Materiali per Architetture dello sguardo (2003)

ARCHITETTURE DELLO SGUARDO

 

Considerazioni preliminari

 

Il titolo va inteso in una doppia accezione: quella del narrare di architetture così come ci vengono raffigurate e rappresentate, restituite dai diversi sguardi che le hanno osservate e lette, ma anche quella che considera i modi del guardare, gli sguardi come dotati ciascuno di una propria strutturazione espressiva e narrativa che va riconosciuta e compresa. Va inoltre detto che qui non si tratta né di raccontare la fotografia né tanto meno di raccontare l’architettura o la città. Come era per il volume degli “Annali” dedicato all’Immagine fotografica, la lettura qui proposta “Si situa di proposito in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.” (Bollati, 1979, p. 5)  Si proverà allora ad affrontare alcuni temi della condizione urbana dalla metà del XIX secolo ad oggi per sottoporre a verifica empirica le “modalità di funzionamento” della fotografia come forma di raffigurazione/ rappresentazione e i differenti modi in cui le fotografie e i fotografi hanno raccontato e raccontano (e “subiscono”) questo fenomeno complesso e in continua mutazione che chiamiamo città (ma anche metropoli e megalopoli ecc).

 

Una questione banale

Il primo problema da affrontare riguarda certamente la distinzione tra fotografia di architettura (città, paesaggio), in cui questa è, esplicitamente, argomento del discorso (con ulteriori specificazioni tra pratica professionale e pratica artistica, vedi T. Riley) e fotografie in cui compaiono architetture (città, paesaggi), per le quali si può presumere che – non essendo queste il tema centrale – il livello di “interpretazione” sia inferiore, consentendo per certi versi di rivelare il valore indiziale della fotografia, valore sul quale – seppure implicitamente – si fonda il riconoscimento della fotografia come fonte documentaria in senso puramente (e riduttivamente) referenziale: la fotografia che documenta altro da sé. Ne deriva un seconda distinzione da sottoporre a verifica, quella (per certi versi collegata alla prima, ma non necessariamente) tra documentazione, per definizione intenzionalmente “fedele” e presuntivamente “oggettiva” (fedele in quanto oggettiva, ma anche viceversa), e narrazione, alla quale è riconosciuta legittima una possibilità – e ancor prima una volontà – di invenzione, senza che questa dicotomia possa però aiutare a distinguere, ad esempio, tra professione (che può essere narrativa) e pratica artistica (che può assumere lo stile dell’oggettività, si pensi ai Becker). Semmai si può dire che la fotografia di architettura  è sempre frutto di una intenzionalità, di una volontà esplicita che presiede almeno alla scelta del soggetto, mentre le fotografie in cui compaiono architetture sono frutto di una intenzionalità orientata a soggetti diversi da questo. Si pone allora la questione del perché possano interessarci anche questo genere di immagini, perché riconosciamo in esse una funzione documentaria utilizzabile ed efficace, un “grado zero” che si fonda tutto sulla natura (di segno) della fotografia. Va quindi affrontata – seppure per sommi capi – la questione della  natura della fotografia: perché si può dire che una fotografia “documenta” e – se sì -che cosa.

È allora indispensabile ipotizzare in primis un processo cognitivo:

* Osservo un’immagine e la riconosco come fotografia.

* Conosco le modalità di produzione della fotografia

* Deduco da questa sequenza di azioni il valore documentario referenziale (“oggettivo”) o meglio la possibilità di riconoscere insiemi di segni (l’immagine) che su di questo fondano il loro significato.

La necessità imprescindibile del riconoscimento è data anche dal fatto che “Dobbiamo trovare nelle rappresentazioni stesse  la misura e il criterio della loro verità (…) le rappresentazioni sono perciò non imitazioni ma organi della realtà, nel senso che soltanto attraverso esse qualcosa diviene un oggetto da noi compreso e per noi reale.”  (N. Goodman, p. 72) e, più nello specifico,  che “Vi è un rapporto magico con le cose, nella fotografia, che il nostro inconscio non ha potuto non captare: ciò che è fotografato  sicuramente esiste.” (Bertelli, 1984 che si appropria di Barthes). Qui emergono due derivazioni teoriche che implicano un concetto di fotografia come traccia (indizio) che è di Peirce, sebbene in Barthes persista una derivazione linguistica:

Barthes che parla di “fatalità” della fotografia: “senza qualcosa o qualcuno, non vi è foto alcuna.” (1980: 8), ma dice anche che “Nella fotografia io non posso mai negare che la cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. (..) Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: È stato, o anche: l’Intrattabile.”(ibidem: 78)

Schaeffer, per l’attenzione portata agli aspetti di ricezione: “in ogni atto di ricezione di una fotografia vi è un momento iniziale che consiste nell’identificazione dell’immagine come un’immagine fotografica. È dal realizzarsi di questa identificazione che in gran parte dipende la costruzione del segno. Se infatti essa manca, l’immagine non sarà tematizzata come indicale: la si guarderà come semplice icona analogica.” (Schaeffer, 1987, p. 111)

“È essenziale, allora, il ruolo del ricevente, a cui spetta tenere conto sia della materialità indicale connessa alla genesi della fotografia in quanto impronta fisica, sia dei codici iconici e delle convenzioni culturali che intervengono nella sua circolazione sociale in quanto rappresentazione visiva. È il ricevente che deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità del segno fotografico, il quale oscilla fra “indice iconico” e “icona indicale” attraverso “un numero indefinito di stati [. ..] lungo una linea continua bipolare tesa fra l’indice e l’icona.” (Signorini, 2001, pp.  111-112)

 

Tra semiotica e storia

È chiaro da questi primi accenni come l’orizzonte disciplinare della scienza dei segni costituisca uno dei riferimenti principali da utilizzarsi per rispondere alla questione se si possa dire (perché possiamo dire) che la fotografia documenta. Resta però, altrettanto rilevante, il secondo termine dell’interrogazione: di cosa sia documento una fotografia e risulterà chiaro come la definizione di questo ordine di problemi non possa che far ricorso alle scienze storiche, e in particolare alle differenti metodologie analitiche che appartengono all’ambito della critica delle fonti documentarie, del documento in quanto monumento (“dovere principale” dello storico, per Le Goff). Il passaggio da “la” fotografia ad “una” fotografia, implica quindi la definizione di un percorso, di una connessione logica tra il funzionamento assoluto (il meccanismo comunicativo) astorico, e la sua manifestazione concreta, oggettuale e temporale: storica. In particolare gli strumenti che utilizzeremo per comprendere le “modalità di funzionamento” assoluto della fotografia fanno riferimento non tanto ad analisi di tipo semiologico (derivate dalla linguistica di Saussure), quanto di tipo semiotico (con riferimento alle rielaborazioni delle riflessioni filosofiche di Peirce): le immagini che presentiamo non sono interpretate “come segno. È segno ogni cosa che possa essere assunta come un sostituto significante di qualcosa d’altro.” (Eco, 1975, p. 20) semmai come sintomo.  Le fotografie che prendiamo in considerazione non possono essere in senso proprio un “sostituto significante di qualcosa d’altro” ma piuttosto “indizi” che presuppongono e implicano necessariamente l’esistenza di qualcosa d’altro, che si ritrovano all’incrocio di una società, una tecnologia, una cultura collettive e individuali.

 

Relazione segno-oggetto

Indice: esistenza fattuale, connessione di fatto con l’oggetto.

Icona: qualità materiale della funzione segnica: somiglianza qualitativa (formale).

Simbolo: connessione in base ad una interpretazione, possiede in sé stesso la funzione rappresentativa oltre alle altre due. (Peirce)

Come nota Umberto Eco, con la sua apparente semplicità e facilità d’uso, “questa distinzione è stata usata liberamente da molti autori e in molti contesti così da perdere il senso vero che aveva nel pensiero peirciano”, nel quale -coerentemente con la concezione della relazione segnica e della semiosi illimitata -“non esistono segni che presentino una categoria allo stato puro”, e quindi icona e indice vanno intesi non come tipi di segno, come entità a se stanti, bensì come aspetti astratti di un processo interpretativo, che solo nel simbolo trova la sua pienezza. Dunque non si hanno né pure icone, cioè relazioni Segno-Oggetto per somiglianza qualitativa, né puri indici, cioè relazioni Segno-Oggetto per connessione di fatto, ma piuttosto simboli, ovvero relazioni Segno-Oggetto per convenzione rappresentativa, in cui di volta in volta “un costituente [. ..] può essere un Indice, e un altro costituente può essere un’Icona”, cioè in cui può essere presente un aspetto di somiglianza qualitativa e/o uno di connessione fattuale.” (Eco e Peirce, in Signorini, 2001,p. 78)  Pensiamo, per comprendere l’articolarsi dei costituenti dell’immagine fotografica, ad un esempio che dopo l’11 settembre 2001 ha assunto valore canonico: una fotografia  delle Twin Towers del Word Trade Center di N.Y. Qui ciascuna figura è in primis “indizio”, traccia lasciata sul materiale fotosensibile dall’accadimento reale (anche se poi ho bisogno di strumenti ulteriori, di strumenti diversi o di fonti secondarie correlate, per riconoscere e distinguere la ‘realtà’ di una di queste foto da quella fornita da un fotogramma di un film come Armageddon). Essa è però contemporaneamente “icona” perché raffigura “per similarità” il suo soggetto, ma è anche – e soprattutto in questo caso – “simbolo”, per l’accumularsi di significati intorno all’evento raffigurato.  In questo senso, e restando nell’ortodosso universo peirciano, essa è compiutamente segno. Ma la coppia narrazione/ documentazione con la quale abbiamo aperto queste riflessioni rimanda  alla distinzione fondamentale operata da Jacques Le Goff  tra monumento e documento: “La memoria collettiva e la sua forma scientifica, la storia, si applicano a due tipi di materiali: i documenti e i monumenti.” (Le Goff , 1978,. p. 38) dove il monumento  è convenzionalmente tutto ciò che può perpetuare il ricordo e rimandare a testimonianze ed è -prevalentemente- atto volontario, mentre il documento è  “scelta dello storico”,ma non per questo è costitutivamente privo di intenzionalità: “Non esiste un documento oggettivo, innocuo, primario (…) il documento non è una merce invenduta del passato, è un prodotto della società che lo ha fabbricato secondo i rapporti delle forze che in essa detenevano il potere.” (Le Goff , 1978, pp.  44-45), quindi “Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro -volenti o nolenti- quella data immagine di se stesse.” (Le Goff , 1978, p. 46) cioè non esiste documento che non corrisponda in una qualche misura (da ri-conoscere da parte dello storico) alle “intenzioni”, alla cultura espressa da una determinata società. Per queste ragioni il “monumento” iconografico prima di essere utilizzato quale “prova storica indubitabile”, quale “documento” in senso referenziale, deve essere “liberato”  nella sua immagine e nel suo messaggio “da un complesso di superfetazioni -strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica- immancabilmente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista”.  (G. Romano, 1991, p. 26).  Queste ultime precisazioni  valgono ovviamente solo nel caso in cui il documento/ monumento, l’immagine nel nostro caso, debba essere letto ed utilizzato come testimonianza puramente referenziale, solo nella sua componente indicale che rimanda ad un oggetto altro da sé: solo in questo senso è indispensabile considerare i documenti (anche iconografici) quali “testi storici che necessitano di un attento controllo filologico prima di poter entrare in un discorso funzionale ad accertamenti scientifici” (G. Romano,  1991, p. 26), ci si deve cioè chiedere non solo di cosa parla quel determinato documento, ma anche di cosa è testimonianza, vale a dire che se l’oggetto del discorso scientifico è proprio il documento/monumento è invece indispensabile riconoscere e analizzare, mantenere presenti proprio quelle “superfetazioni”, senza la coscienza delle quali risulterebbe impossibile comprenderne le stesse forme di esistenza. Ciò che noi tenteremo di fare allora sarà proprio di distinguere senza disgiungere gli elementi documentari e quelli “monumentali” o – più propriamente – culturali in senso specifico e in senso lato, vale a dire verificheremo la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo alle immagini a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale, quell’oggetto di cui l’immagine fotografica è index.

“Chiamo “referente fotografico”, non già la cosa facoltativamente  reale a cui rimanda un’immagine o un segno, bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna.” Barthes, 1980: 77-78). Quindi – in termini peirciani si può dire che il “referente fotografico” è l’oggetto di cui (quel)la fotografia costituisce l’index. Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un doppio valore documentario e quindi di fonte: quale prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individualità e materialità di oggetto, ma anche quale testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del referente, per la quale il valore della fotografia come fonte prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi ma anche sullo stato delle cose, sulla cultura sociale ed individuale (dell’autore, del committente), sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata. Da qui, ad esempio la possibilità di analizzare e restituire un significato alla scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze e da qui anche la necessità di non operare (nel lavoro storico-critico) per immagini singole, ma di utilizzare serie documentarie, correlando i dati iconici e iconografici della fotografia con quelli desunti da ogni altro tipo di fonte. Vanno quindi pensate e ricordate, ad esempio, le diverse e differenti situazioni e condizioni, le innumerevoli immagini che costituiscono il fenomeno urbano, cercando di comprendere a quali di queste si è prioritariamente rivolta la fotografia in ciascun periodo storico, e quali forme stilistiche questa “attenzione” ha di volta in volta assunto. È ancora la questione del cosa (storicamente) si è scelto di fotografare (cosa occultare, cosa scartare, cosa non vedere) e come.

 

Ri-produrre lo spazio (costruito) ovvero come la fotografia descrive l’architettura

Un primo elemento da prendere in considerazione sarà la cultura visiva all’interno della quale si colloca l’invenzione della fotografia, di come l’immagine del mondo e delle cose che essa ci restituisce sia fondamentalmente ed univocamente determinata da quello che Vaccari ha definito l’inconscio tecnologico, connessione chiaramente espressa in questa riflessione di Rudolf  Wittkower: “Una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”. (cit. in Bertelli, 1984)

Alcune dichiarazioni di principio

“La fotografia architettonica non può essere fotografia artistica, essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve negarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”, T.H.B.SCOTT (vicepresidente della Royal  Photographic Society) in  J.R.H. Weaver, 1925

“Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo.” (J.R.H. Weaver, 1925)

“Così come l’architettura può essere arte o scienza del costruire così la restituzione fotografica dei risultati può interpretare o registrare le intenzioni dell’architetto.” (Molitor, 1976)

Funzione della fotografia è di “interpretare sinceramente l’architettura.” (Molitor, 1976), sebbene poi risulti difficile stabilire cosa ciò voglia dire.

Terence Riley, nella sua introduzione a Szarkowski , 2000, p.  xv, introduce “The distinction between architectural photography, as a profession, and the photography of architecture, as an art practice…”

mentre Ezra Stoller (1990, p.  9) ritiene che “You can’t have great architectural photography without great architecture.”

È chiaro che prima di rispondere al quesito posto nel titolo del paragrafo si dovrà tentare di definire (o almeno prendere in considerazione) le diverse idee sull’architettura. A ciascuna concezione corrisponde infatti una differente interpretazione delle possibilità interpretative o documentarie fornite dalla fotografia.

“la quarta dimensione è sufficiente a definire il volume architettonico, cioè la scatola muraria che racchiude lo spazio. Ma lo spazio in se – l’essenza dell’architettura – trascende i limiti della quarta dimensione. ( …) Ai nostri fini basta stabilire che lo spazio architettonico non è definibile nei termini delle dimensioni della pittura e della scultura.” (Zevi, 1970: 27)

“Risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, e perciò i problemi della pittura e della scultura, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale. Le vedute fotografiche rendono bene l’effetto della scatola muraria (…) Ma se, come abbiamo ormai chiarito, il carattere precipuo dell’architettura è lo spazio interno e se il suo valore deriva dal vivere successivamente tutti i suoi stadi spaziali, è evidente che né una né cento fotografie potranno esaurire la rappresentazione di un edificio, e ciò per le stesse ragioni per cui né una né cento prospettive disegnate potrebbero farlo. Ogni fotografia abbraccia l’edificio da un solo punto di vista, staticamente, in un modo che esclude quel processo che potremmo chiamare musicale di successioni continue di punti di vista che l’osservatore vive nel suo moto entro e intorno all’edificio. Ogni fotografia è una frase staccata di un poema sinfonico o di un discorso poetico il cui valore essenziale è il valore sintetico dell’insieme. (…)

La scoperta della cinematografia è di immensa portata per la rappresentazione degli spazi architettonici perché, se applicata bene, essa risolve praticamente tutti i problemi posti dalla quarta dimensione. Se percorrete un edificio con un apparecchio cinematografico e poi ne proiettate il film, voi rivivete il vostro cammino e una gran parte dell’esperienza spaziale che si è ad esso accompagnata”. (Zevi, 1970:  46-47) In questo senso non si può non pensare ai critofilm di Ragghianti (La certosa di Pavia, 1961; Il tempio malatestiano, 1962; Antelami: battistero di Parma, 1963 e Stupinigi, 1964) anche se questi erano piuttosto concepiti come “critica d’arte -penetrazione, interpretazione, ricostruzione del processo proprio del/’opera d’arte o dell’artista -realizzata con mezzi cinematografici” (Ragghianti, 1973, p. 231) piuttosto che pura esperienza di percezione e lettura dello spazio come sembra essere in Zeri. Le riserve di Zevi si ritrovano anche, in anni di poco successivi, in E.N. Rogers per il quale “Fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi.” (Rogers, 1955) Entrambi poi sembrano risentire della eco delle parole di Wright, il quale introduceva però una sottile distinzione: “Se si vuole cogliere il carattere essenziale di un edificio organico [n.b.] non si deve ricorrere alla macchina fotografica, perché esso è integralmente fatto di esperienza. (…) La profondità sfida il piatto occhio fotografico.” F.L. Wright, 1963, p. 144)  Va però ricordato che per Zannier, , 1991, p.  120 Zevi fu invece tra i primi a concedere “generosi spazi alla fotografia più trasgressivamente critica, sebbene spesso dilettantesca (quale la fotografia degli studenti della Facoltà di Architettura), nella sua rivista “Architettura. Cronache e storia”, nei primi anni Cinquanta.”

 

UN INEDITO MODELLO DI LAVORO PER UN FOTOGRAFO DI ARCHITETTURA

 

“At the outset, it seems important to underscore that John Szarkowski’s The Idea of Louis Sullivan is not a book of photographs of Sullivan’s work, nor is it a biography. Rather, it is an immensely sensitive portrait of the architect as a thinker, seen through images of his buildings and excerpts of his writings. Acting principally as a photographer, but contributing greatly as an editor, interviewer, and essayist, Szarkowski evokes Sullivan’s enormous creative capabilities, both intellectual and productive, as they might be gleaned in the well-known midlife photographic portrait of 1900. Neither hagiography nor reportage, it should also be mentioned that Szarkowski’s portrait is not a hermetic psychobiography (there have been enough of those of late) but one that includes a profound understanding of the stage upon which Sullivan’s dramatic life was acted out -most importantly Chicago and its Midwestern culture.” Terence RILEY, in J. SZARKOWSKI, 2000, intro.

Ricordare che lo stesso Sullivan fotografava le proprie e altrui architetture (con una Graphic View Camera 4″x5″), ZANNIER, 1991

 

“It is impossibile to see architecture in its full complexity at once: Architecture is made up of details, fragments, fabrications. And the very idea behind it can be captured in a fragment, in a detail.” (HEJDUCK, 1980: 11)

 

“La sequenza di dettagli d’un solo monumento [questa razionalità nuova (…) che scompone l’unità apparente (e) riconduce ogni elemento allo stesso grado di leggibilità] costituisce un discorso a se. Se la fotografia d’insieme è una metafora (associativa e simultanea, astorica) del monumento reale, l’insieme dei dettagli ne costituisce una metonimia (sintagmatica e sequenziale, storica) (…) la nostra consapevolezza del rapporto di tempo fra la presa fotografica e la realtà ci costringe ad ammettere una circolazione all’interno dell’edificio.”, (BERTELLI, 1984: 7)

 

 

“La realizzazione delle fotografie, fu tra le più interessanti, non tanto per i risultati poi ottenuti, quanto perché (…) sembrò che mi si rivelasse il segreto per un approccio all’architettura ed alla sua rappresentazione fotografica.

Più il lavoro procedeva, e più paradossalmente non ne vedevo la fine, anzi mi restava ancora più lavoro da svolgere, mi restavano da vedere e inquadrare nuovi angoli, nuovi punti di vista per ogni piccolo movimento nello spazio, le prospettive appena riprese si ripetevano dopo pochi minuti con un aspetto rinnovato, la luce continuava incessantemente a modificare il senso e l’aspetto, a colorare diversamente volumi e superfici. (…) *

Il fatto è che le opere da così semplici e lineari, un cubo rosso traforato e appena più in fondo la lunga linea di un parallelepipedo sdraiato, i rosa e azzurro, si rivelavano pieni di una vitalità imprevista, e questo  chiarì in maniera definitiva anche tutti i dubbi e sospetti che nutrivo da tempo nei confronti della fotografia d’architettura.

In effetti in questo genere di fotografie  vi leggevo sempre una semplificazione o il tentativo di creare una iconografia dell’opera  architettonica, un atto di autenticazione che sembrava consegnare l’architettura al regno di una ripetizione indifferente, incapace di inventare altre soluzioni.

Come è noto, c’è un percorso che comincia con il disegno progettuale,  attraversa le fasi che ben conosciamo e si risolve nella costruzione  dell’edificio. Il manufatto alla fine, viene autentificato dalla fotografia.

Alla fine di questo percorso, abbiamo una specie di stereotipo  dell’immagine architettonica, molto simile ad uno “still-life” ma i eseguito nel mondo esterno.

Anche se spesso queste “nature morte” sembrano imbrigliare e catturare lo sguardo per la singolare e vertiginosa precisione, mi ricordano però anche un po’ la fotografia di un plastico dell’edificio, più che l’architettura realizzata; cieli quasi sempre limpidi ed immobili, la macchina in asse e in bolla, il decentrabile o basculaggio per evitare distorsioni, la messa a fuoco più precisa per ottenere il massimo di nitidezza, sono il rituale necessario anche se affascinante, per consegnare l’architettura all’archiviazione museale.”

Luigi Ghirri, Per Aldo Rossi, in “Fotologia”, n.10. febbraio 1988, pp.54-55.

*Qui ritorna il senso di impotenza, l’impossibilità di esaurire fotograficamente l’esperienza dell’architettura che era già in Zevi, ma certo questa “difficoltà” non può essere propria della fotografia di architettura, semmai dell’intenzione ingenua di poter riuscire a documentare esaustivamente, ad “esaurire” qualsiasi soggetto.

1984 11

“Massimamente la fotografia compone. Sul continuo reale preleva rettangoli di immagine imponendo un ordine apparente. La verità che le attribuiamo (…) c’induce ad attribuire quello stesso ordine alle cose che vediamo.” (BERTELLI, rifacendosi a Moholy-Nagy).

Ciò direi è particolarmente evidente nella fotografia di architettura, per la quale sovente accade (specie nella fotografia per riviste) che all’ordine della composizione architettonica si sovrapponga un “ordine della fotogenia”:

 

Si vedano a questo proposito le seguenti considerazioni da Stoller

 

“Stoller, as many photographers do, acknowledged the imperatives of magazine layout. When a print was ordered from him in these years, he would ask whether the purchaser wanted it cropped according to his (the photographer’s) judgment or full frame so that it could be cropped as needed for a layout. Since both vertical and horizontal pictures are needed for a varied magazine layout, both types are taken even if they do not come naturally from the forms of a building. However, vertical pictures especially appeal to a photographer because they can be full page and lend themselves for use on magazine covers. In the nineteenth century when magazine plates w ere customarily vertical, photographers did not hesitate to make vertical photographs, though such pictures could go completely against the character of their subjects. In more recent years many a photographer has used the presence of a tree as the excuse to make a vertical photograph of a building that was primarily horizontal in nature.” (C.ROBINSON, 1987: 143)

 

“Despite this diversity, a guiding, consistent, and coherent spirit makes a fine Stoller picture, much to his chagrin, recognizable as “a Stoller” (architects spoke of their work being “Stollerized”.” W S.SAUDERS, 1990: 7).

 

Affidando analoghe considerazioni ad una sensibilità critica più raffinata e tentando una generalizzazione possiamo dire che “il nostro rapporto con l’immagine si presenta sotto un doppio aspetto: noi riceviamo delle immagini (fisse o in movimento) e ne fabbrichiamo. Fabbricare delle immagini (fotografare, filmare) è al tempo stesso appropriarsi dello spazio e trasformarlo, in certo modo: consumarlo. Così la ” ripresa”  assegna come fine ultimo allo spazio e alla storia che vi si svolge lo spettacolo di cui essi avranno fornito la materia prima: impone loro un cambiamento di natura, di luogo e di temporalità.” (M. AUGÉ, 1999: 109)

 

IL PROBLEMA METROPOLITANO

Quando lo “spazio” di riferimento non è quello dell’architettura

 

Per A.Doblin (1928) la metropoli moderna [ma è tautologia: la metropoli è solo moderna] si offriva confortevolmente al fotografo e all’osservatore. Bastava percorrerne una sola strada per conoscerne tutte le altre, del tutto simili alla prima. (M.DE MICHELIS, in TEYSSOT, 1988: 86)

 

 

MA

 

“Nessuna immagine fissa di questa città può descrivere più di un punto di un vasto spettro di possibilità, uno spettro che dovrebbe essere quadridimensionale e comprendere la dimensione temporale. Tuttavia sembra esserci qualcosa nella città moderna che induce poeti, pittori, pianificatori e politici a creare immagini che cristallizzino la sua vita in elementi costitutivi statici.” (Marshall BERMAN, in TEYSSOT, 1988: 251)

 

Esiste una “connessione tra esperienza metropolitana e modificazione profonda, o addirittura, crisi della rappresentazione (…) L’esperienza della metropoli è vissuta principalmente come esperienza della perdita del centro (…) Tutto ciò che aveva a che fare con l’ordinamento dello spazio dal punto di vista prospettico e gerarchico -centro/ periferia, monumentalità, assialità- era legato a una visione centrale che oggi ci pare più difficile da realizzare.” (G.VATTIMO, in TEYSSOT, 1988: 268)

 

“Dato uno svincolo stradale esso è un nodo multiplo senza intersezioni o, se si preferisce, un’intersezione senza incroci né crocevia” (Michel Serres) Sullo svincolo stradale, anche se ritorniamo sullo stesso punto, saremo tuttavia su di un’altra strada (…) siamo così entrati nell’era della deterritorializzazione. È stata varcata una soglia di percezione. Un tale passaggio nella percezione porta con sé almeno due conseguenze. Da una parte, la realtà fisica dell’ambiente urbano può essere percepita solo in forma frammentaria o per mezzo di rappresentazioni. Dall’altra, immediato corollario, ogni forma di olismo urbano appartiene per sempre al passato..” (GEORGES TEYSSOT, 1988: 13)

 

 

 

 

Temi

 

Comunicare l’architettura: riviste ed editoria architettonica.

 

Studiare (fotograficamente) l’architettura

 

Architetti-fotografi: Le Corbusier, Pagano, Gabetti, Quaroni, Portoghesi, Rossi

 

 

BIBLIOGRAFIA CITATA

 

Marc AUGÉ, Disneyland e altri nonluoghi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

Roland BARTHES, La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980.

Carlo BERTELLI, La fotografia come critica visiva dell’architettura, in “Rassegna”, n.20, 1984, pp. 6-13.

Giulio BOLLATI, “Nota su fotografia e storia”, in G.BOLLATI, C. BERTELLI, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia – Annali”, 2, Torino, Einaudi, 1979, pp. 5-55.

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John HEJDUCK, “The Flatness of Depth”, in Judith TURNER, Photographs Five Architects, London, Academy, 1980.

Jacques LE GOFF, “Documento/Monumento”, in  Enciclopedia Einaudi, V, 1978, pp.38-48, ora in  Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1986.

Nicolò LEOTTA, Photometropolis. Per una sociologia visuale della città, Pescara, Le Vespe, 2000.

Marina MIRAGLIA, La costruzione iconografica del “monumento” architettonico, in “Rassegna”, n.20, 1984, pp. 83-87.

Joseph W. MOLITOR, Architectural Photography, New York, John Wiley & Sons, 1976.

Eugenio PACCHIOLI, Elena VOLPATO, a cura di, I Critofilm di Carlo Ludovico Raggianti, Ivrea, Associazione Archivio Storico Olivetti, 2000.

Photographier l’architecture 1851-1920. Collection du Musée des Monuments français, catalogo della mostra, Paris, Editions de la Réunion des Musées Nationaux, 1994.

Carlo Ludovico RAGGHIANTI, Arti della visione: I Cinema, Torino, Einaudi, 1973  (I ed. 1952).

Cervin ROBINSON, Joel HERSCHMAN, Architecture Transformed. A History of the Photography of Buildings from 1839 to the present, Cambridge/Mass., The Mit Press, 1987.

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