sé e negando di conseguenza “ogni dimensione estetica all’immagine meccanica.” “Pur essendo tra i prodotti culturali della novità tecnologica celebrata dal futurismo – scriveva Lista – l’immagine fotografica appariva come sclerosi del vivente, cioè come vera e propria negazione di quella sensazione vitale che l’arte futurista voleva tradurre con enfasi dirompente e lirica per acculturare il corpo sociale ai valori della modernità.” Posizione critica certo interessante ma per molti versi incompleta, che non considerava una questione ben più profonda, vale a dire la sostanziale accettazione futurista della logica del quadro, la mancata comprensione e il conseguente rifiuto di quel mutamento paradigmatico introdotto proprio dalla fotografia, di cui aveva parlato Marra[1004], per il quale “nella cultura artistica del Novecento”, e solo in quella, “pittura e fotografia (…) hanno interpretato due identità differenti se non addirittura antitetiche” dal punto di vista concettuale e linguistico. Più in particolare “l’opposizione dei futuristi alla fotografia trova reale spiegazione in una mancata e autentica revisione dell’intero settore delle arti visive, un ambito che, nello sviluppo del loro sistema estetico, continua a proporre il quadro come unico e immutabile sistema espressivo. L’idea che la fotografia rappresenti un ribaltamento totale di questa prospettiva non viene neppure presa in considerazione.” L’importante riconoscimento di “logiche d’arte non assimilabili” tra pittura e fotografia liberava il critico e lo storico dalla necessità di vincolare alle componenti stilistiche la comune appartenenza a una determinata poetica, ciò che offriva improvvisamente la possibilità di costruire relazioni per ogni e ciascuno degli ‘ismi’ e dei movimenti del primo Novecento, non ultimo la Metafisica nel cui alveo, abbandonando “la classica procedura filologica” per una più adeguata “elasticità metodologica” (forse una versione scolastica del “pensiero debole”) Marra collocava arditamente l’opera del barone Von Gloeden, considerato “come perfetto equivalente, in campo fotografico, delle scelte citazioniste esibite da De Chirico in quegli stessi anni”. Una lettura semplicistica e astorica, sbrigativamente postmoderna, che rifiutava strumentalmente le genealogie culturali da cui quelle immagini derivavano e di cui costituivano una delle più tarde e complesse manifestazioni. Le letture critiche offerte da Marra, pur se non sempre convincenti avevano certamente il merito di porre in discussione, e in certi casi correggere, canoni interpretativi mai veramente sottoposti a verifica, mentre ciò a cui non era possibile riconoscere legittimità storica ed efficacia storiografica era il quadro interpretativo generale, che intendeva la storia della fotografia esclusivamente come aspetto della più generale storia dell’arte; come se questa coincidesse e potesse esaurire in sé tutta la storia delle immagini, alla quale appartiene invece la fotografia; come se immagine e arte fossero categorie sinonimiche e sovrapponibili. Su questa problematica relazione di appartenenza si interrogava anche Roberta Valtorta[1005] la quale, pur riconoscendo che tutti gli storici più importanti avevano tenuti separati i due ambiti, e che si trattava di “una forma di comunicazione che si svolge in diversissimi ambiti sociali e culturali (…) fortemente coinvolta nelle comunicazioni di massa” dichiarava infine che “la fotografia è un’arte”; “un’arte che si sviluppa su base internazionale. (…) un’arte probabilmente assai più complessa e in un certo senso diversa dalle altre arti”. Un fraintendimento storico e concettuale che in altri momenti storici si sarebbe detto pittorialista.
Nel confronto continuo tra pittura e fotografia che si ebbe nel corso del XIX secolo il genere del ‘paesaggio’ aveva rappresentato uno degli ambiti di maggior interesse e rilevanza di risultati; occasione per definire una concezione più interpretativa ed espressiva della fotografia. La fascinazione del tema, non disgiunto a volte da quello del viaggio, ben si prestava per iniziative editoriali ed espositive che costituirono altrettante occasioni di approfondimento dei processi di formazione delle diverse culture fotografiche italiane[1006]. Senza preoccuparsi di distinguere tra veduta e paesaggio Diego Mormorio (2000) mise a confronto la produzione ottocentesca con fonti letterarie variamente declinate: dalle guide ai resoconti di viaggio alle relazioni tecniche legate alle grandi imprese infrastrutturali (strade e ferrovie, ponti e canali) che avevano modificato l’assetto territoriale della nazione appena unificata. Ne risultò un saggio molto denso e articolato nel quale se poco si parlava di fotografi e fotografie in senso proprio[1007] queste erano poste in relazione dialettica con le descrizioni e i giudizi offerti dalla stampa coeva e con le opinioni espresse dagli scrittori, specialmente stranieri, lungo un percorso che a partire dalla stagione risorgimentale proseguiva sino a comprendere i “mutamenti prospettici” indotti da fenomeni di vasta portata quali lo sviluppo delle ferrovie, le bonifiche e l’industrializzazione dell’agricoltura ovvero, su un fronte distinto ma non disgiunto, l’affermarsi di un turismo, che al consueto interesse per le città d’arte affiancava la scoperta di nuove mete: dalle Alpi al mare della Liguria e ai laghi settentrionali, precedendo di poco la prima ‘massificazione’ promossa dal Touring Club Italiano. Alle vicende del sodalizio, collocate nel generale contesto di trasformazione di un mercato fotografico in cui all’aumento della produzione industriale (apparecchi, materiali sensibili) corrispondeva la diminuzione del mercato professionale, era stato dedicato un volume (Porro 1991) che aveva contribuito in modo divulgativo quanto accurato e chiaro a definire il ruolo svolto dal quella associazione nell’affermarsi di una cultura fotografica e visuale sempre più estesa, sebbene poi sclerotizzata in letture sempre più stereotipate, sottolineando il dialogo con le riviste fotoamatoriali, di fatto rivolte allo stesso pubblico degli iscritti al TCI.
La rappresentazione del paesaggio era stato uno degli elementi sui quali si era fondato il “processo di storicizzazione e valorizzazione dell’intero nostro patrimonio fotografico” e alla verifica di tale ipotesi venne dedicata la mostra del decennale di “Modena per la fotografia” (Maggia et al. 2003). Il comitato scientifico[1008] aveva individuato a questo scopo quattro ambiti di indagine che a partire dalle prime produzioni romane degli anni Cinquanta del XIX secolo si spingevano sino alla più stringente contemporaneità, offrendo alla riflessione anche opere meno note ma considerate significative rispetto al tema. Non quindi presunte ‘scoperte’ e inediti, semmai nuovi punti di vista ed esplicitazioni di possibili intrecci e rimandi che superassero il più consueto approccio monografico alle singole figure autoriali per privilegiare le trame; ciò che si tradusse in scelte consapevolmente parziali e problematiche, destinate a sollevare “consensi e dubbi, stimolare curiosità e soprattutto dare il via a quegli approfondimenti così necessari all’interno di una materia ampia e ancora poco studiata quale è la fotografia italiana nel suo insieme.”[1009] Lo spostamento e forse lo scarto rispetto alle posizioni critiche più consolidate interessò in quegli anni anche le produzioni di soggetto alpino, provandosi a considerare la fotografia in montagna (molto più che di), quale ambito di studio particolarmente efficace per riflettere su di un periodo cruciale della storia della nostra fotografia quale fu quello tra le due guerre[1010]. L’ipotesi critica sottesa era che quella produzione avesse costituito uno degli ambiti in cui era avvenuto il passaggio – faticoso e per lo più incerto -dal tardo pittorialismo nostrano al modernismo di matrice europea, attraverso sperimentazioni che guardavano al bianco del mondo alpino per ridurre il peso del contenuto referenziale dell’immagine fotografica, volgendosi verso uno zero del significato quale mezzo per favorire una crescita dell’autonomia del significante, della forma compiuta che poteva dare valore all’immagine. L’analisi venne condotta ponendo a confronto una serie di opere tanto simili nella scelta dei soggetti e del loro trattamento da consentire di proporre criticamente il concetto di autore collettivo, inteso come identità culturale a cui corrispondevano figure empiriche impegnate in infinite variazioni sul tema, dove lo spazio bianco offerto dal contesto naturale offriva il materiale grezzo con cui misurarsi per elaborare nuove scritture, poco interessate alla referenzialità e semmai orientate verso l’astrazione: una fotografia di fatto ‘soggettiva’, sebbene ancora inevitabilmente lontana dalla consapevolezza critica che a quel termine sarebbe stata data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra.
Una geografia degli studi
L’arcipelago di volumi dedicati alle vicende fotografiche di una città o di un paese fu in quegli anni di taglio prevalentemente memorialistico[1011], come rivelavano i titoli utilizzati per i quali, dopo il declino di locuzioni quali “cent’anni”, “com’era”, “una volta” e il successo calante del concetto di “ricordo/ricordi” (solo 7 occorrenze) si affermava l’uso variamente combinato di lemmi come “immagini” (di un secolo; ritrovate; storia per; vecchie; un luogo e la sua immagine) e anche, naturalmente, “memoria” (lo specchio della m.; la m. e l’oblio; la m. fotografica; scenari della m.; sguardo e m.[1012]), senza dimenticare i casi in cui i due termini erano coniugati tra loro (immagini e m./ immagini nella m./ immagini della m./ la m. e l’immagine). In una prima approssimazione di tipo quantitativo il dato più significativo riguardava la loro totale assenza per un numero rilevante di regioni (Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Sardegna) e la scarsa presenza per altre (dal Trentino Alto Adige alla Calabria), così che era ragionevolmente possibile affermare che per la maggior parte delle località italiane la ricerca ebbe scarso o nullo sviluppo o, almeno, nessuna visibilità editoriale. Questo elemento poteva essere ulteriormente precisato considerando la dimensione demografica e urbana così come il ruolo di polo culturale storicamente svolto dalle località oggetto di studio. Risultava così che nella maggior parte dei casi erano ancora i capoluoghi regionali le aree più indagate, eventualmente affiancati dai centri con una importante storia fotografica come Biella, così come le città d’arte e le grandi mete turistiche, non sempre coincidenti con la gerarchia territoriale (Verona, Capri). Caso emblematico era poi Roma, che concentrava ancora su di sé in modo esclusivo tutti i titoli laziali, senza che alcuna ricerca (per quanto ci è noto) fosse dedicata ad altre località. Ne risultava una stretta corrispondenza – tematica, produttiva e commerciale – con le caratteristiche della produzione ottocentesca, a dimostrazione di quanto i flussi turistici e le dinamiche commerciali abbiano continuato a condizionare, in modo diretto o indiretto le iniziative editoriali quindi anche le occasioni di studio e di ricerca. Sola eccezione fu quella toscana, in cui l’ovvia prevalenza di Firenze non impedì un fiorire di iniziative dedicate ad altri centri della regione, anche minori.
Torino e il Piemonte
Dopo il 1977[1013] l’interesse per la fotografia piemontese del XIX secolo aveva prodotto una articolata serie di ricerche e saggi monografici[1014], a cui seguirono alcune iniziative espositive ed editoriali dedicate alla fotografia pittorialista e al successivo passaggio al modernismo[1015] che affrontavano il problema della formazione e sviluppo delle varie culture fotografiche a scala nazionale pur avendo ancora Torino come perno in quanto sede di esposizioni e di importanti periodici. Questo insieme di iniziative aveva fatto dell’area piemontese il contesto territoriale forse più studiato in ambito italiano negli ultimi decenni del Novecento, con una profondità e articolazione di indagine di cui era difficile trovare riscontro in altri territori e – più in particolare – un ottimo terreno di studio per analizzare e comprendere i delicati passaggi che consentirono di far transitare e trasformare la concezione ottocentesca della fotografia come trascrizione del referente nella cultura pittorialista e poi modernista dell’autonomia dell’immagine. L’analisi ravvicinata di quei contesti e di quelle produzioni consentì di sottoporre a verifica le distinzioni, non sempre storicamente così nette come si è portati a intendere oggi, tra fotografia documentaria e artistica, considerando l’operato di autori impegnati tanto sul fronte delle campagne legate alla tutela e al restauro del patrimonio architettonico quanto su quello della espressione autoriale. In particolare il lavoro sulle fonti a stampa consentì di riscontrare i progressivi slittamenti semantici di alcuni termini e specialmente del qualificativo ‘artistica’, che aveva “mutato progressivamente di senso, passando dalla designazione specifica dell’opera riprodotta a quella dell’opera prodotta: dal soggetto all’immagine”[1016], restituendo la complessità e le sfumature di una cultura per troppo tempo considerata in modo schematico. Al rapporto tra la società e le culture fotografiche della Torino del XIX secolo, ma con un’estensione sino al 1911, quasi coincidente con la soglia iniziale di quel “Secolo breve” di cui di lì a poco avrebbe scritto Eric Hobsbawm[1017], dedicava un proprio fondamentale contributo Marina Miraglia[1018], pubblicato nello stesso anno dell’altro saggio di argomento in senso lato torinese di Paolo Costantini (1990) dedicato a “La Fotografia Artistica”[1019]. Nella Premessa erano esplicitate le ragioni della scelta del 1911 come terminus ad quem, del resto già adottato per le Note einaudiane[1020], e i presupposti storiografici che avevano improntato la sua ricerca e determinato la scelta del titolo[1021], sebbene risultassero poi meno chiare le ragioni per le quali avesse abbandonato le partizioni tematiche adottate per le Note per ritornare a più consuete periodizzazioni su base tecnologica. I nessi già a suo tempo riconosciuti tra “trasformazione della società in senso capitalistico-industriale” e sviluppo delle pratiche fotografiche davano ragione delle “accezioni del tutto particolari con cui si presentarono a Torino non solo i primordi della fotografia, ma soprattutto il successivo processo d’industrializzazione e di massificazione dell’immagine che si verificò prima nell’età del collodio, poi, più prepotentemente, in quella della gelatino bromuro d’argento, dando avvio, come reazione, alle declinazioni della fotografia pittorica che, più che in altre città italiane, trovarono proprio in ambito torinese il terreno più fecondo della propria fioritura.”
Oltre ad illustrare i temi più consueti (la produzione vedutistica, il ritratto) lo studio individuava alcuni aspetti peculiari di ciascuna fase quali, per il periodo delle origini, la precoce adozione di forme pubblicitarie e la forte presenza di fotografi amatoriali appartenenti alla nobiltà e alla prima borghesia industriale. Caratteristica dell’età del collodio, dei “trent’anni d’oro della fotografia”[1022] era invece la sua affermazione “quale medium alternativo nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine” e della documentazione del territorio che “a parere di chi scrive può essere considerata una delle pagine più intense della storia della fotografia italiana”; mentre risultava “mediocre il rilievo esercitato dalla fotografia nell’ambito della documentazione dell’opera d’arte”; un patrimonio ancora scarsamente considerato dalla storiografia coeva e la cui tarda ‘scoperta’ (non solo fotografica) fu in larga parte dovuta all’attività sistematica di amateur come Secondo Pia e Francesco Negri o di professionisti atipici come Pietro Masoero.
Le mutazioni indotte dai processi di industrializzazione dei materiali sensibili erano affrontate con una articolata analisi delle dinamiche di mercato e delle attività connesse, industriali, commerciali ed editoriali, considerando anche il fenomeno nuovo dell’antagonismo tra professionisti e dilettanti, già segnalato da Edoardo Di Sambuy in occasione del Congresso torinese del 1898. A Torino, secondo Miraglia, tutti questi vari aspetti “poterono incanalarsi nella coerenza di un percorso unitario che, nell’appoggio costante della critica, trovò inoltre il suggello del proprio primato”[1023], specie per quanto riguardava le svariate declinazioni del pittorialismo. A questo era dedicato il capitolo conclusivo, nel quale Miraglia adottava ancora l’amata definizione di “fotografia pittorica”[1024] e la consueta, discutibile genealogia che la derivava da Robinson e Rejlander, ma confermandone la funzione storica di snodo estetico e critico, in un contesto in cui “l’elaborazione tecnico-formale del prodotto finale, ossia della stampa [era un] fenomeno da collegare (…) ad una delle istanze più sentite di tutta la cultura artistica dell’epoca, istanze cui la fotografia pittorica (…) lontana da quel servilismo che alcuni critici a noi contemporanei le imputano[1025], seppe offrire il proprio contributo di ricerca.”[1026]
Sostanzialmente negativo fu invece il giudizio espresso sulla successiva stagione di moderato modernismo formulato in occasione di una mostra dedicata ad alcuni dei protagonisti della fotografia torinese tra le due guerre (Falzone del Barbarò et al. 1991). Per Costantini “la fotografia torinese e italiana che vediamo riassunta negli annuari, nelle riviste e nelle esposizioni dell’epoca, rimane estranea ai dibattiti e alle ricerche che altrove stanno definendo i destini del moderno. In alcuni casi sembra anche riprendere quelle polemiche, svuotandole tuttavia di ogni significato, difendendo proposte inattuali, evitando ogni riflessione sulla nuova realtà, che solo in sporadici casi pare venire registrata, forse inconsapevolmente.”[1027] Quel giudizio un poco affrettato risultava in parte contraddetto dalle stesse immagini presentate, la cui scelta per altro sembrava dettata più dalla disponibilità di opere presenti nelle collezioni del Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, produttore della mostra, che da una meditata valutazione critica[1028].
Milano e la Lombardia
“La fortuna storiografica della fotografia milanese dell’Ottocento è recente se non recentissima, e caratterizzata prevalentemente da appuntamenti espositivi” scriveva Roberto Cassanelli[1029] richiamando sinteticamente il quadro dei contributi sul tema, con accenti portati alle possibili connotazioni e implicazioni risorgimentali di quella produzione, non solo ritrattistica, o al ruolo svolto dai membri del Circolo Fotografico Lombardo negli anni della diffusione delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento. Accanto a questi non risultavano disponibili altri interventi utili a delineare un quadro complessivo, mentre fiorivano semmai studi monografici o settoriali, quasi che la complessità e l’articolazione delle vicende locali richiedesse ancora e preventivamente occasioni di approfondimento e di scavo, rendendo impraticabile una sintesi storiografica analoga a quella realizzata da Giovanna Ginex sulle Origini della fotografia in Lombardia, compresa nel relativo volume della collana einaudiana “Le Regioni italiane dall’Unità ad oggi”[1030] . “Scopo e limiti di questo lavoro – scriveva l’autrice – consistono dunque nell’illustrare differenti spunti per un’indagine innovativa sulle origini della fotografia in Lombardia, evitando il più possibile di riproporre riassunti della didattica e tradizionale storia cronologica della fotografia, per considerare piuttosto (entro quella solida griglia già codificata) altri aspetti, quali la produzione industriale e la pubblicistica ad essa legata, le esposizioni specializzate, il rapporto con le arti.”[1031] In particolare per Ginex “le caratteristiche imprenditoriali e commerciali della regione sin dagli esordi segnano la fotografia lombarda, influenzandone anche gli sviluppi futuri. La Lombardia assume una vera preminenza nel campo della produzione e del commercio di materiali fotografici[1032] (…) dell’editoria d’arte” e di quella specializzata, compresi i primi periodici (L’Artista, di Sacchi; La Camera Oscura, di Baratti) oltre che della fotografia industriale. Per la sua sistematicità il saggio costituiva un punto d’arrivo della nostra storiografia fotografica, specialmente per quell’indicazione metodologica a proposito della necessità di andare oltre le consuete periodizzazioni tecnologiche e per l’altrettanto determinante definizione del “doppio livello di decodificazione: quello legato al documento scritto e quello specifico del documento visivo”, pertinente all’analisi storico fotografica, sebbene poi del secondo registro non si trovasse traccia in quell’accuratissimo testo, né vi fossero rimandi espliciti a singole immagini, ciò che invece costituiva uno degli elementi di interesse di altri contributi precedenti[1033].
Bologna
Nel 1992 Marina Miraglia aveva studiato “i meccanismi della committenza, del mercato e della diffusione, nonché le modalità d’uso della fotografia da parte della pubblica amministrazione e della committenza privata” in ambito bolognese, riconoscendovi “una notevole e precoce consapevolezza dei ruoli storici del nuovo mezzo soprattutto in accezione civile. Il tratto più costante che emerge dalle raccolte fotografiche esaminate (…) è infatti la spiccata propensione della fotografia a porgersi quale veicolo di istanze, di natura varia, ma tutte essenzialmente municipalistiche o, come si diceva, di impegno civile.”[1034] Il saggio si collocava nel contesto del più ampio progetto editoriale curato da Giuseppina Benassati e Angela Tromellini[1035], caratterizzato da un fortunato titolo, che invertiva anche concettualmente il modello di Becchetti 1978. Diversamente dall’esempio torinese, la periodizzazione qui adottata (1839-1900) non influiva sull’articolazione del volume, essendo l’opera suddivisa in due parti, la prima delle quali ospitava saggi monografici relativi ad alcuni temi specifici (il collezionismo, i rapporti con la tradizione incisoria) e a un autore come Calvert Jones (a cui si dovevano le prime riprese bolognesi), mentre la seconda era costituita da ampie sezioni descrittive e storico critiche dedicate ai meccanismi di formazione delle principali raccolte cittadine[1036]. La differenza più rilevante in termini metodologici e storiografici era però costituita dalla natura collettiva di questo progetto, nel quale una struttura necessariamente non lineare conservava un buon equilibrio tra definizione del contesto generale e approfondimenti. Ne emergeva quell’orizzonte culturale municipalistico già indicato da Miraglia e ben delineato nel contributo di Giuseppina Benassati[1037] e si faceva più chiara la produzione fotografica dei numerosi operatori attivi a Bologna[1038] dai primi anni Cinquanta del XIX secolo, a loro volta studiati da Angela Tromellini e Roberto Spocci[1039] che ne evidenziavano le fortune commerciali ricorrendo a fonti importanti e di norma poco frequentate quali gli annunci pubblicitari sulla stampa periodica, i registri del “ruolo contribuenti la tassa di commercio” e i fascicoli individuali presso la Camera di Commercio[1040].
Ad un solo anno di distanza usciva Il tempo dell’immagine (Emiliani et al. 1993): un altro interessante volume dedicato alla storia della fotografia a Bologna che rappresentava l’esito dell’impegno di un diverso gruppo di autori, a testimoniare la presenza di una solida per quanto divisa comunità bolognese di studiosi, difficilmente riscontrabile altrove. L’arco cronologico considerato giungeva alla contemporaneità ed era declinato per saggi monografici la cui sommatoria delineava un possibile, ulteriore profilo storico dell’immagine della città e delle sue vicende fotografiche, rivolto ad un pubblico anche non specialistico, ciò che poteva forse motivare l’assenza di ogni apparato di tipo descrittivo o catalografico.
Nell’intervento di apertura Andrea Emiliani definiva le coordinate del progetto nella convinzione che “un libro dedicato ai fotografi è oggi, di fatto, un libro dedicato alla città nella quale essi operarono, ai luoghi che predilessero o dai quali furono scelti”[1041], confermando quella concezione della fotografia come strumento privilegiato di documentazione e poi narrazione della città e dei luoghi che aveva già marcato progettualmente la grande campagna relativa al centro storico condotta da Paolo Monti per la curatela dello stesso Emiliani e di Pierluigi Cervellati negli anni 1969-1972[1042]. “Il tentativo – proseguiva Emiliani – è quello di far sì che alcuni momenti (…) di questa comunità emergano dall’osservazione e dallo studio di un fotografo, di una bottega fotografica, da un atelier di foto d’arte oppure di mera circostanza di cronaca. E questo perché il fotografo, di quel problema, è divenuto il portatore e l’interprete, colui che ne ha condotto fino ai nostri occhi l’immagine. Il tema di questo libro, la possibile differenza che lo distacca da altre formule di narrazione storica della cosiddetta specialità, oppure dalla biografica vicenda di autori di particolare qualità, sta tutta in questa scelta difficile.” Una scelta, diremmo, che accoglieva e metteva a frutto i presupposti che avevano guidato la realizzazione degli annali einaudiani del 1979[1043], muovendo nel territorio specifico della storia dello sguardo e delle sue restituzioni. E allora, per Emiliani, si trattava di riconoscere e delineare il cammino che aveva portato “fin sulle soglie dell’innovazione fotografica” a partire da una “figuratività antica”, con un sentire non troppo dissimile da quello di Heinrich Schwarz e di Peter Galassi: “Il percorso mi sembra tuttavia semplice. Almeno dalla camera ottica in avanti, la pittura ha preparato molti passi alla macchina fotografica.” Interpretazione tanto canonica quanto problematica, che non teneva conto degli scarti paradigmatici introdotti da quella “sua specificità tecnica (anzi tecnologica) e quindi estetica” di cui parlava Zannier nel proprio contributo al volume[1044], rivendicando la necessità di “conoscere questo codice della fotografia che si rivela soprattutto nella sua storia, nell’evoluzione della sua tecnica, tesa tuttora all’alta fedeltà.” Non la celebrazione fuori tempo massimo di una storia puramente tecnologica ma la necessità chiara di tenerne sempre a mente le implicazioni sintattiche e linguistiche: narrative quindi. I numerosi saggi di approfondimento costituivano altrettante occasioni di verifica di questi assunti, in particolare quello che Corinna Giudici[1045] dedicava ai professionisti e studi attivi nel settore della documentazione del patrimonio. Un testo puntuale e appassionato, che ripercorrendo un tema già accennato nel precedente volume da Miraglia considerava il ruolo di committenza dei vari organismi di tutela, in un “reticolo di scelte [che] si mette a fuoco sulle acquisizioni storico-critiche e sulle grandi mostre che ne discendono”, a cui i fotografi fornirono un irrinunciabile contributo, fondato sulle loro “complicate, preziose maestrie artigianali.” Questa affettuosa e sapiente considerazione per il saper fare, concreto quanto solitamente inavvertito del lavoro fotografico era il più importante contributo storiografico, di metodo storiografico, di quel saggio già di per sé fondato su solide ricerche documentarie e collocato nella prospettiva di un momento storico in cui maturava “un approccio alla fotografia non solo antica, ma appena della scorsa generazione, come a un ‘incunabolo’ che reclama una nuova attitudine conservativa o restaurativa e insieme allontana in prospettiva storica un ruolo e un rapporto con la prassi di tutela che non si considerano più, oggi, facilmente reiterabili.”[1046]
Roma
Dopo la serie di importanti interventi di Piero Becchetti degli anni Ottanta, l’interesse per le vicende della fotografia locale non aveva mostrato soluzioni di continuità, come documentava ampiamente il convegno La fotografia a Roma nel secolo XIX. La veduta, il ritratto, l’archeologia, promosso nel dicembre del 1989 dall’Archivio Fotografico Comunale[1047]; prima importante occasione di riflessione critica che sin dal titolo identificava, confermandole, quelle che erano state le aree prevalenti di produzione, e ora di studio. In quella occasione risultarono di particolare interesse più che i contributi che fornivano ulteriori approfondimenti conoscitivi, estendendo la messe di informazioni a nostra disposizione, quelli che mostravano una significativa novità di approccio, dovuti una nuova generazione di studiose cresciute prevalentemente in ambito istituzionale, ad ulteriore conferma del ruolo marginale svolto in quegli anni dalla formazione e dalla ricerca universitaria. Apparteneva invece alla generazione dei maestri Marina Miraglia, che nel proprio saggio redatto per il progetto collettivo dedicato alla Maestà di Roma ritesseva le fila di quelle prime stagioni fotografiche segnate dalla presenza di autori internazionali che vedevano nella città uno dei principali poli di attrazione e vivevano in quel “clima di accademia e di belle arti” di cui aveva già parlato Silvio Negro[1048], adeguando le produzioni del “nuovo mezzo (…) alla specificità delle istanze storico-culturali ed estetiche dominanti nel periodo”[1049]. In quella continuità iconografica “maturarono esiti di altissima qualità compositiva ed emotiva” ma soprattutto si determinò “un più significativo ed epocale passaggio dalla ‘veduta’ e dalla sua tradizione scientifica (…) al carattere interpretativo e autoriale del ‘paesaggio’ (…) dovuto ai suggerimenti della contemporanea fotografia francese ma non estraneo – almeno per ciò che pertiene la consapevolezza espressiva – all’ambiente romano”. Precisazione critica importante e innovativa se ancora Becchetti (1989) aveva parlato più genericamente di “veduta” per tutto il periodo che andava dalle origini all’età del collodio[1050], ma che avrebbe forse richiesto una più puntuale definizione ed esemplificazione, ad evitare che potesse essere fraintesa con una semplice distinzione di soggetti tra città e campagna, tra monumenti ed elementi naturali[1051]. Quel “carattere interpretativo” era già leggibile nelle immagini Della Via Appia e dei Sepolcri degli Antichi Romani (1853) di Pompeo Bondini, studiate da Maria Antonella Pelizzari (1996c), per la quale esse rappresentavano “per l’Italia il primo tentativo riuscito di creare un discorso sui resti romani con parole e immagini”, suggerendo “una serie di indizi circa gli scopi della fotografia italiana (…) di fornire il quadro di un paese (…) quasi soffocato dal suo passato.” Anche Andrew Szegedy-Maszak, autore di numerosi saggi dedicati alle campagne fotografiche ottocentesche[1052], aveva riconosciuto nelle più tarde fotografie di soggetto archeologico, e “malgrado gli intenti commerciali (…) un atteggiamento culturale facilmente identificabile, di matrice romantica. (…) Un’immagine non documentaria dunque, ma sensibile ai sentimenti nostalgici di autori e fruitori.”[1053]
Un notevole interesse metodologico offrivano anche gli studi di Maria Francesca Bonetti rivolti all’analisi critica di due collezioni ricche di esemplari della prima fotografia romana, nei quali veniva assunto come elemento determinante il rapporto strutturale tra collezionismo e storiografia, solitamente sottaciuto. Nel saggio che accompagnava il catalogo della collezione Lundberg[1054], dove si presentava un importante e inedito corpus di opere dell’allora “quasi del tutto sconosciuto” Adriano de Bonis appartenute al pittore Edmond Lebel, la studiosa poneva in relazione diretta la possibilità di studio con l’acquisizione delle opere da parte dei collezionisti, anzi, ancor prima, con la loro segnalazione da parte dello stesso antiquario che le deteneva prima della loro dispersione commerciale[1055]. Nel più recente volume dedicato alla collezione Maggia[1056], aperto da un richiamo a Silvio Negro “pioniere degli studi sulla fotografia romana, a sua volta raffinato conoscitore e collezionista”, la definizione stessa di collezione veniva estesa tipologicamente sino a comprendere il ruolo di committenti quali Alexander John Ellis e John Henry Parker, mostrando quanto “l’interesse collezionistico (…) si sovrapponga e si intrecci (…) con intenti di divulgazione culturale e proposte di carattere editoriale che spesso (…) hanno caratterizzato la formazione di specifiche raccolte fotografiche, motivandone a volte la stessa costituzione e le più profonde ragioni di esistenza e conservazione”. Queste considerazioni, implicitamente estese alla collezione oggetto di studio, consentivano a Bonetti di riflettere sul significato e sulla funzione storiografica assunte dalla sistematicità e dalla ricorrenza di temi che la caratterizzava e che poteva a tutta prima apparire ridondante. Proprio su quelle la studiosa fondava la possibilità stessa di condurre con grande finezza filologica l’analisi delle costanti e delle varianti di trattamento descrittivo dei soggetti ripresi; elementi indispensabili per distinguere le realizzazioni dei diversi operatori e riconoscerne quindi il profilo autoriale[1057]. La considerazione critica del rapporto tra collezionismo e storia della fotografia era già stata avanzata da Miraglia[1058] ma in prospettiva più storica che storiografica, ribadendo il nesso inscindibile e significante che connetteva le ragioni della permanenza (o della sopravvivenza) del patrimonio alle possibilità stesse della sua conoscenza, mentre ciò che qui emergeva era la relativizzazione dello stesso esame storico critico, non più proposto come esaustivo e per certi versi assoluto, ma condizionato se non proprio determinato dalla caratteristiche e dalle dinamiche di formazione della collezione di riferimento. Un nodo centrale della stessa pratica storiografica quindi; dell’esplicitazione delle condizioni materiali in cui è data la possibilità di produrre studi di storia della fotografia. Poiché -almeno nell’universo della produzione analogica – non si può dare storia della fotografia senza fototipi da maneggiare, conoscere e studiare, risulta indispensabile storicamente e storiograficamente comprendere le ragioni archivistiche e collezionistiche che hanno determinato la presenza attuale, le ragioni e i modi della permanenza di quelle stesse fotografie nella loro materialità di oggetti[1059]. Era l’attenzione per quella materialità, indagata nella specificità del processo fotografico utilizzato dagli autori considerati, che caratterizzava la mostra Roma 1850 dedicata nel 2003 al ben noto circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco[1060]; facendo sintesi di un ventennio di studi, ciò che la distingueva dalla mostra Pittori Fotografi a Roma[1061] del 1987 e da molte delle iniziative nel frattempo intercorse era proprio l’adozione di una solida analisi filologica orientata a riconoscere i nessi tra soluzioni tecnologiche e linguistiche, qui resa possibile da un confronto serrato tra positivi e negativi, reperiti presso le principali collezioni francesi e italiane, superando ogni approccio storico cronologico o riduttivamente formalistico.
Al Sud
In area meridionale si manifestarono in quegli anni due distinti orientamenti di ricerca: l’analisi delle fonti a stampa e la ricostruzione del tessuto professionale di alcuni centri geograficamente e culturalmente marginali[1062]. Alla diffusione della notizia dell’invenzione della fotografia a Napoli erano stati dedicati i contributi di Nicola Leone[1063], fatto di brevi commenti generici alle trascrizioni dai giornali locali, e quello di poco successivo di Giovanni Fiorentino (1992), di ben altro impegno storiografico e metodologico, che con implicito giudizio critico non considerava la precedente indagine. Buone informazioni sulla circolazione di queste notizie erano già disponibili nel catalogo della grande mostra del 1979 sulla Fotografia italiana dell’Ottocento[1064], ma ciò che qui si presentava come innovativo era il modello interpretativo, orientato a “cogliere una rete causale tra il bisogno di produrre e consumare immagini, l’invenzione della fotografia, il suo sviluppo a Napoli e dintorni.”[1065] L’intenzione era quella di analizzare il fenomeno nell’ambito della nascente civiltà delle immagini, in un contesto quale quello partenopeo particolarmente ricco di tradizione e produzione iconografica. Il saggio non corrispondeva del tutto a così impegnative premesse, limitandosi di fatto – ma non era poco – a presentare criticamente le notizie comparse sulla stampa locale in quel fatidico 1839 approfondendone i nessi e i significati e a commentare la ben nota Relazione di Macedonio Melloni e infine a chiarire i termini documentari della relazione tra Michele Tenore e William Henry Fox Talbot.
Paolo Morello aveva anticipato sulle pagine di “Fotologia” gli esiti di una più vasta ricerca in corso, poi confluita in una mostra nel 1999[1066], presentando un nucleo di fotografie di briganti donate da Leonardo Sciascia a Enzo Sellerio negli anni Ottanta e altre analoghe conservate al Museo Pitrè di Palermo, lamentando che “la questione del brigantaggio non è stata ancora fatta oggetto di uno studio sistematico da parte degli storici della fotografia. Manca un censimento delle raccolte più importanti; manca un affinamento d’ordine metodologico.” Il saggio risultava interessante proprio in tal senso, nel collocare storicamente quel fenomeno (e le fotografie che ne derivarono) nel quadro generale della “questione meridionale”, per procedere poi a un’analisi molto dettagliata che incrociava la lettura delle immagini con quella delle fonti archivistiche e a stampa, anche al fine di individuare le differenti funzioni d’uso di quella produzione: da quelle poliziesche e giudiziarie a quelle celebrative, commerciali e apotropaiche, come sembravano indicare i fotomontaggi di più ritratti post mortem raccolti in ovale, per i quali risultava difficile immaginare ogni altro tipo di utilizzazione. Seguendo un modello di narrazione storiografica ormai consueto, anche nel catalogo della mostra dedicata a Fotografi e Fotografia a Palermo nell’Ottocento[1067] l’apertura era dedicata all’illustrazione dei tempi e modi di diffusione a stampa della notizia dell’invenzione, a cui faceva seguito la ricostruzione dell’attività dei primi fotografi itineranti, tutti provenienti dalla Francia. Si trattava di elementi indispensabili per arricchire lo stato delle conoscenze sulla fotografia a Palermo che Morello definiva ancora “lacunoso, invero modesto”[1068], essendo la documentazione dei fatti del 1860 il solo momento in cui “la temperatura artistica della fotografia a Palermo raggiunse il calor bianco”, ben testimoniata dalla nota serie di stereoscopie realizzate in quei giorni da Eugène Sevaistre, in parte rese note a suo tempo da Lamberto Vitali[1069], qui sottoposte ad una accurata opera di analisi storico critica circa la loro datazione.
Le indagini sulla storia della fotografia in area meridionale, per lungo tempo circoscritte alla sola capitale del Regno, avevano già goduto di un primo momento di interesse per territori considerati ulteriormente marginali con la collana intitolata ai “Fotografi salentini”, poi non proseguita oltre il primo titolo dedicato al fotografo modenese Pietro Barbieri, per lungo tempo attivo a Lecce[1070], mentre Miraglia aveva ricostruito le vicende di una delle più importanti famiglie di fotografi baresi: gli Antonelli[1071]. Ancora Lecce e Bari furono l’argomento di due storie della fotografia locale, frutto di ricerche specifiche che richiamavano gli esiti degli scarsi ed eterogenei studi antecedenti, contribuendo così “ad una prima organizzazione sistematica di un patrimonio di immagini (…) prima che un’ulteriore dispersione lo renda impossibile.”[1072] Un’urgenza che legava indissolubilmente conoscenza e tutela ma che intendeva anche opporsi alla “domanda nostalgica di vedute cittadine [che] ha provocato da oltre mezzo secolo una enorme e spesso sciatta riproduzione di vecchie fotografie [generando] una grande confusione circa l’originario autore.”[1073] A fronte di queste intenzioni meritorie il lussuoso volume dedicato a Lecce da Ilderosa Laudisa offriva però solo sommarie schede degli autori individuati, mentre l’ampio repertorio di immagini era mortificato da una inqualificabile impostazione grafica e da una pessima qualità di stampa[1074]. La scelta di rimandare ad un secondo volume, poi non pubblicato, l’analisi storico critica della produzione e dell’attività fotografica leccese faceva di questo poco più che un’antologia occasionale, dalla quale solo indirettamente riuscivano ad emergere alcuni elementi significativi relativi alla prima, discreta attività dagherrotipica[1075] e soprattutto alla provenienza extralocale dei principali studi attivi in città dopo il 1850, alcuni dei quali (Falardi, Parodi, Bambocci) ebbero sede anche a Bari, studiata in quegli stessi anni da Sergio Leonardi[1076] mostrando un meritoria cura nello studio e nella pubblicazione delle fonti archivistiche, per larga parte riprodotte nel volume.
Una nuova rivista
Tra le occasioni di crescita della cultura fotografica italiana di quel periodo va annoverata anche la nascita di una nuova pubblicazione periodica destinata a promuovere la conoscenza del patrimonio: “Fotostorica”. La prima serie vide la luce nel 1995 per iniziativa dell’allora direttore Adriano Favaro come bollettino dell’Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso – AFS; aveva forma di un ‘foglio’ (8 pagine non legate)[1077] ma già il numero 5-6 del 1996 si presentava come una vera e propria piccola rivista (34 pagine con cucitura a punti metallici), sebbene ancora di impostazione molto localistica. Col sottotitolo de “Gli Archivi della fotografia” prese avvio nel settembre 1998 la nuova serie[1078], curata da Zannier e caratterizzata da una nuova e più allettante impostazione grafica ed editoriale oltre che da una serie di collaboratori di rilievo, con forte prevalenza – almeno nei primi numeri – di studiosi legati agli Alinari (Monica Maffioli, Emanuela Sesti, Daniela Tartaglia). Il passaggio avveniva, e forse non a caso, nel momento in cui si affacciavano le prime evidenti difficoltà di pubblicazione di “Fotologia”, la cui periodicità a quella data aveva ormai raggiunto cadenze biennali, mentre il coordinamento scientifico, già affidato a Paolo Costantini, veniva assunto da Maffioli e, per il numero 18-19, da Tartaglia. Qualche tempo dopo, e forse con una piccola nota polemica, Adriano Favaro ricordava come “Fotostorica non [fosse] nata in un solo giorno: alle sue spalle c’è stato un lungo percorso durante il quale si è man mano costruita una struttura, l’AFS, in grado di svolgere nel territorio un ruolo culturale efficace, per giungere al quale tuttavia è stata necessaria una preventiva riconversione e formazione degli operatori, una accurata selezione dei fondi fotografici da acquisire per primi, un’opera di attenta sensibilizzazione del territorio, attraverso mostre fotografiche, collaborazioni diverse ed il quotidiano rapporto con un’utenza sempre più numerosa. Fotostorica è nata successivamente, come bollettino delle attività di questa struttura. Grazie alle poche pagine degli esordi, un po’ alla volta il messaggio è passato nelle scuole, nelle associazioni culturali, negli enti locali, nelle università.”[1079] Ciò che distingueva nettamente la nuova pubblicazione rispetto al ‘modello’ costituito da “Fotologia” era una più esplicito interesse per gli archivi e le collezioni pubbliche e private, non dissimile quindi da quello espresso da “AFT” sebbene con divergenti impostazioni storiografiche. L’intento era “di investigare e mettere alla luce archivi e fondi fotografici più o meno noti nello stesso tempo offrendo agli operatori culturali preziose indicazioni di metodo”, senza però riuscire ad esprime la capacità progettuale e di coinvolgimento di una più ampia schiera di studiosi propria della rivista pratese, in conseguenza anche – si direbbe – di una ancor più marcata connotazione territoriale; quasi una chiusura. “Salvaguardare dunque in primo luogo le opere dei fotografi diventa un imperativo e si tuteleranno, con queste, anche la memoria e le testimonianze della nostra terra veneta, della storia, dell’arte e dell’artigianato delle generazioni che ci hanno preceduto. Solo attraverso la fotografia (…) e grazie agli archivi della fotografia, le prossime generazioni potranno conoscere le grandi trasformazioni avvenute nel nostro territorio negli ultimi cent’anni ed osservare ancora opere d’arte dissolte o destinate a dissolversi nel nulla, o quei mutamenti di costume che hanno accompagnato il succedersi dei decenni, la loro storia, le loro radici.” In realtà la rivista, specialmente nei primi numeri, ospitò contributi relativi anche ad altre realtà istituzionali e territoriali, oltre che schede di archivi familiari e privati di un qualche interesse, insieme a testi dedicati ai più vari aspetti della storia della fotografia, che a partire dall’anno Duemila si tradussero in dossier monografici. Col numero 9-10 di quell’anno, pur mantenendo immutati direzione e comitato scientifico[1080], venne ulteriormente rinnovata la veste grafica in corrispondenza della nuova periodizzazione quadrimestrale a numeri doppi, primo sintomo di quelle difficoltà editoriali che portarono alla chiusura con il numero 29/30 del dicembre 2004. Il compiersi della crisi era certo dovuto alle difficoltà strutturali della fotografia italiana ma anche a una serie di altre ragioni sia di ordine contingente (la morte dell’editore) sia, come ricordava Adriano Favaro[1081], “per altre e diverse valutazioni degli enti pubblici veneti circa le priorità d’intervento in ambito culturale”. Non ultima tra le cause, per entrare più nel merito, poteva essere individuata in una certa autarchia intellettuale di cui “Fotostorica” era espressione: non solo molti articoli derivavano da tesi discusse con Zannier, restituite in contributi che di rado superavano le due-tre paginette, ma questi risultava anche essere l’autore quantitativamente più presente nella rivista, che ospitava da un minimo di due sino a un massimo di sette suoi interventi per numero, oltre alle segnalazioni bibliografiche di cui aveva la responsabilità redazionale.
Monografie
L’estendersi delle ricerche e delle conoscenze relative al patrimonio storico favorì la redazione di studi dedicati alle figure di singoli autori, pubblicati prevalentemente nella forma e nell’occasione del catalogo di mostra o di breve saggio sulle riviste di settore (“AFT”, “Fotologia” e “Fotostorica”). Più rari i volumi monografici autonomi, che oscillavano tra la riproposizione di autori di lunga fama[1082] e, all’opposto, la scoperta di fotografi locali attivi in centri anche di piccole o piccolissime dimensioni, con un approccio sovente in bilico tra ricostruzione storica e rievocazione nostalgica. All’interno di questa eterogenea produzione, quantitativamente notevole (più di 200 titoli), era possibile individuare alcuni filoni o argomenti che offrivano interessanti contributi e nuovi elementi di comprensione di momenti significativi della storia della fotografia in Italia, letti attraverso la mediazione di alcune figure autoriali e non come fenomeno complessivo, sebbene poi dalla considerazione congiunta di alcuni di quelli fosse possibile trarre indicazioni di carattere più generale, qui presentate adottando una partizione su base tecnologica che può forse apparire obsoleta ma risulta ancora utile per rendere conto dello spazio variabile che la storiografia italiana ha riservato ad autori attivi nei diversi momenti (le “età”) e nella convinzione che tale modalità di presentazione favorisca una migliore comprensione e confronto tra i diversi contributi; specie considerando che nell’affrontare monograficamente l’attività di un autore o di uno studio fotografico non si possa prescindere, almeno sino all’epoca della prima industrializzazione, dagli aspetti tecnologici, che richiedono l’adozione di metodologie ben distinte da quelle più efficacemente applicabili (e per molti versi più complesse) richieste dallo studio della fotografia in condizioni di massificazione.
Protagonisti della calotipia in Italia
Le prime segnalazioni sui rapporti tra Talbot e l’Italia e in particolare con Giovannni Battista Amici risalivano al 1925, quando l’oftalmologo Giuseppe Albertotti illustrò le ventuno fotografie di Talbot poi da lui donate in parte alla Biblioteca Estense di Modena (Albertotti 1926), pubblicate da Zannier a più di cinquant’anni di distanza in occasione della loro presentazione in mostra nel 1978[1083].
Sulla relazione tra i due studiosi intervenne quindi in più occasioni Graham Smith (1991; 1995; 2002), anche discutendo un’altra opera legata alle relazioni emiliane di Talbot come l’Album Bertoloni[1084], mentre Alberto Meschiari curava l’edizione critica della corrispondenza di Amici[1085], compresa ovviamente quella con Talbot ma anche con un pioniere della fotografia astronomica come Padre Angelo Secchi[1086]. Dopo l’indagine collettiva dedicata alla Romantic Era[1087], l’interesse per un altro protagonista della calotipia in Italia come Richard Calvert Jones venne riattivata – come accade non di rado – dall’asta newyorchese a lui dedicata[1088], per essere poi almeno in parte approfondita da Michael Gray per quanto riguardava la sua produzione bolognese[1089]. Avviata con gli interventi curati da Gray (et al. 1988) e proseguita con il fondamentale studio di Becchetti (1989) dedicato a Caneva, la fortuna critica dei calotipisti italiani (non solo di quelli gravitanti intorno alla ‘Scuola’ romana) ebbe significativi sviluppi anche nel decennio successivo, compresi alcuni momenti di vivace dibattito filologico e storico critico a proposito di una importante ripresa della facciata e del quadriportico della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, per lungo tempo ritenuta del friulano Augusto Agricola[1090] ma ormai assegnata a Luigi Sacchi. Come ebbe causticamente a notare in proposito Roberto Cassanelli, “ancora solo Italo Zannier si ostina ad attribuire (senza alcun fondato motivo, esclusivamente sulla base di un malaugurato errore di Lamberto Vitali) [quell’immagine] ad Augusto Agricola. Lo studioso, che pare leggere raramente scritti non suoi o dei suoi collaboratori, è tornato sul problema (definitivamente risolto sulla base delle testimonianze coeve di G[iuseppe] Mongeri, nel 1996).”[1091] In anni in cui la filologia e la connoisseurship fotografica muovevano appena i primissimi, incerti passi, l’attribuzione errata di Vitali, e quindi di Becchetti (1978), Miraglia e altri, derivava – come era ben noto anche a Cassanelli – dall’accogliere l’indicazione di responsabilità apposta nel 1912 da Enrico del Torso al verso del cartone di supporto di quella fotografia, e lo stesso Zannier, pur mantenendo ostinatamente la propria opinione, aveva riconosciuto che l’indagine a cui rimandava Cassanelli, condotta da Miraglia e da Maria Francesca Bonetti, “sembra convincente (…) e si infiltra anche sul piano stilistico e della tecnica, che peraltro non differenziava troppo allora.” Ben al di là del merito specifico, il caso Agricola rappresentava di fatto un momento di confronto tra due distinti modelli storiografici, il secondo dei quali – più metodologicamente attrezzato – aveva prodotto in quegli anni una serie fondamentale di studi tale da restituire alla figura di Sacchi, sino ad allora poco studiata, un ruolo centrale nelle vicende della prima fotografia italiana. A partire dal catalogo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento[1092] era sempre stata scarsa la pubblicazione di sue immagini e furono solo le ricerche appassionate e accurate di Cassanelli, avviate dopo più di un decennio, a far emergere un nucleo consistente di fotografie, tale da consentire l’avvio dei primi studi critici su questo mitico “lucigrafo”[1093] poi editi per la cura di Miraglia nel 1996, in un periodo che vide più occasioni di approfondimento del fondo antico dell’ Accademia di Brera[1094]. Il denso, documentatissimo saggio di Miraglia ricostruiva finalmente i molteplici aspetti di questa figura complessa, ponendoli in relazione con la cultura milanese del tempo, di cui fu attore non secondario, e individuando criticamente i differenti momenti della sua attività fotografica e la rete di relazioni e rimandi. Meno convincente risultava invece l’ipotesi attributiva di alcune riprese realizzate a Palermo in occasione dei moti del 1860, note attraverso esemplari più tardi, stampati all’albumina, della collezione Siegert di Monaco[1095]. Sebbene la presenza nella città siciliana non fosse “confermata in nessun modo dalla narrazione del viaggio che l’artista stesso ci ha lasciato”, Miraglia ne sosteneva l’attribuzione a Sacchi non solo avvalorando l’ipotesi, che definiva “più che legittima” pur senza fornire prova alcuna, che egli fosse stato a Palermo negli stessi giorni di Sevaistre e Le Gray, ma anzi riconoscendo agli elementi caratteristici di quelle riprese “un ruolo decisivo nell’attribuzione che si propone in quanto essi appaiono del tutto sovrapponibili o quasi rispetto a quelli che possiamo osservare nelle analoghe fotografie, scattate nei medesimi giorni a Palermo da Gustave Le Gray (…); sembra quasi che i due autori abbiano lavorato uno accanto all’altro, Sacchi appoggiando il più giovane e famoso collega in una terra che sua non era, Le Gray consigliando il Nostro nell’uso di una tecnica che egli stesso aveva perfezionato.” Eventualità affascinante e quasi romanzesca, che in assenza di elementi più solidi si riduceva però ad un puro esercizio letterario[1096], tanto che lo stesso Cassanelli nella successiva importante monografia dedicata all’artista milanese nel 1998 si limitava ad accennarvi come a una “suggestiva ipotesi”, richiamando – forse non a caso – la scarsa consuetudine nostrana ad “affrontare con metodo filologico e rigore storiografico lo studio della personalità e della produzione di un grande fotografo del passato (ma anche, tanto meno, del presente).”[1097]
Un analogo rigore filologico, accompagnato da puntuali analisi delle soluzioni espressive adottate dagli autori considerati, caratterizzava lo studio di Tiziana Serena dedicato alle riprese veneziane di Eugène Piot e di Domenico Bresolin[1098], realizzate in un contesto che per ricchezza di relazioni in quegli anni poteva essere paragonabile solo alla situazione romana. Prendendo avvio dalle tavole de L’Italie monumentale, la studiosa ricostruiva e considerava l’ambiente entro il quale i due autori si muovevano e col quale si confrontavano, tra erudizione antiquariale e accademia, individuando i nessi culturali specifici tra storiografia architettonica e scelta dei soggetti. Adottando una terminologia che risentiva positivamente degli influssi della più avanzata produzione fotografica contemporanea, e delle sue letture critiche[1099], Serena parlava a tale proposito di esplorazioni dei margini condotte dai pittori e fotografi attivi a Venezia intorno al 1850, alla ricerca di una modernità che risiedeva tanto nella scelta di nuovi soggetti quanto nelle modalità del loro trattamento, allontanandosi da una iconografia incombente. “Per riuscire a distinguere una città diversa da quella che offriva la tradizione e le immagini di genere, era stata necessaria l’introduzione del nuovo ‘paradigma visivo’ della fotografia, in grado di proporre certi scarti di visione e di interrompere il flusso dell’influenza ipnotica di una pesante tradizione iconografica.”[1100]
Alcuni modelli storiografici per l’età del collodio
La mai diminuita fortuna storiografica di Sommer registrava un nuovo contributo a firma di due importanti studiosi quali Marina Miraglia e Ulrich Pohlmann (Miraglia et al. 1992), che a distanza di quasi vent’anni dalle prime monografie di Palazzoli e di Weinberg ne tracciavano un più solido e ricco profilo critico a partire dalle opere conservate nella collezione fiorentina Piantanida-Sartori e in quella monacense di Dietmar Siegert, forse il più importante collezionista tedesco di fotografia del XIX secolo[1101]. Seguendo una tradizione storiografica che si può far risalire almeno a Newhall ma soprattutto a Gernsheim, a questa peculiare provenienza si faceva però solo poco più che un cenno nel volume, né veniva considerata nel testo critico, che si offriva come profilo complessivo dell’operato di Sommer, sebbene fosse necessariamente derivato da una considerazione parziale, per quanto significativa, della sua produzione. Rispetto agli studi precedenti il saggio di Miraglia offriva importanti precisazioni storiche e suggeriva interessanti letture della più nota produzione di Sommer, accennando anche alla varietà delle sue attività imprenditoriali, ma senza poi approfondire quello che resta un punto nodale nella definizione della sua figura professionale, che presentava, e presenta tuttora non pochi aspetti problematici. Non mi riferisco solo ai primi anni romani in collaborazione con Edmond Behles, su cui hanno in parte fatto luce alcuni contributi successivi[1102], ma proprio alla stessa definizione dell’autore Sommer considerandolo nel quadro più ampio della sua variegata attività imprenditoriale (dalla produzione di calchi e bronzetti alla rappresentanza Kodak). È verosimile ritenere infatti che si possa dire Sommer così come si dice Alinari o Brogi, assegnando un’indicazione di responsabilità alle immagini che non sempre e non necessariamente può aver coinciso con quella dell’operatore effettivo[1103], ma che deve semmai essere intesa quale adesione a quella certa modalità interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio; il tutto calato in un contesto di ampia circolazione, scambio e – a volte – appropriazione indebita di soggetti e modi, quando non delle stesse immagini. L’impostazione storico critica di questa monografia, non sufficientemente attenta agli aspetti produttivi e commerciali dell’attività di un grande studio fotografico, venne in parte stigmatizzata anche nelle recensioni al volume nelle quali, pur riconoscendo che Miraglia ricostruiva “(aspetto questo di notevole interesse) la posizione economica e le proprietà costruite da Sommer sui redditi provenienti dall’attività di fotografo”[1104] si lamentava la scarsa attenzione dedicata alla questione del mercato delle fotografie. Pur avendo da sempre praticato una storiografia attenta alle dinamiche sociali, qui puntualmente espressa nella ricca ricostruzione dell’attività di Sommer, l’analisi critica della sua produzione restava ancorata ad una interpretazione troppo sovente idealizzata della scelta e del trattamento dei soggetti e quasi non verificata sulle singole immagini o sulle serie, sebbene fossero più che accuratamente descritte nell’apparato di schede[1105]. Il contributo di Miraglia e quello successivo di Giovanni Fanelli, di cui diremo a suo tempo[1106], nonostante la diversità degli approcci e nella specificità dei punti di interesse indicavano la necessità di affrontare la produzione fotografica muovendosi tra analisi compositiva e tecnologica e ricerca storico archivistica rivolta alla ricostruzione dell’attività e dell’opera considerata. Ciò che ancora rendeva incompiuti quegli esempi autorevoli era però la mancata convergenza, la compresenza dei due metodi, sola condizione per poter pervenire a una lettura articolata di una produzione complessa come quella di un grande studio commerciale del XIX secolo.
In particolare il ricorso alla ricerca archivistica pareva essere ancora generalmente insufficiente o almeno non così ampiamente praticato se Paolo Morello poteva aprire la monografia dedicata agli Incorpora con l’ennesima lamentazione sullo stato degli studi storici nostrani: “Una spaccatura profonda divide il mondo della fotografia in Italia. Da un lato un profluvio di chiacchiere, di plagi, di rimasticature. Dall’altro la ricerca paziente, la lettura delle opere, l’analisi dei documenti. (…) Questo libro costituisce pertanto un nuovo, considerevole passo in avanti verso l’affermazione di una storia della fotografia filologicamente fondata. Che questo modo di lavorare dovesse suscitare le invidie degli indolenti, era del tutto nelle previsioni. Tante volte abbiamo dovuto affrontare la gelosia di coloro i quali vedono nei nostri libri una minaccia, una insidia per i loro affari: che costano poca fatica e rendono lauti guadagni. Non mi stupirei di vedere anche questo libro ricopiato amorevolmente da altri: come è avvenuto a molti dei miei ultimi lavori.”[1107]
Se riusciamo a superare con un sorriso il fastidio prodotto dall’uso insistito del plurale maiestatico (e la diffidenza innata per chi si autocelebra) possiamo scoprire le ragioni di tanto convincimento, che si sostanziavano nella trascrizione integrale dei taccuini di studio superstiti degli Incorpora per gli anni 1890-1900, a cura di Alessandra Ferrigni e nella pubblicazione di una serie documentale proveniente dall’Archivio Notarile di Palermo, per la cura di Ursula Mazzola[1108]. Documenti certo importanti e utili, illuminanti a volte, di rado reperiti (e forse addirittura non cercati) in occasione di altre ricerche monografiche, ma la cui pubblicazione non era certo tale da configurare – come supponeva l’autore – una inedita metodologia storiografica, neppure per l’Italia[1109]. Naturale poi che tali fonti fossero utilizzate per l’elaborazione dell’accurato testo storico critico[1110] in cui si affrontavano, ma solo per cenni, anche problemi di rilevante importanza come quelli posti dalla pratica della contraffazione e dalla copia, vale a dire alcune delle questioni cruciali del ciclo produttivo e commerciale della fotografia.
Alinari 150
Tra il 2002 e il 2003, per celebrare il centocinquantenario della fondazione dello stabilimento Alinari vennero editi numerosi studi, che nella loro pluralità si proponevano di analizzare ogni aspetto della produzione della firma fiorentina: dalla ricostruzione biografica dei fondatori alle loro strategie commerciali ed editoriali[1111]. In particolare merita segnalare per il loro interesse specifico, e considerare congiuntamente per la loro comune progettualità le due iniziative di più vasto impegno e respiro: la monografia firmata da Quintavalle[1112] e il catalogo della mostra a Palazzo Strozzi, da lui curato con Monica Maffioli[1113], che conteneva numerosi e importanti contributi, ma che lo studioso considerava sostanzialmente come “una introduzione a più voci [alla sua monografia], a volte anche divergenti come è giusto che accada nella ricerca, sul problema degli Alinari fotografi.”[1114] Ad una lettura incrociata risultava però chiaro come il divergere non fosse tanto da intendersi tra le impostazioni e gli esiti di ciascun saggio quanto, si direbbe, tra questi e il contenuto del volume maggiore, che si proponeva come la più ampia monografia dedicata a quell’impresa: un vasto studio articolato in capitoli di impianto alternativamente cronologico e storico critico, ciascuno parcamente illustrato ma corredato di un repertorio di immagini ‘minimali’, descritte da sintetiche schede[1115]. Completavano il volume i notevoli apparati curati da Monica Maffioli e Maria Possenti, tra i quali si segnalavano per completezza il repertorio dei cataloghi a stampa e le serie storiche di marchi, timbri, firme e intestazioni, mentre l’edizione delle fonti archivistiche, pur significativa, non era purtroppo preceduta da un’avvertenza necessaria a dar conto delle scelte adottate, e magari obbligate. Non risultava sufficiente a colmare questa lacuna neppure il testo critico del curatore, compreso nel capitolo III Alinari: le origini[1116] o la riflessione, per altro metodologicamente problematica, sull’uso delle fonti relative al primo periodo, dominato dalla figura di Leopoldo: “non basta riflettere sulle sole fotografie perché, se si parte da queste soltanto, non si intende il rapporto di Alinari coi contemporanei; se, d’altro canto, si parte dai soli documenti, essi non appaiono sufficienti e neppure correlati alle immagini; se poi si analizzano soltanto i fotografi contemporanei non si stabiliscono nessi precisi con il complesso delle opere accertate degli Alinari.” Riflessione evidentemente retorica poiché, allora come oggi, le migliori risposte possibili non potevano che derivare da un’analisi incrociata di quelle disparate categorie di documenti. Certo però sarebbe stato utile distinguere meglio tra le poche fonti archivistiche primarie, prodotte da Alinari e dai loro interlocutori, e quelle secondarie, allo scopo di rendere meno indiziario il processo storico critico necessario per provarsi almeno a individuare le ragioni per cui gli “Alinari sono stati importanti in Italia e fuori”, e perché sia stato il loro modello (che diremmo operativo più che stilistico) a imporsi su altri, per provarsi a rispondere – come intendeva Quintavalle – “se esisteva un piano, e che genere di piano, per le riprese, se esisteva una programmazione a livelli diversi da quelli commerciali, che è la sola che sembra essere documentata.” Scartata questa ipotesi, forse perché troppo prosaica, l’autore ne avanzava una ulteriore, sviluppando la formula utilizzata a suo tempo da Giulio Bollati della “fotografia come strumento di unificazione”[1117] e riconoscendo a questi grandi atelier il ruolo di “protagonisti di una cultura che propone l’idea di nazione appena dopo la presa di coscienza romantica degli inizi del secolo XIX”. Tutti intenti ad “interpretare molto più di un luogo, (…) a restituire una identità della nazione”, contribuendo alla “esplicita costruzione di un’immagine di identità nazionale” anzi, di più, programmando “un modo nuovo di interpretare la funzione della fotografia e di pensare il fotografo in relazione alla idea di patria, all’idea di nazione.” Interpretazione affascinante[1118] e forse verosimile o, almeno, sinora non contraddetta dalle scarse fonti primarie disponibili, ma certo non peculiare e quindi di per sé insufficiente a connotare il fenomeno Alinari, a comprendere il loro successo commerciale e culturale, essendo quello della documentazione estesa del patrimonio nazionale un obiettivo perseguito da tutti i maggiori atelier che si avviarono intorno agli anni dell’Unità, e non per ragioni politiche e ideali. Ricordava infatti Giacomo Brogi nell’introduzione ad uno dei suoi cataloghi come fosse “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene”; per questa ragione – proseguiva – “abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto.”[1119] Se queste erano le motivazioni concrete, certamente condivise dalle altre imprese fotografiche, lo specifico successo Alinari doveva fondarsi su altre, più complesse ragioni, che Luigi Tomassini si provava ad analizzare nel catalogo della mostra: “la risposta che emerge dalle nostre ricerche (…) è che ci riuscirono in base a una particolare combinazione di intervento fra cultura e mercato, riuscendo ad intrecciare questi due piani in maniera più efficace dei concorrenti.” Più nello specifico si trattava di considerare “la componente tecnica del loro successo, ossia la qualità e la peculiare caratterizzazione delle fotografie Alinari, il cosiddetto stile Alinari, su cui molto si è detto e scritto; in secondo luogo il fattore economico, ovvero i criteri di gestione economica, gli investimenti, le scelte imprenditoriali dell’azienda; in terzo luogo, trattandosi di riproduzioni di opere d’arte, le scelte e le selezioni dei soggetti, ovvero un piano in cui le implicazioni di ordine culturale sono evidenti.”[1120] Ne risultava una impostazione di grande interesse per la necessità, che esprimeva in modo chiaro, di considerare congiuntamente tutte le componenti del processo produttivo, sebbene poi, per ragioni diverse, in quella sede l’analisi fosse rivolta quasi esclusivamente allo sviluppo delle scelte tematiche quale emergeva dalla serie storica dei cataloghi a stampa, ma senza dimenticare la politica dei prezzi attuata dal 1876 in virtù dell’affacciarsi di una nuova categoria di clienti: gli studiosi e gli storici dell’arte. Accanto alla definizione delle strategie produttive e delle politiche commerciali si poneva la questione storico critica dell’individuazione di quell’insieme di formule espressive sintetizzabili nello “stile Alinari”, a proposito del quale, come ricordava ancora Tomassini, “molto si è detto e scritto” specie intorno al quesito fondamentale della sua stessa, possibile esistenza.
Dal punto di vista di Quintavalle la questione pareva ormai essere definitivamente risolta: “sembra che fra gli studiosi, dopo quanto scrivevo io stesso una trentina di anni orsono, vi sia consenso sull’esistenza di uno stile Alinari”[1121]. Questa affermazione così categorica risultava poi meglio articolata e stemperata, se non proprio contraddetta, col riconoscere che “il problema è però che esistono momenti diversi e quindi almeno due modelli di ripresa degli Alinari, e probabilmente tre: quello che inventa Leopoldo e che si usa fino alla morte di Giuseppe; quello di Vittorio che modifica nel secondo decennio del ‘900 l’antico stile dell’impresa; infine quello delle riprese di epoca fascista, per non parlare poi del secondo dopoguerra”[1122], col che i “momenti” o stili che dir si voglia diverrebbero almeno quattro. Ciononostante nel trattamento monografico lo studioso ritornava alle antiche certezze, al riconoscimento di una cifra che pareva emergere “con consapevolezza sempre maggiore (…); se si osservano le fotografie degli Alinari si scopre che esiste una loro diversità, esiste un loro carattere che si stabilizza nell’arco di circa una ventina di anni per restare poi come una sigla, uno schema, un modello (…) non modificato da allora, diciamo dagli anni ’60 [del XIX secolo] in poi e per quasi tre generazioni.”[1123] Quel “modello di ripresa” sarebbe quindi stato il fondamento del loro ampio e duraturo successo: “proprio per quelle scansioni libere da figure e da descrizioni di tipo macchiettistico, proprio per la reinvenzione di quei grandi spazi vuoti di eventi e di azioni [quasi atemporali quindi], le immagini Alinari hanno una durata più lunga e una intensità, un calibro, difficili allora e difficili spesso ancora oggi da ritrovare”. Il tutto inserito, come si è visto, in un progetto che per lo studioso non poteva essere caratterizzato da “una semplice volontà mercantile di completezza, ma ben altro, la intenzione di fornire a chi governa l’idea di un sistema organicamente fotografato e denso di differenze, di individualità anche architettoniche.”
Diverse erano le opinioni degli altri studiosi coinvolti nell’impresa, che adottavano differenti strumenti critici: così Monica Maffioli riconosceva che “nelle loro prime opere fotografiche si possono intravedere delle ‘citazioni’ poetiche di grande effetto artistico e compositivo, che devono far riflettere sulle molteplici definizioni stereotipate usate dalla storiografia che li ha giudicati solo per il loro più noto lavoro di carattere documentario e relativo ad una fase già consolidata e matura della loro produzione fotografica.”[1124] Ben oltre la questione in sé emergeva qui uno dei nodi storiografici più interessanti, vale a dire lo spostamento dal merito al metodo, dall’accettazione dello stereotipo, che era un limite di ordine critico e filologico, allo studio attento delle caratteristiche delle opere. Il richiamo a certa convenzionalità interpretativa apriva anche le riflessioni in catalogo di Giovanni Fanelli, il quale segnalava problematicamente come “soprattutto a partire dagli anni settanta del Novecento” si fosse affermata “la tendenza a considerare la produzione della ditta, frutto di tanti operatori in un arco temporale molto esteso, come un insieme e ad attribuire ad essa riassuntivamente un presunto stile o almeno stilemi ricorrenti e costanti. (…) In queste affermazioni critiche si è trascurata l’articolazione storica della produzione nelle diverse fasi e si è trascurata la fonte principale: le fotografie stesse, da riconoscere e da valutare semmai in insiemi corrispondenti alle diverse fasi.”[1125] Da analizzare cioè filologicamente e criticamente nei loro caratteri intrinseci ed estrinseci, che è quanto mise in atto proprio Fanelli ponendo in relazione, per il primo periodo, marchi e timbri, cataloghi e numerazioni di negativo con i “caratteri ottici e formali” delle riprese, riconoscendo tra le altre cose che l’uso “prevalente di obiettivi a lunga focale (teleobiettivi) nel periodo pionieristico della storia della fotografia, costituisce una rivoluzione nella storia della vedutistica e dell’iconografia urbana in particolare, dove prima dell’avvento della fotografia aveva nettamente prevalso il gusto per aperture visive quasi sempre in qualche misura, e talvolta molto fortemente, grandangolari.”[1126] Questa analisi accorta e serrata confermava che “non esiste uno stereotipo di fotografia di architettura nel primo periodo della storia degli Alinari”, ma semmai solo “nella produzione più tarda, dopo l’avvento di Vittorio e il passaggio a cataloghi di grandi numeri e a vaste campagne affidate a più operatori.”
La ricostruzione storico critica condotta da Quintavalle aveva ribadito il ruolo determinante svolto dalla frequentazione dell’atelier di Luigi Bardi, anche nella convinzione, difficilmente condivisibile o almeno troppo generica, che nella restituzione dell’iconografia urbana “appare sostanzialmente coincidere la storia dei diversi media utilizzati per creare immagini.” Ciò che però caratterizzava maggiormente la sua modalità di lettura della produzione Alinari era quello che potremmo definire un eccesso di virtuosismo critico, non sostenuto dai necessari riscontri storico archivistici[1127]. Si vedano le argomentazioni offerte a proposito della scelta del procedimento al collodio (che era la più recente innovazione tecnologica negli anni di Leopoldo) “perché questo permette una immagine netta, definita, che risponde perfettamente alla cultura nazarena e poi preraffaellita”[1128] o, ancora, la formulazione e lo svolgimento del “problema del che cosa Leopoldo ha realmente visto e forse anche acquistato” nei propri anni di formazione, storiograficamente (ed editorialmente) risolto in una lunga sequenza di paragrafi ‘monografici’ dedicati ai maggiori autori coevi, a prescindere dal fatto che nelle caratteristiche della loro produzione si potesse o meno riscontrare una qualche analogia con o influenza sulle immagini Alinari[1129], anzi senza neppure tener conto delle modalità espressive connesse all’utilizzo di materiali sensibili tanto dissimili quanto i negativi di carta o le lastre all’albumina e al collodio[1130].
Il limite, forse il maggiore o comunque quello che più qui ci interessa dal punto di vista della metodologia e poi della narrazione storiografica, risiedeva proprio nella discrasia tra le puntuali e rigorose indicazioni di metodo enunciate in più punti e la loro mancata applicazione, come accaddeva in termini clamorosi nella trattazione delle immagini napoletane “di genere”, rispetto alle quali Quintavalle si chiedeva quali fossero “le ragioni di tale scelta? Quali sono gli stimoli a livello europeo, oppure italiano, a costruire un documento fotografico del genere? E quali sono i caratteri, i modelli di questo tipo di intervento? Prima di giungere a delle conclusioni dobbiamo analizzarle, queste immagini, e cercare di dare loro un ordine o, meglio, riconoscere in esse la logica che gli Alinari hanno voluto introdurre.” Intenzioni dalle quali sarebbe impossibile dissentire ma alle quali non corrispose un percorso critico soddisfacente se nel tracciare una genealogia che partiva dalle figure da presepe e attraversava le pitture di Antonio Mancini per scorgere infine sull’orizzonte il verismo fotografico verghiano, poteva poi accadere di dimenticare la produzione di Conrad o Sommer, suggerendo invece la possibilità che in quelle scelte avesse giocato “prima di tutto la conoscenza della fotografia realistica francese, quella di Nadar, non solo i ritratti, sia chiaro, e quella di molti altri fotografi di Francia a cominciare da Disderi (…).”[1131] Questa esterofilia un poco provinciale, questa scarsa considerazione della produzione dei tanti, notevoli studi attivi in Italia nella seconda metà del XIX secolo si affacciava in molte, troppe pagine di questo impegnativo saggio, in cui l’opera loro era magari richiamata ma senza instituire sufficienti e significativi confronti, cercati semmai con la produzione d’oltralpe anche in assenza di riscontri effettivi. Si veda, ancora, la questione ampiamente trattata della possibile influenza della Mission héliographique del 1851 sulla formazione di Leopoldo, sebbene “di quel grande viaggio (…) si seppe poco, troppo poco, salvo che probabilmente del modello culturale suggerito e delle scelte che essi [i fotografi coinvolti] vennero facendo.” Poco, troppo poco, concordiamo, anche per reggere l’ipotesi di un imprinting francese per Leopoldo[1132], del quale non si poteva però negare al contempo l’italianità. Così, alla fine, “senza Serlio e Palladio, e senza la prospettiva delle scene rinascimentali, non è neppure pensabile la fotografia di Leopoldo. E così, dopo il fecondo viaggio a Parigi, si ritorna a Firenze, a Roma, alla civiltà della prospettiva architettonica fra secolo XV e secolo XVI, comunque in Italia; e proprio l’idea di un’identità fotografica nazionale deve essere stata uno degli stimoli maggiori per le scelte dell’immagine fotografica di Leopoldo”, quella stessa su cui si sarebbero fondate (il condizionale è d’obbligo) la struttura espressiva e la fortuna commerciale di questo atelier. Tout se tient allora, ma in una genericità che non definiva nessi e ragioni risultando infine poco accettabile, posta com’era alla chiusa di un saggio di circa duecento pagine che si offriva come disegno generale della cultura (anche fotografica) al tempo degli Alinari, ma nel quale troppo sovente l’attrazione esercitata dal funambolismo critico e dalla digressione erudita avevano impedito di mettere a fuoco il problema storiografico, per usare una terminologia cara all’autore, rendendone anzi confuso il profilo sin quasi a farlo svanire.
Regolari e irregolari del Novecento
Nel periodo 1990-2003 vennero pubblicati anche numerosi contributi dedicati a fotografi e studi professionali di ambito locale e a quelli che erano stati variamente identificati come ‘irregolari’, riuscendo in alcuni casi a condurre l’operazione di riscoperta e di studio sino al catalogo e alla mostra. Quelle indagini si concentrarono prevalentemente nelle regioni del nord Italia ma con significative eccezioni per Taranto, Napoli e Campobasso, qui in occasione dell’acquisto da parte di Alinari di ciò che restava dell’archivio di Antonio e Alfredo Trombetta[1133]. Parallelamente alla connotazione geografica, l’altro elemento caratterizzante fu la ‘scoperta’ di alcuni autori attivi negli anni tra XIX e XX secolo o nei primissimi decenni di questo, come nel caso dello studio sui fotografi Turrin di Tarcento di Riccardo Toffoletti (1990) che ne era figlio e nipote e fu a sua volta fotografo professionista e insegnante di fotografia all’Istituto Statale d’Arte di Udine, impegnato nella valorizzazione del patrimonio fotografico friulano ma anche artefice della riscoperta e il più appassionato studioso di Tina Modotti[1134].
Da quella vasta ed eterogenea produzione, di livello estremamente discontinuo, emersero alcuni elementi di interesse, nodi di una inedita propensione per quegli autori non professionisti (i “dilettanti fotografi” nell’accezione a loro coeva) attivi negli anni cruciali della mutazione della cultura ottocentesca dalla referenzialità a forme più o meno risolte di modernismo attraverso le mediazioni della stagione pittorialista e la diffusione sociale della pratica fotografica. In questo ambito venne definendosi un processo conoscitivo che vincolava metodologicamente la necessità storico critica di considerare l’intera produzione dell’autore studiato così come le forme e i modi in cui questa era stata strutturata e si era conservata, procedendo cioè dall’analisi dei fondi superstiti o – in mancanza di questi – dalla ricostruzione preliminare di un repertorio il più possibile esaustivo[1135]. Venne cioè progressivamente abbandonato quell’approccio estetizzante, condotto per opere ritenute esemplari, per adottare un criterio più strettamente filologico e storico, che implicava il considerare insieme agli esiti anche i processi: la cronologia dei soggetti prescelti come le varianti di ripresa e di stampa, sino alla loro eventuale diffusione e trasformazione in sede di pubblicazione; sino alla loro ricezione quindi.
La più parte degli autori studiati era collocabile in quella vasta area espressiva comunemente definita come pittorialismo, della quale si incominciarono a indagare più a fondo le ragioni e le distinzioni intrinseche così come erano state espresse dalla critica coeva, confrontandosi cioè con le fonti a stampa. La loro analisi non pregiudiziale, già largamente disattesa, consentì di articolare meglio la comprensione storico critica di un fenomeno prima rigettato nella sua interezza e anche di suggerire, rifacendosi a quelle, una riformulazione dello stesso termine definitorio, passando da “fotografia pittorica” a quello più storicamente pertinente di “fotografia artistica”, che stabiliva rispetto al primo una voluta, maggiore indipendenza dalle influenze pittoriche[1136].
Quel procedere critico filologicamente fondato incontrava però ancora difficoltà e resistenze, ben esemplificate dalle discordanti letture della produzione dello Studio Trombetta di Campobasso offerte da Wladimiro Settimelli e da Susanna Weber. Il primo fondava la propria analisi sulla riconsiderazione, anche storiografica, del rapporto pittura fotografia, considerandolo opportunamente “un fenomeno (…) che non ha niente a che vedere con il ‘pittorialismo’ ”[1137] poiché lo trascendeva nella sua complessità ed articolazione storica. Il prosieguo del testo mostrava però come quell’affermazione fosse riduttivamente strumentale, destinata a classificare come “fotopitture”[1138] le modeste realizzazioni dello studio molisano; opere in cui la stampa fotografica veniva utilizzata quale supporto e traccia per una ingenua trascrizione pittorica del soggetto, ma nelle quali – secondo l’autore – “il dualismo tra i due mezzi di raffigurazione pare, insomma, accantonato, eluso, messo da parte.” Difficile concordare con quella lettura così come con la stabiliante opinione che “nelle immagini più grandi, quando si arriva al risultato definitivo, poco manca che si possa parlare di lavori direttamente legati alla stagione dei Sartorio, di Pellizza da Volpedo o di un Michetti” e che le “fotopitture” meglio riuscite “va detto con assoluta chiarezza, potrebbero reggere tranquillamente il confronto con molta pittura italiana dei primi del secolo e con una certa pittura europea molto attenta alla ‘descrizione’ di ambienti e paesaggi.” Più meditato e pertinente il contributo di Weber[1139] che considerava il contesto sociale ed economico di quelle produzioni, tipiche di studi fotografici “attivi prevalentemente in zone provinciali” e destinate alla “piccola e media borghesia italiana [che] poteva appendere alle pareti del salotto buone immagini che equivalevano a dipinti.” Altrettanto chiara risultava la comprensione critica delle opere, diametralmente opposta a quella di Settimelli nel momento in cui riconosceva come non fosse “nemmeno più lecito usare il termine fotopittura: l’immagine fotografica sottostante ha perso ogni motivo di essere; non riveste una funzione molto diversa da quella del disegno preparatorio, se non fosse per la fondamentale diversità del procedimento.” La distanza interpretativa non poteva essere più netta e qui interessa specialmente quale indicatore di una mutazione radicale della storiografia fotografica che progressivamente considerava come irrinunciabile l’abbandono del libero arbitrio critico a favore dell’esercizio di una verifica attenta dei materiali studiati, come indicava, nello stesso testo, il confronto analitico tra le differenti versioni tratte da una medesima lastra.
La cultura fotografica torinese era stata oggetto di numerosi saggi di carattere generale e di approfondimenti relativi a temi ed eventi significativi come la sezione fotografica dell’Esposizione di Arte Decorativa e Moderna del 1902 o “La Fotografia Artistica”[1140], mentre più rare erano state le occasioni di presentazioni monografiche. Una importante occasione venne offerta dalla catalogazione delle circa 12.000 stampe del Fondo Mario Gabinio conservato presso la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, dove nel 1996 venne organizzata la prima grande mostra monografica dedicata a questo autore[1141]. Dal lavoro di schedatura analitica, dalle informazioni e dalle suggestioni che da questo erano derivate, prese corpo la possibilità di offrire una valutazione critica più articolata di una produzione tanto vasta e ad un primo sguardo eterogenea, in passato già offerta al pubblico privilegiando aspetti importanti ma inevitabilmente parziali, come la documentazione della “vecchia Torino”[1142], o tentando meritoriamente di delinearne la figura ed il valore ma operando in una forzata, incompleta conoscenza della sua opera[1143]. La possibilità di studiare un insieme di tale consistenza, verosimilmente corrispondente alla totalità della produzione di Gabinio[1144], favorì l’adozione di un metodo di indagine fondato sul riconoscimento della fotografia quale “documento/ monumento”, oggetto di studio e fonte primaria della sua propria storia materiale e culturale; testimonianza referenziale e contemporaneamente testo di invenzione narrativa nel quale il senso originario e quello attuale si intrecciavano e risultavano dal sovrapporsi di intenzioni diverse, la più misteriosa delle quali era proprio quella che l’autore aveva lasciato di sé: solo una lunga e densa traccia di figure che chiedevano e quasi imponevano di essere lette e interpretate attraverso il riconoscimento e la costruzione progressiva di una serie di trame che consentissero di metterle in relazione con le vicende della fotografia coeva. L’ipotesi di ricerca ed il progetto di studio che presero forma in quell’occasione avevano però anche l’ambizione di proporsi come possibile esempio di strutturazione dell’analisi storiografica applicata alla fotografia, riconoscendo – ormai con un poco di ritardo – che anche in questo ambito specifico era indispensabile mettere in atto tutte quelle strategie di interrogazione e di critica delle fonti, tutte le metodologie da lungo tempo applicate nelle aree di ricerca più prossime, come la storia dell’arte e la storia della comunicazione visiva; nella consapevolezza che al riconoscimento effettivo di un nuovo statuto di complessità dell’oggetto di indagine non potesse che corrispondere un adeguato modello epistemologico che fosse in grado di coniugare percorsi personali e orizzonti culturali a scala locale e internazionale, rischiando ipotesi critiche su intrecci di cui si conoscevano gli esiti, poco sapendo però delle effettive dinamiche che li avevano prodotti. Dalla consapevolezza di questa complessità e dall’intenzione esplicita di volerla comunicare derivò la stessa concezione e realizzazione del progetto espositivo, che si propose quale percorso esemplificativo e non solo esemplare attraverso i materiali costituenti l’intero fondo torinese, per la prima volta in Italia interamente disponibile alla consultazione su supporto digitale già in sede di mostra. Le stampe originali, così come il catalogo, vennero organizzate per nuclei tematici da intendersi quali porzioni significative di un impraticabile “catalogo generale” e rifiutando quindi il modello puramente antologico e la tentazione di soccombere alla logica fuorviante dell’eccezionalità, quanto mai pericolosa specialmente quando si intenda dar conto dell’intera opera di un fotografo, del suo operare quasi necessariamente per serie, sviluppate in tempi lunghi. Solo così sembrava possibile indagare e restituire senso a una produzione ingente e cronologicamente distribuita lungo quasi mezzo secolo; ponendo a confronto momenti distinti, esiti anche contraddittori di una attività per molti versi emblematica, di un modo di fare fotografia e di un clima culturale che aspirava alla modernità in un paese e in un presente ancora insicuri di sé.
Un’analoga considerazione di tutta la produzione superstite caratterizzò anche il successivo studio dedicato a un altro dilettante torinese, di poco più giovane di Gabinio e culturalmente vicino alla generazione successiva, rappresentata dai membri del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica: lo psichiatra Francesco Agosti. Lo studio monografico, anche qui condotto a più mani, fu occasione per Miraglia[1145] di precisare meglio alcune riflessioni sulle varie declinazioni di “quel momento, particolarmente sofferto, della storia della fotografia italiana e internazionale”, riconoscendo la rilevanza delle continue sperimentazioni tecniche quale indispensabile momento di maturazione espressiva e linguistica, dove “il riconoscimento della fotografia come scrittura autonoma, non analogica ma fortemente connotata dall’autorialità, passa anche attraverso il controllo del mezzo e lo studio dei suoi limiti di flessibilità.” Come già fu per Gabinio, anche in questo caso la mostra e il catalogo presero le mosse dalla considerazione dell’intera produzione superstite di Agosti, e dallo studio della “organizzazione e archiviazione originariamente scelte per il fondo stesso dall’autore, elementi che con la propria forza filologica sono stati di fatto di non indifferente aiuto per risalire a nuclei omogenei di immagini (…) oltre che per stabilire con più precisione la loro cronologia e destinazione.”[1146] L’analisi di questi elementi entrava quindi a far parte stabilmente delle metodologie d’indagine ritenute necessarie per una corretta disamina della produzione di un autore, così come la redazione di un accurato apparato di schede analitiche delle singole opere pubblicate, ormai considerate uno strumento fondante e una componente imprescindibile di questi studi[1147]. Riprendendo le modalità adottate da Miraglia nel volume dedicato alle Culture fotografiche torinesi (1990) e sviluppate da chi scrive nel catalogo dedicato a Gabinio, le schede delle opere di Agosti – redatte da Maria Francesca Bonetti[1148] -vennero articolate in due parti: una più propriamente di descrizione catalografica e la seconda, assimilabile alle “note di contenuto” di origine biblioteconomica, che accanto all’eventuale descrizione del soggetto e dell’occasione di ripresa conteneva una puntuale analisi critica dell’opera, ponendosi così quale indispensabile complemento e integrazione delle considerazioni sviluppate nei testi.
Espliciti problemi di metodo relativi allo studio delle relazioni tra processo produttivo ed esito finale, quindi tra archivio ed opera si pose anche il curatore del progetto editoriale dell’ “Album” dedicato a Vender nel 2006, col preciso intento di “seguire, talvolta passo dopo passo, il procedimento creativo di questo maestro della fotografia”, decidendo di pubblicare “sia le immagini tratte dal negativo nella loro articolazione completa, ivi compreso il bordino nero (…) sia i cosiddetti vintage print, condotti da Vender nel suo lavoro successivo.”[1149] L’analisi di questi materiali che ne fece Angelo Maggi in parallelo con i fogli delle provinature consentì di evidenziare “una indagine figurativa che a volte sembra allontanarsi drasticamente dal linguaggio dei vintage esibiti nei concorsi fotografici e dallo stile compositivo delle immagini apparse all’interno di riviste e rotocalchi.”[1150] Diveniva così possibile una comprensione più profonda del suo universo visivo, dei suoi modi operativi e delle fasi che portarono dalle riprese alla stampa finale, secondo un metodo che fondava sulla ricostruzione accurata dei processi produttivi le proprie possibilità di analisi, specialmente importanti e diremmo indispensabili per affrontare il corpus di autori attivi dopo l’avvento delle emulsioni alla gelatina bromuro d’argento e ancor più dopo quello delle pellicole di medio e piccolo formato. La riscoperta di questo autore, che era stato tra i protagonisti della nuova fotografia italiana sin dal periodo tra le due guerre mondiali, da tempo ritiratosi “da buon pensionato in un posto tranquillo e aria buona”, quindi scomparso dalla scena e quasi irreperibile, si doveva a Italo Zannier che nel 1990 gli aveva dedicato la copertina del numero 12 di “Fotologia”, con un breve profilo accompagnato da un portfolio di dieci immagini; tra quelle, con accorta scelta critica, venne compresa anche la riproduzione di una doppia pagina di Olocausto, un fotoromanzo di cui Vender fu fotografo di scena negli anni in cui lavorava per Cino Del Duca, l’editore di “Grand Hotel”. Nel 1991-1993, certo anche in conseguenza del rinnovato interesse per il suo lavoro[1151], Vender aveva donato parte della propria produzione all’Archivio fotografico della Provincia Autonoma di Trento[1152]; da quell’atto scaturì una prima mostra alla galleria il Diaframma di Milano nell’anno successivo[1153], così come ulteriori approfondimenti della sua produzione più matura e più nota[1154], condotti avvalendosi anche di uno strumento sostanzialmente inedito nella metodologia storiografica italiana quale l’intervista[1155], ma che in quell’occasione, a giudicare dagli esiti, non venne compiutamente sfruttato nelle sue potenzialità. Anche il successivo catalogo dedicato agli anni d’esordio[1156] non apportava sostanziali elementi di rilievo, sebbene Menapace ricordasse come Vender lo avesse “spesso intrattenuto coi suoi ricordi, le sue sensazioni, i suoi problemi tecnici (…), i rapporti personali con i fotografi del suo ambiente e le fonti delle sue ispirazioni estetiche.”[1157] Quasi nulla di quelle conversazioni, che immaginiamo affascinanti e ricche, confluì però nei testi in catalogo, dai quali venne idealisticamente espunto ogni riferimento all’attività professionale di Vender; men che meno quella legata alla produzione di fotoromanzi[1158]; solo rimaneva, tra i pochi elementi interessanti dal punto di vista del metodo, la considerazione dei volumi conservati nella sua biblioteca[1159].
L’intervista, per evidenti ragioni, non poteva che darsi come strumento eccezionale nella ricostruzione storiografica dei protagonisti del modernismo, mentre più efficace e produttivo era il consolidarsi dell’approccio filologico ai materiali, derivato dagli studi sulla fotografia del XIX secolo e qui posto in atto su insiemi archivistici di ben maggiori dimensioni e complessità, potendo in molti casi disporre delle testimonianze dell’intero percorso intellettuale e operativo che a partire dalla ripresa aveva portato all’opera finale[1160]. Fu quello il caso anche di Carlo Mollino, del quale venne pubblicato nel 1990 il catalogo generale dell’archivio[1161] ad un solo anno di distanza dalla definitiva consacrazione della sua opera fotografica, sino a quel momento passata in sottordine se non per le attrattive commercialmente appetibili delle sue immagini più tarde e porno soft[1162], realizzate con materiali Polaroid; una tecnica che aveva adottato nell’urgenza dell’esito, come ricordava affettuosamente Roberto Gabetti che gli fu assistente alla Facoltà di Architettura di Torino negli anni Cinquanta[1163]. Il nome dell’architetto torinese non era certo sconosciuto alle storie della fotografia italiana, ma di lui si ricordavano specialmente le scelte espresse nel Messaggio dalla camera oscura, tanto che Fulvio Ferrari avrebbe ricordato il suo primo incontro con quei materiali, avvenuto nel 1984 “così, per caso, contrariato dal non aver trovato mobili ma ‘solo fotografie’.”[1164] Nell’organizzazione della grande mostra del 1989, coprodotta dalla Città di Torino e dal Centre Georges Pompidou, Ferrari non venne coinvolto se non come prestatore, mentre la disamina critica del lavoro fotografico di Mollino fu affidata a uno studioso qualificato come Piero Racanicchi, che “sfogliando tra le carte, gli appunti, i negativi, le stampe e i ritagli dell’archivio”[1165] ricostruì in un testo puntuale e illuminante le declinazioni varie dei rapporti dell’architetto con la fotografia, a partire dal crocianesimo sotteso all’impostazione del Messaggio e dal confronto con le posizioni espresse da Ermanno Scopinich, che di Mollino fotografo fu il primo esegeta. Quando nel 2006 venne realizzata una nuova grande mostra relativa al complesso della sua poliedrica attività, ospitata dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino e dal Castello di Rivoli[1166], la ricca sezione dedicata alla fotografia comprendeva anche alcune provinature oltre ad esempi di negativi sottoposti a ritocco accostati alla stampa finale, adottando quella stessa strategia critica ed espositiva attuata nella curatela del coevo Album dedicato a Federico Vender.
In quegli anni vennero pubblicati anche i più importanti contributi dedicati a quello che fu il principale interlocutore di Mollino in ambito fotografico: Riccardo Moncalvo. Il primo bilancio di un’attività più che cinquantennale fu offerto dalla mostra prodotta dal Museo nazionale della Montagna di Torino, con un titolo criticamente efficace tratto dal contributo di Enrico Sturani[1167] che individuava nella compresenza di ricerca modernista e retorica tardo pittorialista (già a suo tempo riconosciute da Mollino) la cifra stilistica dei lavori di Moncalvo, ben documentata dalle numerose pubblicazioni sui periodici italiani degli anni Trenta, lì studiati da Zannier[1168]. Il contributo critico e metodologico più interessante risultava però quello del figlio del fotografo, Enrico[1169], che ricostruendo l’occasione in cui furono realizzate alcune fotografie in costume ne individua la genealogia del gusto nella cultura storicista torinese del XIX secolo. Nessun contributo ulteriore alla comprensione dell’opera di Moncalvo venne dalle successive iniziative, tutte concentrate nel biennio 2001-2002, che condividevano con quella prima esperienza una modalità espositiva certo voluta e forse imposta dall’autore, che prevedeva l’esposizione di sole ristampe recenti e retrodatate, senza offrire la possibilità di valutare correttamente opere realizzate a decenni di distanza; quasi che fosse solo l’immagine (qualsiasi cosa si voglia intendere con questo termine) a dover essere considerata e non anche i modi storicamente e culturalmente determinati della sua restituzione da negativo a stampa positiva, e la sua propria materialità di oggetto. Non si tratta certo di avviare alcuna celebrazione collezionistica o mercantilistica del vintage, ma di comprendere come l’opera sia anche materia e tempo nella sua accezione più lata, da offrire alla comprensione filologico critica. Costituiva un’ulteriore testimonianza di questo disinteresse la breve avvertenza posta in apertura della schedina descrittiva delle opere pubblicata nel catalogo della mostra che si tenne alla GAM di Torino nel 2001[1170], in cui si segnalava che “tutte le fotografie sia a colori sia in bianco-nero sono stampate su carta e applicate su supporto di alluminio”, suggerendo senza chiarirla la discrepanza tra l’indicazione cronica fornita in didascalia e l’effettiva data di realizzazione delle stampe esposte. A questo importante limite metodologico si accompagnavano testi variamente problematici, a partire da quello del curatore, col suo solito andamento affabulatorio e scarsamente verificato[1171] ma certo non privo di intuizioni critiche, mentre Dario Reteuna[1172] offriva un involontario esempio di remake ‘mimetico’ del magniloquente gergo critico dei periodici fotografici italiani tra le due guerre, parlando di immagini “pregne di pittoriche reminiscenze” quanto di “problematiche e audaci geometrie della modernità”, giungendo comunque almeno a collocare compiutamente (e per la prima volta) il lavoro di Moncalvo nel contesto della fotografia degli anni Trenta, individuando anzi tra 1937 e 1938 “gli anni più felici della sua lunghissima stagione creativa.”
Archivi: storie e catalogazioni
Storie di archivi
L’urgenza dei temi della conservazione e della catalogazione del patrimonio fotografico storico avevano dato corpo a un ampio dibattito nel corso del decennio precedente, portando non solo alla redazione del primo manuale italiano di catalogazione, ma richiamando per la prima volta l’attenzione degli storici sulla progressiva definizione dello stesso concetto di archivio fotografico, in particolare sui meccanismi e sulle dinamiche di formazione di quelli istituzionali, strettamente connessi alla funzione documentaria assegnata alla fotografia dalla società e dalla cultura del XIX secolo. Quelle ricerche si inserivano di fatto nel più ampio dibattito intorno alle questioni poste dal riconoscimento e dal trattamento filologico delle fonti fotografiche, in anni in cui i due opposti atteggiamenti della loro utilizzazione immediata quale analogo del referente e della critica radicale alla loro presunta oggettività sembravano aver relegato l’uso delle fotografie nella ricerca storica e nella produzione storiografica non di settore ad un semplice elemento esornativo, a funzione decorativa elevata, rimuovendo la discussione ricca di spunti e di considerazioni interessanti che pure aveva caratterizzato il dibattito intorno al tema sino ai primi decenni del XX secolo. Alla ricostruzione di quelle vicende vennero dedicati alcuni interventi di vario impegno ma di analoga prospettiva, tutti scalati tra 1990 e 1997[1173], che ne delineavano il percorso in relazione al tema, tutto positivista, delle raccolte e dei musei documentari che si era sviluppato in Europa trovando in Italia un fertile terreno di sviluppo metodologico specialmente per merito di Giovanni Santoponte e, in ambito istituzionale, di Corrado Ricci e di Adolfo Venturi. A quegli studi si aggiunse un nuovo contributo di Miraglia che poneva a confronto le logiche che avevano guidato i primi progetti del GFN con l’antecedente importante del “ricetto” fotografico di Brera, considerato come un “modello senza precedenti”, nel quale la studiosa individuava un “doppio impegno, documentario e museale” , interpretando forse troppo generosamente le intenzioni espresse dai promotori di riunire “nel maggior numero possibile, fotografie di opere d’arte, di luoghi, di avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”[1174]; ciò che pareva più prossimo al moderno concetto di archivio editoriale che non a quello di una fototeca specializzata, tanto meno di un museo.
Le relazioni storicamente determinanti tra documentazione del patrimonio e nascita dell’archivio fecero sì che fosse proprio quello l’ambito primo e principale di studio, affiancando alla ricostruzione delle vicende istituzionali[1175] quella della formazione delle collezioni private, avviate da studiosi e in particolare da alcuni archeologi come John Henry Parker, alla cui Raccolta venne dedicato un progetto collettivo di studio e di ricerca che portò alla pubblicazione di importanti contributi insieme al regesto dell’intero Fondo, con schede e riproduzioni delle quasi ottocento immagini che lo costituiscono[1176]. Come aveva puntualmente rilevato Miraglia[1177], il volume si collocava “nel percorso di una linea di intervento già da tempo e con estrema coerenza individuata come propria dall’Archivio fotografico del Comune di Roma, quella cioè di mirare i propri sforzi ed i propri contributi critici alla valorizzazione del proprio patrimonio di immagini”, muovendosi sul duplice binario della storia della fotografia romana dell’età del collodio e della rinascita degli “interessi archeologici romani del periodo 1864-1877”. Quell’impostazione, “lungi da vuoti schematismi o da separatismi specialistici, [dava] luogo ad un discorso continuo e di grande interesse, capace di restituirci tout court il clima di un’epoca e di definire, all’interno di esso, il ruolo che la fotografia, in virtù della sua apparente referenzialità, viene ad assumere nell’ambito della documentazione archeologica.” Una simile coerenza non si ritrovava invece in analoghe pubblicazioni coeve relative a singoli fondi di documentazione d’arte, come quelle comprese nella collana “Collezioni e raccolte fotografiche” edita dall’ICCD[1178] ma aperta anche alla collaborazione con altri uffici ministeriali. Quei volumi costituivano certo una precisa testimonianza della storia istituzionale della tutela dei fondi di interesse documentario, ma erano viziati da una impostazione che oggi non possiamo che definire contraddittoria, ancora troppo prossima all’idea di neutralità e di trasparenza della restituzione dell’opera. Basti considerare come nei testi di presentazione e nel corpo di quei volumi l’interesse fosse rivolto esclusivamente alle descrizioni e alle questioni critiche e attribuzionistiche poste dalle opere riprodotte, in una sostanziale indifferenza ai problemi documentari e linguistici storicamente posti dalla traduzione fotografica. La prevalenza acritica ed esclusiva della funzione referenziale, di lunga tradizione ottocentesca ma ancora ben presente un secolo più tardi in ambito istituzionale, si manifestava del resto anche in altri, ben più significativi modi: portava ad esempio a non tener conto neppure della necessità, archivisticamente e culturalmente determinante, di tutelare i fondi nella loro integrità, come ben dimostravano le vicende del Fondo del fotografo milanese Girolamo Bombelli, che al momento dell’acquisizione, voluta dall’allora direttore del GFN Carlo Bertelli, venne smembrato e suddiviso su base tematica tra lo stesso GFN e il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano[1179].
Due erano state all’inizio del decennio le occasioni di confronto su questi temi: un seminario organizzato dalla Scuola Normale di Pisa[1180] ed un convegno promosso da “AFT”, entrambe nel 1992. Il convegno pratese Fototeche e archivi fotografici aveva riunito studiosi e responsabili istituzionali di raccolte e archivi suddividendo i loro interventi in otto aree omogenee di confronto[1181]. Le riflessioni spaziarono dalle questioni gestionali a quelle metodologiche in contesti quali l’antropologia e la ricerca storica sino allo specifico della storia della fotografia, considerata in sé e come ambito di attività di alcune riviste di settore. Altre sezione infine affrontarono l’ampio territorio metodologico e operativo delle fototeche d’arte e, più in generale, della catalogazione e della conservazione dei fototipi. Le condizioni generali del contesto istituzionale in cui si collocava l’interesse per il patrimonio fotografico, in particolare per quel che riguardava la conservazione e la tutela, vennero brevemente tratteggiate nella sconfortata prolusione di Oreste Ferrari e quindi ribadite e ulteriormente specificate da Michele Cordaro, all’epoca Direttore dell’Istituto Nazionale per la Grafica, che riconosceva come “nel Ministero per i beni culturali e ambientali ad esempio, e negli istituti da esso dipendenti, ci si improvvisa conservatori di fotografia, ci si improvvisa studiosi di storia della fotografia, sulla base dell’impegno e dell’interesse che ciascun funzionario preposto a questa attività sa e può dare.”[1182] Valutazione certo ingenerosa, come ogni generalizzazione, ma che descriveva bene quale fosse (e per molti versi è ancora) lo stato dell’arte; effetto e causa del sofferto rapporto che storicamente si è dato tra istituzioni, specie centrali, e patrimonio fotografico, come risultava anche dalla più parte degli interventi di quella sessione seminariale, di taglio prevalentemente descrittivo, poveri di contributi storico critici e di riflessioni teoriche. Nell’intervento di apertura della sessione sulla catalogazione Sauro Lusini aveva richiamato la necessità di istituire e rafforzare forme e modalità di coordinamento tra le varie istituzioni che si occupavano di catalogazione, ancora largamente indipendenti le une dalle altre: si trattava di analizzare e verificare collegialmente le procedure adottate dalle varie esperienze in corso facendone derivare orientamenti comuni di ordine metodologico e operativo per la catalogazione del patrimonio, che Lusini[1183] intendeva come mezzo e strumento della ricerca piuttosto che come fine. Una prima, possibile risposta a quelle sollecitazioni venne fornita dall’intervento di Roberto Spocci e Angela Tromellini[1184], che traevano alcune indicazioni metodologiche dall’esperienza svolta per la preparazione del progetto Fotografi e fotografia a Bologna. Ciò che emergeva nettamente da quel contributo, smentendo in parte una delle posizioni espresse da Lusini, era che la catalogazione, lungi dal poter essere considerata mero strumento operativo, non potesse prescindere e anzi fosse di fatto – in condizioni ottimali – occasione e stimolo per la ricerca, in un processo ciclico rispetto al quale risultava difficile ed anche metodologicamente fuorviante stabilire gerarchie procedurali e operative valide al di fuori di ogni specificità di progetto.
La rinnovata attenzione, anche internazionale[1185], per le questioni connesse alla conoscenza e alla tutela del patrimonio storico aveva prodotto un notevole accrescimento di dati conoscitivi[1186] ma ciò che ancora risultava assente, o largamente insufficiente, era una mappa generalizzata degli archivi e dei fondi, esito di ricognizioni sistematiche se non di un vero e proprio censimento condotto a scala nazionale, mancando per questo una figura istituzionale in grado di promuoverlo e gestirlo. La mostra del 1979 sulla Fotografia italiana dell’Ottocento aveva restituito per sommatoria una prima geografia dei luoghi di conservazione e delle collezioni italiane, ma le prime vere iniziative orientate ad una effettiva ricognizione ebbero luogo solo in ambiti circoscritti come la Guida alle raccolte fotografiche di Roma (UIIASSA 1980) promossa da John Ward-Perkins, direttore della British School at Rome e realizzata da Luigi Cacciaglia, archivista della Biblioteca Apostolica Vaticana, o il più tardo progetto di ricerca Fotografia e mezzogiorno avviato nel 1987 dall’associazione Spazio Immagine di Bari ma presentato alla Regione per ottenere un finanziamento già nel 1982. Mostrando una notevole lucidità progettuale l’iniziativa si prefiggeva l’individuazione di archivi e fondi e la ricostruzione dell’attività fotografica in Puglia, prendendo in considerazione “tanto la produzione di immagini fotografiche quanto il contesto allargato di attività industriali, commerciali e culturali che la fotografia sin dal suo sorgere indusse o direttamente originò nella regione.”[1187] Tra gli scopi non secondari vi era anche quello di “attivare un’attenzione (…) per questo patrimonio familistico di immagini che è protetto dal valore affettivo di cui è carico e che però rischia quotidianamente la dispersione più inconsulta e casuale, legato com’è a vicende di singoli individui.”[1188] In ambito sovraregionale ma tematicamente circoscritto si era collocata invece la ricognizione avviata nel 1987 per iniziativa della Commissione archivi dell’INSMLI[1189] dei fondi fotografici conservati dai cinquantuno Istituti per la storia della Resistenza, che ottenne ben l’88% di risposte[1190]; testimonianza di una precoce considerazione di quegli enti per le fonti fotografiche possedute, sulle quali alcuni avevano avviato già da tempo progetti di censimento a scala regionale[1191]. Già nel 1979 la Commissione fototeca dell’Istituto per la Storia dell’Umbria dal Risorgimento alla Liberazione (ora ISUC) aveva avviato un progetto allo scopo di “1. Censire le raccolte fotografiche riguardanti l’Umbria (…) 2. Predisporre la catalogazione e la schedatura di tale materiale. 3. Raccogliere e schedare il materiale prodotto dalle ricerche in corso. 4. Sensibilizzare enti ed istituti, e principalmente le biblioteche, perché provvedano alla schedatura e catalogazione dei fondi fotografici in loro possesso.”[1192] Il vero e proprio censimento a scala nazionale venne poi realizzato nel 1993-1995 nell’ambito del progetto “Fonti della Resistenza e atlante storico”, sulla base di indicazioni metodologiche e operative formulate da Adolfo Mignemi a nome del gruppo di lavoro sulle fonti fotografiche nel Promemoria per la commissione archivi (1992) e nella presentazione del progetto (1993), adottando la scheda di rilevamento messa a punto dall’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna.
A partire dalle riflessioni raccolte durante il convegno di Prato del 1992[1193] anche l’Archivio Fotografico Toscano aveva elaborato un progetto “finalizzato alla conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico in immagine prodotto e/o conservato in Toscana”[1194] al fine di procedere successivamente alla sua catalogazione e alla digitalizzazione[1195], ed altri progetti analoghi, non coordinati tra loro, vennero avviati nello stesso arco di tempo in Campania[1196], in Sicilia[1197] e in Trentino; occasione anche per un primo bilancio delle acquisizioni metodologiche e delle problematiche operative e istituzionali[1198]. Il primo effettivo ‘censimento’ a scala nazionale (immemore dell’analogo progetto proposto nel 1971 a “Popular Photography Italiana”) venne però realizzato solo nel 1997 al di fuori di ogni ambito istituzionale dalla rivista “Fotografia Reflex”, fondata nel 1980 e rivolta prevalentemente agli aspetti tecnologici e merceologici delle apparecchiature fotografiche. Il progetto, curato dal caporedattore Marco Bastianelli, si era avvalso della collaborazione di un qualificato gruppo di studiosi del quale però, piuttosto singolarmente, non faceva parte alcuno storico della fotografia in senso proprio[1199]. L’idea di realizzare il censimento era nata nel 1995 in occasione di un incontro dedicato alla situazione degli archivi italiani e dalla considerazione che “la cultura della fotografia [in Italia] è scadente forse anche perché ben pochi sanno che il nostro paese così poco fotografico, è in realtà ricchissimo di fotografie che raccontano la sua storia recente e remota.”[1200] Sulle pagine della rivista vennero ospitati per più di un anno articoli e segnalazioni che favorirono l’accrescimento delle informazioni, poi tradotte nelle seicento schede pubblicate, intestate a fondi storici e contemporanei, che andarono a formare “il primo parziale censimento sugli Archivi fotografici italiani”. La parzialità dei risultati era prevista e riconosciuta, ma non era tanto questo aspetto a limitare l’interesse di questa realizzazione quanto la mancanza di sistematicità e di criteri metodologicamente attendibili, ciò che produsse lacune non altrimenti comprensibili, a meno di volerle intendere come “atti mancati” da parte di redattori e collaboratori: basti considerare i casi eclatanti dell’Aerofototeca, di cui non era indicata l’appartenenza all’ICCD, a sua volta titolare di ben due schede; alla serie delle Soprintendenze emiliane, tra le quali non era compresa quella bolognese ai Beni Artistici, certo la più attiva in termini di valorizzazione e tutela del patrimonio fotografico, e così via. Di poco successiva ma ben diversamente concepita l’inchiesta sulle fototeche e sugli archivi fotografici pensata come “ricordo di un incontro fattivo” (Paola Barocchi) tra Paolo Costantini e la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove lo studioso prematuramente scomparso aveva tenuto alcuni seminari di storia della fotografia. L’iniziativa prese forma nei due volumi Per Paolo Costantini curati da Tiziana Serena[1201] intitolati a Fotografie e raccolte fotografiche (1998) e alla vera e propria Indagine delle raccolte fotografiche (1999). Mentre il primo si apriva con una serie di testimonianze e di casi di studio prossimi agli interessi di Costantini, a cui si aggiungevano vari contributi relativi ai problemi di catalogazione e gestione di archivi e fototeche, il secondo costituiva una vera e propria ricognizione ragionata degli enti e istituzioni che conservavano fondi di grande rilievo, presentati con una doppia articolazione: il primo registro, la prima parte, era costituita da articoli e saggi di varia estensione redatti dai singoli responsabili, per un totale di cinquantacinque istituzioni italiane e sette straniere, a cui corrispondeva nella seconda una serie di settantasei schede strutturate in diverse aree di descrizione che fornivano informazioni importanti anche in merito alle modalità di ordinamento, ai criteri di catalogazione adottati ed agli eventuali progetti di informatizzazione. Il puro dato quantitativo, corrispondente a poco più del 12% degli archivi censiti da “Reflex” nel 1997, mostrava però quanto lunga fosse ancora la strada da percorrere per delineare una mappa attendibile del patrimonio italiano.
Manuali e norme di catalogazione
Alla necessità di disporre di un modello unificato di schedatura dei fototipi aveva dato una prima, complessa risposta il Manuale di catalogazione messo a punto da un gruppo di lavoro coordinato da Giuseppina Benassati[1202] dopo un periodo di studio e sperimentazione compreso tra gli anni 1987-1989, con la precisa intenzione di fornire agli operatori uno schema comune per la descrizione delle immagini. Per ottenere cataloghi integrati di materiali tipologicamente differenti (grafica e fotografia) e utilizzare le infrastrutture della rete informatica del Servizio Bibliotecario Nazionale, venne adottato lo standard descrittivo ISBD nella accezione dei materiali non librari (NBM), seguendo per la compilazione le norme RICA. A questo impegnativo progetto, generalmente accolto dalla comunità degli studiosi e dei conservatori come una svolta importante nella cultura della tutela del patrimonio fotografico italiano[1203], corrispondeva un adeguato livello di elaborazione, sottolineato dal giudizio espresso nell’introduzione da Miraglia che auspicava che quella proposta fosse fatta propria dall’ICCD “onde poi essere rilanciata, su scala nazionale, quale modello unico ed ufficiale per la catalogazione della fotografia storica”[1204]. Nonostante l’autorevolezza del giudizio l’impianto concettuale e metodologico adottato lasciava però spazio a notevoli perplessità di merito[1205], sintetizzabili nella opportunità – tutta da dimostrare – di adottare un tracciato descrittivo di derivazione bibliografica; certo ormai consolidato e sperimentato dalla tradizione biblioteconomica ma riferito a una tipologia di oggetti dei quali era sin troppo semplice sottolineare la radicale, ontologica diversità rispetto al bene fotografico. Se la volontà di realizzare un sistema integrato di catalogazione non poteva che essere accolta favorevolmente, meno soddisfacente risultava il ricorso a forzosi adattamenti[1206] di modelli precedenti, tipologicamente impropri, e certo non poteva essere quello lo strumento più adeguato per misurarsi con lo “spessore simultaneo” delle fotografie di cui parlava Andrea Emiliani[1207].
Due proposte di modelli di catalogazione dei fototipi, tra loro molto simili e allineate ai tracciati già adottati dall’ICCD per altre tipologie di beni, furono elaborate nel 1998 da altrettanti gruppi di lavoro: quello torinese attivo nell’ambito del Progetto Guarini[1208] della Regione Piemonte e quello coordinato dallo stesso Istituto romano. Una delle prime occasioni di presentazione del tracciato in via di definizione da parte del gruppo romano fu il breve testo pubblicato in Serena 1998[1209], nel quale si ripercorrevano le precedenti iniziative dell’ente a partire da quanto elaborato a seguito della Legge 41/1986 (art.15) (Legge finanziaria 86) che all’articolo 15 prevedeva lo stanziamento di risorse da “destinarsi alla realizzazione di iniziative volte alla valorizzazione di beni culturali, anche collegate al loro recupero, attraverso l’utilizzazione delle tecnologie piu` avanzate”. In quella prospettiva era stata elaborata una “scheda di rilevamento dati composta da due sezioni”, poi modificata e integrata sulla base delle esigenze “provenienti dai moltissimi archivi fotografici presenti sul nostro territorio”. Esito di quella prima stagione tardivamente pionieristica era stata “l’elaborazione di una scheda FT destinata ad accogliere in organica sintesi le informazioni tecniche relative alla fotografia e all’oggetto raffigurato”[1210], pubblicata nel 1991 ma “mai ratificata in una pubblicazione metodologica ufficiale” e quindi di fatto scarsamente applicata, alla quale era stato incomprensibilmente affiancato nell’ambito del progetto di automazione della Fototeca Nazionale “un altro nucleo di schede (…) per alcune categorie di soggetti”, introducendo quindi una surreale e inedita catalogazione per generi che raggiungeva l’apogeo nella scheda “XD (Altro – tutti quei soggetti fotografici di difficile classificazione)”.
Il nuovo tracciato catalografico, messo a punto dall’ICCD grazie all’impegno di una commissione di lavoro costituita nel giugno del 1998 e formato da funzionari di vari organismi del MiBAC, delle Regioni Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia, dell’ENEA e del Museo dell’immagine Fotografica e delle Arti Visuali, effimero organismo dell’Università di Tor Vergata di Roma[1211], venne pubblicato nel 1999 come Scheda “F”, e rappresentò per la rilevanza istituzionale dell’organismo che lo emanava un atto fondamentale, seppur tardivo; indispensabile per procedere efficacemente all’uniformazione e alla standardizzazione di procedure catalografiche metodologicamente corrette; per provarsi almeno a ipotizzare la realizzazione se non di un catalogo unico a scala nazionale almeno di un modello condiviso di diffusione e scambio di dati, specie nella prospettiva aperta dall’uso delle reti informatiche. Secondo quanto evidenziava Miraglia nella sua introduzione al volume, una delle novità consisteva “nell’aver integrato fra loro (…) due sistemi catalografici, quello bibliotecario e quello del settore storico-artistico (…) fino ad ora rigidamente distinti”[1212], oltre ad aver accolto “la necessità di inglobare nella scheda F anche la fotografia virtuale” ovvero, per meglio dire, digitale. La connotazione culturale della scheda risultava essere emanazione diretta della “volontà deontologicamente portante di passare da una definizione stantia e ormai ampiamente superata di fotografia, intesa in chiave esclusivamente servile e documentativa di un altro da sé referenziale (…) ad una concezione qualificativa di fotografia come bene storico-artistico. (…) Ciò ha comportato come sua naturale conseguenza due problematiche di natura diversa, vale a dire quello della soggettazione e quello di una adeguata riflessione sull’identità autoriale nel campo specifico della fotografia.”[1213] A quelle indicate dalla studiosa ne andava però aggiunta una terza, di ordine più generalmente concettuale e metodologico, riguardante la stessa definizione tipologica dell’oggetto di scheda, lì estesa sino a comprendere “ogni immagine originata in maniera diretta o indiretta dall’utilizzo della radiazione luminosa in una qualsiasi delle fasi di produzione, sino a poter comprendere di fatto gli stessi prodotti di fotocomposizione, fotoincisione e fotolitografici”, con una estensione del campo applicativo tale da rischiare la sostanziale inapplicabilità dello stesso progetto catalografico[1214]. A questa iperestensione si aggiungeva “l’accentuazione dell’intenzionalità di una comunicazione significante” (ICCD 1999, p. 16) cioè il riconoscimento dell’autorialità come unico elemento distintivo dell’oggetto, in un recupero idealistico che cancellava con un sol tratto un’identità ontologica e sociale faticosamente acquisita e implicava, senza assumerla esplicitamente, una sostanziale coincidenza tra i due distinti concetti di autore e artista e la conseguente identificazione della fotografia come opera, sì ma a patto che fosse qualificata almeno implicitamente come “d’arte”, ponendo di fatto in secondo piano la categoria ben più pertinente ed efficace di bene culturale.
La pubblicazione delle Norme offrì l’occasione per la pubblicazione di due testi[1215] che pur da prospettive e con metodologie diverse si proponevano come sussidi manualistici per il pubblico eterogeneo dei conservatori di archivi e fondi fotografici; pubblico in costante crescita numerica ma ancora scarsamente dotato delle pur minime competenze conservative e delle metodologie e procedure connesse. A questo era esplicitamente dedicato il volume curato da Silvia Berselli e Laura Gasparini, di impostazione chiaramente operativa, fondato sul principio che “il concetto di valorizzazione del patrimonio fotografico dovrebbe essere implicito in quello di conservazione, che, correttamente inteso, comporta studio, ordinamento, inventariazione, catalogazione, pubblicazione e riproduzione fotografica o digitale degli originali, in modo da fornire all’utenza una reale possibilità di accesso e di utilizzo del patrimonio.” A ciascuno degli aspetti sopra indicati era destinato un capitolo di approfondimento e di orientamento metodologico e procedurale, anche per quanto riguardava gli standard di catalogazione dei fototipi, comprese le norme recentemente emanate dall’ICCD e quelle previste dal precedente Manuale di catalogazione[1216] dell’IBC, senza esprimere orientamenti critici o esplicite preferenze in merito. Un atteggiamento diverso era invece quello assunto da Daniela Tartaglia, a cui si doveva la redazione del capitolo relativo alla catalogazione nel volume sulla “fotografia in archivio” curato con Zannier (2000). Dopo aver stigmatizzato le impostazioni metodologiche del Manuale, ma senza considerare le norme recentemente emanate dall’ICCD, la studiosa presentava il progetto di catalogazione informatica Alinari 2000-Save our memory, messo a punto dal gruppo fiorentino con Finsiel[1217] sulla base di un accordo del 1995, che prevedeva l’indicizzazione e la digitalizzazione di circa 150.000 immagini nei successivi tre anni, vale a dire la realizzazione di una base di dati accessibile in remoto per una quantità stimata corrispondente a circa il 10% del patrimonio archivistico totale. La prospettiva adottata non contemplava quindi l’adozione di uno standard né, conseguentemente, una possibilità di estensione ad altri archivi, quanto piuttosto la messa a punto di uno strumento contestualmente efficace. Nonostante questi limiti la proposta rappresentava un’occasione di riflessione metodologica particolarmente interessante, e forse poco considerata, sia per quanto riguardava i problemi posti dalla descrizione semantica e dalla definizione di vocabolari controllati sia come primo tentativo di messa a punto di schede catalografiche riferibili a insiemi più ampi e complessi come i fondi.
Non poteva che tener conto del nuovo quadro normativo anche il nuovo convegno promosso da “AFT” nel novembre 2000 (Goti et al. 2001), nel corso del quale la riflessione fu prevalentemente rivolta al contesto specificamente fotografico e in particolare alle questioni di tutela e catalogazione, anche in conseguenza dell’emanazione del Testo Unico D.L. 490/ 1999 che finalmente comprendeva le fotografie tra i beni culturali suscettibili di tutela[1218]. Nelle parole introduttive di Lusini si era “fatta più avvertita una nuova e più avanzata esigenza: una migliore individuazione delle competenze, una chiara definizione delle procedure, soprattutto la ricerca di un accordo sulle cose da fare e sul modo di farle (…) per dare seguito a un’azione coordinata su progetti condivisi, capace di mettere ordine in un settore ricco di iniziative che spesso soffrono di mancanza di collegamento, con la conseguenza che perdono di efficacia e rischiano di compromettere la stessa credibilità dell’impegno istituzionale.”[1219] Quali fossero, da sempre, le difficoltà di affrontare (catalograficamente, storiograficamente) nel modo più consapevole “la doppiezza della fotografia” venne sinteticamente chiarito nel breve intervento di apertura di Andrea Emiliani, che richiamava “tutte le ragioni, che sospendono e classificano l’entità più generosa della fotografia in creazione, documentazione, storicità ed infine esperienza dei nostri anni appena passati”, tali per cui “riesce straordinariamente difficile decidere il codice, per così dire ‘civile’ della fotografia, inscrivere questo prodotto, che è insieme sequenza e unicum, nelle categorie vigenti.”[1220] Ora la messa a punto della Scheda “F”, per buona parte liberata da quegli schemi descrittivi di matrice biblioteconomica che avevano seriamente compromesso l’efficacia del modello catalografico IBC, apriva la possibilità di realizzare una catalogazione del patrimonio fotografico compreso nel più ampio contesto del Sistema Informatico Generale del Catalogo (Sigec) di tutti i beni culturali italiani; ipotesi favorita dal contemporaneo sviluppo delle basi di dati e delle reti informatiche ma ancor oggi ben lontana dall’essere supportata da un efficace software di catalogazione web oriented[1221].
Le due sessioni centrali dell’incontro di Prato (Metodi e strumenti; La catalogazione) affrontarono le questioni di ordine generale e le problematiche poste dalle prime, rilevanti esperienze applicative della Scheda “F” in contesti di ampia e consolidata esperienza catalografica come quelli della Regione Lombardia[1222], della Regione Piemonte[1223] e dell’Archivio Fotografico Comunale di Roma[1224], mentre si delineavano le prime ipotesi di un tracciato catalografico destinato alla descrizione dei fondi e delle raccolte[1225]. Le altre sessioni trattarono aspetti connessi, come la digitalizzazione delle immagini e la messa a punto di vocabolari normalizzati e di authority file che consentissero di gestire le relazioni tra forma autorevole e varianti fattuali. Alle soglie della diffusione massiccia di Internet e con l’intenzione esplicita di avviare un’azione coordinata su progetti comuni, nel corso dell’incontro vennero avanzate alcune proposte quali la Conferenza periodica degli archivi o la Lista di discussione sulla fotografia. In ambito più propriamente informatico venne auspicata la realizzazione del fondamentale Catalogo unificato del patrimonio fotografico italiano e la costituzione di due banche dati in cui far confluire gli elementi identificativi dei fotografi attivi in Italia ma anche le informazioni sulla conservazione e il restauro delle fotografie; il tutto inserito in una più generale e generica “rete di comunicazione” che avrebbe dovuto costituire lo strumento e il canale di condivisione. Di tutte queste proposte nessuna ebbe purtroppo esito, tranne la lista di discussione “s-fotografie”; tutt’oggi esistente ma scarsamente attiva.
Storie e fotografie
La breve stagione delle Storie fotografiche dell’Italia
Una semplice ricerca in OPAC condotta nel febbraio 2015 ha consentito di individuare, solo per l’Italia, almeno un centinaio di storie fotografiche di diverso argomento[1226] pubblicate nel periodo 1990-2003, con un picco per gli anni 1998-1999 quando venne data alle stampe la “Storia fotografica della società italiana”[1227] degli Editori Riuniti, diretta da Giovanni De Luna e Diego Mormorio. Si trattava di una serie di 20 volumetti in brossura mandata in edicola e in libreria con cadenza quindicinale, alternando uscite tematiche (lo sport, l’emigrazione, la religione) a periodizzazioni storiche (il Risorgimento, l’Italia liberale, la seconda guerra mondiale[1228]). A questa collana era editorialmente collegata l’Autobiografia di una nazione: storia fotografica della società italiana, un volume curato da De Luna con Luca Criscenti e Gabriele D’Autilia per lo stesso editore, che sotto un titolo dagli echi ambiguamente gobettiani antologizzava le immagini pubblicate nei fascicoli tematici di cui vennero utilizzati gli impianti tipografici, riproponendone perciò formato, impaginazione ed anche la scarsa qualità di stampa. Per Criscenti e D’Autilia che firmarono il testo introduttivo[1229] l’intenzione dichiarata era quella di “raccontare la storia d’Italia attraverso la fotografia (…); di documentare la storia della società e della mentalità[1230] di un paese unificato politicamente ma ancora oggi alla ricerca di una identità. (…) La storia sociale, politica, economica e culturale del nostro Paese dal Risorgimento fino alla fine del millennio vede negli scatti celebri e sconosciuti un documento emozionante di insostituibile valore storico.” Il tasto emozionale pareva essere la chiave di lettura storica, storiografica ed editoriale insieme, poiché – si ribadiva – “la storia raccontata con la fotografia è una storia affascinante e spettacolare: il racconto attraverso l