“Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna” (2015)

in Cinzia Frisoni, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 26-11-2015/ 28-02-2016). Bologna:  Bononia University Press, 2015, pp. 13-28

 

Al titolo segue l’indirizzo, ma nessuna indicazione relativa al contenuto compare in copertina di quel primo fascicolo pubblicato da Pietro Poppi intorno al 1871[1].  Manca perciò ogni riferimento ai soggetti , ma sul genere non potevano esserci dubbi: a quelle date uno studio fotografico avrebbe potuto pubblicare solo un repertorio di riproduzioni di monumenti, quadri e disegni, certo non di ritratti o altro.

“Quale è l’importanza annua delle fotografie che si fanno nel vostro stabilimento? Vi occupate specialmente delle vedute di monumenti, e della riproduzione di quadri, disegni ecc.?”  si chiedeva nel questionario (“interrogatorio”) utilizzato per l’Inchiesta industriale promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1870 e realizzata attraverso la rete delle Camere di Commercio[2].  E ancora: “Credete voi che possano farsi qui fotografie di monumenti, quadri ecc. ugualmente bene, ed allo stesso prezzo che all’estero? Si fa esportazione dall’Italia di tali fotografie, e quale ne giudicate l’importanza?” Questi i quesiti posti  nello stesso anno in cui il Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”[3].

Sono domande che rendono immediatamente chiaro quale fosse già allora il settore che più connotava la produzione dei principali studi fotografici attivi in Italia, anche nella percezione delle burocrazie ministeriali. Poppi fu tra i molti che non risposero all’Inchiesta, sebbene non dovesse  condividere l’opinione di Michele Schemboche che “i fotografi che si danno all’industria della riproduzione dei monumenti (e sono queste le sole fotografie che trovino all’estero facile smercio) si trovano a Roma, a Venezia, a Firenze, città eminentemente artistiche”[4].  E Bologna certamente non lo era, e non solo nell’opinione degli incolti. Quella necessità, evidente, di rivolgersi specialmente a una clientela straniera doveva essergli ben chiara già in occasione del suo secondo catalogo (1879), stampato in francese;  consuetudine che venne mantenuta anche nel successivo del 1883, nel quale non solo si indicavano le località rappresentate, ma l’elenco comprendeva appunto “città eminentemente artistiche” come Roma e Firenze, nel tentativo di adeguarsi alle pratiche commerciali dei grandi studi, ben delineate da Giacomo Brogi:  essendo “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene (…) abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto”[5].

A Bologna l’edificio di via Mercato di Mezzo 56 era noto come Casa Campogrande. Fu  qui, in anni quasi concitati, che ebbero sede l’Officina di Fotografia di Dioneo Tadolini (dal 1857) e lo studio del polemico Emile Anriot (dal 1861-1862), posto “all’ultimo piano e non al primo”, come opportunamente precisava un avviso[6]. Qui Pietro Poppi, all’epoca ancora pittore ben presente nelle esposizioni locali[7], aveva aperto nel giugno 1863 una cartoleria in società con Adriano Lodi; attività formalmente chiusa quando, secondo la testimonianza per più ragioni affidabile di Carlo Malagola, in quell’edificio “lo Stabilimento Poppi [venne] fondato nel 1865 col titolo di Fotografia dell’Emilia”[8].   Senza dimenticare che nel frattempo Roberto Peli, dopo il distacco da Anriot e lo spostamento di quest’ultimo in Via San Mamolo nel 1864, aveva aperto un proprio studio (Nuova fotografia Peli), adottando come recapito proprio la cartoleria Lodi e Poppi. Si direbbero anni di tentativi incerti, di iniziative diverse destinate quasi a tastare il terreno, a verificare le possibilità del nuovo mercato delle fotografie che si andava definendo, come la società Peli, Poppi & C.[9], che stabilì la propria sede in strada San Mamolo 102, vale a dire nello stesso edificio in cui si era trasferito Anriot. Quasi per dispetto verrebbe da dire, specie considerando il fatto che la società ebbe breve vita[10].

Era il 1866. Lo stesso anno in cui lo “Stabilimento fotografico dell’Emilia” non solo era in piena attività ma ricevette il suo primo riconoscimento pubblico sotto forma di un articolo pubblicato ne “Il Monitore di Bologna”[11], in cui si lodava la riproduzione fotografica “dei 75 quadri, dell’Inferno (…) ormai celebri in Europa, del Sig. Gustavo Doré (…) per gentilezza usatagli dall’egregio Sig. Francesco Ratti, professore di questa nostra R. Accademia di Belle Arti”. Il brano offre con tutta evidenza informazioni per noi fondamentali: non solo ci informa di uno dei primi lavori di ‘riproduzione’ di opere d’arte,  qui condotto con largo anticipo sulla loro pubblicazione italiana[12], ma conferma i suoi legami con gli ambienti dell’Accademia bolognese  e suggerisce un elemento forte per la definizione del passaggio di Poppi dalla pratica pittorica a quella fotografica.  Certo, l’amicizia e la collaborazione con Roberto Peli. Certo, almeno in via ipotetica, la frequentazione delle lezioni che Anriot impartiva a pagamento, ma un ruolo centrale dovette svolgerlo proprio Ratti, docente di xilografia all’Accademia  più che interessato alle nuove tecnologie fotografiche[13]  e inoltre, dato per noi più significativo, vicino a Luigi Sacchi, con cui aveva collaborato all’edizione illustrata dei Promessi Sposi. Quello stesso Sacchi che dopo il passaggio alla fotografia documentò verso il 1852 le Arche dei Glossatori, il Palazzo Pontificio e la Fontana del Nettuno, inserendo poi queste ultime nella seconda serie dei Monumenti, vedute e costumi d’Italia[14].

Non si vuole qui suggerire alcuna derivazione di tipo artistico o stilistico; la formazione fotografica aveva significati e ragioni diverse da quella pittorica, ma forse possiamo accontentarci di credere che Poppi, sotto la spinta di concrete esigenze economiche, come molti in quegli anni del resto, abbia scelto di passare dalla pittura alla fotografia con il sostegno di Ratti e seguendone gli autorevoli insegnamenti tecnici,  magari confidando per breve tempo sull’esperienza maturata da Peli come assistente di Anriot. Nonostante la scarsa fortuna artistica di Bologna in ambito extralocale[15] anche la scelta di dedicarsi alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico non appare così inconsueta, considerando il buon successo delle Vedute Fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna  in cui Anriot nel 1864 aveva fornito  “un più libera lettura della città e dei suoi monumenti”[16] per poi lasciare pochi anni dopo Bologna e campo libero all’attività di Poppi.  La città non era stata compresa tra le mete delle Excursions daguerriennes e  si dovette attendere Richard Calvert Jones per averne le prime testimonianze fotografiche[17], quindi le prove di Sacchi e poi, in chiusura di decennio, il  primo panorama fotografico della città realizzato da Carlo Napoleone Bettini[18].

È proprio con Anriot allora che pare misurarsi Poppi agli inizi della propria attività professionale di fotografo, come mostrano alcune stampe databili a quei primissimi anni, relative ai maggiori monumenti bolognesi e note nei formati carte de visite e album[19]. Tra queste risultano per noi di particolare interesse una veduta di piazza Santo Stefano realizzata prima del 1869[20], inquadrata dallo stesso identico punto di vista ed esattamente con le stesse luci che ritroviamo in due riprese coeve di Anriot e di Giorgio Sommer[21], solo utilizzando un obiettivo di lunghezza focale minore e quindi comprendendo una porzione più ampia di piazza, e soprattutto le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio vedute dall’Albergo dei Quattro Pellegrini, di cui sono note oltre la lastra originale e la stampa per contatto, anche un’edizione in formato “Gabinét”,  derivata non da una specifica ripresa ma dalla rifilatura della stampa di formato maggiore.

Le Torri “prese dai tetti” aprivano il catalogo del 1871. Una scelta che non poteva essere più significativa dal punto di vista culturale e simbolico, ma che costituiva anche un eccezionale esito in termini di qualità specifiche dell’immagine, dove l’uso  di un obiettivo di grande apertura angolare, forse un poco decentrato, determinava una leggera deformazione ottica ma accentuava  il gioco dinamico delle diverse diagonali che costruiscono l’immagine, consentendo di mostrare le torri in tutta la loro altezza, a partire da quello spazio ristretto e quasi scavato da cui crescono. Considerando l’intera serie poi si chiarisce ancor meglio una delle modalità operative di Poppi, che circumnavigava il soggetto, riprendendolo da diversi punti di vista e pubblicandone edizioni diverse non solo per il formato[22] ma anche, secondo un uso non raro in quegli anni, con l’aggiunta di nuvole in ogni senso pittoresche a movimentare lo spazio vuoto del cielo.

Furono proprio i principali monumenti bolognesi a costituire la sezione  più rilevante di quel catalogo, pubblicato a breve distanza dal trasferimento dello studio nella nuova sede di Casa Rodriguez, in Strada San Mamolo 101, non lontano da quella della precedente società con Roberto Peli e dello studio di Anriot (San Mamolo 102). Di quel primo repertorio facevano parte anche i “Paesaggi” e i “Quadri della Regia Pinacoteca ed altri quadri classici”[23], con una scelta di temi già indicativa e che nei decenni successivi si sarebbe ulteriormente articolata ma mai smentita:  un buon numero di chiese bolognesi, e non solo le maggiori, con molte riprese dedicate ai loro elementi decorativi, poi i grandi palazzi storici; accanto a questi però anche le principali architetture contemporanee, come il Palazzo della Banca Nazionale (192)[24] e quello della Cassa di Risparmio (202);  poi le due torri (anche “intere”, n. 366 nel formato grande di 36×45) e i panorami (ben sette), le piazze, le porte e alcune ville (Frank, Hercolani, Marescalchi, Salina, Zucchini), occasione per realizzare i primi soggetti di paesaggio, anche con figure[25], la cui messa in repertorio costituisce forse la novità più rilevante, mentre la sostanza del trattamento (“Gruppo di cipressi”, “Dettaglio: Tronchi d’alberi”), rimanda ancora ai modi dei calotipisti attivi specialmente a Roma nel decennio antecedente l’Unità. Oltre a Ravenna, dove riprese anche alcuni paesaggi (638 Pineta, con un primo piano materico di calanchi), la sola altra località considerata era Roma, con uno sparuto gruppo di quattro riprese (Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Arco di Settimio Severo, Tempio di Veneree Arco di Tito)  Oltre a quelli già presenti nelle serie dedicate alle chiese, il catalogo conteneva anche una specifica sezione dedicata a “Bassi Rilievi, esemplari artistici” tra cui  un Cespo d’Accanto spinoso (691) e  una Miscellanea di 5 pezzi variati di rilievi e bassi rilievi.  La sezione degli Ornati veri e propri si sarebbe poi sviluppata a partire dal 1879 ma questi due titoli sono già di per sé indicativi: sia la Miscellanea, che escludeva  ogni intento documentario per proporsi esplicitamente come modello manualistico per la copia, sia le foglie d’acanto che anticipavano i soggetti “presi dal vero” pubblicati a partire dal 1888. Erano questi lavori, forse insieme ai “monumenti moderni” della Certosa, ad avere i destinatari e acquirenti più immediatamente identificabili nei professori e negli allievi dell’Accademia, negli artigiani e nei frequentatori delle scuole d’arte, nel solco di una tradizione incisoria e poi litografica particolarmente ricca e qualificata, che ormai a queste date pativa la concorrenza della fotografia. Meno semplice risulta comprendere l’immissione in un catalogo destinato alla vendita delle riprese dedicate alle architetture contemporanee, per le quali è difficile immaginare una richiesta da parte del turismo colto che frequentava Bologna, né erano destinate a un album antologico dedicato alla sua città, che non risulta Poppi abbia mai prodotto, sebbene fosse una tipologia che si andava diffondendo in quegli anni anche in numerosi centri minori.

Il secondo catalogo, del 1879[26], presenta novità significative: non solo affiancava in copertina il nome del titolare a quello dello studio ma fu pubblicato in francese e corredato di una sintesi in quattro lingue dei soggetti contenuti, con una nuova numerazione  che risulterà definitiva.

Oltre a Bologna i luoghi indicati erano Ravenna, Urbino, Ferrara “et leurs environs”; mancava  Roma che pure era presente con le solite quattro riprese.  Significative sono le qualifiche con cui Poppi si presentava per la prima volta: “peintre-photographe/ membre correspondant de la R. Académie/ Raffaello a Urbino”. La prima, adottata da molti, moltissimi fotografi coevi aveva qui un valore più sostanziale e aderente al vero, cioè all’immagine che lo stesso Poppi dava di sé, come risulta da una lettera del 31 agosto 1877 inviata al  Presidente della Accademia Raffaello di Urbino in cui scriveva della sua “modestissima qualità di pittore paesista e di fotografo” e gli stessi suoi contemporanei lo indicavano ancora, nell’ordine, “pittore, paesista, direttore dello Stabilimento fotografico”.[27]  Meno singolare invece l’associazione all’Accademia, di cui si fregiavano anche altri fotografi[28] e che gli derivava da una ricca campagna condotta in quella città, qui presentata in due distinte sezioni.

La tavola delle materie che apre il catalogo non indica espressamente Bologna, i cui soggetti sono divisi tipologicamente e comprendono anche la  “Gare du Chemin de Fer”(279), ma ben più rilevante rispetto all’edizione precedente era il numero di quelli non bolognesi, quasi triplicato con le campagne urbinati e ferraresi e con le prime riprese dello “château des Miracles”, vale dire della Rocchetta Mattei, della quale accentuò il già sovrabbondante aspetto fantastico, forse su suggerimento dello stesso proprietario. Molto ricca anche la sezione degli Ornati, poi in piccola parte accresciuta nei cataloghi successivi, con soggetti che vanno dal Plat portant un ail, une pomme, un artichaut avec leur feuilles (704) a un Chapiteau dans l’église de Saint Marc de Venise (733), che pone di nuovo qualche problema: poiché la campagna veneziana comparve per la prima volta nel catalogo del 1890 doveva trattarsi di un calco, come per altri numeri di quella sezione.  Se dalle pagine passiamo alle lastre e alle rare stampe superstiti scopriamo infatti con una certa sorpresa che anche il Candélabre par Michelange Buonarroti (694) o i diversi elementi del Monumento Tartagni in San Domenico (770) non erano tratti dagli originali ma dai calchi, ripresi in Accademia o, non di rado, nello stesso studio del plasticatore. Le ragioni di questo procedere non ci sono note né paiono facilmente comprensibili essendovi la disponibilità degli originali (il monumento nella sua interezza è rubricato al n. 101) né sussistendo problemi di resa delle policromie originali, quelli che ancora a date piuttosto tarde lo portarono a riprodurre le stampe di traduzione dei dipinti. Non semplici riproduzioni allora, ma impronte di un’impronta immesse a loro volta in circolo virtuoso di figure per servire  di modello per stampe litografiche, come fu il caso del Monument Tartagni: détail de la caisse, che costituì il modello per una litografia di Silvio Gordini  (774)[29].

La circolazione di quel primo catalogo in francese dovette sortire qualche effetto se già nel 1880 Poppi risultava tra i fornitori della “Bibliothèque photographique” di Adolphe Giraudon, insieme ai maggiori italiani come Alinari e  Brogi[30], e fu forse quella una delle ragioni che lo determinarono a confermare la scelta della lingua francese anche per l’edizione del 1883[31]. Nei pochi anni che intercorsero tra questa e la precedente si registrarono due eventi che ebbero certo influenza sul suo lavoro e sulla sua decisione di pubblicare un nuovo repertorio a soli quattro anni di distanza: nel 1879 il fotografo era stato chiamato a collaborare alla campagna documentaria promossa dalla Commissione Conservatrice locale per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione[32] e – soprattutto – entro il 1881 gli Alinari avevano realizzato la loro prima, consistente campagna fotografica bolognese, con ben 188 soggetti. Non solo: Poppi nel frattempo aveva potuto fregiarsi della qualifica di “pourvoyeur de S.A.R. le Duc de Monpensier”, Antoine Marie Louis Philippe d’Orléans, uno dei più noti (e discussi) aristocratici europei, e questa attribuzione di grande prestigio fu anteposta in copertina  a quella di membro corrispondente dell’Accademia Raffaello, sebbene poi del principesco palazzo di più di trecento stanze in quell’occasione non fotografasse che pochi elementi (nn. 253259)[33].

Anche per le altre città non mancavano elementi nuovi: espunta Ravenna, forse per un accordo con Luigi Ricci, comparvero alcune città padane e altre toscane tra cui Firenze, con ben 119 soggetti, in evidente concorrenza coi grandi studi e applicando alla lettera la strategia indicata da Brogi,  mentre altre sezioni vennero notevolmente accresciute come Riola di Vergato, anche perché “Dopo nuove costruzioni si sono eseguite negative che portano il nome d’altre descritte, ma il soggetto è variato” (995).  Negli anni di maggior successo dell’attività elettromeopatica  del suo proprietario, Poppi dedicò ben 68 nuove riprese alla Rocchetta, certo in accordo con Mattei che poteva disporre di fotografie da vendere ai numerosissimi pazienti che lo visitavano per sottoporsi ai suoi trattamenti (963); per analoghe ragioni l’intera serie di Riola comprendeva anche il vicino Albergo della Rosa (10051018), a cui vennero dedicate più di una decina di riprese con evidente funzione promozionale, secondo una pratica comune ad altri fotografi[34].

Nella sintesi obbligata dallo spazio disponibile al verso di una stampa in formato gabinetto che riproduce una pagina de La Terra di Lavoro illustrata dal Professore Aristide Sala[35], pubblicata l’anno prima, Poppi reclamizzava la sua “Gran collezione di vedute/ Monumenti, Quadri/ Architetture e Dettagli/ d’Ornati Classici/ delle città di/ Roma – Bologna – Firenze – Pistoja – Lucca/ Ferrara – Padova – Vicenza – Mantova – Parma – Carpi – Modena – Imola – Ravenna – Urbino”. Di questo sintetico elenco colpiscono l’ordinamento e le scelte: per prima è indicata la capitale, sebbene le riprese romane a quella data non fossero più di una quarantina[36], quindi l’ovvia Bologna,  alcune località toscane (oltre la specificità urbinate) e una sequenza, che diremmo  genericamente padana, che connotava il suo ambito operativo: da Ravenna a Mantova, la sola località lombarda citata, sebbene le fossero state dedicate solo tre riprese, mentre risultava esclusa dall’elenco una città ben più documentata come Bergamo. Le assenze erano altrettanto significative e corrispondevano ai programmi dell’immediato futuro: Milano (già con 7 titoli al 1883), Verona, Venezia e Chioggia, entrate in catalogo tra 1888 e 1890 e ancora Perugia, per  limitarsi ai centri maggiori.  Non ancora un’estensione a tutto il territorio nazionale (ciò che non sarà mai) ma certo un’offerta molto ricca e variegata, un repertorio a cui attinsero in particolare  molti architetti dell’eclettismo: dal piemontese Melchiorre Pulciano[37], che raccolse in album fotografici un ricco repertorio di temi architettonici e di ornato, con quaranta stampe di Poppi, al reggiano Guido Tirelli[38] come al romano Francesco Azzurri, progettista del nuovo Palazzo Pubblico di San Marino[39];  ma anche lo statunitense Russell Sturgis[40], la cui ricca collezione di fotografie comprendeva ben 135 esemplari del fotografo bolognese, per non dire dei legami con i più noti rappresentanti della cultura architettonica locale come Tito Azzolini[41], Raffaele Faccioli[42] e Antonio Zannoni[43], che a vario titolo ricorsero all’operato di Poppi. Com’è noto il rapporto fu particolarmente proficuo con Alfonso Rubbiani, a partire dai restauri della chiesa di San Francesco, quando l’architetto fece ampio ricorso alle stampe fotografiche, utilizzate non solo quale strumento conoscitivo nella tradizione metodologica stabilita da Eugène Viollet-le-Duc[44] e codificata in Italia giusto in quegli anni da Camillo Boito[45], ma quale supporto per verifiche metriche, costruzioni geometriche, indicazioni di restauro e simili, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Alfredo d’Andrade[46]. Potrebbero essere stati contatti professionali avuti nel corso della documentazione del cantiere di San Francesco a offrire a Poppi un incarico per lui inconsueto come quello relativo ai lavori ai fiumi Brenta e Bacchiglione a Padova, con otto immagini[47] realizzate tra il 1887 e  il 1890, caratterizzate da uno sguardo ampio, che ogni volta lega in una sola veduta tutto il cantiere, con una impostazione che ritroviamo anche nella coeva ripresa dedicata alla Frana alle Pioppe [di Salvaro] (10134)  in  cui paesaggio e cronaca dei lavori in corso si integrano compiutamente. Come accadde in altri simili casi quelle fotografie non entrarono a far parte del nuovo Catalogo generale pubblicato nel 1888[48], edito nell’anno in cui si sarebbero svolte in città le celebrazioni per l’ottavo centenario dell’ateneo bolognese e l’Esposizione Emiliana.

Era per Poppi il momento della sintesi e, diremmo, della sua affermazione definitiva: la lingua utilizzata tornava a essere l’italiano ma era soprattutto l’aggettivo qualificativo a connotare questo come il repertorio più compiuto, tutto fatto di “riproduzioni originali”, secondo una terminologia per noi inconsueta, ora riferibile con fatica alle architetture e ai paesaggi[49].  Diversamente dalle edizioni precedenti questo catalogo non presenta in copertina l’elenco dei soggetti principali, rimandato a un più opportuno e sistematico “Indice alfabetico” posto in apertura: è il sintomo e la testimonianza di una organizzazione più scientifica e quindi moderna del proprio lavoro (o – almeno – della propria immagine). Così Bologna compare solo al terzo posto e, dopo Ferrara, troviamo i “Fiori e foglie presi dal vero”. Ne risulta un singolare andamento, in cui i toponimi sono mescolati a categorie varie come “Ornati, scolture fiamminghe e statue” e “Paesaggi e costumi campestri”, insieme ai già noti “Personaggi illustri antichi e moderni”, una serie in cui la fotografia abdicava alla sua funzione sociale più diffusa per recuperare quasi archeologicamente il contenuto referenziale delle opere d’arte. A scorrere le stampe, le “Sculture Fiaminghe” si rivelavano essere una serie di più modesti “Puttini” alternativamente “volanti” o “posanti”, ripresi singolarmente o in gruppo a formare leziose scenette che dovettero avere però un certo successo se una di quelle fotografie (3005Puttini fiamminghi) fu fatta propria e riprodotta nel fotomontaggio pubblicitario preparato per la Mostra industriale di Lecce del 1886 da Pietro Barbieri, fotografo modenese attivo nella città salentina, di cui  Roberto Peli aveva rilevato lo studio[50].

Come prometteva il titolo, quello del 1888 risulta il catalogo più ricco:  non compaiono nuove tipologie ma soggetti nuovi. Non mutano le caratteristiche generali ma si amplia il repertorio e l’offerta diviene ancora più sistematica e articolata, in particolare per quanto riguarda le chiese, dove cresce il numero di dettagli decorativi e la riproduzione di dipinti. Poiché però anche la quantità costituisce un dato qualitativo va notato che l’accrescimento di riprese rispetto a un singolo edificio fu esponenziale; è qui che il lavoro mostra la propria logica e con un significativo salto di scala passa da tutti gli edifici importanti di una città a tutti gli elementi importanti di un edificio.  La sezione dedicata ai “Paesaggi” venne presentata in indice insieme alla novità costituita dai “costumi campestri”, con ben 97 soggetti, tutti estesamente descritti[51]  per solleticare e sollecitare i possibili acquirenti. Ciascuna descrizione meriterebbe di essere riportata per la sua singolarità ecfrastica, ma basti questo esempio : “Sul limitare di un rustico abituro, una contadina seduta, scherza amorosamente col bambino che tiene sulle ginocchia, il fratellino seduto a terra guarda allegro il fratellino minore”. Cercando di dare forma visiva a queste parole la mente corre alle opere coeve di un pittore come Gaetano Chierici[52], in particolare a una delle sue tante Gioie Materne, a cui la descrizione parrebbe adattarsi particolarmente bene, ma non corrisponde alla fotografia:  le parole e l’immagine parlano reciprocamente d’altro. L’espressione della contadina è difficilmente decifrabile; ancor meno quella del pargoletto, mentre ci è dato solo di immaginare l’allegria nello sguardo del fratello maggiore, che ci dà le spalle (10024).

A quella data le scene di genere non costituivano certo una novità in sé, ampiamente praticate in differenti declinazioni non solo dalla pittura coeva ma da numerosi fotografi, però con un’attenzione per la singola figura (ed erano i ‘costumi’ in senso proprio) ovvero per l’azione, ma staccata dal contesto e collocata in un spazio privo di connotazioni,  teatrale. Questa caratteristica generale e comune prevedeva però già allora alcune differenti intenzioni e atteggiamenti compositivi, riconoscibili in opere di autori  quali Federico Faruffini, Anton Hautmann o  Filippo Belli[53], forse prossime a quelle del padovano  Pietro Sinigaglia, del quale le fonti ricordano “varie scene campestri, come la mietitura, la falciatura, la vendemmia [che] hanno il merito intrinseco della fotografia, quello artistico di bella distribuzione delle persone e delle cose”[54], dove quel cenno alle qualità artistiche lascia intendere uno sguardo che ancora non si poteva definire folclorico né tantomeno proto etnografico, in cui cioè la figura fosse ripresa nello svolgimento di una sua attività consueta, senza cenni di posa.  Ancora più palesemente costruite, sino alla soglia del tableau vivant erano poi certe fotografie di Rive e Sommer  (San Martino a Napoli, Amalfi, con presenza di frati ad animare il contesto conventuale) che in termini di composizione e regia possono essere avvicinate a quelle di Poppi, essendo proprio questa relazione stretta tra ambiente e figure a connotare il genere, come accadeva anche per le immagini di ambiente veneziano e chioggiotto realizzate da Carlo Naya  per l’album L’Italie pittoresque, photographies d’après nature, 1870[55]. Volendo poi estendere lo sguardo oltre i nostri confini per verificare l’estensione del fenomeno a scala almeno europea, ma senza per questo lasciar intendere influenze o derivazioni, assai improbabili  allo stato attuale delle nostre conoscenze, potremmo richiamare un antecedente come Les  chasseurs di Humbert de Molard, 1851, o  le opere cronologicamente più prossime di un autore come Henry Peach Robinson, che confezionava circa negli stessi anni scene di genere di tipo aneddotico analoghe a quelle di Poppi[56].

Ciò che distingueva queste immagini dalle precedenti era l’adozione consapevole delle possibilità espressive consentite dalle nuove emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, vale a dire la rappresentazione dell’istantaneità  del movimento, pur non riuscendo ancora a nascondere il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli ‘attori’. I nessi più che evidenti con certa pittura coeva non erano però solo di ordine iconografico ma più sostanzialmente concettuale, realizzando il passaggio fondamentale, e radicale in un autore come Poppi, dalla riproduzione all’invenzione di immagini ex novo,  ritornando con altri strumenti narrativi alla pratica della sua precedente stagione pittorica, in anni di nascente pittorialismo. In alcuni casi l’intenzione ‘artistica’  era rivelata proprio dalla relazione tra testo e immagine, come per la ripresa sopra citata, ancora in bilico tra pittoresco ed etnografia, in cui le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico gli consentivano di allontanarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica del mondo contadino solo in virtù delle potenzialità documentarie proprie del medium, sebbene emerga chiara la  messa in scena e le figure rappresentate perdano la loro riconoscibilità anagrafica per mutare di statuto: da persona a icona. Ne sono un chiaro esempio tra i molti Tre contadinelle (10019), Cacciatore e due contadine (10054), o Dettaglio di casa rustica con gruppo di contadini (10041) tutte realizzate entro il 1888, che sono scene nel gusto di Giovanni Battista Quadrone[57]. Di qualità sostanzialmente diversa è invece un’immagine come Gruppo di contadini che lavorano (10022) che dietro al genericissimo titolo nasconde  una composizione e una regia estremamente innovative e sapienti, di cui non è possibile trovare l’eguale nella produzione italiana ed europea di quel periodo. Qui un tema iconografico tipico della pittura di genere è declinato con un linguaggio e con soluzioni narrative propriamente fotografiche: si consideri  la figura centrale della contadinella, bilanciata dallo schermo nero della porta aperta e resa con un mosso che la coinvolge tutta. Tranne i piedi. Il fotografo le avrà chiesto allora  di ondeggiare o di ruotare sull’asse del proprio corpo,  ma senza muoversi, mentre altri la osservano e una bambina seduta al margine destro non riesce a trattenere il riso.

Nei due anni successivi Poppi accrebbe la propria produzione di genere con una trentina di nuovi titoli, esito evidente di un buon successo, ma chi volesse verificarne i soggetti avrebbe una certa difficoltà a ritrovarla completa nella sezione apposita dell’Appendice del 1890. Sebbene la didascalia in lastra parli ancora e sempre di “Genere campestre” i soggetti dal n. 10129 al 10133 erano rubricati sotto il curioso titolo di “Studi di Nudo”; nell’ordine: un San Giovannino (10129) “seduto” o “in piedi” in un improbabile “deserto”, due varianti di ripresa del “Martirio di San Sebastiano” (10131) e un “S. Giovanni sdraiato sull’erba” (10133). Nulla a che vedere col “Genere” di cui sopra, se non forse per le persone ritratte; certo non per i personaggi evocati. Quel titolo apparentemente fuorviante ci consente però di suggerire un confronto tra queste immagini e alcune altre di un autore come Wilhelm von Glöden[58], in cui la differenza appare più di rimandi iconografici che di sostanza: dalla mitologica arcadia siciliana al cristianesimo in versione rurale dell’Appennino emiliano, conservando entrambi quel  “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” di cui aveva parlato Carlo Bertelli proprio a proposito di  Von Glöden, riconoscendone la capacità di  restituire la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica di poco successiva, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare”[59].

Quei Costumi campestri dal vero, come li descrive il verso di una carte de visite, fecero parte  della ricca serie di fotografie presentate da Poppi all’Esposizione Emiliana del 1888, articolata nelle tre sezioni di Agricoltura e Industria,  Mostra Internazionale di Musica e Nazionale di Belle Arti[60]. La coincidenza tra data di produzione e occasione espositiva rende particolarmente convincente l’ipotesi a suo tempo formulata da Fabio Marangoni (1999) che quelle serie fossero state realizzate pensando in particolare ai visitatori dell’Esposizione di Belle Arti; un pubblico che avrebbe potuto apprezzare anche la  serie dei “Fiori e foglie presi dal vero”, della quale alcuni esempi erano già indicati in cataloghi precedenti, ma compresi tra gli “Ornati”.  Il tema godeva da tempo di una notevole fortuna a scala europea, con produzioni di altissimo livello quali la serie di Fleurs photographiées  pubblicata da Adolphe Braun nel 1854[61], una novità assoluta nella produzione fotografica, gli Études de Feuilles di Charles Aubry, del 1864 o ancora gli “Studi” realizzati da Alphonse Bernoud verso il 1875, dopo il suo ritorno a Lione[62], una città che non solo vantava una lunga tradizione pittorica nel genere ma aveva un’importante industria tessile.  Poiché erano i disegnatori, insieme ai pittori certo, i primi e più importanti destinatari di quelle opere che sulla neutralità della descrizione botanica facevano prevalere gli aspetti compositivi e formali dell’inquadratura come le possibilità offerte dalla fotografia di accentuare una resa quasi materica delle foglie e dei petali (10326, 10343)

Sebbene realizzati tra 1888 e 1890 vanno qui considerati anche gli studi di nubi “presi dal vero”, sottolineatura quasi pleonastica se non fosse che le nuvole erano già presenti in molte sue riprese, specie d’architettura, ma come frutto di un intervento manuale sulla lastra negativa (945). Questi invece sono proprio cieli carichi di nubi  (10162), nei quali solo di rado e in forma letteralmente marginale compare il resto di un profilo urbano (10158, 10164). Sono nuvole piene, corrusche e solide, viste da un piano prospettico fortemente inclinato o quasi verticale, per molti versi sovrapponibili agli studi “di nuvoli” realizzati dagli Alinari qualche anno dopo, quando l’impresa era diretta da Vittorio[63].  In entrambi i casi l’esiguità dei soggetti e la mancanza di un qualsiasi intento classificatorio non consentono di collocare quelle piccole produzioni nel contesto del dibattito internazionale che proprio in quegli anni si andava consolidando intorno al tema[64], anche se non possiamo neppure escluderne un qualche effetto di suggestione, combinato con il fascino pittoresco del tema, da sempre condiviso da pittori, letterati e poeti e che, per ragioni diverse, non aveva mai cessato di attrarre neppure i fotografi sin dai primi anni ‘50 e che ancora nei primi decenni del ‘900 avrebbe coinvolto amateur italiani come Andrea Tarchetti[65] e Mario Gabinio[66].

Il 1888 fu un anno cruciale per Poppi e la Fotografia dell’Emilia: non solo la privativa e il premio “con gioiello da S.M. la Regina d’Italia” ricevuto all’Esposizione e la pubblicazione di una cartella di stampe con testo di Corrado Ricci ma anche l’importante commessa da parte della Repubblica di San Marino per la realizzazione di un album da presentarsi all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno successivo, ottenuta per intercessione di Carlo Malagola[67], Commissario per la Divisione VIII Arti Grafiche della stessa Esposizione,  membro della Commissione Artistica e della Giuria che gli aveva assegnato il premio[68].

Nel testo che accompagnava le  trentuno fotografie dedicate ai  Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV,  Ricci richiamava l’impossibilità metodologica di “tessere brevi ricordi biografici senza valore e sopra la sola fede di storie piene d’errori e di leggende”[69], ciò che poteva ben corrispondere anche all’uso ormai consolidato della fotografia quale strumento e fonte di mediazione documentaria di cui proprio quell’opera costituiva un importante esempio. Una eco, e un’ulteriore conferma di quelle posizioni si sarebbe poi ritrovata nelle parole di un altro storico dell’arte che più volte si avvalse delle riprese di Poppi come Francesco Malaguzzi Valeri, che introducendo il suo volume dedicato a L’architettura a Bologna nel Rinascimento, dichiarava che “la dottrina dell’arte nostra ha troppo bisogno di rinnovarsi originalmente con lo studio dei [sic] fonti a stralciare gli ultimi veli del fantastico e dell’accademico che ancor l’avviluppano”[70]. In anni in cui la storia dell’arte si definiva metodologicamente come disciplina anche in virtù di un ricorso sistematico alla fotografia quale fonte documentaria e strumento comparativo, l’offerta delle ditte fotografiche si ampliava estendendosi anche alle nuove realtà museali: così entrarono a far parte del Catalogo Poppi del 1888 anche 130 riprese dedicate agli ambienti e alle opere del Museo Civico Archeologico di Bologna, mentre la sezione dedicata ai “Quadri” si estendeva sino a comprendere opere conservate all’estero, come la “Maddalena nel deserto” (503) del Correggio (Maria Maddalena leggente, oggi perduta) ricavata però da un’incisione, come non era raro che accadesse in quegli anni non tanto per la difficoltà di raggiungere l’originale quanto per l’insoddisfacente traduzione tonale della cromia originale consentita dalle emulsioni non ortocromatiche.

Il lavoro su San Marino condotto nell’ottobre del 1888 in collaborazione con nipote Angelo Marzola venne illustrato da uno specifico catalogo firmato come “Fotografo governativo della Repubblica di San Marino”[71],  corredato di nota introduttiva di Malagola[72], autore anche delle didascalie alle trentasei immagini repertoriate, su di un totale di almeno settanta  realizzate nel corso della campagna. Sono fotografie accurate, corrette, con una inevitabile attenzione per il contesto paesaggistico ma prive di quella capacità di dialogo coinvolgente con le architetture rappresentate che è uno dei grandi pregi dell’operare di Poppi e che lo distingue immediatamente dalla produzione di altri studi e autori coevi, anche quando sente l’attrazione dei dettagli (185). Se “una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi – come scrisse  Rudolf  Wittkower – poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”[73], allora potremmo dire che Poppi, pur inevitabilmente legato allo stesso processo proiettivo, mostrava uno sguardo più nordico e padano, tra romanico e gotico e ovviamente non solo per le architetture fotografate (3430 – Bologna). Ne è testimonianza l’uso ricorrente del grandangolare, combinato con l’adozione di un punto di vista non di rado disposto in asse a uno spigolo dell’edificio, con  esiti non sempre controllati ma con risultati a volte eccezionali, come nella ripresa del Castello Estense a Ferrara (600),  che solo un residuo di consapevolezza storica ci impedisce di dire metafisica. Sono forse queste caratteristiche che fecero riconoscere a Renzo Grandi nel lavoro di Poppi “una percezione dei luoghi complessa e perfino inquieta e immaginosa”[74], non contraddetta da una sistematicità quasi maniacale, che lo portava a rifotografare a distanza di tempo lo stesso soggetto[75], in uno sforzo continuo di aderire alle mutazioni del reale nel tempo. Un’intenzione propriamente fotografica che lo induceva a  replicare rigorosamente le condizioni di ripresa (punto di vista e focale, e quindi inquadratura); indagando il soggetto con minime varianti, lavorando di campo e controcampo o riproponendolo scorciato dai due lati, come nella serie dedicata alla Porta dei Leoni di Palazzo Prosperi a Ferrara, a sua volta con varianti (6066076391).

E poi le luci: contravvenendo in non pochi casi alle buone regole che consigliavano riprese con illuminazione diffusa, Poppi apprezzava  e forse cercava  luci piuttosto radenti, in grado di dare maggior rilievo plastico agli elementi (2901 – Budrio – Palazzo Municipale), con ombre portate che a volte drammatizzano in modo quasi eccessivo la scena (1143).

E poi le persone: già nei primi esemplari noti gli spazi urbani appaiono occupati da figure in modi che è possibile riscontrare anche in Emile Anriot[76], ma qui ancor più marcati: Poppi amava riprendere i monumenti con la vita intorno. Persone ferme a guardare il fotografo, ancora curiose, magari celate nell’ombra di una porta, di un androne, protette da una grata di finestra. Più di frequente la presenza appare cercata e voluta,  (4960; 1721) non più come parametro dimensionale però: le figure occupano lo spazio e lo vivono; sono aneddoto non misura dell’opera (113). Nello spazio definito dal monumento accadono piccole storie, come nel caso delle due figure sulla scalinata della chiesa di San Fermo a Verona (4201),  messe in scena dal fotografo in modi analoghi a quelle di “Genere campestre”. Non si tratta – credo – di attenzione al colore locale nel “gusto di un Naya o di un Sommer” come sosteneva Zannier[77], ma di un portato della formazione pittorica di Poppi, quella stessa che lo induceva a dipingere a vernice grassa le nuvole nei cieli delle sue architetture anche in anni in cui la rapidità delle lastre alla gelatina  avrebbe consentito tecnicamente la loro ripresa. In fondo si trattava di risolvere un problema artistico: per ottenere l’effetto voluto, per arricchire la veduta, invece di utilizzare metodi fotografici come il fotomontaggio o la doppia esposizione, Poppi preferiva ricorrere alla manualità del gesto, infine pittorico.

 

 

Note

 

[1] Poppi 1871.

[2] Inchiesta 1873, p. 2.

[3] Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”, lettera del 6 maggio 1870; in una successiva missiva del 12-08-1870 indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti” il Ministro precisava: “a ciò fui mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”.

[4] Inchiesta 1873, p. 10. Dopo l’attività di Anriot e di Poppi si dovrà attendere l’Appendice del 1881 per avere un primo, ricco catalogo bolognese; cfr. Sesti 1993.

[5] Citato in Tomassini 2003, p. 169.

[6] Citato in Cova 1987a;  la vicenda professionale di Anriot, ancora poco nota, lo colloca nel  gruppo non minuscolo dei fotografi itineranti di quegli anni: prima di giungere a Bologna aveva operato a Fiume e a Zara nel 1858-1859, cfr. Seferović 2009; dopo, come noto, si sarebbe trasferito a Roma.

[7] Suggestiva la lettura proposta da Varignana 1993, pp. 64-65, di un dipinto come Piazzetta dell’Aurora e via dell’Asse, post 1864, “che si direbbe realizzata, come già faceva Basoli, con l’aiuto della camera ottica”.

[8] Lettera ai Reggenti di San Marino del 18 marzo 1889, citata in Marangoni 1999, p. 54-55.

[9] La nuova società fu attiva parallelamente alla Fotografia dell’Emilia, che risulterebbe aver cessato la propria attività nel 1869, cfr. Cristofori 1992c.

[10] Varignana 1985, p. 44; Cristofori 1992c, p. 276.

[11] “Il Monitore di Bologna”, 17 aprile 1866, n. 105, citato in Cristofori 1992c; si veda anche Marangoni 1999, pp. 52-53, che riporta ampi stralci del brano. La porzione di Archivio Poppi acquistato nel 1940 dalla Cassa di Risparmio di Bologna è consultabile all’indirizzo https://digital.fondazionecarisbo.it/category/fondo-poppi?query=&sort=title&order=asc&page=1&size=20&filterField=

[12] Camerini 1868. Questa, come altre iniziative, si collocava nel contesto delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, a cui è riferibile anche l’opera di Carlo Saccani che a Parma, nello stesso 1866, pubblicava la parte dedicata all’Inferno de La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata, riproducendo fotograficamente i disegni di Francesco Scaramuzza, preparatori del grande ciclo di tele  avviato in un primo tempo su commissione di Luigi Carlo Farini, cfr. Bersani 1992.

[13] Fu presente come tecnologo e inventore di nuovi procedimenti fotografici sia all’Esposizione industriale ed Agraria del 1869 che all’Esposizione Emiliana del 1888.

[14] Luigi Sacchi 1998, sch. 34; Mormorio 2000, p. 104.

[15] Basti in tal senso la testimonianza di John Ruskin in una lettera inviata al padre da Pisa: “Al Camposanto ho fatto la conoscenza di due artisti che, sebbene fossero francesi, parlavano proprio come esseri umani; (…) Sono due anni, ormai, che studiano i dipinti antichi, quelli degni di nota, e mi hanno prodigato suggerimenti assai utili; sostengono che dovrei fermarmi un mese a Padova, e mi assicurano che non c’è niente a Bologna; una notizia, questa, che mi procura gran gioia, giacché non amo quella città”  (in Ruskin 1985, lettera del 21 maggio 1840), che ritornava però nei deliri dei primi stadi della sua malattia, quando gli compariva in sogno la Beata Vigri, “the only woman painter ever canonized”; cfr. Viljoen 1971, p. 105, citato in Bradley, Ousby 1987, p. 413.  Nonostante gli apprezzamenti di Jacob Burckhardt (Der Cicerone, 1855) quella ridotta considerazione dovette permanere a lungo se il catalogo Alinari del 1863 comprendeva solo la Testa del Nazareno di Guido Reni e la Santa Cecilia di Raffaello (tra i primi dipinti riprodotti anche da Poppi). Ancora nel  settembre del 1896 Sigmund Freud, che pure acquistò due fotografie di Poppi,  poteva scrivere alla moglie: “città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali [ma] Chiese ed arte qui [sono] per fortuna meno coercitivi”, citato da Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa http://amicidellacertosa.com/articoli.html [25-07-2014].

[16] Poi raccolte nel 1868 per Nicola Zanichelli nel volume Edifizi, vedute, quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna, rappresentate colla fotografia, cfr. Cristofori 1992a, p. 270.

[17] Gray 1992;  Tromellini, Spocci 1992a.

[18] Benassati 1992a, in cui forse per un refuso sfuggito all’acribia della redattrice e curatrice si indica come data di esecuzione un improbabile termine post quem: “esec. 1833 [sic]-1859”. Un altro esemplare dello stesso panorama, non montato, appartiene alla collezione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, cfr.  Bonetti, Maggia 2007, pp. 34-35.

[19] Scorcio di Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà ed il mercato delle erbe, 1865 circa.

[20] L’attribuzione della ripresa si deve a Angela Tromellini e a Roberto Spocci che hanno confrontato le diverse stampe conservate presso la  Soprintendenza Beni Architettonici e le collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna con l’esemplare compreso in una cartella della Biblioteca Reale di Torino, che contiene altre sette stampe anonime  ma di identico formato e montaggio oltre che caratterizzate da una certa omogeneità di impianto, cfr. Tromellini, Spocci 1992b. Nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio è conservata una stampa  derivata da un’altra ripresa effettuata con luci analoghe ma con inquadratura meno accurata e spostata a destra, tale da comprendere anche la casa accanto. Nonostante il fatto che le imperfezioni comuni ed evidenti nel trattamento delle lastre al collodio da cui derivano le stampe comprese nella cartella conservata alla Biblioteca Reale sembrerebbero testimoniare non solo un’autorialità comune ma anche una plausibile scarsa perizia iniziale di Poppi o del misterioso fantasma della Fotografia dell’Emilia, la presenza nella stessa cartella della fotografia della Piazza di S. Domenico/ in Bologna, certamente di Anriot, ci fa ritenere che quella cartella non fosse di produzione editoriale ma semmai l’esito di una collazione, come sembrano confermare sia gli scarsi nessi tra le stampe e il bel raccoglitore con piatti in lacca cinese a motivi floreali sia una serie analoga  passata in asta da Gonnelli a Firenze nel 2013   http://www.gonnelli.it/it/asta-0013/anriot-andeacute-mile-bologna-.asp [23 07 2015], in cui erano comprese sia stampe di Anriot sia le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio di Poppi.

[21] Si confronti la stampa di Anriot compresa nelle Vedute Fotografiche con gli analoghi soggetto di Poppi e Sommer pubblicati rispettivamente da  Tromellini, Spocci 1992b e da Frisoni 2008, p. 64. Il punto di ripresa e la scelta dell’ora, della luce più adatta pare quasi obbligato o – almeno – largamente condiviso, come dimostra il confronto tra queste immagini, a loro volta utilizzate come modello per la realizzazione del dipinto di Alfredo Domenichini, Il complesso delle chiese stefaniane e il palazzo Isolani, 1875, olio su cartone,  55×45,5 cm. conservato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

[22] Di quest’immagine venne prodotta anche  la versione in carte de visite, ottenuta apparentemente per riproduzione della stampa maggiore.

[23] A conferma della funzione selettiva di queste pubblicazioni ricordiamo che il catalogo non comprendeva le riproduzioni dal Dorè ed escludeva  le opere dei primitivi presenti nella Pinacoteca bolognese,  “coerentemente al gusto del tempo e agli ancora vigenti dettati accademici”, Varignana 1985, p. 44-45, quelli stessi che forse lo avevano portato a riprodurre anche La Sposa pompeiana di Modesto Faustini, presentata alla Esposizione triennale della Società Protettrice per le Belle Arti di Bologna del 1867 e acquistata dall’Accademia, cfr. Benassati 1992b che fraintendeva però il nome dell’autore attribuendo il dipinto ad un altrimenti ignoto “Faustino Modesti”. Come ricordava Diego Martelli nel 1867, prima che a Bologna l’opera era già stata esposta a Brera, ricevendo quegli apprezzamenti che avrebbero potuto indurre Poppi a realizzarne la riproduzione.

[24] In Poppi 1890 il repertorio si arricchirà di 15 riprese dei “Dipinti degli archi dei portici del Palazzo della Banca Nazionale,  del Prof. Lodi (1865)” (80808094) mentre in Poppi 1896 compariranno alcuni dei nuovi edifici costruiti su Via Indipendenza come il Palazzo Arena del Sole, il Palazzo Cavalieri Finzi e Treves e la  Casa Stagni.

[25] Si vedano le riprese relative alle cave di gesso di Monte Donato, che fu un tema ripreso molti anni dopo da Luigi Bertelli (1833-1916), Cave di Monte Donato, 1902 ca. MAMbo – Bologna, amico di Poppi di cui sono noti alcuni modesti lavori derivati da sue fotografie, cfr. Cristofori 1992b.

[26] Poppi 1879.

[27] Per entrambe le citazioni si rimanda a Marangoni 1999, pp. 61-62.

[28] Oltre a Luigi Ricci, a sua volta in rapporti con Poppi, ricordiamo almeno Federico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli e il cremonese Aurelio Betri.

[29] Si veda Benassati 1992c, che aveva correttamente ipotizzato la derivazione dalla ripresa di Poppi, allora non nota non essendosi conservata la lastra nel Fondo omonimo, di cui è stata reperita una stampa nella collezione di Melchiorre Pulciano.

[30] Come risulta da una serie di lettere e bollettini di spedizione conservati presso la collezione di Robert Marchesin, oggi donata agli Archives départementales du Cher, a Bourges; cfr. Le Polley Fonteny 2003, p. 71 e p. 84 nota 7.

[31] Poppi 1883.

[32] Mozzo 2004, p. 862.

[33] Restano da comprendere le distinte ragioni per cui il Duca consentisse di pubblicare immagini anche di sale non di rappresentanza come  il “gabinetto che mette al fumoir” (253D) o il salotto e la sala da pranzo di “S.A.R. l’infante Donna Eulalia” di Spagna (3497, 3498, ante 1896) e, per altro verso,  quali ne fossero i possibili acquirenti. Potrebbe riferirsi indirettamente alle relazioni col duca anche l’ingresso in catalogo delle riproduzioni (nn. 520-521) di  alcune incisioni di un autore minore come François Claudius Compte-Calix che (nel 1863?) aveva dipinto il ritratto di una delle figlie del duca: la piccola Marie-Christine.

[34] Una analoga attenzione commerciale per le strutture alberghiere si ritrova ad esempio in Sella, Vallino 1890.

[35] L’esemplare fa parte di una serie di otto albumine, di identico formato, riunite  in una custodia cartonata rivestita di tela rossa, con l’ex-libris della “Bibliotheca/ Regis/ Umberti”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.

[36] Come segnalava Becchetti 1983, p. 335, la campagna romana venne commissionata o, almeno, utilizzata per l’apparato illustrativo di Schutz 1885, in cui “molte tavole fototipiche recano oltre ‘Phot. Dell’Emilia. Bologna’ anche gli anni di esecuzione che vanno dal 1880 al 1882.” Il dato è confermato dalla documentazione conservata presso gli archivi dei Musei Vaticani, dai quali risulta – come mi ha comunicato Cristina Gennaccari, che ringrazio per la preziosa segnalazione – che  Poppi fu autorizzato in data 30 ottobre 1880 a lavorare per un mese “per riprodurre colla fotografia alcuni affreschi” nelle “Camere e Logge”, intendendosi verosimilmente le Stanze e Loggia di Raffaello. Forse per ragioni legate ai diritti editoriali dell’opera di Schutz quelle immagini entrarono a far parte dei cataloghi di Poppi solo a partire dal 1888. Restano però ancora non pochi problemi aperti, come suggerisce il fatto che la lastra n. 2126 dedicata al  Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, immessa in catalogo nel 1883 è una semplice variante di ripresa, eseguita quindi nello stesso momento, della lastra n. 5196, databile al  1875 ca e attribuita a  Pompeo Molins,  che verosimilmente deve essere considerato l’autore di entrambe, come ha indicato Jean-Philippe Garric, nel corso della sua comunicazione dedicata alla Collezione Parker, condivisa con Francesca Bonetti,  presentata al seminario internazionale Les capitales photographiques , che si è tenuto a Parigi il 17-18 settembre 2015,  promosso da Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) in collaborazione con altre istituzioni internazionali.

[37] Melchiorre Pulciano (1833-1923), collaboratore di Edoardo Arborio Mella e autore di alcune chiese e di edifici civili in stile ‘neomedievale’ o eclettico, attivo anche nell’ambito del restauro. Nel 1915 redasse il testo storico critico dedicato al Palazzo Barolo di Torino per la serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”, del fotografo Gian Carlo dall’Armi.

[38] L’Archivio dell’Ing. Guido Tirelli (1883 – 1940), costituito dai disegni di progetto e da una ricca raccolta fotografica che comprende anche 54 stampe di Poppi, è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia consultabile all’indirizzo https://collezionidigitali.comune.re.it/cris/fonds/fonds00211/fondsinformation.html?orderall=ASC&startall=440&sort_byall=11&open=all  [03 01 2023].

[39] Francesco Azzurri (1827-1901), Presidente dell’Accademia di San Luca dal 1890, acquistò una serie di fotografie di Poppi nel 1889 e negli anni successivi il fotografò documentò diverse fasi della costruzione del Palazzo, sino alla sua inaugurazione, cfr. Marangoni 1999, pp. 196-197. Altre fotografie di Poppi appartennero anche a Giacomo Santamaria, attivo a Milano tra eclettismo e liberty e a Gino Coppedè, queste ultime oggi conservate nel Fondo omonimo dell’Archivio Fotografico Toscano a Prato.

[40] Russel Sturgis (1836-1909), architetto e influente critico di architettura, fu tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel corso del suo secondo Grand Tour acquistò numerose fotografie che andarono ad arricchire la sua già importante raccolta iniziata nel corso del primo viaggio in Europa nel 1858-1861; alla sua morte le circa 20.000 stampe che la formavano furono acquisite dal dipartimento di Architettura della Washington University. Può essere un interessante indizio, sebbene singolare, del successo commerciale (e culturale) dei diversi fotografi ed editori considerare che a fronte di 135 fotografie di Poppi la collezione ne conserva 1008 di Alinari, 370 di Brogi, 274 di Naya, 175 di Moscioni e 113 di Sommer, per limitarci alle maggiori presenze italiane; cfr. Hanlon 1997, consultabile on line : https://library.wustl.edu/spec/russell-sturgis/  [03 01 2023]. A conferma di una buona attenzione per la sua produzione da parte di viaggiatori internazionali segnaliamo che alcune stampe Poppi di soggetti bolognesi sono comprese nell’album Venice Spezzia [sic] Bologna, dell’International Center of Photography di New York;  tra questi anche il Gioacchino Murat di Vincenzo Vela nella tomba di Letizia Murat Pepoli, che fu a sua volta una delle prime estimatrici di Poppi pittore, di cui nel 1857 acquistò  il dipinto Campagna lambita da corrente di fiume, cfr. Grandi 1983.

[41] Le prime committenze risalivano al 1882, quando Poppi intervenne a documentare il restauro del castello di San Martino in Soverzano di Minerbio (Bo) e proseguirono almeno sino al 1894 col  Museo di San Petronio.

[42] Numerose fotografie di Poppi sono comprese nel fondo conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe, della Pinacoteca Nazionale di Bologna.

[43] L’ingegnere possedeva alcune stampe Poppi relative a edifici da lui realizzati, poi donate dalla moglie nel 1939  alla Biblioteca dell’Archiginnasio “per ricordare l’attività del marito nel campo dell’edilizia”.   cfr. Roncuzzi Roversi-Monaco 1992.

[44] E. Viollet-Le-Duc, voce Restauration. in Viollet-Le-Duc 1860, pp. 33-34.

[45] Boito 1893, pp. 28-30.

[46] Cavanna 1981.

[47] Se ne conoscono le stampe all’albumina, in grande formato (37×41 circa, montate su cartoni 44×52 cm), firmate Pietro Poppi e conservate presso la Biblioteca Civica di Padova. Non si può naturalmente escludere che tale incarico derivasse da contatti intrattenuti in occasione della campagna documentaria sul patrimonio architettonico patavino effettuata prima del 1883, ma l’affidamento a Poppi costituisce comunque una singolarità, sia rispetto alla sua produzione consueta (almeno per quanto ci è noto) sia per la presenza in città di buoni professionisti come Ferdinando Farina o Costante Agostini ma soprattutto per la disponibilità nella vicina Verona di uno specialista di grande livello come Moritz Lotze; cfr. Lotze 1984; Vanzella 1997. Altrettanto eccentriche risultano le cinque riprese dedicate al ponte San Michele sull’Adda (ponte di Paderno), completato nel 1889, ma in questo caso l’eccezionalità dell’opera ingegneristica ne determinò l’immissione in catalogo con l’Appendice 2a del 1896 (nn. 1441-1445).

[48] Poppi 1888. Lo spazio disponibile non ci consente di analizzare compiutamente altre produzioni di Poppi non confluite in catalogo, come quella condotta presso l’Istituto Aldini Valeriani nel 1878 o quella commissionata dopo il 1895 dalla Fernet-Branca per documentare la diffusione bolognese delle nuove insegne pubblicitarie con l’aquila disegnata da Leopoldo Metlicovitz, cfr. Tromellini, Cecchini 2003.  Colgo l’occasione per ringraziare Angela Tromellini per la segnalazione delle preziose stampe di Poppi.

[49] Tanto affascinante quanto complesso, e impraticabile qui, anche solo il proposito di accennare all’evoluzione terminologica del linguaggio intorno alla fotografia, ma ricordo a puro titolo di suggestione che l’Adalgisa, uno dei grandi personaggi di Gadda, tra i numerosi interessi del suo compianto Carlo (il marito) comprendeva anche “i ritratti dei paesaggi della Libia”, Carlo Emilio Gadda, L’ Adalgisa: disegni milanesi. Firenze: Le Monnier, 1944.

[50] Laudisa 1995, p. 85.

[51] Alcune riprese di soggetto analogo erano presenti già nel catalogo del 1871, come “Cava con donne” (261) o Sasso [Marconi] – “La torre – casa con figure in costume di codeste montagne” (272). La serie venne poi ulteriormente accresciuta nel 1890 e 1896 rispettivamente con 26 e 16 nuovi soggetti.

[52] Si veda Gaetano Chierici 1986.

[53] Fusco et al. 2011, pp. 93, 116, 126.

[54] F. F., Corrispondenza, [10 ottobre], “Cronaca. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Economia e industria pubblicato da Ignazio Cantù”, 2 (1856), disp.7, pp. 331-333,  Milano: Tipografia di Giuseppe Redaelli. citato in Vanzella 1997,  p. 32 come F. Falzago, Fotografia di Padova nel 1856, datato 15 ottobre 1856.

[55] Voir l’Italie 2009.

[56] Si vedano a titolo di esempio Wayside Gossip, 1882 e He Never Told His Love, 1884, entrambe nelle collezioni della Royal Photographic Society di Londra.

[57] Si veda Giovanni Battista Quadrone 2014.

[58] Si consideri ad esempio il Ritratto di ragazzo con flauto, 1900 ca. in Arte in Italia 2011, p.177. Von Glöden fu a sua volta autore di una nutrita serie di “Scene di vita e di lavoro”, ampiamente pubblicate all’epoca in periodici quali “Il Progresso Fotografico” e oggi quasi dimenticate, cfr. Zannier 2008; ricordiamo inoltre che le sue fotografie, come quelle di Poppi, comprendevano tra i propri possibili destinatari anche gli Istituti d’Arte, cfr. Wilhelm von Gloeden 2000.

[59] Bertelli 1979, pp. 68, 84-87.

[60] Expo Bologna 1888 2015.

[61] Adolphe Braun 2000 ; per Charles Aubry cfr. McCauley 1994. Diverso era l’intento e la concezione delle nature morte realizzate da Roger Fenton intorno al 1860 come delle 47 albumine di Pietro Guidi per la  Flora fotografata delle piante più pregevoli e peregrine di San Remo e sue adiacenze per Francesco Panizzi, del 1870.

[62] Fanelli, Mazza 2012, pp. 154-155.

[63] Quintavalle 2003, p. 408.

[64] La pubblicazione della prima opera fotografica dedicata al tema fu  Hildebrandsson, Osti 1879, con 16 stampe all’albumina,  mentre proprio nel 1890 venne edito il primo atlante sistematico (Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890),  cfr. Lebart 1996, disponibile on line: http://etudesphotographiques.revues.org/288  [05 08 2015].

[65] Si veda Andrea Tarchetti 1990.

[66] Si veda Mario Gabinio 1996.

[67] L’accurata ricostruzione delle vicende che portarono a questo incarico si deve a Marangoni 1999, pp. 159-198, poi sintetizzate in Marangoni 2001.

[68] Marangoni 1999, pp. 133-159.  Poiché il valore dichiarato degli “oggetti esposti” era di L. 1000,  considerando che il prezzo di ciascuna stampa oscillava tra le L. 1,50 cadauna per le sciolte e L. 0.70/1.00 per quelle in album, Poppi avrebbe dovuto esporre più di 600 fotografie, numero che pare troppo elevato anche per uno spazio espositivo molto grande (7×2.90 m. a parete e 7×0.90 in ingombro a terra per le vetrine), il maggiore di quella sezione. Possiamo quindi supporre che esponesse la gran parte dei “campionari” del suo repertorio. La documentazione dell’Esposizione Emiliana, di cui la ditta Poppi era “unica concessionaria del Comitato esecutivo”, comparve in catalogo solo nella Appendice Ia del 1890, ma alcune di quelle immagini vennero pubblicate sul giornale della stessa Esposizione.

[69] Avvertenza, in Ricci, Poppi  1888, p. 3, che più oltre, a proposito del Sepolcro di Rolandino Passeggerio riconosceva che  “la Tavola V ci dispensa da una lunga descrizione”, p. 10. A conferma del ruolo autoriale ed editoriale di Poppi ricordiamo che la pubblicazione era registrata anche nella Appendice I del 1890.  I rapporti tra i due, forse inizialmente mediati dal padre di Corrado, Luigi, con cui Poppi intratteneva rapporti professionali,  proseguirono negli anni successivi quando Ricci divenne Direttore delle “Regie Gallerie” di Parma (1893) e poi di Modena (1894); in quella occasione Poppi rispose alla richiesta di Ricci di integrare la serie di vedute di Modena proponendo una nuova campagna affidata al nipote Angelo Marzola. Ancora nel 1896 Poppi gli avrebbe chiesto di verificare la correttezza delle descrizioni dei soggetti d’arte compresi nell’Appendice 2a; ricordiamo infine che per sua iniziativa 49 fotografie di Poppi entrarono a far parte del”ricetto fotografico” di Brera verso il 1899. La collaborazione editoriale di Ricci con i fotografi fu sempre costante, sia nell’ambito dei propri progetti editoriali, quali l’ “Italia Artistica” sia redigendo testi e saggi introduttivi come fu per Cassarini 1894 e per Pedrini 1929.

[70] Malaguzzi Valeri 1899, nota introduttiva non titolata, pp.n.n. Il volume raccoglieva, rielaborandoli in parte,  anche alcuni contributi specifici già pubblicati nell’ “Archivio storico dell’arte” a partire dal 1893 a loro volta illustrati da fotografie di Poppi. Al verso del frontespizio si segnalavano le  “Fotografie dello Stabilimento Poppi di Bologna/ Eliotipie e Fototipie dello Stabilimento Danesi di Roma”. In realtà le 79 figure nel testo sono zincotipie mentre le venti f.t. sono eliotipie (o fototipie, i termini sono sinonimi). Segnaliamo che nelle zincotipie si riscontrano interventi di modifica quali scontornature degli elementi architettonici (capitelli) e aggiunta di nuvole ai cieli. Il volume è stato studiato da Rubbi 2010.

[71] Album di fotografie della Repubblica di San Marino/ in Bologna presso Pietro Poppi Fotografo governativo della Repubblica di San Marino. Bologna: s.e.,  1889. Come accadeva non di rado, il contratto non prevedeva  altro compenso che la copertura delle spese viaggio, vitto e alloggio; fu però concesso a Poppi di porre in vendita alcune copie dell’album durante l’Esposizione parigina.

[72] Ricordiamo qui che anche il figlio del Console di San Marino a Bologna, Guido Malagola, si sarebbe pochi anni dopo dedicato alla fotografie en amateur realizzando non solo una interessante serie di ritratti del bel mondo internazionale che ruotava tra Venezia e Londra ma anche immagini di tipo documentario, alcune delle quali furono utilizzate per illustrare un volume dedicato a  San Marino (Ricci 1903).

[73] Citato in Bertelli 1984, p. 7.

[74] Grandi 1983.

[75] Le ragioni potevano essere di volta in volta diverse: dalle mutate condizioni dell’edificio all’utilizzo di nuove emulsioni (dal collodio alle prime gelatine poi alle lastre ortocromatiche) sino alla necessità di rifare lastre per una qualche ragione rovinate.

[76] Si veda Modena, Facciata meridionale del Duomo, in E. Anriot, Edifizi, vedute quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna rappresentati colla fotografia. Modena: Nicola Zanichelli, 1868, tav. 65. in quel periodo le vedute animate erano invece consuete nei formati minori, e specialmente nelle riprese stereoscopiche.

[77] Zannier 1980.

 

 

Bibliografia citata

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Arte in Italia dopo la fotografia: 1850-2000, catalogo della mostra (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, 24 dicembre 2011-4 marzo 2012), a cura di Maria Antonella Fusco, Maria Vittoria Marini Chiarelli.  Roma; Milano: Ministero per i Beni e le attività culturali;  Mondadori Electa, 2011

 

Attraverso l’Italia 1902

Attraverso l’Italia. Raccolta di 2000 fotografie di vedute, di tesori d’arte e tipi popolari; con un testo di Ottone Brentani. Zurigo – Lipsia – Milano:  C. Schmidt – Touring club italiano, 1902

 

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Fotografia & Fotografi a Bologna 1839-1900, catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico Archeologico, 25 gennaio-1 marzo 1992), a cura di Giuseppina Benassati e Angela Tromellini.   Bologna: Grafis Edizioni, 1992

 

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Camerini 1868

La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata da Gustavo Doré e dichiarata con note tratte dai migliori commenti per cura di Eugenio Camerini: Inferno. Milano: Stabilimento dell’Editore Edoardo Sonzogno, 1868

 

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Commissione per la Fabbrica di San Francesco, Chiesa di San Francesco e tombe dei Glossatori in Bologna: Restauri e progetti. Bologna: s.e. 1893, esemplare unico dedicato “Alla Maestà di Margherita Regina d’Italia”

 

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Expo Bologna 1888  2015

Expo Bologna 1888: l’Esposizione Emiliana nei documenti delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 8 aprile – 8 giugno 2015), a cura di Benedetta Basevi, Mirko Natoli, “Quaderni della Biblioteca di San Giorgio in Poggiale”, 1. Bologna: Bononia University Press, 2015

 

Fanelli, Mazza 2003

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Lucca: Iconografia fotografica della città, con la collab. di Gilberto Bedini, 2 voll. Lucca: Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; Maria Pacini Fazzi Editore,  2003

 

Fanelli, Mazza 2012

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Fotografia Italiana 1979

Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier.  Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Fotografia pittorica 1979

Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Frisoni 1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte sacra in San Francesco: recupero di una documentazione fotografica, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, 1998, pp. 35-41

 

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Gaetano Chierici 1986

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Giovanni Battista Quadrone  2014

Giovanni Battista Quadrone: un iperrealista nella pittura piemontese dell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi-Ometto, 19 settembre 2014 – 11 gennaio 2015), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Torino: Adarte, 2014

 

Grandi 1983

Renzo Grandi, Pietro Poppi, in Dall’Accademia al vero: La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio-aprile 1983), a cura di Renzo Grandi. Bologna: Grafis, 1983, pp. 212-213

 

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Silvia Paoli , Pietro Poppi, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia.  Milano: Electa, 2000, p. 164-165

 

Papone 1999

Elisabetta Papone, Il mare di vetro: Genova e le Riviere tra veduta e documentazione nell’archivio di Alfred Noack, in  Scoperta del mare: Pittori lombardi in Liguria tra’800 e ‘900, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 9 luglio-24 ottobre 1999) a cura di Giovanna Ginex, Sergio Rebora. Milano: Mazzotta, 1999, pp. 199-213

 

Pedrini 1929

Augusto Pedrini, Il ferro battuto sbalzato e cesellato nell’arte italiana : dal secolo undicesimo al secolo diciottesimo.  Milano: Ulrico Hoepli, 1929

 

Pettina 1905

Giuseppe Pettina, Vicenza. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1905

 

Poppi 1871

Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna/ Palazzo Rodriguez, via S. Mamolo N. 101 primo. S.l. : s.n. [Bologna: Tip. Fava e Garagnani], s..d. [1871]

 

Poppi 1879

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne : Imprimerie Fava et Garagnani, 1879

 

Poppi 1883

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne (Italie): Établissement Typographique successori Monti, 1883

 

Poppi 1888

Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, s.d. [1888]

 

Poppi 1890

Appendice I al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1890

 

Poppi 1896

Appendice 2a al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna : Premiata Tip. L. Andreoli, 1896

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Recine 2006

Francesca Recine, La documentazione fotografica dell’arte in Italia dagli albori all’epoca moderna. Napoli: Scriptaweb, 2006

 

Ricci 1903

Corrado Ricci, La Repubblica di San Marino. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903

 

Ricci, Poppi 1888

Corrado Ricci, Pietro Poppi, Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV. Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, 1888

 

Roncuzzi Roversi-Monaco 1992

Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Il ritratto della città, in Benassati,  Tromellini 1992,, pp. 83-87

 

Rubbi 2010

Valeria Rubbi, L’ architettura del Rinascimento a Bologna: passione e filologia nello studio di Francesco Malaguzzi Valeri.  Bologna: Editrice Compositori, 2010

 

Rubbiani 1886

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di S. Francesco in Bologna; con atlante di nove tavole. Bologna: Nicola Zanichelli, 1886

 

Rubbiani 1887

Alfonso Rubbiani, Le tombe di Accursio, di Odofredo e di Rolandino de’ Romanzi glossatori nel secolo XII. Bologna: Nicola Zanichelli, 1887

 

Rubbiani 1899

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di San Francesco e le tombe dei Glossatori in Bologna: Ristauri dall’anno 1896 al 1899. Note storiche ed illustrative di A.R. Bologna: Tip. Zamorani e Albertazzi, 1899

 

Ruskin 1985

John Ruskin, Viaggi in Italia (1840-1845), a cura e con prefazione di Attilio Brilli. Firenze: Passigli, 1985

 

Schutz 1885

Alexander Schutz, Die Renaissance in Italien. Eine Sammlung der werthvollsten erhaltenen Monumente in chronologischer Folge geordnet. Hamburg: Strumper & C., 1885

 

Secchiari 1997

Simonetta Secchiari, a cura di, Corrispondenti di Corrado Ricci: Indice inventario. Ravenna: Società di Studi Ravennati, 1997

 

Seferović 2009

Abdulah Seferović, Photographia Iadertina: od dagerotipije do digitalne slike. Zagreb: Kapitol, 2009

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890 (nuova ed. Ivrea : Priuli e Verlucca, 1983

 

Sesti 1993

Emanuela Sesti, I cataloghi dei Fratelli Alinari a Bologna fra Ottocento e Novecento. in  Emiliani,  Zannier 1993, pp. 89-92

 

Tomassini 2003

Luigi Tomassini, L’Italia nei cataloghi Alinari dell’Ottocento: gerarchie della rappresentazione del “bel paese” fra cultura e mercato, in Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 147-216

 

Tromellini, Cecchini 2003

Venga a prendere un caffè da noi: dal mitico caffè chantant “Eden” ai moderni bar della città: 1861-1969, in Bologna d’archivio: 150 antiche fotografie della Cineteca, (catalogo della mostra, Bologna, Cineteca Comunale, 16 marzo 2003),  a cura di Angela Tromellini e Margherita Cecchini. Bologna: Cineteca, 2003

 

Tromellini, Spocci 1992a

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Calvert Jones, Richard (att. 1840-1846),  in Benassati,  Tromellini 1992, sch. II/44-II/47,  pp. 192-193

 

Tromellini, Spocci 1992b

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Fotografia dell’Emilia (att. 1865-1940), attr. Piazza e Chiesa di S. Stefano in Bologna, in Benassati,  Tromellini 1992,  pp. 188-189

 

Vanzella 1997

Giuseppe Vanzella, a cura di, Padova: I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana 1985

Franca Varignana, Pietro Poppi: fotografia della città, “Fotologia”, 1985, n. 3, luglio, pp. 40-51

 

Varignana 1993

Franca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Emiliani, Zannier 1993

  1. 55-85

Varni 2011

Angelo Varni, a cura di, Palazzo Caprara Montpensier: sede della Prefettura di Bologna. Bologna : Bononia University Press, 2011

 

Vetruzzini 2007

Barbara Vetruzzini, Fotografi e fotografia a Pisa: Il Grand Tour e la rappresentazione della città, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 23 (2007), n. 45, giugno, pp.40-53

 

Viljoen 1971

Helen Gill Viljoen, ed.,  The Brantwood Diary of John Ruskin: together with selected related letters and sketches of persons mentioned.  New Haven : Yale University Press, 1971

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris : Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. [1860]

 

Voir l’Italie 2009

Voir l’Italie et mourir: Photographie et peinture dans l’Italie du XIXe siècle, catalogo della mostra (Paris, Musée D’Orsay, 7 aprile-19 luglio 2009), Guy Cogeval, Ulrich Pohlmann, dir. Paris: Skira Flammarion, 2009

 

Wilhelm von Gloeden 2000

Wilhelm von Gloeden: Fotografie ritrovate dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze: 1899-1902, catalogo della mostra (Firenze, San Pancrazio, marzo-aprile 2000), a cura Annarita Caputo. Firenze: Pagliai Polistampa, 2000

 

Zannier 1980

Italo Zannier, Il grande catalogo di Pietro Poppi, in  Cristofori, Roversi 1980, pp. 41-49

 

Zannier 2008

Wilhelm von Gloeden: Fotografie: nudi paesaggi scene di genere, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Ragione, 24 gennaio-24 marzo 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 ore, 2008

 

Zucchini 1914

Guido Zucchini, Bologna. Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1914

 

 

 

 

Un lungo sguardo (2013)

in  Fotografare le Belle Arti : appunti per una mostra: un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 Maggio – 28 Giugno 2013). Roma: ICCD, 2013, pp. 77-80

 

Una lunga teoria per meglio dire, conservando le plurime accezioni del termine, tra materialità e concetto, per rendere ragione della ricchezza testimoniale e culturale restituita dalle centinaia di migliaia di stampe che costituiscono questo fondo fotografico e di cui si presentano alcuni esemplari: quasi degli indizi. Più di un secolo di sguardi portati alle Belle Arti con intenzioni e modi, con pensieri diversi. Già solo la varietà dei temi, considerata cronologicamente, ci descrive quale sia stato il progressivo estendersi delle categorie considerate tra i beni della nazione, a partire da quegli Elenchi “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani […] i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali” di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[1] . In continuità con quell’iniziativa si collocava la prima sistematica ricognizione fotografica a scala nazionale avviata a partire dal 1878, opera sempre di operatori locali altamente qualificati, ai quali dobbiamo, in quel torno di tempo e magari per iniziativa personale, la ricchissima documentazione dei nostri centri ‘minori’, quelli storicamente esclusi dal repertorio canonico del Grand Tour. Quando il Ministero concepirà una nuova campagna, quella che darà forma all’Apulia Monumentale di Romualdo Moscioni nel 1892, l’impianto della ricognizione sarà concettualmente diverso, privilegiando ora l’indagine analitica di un territorio, passando quasi dal concetto di emergenza monumentale alla restituzione del tessuto archeologico e architettonico (non ancora paesaggistico) di un’intera regione. Furono questi, per quel che ci è dato di sapere sinora, alcuni dei materiali che alimentarono quella “Collezione fotografica di Belle Arti” del Ministero di cui ci parlano certi timbri al verso delle stampe, ma certo non i soli, o i primi, poiché la presenza di riprese di più alta datazione (come quelle relative a Roma e Venezia) testimonia una fase antecedente e suggerisce occasioni diverse di raccolta che non siamo ancora in grado di definire compiutamente.

In quegli anni i modi della rappresentazione contemplavano l’alternanza di vedute d’insieme e dettagli architettonici o d’ornato, con rare figure: sempre in posa. La loro presenza assumeva ragioni funzionali di riferimento scalare ovvero simboliche, di romantica meditazione sul fascino dell’antico e delle rovine, mentre solo più tardi, ormai alle soglie del pittorialismo, l’architettura medievale sarà trasformata in scenario per le gesta di una figura d’armigero (come ad Aosta). Il ricorso alla fotografi a era entrato a far parte delle buone pratiche degli interventi di restauro ben prima delle messe a punto normative: memore delle indicazioni di Viollet-Le-Duc[2] piuttosto che di Ruskin, il progettista dell’intervento sul Cortile del castello dei Pio a Carpi  richiese una doppia serie di riprese, metodologicamente rigorosa, che implicava la riproposizione esatta dello stesso punto di vista tanto quanto il rispetto del parallelismo tra i piani, qui ottenuto con i limitati mezzi di uno sconosciuto fotografo. Sono gli stessi anni, tra 1875 e 1877, in cui anche il Ministero raccomandava, in una circolare redatta da Cavalcaselle, di “far cavare una fotografi a prima del restauro” dei quadri più importanti, mentre un’analoga precauzione non sarebbe comparsa nel Regolamento ministeriale del 1879 in merito ai dipinti murali, alcuni dei quali furono oggetto nel decennio successivo di innovative letture fotografi che. Mentre la produzione dei grandi studi (da Alinari a Sommer) non offriva ancora esempi di ricognizione analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne dei cicli o alla ricerca del più accattivante motivo, nel lavoro di Pietro Boeri dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli, del 1886, ci troviamo di fronte a una vera e propria lettura fotografica dell’opera e delle scene narrate. Le sessantaquattro immagini che costituiscono la serie restituiscono volti e gesti a un livello di dettaglio inattingibile dalla comune osservazione diretta, mentre danno conto dei modi e della tecnica del pittore, aprendo inedite possibilità d’indagine alla storiografia artistica come alle metodiche finalizzate al restauro, analogamente a quanto sarebbe accaduto con la campagna realizzata da Achille Ferrario sul Cenacolo leonardesco, riprodotto in scala 1:1 in una serie strabiliante di riprese di grande formato realizzate in previsione dell’intervento di Luigi Cavenaghi del 1907-1908, sviluppando la prima ricognizione condotta nel maggio 1895 per iniziativa dell’Ufficio Regionale lombardo. Resta aperta di fronte a queste produzioni la questione dell’autorialità: in quale misura essa debba essere riconosciuta al fotografo, alla sua sensibilità e accortezza professionale (e imprenditoriale) o se piuttosto non si debba (o almeno si possa) ipotizzare un suggeritore occulto, e magari un regista da ricercarsi necessariamente tra gli storici dell’arte (i primi in senso moderno, dopo la fotografia) o gli studiosi d’architettura. La questione non può che essere affrontata per singoli casi, attendendo la disponibilità di rilevanti messi di dati per provarsi a individuare tendenze: per ora ci sia sufficiente porre il problema. E aggiungerne un altro, forse più ovvio ma non più semplice, che riguardava (e riguarda ancora) la questione della riproduzione dei colori. Senza voler ripercorrere il dibattito ottocentesco sul tema, che in Italia data almeno da Macedonio Melloni (1839), ricordiamo come in questo ambito la presunta fedeltà riproduttiva del medium fotografico sia stata per tutto il XIX secolo (e oltre) ottenuta soprattutto facendo ricorso all’uso raffinatissimo del ritocco manuale, indispensabile per ovviare all’imperfetta resa tonale dei valori cromatici delle emulsioni fotografiche, progressivamente migliorata con l’aggiunta di sensibilizzatori ottici. Da qui le successive campagne di ripresa dei grandi atelier, che tornavano a distanza di anni a riprodurre le stesse opere con lastre e poi pellicole ortocromatiche e infine pancromatiche. In attesa del colore. Nei lunghi decenni della monocromia si perseguiva il miglioramento della resa tonale e della stabilità dell’immagine ricorrendo alle possibilità offerte dalle diverse tecniche di stampa (carta salata, albumina, carbone) o di intonazione (viraggio all’oro), accoppiate all’uso di lastre di grande o grandissimo formato, stampate sempre a contatto, mentre la spettacolare ripresa della volta di Santa Maria degli Scalzi a Venezia, venne realizzata intorno all’anno 1900 da Anderson con l’allora innovativa emulsione alla gelatina. Solo apparentemente più semplice si presentava il problema della rappresentazione della scultura: dopo gli entusiasmi antiaccademici e positivi di Ruskin, per il quale non si doveva avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni”[3]   o – in Italia – di Biscarra, che nella fotografia riconosceva l’opera “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”[4], le successive generazioni di studiosi, cresciuti con la fotografia, erano ormai in grado di valutarne criticamente gli esiti considerando in particolare l’incidenza del punto di vista (di ripresa) nella restituzione corretta (non: oggettiva) dell’opera.  Wölfflin, certo, che nel 1896 si scagliava contro la “veduta ‘pittorica’ laterale” per privilegiare criticamente la ripresa dal “punto di vista principale”[5], inteso come quello stabilito dall’autore dell’opera. Solo pochi anni più tardi questa concezione ancora fiduciosamente neutrale del processo fotografico sarebbe stata corretta da uno specialista come Santoponte[6] , che richiamò l’attenzione sulla necessità di considerare criticamente la stessa strumentazione adottata, valutando in particolare l’ampiezza dell’angolo sotto il quale l’opera era ripresa, consapevole della necessità metodologica di far coincidere la “prospettiva geometrica” dell’obiettivo con la “prospettiva soggettiva” della percezione diretta. Resta per noi difficile comprendere se e in quale misura gli esempi di documentazione plastica qui presentati avrebbero potuto soddisfare le diverse sensibilità dei due studiosi. Forse entrambi avrebbero considerato con un qualche sospetto la magnificenza spettacolare della resa del gruppo dei Lottatori (Alinari) o del particolare michelangiolesco del capo di Giuliano de’ Medici (Brogi), sentendosi magari più prossimi alla semplice intenzione documentaria di Filippo Lais, che nascose con un’ampia e un poco sommaria mascheratura il contesto in cui era collocata la statua acefala di Afrodite. Il confronto tra queste realizzazioni, pur così diverse tra loro, e la ripresa fortemente scorciata del rosone del Duomo di Orvieto, morbidamente stampata alla gomma, fa emergere con lampante evidenza la distanza fotografica e culturale (registrata e certificata dalla cronologia) che separa queste produzioni. In quest’ultimo esempio la pura intenzione documentaria ha lasciato ormai posto all’interpretazione autoriale e si è ormai operato il ribaltamento: la fotografia (cioè la stampa) è l’opera mentre il soggetto arretra quasi a pretesto. Questa fotografia documenta (anche) altro: la concezione dell’immagine mostra la tensione irrisolta tra l’impostazione modernista della ripresa fortemente scorciata e una modalità espressiva ancora pittorialista, affidata alla stampa ai pigmenti. Nonostante il soggetto sia piegato e quasi sottomesso all’interpretazione autoriale, la fotografia mantiene però integro il proprio valore d’uso documentario, dice qualcosa a proposito dell’è stato della cosa fotografata. Una irriducibile referenzialità di cui dovevano essere ben consapevoli i fruitori coevi se l’accolsero tra i materiali dell’Archivio. Si muovono su questa linea fecondamente ambigua anche le immagini di paesaggio che chiudono cronologicamente questo breve excursus, testimoniando i nessi di una stagione della cultura e della storia italiane in cui la “questione del paesaggio”[7] , si affacciava come soggetto autonomo sia nella produzione fotografica divulgata dalle pagine de “La Fotografi a Artistica”, sia nel più ampio dibattito politico che avrebbe portato alla promulgazione della Legge 778 del 1922 sulla tutela delle “bellezze naturali”, comprese quelle “panoramiche”. Ancora una volta le immagini di quello che a buona ragione possiamo definire un genere ci interrogano sulla loro particolare natura di documento o – meglio – sulla complessità di questa accezione, in cui il puro referente non è che uno dei termini costitutivi, essendo l’altro rappresentato dalle forme culturali della sua manifestazione non meno che della sua ricezione, coeva e attuale. Così le pecore al pascolo che attraversano le paludi della tenuta di Coltano, che in quegli anni rappresentavano uno dei più forti e ricorrenti stilemi di quella fotografia “che sola merita il nome di Arte”[8] , sarebbero poi divenute oggetto degli strali della nuova generazione che si affacciava dalle pagine dell’annuario del 1943 di “Domus”, sospettosa certo anche nei confronti di una veduta come quella di Capo Miseno, costruita avendo ben chiari i modelli delle incisioni ottocentesche ma drammatizzata da un viraggio che accentuava il cielo corrusco di nubi, in un anticipo di tragedia.

 

 

Note

[1] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”, avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.”, Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”.

[2] L’opinione che “la photographie présente cet avantage de dresser des procès-verbaux irrécusables et des documents qu’on peut sans cesse consulter”, espressa da Eugene Viollet-Le-Duc nella voce Restauration del suo Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle, VIII. Paris:Librairies Imprimeries Réunies, [1860], pp. 33-34, doveva essere ben nota e condivisa dall’ing. Achille Sammarini, responsabile del restauro.

[3] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, II edizione. Sunnyside – Orpington, Kent:  George Allen, 1883, pp. 21-22.

[4] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica: Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia : rivista mensile di belle arti”,2  (1870), IV, p. 58.

[5] Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008.

[6] Giovanni Santoponte, Sulle applicazioni della fotografia all’archeologia, comunicazione presentata al III Congresso archeologico internazionale di Roma, 1912, ora in Id., Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Casa Editrice Italiana, 1913, pp. 36-48 (38).

[7] “È lecito che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e più in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?”, Giovanni Rosadi, Per la difesa delle bellezze naturali, in Id., Difese d’arte. Firenze:  Sansoni, s.d. [1921], pp. 51-61 (55).

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, gennaio, pp. 4-5.

Mostrare i documenti: una questione diplomatica (2012)

in  Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, atti degli incontri di studio Storie di fotografia (Milano, Castello Sforzesco, ottobre 2007-maggio 2010), “L’uomo nero: materiali per una storia delle arti della modernità”, N.S. 9 (2012), n. 9, dicembre, pp. 175-193

 

In memoria di Roberto Signorini

 

 

 

Una finzione è un documentario, ed è anche la realtà.

Nobuyoshy Araki, 2004

 

La conoscete anche voi, ne sono certo, la sensazione che si prova: mostrare i documenti è sempre perturbante. Specialmente quando questa richiesta ci è rivolta (magari) dal rappresentante di una qualche autorità (magari) in uniforme: spersonalizzato. Un brivido freddo, umido, per quanto leggero – non più di un fastidio – ci scivola lungo la schiena come la bava di un cane pavloviano. Affiora un senso di colpa e di pericolo insieme. Nasce dal confronto, impari, tra due opposti: la mia identità è indagata, messa in dubbio da qualcuno che nasconde la propria.

Inevitabile il disagio: in fotografia vengo così male!

Non mi riconosco e mi perdo, forse perché – come ha scritto il Barthes più lucidamente letterario – “non appena io mi sento guardato dall’obiettivo (…) mi trasformo immediatamente in immagine”[1], abdico alla mia identità, alla mia complessità quindi, a favore di un canone. Dev’essere per questo che “in fondo, una foto assomiglia a chiunque, fuorché a colui che essa ritrae”[2], ovvero che “a rigor di termini da una fotografia non si capisce mai nulla.”[3] È per questa consapevolezza, anche. È per questa somiglianza impossibile, che pare vanificare ogni sforzo e ogni eventuale volontà di collaborazione, che mostrare i documenti costituisce un problema, una vera e propria questione che supera i rituali della diplomazia per chiamare in causa le ragioni della diplomatica[4] e apre il fotografico vaso di Pandora della funzione documentaria, del nesso possibile tra somiglianza e testimonianza.

Le riflessioni che seguono non riguardano perciò, almeno non principalmente, lo “stile documentario” (Evans), né l’ “arte del documento” (Lugon) o le “platitudes” studiate da De Chassey[5]; semmai quei documenti che assumono la forma di fotografie, cioè tutte le fotografie (analogiche). Vorrei ragionare intorno alla Fotografia come Documento, e del cosa, sapendo che  “Ogni volta che commentiamo un’immagine, in effetti, facciamo della politica. Parlare delle immagini significa, di fatto, ‘prendere posizione’ riguardo all’efficacia di queste stesse immagini sulla comunità.”[6]

È arduo se non impossibile, forse non solo qui, ripercorrere le vicende che hanno segnato il formarsi e il modificarsi del “pregiudizio realista”[7], del carico documentario della fotografia; dell’espiazione di quel peccato originale da cui da sempre i fotografi (e i critici, dopo) hanno tentato di liberarla e di liberarsi utilizzando le più diverse strategie, poiché anche solo tentare di metterne a punto la successione costituirebbe un impegnativo progetto storiografico.  Basti forse provarsi a dire che tutte queste strategie si sono rivelate necessarie e inevitabili quanto inutili. Inefficaci: perché la referenzialità costitutiva della fotografia resiste a ogni tentativo di negarla. Inevitabili e storicamente necessarie perché è negli sforzi compiuti per accogliere come per superare questa referenzialità sorda che ha preso corpo, che si è mobilmente definito non solo il campo dell’espressività del mezzo e della conseguente riflessione intorno alla definizione della figura e del ruolo dell’ autore[8], ma anche l’insieme dei discorsi intorno e sulla natura stessa della fotografia. Per gran parte della cultura del XIX secolo questa è stata considerata testimonianza fedele del reale[9]; questo era considerato il suo maggior pregio, il suo massimo valore d’uso: il suo dato ‘positivo’. Se ne discutevano i modi semmai, non i fondamenti. Nella metafora quasi animista di François Arago ( 1839) le fotografie erano considerate “immagini [che] creavano sé stesse”; “specchi dotati di memoria” per Oliver W. Holmes (1856). Ancora all’inizio del XX secolo la convinzione di uno studioso raffinato come Peirce era che le fotografie fossero molto istruttive “poiché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente come gli oggetti che rappresentano. Ma questa somiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali da dover corrispondere punto a punto alla natura.”[10] In questa pura constatazione fenomenologica, nell’inedito paradigma della costitutiva assenza di autorialità risiedeva il loro confortante statuto di prova e – ancor prima, ancora adesso – il loro insostituibile valore d’uso. Non toccate da mano d’uomo: non manipolate. È su queste basi che la fotografia venne quasi immediatamente accolta nel laboratorio dello scienziato come nella camera di sicurezza del criminologo; nello studiolo dell’architetto restauratore o dello storico dell’arte.

Considerando che “nella sua definizione classica, la fotografia non è altro che un processo di registrazione, una tecnica di iscrizione, in un’emulsione a base di sali d’argento, di un’immagine stabile generata da un irradiamento luminoso”[11], e che l’accezione diplomatica di documento è quella di “una cosa normalmente mobile (…) prodotta su un supporto (…) tramite un mezzo scrittorio (…) o un dispositivo [che è a sua volta, in senso neppure troppo lato, un mezzo scrittorio] per fissare l’immagine o la voce o, contestualmente, l’immagine e la voce”[12], allora possiamo non solo riconoscere che tutta la cultura del XIX secolo ha legittimamente considerato la fotografia come la più soddisfacente forma di documento visivo, ma anche provare ad avanzare timidamente l’ipotesi che una fotografia, quindi ogni fotografia sia di per sé un documento anche in senso diplomatico archivistico.  La contrapposizione ad alcune recenti posizioni di radicale revisionismo antibarthesiano non potrebbe essere più netta: “poiché la fotografia non è per sua natura un documento” – ha scritto André Rouillée – “il documento non sarebbe in grado di costituire una qualsivoglia essenza o noema della fotografia. Se la fotografia non è per sua natura un documento, ogni immagine racchiude comunque un valore documentario che, lungi dall’essere definito e assoluto, deve essere considerato nella sua variabilità nel contesto di un regime di verità; un regime documentario.”[13]

Resta per ora inevasa l’altra fondamentale questione del cosa una fotografia documenti: “Evidentemente il documento interessa per il suo contenuto, per le informazioni che tramanda, tuttavia le notizie che vi sono rappresentate o descritte richiedono in chi le confeziona delle capacità tecniche che si traducono in canoni di rappresentazione che a loro volta possono costituire oggetto di analisi essendo essi stessi testimonianza diretta dell’attività di documentare.”[14] La definizione diplomatica orienta inevitabilmente il nostro interesse verso il riconoscimento del contenuto e delle informazioni che il documento fornisce, ma ci invita anche a sfuggire al rischio del sinonimo, a scavare una piccola rete labirintica di solchi intermedi, interstiziali. In una distinzione che è più semplice verificare in termini empirici possiamo allora far corrispondere “il contenuto” al dato referenziale, alle notizie “rappresentate o descritte”, mentre nella più generale categoria delle “informazioni” possiamo comprendere tutti gli elementi canonici (storici, culturali, materiali) che determinano la forma, che informano la rappresentazione del contenuto stesso. Da ciò consegue che gli elementi di maggiore ‘valore documentario’ possano essere costituiti  proprio dalle relazioni tra contenuto e canone, tra rappresentato e rappresentazione, connotando in senso più ricco e complesso lo stesso concetto di documento.[15] La verifica sperimentale di questi nessi raggiunge tensioni problematiche particolarmente elevate, genera illuminanti corto circuiti in grado di verificarne la tenuta, quando rappresentazione e rappresentato vengono a coincidere, quando entra (letteralmente) in campo il soggetto autore, non troppo implicito antagonista della neutra oggettività della Natura nello spietato conflitto per la conquista della Verità sotto specie fotografica. Sin dalle origini la sua costitutiva esclusione aveva rappresentato il fondamento, e la garanzia, dello statuto di prova dell’immagine fotografica[16] ovvero, a voler essere precisi, del fototipo, e conseguentemente la negazione di ogni possibilità espressiva, ponendo la pratica e la produzione fotografica al di fuori di ogni possibile paradigma artistico. Non si trattava però di una verità assiomatica o sperimentale, semmai di un luogo comune, per quanto efficace.  Si consideri uno dei progetti più felicemente sofisticati di quella stagione: il notissimo autoritratto di Hippolyte Bayard intitolato Le Noyé, datato 18 ottobre 1840, del quale si conoscono tre varianti[17]. La suprema efficacia di questo modello di strategia comunicativa si fondava proprio sulla consapevolezza e sull’appropriato e conseguente uso narrativo della convenzione in base alla quale il documento (qui: la fotografia) assume validità di prova, accresce il proprio valore testimoniale in misura direttamente proporzionale alla scomparsa (della figura individuale) dell’Autore. E allora: quale miglior ritrarsi del suicidio.  Al verso di una di queste varianti[18] si può leggere l’altrettanto famosa lettera: “La salma che qui vedete è quella di M. Bayard, inventore del procedimento che vi è appena stato illustrato, e di cui vedrete presto i meravigliosi risultati. (…) Il governo che ha sostenuto M. Daguerre più del necessario, ha dichiarato di non essere in grado di fare qualcosa per M. Bayard, e l’infelice si è gettato nel fiume per la disperazione. Oh, incostanza umana! Per molto tempo artisti, scienziati e la stampa si sono interessati a lui, ma ora che giace da giorni alla Morgue nessuno l’ha riconosciuto o ha reclamato la sua salma! Signore e signori, parliamo d’altro in modo che il vostro senso dell’odorato non venga offeso perché, come probabilmente avrete notato, il volto e le mani hanno già cominciato a decomporsi. H.B., 18 ottobre 1840.” L’eccezionale interesse di questo insieme documentario risiede non solo (non tanto?) nelle diverse informazioni contenute, quanto nelle questioni che pone, per la chiarezza esemplare con cui mostra quanto la funzione documentaria di questa nuova categoria di immagini avesse sin dalle origini basi ontologiche e convenzionali a un tempo. Accogliendo l’autenticità del testo che la correda, siamo legittimati a dire che questa è proprio la prima fotografia destinata a valere come prova. Subito vera e falsa. Esemplare di tutti i discorsi che poi verranno fatti e si potranno fare; per questo assume un valore paradigmatico. Per questo bene si presta a essere studiata con gli strumenti analitici della diplomatica, nel cui ambito “lo studio del documento conduce inevitabilmente a porre in rilievo il rapporto tra la natura dell’atto giuridico e la forma dell’atto, e a evidenziare – astraendo dalla storicità del contenuto dell’atto – le connotazioni formali del documento.”[19] L’analisi diplomatica dei suoi caratteri[20] intrinseci (autore, data, contenuto) ed estrinseci (materia e tecnica, ‘stile’ e connotazioni culturali), mostra quanto alcuni possano essere dati per solidamente acquisiti (autore, data, materia e tecnica), mentre altri restano da considerare e circoscrivere; tutti per certi versi relativi alla definizione del contenuto informativo, pur avvertendo che ciò non necessariamente implica un giudizio di verità: non “se dice il vero”, ma “cosa dice, e perché”. È innegabile che l’intenzione dell’immagine apparente (non dell’autore) fosse esplicitamente documentaria, fondata sull’evidenza che ciò che si dava a vedere aveva tutte quelle caratteristiche – immediatamente recepite – di oggettività naturale, attribuite a ciò che oggi chiamiamo fotografia. Questa sua capacità persuasiva era poi ribadita, confermata e certificata dal titolo. Anche la semplicità della ripresa e l’assenza di manipolazioni evidenti, propria della fotografia delle origini, qualificavano (inevitabilmente?) lo stile come documentario; ciò che ulteriormente confermava l’osservatore del suo valore di prova. A questo statuto di traccia indiziaria si accompagnava però, senza contraddirlo, una sintassi compositiva tutta interna alla tradizione culturale dell’Accademia artistica, dove l’iconografia richiamava (se non proprio citava) La mort de Marat  di Jacques-Louis David (1793).  L’intenzione narrativa (dell’autore, quindi) era invece pragmatica (propositiva, pubblicitaria): tendeva a convincere, a costituirla – diremmo oggi – anche come immagine “agente di storia”. Questa somma di ragioni indica come questa fotografia sia sotto un certo rispetto autentica (prodotta intenzionalmente dall’autore dichiarato) e per un altro aspetto falsa, poiché ci inganna sulla realtà che pretende di mostrare. Questa attestazione di falsità è però vera e costituisce (non troppo paradossalmente) l’esito e la conseguenza del testo (che possiamo pensare come didascalia, per quanto insolitamente lunga) redatto dallo stesso autore, che mina la veridicità dell’immagine nel preciso momento in cui la propone come testimonianza documentale. La fotografia non riproduce (il mondo esterno) ma produce (messe in scena del mondo) e ciò nonostante ci consente di interpretarla come testimonianza o almeno come indizio. Non solo di dire che ci sono certamente stati un tempo e un luogo in cui una persona che nominiamo H.B. si è posta in posa di fronte all’obiettivo, ma anche quali fossero le sue sembianze. Non solo quale fosse la sua strategia politica, ma anche la sua cultura visiva; quale la sua competenza (tecnica, espressiva), quali gli oggetti di cui si circondava, quale forma avesse il cappello che usava per i lavori in giardino. Ennesima prova, se mai se ne sentisse il bisogno, di quanto il contenuto del documento fotografico, e l’interesse che può determinare in noi, non possa mai essere ridotto al puro referente fisico, sebbene senza di questo, qualunque sia il modo della sua restituzione, non si dia fotografia.  La pura referenzialità (indicale e primaria, fondante e irriducibilmente resistente) risulta inscindibilmente marcata (ma non eliminata) da connotazioni più o meno consapevoli o intenzionali (iconografiche, simboliche) che non possono che essere di tipo storico culturale e – nello specifico – artistiche.[21] Appartenenti cioè alla storia e alla cultura delle immagini. È questo che rende immediatamente problematica e riduttiva la nozione positivista di documento applicata alla fotografia, ma soprattutto dimostra come sin dalle origini l’antinomia documentario/ artistico, documentario/ narrativo, o documentazione/ finzione che dir si voglia, si dimostri inefficace se non inconsistente, forse semplice eredità della reazione modernista al perdurante pittorialismo. Negli stessi anni (1887-1908) in cui questo aveva cercato di ridurre al limite della riconoscibilità la relazione referenziale della fotografia, accentuandone le valenze simboliche e allontanandosi dal ‘fotografico’, Charles Peirce dava forma logica alla concezione che le aveva assegnato la cultura del XIX secolo[22] mettendo a punto quella teoria del “segno in relazione al suo oggetto” che tanto avrebbe influito decenni più tardi sulla definizione semiotica della fotografia e sull’analisi della sua funzione documentaria, sebbene la compresenza di indice e icona aprisse già allora lo spazio alla pratica artistica.[23] “Una fotografia è un indice avente un’icona incorporata in sé” affermava Peirce nel 1903[24] precisando e arricchendo alcuni cenni precedenti.[25]  “Il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.” E inoltre: “Il valore di un’icona consiste nel suo esibire i tratti di uno stato di cose considerato come se fosse puramente immaginario. Il valore di un indice è che ci assicura di fatti positivi. Il valore di un simbolo è che serve a rendere razionali il pensiero e la condotta e ci consente di predire il futuro. Spesso sarebbe desiderabile che un representamen esercitasse una di queste tre funzioni con esclusione delle altre due, o due di esse con esclusione della terza; ma i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile.”[26]

Sono queste le condizioni che consentono di dire che la fotografia è un esempio perfetto di segno, nel quale la funzione documentaria non può essere ridotta al suo valore indicale, ma neppure che questo può essere escluso quando prevalgano le componenti o le funzioni iconiche e simboliche, se lo spazio narrativo abitato dall’autore assume una dimensione preminente. Circa gli stessi anni, indizi sparsi di una concezione della fotografia meno manichea di quella modernista si ritrovano nelle affermazioni, magari ingenue e teoreticamente poco consapevoli, di Alfred Liégard,  promotore per la Francia della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, per il quale “l’arte e il documento possono, anzi devono, intendersi sul terreno della fotografia (…). Il fotografo artista dovrebbe disdegnare il documento? Per quanto mi riguarda non lo credo. Nulla gli impedisce di trattare artisticamente il documento.”[27] Ma anche, sul versante della critica politica dell’indice, nelle parole di Bertold Brecht per il quale “una semplice restituzione della realtà [meno che mai] dice qualcosa sopra la realtà. (…) La realtà vera è scivolata in quella funzionale.”[28]  Paradigmatico in tal senso il caso delle riprese aeree, figlie del primo conflitto mondiale, quando guerra e fotografia si allearono per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo, che ben esemplifica i termini della questione documentaria, rendendo evidenti i problemi che ci sono in ogni fotografia. L’automatismo di ripresa, l’esclusione programmatica di ogni intenzione autoriale rendevano ciascuna di queste immagini l’esempio più puro di documento, sebbene risultassero di fatto incomprensibili, cioè prive di qualsivoglia valore documentario (e strategico),  a meno di possedere gli strumenti adatti per la loro decifrazione. D’altro canto offrivano quella “esperienza più completa dello spazio (…) uno spazio in tutte le sue dimensioni, uno spazio senza limitazioni”[29] che tanto avrebbe inciso sulla cultura visiva e sulle avanguardie di primo Novecento, dal Futurismo alla Nuova Visione almeno. Reagendo alle manipolazioni della stagione pittorialista, all’equivoca, ingombrante presenza dell’Autore nella determinazione dell’immagine finale, è stato – come è ben noto – il modernismo a recuperare criticamente il valore positivo, specificamente fotografico, della rilevanza del mezzo e del dispositivo, con l’intenzione “di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva”[30], nella convinzione che potesse “essere assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.”

Da queste posizioni, ampiamente condivise dalla cultura fotografica occidentale tra le due guerre, prende l’avvio la questione dello stile documentario, il cui termine qualificativo lo stesso Walker Evans considerava “ingannevole”[31], ma che ha influenzato intere generazioni di autori, rappresentativi di quella che De Chassey ha definito come fotografia “piana”.  “Per funzionare come documenti – ha scritto Lewis Baltz – le fotografie devono innanzitutto persuaderci che esse descrivono correttamente e obiettivamente il loro soggetto; devono in primo luogo convincere il loro pubblico [sic] che si tratta veramente di documenti, che il fotografo ha pienamente utilizzato la propria capacità di osservazione e che ha messo da parte la sua immaginazione e i suoi ‘a priori’.[32] (…) Idealmente il fotografo dovrebbe essere invisibile e il mezzo trasparente; per lo meno è a questo livello di obiettività cui io aspiro. Io voglio che il mio lavoro sia neutro, diretto e libero da ogni intenzione estetica o ideologica affinché le mie fotografie possano essere viste come delle dichiarazioni fattuali sul loro soggetto piuttosto che come espressioni di ciò che io ne penso.”[33] La poetica della (presunta) “cancellazione del soggetto agente”, che si riappropria criticamente delle posizioni ottocentesche attraverso W. Evans, costituisce per Olivier Lugon “la regola fondamentale dello stile documentario”[34], ma si fonda a mio parere su di una concezione semplicistica e fondamentalmente errata.  Non sono infatti i modi (quindi neppure lo stile) a determinare lo statuto di documento di una fotografia, ma il suo essere (originata da) un fototipo[35], comunque consapevoli che questo, come ogni altro documento del resto, non possa mai essere letto come una “dichiarazione fattuale” della realtà: semmai di una realtà o – meglio – di una sua particolare porzione e manifestazione[36]. Come ha sarcasticamente dimostrato Duane Michals: There Are Things Here Not Seen in This Photograph, “Ci sono cose che non si vedono in questa fotografia: La mia maglietta era madida di sudore. La birra era buona, ma io avevo ancora una gran sete. Un ubriaco stava parlando a voce alta di Nixon con un altro. Io osservavo uno scarafaggio passeggiare lentamente lungo il bordo di uno sgabello. Dal jukebox, Glenn Campbell incominciava a cantare Southern Nights.  Avevo bisogno di andare in bagno. Un derelitto mi si stava avvicinando per chiedere soldi. Era ora di andare.”

Quella che per i critici delle origini era quasi solo una pura constatazione fenomenologica, e per i modernisti una rivendicazione estetica, è stata assunta da molti autori novecenteschi di tradizione, diciamo così, ‘topografica’ come posizione critica, senza rendersi conto (o non essendo interessati al fatto) che il funzionamento documentario è indifferente allo stile; che lo stile documentario è solo uno dei possibili; che ogni fotografia  (diversamente e più di ogni altro prodotto culturale) ha un elevato contenuto testimoniale dovuto al suo inevitabile carico referenziale. È dal seme della sua determinazione ontologica che germogliano poi le intenzioni, le condizioni e i condizionamenti del contesto e dell’autore, vale a dire tutti quegli ulteriori elementi che ne determinano/ configurano il senso storico e il valore documentario complessivo.[37]  Anche per questo risulta oggi difficile concordare con W. Evans quando affermava che “un esempio di documento in senso letterale sarebbe la fotografia di un crimine scattata dalla polizia. Un documento ha un’utilità, mentre l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile.”[38] Di questa abusata citazione non mi pare possibile condividere la sostanza, e non solo perché la concezione di documento qui espressa appare irrimediabilmente datata e riduttiva per gli anni in cui è stata espressa (1971); non solo perché ogni opera (non solo fotografica, ovvio) può essere (usata come) documento, ma anche e soprattutto perché quando questa è una fotografia essa costituisce inevitabilmente un documento almeno nel suo più riduttivo senso referenziale, di segno indicale scalato nel tempo (“è stato”). Di più, e ribaltando in un qualche modo le convinzioni comuni, la storia della fotografia ci mostra come l’idea di documentario e la stessa realizzazione del documento non abbiano mai escluso la possibilità di interventi da parte dell’autore. La funzione documentaria convive da sempre con manipolazioni più o meno rilevanti, configurandosi come intenzione che accoglie i valori testimoniali di registrazione di ogni ripresa fotografica.  Si pensi ad esempio alla pratica di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle riprese ottocentesche: per ovviare all’inconveniente non c’era buon fotografo che non si dotasse di “numerosi negativi di nuvole nei quali la posizione del sole varia di molto; [così] accade che qualcuno di questi negativi si adatti perfettamente alle condizioni di luce del momento in cui opero normalmente. Quel cielo viene perciò riprodotto in più vedute.”[39] Tecnicamente: un vero e proprio fotomontaggio, non diverso (neppure nelle motivazioni generali di efficacia dell’immagine finale) da quelli che ha realizzato ad esempio un autore di grande maestria documentaria come Vittorio Sella, sia in alcune delle sue notissime immagini di montagna, aggiungendo nuvole o figure, sia in un contesto apparentemente meno problematico quale è quello della documentazione etnografica, quando, ad esempio, è intervenuto incollando la figura di un galletto per riempire il primo piano di una scena di paese.[40] Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà, se necessario spettacolarizzandola. Così resta difficile credere che “affinché [una fotografia] possa ‘passare’ per foto documento è necessario che non appalesi, a livello di traccia dell’enunciazione, il suo essere un fotomontaggio.”[41]  Condizione forse necessaria (a patto di ben definire cosa si intenda per fotomontaggio), ma certo non sufficiente, e comunque problematica, essendo determinata dalla doppia competenza del produttore e del fruitore. Direi piuttosto che è indispensabile che il suo contenuto iconico sia verosimile, cioè coerente con le aspettative legittimate dall’enciclopedia di conoscenze del fruitore stesso. È quindi una questione di ricezione e di giudizio, che rimanda all’esperienza; che si fonda – prima di ogni altra possibile valutazione – sul riconoscimento di quell’immagine come fotografia e sull’accettazione delle sue implicazioni.

Riconsideriamo allora un elemento centrale di una delle già citate affermazioni di Peirce:  “il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.”[42] Questo sapere, questa consapevolezza (per quanto problematica), questo riconoscimento è il fondamento della funzione del medium: “in ogni atto di ricezione di una fotografia vi è un momento iniziale che consiste nell’identificazione dell’immagine come un’immagine fotografica. È dal realizzarsi di questa identificazione che in gran parte dipende la costruzione del segno. Se infatti essa manca, l’immagine non sarà tematizzata come indicale: la si guarderà come semplice icona analogica.”[43] Riconoscendo quell’immagine come fotografica sono indotto a credere all’è stato di ciò che raffigura; a interrogarmi non sulla sua esistenza, certificata proprio dalla fotografia, ma sulla sua identità. Credo però che non si possa neppure escludere l’inverso: se la forma analogica, se l’icona non viene riconosciuta, se non si riesce a individuare un possibile referente poiché nessuna somiglianza è colta, possono non darsi ragioni per stabilirne la natura di indice. Nella nota definizione di Schaeffer la fotografia è quindi un “segno di ricezione”, il cui riconoscimento, la cui esistenza significante è condizionata dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché : una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica”[44], sebbene questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”  Riportando queste considerazioni al nostro discorso possiamo provare a dire che la possibilità di accoglierne il valore documentario (non il suo ‘stile’) dipende dalla duplice capacità del recettore di identificarlo in quanto fotografia, cioè di comprenderne la natura fondante e primaria di indice, e di riconoscerne il referente, almeno in termini generali poiché – come ha ricordato Paul Ricoeur – “affinché l’impronta sia segno di qualcos’altro, è necessario che in qualche modo indichi la causa che l’ha prodotta.”[45]

Dalla necessità di considerare come costitutiva (e produttiva) questa tensione tra indice e recettore derivano due conseguenze metodologiche: A- L’orizzonte disciplinare peirciano fornisce la strumentazione teorica necessaria per comprendere perché la fotografia documenta. B- Poiché la fotografia è anche “segno di ricezione” di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[46], quello stesso orizzonte risulta insufficiente e di necessità deve essere esteso facendo ricorso alle scienze storiche, all’interrogazione della fotografia in quanto prodotto culturale. Il passaggio dalla Fotografia alla fotografia implica il riconoscimento della connessione logica tra il suo processo generativo (e conseguente funzionamento semiotico) astorico, e la sua manifestazione concreta, oggettuale e temporale: storica. “Il significato di ogni fotografia – ha ricordato Geoffrey Batchen – è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che ] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa.  Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto storico politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria: impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.”[47] Questo porta a dire che “la mobilità semiotica della fotografia richiede certamente una storicizzazione altrettanto mobile.”[48] Semiotica e storiografia sono quindi i due ambiti teorici e metodologici solo apparentemente inconciliabili che ci consentono di dare sostanza attuale alla definizione di documento stabilita dalla diplomatica, indicando percorsi di ricerca e metodi che consentano di rispondere infine alla domanda cruciale del ‘cosa’ un documento significhi, di quali diversi ordini possano essere le informazioni che lo qualificano. A questo proposito può essere utile riflettere sulle corrispondenze esistenti tra la definizione peirciana di segno e quella di documento così come si è andata costituendo in ambito filosofico e storiografico francese nella seconda metà del Novecento. Sappiamo dalla semiotica che i segni puri sono estremamente rari, anzi “i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile”[49], e – analogamente – che i documenti non registrano meccanicamente il dato o l’evento, non costituiscono la descrizione oggettiva di un’ entità ‘reale’, ma sono essi stessi intrisi di valori simbolici e determinati da canoni rappresentativi. “La storia è ciò che trasforma i documenti in monumenti” ha scritto Foucault[50], aprendo lo spazio a quella revisione profonda del concetto, poi compiuta da Jacques Le Goff: “il documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca, della società che lo hanno prodotto, ma anche delle epoche successive (…) e la testimonianza e l’insegnamento che reca devono essere in primo luogo analizzate demistificandone il significato apparente. (…) Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di sé stesse. Al limite non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico il non fare l’ingenuo.”[51] Più in particolare – come ha ricordato Paolo Fossati – “è inutile fingere innocenza, distinguere tra creatività e documento (e non c’è idea peggiore che provarsi a farlo): bisogna manovrare, lì in mezzo”[52], rifiutando tra le altre cose la tentazione di soccombere alla logica fuorviante dell’eccezionalità, quanto mai pericolosa specialmente quando si intenda dar conto del lavoro fotografico, dell’opera di un fotografo.[53]

Come non esiste un segno che sia puro indice, una fotografia che sia puro “atto-traccia” al di fuori del momento della sua esposizione[54], analogamente non esiste un documento oggettivo. Per questo possiamo dire che ogni fotografia, in quanto segno nella sua pienezza, è un documento/ monumento ovvero

dati: I = indice; D = documento; M = monumento; S = simbolo

si può scrivere: I : D = S : M

che sviluppando diviene: I/ S = D/ M

che traduce in formula algebrica (affettuosamente dedicata a Peirce – Le Goff) le considerazioni espresse in precedenza. In questo senso credo si possa dire anche che ogni fotografia è un buon esempio di “semioforo, ossia un oggetto visibile investito della significazione”, secondo la nota definizione di Pomian, accompagnata però dalla precisazione necessaria che questo carattere non definisce tanto un’essenza quanto una funzione, poiché “i semiofori si distinguono dai sistemi di segni soprattutto per il fatto che nel loro caso la storia è il necessario complemento della teoria, e questo non perché rimandino a un presunto sostrato metafisico della continuità ma perché, essendo visibili e quindi caratterizzati da estensione e temporalità, si trasformano, si inabissano, cambiano di  posto e di significato sempre restando semiofori, oppure perdono la loro funzione, non circolano più e, se non vengono abbandonati come residui, cominciano a venir utilizzati come cose.”[55]

Così facendo assegniamo a ogni fotografia, un doppio valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del referente, rispetto alla quale il valore documentario prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Dal valore delle fotografie come documenti/ monumenti deriva la necessità di andare oltre la considerazione per la semplice registrazione del dato referenziale per prestare attenzione, per interrogarle (e interrogarsi) sui canoni e sui modi della rappresentazione; di dare un senso alla scelta dei temi, assegnando la stessa importanza alle presenze come alle assenze. Sono queste le ragioni che devono portare, anche per la fotografia, a considerare la singola immagine solo in senso relativo per collocarla all’interno di una serie, portando alla luce la rete di relazioni che questa sottende e implica.

 

 

Note

[1] Roland Barthes, La chambre claire: Note sur la photographie. Paris: Cahiers du Cinéma – Gallimard – Seuil, 1980 (trad. it. La camera chiara: Note sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1980), p. 12. Sulla tenuta delle posizioni espresse in questo notissimo testo, forse il più influente e citato saggio sulla fotografia degli ultimi decenni, oggetto in anni recenti di reazioni tardivamente isteriche, si vedano gli studi raccolti e l’ampia bibliografia citata in Geoffrey Batchen, ed., Photography Degree Zero: Reflections on Roland Barthes’s Camera Lucida. Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2009.

[2] Barthes 1980,  p. 103.

[3] Susan Sontag, On Photography. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1977 (trad. it. Sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1978, p. 22).

[4] Intesa secondo la definizione classica come scienza che si occupa del documento in sé, dei suoi elementi formali e contenutistici allo scopo di verificarne e mantenerne nel tempo l’autenticità. Utili riferimenti al dibattito intorno alle relazioni fra la fotografia e la diplomatica sono stati indicati da Tiziana Serena, L’archivio fotografico. Possibilità derive potere, in Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, atti della giornata di studio (Venezia, 29 ottobre 2008), a cura di Anna Maria Spiazzi, Luca Majoli, Corinna Giudici. Crocetta del Montello: Terra Ferma, 2010, pp. 103-125 (105, nota 12)

[5] Cfr. Leslie Katz, Interview with Walker Evans, “Art in America”, 59 (1971), n.2,  March-April pp. 82-89 (87); Olivier Lugon, Le style documentaire. D’August Sander à Walker Evans 1920-1945. Paris: Éditions Macula, 2001 (trad. it. Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920 -1945. Milano: Electa, 2008); Eric De Chassey, Platitudes. Une histoire de la photographie plate. Paris: Gallimard, 2006.

[6] Georges Didi-Huberman, intervistato da Isabella Mattazzi in occasione della presentazione del libro Come le lucciole. Una teoria della sopravvivenza,  “Il manifesto”, 40 (2010), n. 41, 20 febbraio, p. 11.

[7] Gérard Lagneu, Illusione e miraggio, in Pierre Bourdieu, dir., Un art moyen. Essais sur les usages sociaux de la photographie. Paris:  Les Editions de Minuit, 1965 (trad. it. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media. Rimini: Guaraldi, 1972,  pp. 211-228 – 215).

[8] Tra queste una delle più interessanti e produttive è rappresentata dal paradosso della sua volontaria scomparsa quale strategia discorsiva destinata ad affermarne con maggior forza la presenza. Accogliendo le riflessioni ancora feconde di Vaccari e Flusser, per i quali l’autore si colloca buon ultimo nella determinazione dell’immagine, possiamo provare a dire che in alcune pratiche questo marca la fotografia in misura inversamente proporzionale alla sua esplicita volontà di farlo. Cfr. Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Torino: Agorà, 1979 (nuova ed. Torino: Einaudi, 2011); Vilem Flusser, Fur eine Philosophie der Fotografie. Göttingen: European Photography, 1983 (trad. it. Per una filosofia della fotografia. Torino: Agora, 1987; nuova ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006). Le vicende storiche delle diverse pratiche fotografiche, delle differenti concezioni della fotografia comportano anche un percorso distinto, sebbene fortemente intrecciato a quello qui considerato, a cui possiamo solo accennare: quello del passaggio (funzionale, culturale, mercantile) da documento a opera,  si veda P. Cavanna, Da strumento a patrimonio: documenti e opere, in Fototeche a Regola d’Arte, Atti delle giornate di studio (Siena, 30 novembre – 1 dicembre 2007), a curadi Giorgio Bonsanti, Siena, CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro – Fototeca Briganti, Atti disponibili in rete: https://www.yumpu.com/it/document/read/33408520/1863-4-giugno-inaugurazione-del-museo-civico-comune-di-siena (01 03 2023).

[9] La definizione puramente analogica della fotografia era condivisa anche dalle culture non occidentali: in giapponese ad esempio gli ideogrammi che corrispondono al termine fotografia (“Shashin”)  sono traducibili come “copia della realtà/ realtà copiata”. Con significativo parallelismo, nella concezione positivista anche il lavoro dello storico si proponeva come ‘trasparente’, nella convinzione ideologica di poter mostrare i puri fatti. Oggi, così come la fotografia non è più ‘invisibile’ e anzi ci interessiamo prevalentemente ai modi della sua visibilità, anche il lavoro dello storico si offre esplicitamente come discorso e narrazione, dove “il senso non deriva dai ‘fatti’ nudi e crudi e dagli ‘eventi’ isolati, bensì è un qualcosa che scaturisce dalla temporalità della narrazione”,  Iain Chambers, Culture after Humanism.  London: Routledge, 2001 (trad. it. Sulla soglia del mondo: L’altrove dell’Occidente. Roma: Meltemi, 2003, p. 18), che riprende Paul Ricoeur, Temps et récit.  Paris: Seuil, 1983-1985 (trad. it. Tempo e racconto. Milano: Jaca Book, 1986-1988). La pratica storiografica attuale adotta una “concezione dinamica delle fonti, con il richiamo alla loro creazione epistemologica da parte dello storico, [ciò che] segna il superamento sia dell’ ‘oggettivismo’ dell’impostazione positivistica, sia del soggettivismo intuizionistico dell’idealismo; oggetto e soggetto della conoscenza storica sono legati da una relazione di reciproca funzionalità.”, Giovanni de Luna, La passione e la ragione: Fonti e metodi dello storico contemporaneo. Milano: La Nuova Italia, 2001, p. 118, che rimanda alla concezione dinamica delle fonti di Jerzy Topolski.

[10] Charles Peirce, What is a Sign?, in Id., How to Reason: A Critik of Arguments (Gran Logic), 1909, citato in Roberto Signorini, Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce,  2009, p. 203, disponibile sul sito della SISF – Società Italiana per lo Studio della Fotografia: https://www.sisf.eu/wp-content/uploads/2014/08/Signorini_Peirce_2009.pdf   [20 12 2022]. Questo contributo, che costituisce l’esito ultimo del costante, solitario e faticoso impegno di Roberto per l’accrescimento della cultura fotografica italiana, il suo ennesimo impervio sforzo per contribuire a colmare l’enorme divario che la separa – che ci separa – dagli universi della ricerca più attrezzata e avanzata che caratterizzano la scena degli altri paesi, ha costituito per me, come altre volte, non solo una fonte imprescindibile per accedere in modo sistematico al pensiero di Peirce, ma anche e soprattutto un’occasione di riflessione e quindi di crescita di cui gli sono debitore pur non condividendo sempre le sue conclusioni.

[11] Hubert Damish, Cinq notes pour une phénoménologie de l’image photographique, “L’Arc”, 1963, n. 21, printemps, ora in Id., La Dénivelée. À l’épreuve de la photographie. Paris: Seuil, 2001, pp.7-11 (7). Damish richiama poi l’attenzione del lettore sul fatto fondamentale, di cui qui non possiamo considerare le conseguenze, “che questa definizione non presuppone l’impiego di un apparecchio non più di quanto implichi che l’immagine ottenuta sia quella di un oggetto o di uno spettacolo del mondo esterno.” Analoghe considerazioni sono state espresse da Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Lazlo Moholy-Nagy: “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, cfr. Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup, “History of Photography”,  18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86. Ben si adattano a questa concezione le riflessioni sulla fotografia condotte nell’ambito dei più recenti studi sul segno: “La modalità semiotica della fotografia è quella di una traccia su una superficie e che, in quanto traccia, adotta il regime dell’impronta.”, Hamid-Reza Shaïri, Jacques Fontanille, Approche sémiotique du regard photographique: deux empreintes de l’Iran contemporain, “Nouveaux Actes Sémiotiques”, nn.73-75. Limoges: Pulim, 2001, (trad it. Un approccio semiotico dello sguardo fotografico: due impronte dell’Iran contemporaneo, in Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero, Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi. Rimini: Guaraldi, 2008, pp. 217-242: p. 353, nota 209), con l’avvertenza che attenendosi alla sola “ontologia della traccia, che si imporrebbe al fruitore al di qua di qualsiasi interpretazione, la foto diverrebbe un oggetto teorico solo nel momento in cui è assunta come ‘testimonianza muta’, una ‘macula caeca rispetto all’interpretazione’. Ma (…) la percezione della fotografia o la sua apprensione affettiva passano per interpretanti (…) attraverso movimenti abduttivi.”, Pierluigi Basso Fossali, Peirce e la fotografia: abusi interpretativi e ritardi semiotici, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp.113-214 (207). Per queste ragioni la semiotica filopeirciana viene da questi autori considerata insoddisfacente, perché “ha ricondotto la significazione [della fotografia] all’atto produttivo, senza dedicare attenzione né alle forme testuali, né ai regimi discorsivi e alle prassi comunicazionali. Queste teorie, invece che moltiplicare gli strumenti metodologici per rendere conto delle diverse strategie estetiche ed enunciazionali delle occorrenze testuali, riducono il funzionamento del medium a un’unica definizione, a un’essenza (fotografia come icona, indice, simbolo del reale). (…) Chi sceglie invece la testualità come unità pertinente all’analisi (…) ha il merito di deontologizzare il discorso sull’immagine fotografica distaccandosi da una classificazione per medium produttivo e di aprire alla problematica delle diverse pratiche di interpretazione e fruizione della fotografia.”, Maria Giulia Dondero, Geografia della ricerca semiotica sulla fotografia, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp. 21-111 (21-22). Pur comprendendo la necessità di marcare il proprio territorio di ricerca mi pare che non poche siano le possibili intersezioni tra queste rivendicazioni della supremazia della testualità e le riflessioni di segno diverso di autori come Schaeffer o Ricoeur (cfr. nota 44 e testo relativo), mentre una sintesi efficace mi pare riconoscibile nel concetto di semioforo applicato alla fotografia, per quanto di cultura vi è nella sua produzione (determinata anche nella manifestazione concreta dell’atto-traccia da quello che Flusser ha chiamato “apparato”) e nella sua percezione, sempre storicamente mediata (cfr. nota 11 e testo relativo).

[12] Paola Carucci, Il documento contemporaneo: Diplomatica e criteri di edizione. Roma: NIS, 1987, p. 14.

[13] André Rouillé, La photographie. Paris: Gallimard, 2005, pp.25-26, che così prosegue: “Il valore documentario dell’immagine fotografica poggia sul suo dispositivo tecnico, ma non è garantito da questo. Esso varia in funzione delle condizioni di ricezione dell’immagine e delle convinzioni che si hanno su di essa. La registrazione, il meccanismo, il dispositivo contribuiscono a sostenere queste convinzioni, a consolidare la fiducia, a sostenere il valore, senza mai garantirli completamente. (…) Questa metafisica della rappresentazione, che si fonda tanto sulle capacità analogiche del sistema ottico quanto sulla logica dell’impronta del dispositivo chimico, conduce a un’etica della precisione e a un’estetica della trasparenza.”, Ivi, p. 73. Qui Rouillé pare non saper distinguere tra “valore documentario” (che può essere nullo, e che è inevitabilmente determinato dal variare del contesto storico culturale) e natura documentale della fotografia. Ricordo che, salvo diversa indicazione, le traduzioni dei testi di cui non è disponibile un’edizione italiana sono di chi scrive.

[14] Carucci 1987, p.14. La definizione non potrebbe essere più chiara e convincente, sebbene io consideri una necessità, e non una mera possibilità, l’analisi dei canoni adottati nella realizzazione del documento. Così se è vero che il documento iconografico prima di essere utilizzato quale “prova storica indubitabile” deve essere “liberato (…) da un complesso di superfetazioni – strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica – immancabilmente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista” (Giovanni Romano, Iconografia e riconoscibilità, “Casabella”, 64 (1991), n.575/576, gennaio, p. 26), è innegabile che, oltre l’uso puramente referenziale della fonte, sia invece indispensabile per il procedere dell’indagine storiografica riconoscere e analizzare proprio quelle “superfetazioni” che costituiscono le condizioni che ne hanno determinato le stesse forme di esistenza, sino a “passare attraverso la mediazione della coscienza dell’autore della fonte.”, (Witold Kula, Riflessioni sulla storia, [1958]. Venezia: Marsilio, 1990 p.31, citato in De Luna 2001,  p.137). Per ricondurci al nostro contesto, risulta allora legittimo dire che “Ben più che un ‘è stato’ dell’oggetto, la fotografia attesta un ‘è stato vissuto’ dal fotografo” (Serge Tisseron, Le mystère de la chambre claire. Parigi: Flammarion / Les Belles Lettres, 1996, in Dondero 2008, p. 51), ma anche che “la fotografia riproduce meno di quanto non produca; o – piuttosto – essa non riproduce senza produrre, senza inventare, senza creare, artisticamente o meno, del reale; mai in alcun caso il reale”  (Rouillé 2005, p.169, corsivi dell’autore), senza per questo rinunciare al riconoscimento della sua natura di segno indicale.  Pur tenendomi prudentemente lontano dalle sirene del decostruzionismo ad libitum, per il quale “il senso non è immanente al testo, ma alla pratica di interpretazione” (François Rastier, Art et sciences du texte. Paris: Puf, 2001 – trad. it. Arti e scienze del testo. Roma: Meltemi, 2003, in Dondero 2008, p. 54) ovvero che “il segno deve essere studiato ‘sotto cancellatura’ [essendo] sempre già ‘occupato’ dalla traccia di un altro segno che non appare mai come tale; [ragione per cui] la semiologia deve lasciare il passo alla grammatologia” (Gayatri Spivak, Translator preface, in Jacques Derrida, Of Grammatology. Baltimora: Johns Hopkins University Press, p. xxxix, in Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History.  Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2002, p. 204, nota 36), sono convinto che la costante consapevolezza del documento come sistema complesso (nella sua costituzione) e aperto, nella sua ricezione e interpretazione, debba costituire la condizione fondante della strumentazione metodologica applicata allo studio della fotografia (ciò di cui si sente particolarmente il bisogno), ma che le riflessioni che da questa nascono possano essere feconde per tutta la riflessione storiografica sui documenti e quindi sulle fonti. Si vedano a questo proposito i diversi interventi contenuti nel numero monografico di “History and Theory” e in particolare le riflessioni della curatrice Jennifer Tucker: “Piuttosto che postulare una mancanza di ‘esperienza’ o di ‘metodo’ nell’uso delle fotografie [da parte degli storici], sarebbe forse più rilevante considerare la fotografia in relazione alla complessità dell’uso storico di qualsiasi documento. Ciò che dovrebbe essere chiaro in questo contesto è che le fotografie non sono né più né meno trasparenti di ogni altra fonte documentaria. (…) in altre parole, le fotografie non si limitano a mettere semplicemente in evidenza le potenzialità e i limiti della fotografia quale fonte storica, ma le potenzialità e i limiti di tutte le fonti storiche e dell’indagine storica quale progetto intellettuale. Così questa è precisamente la promessa e la maggiore potenzialità insita nello studio storico delle fotografie: che spinge i suoi interpreti ai limiti dell’analisi storica.”,  Jennifer Tucker, con Tina Campt, Entwined Practices: Engagements with Photography in Historical Inquiry,  “History and Theory”, 50 (2009), n. 48, December, Theme Issue, pp. 1-8 (5).

[15] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite. Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; John Tagg, The Disciplinary Frame. Photographic Truths and the Capture of Meaning, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso rimando a Alfred Liégard,  La question de la photographie documentaire, in “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 6-7.

[16] In questa prima stagione era proprio il suo statuto di documento, e non di rappresentazione, ad attrarre operatori, pubblico e critici, nella convinzione comune che fosse “compi­to della pittura (…) quello di creare, della fotografia di copiare e riprodurre” (Antoine  Claudet, La photographie dans ses relations avec les Beaux-Arts,  discorso letto alla Photographic Society of Scotland, poi pubblicato in “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.101-114). Era infatti opinione diffusa che questa potesse restituire “le esatte apparenze della forma, ma non isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, 1852, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e C., 1859, pp. 338-339, ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945: Appendice di testi e documenti, “Storia d’Italia – Annali”, 2.2. Torino: Einaudi, 1979, pp.233-235.

[17] Tra le innumerevoli fonti bibliografiche che riproducono questa notissima fotografia segnalo il solo Helmut Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981, p.49, mentre rimando a Geoffrey Batchen, Le Noyé, in Id., Burning with Desire: The Conception of Photography. Cambridge Massachusetts – London:The MIT Press, 1997, pp.157-173 per una affascinante lettura critica e  per la riproduzione del testo. A partire da Bayard la storia fornisce innumerevoli e precoci esempi di confutazione del “pregiudizio realista” della fotografia tra i quali mi piace ricordare almeno il doppio autoritratto spiritista di Francesco Negri, 1870 ca, cfr. P. Cavanna, Il Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Casale ed una mostra, “Fotologia”, n.14/15, 1992, pp. 46-53 (46).

[18] Archivio storico della Societé Française de Photographie, Paris, n. 0024.269.

[19] Carucci 1987, p.27. Vorrei far notare che eliminando il qualificativo “giuridico” – per altro fondamentale per la diplomatica – e facendo corrispondere la “storicità del contenuto” al referente, questa considerazione si può applicare anche alla fotografia.

[20] Mi pare interessante sottolineare come la loro determinazione corrisponda di fatto alla catalogazione critica del fototipo, cioè alla sua descrizione (autore, data, materia e tecnica) e alla sua interpretazione (riconoscimento del contenuto e sua veridicità).

[21] Tra le innumerevoli, possibili esemplificazioni di questi nessi rimando a una delle più note fotografie di William Eggleston, The Red Ceiling, 1973, a proposito della quale lo stesso autore notava: “Quando ne osservi una stampa dye-transfer, sembra sangue rosso fresco sulle pareti.  Questa fotografia era come un esercizio di Bach per me, poiché sapevo che il rosso era il colore più difficile con cui lavorare.”, William Eggleston, Ancient and Modern. New York: Random House, 1992, pp. 28-29. Quel richiamo è stato poi criticamente sviluppato da Mark Holborn, per il quale “la campitura rossa ha un peso emotivo; è come se il soffitto stesse sanguinando. Qui, il colore rafforza il riferimento della struttura visuale alla bandiera della Confederazione; metaforicamente, un campo di sangue.” Mark Holborn, William Eggleston, Democracy and Chaos,  “Artforum”, 36 (1988), n.10, Summer, p. 91,  citato in William Eggleston: Democratic Camera, Photographs and Video, 1961-2008, catalogo ella mostra (New York – Whitney Museum, Monaco – Haus der Kunst, 2008),  Elisabeth Sussman, Thomas Weski, eds. New York – Monaco, Whitney Museum – Haus der Kunst,  2009, p. 12.

[22] Si veda Signorini 2009, p. 223.

[23] Uso qui i termini in modo ingenuo/ convenzionale senza addentrarmi (per manifesta incompetenza) nel ginepraio delle questioni poste dalle scuole semiotiche di derivazione greimasiana, che tendono a considerare inappropriata o comunque irrilevante la questione ontologica (l’in sé della fotografia) per spostare l’accento sulla sua semiotica testuale e ricettiva (vedi anche nota 11), partendo dalla constatazione – innegabile – che affinché si dia un segno occorre necessariamente la presenza di una funzione interpretante (di qualcuno che lo interpreti come tale) e che lo stesso Peirce, ad esempio in Of Reasoning in General, in Id., Short Logic, I, 1895 (in Signorini 2009, p. 151-155), ha parlato di indice, icona e simbolo, come rappresentazioni, cioè come azioni (che ci riguardano) e non come proprietà di entità che ci sono esterne. Resta però a mio avviso indispensabile provarsi a definire le caratteristiche distintive della Fotografia per riuscire a comprendere le diverse strategie  – storicamente determinate – che la riguardano.

[24] Charles S. Peirce, On Existential Graphs, 1903 ca, in Signorini 2009, pp. 174-177.

[25] 1895: “Una fotografia è un’icona” ; 1896: “L’icona, che è la fotografia della quale l’indice costituisce la legenda (…)”. Salvo diversa indicazione le citazioni sono tratte da Signorini 2009, pp. 210-215.

[26] Vedi nota 24.

[27] Alfred Liégard,  Le document et l’Art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

[28] Citato in Walter Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, “Die literarische Welt”, 1931,  (trad. it. Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp.59-79: 75)

[29] Lazlo Moholy-Nagy, in Lugon 2001, p. 70. Le Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo italiano nel 1918 mostravano invece di temere la deriva ‘artistica’ dei loro operatori, tanto da imporre che non si dovesse tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cfr. Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp.9-20 (16). È appena il caso di ricordare qui le posizioni di Giuseppe Pagano, di Carlo Mollino e ancor prima di Boggeri che, nel generoso tentativo di trapiantare in Italia i canoni della nuova visione tra costruttivismo e Bauhaus  indicava “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari.”,  Antonio Boggeri, Commento, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[30] Alberto Rossi, Fotografia come arte, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII (XIV).

[31] Walker Evans, 1971, qui ripreso da Lugon 2001, p. 19, che ha opportunamente definito la “neutralità documentaria” nulla più che un’apparenza. Anche per un interprete raffinato come Ghirri “Tutto all’interno delle sue fotografie sembra naturale.”, Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, in “Gran Bazaar”, n. 46, ottobre-novembre 1985, pp. 18-19, ora in Id., Niente di antico sotto il sole: Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte. Torino: Società Editrice Internazionale, 1997, pp.70-71, sottolineatura dell’autore; notazione tanto affascinante quanto problematica, dove “naturale” credo debba essere inteso nella doppia accezione di realizzato con naturalezza, ma anche – e insieme – di trasparenza, elemento da cui emergono le cose per quello che sono. O, almeno, “sembra”.

[32] Lewis Baltz, The New West by Robert Adams,  “Art in America”, 63 (1975), n. 2, March-April, p.41, in De Chassey 2006, p.152.

[33] Lewis Baltz, I want my work to be neutral and free from aesthetic or ideological posturing, in Carol Di Grappa, ed., Ladscape Theory. New York: Lustrum Press, 1980, p.26, in De Chassey 2006, p.153. Il riferimento esplicito è W. Evans, 1971 (vedi nota 5), che a sua volta si rifaceva a Flaubert (“L’assenza dell’autore, la non soggettività”), ma queste affermazioni hanno il sapore di una regressione. In Evans c’era la consapevolezza che si trattasse di uno ‘stile’ mentre Baltz, nonostante le buone intenzioni programmatiche, è proprio di un’ideologia che si appropria, quella mitica della neutralità oggettiva, della fotografia trasparente; mostra cioè di volersi ritrarre come autore proprio nel momento in cui definisce più precisamente il proprio ruolo, la sua presenza. Se proviamo a definire semioticamente lo stile documentario come quel modo di connotare le immagini in cui appare una corrispondenza massima tra indice e icona, tra registrazione e raffigurazione, con una rilevanza sostanzialmente nulla – in termini costitutivi – della componente simbolica, ne deriva che in questo dovrebbe essere il dispositivo a prevalere sull’autore, la componente materiale a vincolare quella culturale, ma allora: lo stile documentario non può esistere in sé, proprio in quanto scelta d’autore. Dove c’è volontà d’autore non può esservi stile documentario, ma può esserci – c’è – documento, poiché l’immagine risultante non può prescindere dalla messa in ordine della visione imposta e concessa dall’apparato fotografico, dalla sintassi propria della fotografia in quanto immagine ottica. Analogamente, il fatto che la fotografia sia (anche) indice non la riduce per ciò stesso a essere trasparente, oggettiva, a-narrativa. Semmai è proprio nella tensione tra queste polarità che risiedono tutte le sue potenzialità. Anche dal punto di vista ottico lo “stile documentario” è l’esempio massimo di convenzione, di finzione che si mostra autentica e come naturale: basti ricordare come il cono visivo che penetra il corpo della macchina venga ridotto sul piano a una innaturale per quanto ragionevole figura angolare, imponendo che una parte dell’immagine si riversi su superfici insensibili. Un furto, una perdita irreparabile della quale neppure ci rendiamo conto, ingenuamente certi che tutto accada entro i rassicuranti margini della ‘inquadratura’. Il cerchio è la forma dell’immagine pura. La sola che noi conosciamo (inconsapevoli), riversa al fondo del nostro occhio. È la figura primaria corrispondente alla formazione ottica di ogni immagine: analogamente a quanto accade nella proiezione retinica, non esiste figura rettangolare che racchiuda l’immagine proiettata da un sistema ottico. Dal foro stenopeico a qualsivoglia sistema di lenti, l’area della proiezione è sempre circolare: solo le convenzioni storico culturali e alcune difficoltà tecnologiche (quindi culturali anch’esse, ovvio) hanno fatto sì che anche la fotografia fosse comunemente racchiusa tra quattro angoli retti.

[34] Lugon 2001, p. 156. Per quanto risaputo, credo sia necessario ribadire che questa condizione costituisce la base di tutta la fotografia nominalmente documentaria (giudiziaria, scientifica e simili), nella quale la scelta non si opera per ragioni di stile ma normative: “Abbiamo trattato le nostre macchine fotografiche come strumenti di registrazione e non come apparecchiature per illustrare le nostre tesi” ha detto Gregory Bateson, a proposito del lavoro fatto con Margaret Mead a Bali (circa 25.000 scatti), cfr. Elizabeth Edwards,  Antropologia, in Robin Lenman, ed., Oxford Companion to the Photograph. New York: Oxford University Press, 2005 (edizione italiana a cura di Gabriele D’Autilia, Dizionario della fotografia. Torino: Einaudi, 2008, I, pp. 31-34: 32).  In questi ambiti la fotografia è intesa e utilizzata quale strumentazione scientifica in grado di fornire dati misurabili. All’indagine storico critica il compito di comprendere le ragioni per cui l’indicalità fotografica costituisca un dato positivamente acquisito in ambito scientifico e contemporaneamente negato in ambito espressivo e artistico, pur facendo ricorso alla stessa tecnologia. Non sono quindi i suoi principi a essere posti in discussione, ma gli usi e i canoni. Basti pensare alla diversa qualificazione del ruolo dell’autore, a cui nella fotografia documentaria non è dato di scegliere (meno che mai di ritrarsi), mentre nella fotografia ‘artistica’ questo comportamento si dà come alternativa possibile, scelta stilistica che ne ribadisce il ruolo e la presenza in absentia. Autorialità e crisi documentaria: se per la cultura delle origini della fotografia la sua fedeltà al vero si fondava sul prevalere della ‘natura’ sull’uomo, fu l’affermarsi della fotografia come immagine e l’inscindibile affermazione della figura dell’Autore a mettere in discussione e in crisi la (concezione della) fotografia come documento, sebbene nel solo ambito ristretto della fotografia ‘artistica’. Nessun tecnico di laboratorio, nessun operatore dei grandi studi internazionali attivi nel campo delle riproduzioni d’arte, della fotografia industriale e simili ha mai messo in dubbio questa accezione, prodigandosi semmai per individuare e adottare le migliori soluzioni tecniche e tecnologiche necessarie a che il compito potesse essere svolto nel migliore dei modi. Più interessante risulta oggi il riconoscere una valenza etica “nel ricorso a forme di immagini che propongono un concentrato di umiltà, di distanza riflessa e di audacia a privilegiare una forma ornata di virtù di fondo. Il documento è una risposta al mondo delle immagini sul terreno stesso delle immagini, forse il solo mezzo per opporsi al regno assoluto dello spettacolo. (…) è quindi un’utopia (…) il documento incarnerebbe così ‘l’ultima immagine’. L’ultima immagine possibile dopo le disillusioni e i dogmatismi (…) un’esperienza limite che contiene la promessa di una rivoluzione. (…) La potenza speculativa del documento risplende al giorno d’oggi come la sintesi improbabile di rappresentazione e informazione.”, Michel Poivert, La photographie contemporaine. Paris: Flammarion, 2002, p.140.

[35] In ambito fotografico, per fototipo si intende un’immagine positiva o negativa visibile e stabile ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.

[36] Si pensi alla riproduzione Alinari del dipinto di Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane, 1505, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze: un caso esemplare di documento fotografico se mai ve ne fu uno. Il confronto con l’opera di Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, fotografia su tela emulsionata, 30×24, da Ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dall’osservatore di questo quadro, 1967, spalanca però all’improvviso l’abisso del contesto: le due immagini – identiche (specie in una qualsiasi versione a stampa) – sono portatrici di informazioni per la gran parte radicalmente diverse, pur condividendo lo stesso contenuto referenziale, corrispondente al dipinto di Lotto, alle sue condizioni di esistenza in un momento dato e al livello tecnologico della riproduzione monocroma di un dipinto.

Un’eco della suggestione concettuale dell’opera di Paolini risuona anche nell’incipit de La camera chiara: “in quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: ‘Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore’.”,  Barthes 1980, p. 5.

[37] Per questa ragione non potrei essere più lontano dalle posizioni di chi sostiene che “non sono i segni – e a maggior ragione le loro tipologie – a interessarci; sono le forme significanti, i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia, come di ogni immagine o di ogni testo, un oggetto di senso”, come se le due posizioni fossero antitetiche e inconciliabili. Soprattutto mi pare infondato sostenere che “il voler a ogni costo definire lo specifico della Fotografia impedisce di lavorare sulle fotografie e nega ogni possibilità, ogni probabilità, di smentire il suo a priori. Parlare di Fotografia, come di Pubblicità, significa accettare il taglio socio-culturale, dunque relativo e storico, dei linguaggi e dei mezzi di espressione. Cercare la loro specificità significa, tutt’al più, esplicitare un sistema connotativo.”, Jean-Marie Floch, Les formes de l’empreinte. Périgueux: Fanlac,  1986 (edizione italiana a cura e con traduzione di Luisa Scalabroni,  Forme dell’impronta. Roma: Meltemi, 2003) pp. 8-9. In parte diverse sono le ragioni di dissenso nei confronti delle riflessioni di John Tagg, sebbene complessivamente più stimolanti e articolate. “Il medium della fotografia non era dato e uniforme. Costituiva sempre un esito localizzato, l’effetto di una particolare delimitazione del campo discorsivo, la funzione di uno specifico apparato o macchina, nel senso in cui Foucault ha utilizzato questi termini. Il medium doveva essere costituito e venne definito in maniera molteplice. (…) Il medium non è qualcosa di semplicemente dato. Deve essere costituito, e deve essere istituito. E non è istituito uniformemente e omogeneamente, ma, piuttosto, in modo discontinuo, localizzato ed eterogeneo, quale proprietà di particolari strutture istituzionali e quale effetto di  specifiche delimitazioni del campo discorsivo.”, Tagg  2009, p. XXVIII, p. 15. Il riferimento, condiviso con Batchen, alla lezione magistrale di Foucault, il quale si proponeva di definire gli oggetti senza far riferimento al loro fondamento, ma mettendoli in relazione con il corpus di regole che consente loro di formarsi come oggetti di un discorso e porre così le condizioni per la loro comparsa storica, è prezioso, ma mi pare che proprio la possibilità del medium fotografico di costituirsi localmente in contesti e modi diversi non possa che essere fondata (e storicamente data) su quello che a suo tempo Barthes ha individuato quale noema della Fotografia. Voler negare questo dato sarebbe come dire che non riconosco legittimità o rilevanza ai principi della termodinamica perché il mio ambito di studio sono le funzioni storiche e sociali delle ferrovie. Non credo sia possibile comprendere dal punto di vista storico culturale “i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia un oggetto di senso” senza interrogarsi, e capire, cosa sia la Fotografia, perché solo a questa condizione sono in grado di identificare geneticamente le ragioni e i modi del suo essere nella storia e nella cultura, nella cultura storica.

[38] “Talvolta vengo definito un ‘fotografo documentario’ – proseguiva Evans – ma questo presuppone la consapevolezza della sottile differenza che ho appena enunciato, che è piuttosto nuova. Si può agire in base a questa definizione e ricavare un piacere maligno dall’invertire i termini. Spesso faccio una delle due cose mentre si crede che stia facendo l’altra”, in Katz 1971, p. 87. Alla luce di queste dichiarazioni risulta criticamente infondato, per non dire gratuito, l’accanirsi nel verificare lo stato attuale dei luoghi a suo tempo ripresi da Evans. Più appropriata e fruttuosa ci pare la sua definizione, di poco precedente, dell’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p.301. In termini più complessi un analogo concetto è stato sviluppato da Flusser, che ha definito l’immagine tecnica quale apparato destinato a produrre simboli, e di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti.”, Flusser 1987, p.  31. Anche l’interpretazione antropologica, sintetizzando una lunga serie di riflessioni, ha riconosciuto come “rispetto all’ideologia (…) la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”, Francesco Faeta, Wilhelm von Von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Mi pare invece appropriata la qualificazione di stile documentario per molte produzioni artistiche di area concettuale, in particolare per quelle in cui entra in gioco l’elemento di archivio o la classificazione tipologica, come in Christian Boltanski e nei coniugi Becher, ma anche per le Esposizioni in tempo reale di Vaccari, nelle quali si ritrova, pur nelle diverse forme e intenzioni espressive, una evidente coerenza tra ‘stile’  (qui ‘documentario’) e intenzioni progettuali e discorsive.

[39] Da una lettera di Farham Maxwell Lyte al “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, in Bernard Marbot, Des ciels dans les paysages photographiques, dossier della mostra Quand passent les nuages ( Paris, Bibliothèque nationale, 1988), consultabile all’indirizzo  http://expositions.bnf.fr/legray/reperes/nuages/index.htm   (11-05-2011). L’esempio più noto di questa pratica è certo la Vallée de l’Huisne  (River Scene, France) che  Camille Silvy espose al Salon parigino del 1859, cfr. Mark Haworth-Booth, Camille Silvy: River Scene, France. Los Angeles: Getty Museum Studies on Art, 1993; Id., Camille Silvy: Photographer of Modern Life 1834-1910. Los Angeles: Getty Trust Publications, 2010.

[40] Piazzetta della chiesa con muli, 1890, stampa all’albumina con fotomontaggio, ritocchi e annotazioni, prova di stampa per Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890, t.36, Biella, Fondazione Sella.  Questa fotografia è stata pubblicata anche da Piergiorgio Dragone, La fotografia di Vittorio Sella, in Id., Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, p. 275. Per altri fotomontaggi di Sella vedi Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982. Sulla figura di Vallino rimando a P. Cavanna Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995),n.122, pp. 124-127. Analoghe pratiche di verosimiglianza segnarono anche molta fotografia modernista, come fu ad esempio per Cesare Giulio, cfr. Sul limite dell’ombra. Cesare Giulio fotografo, (Torino, Museo nazionale della Montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2007. Anche la fotografia etnografica propriamente detta, dietro e oltre una metodologia connotata da precise intenzioni documentarie lascia emergere pratiche meno lineari, che non escludono il ricorso all’artificio, quale ad esempio la ricostruzione della scena fotografata; cfr. Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: uno sguardo antropologico. Milano: Mazzotta, 2006 e, per l’analisi di un caso specifico, P. Cavanna, Di un viaggio in Italia, passando per il Piemonte, in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932, II. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp. 319-331.

[41] Basso Fossali 2008, p. 15. Un’efficace testimonianza di quanto possa essere osmotico (quindi problematico e attraente) il confine che delimita l’area del documento fotografico è costituita da questa dichiarazione di Jeff Wall a proposito di Man with a Rifle, 2000, frutto della sintesi digitale di dieci distinte riprese: “Penso sia evidente che tutte le parti  assemblate per realizzare Man with a Rifle sono esempi di fotografia diretta [straight photography]; eccetto la performance dello sparatore (…) la maggior parte sono fotografie documentarie. (…) è anche importante notare che la cosiddetta ‘azione drammatica’ nell’immagine è una ricostruzione il più possibile precisa di un istante che accadde in strada, nella quotidianità. È parte della quotidianità, non è inventata.”, cfr.  Friederich Tietjen, Interview with Jeff Wall, “Camera Austria”, 24 (2003), n. 82, pp. 6-18.

[42] Vedi nota 24. La questione dell’atto culturale del riconoscimento non é però così semplice né così scontata. Sono note non poche esperienze etnografiche e antropologiche in cui l’immagine fotografica risulta priva di valore indicale poiché non viene neppure riconosciuta come icona (cfr. Vittorio Lanternari, Sensi, in “Enciclopedia”, v. 12. Torino: Einaudi, 1981, pp. 730-765). Questo fatto ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, mentre d’altro canto alcune ricerche di neuropsichiatria infantile hanno dimostrato che “il bambino dal terzo mese in poi non solo è in grado di riconoscere la madre tra le altre persone quando essa è presente, ma la riconosce anche in fotografia.”, Maria E. Barrera, Daphne Maurer, Recognition of mother’s photographed face by the three-month-old infant, “Child Development”, 52 (1981), n. 2, giugno, pp. 714-716, citato in Nicola Peluffo, Immagine e fotografia. Roma: Borla, 1984, p.13, nota 3. Altrettanto significativi i casi in cui la decifrazione dell’immagine fotografica, cioè il riconoscimento del suo contenuto indicale è reso problematico da ragioni percettive, di percezione della forma in particolare. Quando l’icona gioca con le nostre convenzioni rappresentative, improvvisamente risulta difficile stabilire di cosa, di quale referente quell’immagine sia indice e traccia. Si veda, a puro titolo di affascinante esempio la sequenza di Duane Michals, Things Are Qeer (Le cose sono strane), 1973 (cfr. Jonathan Weinberg, Things are Queer, “Art Journal”, 55 (1996), dicembre  , ora consultabile all’indirizzo  https://www.academia.edu/10840375/Things_are_Queer  – 22 12 2022). La questione resta quindi per molti versi ancora aperta, ma il fatto che in un determinato contesto o in certe condizioni di ricezione il riconoscimento divenga problematico sino a far perdere lo specifico statuto di segno non mi pare che possa di per sé inficiarne la primaria natura indicale. Non è la mancata comprensione da parte di un particolare interprete a stabilire la specificità del segno. Più difficile valutare le conseguenze in termini di analisi culturale del precoce riconoscimento infantile della raffigurazione fotografica come analogo del reale, a meno di sottolineare come questo prendesse corpo – letteralmente – nella figura della madre, come suggerisce anche l’episodio descritto dall’antropologo Melville Herskövits riportato da Allan Sekula, On the Invention of Photographic Meaning,  “Art Forum”, 13 (1975), n. 5, gennaio, pp. 36-46, ora in Victor Burgin, ed., Thinking Photography.  London: Macmillan, 1982. Anche le riflessioni ultime che Barthes ha dedicato alla fotografia ne La camera chiara si sono dipanate dal groviglio del rapporto proustiano con la madre.

[43] Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire. Du dispositif photographique. Paris: éditions du Seuil, 1987, p. 111, (edizione italiana a cura e con traduzione di Marco Andreani, Roberto Signorini, L’immagine precaria: Sul dispositivo fotografico. Bologna: CLUEB, 2006). La funzione necessaria del riconoscimento è stata ribadita in termini più generali anche da Ricoeur, per il quale “la traccia lasciata è anch’essa un’impronta offerta alla decifrazione. Tuttavia, così come è necessario sapere – un sapere anteriore ed esterno – che qualcuno ha coniato la cera con il sigillo, è necessario sapere che un animale è passato di là, addirittura saper distinguere la traccia di un cinghiale da quella di un capriolo. Così l’enigma dell’impronta si ripete in quello della traccia; è necessario un sapere teorico preliminare riguardo le abitudini di chi ha lasciato la traccia, e un sapere pratico riguardo l’arte della decifrazione della traccia, che, solo allora, funge da effetto-segno del passaggio che ha lasciato la traccia.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, pp.12-14. Pur senza addentrarci qui in una problematica tanto affascinante quanto complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia.  In questo orizzonte risulta particolarmente stimolante e produttiva la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[44] Schaeffer 1987, p. 111. Queste posizioni sono state polemicamente contestate da André Rouillé: “Di fatto, se c’è del vero in una fotografia – documento, non è in ragione di una corrispondenza, e neppure di un adeguamento alle cose. La porzione di verità che può essere accreditata all’immagine risiede meno nella sua somiglianza con le cose che nel contatto che stabilisce con quelle. Si tratta di una modalità nuova della verità: una verità per contatto invece che per somiglianza.  In termini peirciani, la verità fotografica è più indicale (indiciaire) che iconica. L’impronta prevale sulla mimesi. O, piuttosto, la mimesi descrive mentre l’impronta attesta. È precisamente questa dialettica tra descrizione (ottica) e attestazione (chimica) che costituisce la forza della fotografia, e non la sua precarietà come crede  Jean-Marie Schaeffer nella sua opera L’Image précaire. Du dispositif photographique.”, Rouillé 2005, p. 118, che non ha però voluto tenere nel debito conto il fatto che il processo ricettivo stabilito da Schaeffer accoglie in pieno la concezione indicale di Peirce.

[45] Ricoeur 2004, p.19.

[46] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[47] Batchen 2002, pp. viii-ix.

[48] Ivi, p. 106.

[49] Vedi nota 24.

[50] Michel Foucault, L’Archeologie du savoir. Paris: Gallimard, 1969, p. 15.

[51] Jacques Le Goff, Documento/Monumento,  in “Enciclopedia”, v. 5, 1978, pp.38-48, ora in  Id., Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp.443-456. È interessante e utile accostare queste considerazioni a quelle espresse circa gli stessi anni da Barthes a proposito della fotografia, che “essendo per natura tendenziosa (…) può mentire sul senso della cosa, ma mai sulla sua esistenza.” (Barthes 1980, p. 87) In un ambito più circoscritto, anche Schaeffer 1987, p. 158, ha notato come “l’arte fotografica in quanto istituzione museale, sembra oscillare in permanenza tra il documento e il monumento.”

[52] Paolo Fossati, Appunti sull’autore e sul suo libro, in Angelo Schwarz, La fotografia tra comunicazione e mistificazione. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1980, p. 12. La posizione espressa da Fossati rispecchia quella di un altro intellettuale, anch’egli torinese ed einaudiano, come Giulio Bollati che nell’aprire gli Annali della “Storia d’Italia” dedicati alla fotografia dichiarava programmaticamente di voler situare quel libro “in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”, Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Bertelli, Bollati 1979, pp. 3-55 (5).

[53] Per queste ragioni risulta indispensabile riflettere anche sulla “questione dell’unità di misura basilare della fotografia, che storici e commentatori hanno comunemente inteso essere la singola immagine, come se la storia della fotografia fosse una storia della pittura in miniatura.”, Ian Jeffrey, Photography. A concise History. London: Thames and Hudson, 1981, p. 7.

[54] Philippe Dubois, L’acte Photographique. Bruxelles: Éditions Labor, 1983, (edizione italiana a cura di Bernardo Valli, L’atto fotografico, Urbino, Edizioni Quattro Venti, 1996, p. 53).

[55] Krzysztof Pomian, Histoire culturelle, histoire des sémiophores, in Jean-Pierre Rioux, Jean-François Sirinelli, dir., Pour une histoire culturelle.  Paris: Seuil, 1996, pp. 73-100 (trad. it., Storia culturale, storia dei semiofori, in Pomian, Che cos’è la storia. Milano: Bruno Mondadori, 2001, pp.129-155), che sintetizza la riflessione ventennale dell’autore intorno a questa categoria di “oggetti che non hanno utilità” ma sono “dotati di significato” in quanto “partecipano allo scambio che unisce il mondo visibile a quello invisibile”, in accezione non necessariamente metafisica, cfr. K. Pomian, Collezione, in “Enciclopedia”, v. 3. Torino: Einaudi, 1978, pp. 330-364.

Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Quoi? La Photographie  ovvero  La carriera di un dilettante fotografo (2006)

in Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo: (1841-1924).  Cinisello Balsamo: Silvana, 2006, pp. 14-29;  La biblioteca del fotografo, estratto da Francesco Negri e la Biblioteca civica di Casale Monferrato, “AFT – Rivista di Storia e Fotografia”, 6 (1991), n.14, pp. 61-63

 

La lastra fotografica è la vera retina dello studioso

Jules César Jansen, 1888

 

 

Cappello e soprabito sull’attaccapanni, forse appena appesi, come se fosse rientrato da poco in questo angusto spazio ricolmo di carte che fu il suo studio. Una fotografia disposta con noncuranza apparente sulla stufa in ceramica, una stampa di paesaggio se la nitidezza della ripresa non ci tradisce, ci consente di datare questa  stereoscopia all’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi certamente dopo il 1896, quando la consuetudine di Negri con la fotografia datava ormai da almeno un trentennio e la fase delle applicazioni e sperimentazioni più strettamente scientifiche poteva ormai dirsi conclusa.

Per quanto è possibile desumere dallo studio dei documenti fotografici e archivistici rimasti a costituire il fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, ambito necessariamente ristretto su cui è stata condotta la ricerca, possiamo far risalire  al luglio del 1862 il primo indizio certo del suo interesse per la fotografia.[1]  In quei giorni il giovane Negri, poco più che ventenne e appena trasferitosi a Casale, poneva un’annotazione a matita sulle pagine del volume di Eugène Disderi, L’art de la photographie[2], uno dei manuali più autorevoli dell’età del collodio, attento alle questioni poste dal ritratto fotografico, ad un esito di rassomiglianza che andasse oltre la pura resa fisiognomica, quella cui pure l’autore doveva la propria notorietà di inventore del ritratto in formato carte-de-visite.

Conosciamo ancora troppo poco la storia della fotografia a Casale Monferrato[3] per sapere se Negri avesse potuto trovare localmente suggestioni e sostegno alla propria passione nascente o se questi non gli provenissero invece dal soggiorno torinese, dove si era laureato in giurisprudenza nel 1861, ambiente in cui era stata precocemente praticata la fotografia sin dal fatidico 1839, divenuta ben presto attività fiorente e diffusa per la presenza di numerosi e qualificati studi professionali come di amatori colti[4], nobili o borghesi che fossero, coi quali certamente non possiamo escludere possibili relazioni legate all’ambiente universitario.

Ciò che risulta però chiaro è come l’attenzione fosse da subito sistematica e precisamente orientata se già nel 1864  il novello sposo[5] risultava abbonato non solo alla prima rivista italiana di settore, “La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia” diretta a Milano da G. Ottavio Baratti”, ma anche a prestigiosi periodici internazionali come “The Philadelphia Photographer”, mentre la sua biblioteca si arricchiva di  preziosi manuali[6].

Risaliva ai primi di settembre dell’anno precedente la sua più antica ripresa datata, una lastra al collodio[7]  che oltre all’indicazione del giorno (“1863 5 sett.”)  e alla sigla “N.F.” porta inciso il numero d’ordine «44», ad inaugurare una consuetudine tipica di molti fotografi coevi cui Negri restò fedele sino agli ultimi anni di attività[8]. È  l’immagine di tre figure in esterni, due donne e un uomo seduti, tutti con fucili da caccia, realizzata forse a Ramezzana, una delle grange dell’abbazia di Lucedio (Trino)[9]. Non si tratta quindi di un ritratto vero e proprio, anzi si potrebbe quasi parlare di un’istantanea ante litteram, ma per noi costituisce la testimonianza di come il suo primo interesse fosse rivolto alla figura umana, colta inevitabilmente nella  cerchia di relazioni personali, come fu per molti dei fotografi amatori delle origini.

Sebbene non datati, sono da collocarsi nello stesso periodo di tempo gli splendidi ritratti eseguiti in interni, fortemente influenzati dai coevi modelli professionali e in particolare fedeli alle istruzioni del già citato testo di Disderi,  che indicava come “la prima cosa che deve fare il fotografo che desidera ottenere  un buon ritratto, sia di penetrare (…) il tipo reale e il vero carattere dell’individuo; lo si deve studiare e conoscere [si deve] comporre il ritratto, in una parola. Comporre un ritratto, per noi, vuol dire scegliere le modalità di rappresentazione più adatte al modello e combinare tutti gli elementi visibili in maniera unica.”[10]

Questa ascendenza è ancor più evidente nelle riprese a figura intera, col soggetto disposto di tre quarti, in pose rigorose e ferme e un uso degli arredi che ricalca la disposizione tipica delle carte-de-visite del francese, con un tendaggio collocato come quinta di chiusura a sinistra, mentre in altri casi l’utilizzazione di elementi tipici quali la balaustra posticcia, farebbe pensare alla collaborazione di un professionista casalese per ora non individuato, lo stesso che potrebbe averlo istruito nella sua prima fase di formazione.

Non mancano neppure le riprese in esterni, forse di poco antecedenti, per le quali Negri ricorreva a un’improvvisata scenografia fatta di pochi elementi (un fondale uniforme appena mosso da un tendaggio poggiato, un tappeto, l’immancabile poltrona)[11], mentre altre  ne sono completamente prive e tutta l’attenzione è rivolta all’efficace rappresentazione della persona, traducendo in figura il rapporto di colloquialità che lo legava al soggetto, analogo a quello che emerge – seppure in maniera più sottile – dalla bellissima serie di ritratti in interni in cui la non convenzionalità della rappresentazione è testimoniata più che dalla posa dalla presenza di arredi non stereotipati, certamente appartenenti all’ambiente quotidiano del fotografo.

Sono ritratti che sembrano dar corpo ai più alti esiti attesi dal nuovo realismo del mezzo fotografico, a quella “ricerca di assoluto verismo” di cui ha parlato Carlo Bertelli[12]. Sono indizi certi di una fiducia tutta positiva nelle sue capacità di descrizione analitica, di traccia del reale, ma alcuni indizi ci orientano verso una convinzione più incerta. Penso alla coppia costituita dall’Autoritratto con lo stereoscopio  e dal Ritratto della moglie  con una rivista fotografica in grembo, che assumono un’evidente connotazione allegorica, ma soprattutto ai due autoritratti multipli come ‘fantasma’, che rivelano tutta la gioiosa sorpresa, il primitivo stupore per le possibilità narrative della nuova tecnica che avremmo ritrovato in Lumière e Méliès agli albori del cinematografo. La burlesca messa in scena  spiritista non solo rivela il giudizio sarcastico dell’uomo di scienza[13] su di un fenomeno allora in voga, ma costituisce una precoce, immediata intelligenza dell’illusoria obiettività e verosimiglianza della ripresa fotografica.  Se questa può mostrare ciò che non esiste, allora il suo stesso statuto di verosimiglianza documentaria – pur ampiamente fondato e giustificato – deve essere accolto criticamente, ma contemporaneamente usato per stupire. In questa latente contraddizione continua risiede il fascino fecondo dell’immagine fotografica, ribadito da Negri in modi ed occasioni diverse lungo tutto l’arco della sua produzione.

“La fotografia – ha notato George Didi-Huberman[14] – nasce in un tempo che considera sé stesso del sapere assoluto. La fotografia è certo uno strumento d’obiettività straordinariamente fecondo, [ma] è innanzitutto uno strumento di sperimentazione, cioè mette in evidenza la variabilità o la relatività dei fenomeni visibili, non la loro stretta ‘positività’ .” In particolare consente di fissare l’immagine di ciò che non appare: perché troppo piccino o troppo distante, o rapido come il momento di un gesto. Se mostrare l’invisibile (il ‘non visibile’) è una delle virtù riconosciute alla fotografia, allora Negri con questa messa in scena spiritista segna simbolicamente la propria adesione a questo credo positivista in modo affatto paradossale, proprio mentre si ingegna ad applicarlo in forme più canoniche,  dedicandosi in particolare all’esplorazione dell’universo dell’infinitamente piccolo.

Porta la data del 1866[15] la  Prima Prova Micrografica/ Gamba di Ragno, di poco successiva alla produzione dei pionieri italiani in questo settore, come Antonio Roncalli di Bergamo e Luigi Arcangioli di Arezzo che all’Esposizione di Firenze del 1861 avevano presentato “studi micrografici” e “fotografie rappresentanti oggetti al microscopio”, mentre due anni più tardi all’Esposizione provinciale di Reggio Emilia del 1863 anche il conte Luigi Scapinelli esponeva immagini di insetti ingranditi al microscopio[16]. Le sperimentazioni fotomicrografiche[17] di Negri proseguirono sporadicamente negli anni successivi, segnati però principalmente da significativi studi di fitopatologia, tali da renderlo immediatamente noto a livello nazionale.[18] L’estensione progressiva dei propri interessi alla fotomicrografia batteriologica è testimoniato da una serie di articoli comparsi sul fiorentino “Lo Sperimentale” a partire dall’agosto del 1882[19], uno dei quali – la Contribuzione allo studio dei bacilli speciali della tubercolosi – costituì l’occasione di un primo contatto con Robert Koch, lo scienziato tedesco che nel marzo dello stesso anno aveva presentato la propria scoperta alla Società Fisiologica di Berlino.   A queste prime significative applicazioni fece seguito nei tre anni successivi un’intensa sperimentazione rivolta alla messa a punto di opportune metodiche di colorazione dei preparati destinati ad essere fotografati, in molti casi “espressamente inviati al Negri” dallo studioso torinese Edoardo Perroncito[20], mentre in altre occasioni  – come il bacillo del colera fotografato nel 1884 – egli si era avvalso di campioni raccolti durante l’epidemia che colpì i due piccoli centri casalesi di Pontestura e Vialarda nell’autunno di quell’anno, guadagnandosi nel 1885 una medaglia d’argento concessa dal Ministero della Sanità, anche per le attività profilattiche poste in essere in qualità di  sindaco.[21]

Il riconoscimento ufficiale veniva a coronare vent’anni di studi e ricerche scientifiche e di fotografia applicata all’indagine microscopica, ma per Negri ciò non costituì motivo di ulteriore impegno, anzi dopo questa data la sua attività in questo settore si interruppe bruscamente  con la realizzazione nel 1885 di un’ultima bella serie di ingrandimenti di Diatomee, con inquadrature che a volte si rifanno esplicitamente alle tavole pubblicate nel 1866 da Albert Moitessier nel suo manuale –  posseduto da Negri – dedicato a La photographie appliquée aux recherches micrographiques.  Qui accanto all’interesse strettamente documentario emerge una palese attenzione compositiva, del resto non estranea anche ad analoghe produzioni di altri autori, ciò che impedisce di condividere le troppo categoriche affermazioni di Carlo Bertelli secondo il quale “l’aspirazione della fotografia era allora la rimozione di qualunque intento estetico, la ricerca di assoluto verismo.”[22]

Non diverso dovette essere il suo modo di procedere nel nuovo e per lui inedito ambito di indagine, quello della storia dell’arte. Henry Festing Jones, amico e biografo di Samuel Butler ricordava come la consuetudine tra lo scrittore inglese e Negri datasse al 1888, anno della pubblicazione di Ex-Voto[23], e proprio il convergere di interessi intorno all’opera di Jean de Wespin e più in generale sul Santuario di  Crea fosse stato il fondamento di un’amicizia intellettuale e di una frequentazione che si protrassero sino alla morte di Butler nel 1902[24].  In Negri, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890, doveva certamente essere viva già da qualche tempo l’attenzione per il Santuario negli anni successivi ai grandi lavori intrapresi per iniziativa del vescovo di Casale  Monsignor Calabiana[25], ma non può essere senza significato che le sue prime riprese datate risalgano al 1891 – da luglio a settembre[26] – cioè esattamente allo stesso periodo, agli stessi giorni quasi cui datano anche le poche immagini realizzate da Butler, poi inviate a Giulio Arienta il 31 ottobre successivo con una lettera in cui esprimeva tutta la propria stima per lo studioso casalese: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.”[27]

Fu proprio la cappella del Martirio di Sant’Eusebio, che Butler aveva definito“la più importante” di Crea, e di cui Negri denunciò la grave condizione di degrado ancora all’inizio del Novecento, a costituire il primo e principale soggetto delle sue riprese, sebbene il principale  argomento di ricerca fosse volto in quel tempo alla ricostruzione delle figure di Martino Spanzotti e di Guglielmo Caccia.[28]

La costante attenzione per la statuaria di quella cappella consentì a Negri di realizzare nel corso degli anni una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica dell’opera quanto della scena, evento restituito dalla doppia mediazione dei due linguaggi, con l’intenzione esplicita di celebrare quel “realismo così sano e spontaneo” che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti.  Attuava così quel rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico[29], entrambi impegnati a mettere in scena la memoria di una realtà, che riconosciamo anche nel modo di disporre le figure all’interno dell’inquadratura di una delle riprese relative alla cappella della Concezione della Vergine dove, ancora, l’interesse appare rivolto principalmente alla restituzione fotografica del dialogo fra le figure. Era questo un modo di  declinare l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione, che reinterpretava  e stravolgeva la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin) accogliendo le suggestioni della nuova sintassi visiva introdotta  dalla pratica dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita corrispondendo alla teatralizzazione  del gesto che apparteneva alla logica di rappresentazione del plasticatore.[30]

“How about your Tabacchetti?”  chiedeva Butler a Negri in una lettera datata 5 novembre 1900[31], con allegata copia della sua traduzione dell’Odissea e l’annuncio di aver iniziato la redazione di Erewhon Revisited,  a riconferma di una solida consuetudine e stima,  che si sarebbe concretizzata due anni più tardi coll’accollarsi le spese di pubblicazione dell’apparato illustrativo  (“i fototipi per le illustrazioni che ornano queste notizie”)  del lungo saggio da Negri dedicato a Il Santuario di Crea in Monferrato, summa degli  studi dello studioso e fotografo casalese[32] che sulla “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, aveva già pubblicato gli esiti delle proprie ricerche dedicate a Giorgio Alberini e a Guglielmo Caccia[33], occasione per avviare rapporti con altri studiosi come Carlo dell’Acqua[34], Gustavo Frizzoni[35]  e Diego Sant’Ambrogio, che il 27 giugno 1904 gli segnalava l’importante ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per l’abbazia di Santa Maria di Lucedio (Trino)[36].

Proprio il patrimonio artistico di questa importante abbazia cistercense costituì l’argomento delle sue ultime ricerche di storia dell’arte, estese al patrimonio pittorico del vicino centro di Trino, pubblicate nel 1914 in un volume firmato coi religiosi Evasio Colli ed Alessandro Rastelli, autore quest’ultimo del ricco apparato fotografico a corredo.[37] Non è questa la sede per valutare nel merito gli esiti delle ricerche di Negri, ma risulta semplice riconoscere come numerose sue conclusioni non abbiano retto alla prova del tempo e siano state radicalmente modificate dagli studi più recenti[38]. Sarebbe però ingiusto disconoscere la sua capacità di aprire gli interessi della cultura locale alla storiografia artistica su base documentale, seguendo percorsi che si discostavano significativamente dal prevalente interesse per la cultura tardomedievale espresso negli stessi anni dagli storici torinesi, mentre nel Piemonte settentrionale, dopo gli studi di Edoardo Arborio Mella l’attenzione era piuttosto rivolta alle scuole artistiche di matrice lombarda e alla produzione cinquecentesca in genere.

Nel ripercorrere questa diversa geografia culturale l’attività di Negri mostra notevoli analogie con quanto andava facendo nello stesso periodo l’amico fotografo vercellese Pietro Masoero[39], impegnato nella documentazione delle opere della Scuola pittorica vercellese, sebbene il suo progetto culturale  avesse una più precisa intenzione politica, orientata alla divulgazione,  all’istruzione delle classi popolari piuttosto che alla produzione storiografica. E diversa ancora era l’intenzione di Secondo Pia[40], cui lo legavano rapporti di conoscenza anche nell’ambito della Società Fotografica Subalpina, certo in quel periodo l’autore più sistematicamente impegnato nella formazione del catalogo visivo del patrimonio artistico e architettonico piemontese.[41] Pia si era recato a Crea il 15 settembre del 1885, ma in quella prima occasione aveva rivolto la propria attenzione al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo il punto di vista canonico[42], la più antica documentazione fotografica di questi luoghi a noi nota, realizzata da Vittorio Ecclesia nel  1878-1880, che aveva escluso le cappelle e il loro patrimonio statuario, allora in fase di profonda trasformazione, per rivolgersi alla sola facciata e all’interno del Santuario offrendo però una Veduta generale del Sacro Monte ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi.[43]

“Per godere di queste sensazioni [questo] misantropo così squisitamente sensibile (…) partiva da Casale a piedi (…) Sempre solo, poiché non aveva l’amico il cui spirito vibrasse all’unisono col suo; sempre taciturno, ma beato per gli spirituali conversari che lo intrattenevano (…) con le umili pianticelle che andava raccogliendo nel bosco. (…) Lo rivedo ancora nella buia cappella di S. Margherita, a rivelarmi le bellezze in essa rinchiuse mediante il lampo di magnesio che portava sempre con sé.”[44] Le parole del necrologio redatto da Luigi Gabotto confermano come Crea sia stata per molti versi il laboratorio di Negri, ma non convincono sino in fondo, fanno emergere nel lettore il sospetto delle stereotipo. Soprattutto non corrispondono all’impressione generale che le fotografie di Negri lasciano in chi le osserva.

Certo Crea fu luogo privilegiato di meditazioni e studi, ma non il solo. Le note autografe apposte alle lastre registrano le località di Pozzengo, Torcello, San Germano, Camino, Quargnento, Bosco Marengo, Fubine disegnando una mappa di destinazioni facilmente raggiungibili dall’amatissima Casale, cui dobbiamo aggiungere la Val Sesia con Riva Valdobbia e alcune località della Valle d’Aosta, Courmayeur in particolare. Sono le mete accessibili nel tempo concesso dagli impegni pubblici e professionali, sono i luoghi delle villeggiature. Scontati e pienamente comprensibili per l’attività di un amateur photographer, per quanto selettiva e qualificata. Così come non ci sorprende il calendario delle riprese, tutte scalate – tranne rare eccezioni – da maggio a ottobre, quando la luce è più calda e intensa, in grado di migliorare ancora le prestazioni delle già rapide emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento.

Né mi convince quell’accenno a una misantropica solitudine, a una subìta separatezza, radicalmente smentita dalla collezione  di sguardi che vediamo intrecciarsi nelle sue lastre, dal piacere giocoso e tutto dilettantesco della curiosità tecnologica[45], che lo portava a usare apparecchi “nascosti”.

La rivoluzione delle emulsioni alla gelatina  ebbe conseguenze enormi anche nel costituirsi della fotografia come pratica sociale. Il fotografo non professionista non fu più – o non solo – l’irregolare di rango, ma,  per onde socialmente sempre più ampie, omnicomprensive divenne dapprima dilettante e poi fotoamatore, ruolo culturale inedito, produttore e consumatore di quella che ormai molto avanti nel Novecento Pierre Bourdieu avrebbe chiamato “arte media”, o semplice praticante occasionale colonizzato dalle strategie dell’industria dell’immagine.

In questa traiettoria la figura di Negri si pone in maniera affatto singolare per la sua capacità di utilizzare la fotografia senza preconcetti, in grado di ricorrere alle migliori  e più aggiornate soluzioni applicative come di usarne quale strumento e testimonianza di relazioni sociale e affettive.

Anche per Negri la lastra fotografica era “la vera retina dello scienziato, che vede tutto, che analizza tutto e che addiziona le impressioni, senza fatica, senza parzialità, senza preconcetti”[46], sebbene questo  approccio positivista e analitico non gli impedisse poi usi diversi, privati e narrativi, spingendosi se del caso ben oltre i legittimi limiti della verosimiglianza per giocare con le esposizioni multiple sulla stessa lastra, dove – abbandonato il grottesco sarcasmo delle prime prove ‘spiritiste’ – l’espediente era destinato a inventare mondi possibili, verosimilmente fantastici,  abitati non a caso da bambini.[47]

L’accoppiamento tra nuove emulsioni e apparecchi gli consentì soprattutto di orientare diversamente il proprio sguardo, affiancando alle precedenti applicazioni strumentali – tra ricerca scientifica e storiografia artistica – il piacere di cogliere la realtà “nella verità della sua apparizione” (Gunthert 2001, p. 65), di collezionare ricordi istantanei senza alcuna premeditazione.

In questa nuova stagione, e inedita, un ruolo determinante giocò l’uso dagli apparecchi stereoscopici, dove grande maneggevolezza e rapidità di posa arricchivano l’affascinante promessa della futura visione tridimensionale e privata  così come accadeva con le detective camera.  Il loro uso letteralmente sorprendente dava corpo e immagine per la prima volta alla versione fotografica del voyeur[48], ormai dotato di un apparecchio[49] nascosto sotto al panciotto, con l’obiettivo sporgente da un’asola, che consentiva di ottenere su ciascuna delle lastre circolari di cui era dotato, sei immagini circolari di 40 mm di diametro e che Negri usò a partire dal 1888.

Paradosso della situazione: nel momento di più esplicito voyeurismo il fotografo nuovo delegava alla macchina buona parte delle proprie funzioni autoriali e posticipava il piacere del vedere riservandolo allo spazio sacrale della camera oscura. Si limitava a scegliere l’occasione e il momento. Affidandosi all’apparecchio per strutturare l’articolazione dello spazio e la composizione dell’inquadratura abdicava alla propria funzione di autore aprendo inconsapevolmente la strada alle estetiche del Novecento.

Anche in termini iconografici con questa possibilità nuova, nativa, offerta dall’istantanea[50], la fotografia si rendeva autonoma da ogni debito con la tradizione pittorica, giungendo progressivamente a definire un genere costituito da immagini articolate secondo sintassi inedite[51], che in Italia sarebbero poi state lucidamente individuate da Stefano Bricarelli, che per la buona riuscita delle “scene animate”  avrebbe indicato quale “condizione indispensabile (…) che il soggetto sia inconscio (…). Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata. [Per] fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro.”[52]

Le scene di strada erano un soggetto privilegiato e ampiamente frequentato già dalla prima maturità della pratica stereoscopica, intorno agli  anni ’70 del XIX secolo.  A questa si devono anzi i primi esempi di ripresa istantanea, ancora ai tempi del collodio, ma fu la pratica dilettantistica consentita dai nuovi dispositivi fotografici a determinare la vera e definitiva scoperta della scena urbana, a mutarne il senso della rappresentazione, che ora diviene piuttosto la registrazione di un’esperienza, la traccia del rapporto individuale tra il fotografo e la città, testimonianza del suo esserci in quanto componente della scena stessa.

La semplicità d’uso consentiva ormai di rivolgere l’attenzione alle banalità (più raramente all’eccezionalità)  del quotidiano; erano  proprio le nuove possibilità operative a consentire e definire nuovi soggetti, irriducibili ai canoni dell’artisticità, incommensurabili. Contemporaneamente si accresceva il valore testimoniale di traccia della fotografia, poiché l’apparente casualità dell’inquadratura certificava la veridicità di una ripresa non posata e simulata, “rendendo più profondo il nesso tra informalità e verità fotografica.”[53] È l’istantaneità che inventa i propri soggetti collocandoli in un diverso orizzonte espressivo e di valore, che si caratterizza  per la sua elevata autoreferenzialità[54]. Prende così progressivamente forma un modello di consapevolezza espressiva fondato sui nuovi elementi discorsivi apportati da questa pratica, ciò che consente per la prima volta di “piegare la rappresentazione al proprio ordine, di imporre al visibile la griglia della tecnica, di trasformare il soggetto della pittura nell’oggetto della fotografia”[55], di più ancora, come abbiamo visto nel caso di alcune riprese relative a Crea: di cercare l’istantaneità del gesto anche nella lettura delle statue di Tabacchetti.

Nell’opera di Francesco Negri questa libertà nuova ha assunto forme diverse, che riguardano aspetti compositivi non meno che narrativi, così come la scelta di specifici soggetti.

Quanto all’accogliere le suggestioni di nuove possibilità sintattiche, basti pensare a certe vedute urbane[56],  ai modi di orchestrare le figure nello spazio, congiunte da intervalli così silenziosi da far emergere a volte un sentimento di desolata solitudine, quasi disperata. Si produceva così un tempo che appare sospeso, immoto, il più lontano dal fermo immagine  proprio dell’istantanea comunemente intesa. In altri casi è la rimessa in discussione del punto di vista a costituire il centro di interesse, come nella bella ripresa delle lavandaie dall’alto, o la scomposizione – affidata alle ombre – dell’inquadratura di una scena di strada altrimenti al limite del bozzetto folklorico. In entrambe un soggetto ampiamente frequentato e ormai consunto venne  rivitalizzato in modi che anticipano soluzioni che saranno poi programmaticamente perseguite dai fautori della “nuova visione”.

Negri non escludeva alcun uso della fotografia. Non temeva la banalità del quotidiano, poiché la fotografia (gli) consentiva anche questo: di raccontare un gesto qualsiasi, cui si è legati anche solo da un fuggevole sentimento momentaneo, con grande e risolutiva economia di mezzi. Per questo – credo – non temeva neppure di misurarsi con qualcosa che noi oggi possiamo forse chiamare il qualunquismo delle ricorrenti pose goliardiche, dei piccoli gesti di pessimo gusto, di intere serie di “foto col colombo in man”. Non solo desiderava misurarsi con la fotografia, ma anche sottoporne a verifica le potenzialità, affidandosi al piacere sorprendente di estrarre il singolo gesto fugace dal flusso continuo dell’azione. Mi riferisco al velleitario tentativo di dimostrare come fosse possibile la “Abolizione della film (…) vantaggiosamente sostituita dalle comuni lastre sensibili”, condotto utilizzando il bizzarro apparecchio Olikos[57], ma ancor più alle due opposte serie delle scene di ballo e della brevissima, sorprendente sequenza del tuffo nelle acque del fiume, altro “soggetto istantaneo” praticato da molti fotografi il cui successo non era immune, secondo alcuni, da più o meno esplicite suggestioni della cultura omosessuale.[58]

Questa sindrome dell’istantanea fu immediatamente individuata e precisamente descritta da Albert Londe, direttore del servizio fotografico al cronicario parigino  della Salpêtriére col grande psichiatra Jean-Martin Charcot,  che nel suo saggio dedicato alla Photographie instantanée notava come “molti fotoamatori da quando possiedono un otturatore non sognano altro che di fotografare dei cavalli in corsa o dei treni espressi” , sebbene questo si rivelasse ben preso un compito ingrato, poiché “se la ripresa ottenuta è nitida il treno appare irrimediabilmente fermo e solo la dichiarazione del fotografo, ancor più del pennacchio di fumo che volteggia, garantisce l’istantaneità della posa.”[59]

Ciononostante l’attrazione per questo soggetto – in Negri come in altre decine di pittori e fotografi europei e statunitensi, ben prima delle celebrazioni futuriste – fu irresistibile, poiché la locomotiva rappresentava  la materializzazione di una velocità inumana, sino a prima inimmaginabile. Era e rimane per questo il simbolo più efficace e pieno della modernità della prima rivoluzione industriale, ma costituiva anche il banco di prova dell’istantaneità fotografica: velocità contro velocità, otturatore vs motore. Senza poter impedire che sfuggisse però – irresistibile – una scenografica massa cangiante di fumo e vapore bianco, come di nuvole fatte a macchina.

I diversi ambiti della sua attività, così come si sono  andati delineando ci consentono un’affermazione che può apparire sorprendente: sino agli anni Novanta Negri non fu un amateur photographer, ma uno studioso che usava in modo molto accorto e appropriato la fotografia, trovando in questo campo di applicazione specialmente motivi di interesse tecnologico. Basti pensare alla progettazione del teleobiettivo, che costituiva in quegli anni un rilevante problema ottico meccanico, già affrontato da Thomas Rudolphus Dallmeyer a Londra e da  Adolf Miete a Berlino sin dal  1891, quindi da Giorgio Roster e Innocenzo Golfarelli in Italia, e che lui risolse operativamente per primo nell’arco di poco più di quattro anni, a partire dalle sperimentazioni avviate nell’aprile 1892 sino alla messa in produzione da parte della ditta milanese Francesco Koristka nel 1896.[60]

Il profilo architettonico della città, insieme alle montagne lontane, era ciò che lo attirava per primo nella sperimentazione del nuovo strumento ottico, la possibilità di incidere nella veduta panoramica un percorso visivo di avvicinamento estremo, sino alla scala del singolo edificio o tenendosi un poco più largo per rivelarne le aguzze emergenze che lo distinguono, le più antiche torri e le ciminiere dei cementifici, mantenute significativamente in primo piano anche in un’altra ripresa in cui notava l’adagiarsi calmo della città nell’ansa ampia del fiume. Poco sembrano interessarlo invece le singole emergenze architettoniche. Non rientrava tra i suoi scopi la formazione di un repertorio visivo del patrimonio storico urbano; attento semmai agli spazi da vivere, tra le piazze, i giardini e il lungofiume. Poi le infrastrutture, forse anche in virtù della sua stessa funzione di amministratore pubblico. La sua è una città che appare scarsamente popolata, sebbene alcune tra le primissime riprese, ancora su lastra al collodio, fossero dedicate all’imprendibile animazione di piazza Mazzini in un giorno di festa, e ancora anni dopo avesse generosamente impiegato il proprio apparecchio stereoscopico per raccontare l’animazione di piazza Castello in occasione di qualche fiera, tra padiglioni e giostre.[61]

La città che sembra attirarlo di più è quella degli spazi vuoti, non di rado marginali, quella che appare  nelle giornate uggiose, con scarsi passanti, nell’elegante griglia dei giardini innevati, deserti.

Anche del fiume ciò che maggiormente costituiva per lui richiamo non era la vita sulle sue sponde, pur non esclusa, ma la sua relazione inscindibile con la città e col paesaggio che la circonda, letteralmente nato per erosione e accumulo, tra bordi collinari e pianura. Raccontare il fiume voleva dire per Negri reinventarne fotograficamente la maestosa ampiezza, minacciosa a volte; alzare panoramicamente il proprio  sguardo sino a cogliere il dialogo con la geografia dell’intorno o ridursi al breve orizzonte chiuso dagli argini, estendendo il proprio sguardo a tutti i paesaggi d’acque che circondano la città, sino alle più prossime risaie, fotografate forse per l’amico Angelo Morbelli.[62]

Quasi si potrebbe dire che solo nell’ultimo decennio del secolo Negri divenne un dilettante, aprendosi liberamente al piacere dell’istantanea, ma rivelandosi soprattutto un ritrattista di gran livello, così come sarebbe accaduto per un altro amateur della generazione successiva come Enrico Del Torso (Trieste 1876 – Udine 1955)[63]. È proprio in questa serie di figure che risulta dal dialogo serrato coi soggetti fotografati, tutti palesemente in relazione di stretta conoscenza, di familiarità col fotografo che emerge per la prima volta un esplicito impegno espressivo, scalato in una ricca serie di soluzioni linguistiche, frutto di uno sguardo innovativo e scarsamente condizionato dai modelli della fotografia pittorialista; immagini  destinate alla pura  fruizione privata. Come aveva già notato Marina Miraglia[64], Negri fu “tra i pochi fotografi amatori piemontesi che oltre all’immagine del territorio indagò, in toccanti istantanee, la propria quotidianità familiare”, riuscendo però a trascendere ampiamente questi angusti limiti sino a restituire l’identità visiva della borghesia casalese tra Otto e Novecento, a offrire esiti innovativi all’ormai lunga consuetudine del genere.

Dopo una pausa di circa un trentennio l’archivio di Negri si popola nuovamente di persone, spesso inseguite e colte nella relativa libertà del gesto quotidiano, in modi mantenuti volutamente lontani dalla prestabilita compostezza della ripresa in studio, a meno che ciò non costituisca quasi un esercizio di citazione. Gli sfondi, appena fuori fuoco, sono di interni borghesi, ma non mancano certo gli esterni, che anzi tendono a prevalere col procedere degli anni. L’attenzione è per la figura (non sono ritratti ambientati) anzi, ancor più, è concentrata sul volto e in questo sullo sguardo, che a volte emerge dall’ombra, con una modernità priva di inquietudine. Oppure si rivolge diretto alla macchina, al fotografo quindi, in segno di manifesta confidenza, o si ritrae pudico per analoghe ragioni. Anche qui ritroviamo esempi di sperimentazione linguistica condotti al limite della citazione, ma sempre con la levità quasi innocente del dilettante. Penso alla figura stante, di profilo, con lunga tunica bianca, in cui le suggestioni tra preraffaelitte e simboliste piuttosto che sublimare l’identità concreta e storica della persona ritratta – come accadeva circa gli stessi anni nelle fotografie di Guido Rey – contribuiscono a marcarne la connotazione. Penso anche alle due ieratiche figure di netto profilo, forse una coppia, di ancora più antiche ascendenze pittoriche ma certo di scarsa applicazione nella ritrattistica coeva: ad esclusione della segnaletica, certo.

I modi oscillano continuamente tra gli estremi opposti delle silhouette prefotografiche, alcune provate virtuosisticamente in esterni, e la vivezza dell’istantanea, in cui uno sguardo colto quasi al volo, un gesto rivelano improvvisamente qualcosa della persona ritratta, aprendo la strada che poi sarebbe stata ampiamente frequentata dalla fotografia degli anni della modernità.

Anche il tema del paesaggio – secondo le date autografe apposte alle lastre – non venne sistematicamente affrontato prima della fine degli anni Ottanta, quando però si trattava ancora, il più delle volte, di vedute di  località, non di paesaggi veri e propri[65]. Tra i primi soggetti con cui si misurava vi era la montagna, certo una nobile tradizione per la fotografia piemontese e per lui legata ai soggiorni in alta Val Sesia (Alagna e soprattutto Riva Valdobbia, dal 1888) e poi in Valle d’Aosta (Courmayeur, Châtillon, la Valtournenche tra 1897 e 1899). Sono prevalentemente vedute di ampio respiro, che restituiscono l’insieme del contesto alpino o si soffermano sui piccoli insediamenti di fondovalle. Negri non era un alpinista, solo di rado il suo sguardo veniva attratto dalle catene montuose o dai fronti di ghiacciaio, memore delle favolose immagini dei primi grandi fotografi di montagna, non più di trent’anni prima[66]. Non per questo però la qualità della sua produzione fu meno nota e apprezzata se Vittorio Sella[67], forse il più grande fotografo alpinista del XIX secolo, scelse alcune sue riprese per una mostra aostana dedicata proprio a questo genere, realizzandone in proprio una nuova stampa delle eccezionali dimensioni di 53,5×218,5 centimetri. Più interessanti ci sembrano oggi i paesaggi veri e propri, per quella sua capacità di sorprenderci con piccoli scarti improvvisi, inattesi; per la scelta di soggetti inconsueti e quasi marginali che gli consentono però di orchestrare l’inquadratura in modo dinamico, con la ricorrente presenza di elementi in primo piano con funzione di quinta e di scomposizione dell’inquadratura, oppure ricorrendo per analoghe ragioni alle amatissime ombre portate di elementi fuori scena.

La più costante attenzione fu però rivolta alla vegetazione nelle sue diverse forme, alle specie spontanee riprese in stereoscopia ancora nel 1899 con lo sguardo del naturalista e specialmente alle masse alberate che chiudono l’orizzonte dei campi, che segnano il margine delle lanche, al folto dei boschi. Tutti soggetti che ben si prestavano ad essere trattati col metodo della tricromia.

Paesaggio e colore in un qualche modo si sovrapponevano, e neppure la montagna faceva eccezione,  esito di una mediazione che era pittorica e tecnologica insieme. Com’era per l’istantanea, anche la tricromia[68] imponeva i propri soggetti, non solo per l’ovvio prevalere d’interesse della gamma cromatica sulle modulazioni tonali, ma anche e forse soprattutto perché la realizzazione distinta dei tre negativi di selezione imponeva la scelta di soggetti sostanzialmente immobili, la cui forma permanesse immutata per il tempo necessariamente lungo delle tre distinte pose.

Dopo le prime prove del 1890 (una ripresa di fiori in vaso, con filtro rosso, datata 8 luglio) Negri si dedicò con costanza a queste esperienze a partire dall’ottobre del 1899 (“Quando cominciai nel dicembre 1899 a tentare la tricromia..”  ricordava nel 1906, sbagliando di poco), forse sollecitato dalla pubblicazione dell’importante testo di Carlo Bonacini La fotografia dei colori (1897) e da quello di Alcide Ducos du Hauron, fratello del più noto Louis, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie che l’editore parigino Gauthier-Villars aveva pubblicato nello stesso anno.  L’interesse per il tema era però di molto precedente come dimostra la presenza nella sua biblioteca del testo fondamentale di Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objects colorés avec leurs valeurs réelles (1887), e confermata dalla presenza di periodici specializzati quali “La Photographie des Couleurs” e del più tardo volume di Ernst König,  Natural-color photography, del 1906.

L’attenzione non episodica per questo tema è oggi testimoniata dalle sessanta tricromie presenti nel Fondo[69], “sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori”; poi aggiungeva:  “di schermi ne ho fatti molte decine, di colori ne ho passati in rassegna più di un centinaio.”[70]

Gli esiti di questa metodica applicazione furono immediatamente noti e apprezzati, tanto da determinare la partecipazione nel 1902 alla grande Esposizione di Arte decorativa moderna e contemporanea che si tenne a Torino,[71] chiamato a rappresentare l’Italia nella sezione dedicata alla fotografia[72]. L’invito doveva certo essere giunto dallo stesso Presidente del Comitato promotore dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica Edoardo di Sambuy, che Negri aveva conosciuto in occasione dei due primi congressi italiani di fotografia a Torino (1898) e Firenze (1899). La condivisione dell’iniziativa con autori quali Guido Rey, Cesare Schiaparelli, Giacomo Grosso e Vittorio Sella, solo per citare i maggiori, consacrava Negri come uno dei più significativi autori a livello nazionale, sebbene il suo modo di intendere e praticare la fotografia poco avesse da condividere con le pratiche ‘artistiche’ allora dominanti, analogamente a quanto accadeva del resto anche per Vittorio Sella.

Pietro Masoero, commentando l’Esposizione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” segnalava le “magnifiche tricromie su pellicola di Francesco Negri di Casale, destanti l’ammirazione generale. E questa volta il pubblico giudicava bene. I saggi presentati dal Negri erano perfetti sotto ogni rapporto e per il primo credo, dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto.”[73]

L’ammirazione del pubblico era certo favorita dalla semplicità di queste composizioni, lontane dalle “inusitate forme” e dalla “esagerazione della ricerca” della più avanzata produzione straniera di gusto pittorialista, specialmente statunitense. La novità dirompente, assoluta, per noi oggi incommensurabile era però il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel al francese Gabriel Lippmann nel 1908, per la messa a punto del metodo interferenziale diretto di fotografia a colori; quello  che i fratelli Lumière, grandi sperimentatori e recenti inventori dell’autocromia, molto sottilmente definivano come “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce”, priva però di qualsiasi utilità pratica.

Come si è detto, non che Negri non avesse mai affrontato il tema del paesaggio prima di misurarsi con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedevano nei vincoli imposti dal procedimento e l’interesse per il genere assumeva una vitalità nuova. La scelta del tema ma anche quella del luogo, quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della città e che tante volte aveva  già descritto e studiato, forse non estraneo all’intenzione tutta positiva di annodare le fila delle trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviavano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[74]. Il soggetto (insieme, non a caso, alla natura morta) risultava quindi in certa misura imposto, quasi  ineluttabile, ma non per questo nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine non è possibile riconoscere suggestioni, stimoli visivi e culturali precisi  esito di sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali.  Mentre il trattamento dominante del paesaggio negli anni della “Fotografia Artistica” prediligeva i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entrava in gioco la luce, meglio ancora la luminosità densa dei tre strati policromi, restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per trasparenza.

Accanto ai paesaggi le sobrie nature morte,  eleganti studi condotti nella calma racchiusa del proprio studio.

Nella messa a punto di questi set di ripresa Negri  mostra un’attenzione e una sapienza nel trattare la luce che invano cercheremmo nelle altre fotografie. Il soggetto, perfettamente centrato, ripreso frontalmente, quasi affiora dal piano posteriore cromaticamente intonato oppure si stacca, netto, dal fondale scuro e indistinto, da cui i colori pastosi delle gelatine emergono con evidenza materica.

L’accuratezza di queste composizioni testimonia da sola le sue potenzialità, ma conferma anche il suo scarso interesse generale per le questioni estetiche, qui sollecitate dalla sfida della più efficace, spettacolare resa del colore e risolta applicando modelli compositivi direttamente desunti da analoghi  esempi pubblicati dalle riviste dell’epoca sotto forma di tavole fuori testo[75]  o comunque di ampia circolazione come gli Etudes de Feuilles di Charles Aubry, del 1864, ma ancor più la serie dei Fleurs photographiées realizzata da Adolphe Braun nel decennio precedente (1854-1856), che costituì a sua volta modello per innumerevoli autori successivi, tra fotografia e pittura.

La sua attività fotografica proseguì ancora per circa dieci anni,  le ultime annotazioni autografe datano le immagini al maggio 1915, ma certo l’incontro con le opere dei maggiori protagonisti della stagione pittorialista avvenuto a Torino non produsse in Negri alcuna velleità di confronto, alcuna suggestione.  Quando nel 1906 pubblicò sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana” e quindi ne “Il Progresso Fotografico” i suoi Appunti sulla tricromia, apparentemente l’unico suo testo dedicato alla fotografia, le notazioni erano esclusivamente di carattere tecnico[76];  invano si cercherebbe un cenno alla poetica o anche solo alle ragioni del fotografare a colori.

Il suo operare fu continuamente delimitato da  orizzonti puntualmente definiti e temporalmente circoscritti, dove la maestria nell’individuare di volta in volta i parametri applicativi più adatti alla più efficace soluzione del problema si coniugava e si confondeva col desiderio, con la necessità di un continuo confronto tecnologico propria dell’autodidatta, del fotografo dilettante che agli albori della modernità si appresta a divenire fotoamatore. Anche la sua connotazione di autore ‘locale’ sembrerebbe muovere il giudizio in tal senso, ma è indispensabile distinguere. Certo la scelta dei soggetti, la delimitazione geografica della sua area di lavoro fu fortemente radicata nel territorio casalese, luogo in cui si fondavano e si svolgevano le ragioni e le trame che legavano i suoi molteplici interessi. Ma la sua cultura, le ragioni i modi e gli esiti della sua pratica fotografica rivelarono, già ai contemporanei il suo valore sovralocale, la sua singolare figura di fotografo tra i più rilevanti degli ultimi decenni del XIX secolo in Italia, impossibile a ridursi a una tipologia che non sia quella di uomo del suo tempo, enciclopedico ed eclettico. Indifferente alle gerarchie di valore lui accoglieva e usava tutta la fotografia; ne coglieva e apprezzava l’infinito spettro di possibilità indifferenziate di puro e affascinante strumento, in grado all’occasione di divenire gioco raffinato o elegante problema da risolvere. Mezzo d’espressione cui concedere poco però, da cui lasciar trasparire quasi nulla di sé. Per questo non credo che Francesco Negri si sentisse ‘autore’, non almeno nel significato trasmesso dalla tradizione artistica e ancora oggi troppe volte accolto e usato senza cautele. La sua presenza più definita e personale riusciamo a trovarla, a leggerla con sufficiente chiarezza solo nella produzione più riservata e personale dei ritratti e delle istantanee, nascosta sino ad ora a sguardi che non fossero intimi. “Carattere complesso – lo ricordava il canonico Francesco Gasparolo nel 1925 –  davanti a cui (…) si rimane perplessi nel giudicare, se la difficoltà di misurare l’alto valore dell’uomo provenga dalla sua eccessiva modestia o da fierezza d’animo. Converrebbe probabilmente conchiudere che ambedue siano state le cause.”

 

 

Note

[1] È opportuno ricordare, e ribadire, che ciò che si mostra in questa occasione non è solo una inevitabile selezione, come necessariamente accade ogni volta che ci si propone di presentare criticamente l’intero ciclo operativo di un fotografo.

L’antologizzazione delle fotografie realizzate da Francesco Negri è, ancor prima, conseguenza di ciò che si è riusciti a mostrare, ma non rispecchia fedelmente l’insieme di ciò che si è conservato, per ragioni che credo indispensabile motivare almeno sinteticamente.

L’insieme dei materiali su cui abbiamo condotto le ricerche qui pubblicate, tutti conservati nel Fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, appartiene a quella porzione – crediamo prevalente – della sua produzione che è riuscita a superare il corso dei decenni sopravvivendo a dispersioni, vicende giudiziarie, incuria e non sempre opportuni e accorti interventi. In quasi totale assenza di stampe originali, forse disperse negli anni, la selezione  è stata condotta prevalentemente sui negativi, rinunciando comunque dolorosamente a presentare le lastre irrimediabilmente rigate, quelle la cui emulsione non si è negli anni gonfiata e parzialmente staccata, quelle su cui una mano tanto volonterosa quanto imprudente non ha incollato, solo pochi decenni orsono, micidiali etichette identificative. Come ha ben documentato Barbara Bergaglio, per troppo tempo il Fondo Negri è stato sfruttato come una risorsa di cui poco importava la conservazione nel tempo, ponendo in essere insufficienti cautele e attenzioni sia in termini di condizioni fisiche che di sicurezza. Non si spiega altrimenti l’attuale assenza di alcune immagini e documenti pubblicati nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969, ma anche di altri beni strumentali e immagini individuati da chi scrive alla fine degli anni ’80, confermati dalla schedatura condotta dalla Fondazione Italiana per la Fotografia e oggi non reperibili.

Per meglio identificare i forti limiti entro cui è stato costretto il presente lavoro è necessario ricordare che la committenza non ha ritenuto opportuno favorire l’ampliamento delle ricerche presso quelle istituzioni e collezioni private che notoriamente conservano immagini e documenti relativi all’attività di Negri. Non è stato così possibile, ad esempio, studiare e utilizzare la ricca e varia documentazione conservata presso il Sacro Monte di Crea, che fu l’amato laboratorio di una vita per Negri, né rendere note alcune eccezionali testimonianze della sua precoce fortuna critica, penso in particolare alle bellissime stampe fotografiche di panorami alpini che Vittorio Sella trasse da sue lastre negli anni Trenta del Novecento, i cui negativi sono oggi conservati presso la Fondazione Sella di Biella, mentre alcuni positivi in diversi formati, anche di grandissime dimensioni, sono conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e nei fondi Fotografici della Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta.

Sono infine convinto che le collezioni private, specialmente casalesi, avrebbero potuto riservare interessanti sorprese, offrire significative testimonianze di una consuetudine, certo sua, a concedere ad amici ed estimatori i migliori esemplari della sua vasta e poliedrica produzione, oggi tanto più preziosi in conseguenza della scarsità di stampe originali conservate nel Fondo.

[2] Disderi 1862, nota a p.169, accanto alla formula del “collodion pour l’été”.

[3] Escludendo Padre Vittorio della Rovere (1811 – 1863 ?), di nascita casalese ma vissuto prevalentemente tra Torino e Roma, ben noto per le sue rare immagini e gli studi sulla stereoscopia (cfr. “Atti dell’Accademia dei Lincei”, 8, 1854) e ancor prima sulla  dagherrotipia, per cui si rimanda a L’Italia d’argento, 2003, p. 246, scheda siglata “mfb” [Maria Francesca Bonetti], e stando alle poche notizie certe, negli anni intorno al 1860 a Casale si registrava la sola presenza di Antoine Valentin, di evidente origine francese, della Fotografia Sociale, Via della Posta n.6, e di un  “V. Casazza \ Geom.tra Fot.fo \ Casale” non altrimenti noto, sebbene l’interesse per la nuova invenzione dovesse essere stato molto precoce, come indica la presenza nel Fondo Negri di Buron 1841, che porta al frontespizio il timbro ex-libris della biblioteca della famiglia Vitta, di cui sono note le relazioni con la Francia in relazione alla costituzione del Crédit Lyonnais.

Nei decenni successivi furono attivi Virgilio Tamburini, 1879 – 1905 ca, Via Sant’Ilario 18 poi via Garibaldi 6, cui subentrerà E. Camurati ai primi del ‘900; Carlo Giovara, 1880 ca, Via Vittorio Emanuele II (Palazzo Treville) e piazza dell’Addolorata, Casa Cerinola, con succursale a Chivasso; A. Manfredi, attivo dal 1883 a Torino, Via Lagrange 15, poi dal 1893 al 1895 in Piazza San Carlo 4, che possedeva anche una succursale a Casale, Piazza dell’Ospedale di Carità, 6  ove subentreranno prima del 1899 Giuseppe Menzio e F. Rota (presente al Congresso di Firenze del 1899) prima di aprire ciascuno studio proprio. E ancora: Premiata Fotografia (Fotografia e Pittura)   Angelo Bensi, 1890 ca, piazza Carlo Alberto 2, cui succederà  Ezio Bensi, titolare dello Stabilimento Fotografico Arte Moderna, 1908, Viale Regina Margherita 2 e Via Ricovero (casa Ing. Masazza), citato all’Esposizione del 1909 per “gli ingrandimenti degli autopastelli” [sic] di Leonardo Bistolfi e dell’Archinti” (Ettore Archinti, 1878 – 1944).

Altri studi e fotografi seguiranno nei decenni successivi come A. Armani, attivo dal 1920, Battaglieri, Goffredo Calvi, con notizie nel 1907,  Colombino, La Fotoelettra, Foto Lori, dal 1925,  Melotti, C. Migliore e L. Piantone, mentre ancora più incerto è l’universo degli amateur photographers come quell’E. Morbelli (sotto cui potrebbe celarsi un refuso) di cui si pubblica un “superbo gruppo di piante” ne “Il Progresso fotografico” dell’ottobre 1898 o altri casalesi presenti all’Esposizione del 1909 come l’avvocato Silvio Montalenti, Felice Deambosi, il dott. Emilio Iaffe . “Bisogna però convenire – ricordava il redattore – che Casale e provincia, per quanto non sia un gran centro, ha però un forte nucleo di dilettanti che è ben difficile trovare altrove.” (“Il Progresso Fotografico”, 1909, pp. 126)

[4] Per una puntuale ed esauriente presentazione critica dell’ambiente torinese si veda Miraglia 1990.

[5] Nel 1863 aveva sposato la novarese Giulia Ravizza, con cui abitava in via Benvenuto San Giorgio “nella casa che fu dei Della Rovere di Casale” (Mattirolo 1925, p.10, nota 3), poi demolita nel secondo dopoguerra. La moglie era la prima figlia dell’avvocato Giuseppe Ravizza (Novara 1811- Livorno 1885), erudito cultore di storia e archeologia in stretta relazione con Theodor Momsen con cui redasse il Catalogo primo del Museo Patrio di Suno ed Appendice alle Memorie storiche.  Novara: Tip. Merati,  1877, più noto come inventore della prima macchina da scrivere a tasti, il  “Cembalo scrivano” del 1855, i cui cimeli “posseduti e custoditi gelosamente” da Federico Negri vennero esposti nel padiglione Olivetti dell’Esposizione agricolo-zootecnica di Novara del 1926, cfr. Aliprandi 1931, da cui pervennero al Museo della Scienza di Milano, che conserva anche un ritratto di Giuseppe Ravizza con la moglie Ernesta  Brosio e la seconda figlia Elisa realizzato da Francesco Negri nel 1864,  donato al Museo proprio dal figlio Federico nel 1931. Colgo l’occasione per ringraziare Paola Mazzucchi, responsabile della Biblioteca del Museo per avermi cortesemente fornito alcuni dati in merito alla provenienza di questi oggetti.

[6] Cfr. qui La biblioteca del fotografo.

[7] Quale ulteriore testimonianza della prima pratica fotografica di Negri segnaliamo che nella lastra 10B144 compare una camera oscura portatile per la preparazione di lastre al collodio, non dissimile da quella usata circa negli stessi anni dal pastore valdese David Peyrot e oggi compresa nelle collezioni del Museo nazionale del Cinema di Torino.

[8] Dopo i primi esempi riferibili all’avvio della sua attività fotografica, la consuetudine di annotare ai bordi della lastra i dati di ripresa e sviluppo con più rare indicazioni relative al soggetto fu riavviata intorno al 1885 per proseguire ininterrotta sino alle ultime lastre, datate maggio 1915.

[9] Henry Festig Jones ricordava come il padre di Negri (gran cacciatore, morto per la puntura di una zanzara) abitasse proprio a Ramezzana, avendo sovente come ospiti  Cavour e il principe Dal Pozzo della Cisterna, ma anche Vittorio Emanuele II, che volentieri coccolava il piccolo Francesco; cfr. Jones 1919, p. 113.

[10] Disderi 1862, ora in Frizot, Ducros 1987, pp.  36- 47 (39).

[11] Si confronti ad esempio il ritratto di un giovane prelato in piedi, poggiato alla spalliera di una sedia tenuta in equilibrio, [9C138] con l’identica posa del [Ritratto della moglie] di Giuseppe Alinari, 1870 ca, in Quintavalle 2003, p. 273.

[12] Bertelli 1979, p. 76.

[13] Ricordiamo come a questa data fosse già in relazione col botanico Vincenzo Cesati (Milano 1806 – Vercelli 1883), che gli dedicò uno Xantium, che lo stesso Negri aveva trovato per primo a Castell’Apertole (Livorno Ferraris), cui  secondo Oreste Mattirolo 1925, p.7 lo legavano anche “aspirazioni patriottiche comuni”. Ancora alla relazione con Cesati si doveva la conoscenza con Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891) [che definì Negri “distinto botanico”] segnalata ancora da Mattirolo 1925, p. 8 e poi ripresa da tutti i commentatori successivi, che Negri accompagnò  alle cascate del Toce, redigendo quell’elenco “delle specie crescenti nell’Alta valle del Toce” che fu pubblicato ne Il Belpaese, 1875.  L’immutato interesse per la botanica è documentato fotograficamente da una serie di stereoscopie datate aprile 1899. (R0096654- R0096658)

[14] Didi-Huberman 1986, p. 71, corsivi dell’autore.

[15] Allo stesso anno risale Moitessier 1866, un trattato molto noto che ben documenta la fase di massimo successo in ambito fotografico di questo genere di immagini, che consentivano agli studiosi di colmare il vuoto filogenetico tra organismi inferiori (dai batteri alle alghe) e superiori (l’uomo) in maniera compatibile con il gradualismo evoluzionista delle nuove teorie darwiniane ( Jeffrey 1999, p. 38). Lo stesso editore  aveva pubblicato nel 1845 l’Atlas du Cours de Microscopie Donné e Foucault, considerata la più antica pubblicazione di fotomicrografia. Già il 17 febbraio del 1840 Alfred Donné (1801 – 1878) professore al College de France, aveva presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi per il tramite di Jean-Baptiste Biot delle fotomicrografie su dagherrotipo ottenute alla luce ossidrica grazie ad un microscopio solare (Corcy 2003, p. 64). Quasi negli stessi giorni, il 4 marzo,  il medico e matematico viennese Andreas Ritter von Ettingshausen (1796 – 1878) aveva realizzato la fotomicrografia di una sezione di Clematis (Frizot 1994, p. 276; Marien 2002, p. 34), ma come è noto già tra gli esemplari fotografici di Talbot presentati da Michael Faraday alla Royal Institution il 25 gennaio 1839 si trovavano immagini di ingrandimenti, tra cui l’ala di un insetto (Frizot 1994, p. 276; Jeffrey 1999, p. 35).

[16] Zannier 1986, p. 171.

[17] Diversamente dall’uso ottocentesco, proprio anche di Francesco Negri, per le riprese fotografiche ottenute per il tramite del microscopio utilizziamo il termine “fotomicrografia” e non  “microfotografia” con cui più specificamente oggi si intendono i processi di miniaturizzazione delle immagini.

[18] Diresse il Gabinetto di crittogamia del “Giornale Vinicolo Italiano” dal 1869-1879 ed entrò in relazione di studio con importanti ricercatori internazionali come Felix von Thumen, che gli dedicò il micromicete Phoma Negriana . La sua produzione venne tempestivamente segnalata da Angelo De Gubernatis, che lo inserì nel proprio Dizionario del 1879 (II, pp. 1221-1222) come “scrittore piemontese, avvocato.”

[19] Negri, Pisolini 1882 Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, Agosto 1882.  Pisolini era il medico che gli fu vicino anche nel giorno della morte, il 21 dicembre 1924.

[20] Greco 1969, pp. 86-87, cui si rimanda per la descrizione analitica degli esiti fotomicrografici di Negri.

[21] Questa emergenza sanitaria costituì l’occasione per la pubblicazione di Negri, Cassone 1885.

[22] Bertelli 1979, p. 76; che considerazioni di ordine estetico potessero convivere con  intenzioni di accuratezza documentaria, non essendo di fatto in contraddizione tra loro è testimoniato non solo da buona parte della cultura ottocentesca, ma anche più in particolare da molta fotografia naturalistica e micrografica. Penso, per esemplificare,  ad un autore come Giorgio Roster, il cui percorso professionale e di ricerca ha più volte incrociato il cammino di Negri, per il quale rimando a Principe, Sensi, Casati 2004.

[23] Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore, che proprio a questo scopo aveva preso lezioni in Inghilterra nell’inverno del 1887, cfr. Jones 1919, p. 109.  L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea) ma con un apparato iconografico lievemente ampliato. L’archivio fotografico di Butler, oggi conservato alla St John’s College Library dell’Università di Cambridge, è costituito da circa 1600 negativi su lastra (databili 1888 – 1898) e da cinque album contenenti complessivamente circa 1700 stampe con una cronologia compresa tra 1891 e 1898. Cfr. https://archiveshub.jisc.ac.uk/search/archives/516c6af9-031d-3239-b4db-668ec60a0dcd?component=0a2d1de2-378b-3bd7-b37e-e891b3c16d39  (dicembre 2022). La sua produzione fotografica è stata studiata da Shaffer 1988 e presentata in Butler 1989. Butler era andato a Casale già nel settembre del 1887, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen, proprio per estendere le proprie ricerche su Tabacchetti, ma non pare che in quell’occasione avesse avuto modo di conoscere Negri.

[24] Mattirolo 1925, p.14 nota 1 ricorda che Negri scrisse il necrologio di Butler, non reperito in questa occasione né citato da altre fonti.

[25] Si vedano i diversi contributi pubblicati in Barbero, Spantigati 1998 e in particolare Maria Carla Visconti Cherasco, La nuova vita del Sacro Monte nell’ottocento fra ripristini e rinnovamento devozionale, pp.123-136.

[26] BCCM- Fondo Negri: Scat.42, 43.

[27]“Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, citato  in Durio 1940, p. 86. Le riprese si riferiscono  a un gruppo di pellegrini, alla cappella di sant’Eusebio (4 riprese di statue attribuite a Tabacchetti) e a quelle delle Nozze di Cana e della Natività, e portano tutte la data del 14 settembre 1891, mentre al giorno successivo risalgono un’immagine di bambini e il doppio ritratto di Don Minina e Francesco Negri, entrambe realizzate a Casale.

[28] Negri 1892  dedicato all’attività di Martino Spanzotti e della sua scuola, col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate (di cui si conservano i negativi), primo frutto delle sue ricerche di storia dell’arte condotte con rigoroso metodo di ricerca: “Da provetto legale quale egli era, applicò alle sue ricerche la severità delle regole procedurali, cercando di documentare ogni sua asserzione con riferimenti a contratti; a tavole testamentarie; a inventari, ecc. frugando negli archivi della sua regione per giungere a sbrigare le arruffate matasse che si riferivano alle biografie degli artisti casalesi”, Mattirolo 1925, p. 9.

[29] La possibilità di rendere efficacemente il gesto tradotto realisticamente da Tabacchetti venne affrontata da Negri anche in termini letterari nel saggio del 1902, in cui, dopo una notazione etico-politica sulla capacità del plasticatore di dare “al martirio l’impronta di una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sebbene ordinata da un potere costituito su regole determinate  e regolari”, procedeva ad una interpretazione verista della scena, sottolineando “la movenza [del santo]  così naturale da spingere a dargli aiuto, a sostenerlo”,  come la “triste malvagità incosciente [della vecchia] che sia alza sulla punta dei piedi e allunga il collo fra due soldati per ben vedere.” (Negri 1902, p. 36).

[30]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier 1991; Skulptur 1998.

Anche in altre occasioni lo sguardo di Negri procede oltre la pura documentazione per sottolineare la teatralità delle figure [740, Cappella del Paradiso] o cedere ad una bonaria ironia [361d, Cappella del Paradiso]. Diverso atteggiamento avrà nei confronti di opere bidimensionali come le vetrate o la grande Madonna col Bambino e Santi [48C] di Macrino d’Alba, ripresa più volte nella biblioteca del convento (?) forse anche per ottenerne una riproduzione in tricromia oggi non reperibile, ma che avrebbe potuto far parte delle “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” presentate da Pietro Masoero nel corso della sua conferenza Arte e fotografia tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi il 9 settembre 1901 (citato in “La Sesia”, 13 settembre 1901)

[31]Pubblicata in facsimile in Greco 1969 p. 24. Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.F. Jones e R. A. Streatfeild  donarono a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p. 22, nota 3).

[32] Negri 1902. Il casalese espresse a sua volta  “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65). Gli esiti delle sue ricerche avevano però portato alla  definitiva confutazione delle prime ipotesi formulate da Butler, tanto che al momento della riedizione dei suoi saggi, già comparsi in “The Universal Review”, il suo “esecutore letterario”  R. A. Streatfeild  decise di non ripubblicare la prima parte di A Sculptor and a Shrine. “Had Butler lived he would either have rewritten his essay in accordance with Cavaliere Negri’s discoveries, of which he fully recognized the value, or incorporated them into the revised edition of Ex Voto, which he intended to publish. As it stands, the essay requires so much revision that I have decided to omit it altogether.”, Richard Alexander Streatfeild, Introduction,  in Butler 1913. Per la prima volta nella storiografia artistica dedicata al Santuario, alle ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche, corredate da una articolata  analisi storico-critica delle opere, faceva da riscontro la documentazione fotografica intesa quale ulteriore e specifico strumento d’indagine ma anche – sebbene in misura ridotta per esigenze di economia editoriale – di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating”. Tra 1891 e 1900 le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea (Damonte 1891; Locarni 1900 ) si limitavano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese Negri, e ancora in Crea 1900, il numero unico pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani e altri, la sola cappella documentata era quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già da lui fotografata ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto De Amicis, cfr. Cavanna 1998.

[33] Gli studi sul Moncalvo (Negri 1895-1896) di cui nel 1893 fotografò gli affreschi nella chiesa di San Michele a Candia Lomellina, scat. 61,  figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, confluirono in parte negli scritti dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900.

[34] Carlo Dell’Acqua (1834-1909), Direttore della Regia Biblioteca Universitaria di Pavia dal 1879 al 1883, gli inviava il numero de “Il Ticino”, del 1 marzo 1899 in cui era pubblicato il suo articolo Di Ambrogio Volpi da Casale insigne scultore ed architetto alla Certosa di Pavia (1567-1576) poi recensito da anonimo (Francesco Negri?) ne “L’Avvenire. Gazzetta del Monferrato” del 7 aprile 1899.

[35] Gustavo Frizioni (1840-1919), con cui Negri era in relazione almeno dal 1891, anno in cui gli aveva inviato alcune riproduzioni di dipinti chiedendogli pareri, gli scriveva da Milano il 20 febbraio 1904 “Mentre conservo gratissimo ricordo del capolavoro di Macrino a Crea Le sono riconoscentissimo della fotografia nuovamente mandatami. Mi serve di ottimo riscontro per una grande tavola che è certamente di lui, passata in America sotto il nome di Ghirlandaio.”,  BCCM – Fondo Negri, Corrispondenza.

[36] La relazione epistolare con lo studioso milanese, tra i promotori nel 1901 con Luca Beltrami, Luigi Cavenaghi, Francesco Malaguzzi Valeri, Gaetano Moretti, Corrado Ricci e altri della “Rassegna d’arte”, datava almeno dal 1901 e divenne progressivamente più confidenziale, sino a un colloquiale “tu” nel 1905. Dopo una prima segnalazione dello studioso milanese ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Villata 2000, pp. 144-147) Diego Sant’Ambrogio dedicò a questo tema il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, pubblicato nel “Bollettino della Società per gli studi di storia, d’economia e d’arte nel tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906, cfr. Samek-Lodovici 1946.

[37] Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996. Il Canonico Prof. Colli,  in relazione di studio anche con Luigi Gabotto, aveva da poco pubblicato il volume Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913, e ancora nel 1926 sarebbe tornato a percorrere la scia degli studi artistici di Negri con un saggio dedicato a Il Moncalvo, pubblicato dal Comitato per le Onoranze a Guglielmo Caccia. Nello stesso 1914 Colli e Negri collaborarono a De Amicis et al. 1914. Il sacerdote vercellese Alessandro Rastelli (1883 – 1960), viceparroco a Trino dal 1915, fu il fondatore dell’OFTAL (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes). Le ventiquattro fotografie che costituiscono l’apparato iconografico del volume rappresentavano una novità significativa per l’editoria di soggetto trinese di quegli anni sia per la consistenza e la qualità complessiva sia per la figura dell’autore,  uno dei pochi sacerdoti a praticare la fotografia in quegli anni.  Sono prevalentemente immagini di architettura, complessivamente di buona qualità e tecnicamente ben eseguite, con inquadrature ordinate e precise, perfettamente in linea con i canoni della documentazione fotografica dell’architettura che si erano andati formando nel corso del XIX secolo. La loro precisa applicazione da parte di Rastelli lascia supporre un interesse ed una pratica non occasionali ed anzi ormai ben consolidati all’epoca della realizzazione del volume, e nella stessa direzione ci portano le nitide fotografie di interni, di ancor più difficile realizzazione. In assenza di dati precisi risulta quasi ovvio collocare la formazione fotografica di questo sacerdote proprio in quell’ambiente vercellese da cui proveniva, ricco di professionisti e dilettanti di buon livello quali Pietro Boeri, Pietro Masoero ed Andrea Tarchetti, ma evidentemente non è da escludere un ruolo di supporto e regia svolto dallo stesso Francesco Negri, cui Rastelli scriveva il 6 ottobre 1914, a poco meno di un mese dalla pubblicazione del volume,  per aggiornarlo sull’andamento della campagna documentaria: “Ho fatto invece quella del capitolo (interno) Non so però se potrà servire. Tutt’intorno sacchi e cesti di tagliarisi forestieri, e attorno alla colonna di mezzo trenta cent.[imetri] di paglia, il giaciglio dei medesimi”, ricordando che sarebbe andato “fra alcuni giorni” a fotografare il piccolo quadro dello Spanzotti a Trino, BCCM – Fondo Negri: Manoscritti, cartolina del 6 ottobre 1914. La foto dell’aula capitolare venne poi pubblicata (p.42) e costituisce ora un’importante testimonianza delle condizioni d’uso e soprattutto di vita nelle grange all’inizio del Novecento, mentre non venne utilizzata la riproduzione del “piccolo quadro”, cioè la Madonna col Bambino di Martino Spanzotti nella chiesa trinese di San Domenico, cfr. Cavanna 1996.

[38] Si veda a questo proposito quanto detto in Cavanna 1996, pp. XI- XII.

[39] Cavanna 1985.

[40] Nel Fondo sono conservate anche tre stampe all’albumina 18×24 ca di Secondo Pia, raccolte sotto il titolo Affreschi della Cappella di S. Margherita di Antiochia dell’Abbazia di Crea attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona.

[41] Cfr. Falzone del Barbarò, Borio 1989.

[42] Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, alcune riprodotte eccezionalmente a colori con la tecnica dell’autocromia (1909-1910). Va qui notato  come la serie relativa alla statuaria delle cappelle, realizzata a partire dal 1902, sia  verosimilmente debitrice proprio della pubblicazione del saggio di Francesco Negri.

[43] Le immagini di Crea facevano parte di una serie dedicata alle Chiese della provincia di Alessandria, poi presentata alla Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, cfr. Fotografi del Piemonte, 1977, pp. 29-30.

[44] Gabotto b  1925, p. 82, redatto poco dopo la solenne commemorazione di Negri tenuta a Crea da Oreste Mattirolo, con apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della chiesa. Un primo necrologio era già stato pubblicato nel febbraio dello stesso anno, Gabotto a, 1925.

[45] Come testimonia il pur impoverito Fondo fotografico, Negri ha utilizzato circa 20 formati negativi diversi, sovente corredati di notazioni autografe, dalle lastre 18×24 alle pellicole 17mm, ciò che fornisce indicazioni anche sulla ricchezza e varietà della strumentazione in dotazione, oggi presente nel Fondo in modo scarsamente significativo.

[46] Roster 1899, p. 25, che riprende in forma quasi letterale il concetto – del resto ampiamente condiviso da tutta la cultura di secondo Ottocento – espresso da Jansen dieci anni prima e posto in esergo a questo saggio.

[47] La quasi totale assenza di positivi impedisce – come già abbiamo notato – di valutare compiutamente gli esiti finali del lavoro fotografico di Negri, ciò che comporta l’assumersi il rischio di valutazioni a volte non documentalmente sostenute in modo soddisfacente, ma ci pare di poter ascrivere allo stesso piacere di reinvenzione del reale mostrato dalle esposizioni multiple anche il ricorrere di immagini stereoscopiche in cui la sovrapposizione dei bordi contigui dei due stereogrammi genera affascinanti paesaggi d’invenzione [8e16].

[48] Questo atteggiamento è efficacemente testimoniato dalla piccola serie di riprese ‘rubate’ col teleobiettivo [72A, 824B, 534].

[49] Brevettato nell’ottobre del 1886 dal tedesco Carl P. Stirn.

[50] È stata proprio la fotografia a contribuire a definire in senso moderno, visualizzandolo,  il concetto di istante. Quando nel 1886 Albert Londe – di cui Negri possedeva La photographie moderne, pratique et applications, 1888 – decise di intitolare il proprio volume Photographie instantanée, la comprensione di ciò che questo termine designasse era ancora incerta, tanto più la sua definizione, cfr. Gunthert 2001, p. 66.

[51] Alla definizione di questo nuovo genere che dapprima non prevedeva il riconoscimento di alcuno statuto, contribuirono non poco i milioni di immagini prodotte ad uso personale e destinate ad essere relegate nell’ambito della fruizione privata, da cui riusciranno a emergere e svincolarsi solo  in virtù  della loro natura essenzialmente quantitativa di fenomeno, giungendo poi a contribuire  significativamente all’accrescimento delle modalità linguistiche della fotografia del XX secolo.

[52] Bricarelli 1913, sottolineature dell’autore,  citato in Stefano Bricarelli 2005, p. 15, cui si rimanda per ulteriori riferimenti e citazioni.

[53] Marien 2002, p. 170.

[54] Penso allo Stieglitz newyorkese ad esempio, ma anche alle riprese di  Paul Martin a Londra, come alla sublime leggerezza di Jacques-Henri Lartigue.

[55] Gunthert 2001, p. 72, traduzione di chi scrive, corsivi dell’autore.

[56] Non mi pare che Negri intendesse invece raccontare i protagonisti della scena urbana, come faceva ad esempio Alessandro Perelli a Milano proprio nel 1910-1915, o più tardi Luciano Morpurgo, al di fuori della sua produzione più smaccatamente pittorialista.   Una familiare libertà presente in alcune immagini può semmai  avvicinarlo al Michetti delle foto al mare o all’operare di Giuseppe Michelini a Bologna.

[57] Si trattava di un “un apparecchio di cinematografia” messo in commercio in Italia a partire dal 1912, che consentiva di realizzare su ciascuna lastra  nel formato 9,5×9 84 fotogrammi cadenzati in sequenza a partire dall’alto secondo un ordine che potremmo definire bustrofedico e di cui si sono conservate nel Fondo 7 lastre negative e 40 positive.

[58] Secondo Rictor Norton ad esempio il successo di Bathing Boys, opera del pittore inglese Henry Scott Tuke (1858-1929) fu così folgorante che centinaia di amatori fotografi e pittori corsero a misurarsi con questo soggetto. Per questo due anni più tardi, nel 1890, la Amateur Swimming Association impose che tutti i concorrenti dovessero indossare i pantaloncini da bagno durante le gare,  cfr. Rictor Norton, The Beginnings of Beefcake, https://rictornorton.co.uk/beefcake.htm  (30 11 2022).

[59] Josef Maria Eder, Der Momentphotographie. Wien, 1884, pp.9-10, citato in Gunthert 2001, pp. 80, traduzione di chi scrive.

[60] È del 25 aprile 1892 la prima prova documentata, una veduta di Casale da Sant’Anna “m.1500 40 ist. 4 pom”, forse realizzata ancora con quel rudimentale dispositivo “formato di due tubi di cartone”  che venne poi  esposto all’ammirazione di tutti nella sezione storica della “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” curata da Annibale Cominetti, come si ricava dalla sua lettera di condoglianze inviata al figlio Federico, citata in Gasparolo 1925, pp. 9-19. Nel maggio del 1894 proseguirono le sperimentazioni per il formato 18×24 adottando diverse combinazioni di lenti, successivamente indicate come “Tel. I”, quindi “Tel. II” (lastra 246, 1895), e infine “Tel. III”, con cui riprese nel 1896 un panorama in cinque lastre del Monte Rosa visto dalla cima dello Zebion in Val d’ Ayas,  successivamente stampato da Vittorio Sella intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Due anni dopo la messa in produzione da parte di Koristka (Milano: via Revere 2, poi Piazza d’Armi Vecchia 59, angolo via Bersaglio 2) officina che produceva obiettivi su licenza Zeiss ed era la rappresentante italiana della ditta Haas di Francoforte (Contini 1990, p. 110), il nuovo teleobiettivo, “il primo in Italia, fra i primi nel mondo” (Masoero 1900), venne presentato dallo stesso Negri ai partecipanti al primo Congresso Fotografico Italiano, che si tenne a Torino nel 1898.

[61] Altre serie di immagini riguardano le esposizioni casalesi (1900) e torinesi (1898, 1902). Mentre alla locale esposizione vinicola documenta sistematicamente i padiglioni con i relativi addetti rigorosamente in posa, a Torino Negri si aggira liberamente tra quelle fantastiche e innovative architetture effimere. Qui è un visitatore anonimo, libero di orientare ovunque, inavvertito, la propria curiosità; là era l’avvocato Negri, già Sindaco, notoriamente fotografo.

[62] “Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie” rimproverava Giuseppe Pellizza da Volpedo all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi  in una lettera databile tra 1896 e 1897, citata da Luciano Caramel 1982. Non è escluso che quelle immagini fossero state realizzate dallo stesso pittore, dilettante fotografo, ma va almeno segnalata la presenza nel Fondo Negri, di cui sono note le relazioni di amicizia con Morbelli, di due immagini di risaia [573A, 575A] altrimenti inconsuete per la sua produzione, che potrebbero essere state realizzate proprio su richiesta dell’amico, di cui Negri documentò almeno tre opere: S’avanza (1896), Venduta (1897) e l’Autoritratto con modella (1900-1901). Chiunque ne sia stato l’autore, queste due riprese possono essere considerate le più antiche immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituiscono il primo momento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità, cfr.  Cavanna 2000. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati da  Marisa Vescovo 1982.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, esercitò la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli & Morbelli, 1995.

[63] Toffoletti, Zannier 1990.

[64] Miraglia 1990, pp. 91 nota 124.

[65] “ ‘Veduta’ e ‘panorama’ (…) sono due generi elaborati dalla tradizione manuale della pittura (…) in epoche fra loro diverse e distanti, ma ambedue nati, almeno nelle intenzioni, con l’intento di rappresentare le cose come realmente sono”, mentre il ‘paesaggio’ va inteso “come espressione del sentimento” individuale dell’autore, cfr. Miraglia 2006, pp.15, 19.

[66] Infinitamente 2004.

[67] Sella 2006. È verosimile che tramite della loro conoscenza fosse il Club Alpino Italiano, che nel 1879 aveva designato Negri membro della Commissione di un non meglio specificato “concorso per lavori sulle montagne italiane”, Gasparolo 1925, p. 8.

La stampa, recentemente ritrovata e segnalatami da Daria Jorioz, capo del Servizio Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che qui ringrazio, è una ripresa panoramica in cinque parti del Monte Rosa dal Zerbion (St. Vincent–Ayas), datata 1896 e stampata da Vittorio Sella da “Telefoto Negri Avv. Francesco”.  La versione a contatto di questo stesso panorama compare in una stereoscopia dello studio di Negri [23e29].

[68] Tricromia (detta anche eliocromia indiretta o analitica), metodo indiretto per la realizzazione di immagini fotografiche a colori messo a punto indipendentemente da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron tra 1867 e 1869, poi successivamente modificato. Di ciascun soggetto, di necessità statico, Negri realizzava su lastra tre negativi di selezione utilizzando ogni volta un filtro di colore primario: verde, rosso-arancio e bluvioletto, questo infine abbandonato “perché dannoso, producendo esso negative monotone anziché contrastate, quali occorrono per il monocromo giallo.” Ciascuna lastra veniva successivamente stampata a contatto su “pellicole rigide alla gelatina-bromuro della A.G.F.A. di Berlino, le uniche che non si alterano mai, stante la bontà della celluloide”, trattate con bicromato di potassio e quindi colorate nei tre colori complementari (rosso porpora/magenta, azzurro-verde/ciano e giallo). La sovrapposizione a registro delle tre gelatine colorate restituiva, per sintesi sottrattiva,  i colori del soggetto, perfettamente leggibili per trasparenza, cfr. Negri 1906.

[69] A queste vanno aggiunti gli esemplari conservati in collezione privata, ma le stesse vicende di costituzione del Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato lasciano intendere la possibilità di ulteriori futuri ritrovamenti, cfr. Cavanna 1991.

[70] Negri 1906. Il nove settembre 1901 alcune “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” vennero presentate da Pietro Masoero nel corso della conferenza dedicata ad “Arte e Fotografia”, tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi, cfr. “La Sesia”, 13 settembre 1901. Doveva trattarsi di riproduzioni di dipinti, di cui però oggi si conservano le sole riprese di selezione, non i risultati finali.  Per l’aspirazione al colore nella fotografia di documentazione d’arte cfr. Cavanna 1985.

[71] Cfr. Costantini 1994. Negri visitò l’Esposizione il giorno 23 maggio, realizzando con un apparecchio Vérascope una bella serie di vedute stereoscopiche destinate alla duplicazione in positivo su lastra (per proiezione quindi), cfr.  Cavanna 1994. Prima di questa occasione Negri aveva già preso parte  all’Esposizione Nazionale di Milano organizzata dal Circolo Fotografico Lombardo nel 1894, cui parteciparono anche Grosso, Sella e, tra i professionisti, Masoero e Pietro Santini. All’Esposizione Fotografica Internazionale tenutasi a Firenze in occasione del secondo Congresso Fotografico Italiano (1899) espose con Guido Rey nella sezione dilettanti,  presentando immagini scientifiche, per le quali  gli fu assegnato un “Diploma di medaglia d’argento” di III grado nella classe VI-VII (Scientifica). L’anno successivo prese parte all’Esposizione Fotografica Internazionale organizzata dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina di Torino, presentando “telefotografie e microfotografie”, poste “accanto ai lavori esposti dall’Istituto geografico militare. (…) Presenta il gruppo del Gran Paradiso in 4 pezzi 18×24, senza alcun ritocco e di tale bellezza e nettezza da ritenerlo una veduta diretta; il Ruitor (…) con un ingrandimento di 15 diametri ed a 30 chilometri di distanza. Vi si ammira uno splendido effetto di ghiacciaio. Un gruppo del Monte Bianco ed il Monte Rosa da Riva Valdobbia pure bellissimi.”,  Masoero 1900, pp. 138-139. L’assenza in lui di qualsiasi velleità artistica sembra confermata dalla partecipazione  – nella categoria “B” riservata agli abbonati – alla IV Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica che si svolse a Torino nel 1907, promossa dalla rivista “La Fotografia Artistica”. Qui non presentò alcuna immagine a colori, ma espose vedute di castelli valdostani (Fènis, Ussel, Verrès, Montjovet) e temi valsesiani (Riva Valdobbia, un dipinto nella chiesa di Valdobbio) ma soprattutto  fotomicrografie batteriologiche (polmonite, tubercolosi, tetano, tifo e colera asiatico “da preparazione avuta direttamente dal dott. Koch”), per le quali gli fu assegnato un diploma di medaglia d’argento.  Solo nel 1909, all’Esposizione Nazionale di Fotografia che si tenne a Casale Monferrato  dal 16 al 23 marzo in occasione della Fiera di San Giuseppe, nei locali dell’Accademia Filarmonica Negri presentò  “nove quadretti di fotografie a colori tra cui furono trovati stupendi senza esagerazione, un cespo di rose e tre paesaggi montani.” Ormai a suggello del suo  lungo e qualificato impegno, in quell’occasione gli fu assegnato il “Gran diploma e medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il contributo da lui portato all’arte fotografica.”,  “Il Progresso Fotografico”, 1909, pp.62, 126.

[72] A causa dell’elevata deteriorabilità delle gelatine le tricromie vennero esposte a rotazione, ma ciò nonostante alcune risultarono danneggiate irreparabilmente, verosimilmente per un incidente occorso durante  l’esposizione stessa (3C114 = “Carbonizzata”; 5C114 “Esposizione di Torino 1902. Da giugno a novembre”).

[73] Masoero 1902. La sua maestria in questo settore venne opportunamente celebrata ancora vent’anni più tardi nei necrologi: “Fin dal 1863 il Negri praticò anche la fotografia, sia scientifica, che artistica, nonché di paesaggio: occupò molto tempo, e con mirabili risultati, nella fotografia a colori.”, Gasparolo 1925. “Fotografo valentissimo, tentò, durante gli albori della fotografia a colori, di emulare i professionisti. Eseguì fotografie policrome magnifiche di fiori, frutta e paesaggi che destarono la meraviglia di chi li vide; ma, come per tante altre sue creazioni, una volta congegnate e perfezionate per suo intimo diletto e per la gioia di riuscire, vennero abbandonate nei polverosi scaffali.”,  Gabotto c 1925.

[74] Falcone 1914.

[75] Nel Fondo Negri se ne conserva una ricca collezione, tutte purtroppo separate dai fascicoli originali, ormai perduti.

[76] “Se pubblico queste mie esperienze (…) lo faccio colla speranza di rendermi utile ai colleghi che desiderano occuparsi dell’arduo problema della tricromia.”,  Negri 1906, p. 44. Nella stessa occasione consegnava  alla SFI “anche una serie di belle tricromie” di cui si è persa ogni traccia.

 

 

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Marco Antonetto, Michele Falzone del Barbarò, Apparecchi fotografici italiani 1839/1911. Milano: Electa, 1980

 

Barbero, Spantigati 1998

Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea. Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998

 

Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni 1992

Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II. Firenze: SBAA per le provincie di Firenze e Pistoia, 1992

 

Bertelli 1979

Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, in Bertelli, Bollati 1979, pp. 57-198

 

Bertelli, Bollati 1979

Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845 – 1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.8 agosto, pp.  2255-2260

 

Butler 1882

Samuel Butler, Alps and Sanctuaries.  London: David Bogue, 1882

 

Butler 1888

Samuel Butler, Ex voto. An account of the Sacro Monte or New Jerusalem at Varallo Sesia. With some notices of Tabacchetti’s remaining work at the Sanctuary of Crea. London: Trübner & Co., 1888

 

Butler 1913

Samuel Butler, The Humour of Homer and Other Essays.  London, Arthur C. Fifield, 1913

 

Butler  1989

Samuel Butler, the way of all flesh: photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, Bolton Museum and Art Gallery, 6 dicembre 1989-24 febbraio 1990; Nottingham, 2 ottobre – 6 novembre1990). Bolton: Bolton Museum and Art Gallery, 1989

 

Caramel 1982

Luciano Caramel, Angelo Morbelli: le ragioni del vero e quelle della pittura, in Angelo Morbelli 1982, pp.9-20

 

Cartier-Bresson 1984

Anne Cartier-Bresson, Les papiers sales: altération et restauration des premières photographies sur papier. Paris: Paris Audiovisuel, 1984

 

Casale Monferrato 1900

Casale Monferrato. Ricordo dell’Esposizione Industrie Monferrine e Fillosserica, maggio – giugno 1900. Casale Monferrato: Tipografia Editrice Giovanni Pane, 1900

 

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna,  Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp.150-154

 

Cavanna 1990

Pierangelo Cavanna,  Inventariazione e preschedatura del fondo fotografico Negri, dattiloscritto, 1990

 

Cavanna 1991

Pierangelo Cavanna, Francesco Negri e la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, “AFT”, 7 (1991), n.14, dicembre, pp.57-63

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Il Fondo Fotografico  della Biblioteca Civica di Casale Monferrato ed una mostra, “Fotologia”, vol.14-15, primavera/estate 1992, pp. 46-53

 

Cavanna 1994

Pierangelo Cavanna, Francesco Negri e l’Esposizione d’Arte Decorativa Moderna in Torino del 1902. Torino: Agorà editrice, 1994

 

Cavanna 1996

Pierangelo Cavanna, Una storia di terre, beati e contadini. Con alcune note d’arte, in Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996, pp. i-xiii

 

Cavanna 1997

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77

 

Cavanna 1998

Pierangelo Cavanna, Cinquant’anni di sguardi. La fotografia scopre il Sacro Monte, in Barbero, Spantigati 1998, pp. 137-145

 

Cavanna 2000

Pierangelo Cavanna, Il trapianto del mito: acque, risaie, mondine nell’iconografia ottico-meccanica, “Studi di museologia agraria: notiziario dell’Associazione Museo dell’Agricoltura del Piemonte”, 17 (2000), n. 33, pp. 23-37 link

 

Colli 1913

Evasio Colli, Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913

 

Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996

Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il B. Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio, [1914]. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996

 

Colombo 1969

Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841/1924. Bergamo: Coop. Il Libro Fotografico, 1969

 

Contini 1990

Maria Teresa Contini, Strumenti fotografici 1845-1950. Roma: Gabinetto Fotografico Nazionale – NER, 1990

 

Corcy 2003

Marie-Sophie Corcy, Jean Bernard Léon Foucault, in Le daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi – New York, 2003-  2004), Quentin Bajac, Dominique Planchon-de Font Réaulx, dir. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003, pp.364-365

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, pp.95-179

 

Crea 1900 1900

Crea 1900, numero unico del «Corriere di Casale», 8-9-10 ottobre 1900

 

Darius 1984

Jon Darius,  Beyond Vision: One Hundred Historic Scientific Photographs. Oxford – New York: Oxford University Press, 1984

 

De Amicis et al. 1914

Giovanni Augusto De Amicis et al., Il Santuario di Crea. Casale Monferrato: Tipografia Ditta G. Pane,1914

 

De Feo, Ratti 2001

Claudia  de Feo, Guido Ratti, Indice centenario. La «Rivista di Storia Arte e Archeologia» dal 1892 al 1999. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2001

 

De Gubernatis 1879

Angelo de Gubernatis, Dizionario biografico degli scrittori contemporanei. Firenze: Successori Le Monnier, 1879

 

Didi-Huberman 1988

George  Didi-Huberman, La fotografia scientifica e pseudoscientifica, in Jean-Claude Lemagny, André Rouillée, a cura di, Storia della fotografia. Firenze: Sansoni, 1988, pp. 71-75

 

Donné, Foucault 1845

Alfred Donné, Léon Foucault, Atlas du Cours de Microscopie exécuté d’après nature au microscope daguerréotype.  Paris: J.B. Baillière 1845

 

 

Drudi Demby 1993

Lucia Drudi Demby, Introduzione, in Samule Butler, Erewhon. Milano: Adelphi, 1993

 

Durio 1940

Alberto Durio, Samuel Butler e la Valle Sesia. Da sue lettere inedite a Giulio Arienta, Federico Tonetti e a Pietro Calderini. Varallo Sesia: Tipografia Testa, 1940

 

Esposizione fotografica 1899

Catalogo della Esposizione fotografica in Firenze promossa dalla Società Fotografica Italiana, aprile-maggio 1899. Firenze:Tip. di G. Barbera, 1899

 

Esposizione Internazionale 1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907

 

Falcone 1914

Nicola Angelo Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914

 

Falzone del Barbarò 1979

M.F.B. [Michele Falzone del Barbarò], Negri Francesco, in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, p. 168

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Federico Negri s.d.

Associazione Ex-Allievi Liceo Ginnasio «Cesare Balbo», a cura di, Mostra retrospettiva dell’avv. Federico Negri. Casale Monferrato, s.d.

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Fotografia italiana 1979

Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze – Venezia, 1979-1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979

 

Frizot 1994

Michel Frizot, La photomicrographie, in Id., dir., Nuovelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994, pp. 275-277

 

Frizot, Ducros 1987

Michel Frizot, Françoise Ducros, Du bon usage de la photographie. Une anthologie de textes. Paris: Centre national de la Photographie, 1987

 

Gabotto 1925a

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.2, febbraio, pp. 15-16

 

Gabotto 1925b

Luigi Gabotto, Francesco Negri, “La Madonna di Crea”, 16 (1925), n.7, luglio, pp. 81-83

 

Gabotto 1925c

Luigi Gabotto, Francesco Negri. Casale Monferrato: Stabilimento Tipografico Successori Cassone, 1925

 

Garimoldi 1966

Giuseppe Garimoldi , Montagna – Città: autoritratto di un fotografo, in Mario Gabinio 1996, pp.37-46

 

Gasparolo 1925

Francesco Gasparolo, Cav. Uff. Avv. Francesco Negri , “Rivista di Storia, Arte, Archeologia per la Provincia di Alessandria”, 9 [34] (1925),  fasc. 33, pp. 9-19

 

Gilardi 1969

Ando Gilardi, Francesco Negri fotografo a Casale, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 144, ottobre,  p.55

 

Gilardi 1976

Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976

 

Greco 1969

Enzo Greco, La figura e l’opera di Francesco Negri. Casale Monferrato: Lions Club, 1969

 

Greco, Serrafero 1973

Enzo Greco, Gabriele Serrafero, La documentazione microfotografica delle scoperte batteriologiche nell’opera del casalese Francesco Negri (1884-1885), in “Atti della VII Biennale della Marca e dello Studio Firmano”, (Fermo, 2-4 maggio 1967). Civitanova Marche: Grafiche Corsi, 1973

 

Gunthert 2001

André Gunthert, Esthétique de l’occasion. Naissance de la photographie instantanée comme genre, “études photographiques”, 6 (2001), n.9, mai, pp. 64-87

 

Holt 1989

Lee Elbert Holt,  Samuel Butler. Boston: Twayne Publishers,  1989

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Jeffrey 1999

Ian Jeffrey, Revisions: an alternative history of photography. Bradford: National Museum of Photography, Film and Television, 1999

 

Johnson 1998

Geraldine A. Johnson, ed., Sculpture and photography: envisioning the third dimension. Cambridge:  Cambridge University Press, 1998

 

Jones 1918

Henry Festing Jones, ed., The note-books of Samuel Butler. London: Arthur C. Fifield, 1918

 

Jones 1919

Henry Festing Jones,  Samuel Butler, author of Erewhon (1835-1902) a memoir. London: Macmillan and Co., 1919

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Masoero 1900

Pietro Masoero,L’Esposizione fotografica di Torino – Note ed appunti, I parte, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), pp. 124-139

 

Masoero 1902

Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902), pp. 465-479

 

Mattirolo 1925

Oreste Mattirolo, In Memoria dell’Avv. Francesco Negri. Commemorazione letta nella Adunanza del 1° marzo 1925 alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti dal Socio Presidente Mattirolo Oreste, estratto dal «Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti», 9 (1925), n.1-2. Torino: Tip. Anfossi, 1925

 

Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911), in “Storia dell’arte italiana”, 9**, Illustrazione e fotografia. Torino: Einaudi, 1981, pp. 423-543

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2006

Marina Miraglia, Veduta, panorama, paesaggio. Vittorio Sella e la fotografia delle vette, in Paesaggi verticali  2006, pp.11-21

 

Morbelli & Morbelli 1995

Morbelli & Morbelli, catalogo della mostra (Varese – Casale Monferrato, 1995), a cura di Giovanni Anzani, Filippo Maggia. Varese: Edizioni Lativa, 1995

 

Negri 1892

Francesco Negri, Una famiglia d’artisti casalesi dei secoli XV e XVI, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, 1 (1892), n. 2, luglio-dicembre, pp. 160-161

 

Negri 1895

Francesco Negri, Giorgio Alberini. Pittore, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, I, 4 (1895), n. 9, pp. 7-17; II, n. 11, pp. 179-194

 

Negri 1895-1896

Francesco Negri, Il Moncalvo. Notizie su documenti, “Rivista di storia arte e archeologia della provincia di Alessandria”, I, 4 (1895), n. 12, pp. 263-280; II,  5 (1896), n.13, pp. 103-129; III,  n. 14, pp. 207-225

 

Negri 1902

Francesco Negri, Il Santuario di Crea in Monferrato , “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, 11 (1902), n. 6,  (nuova serie), pp. 5-76

 

Negri 1906

Francesco Negri, Appunti sulla tricromia, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 18 (1906), pp. 42-44

 

Negri, Cassone 1885

Francesco Negri,  Giuseppe Cassone, Contribuzione allo studio della genesi e modo di diffusione del colera, “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, gennaio 1885, pp. 40-45

 

Negri, Pisolini 1882

Francesco Negri, Francesco Pisolini, Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, agosto 1882

 

O’Brien, Bergstein 2000

Maureen C. O’Brien, Mary Bergstein, eds., Image and Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000

 

Oddone 1925

Edoardo Oddone, Commemorazione di Francesco Negri, “Il Monferrato”, 25 (1925), n.1, 3 gennaio

 

Omezzoli 2003

Tullio Omezzoli, Come nasce la biblioteca di Aosta. Aosta: Le Château, 2003

 

Paesaggi verticali  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879 – 1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella. Torino: Fondazione Torino Musei – GAM, 2006

 

Un paese unico  2000

Un paese unico. Italia fotografie 1900 – 2000, catalogo della mostra itinerante,  a cura di Cesare Colombo. Firenze: Alinari, 2000

 

Prima Esposizione  1924

Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia. Milano – Roma: Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Principe, Sensi, Casati 2004

Franca Principe, Nadia Sensi, Stefano Casati, Il Fondo Roster dell’Istituto e Museo di Storia delle Scienze di Firenze, “AFT”, 20 (2004), n.39/40, giugno/dicembre, pp. 3-20

 

Pygmalion Photographe  1985

Pygmalion Photographe. La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Ginevra, 1985), Rainer Michael Mason, Hélène Pinet, dir. Genève: Cabinet des Estampes, Musée d’Art et d’Histoire, 1985

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Romano 1970

Giovanni Romano, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo in una città padana. Torino: Einaudi, 1970

 

Saccardo 1895

Pier Andrea Saccardo, La Botanica in Italia. Venezia: Tipografia C. Ferrari, 1895

 

Sagne 1984

Jean Sagne,  L’atelier du photographe: 1840-1940. Paris: Presses de la Renaissance, 1984

 

Samek Lodovici 1946

Sergio Samek Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940. Roma: Tosi, 1946

 

Il Santuario di Crea 1908

Il Santuario di Crea. Cenni sulla conferenza dell’Avv. Cav. Francesco Negri. Torino: Unione Escursionisti – Tip. M. Massaro, 1908

 

Sculpter-Photographier  1991

Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi, Museo del Louvre,  22-23 novembre 1991), Michel Frizot, Domique Païni, dir. Paris: Musée du Louvre, 1991

 

Serrafero 1967

Gabriele Serrafero, Cronache casalesi dal quarantotto al novecento. Casale Monferrato: Tip. Milano e C., 1967

 

Settimelli 1969

Wladimiro Settimelli, Storia avventurosa della fotografia. Roma: Editrice Fotografare, 1969

 

Settimelli, Geiger 1968

Wladimiro Settimelli, Friedel Geiger, Francesco Negri scienziato fotografo, dattiloscritto, 1968

 

Shaffer 1988

Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988

 

Skulptur 1998

Skulptur in Licht der Fotografie, catalogo della mostra (Vienna, 1998), Erika Billeter, hrsg. Wien: Museum Moderner Kunst Stiftung Ludwig, 1998

 

Spanzotti  2004

“Di fino colorito”. Martino Spanzotti e altri casalesi, catalogo della mostra(Casale Monferrato, 2004), a cura di Giovanni Romano con Alessandra Guerrini e Germana Mazza. Casale Monferrato: Città di Casale Monferrato, 2004

 

Stefano Bricarelli 2005

Stefano Bricarelli. Fotografie, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di Pierangelo Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei-GAM, 2005

 

Stoppani 1875

Antonio Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle Bellezze Naturali. Milano: Tipografia e Libreria Editrice Giacomo Agnelli, 1875

 

C.T. 1912

C.T., L’ «Olikos», apparecchio cinematografico di presa e di proiezione, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. IV-V

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Toffoletti, Zannier

Riccardo Toffoletti, Italo Zannier, a cura di, Enrico del Torso fotografo (1876 – 1955). Udine: Arti Grafiche Friulane, 1990

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea, periodico del Santuario di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

 

Vescovo 1982

Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  in Angelo Morbelli 1982, pp.21-32

 

Villata 2000

Edoardo Villata, Macrino d’Alba. Alba: Fondazione Ferrero, 2000

 

Warner Marien 2002

Mary Warner Marien, Photography: A Cultural History. London: Laurence King Publishing, 2002

 

Zannier 1979

Italo Zannier, La massificazione della fotografia (1880 – 1899), in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, pp. 85-118

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier, Costantini 1985

Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano: Franco Angeli, 1985

 

 

 

La biblioteca del fotografo

 

Vengono qui repertoriate le pubblicazioni appartenute a Francesco Negri conservate presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, sulla base di una ricognizione effettuata nel 1990-1991; a queste sono state aggiunte (segnalandole con un asterisco) tutte le pubblicazioni fotografiche conservate nella stessa sede edite prima del 1924, data di morte del fotografo, di provenienza diversa o di cui non è documentata l’appartenenza al Fondo Negri.

La consistenza complessiva risulta oggi essere di circa sessanta titoli e certamente non corrisponde pienamente allo stato originario della biblioteca di Francesco Negri non essendo ad oggi reperibili almeno due periodici ed un catalogo documentati da fonti diverse: “The Philadelphia Photographer” del 1869, che compare nel noto ritratto della moglie (FN, 12/B146), “Photographic News” del 1887 a cui Negri fa riferimento in un appunto citato da Fabrizio Celentano (in Colombo 1969, p.120), il catalogo di Joseph Bamfortp ricordato da Ando Gilardi nella stessa monografia ed ancora il fondamentale testo di Alcide Ducos du Hauron del 1869.

 

Anderson 1907

Domenico Anderson, Catalogo, III, Parte prima. Parte seconda.  Roma: Anderson,1907

 

Anderson 1911

Domenico Anderson, I.er supplement au Catalogue general. Première partie. Deuxième partie. Roma: Anderson, 1911

 

Apparecchio 1897

Apparecchio cronofotografico e Kinetoscopio Pasquarelli. Torino: Camilla e Bertolero, s.d.[1897?]

 

Association Belge 1884-1895

“Association Belge de Photographie: Bulletin”, II serie, 11(1884), 15 (1888) – 22 (1895)

 

Aubry 1903

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1903

 

Aubry 1907

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1907

 

Barreswil, Davanne 1854

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimica fotografica; versione del Prof. Giuseppe Ravani. Milano: Libreria Ravani, 1854

 

Barreswil, Davanne 1861

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimie photographique. Paris: Mallet-Bachelier, 1861

 

Blanquart-Evrard 1851

[Louis Désiré] Blanquart-Evrard, Traité de photographie sur papier. Paris: Roret, 1851

 

Bonacini 1897

Carlo Bonacini, La fotografia dei colori. Milano: Hoepli, 1897

 

Borlinetto 1868

Luigi Borlinetto, Trattato generale di fotografia. Padova: Stabilimento Nazionale di P. Prosperini, 1868

 

Bullettino SFI 1900-1911

“Bullettino della Società Fotografica Italiana”, Firenze, 12 (1900) – 18 (1906); 20 (1908) – 21(1911)

 

Buron 1841

[Noël François Joseph] Buron,  Description de nouveaux daguerréotypes perfectionnés et portatifs. Paris: Dondey-Dupré Imprimeurs, s.d. [1841]

 

Burton 1884

William Kinninmond Burton, A B C de la photographie moderne. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Camera Oscura 1864-1865

“La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia per G. Ottavio Baratti”. Milano: Tip. Giuseppe Redaelli, 2 (1864) – 3 (1865)

 

Camera Oscura 1865-1867

“Camera Oscura. Rivista universale dei progressi della fotografia per O. Baratti”, Milano, 3 (1865) – 5 (1866-1867)

 

Chapel d’Espinassoux 1890

Gabriel Chapel d’Espinassoux, Traité pratique de la détermination du temps de pose. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1890

 

Chevalier A. 1876

Arthur Chevalier, L’étudiant photographe. Traité pratique de photographie à l’usage des amateurs. Paris: Eugène Lacroix, s.d. [1876]

 

Chevalier C. 1846

Charles Chevalier, Nouveaux renseignements sur l’usage du daguerréotype. Paris: Chez l’auteur – Palais Royal, 1846

 

Clerc 1899

Louis-Philippe Clerc, La photographie des couleurs; prefazione di Gabriel Lippmann. Paris: Gauthier-Villars, Masson et C.ie, s.d. [1899]

 

Colson 1894

René Colson, La perspective en photographie. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

Corriere Fotografico 1920-1922

“Il Corriere Fotografico”, Milano, 17 (1920) – 19 (1922)

 

Coustet 1913

Ernest Coustet, La fotografia dell’infinitamente piccolo, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.12, dicembre, pp.9-10

 

Daguerre 1839

[Louis J.M Daguerre], Description pratique du procédé nommé le daguerréotype. Gênes: A. Beuf, 1839; allegato: Description des procédés de peinture et d’éclairage inventés par Daguerre, et appliqués par lui aux tableaux du diorama; Projet de Loi

 

Despaquis 1866

Despaquis, Photographie au charbon. Paris: Leiber, 1866

 

Disderi 1862

André-Adolphe-Eugene Disderi, L’art de la photographie. Paris: Chez l’auteur, 1862

 

Ducos du Hauron 1897

Alcide Ducos du Hauron, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie. Paris: Gauthier-Villars, 1897

 

* Egasse 1888

Edouard Egasse, Manuel de photographie au gélatino-bromure d’argent. Paris: Octave Doin, 1888

 

Esposizione Internazionale  1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica – Catalogo. Torino: La Fotografia Artistica, 1907

 

Fabre 1889-1902

Charles  Fabre, Traité encyclopédique de photographie. Paris, Gauthier-Villars et fils, 1889-1902, 7 voll.

 

                Matériel photographique, 1889

II                 Phototypes Négatifs, 1890

III                Phototypes positifs. Photocopies. Photocalques, Phototirages, 1890

IV                Agrandissements. Applications de la photographie,1890

A                 Premier Supplément, 1892

B                 Deuxième Supplément, 1897

C                 Troisième Supplément, 1902

 

 

La Fotografia 1902

La Fotografia e le sue applicazioni alle arti grafiche; supplemento artistico al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1 (1902), n.3/4, marzo-aprile

 

Il Fotografo 1922

“Il Fotografo”, Torino, 4 (1922), n. 11, Novembre

 

Fouque 1867

Victor Fouque, La vérité sur l’invention de la photographie. Nicéphore Niepce, sa vie, ses essais, ses travaux. Paris: Leiber, 1867

 

Girard 1870

Jules Girard, La Chambre Noire et le Microscope. Photomicrographie pratique. Paris: F. Savy, 1870

 

Girard 1872

Jules Girard, Photomicrographie en cent tableaux pour projection. Paris: Gauthier-Villars, 1872

 

Huberson 1879

Gabriel Huberson, Précis de Microphotographie. Paris: Gauthier-Villars, 1879

 

Klary 1888

  1. Klary, L’art de retoucher les négatifs photographique. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1888

 

König 1906

Ernst  König, Natural-color photography. London: Dawbarn & Ward Ltd., s.d. [1906]

 

La Blanchère 1862-1866

Henri de la Blanchère,  Répertoire encyclopédique de photographie: comprenant par ordre alphabétique tout ce qui a paru et paraît en France et à l’étranger depuis la découverte par Niepce et Daguerre de l’art d’imprimer au moyen de la lumière, I, II.  Paris: [Aymot],  s.d. [1862-1866]

 

Lefèvre 1888

Julien  Lefèvre, La photographie et ses applications aux sciences, aux arts et à l’industrie. Paris: Baillière et fils, 1888

 

Le Roux 1902

Marc Le Roux, dir., Annuaire Général et International de la photographie 1901-1902. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1902

 

* Liesegang  1864

Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana dalla quinta tedesca di Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864

 

Londe 1888

Albert  Londe, La photographie moderne: pratique et applications. Paris: G.Masson Éditeur, 1888

 

Lumière 1897

Augusto e Luigi  Lumière, Nozioni sul cinematografo. s. l. : s.n. [1897?]

 

Malley 1883

Abraham Cowley Malley, Micro-photography, including a description of the wet collodion and the gelatino-bromide process. London: H.K.Lewis, 1883

 

Meldola 1889

Raphael  Meldola, The chemistry of photography. London – New York: Macmillan and Co., 1889

 

Miethe 1896

Adolf Miethe, Optique photographique sans développements mathématiques a l’usage des photographes et des amateurs. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1896

 

Moitessier 1866

Albert Moitessier, La photographie appliquée aux recherches micrographiques. Paris: J.B. Baillière et fils, 1866

 

Monckhoven 1859

Désiré van Monckhoven, Répertoire général de photographie théorique et pratique. Planches. [Paris], [A. Gaudin et Frère], 1859

 

Monckhoven 1863

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie. Paris: Victor Masson, 1863

 

Monckhoven 1880

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie suivi d’un chapitre spécial sur le gélatino-bromure d’argent. Paris, G. Masson, 1880

 

Muffone 1887

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti. Milano: Hoepli, 1887

 

*Muffone 1892

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti, seconda edizione rifatta. Milano: Hoepli, 1892

 

*Muffone 1906

Giovanni Muffone, Come dipinge il sole. Fotografia per i dilettanti, sesta edizione riveduta e ampliata. Milano: Hoepli, 1906

 

*Namias 1912

Rodolfo Namias, Carte e viraggi per la fotografia artistica e la carta al pigmento o carbone.  Milano: Il Progresso Fotografico, 1912

 

Notizie Tensi 1913-1914

“Notizie della Società Anonima Tensi Milano”, 1 (1913), n.2;  2 (1914), n.1, suppl. al n.1

 

Paris Photographe 1891-1894

“Paris Photographe”, 1 (1891) 4 (1894)

 

Phipson 1864

Thomas Lamb Phipson, Le préparateur-photographe ou traité de chimie a l’usage des photographes.  Paris: Leiber, 1864

 

La Photographie 1908-1909

“La Photographie. La Photographie des Couleurs et la Revue des sciences photographiques et leurs applications réunies”, N.S., 1 (1908) – 2 (1909)

 

La Photographie des couleurs 1906-1907

“La Photographie des Couleurs: Revue Mensuelle”, 1 (1906), n.2, Août – 2 (1907), n.7, Juillet

 

Piquepé 1881

Paul Piquepé, Traité pratique de la retouche des clichés photographiques suivi d’une méthode très détaillée d’émaillage et de formules et procédés divers. Paris: Gauthier-Villars, 1881

 

Reichardt, Stürenburg 1868

Oscar Reichardt, Carl Stürenburg, Lehrbuch der Mikroskopischen Photographie. Leipzig: Quandt & Händel, 1868

 

Rivista Scientifico – Artistica 1893-1897

“Rivista Scientifico – Artistica di Fotografia”. Bollettino del Circolo Fotografico Lombardo, 1 (1893) – 6 (1897)

 

Roster 1893

Giorgio Roster, Note pratiche su la telefotografia. Firenze: Salvatore Landi, 1893

 

Roster 1899

Giorgio Roster, Le applicazioni della fotografia nella scienza. Conferenza, estratto dagli “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 15-19 maggio 1899). Firenze: Tip. M. Ricci, 1899

 

Rouillé-Ladevèze 1894

Auguste Rouillé-Ladevèze, Sépia-photo et sanguine-photo. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

*Sassi 1897

Luigi Sassi, Le proiezioni. Materiale – Accessori – Vedute a movimento- Positive sul vetro- Proiezioni speciali policrome, stereoscopiche, panoramiche, didattiche, ecc. Milano: Hoepli, 1897

 

Sassi 1905

Luigi  Sassi, La fotografia senza obiettivo. Milano: Hoepli, 1905

 

* Sassi 1912

Luigi Sassi, Immagini fotografiche a colori. Ottenute con sviluppi e viraggi su carte all’argento e su diapositive. Milano: Hoepli, 1912

 

* Sassi 1917

Luigi Sassi, I primi passi in fotografia. Milano: Hoepli, 1917

 

*Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tip. G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Spiller 1883

Arnold Spiller, Douze leçons élémentaires de chimie photographique. Paris: Gauthier-Villars, 1883

 

Sternberg 1883

George Miller Sternberg, Photo-Micrographs and how to make them. Boston: James R. Osgood and Company, 1883

 

*Thierry 1847

Jean Pierre Thierry, Daguerréotypie. Edition augmentée par l’auteur de la description rigoureuse duprocédé dit Americain et de son emploi facile avec sa composition d’iode. Paris: Lerebours et Secretan, 1847

 

*Valicourt 1851

Edmond de Valicourt, Nouveau manuel complet de photographie sur métal, sur papier et sur verre. Nouvelle édition. Paris: Roret, 1851

 

Vidal 1884

Léon Vidal, Calcul des temps de pose et tables photométriques. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Vidal 1885

Léon  Vidal, Manuel du touriste photographe, I, II. Paris: Gauthier-Villars, 1885

 

Vogel 1887

Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objets colorés avec leurs valeurs réelles. Paris: Gauthier-Villars, 1887

 

 

“Invece di leggere la storia nei libri”: Fotografia e museografia in Piemonte intorno al 1884 (2006)

in Enrica Pagella, a cura di, Il Borgo Medievale: Nuovi studi, “Quaderni del Borgo”, n.6. Torino: Fondazione Torino Musei, 2006, pp. 130-140

 

 

Erano i primi giorni  dell’anno 1870 quando il giovane Vittorio Avondo si recava nello studio della Fotografia Subalpina per farsi ritrarre da  Giovanni Battista Berra in costume da “antico gentiluomo inglese”[1], non ancora attratto da più rudi medievalismi sabaudi sebbene l’abito fosse scelto per partecipare  al gran ballo offerto dal Duca Amedeo d’Aosta, il 16 febbraio.  Quelli erano ancora tempi di vaghe suggestioni storiciste, teatrali: tra Partite a scacchi e Feste Campestri, Balli delle Alpi e Cavalieri del Bogo, Ordini cavallereschi  e l’ormai consolidata moda del revival neogotico.  Ancora due anni più tardi, nel Natale del 1872, alcuni dei protagonisti di quella stagione si riunivano per festeggiare vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme, così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[2] “Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne”[3], avrebbe aggiunto Pietro Giacosa in un suo ricordo tardo,  a rimarcare forse la fine della spensieratezza e l’avvio di una stagione nuova, col fratello Giuseppe, Alfredo d’Andrade, Federico Pastoris e Vittorio Avondo tra i protagonisti del convivio notturno in quello splendido edificio che il giovane pittore e antiquario aveva appena acquistato, dopo averlo segnalato nel 1871 alla Commissione consultiva per l’individuazione dei monumenti nazionali d’antichità e belle arti, di cui faceva parte.  Era ancora lieve lo sguardo volto a ritroso, alla ricerca di  un altrove  le cui coordinate oscillavano tra storicismi e orientalismi o – in altri – verso il mondo popolare extraurbano (a quello urbano avrebbe pensato Bava Beccaris), ma tutte identificavano luoghi in cui fosse almeno possibile vagheggiare alcuni valori perduti della società preindustriale. Quasi ovvio allora che questa topografia dell’immaginario trovasse una propria corrispondenza geografica nei luoghi delle architetture valdostane, quelle che avevano attratto i più sensibili artisti torinesi sin dai primi anni Cinquanta; Pastoris e D’Andrade dal 1865.  Tra 1870 e 1872 qualcosa sembra però essere mutato nella sensibilità di questo ristretto gruppo di artisti torinesi, già ricchi di giovanili esperienze internazionali. Al piacere della rievocazione fantastica, non ancora – forse mai – mitica,  si affiancava e cresceva  la consapevolezza del nesso inscindibile tra identità culturale e materiale del patrimonio,  attraverso la rielaborazione originale sebbene non sistematica delle suggestioni etiche e intellettuali che provenivano dalle diverse anime della cultura europea del restauro: da Pugin a Viollet-Le-Duc, in attesa di accogliere le raccomandazioni ruskiniane per il tramite di Camillo Boito. Era una disposizione alla scoperta[4] e all’ascolto che “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica”, delle testimonianze medievali in particolare, sostenuta da una peculiare forma di verismo che “invece di leggere la storia nei libri [li portava]  a studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita”[5], come ben dimostra un quadro importante come il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880). Quasi un manifesto del gruppo, in cui  ritroviamo felicemente coniugati la resa analitica, fotografica quasi  della descrizione architettonica e il ricco immaginario storicista della scena, in quella che a noi appare come un’oscillazione del gusto da comprendere e giustificare criticamente, mentre costituiva il primo esito maturo di quell’atteggiamento culturale che si sarebbe compiutamente espresso nella realizzazione del Borgo.  Negli stessi anni si avviava a livello centrale il primo progetto di formazione di un repertorio fotografico del patrimonio architettonico italiano. Nel 1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e [ad]  indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[6] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[7] e Vittorio Ecclesia[8] il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  limitandosi però al circondario di Torino e Susa e al territorio di Ivrea e Aosta.[9]    Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che  Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è di Alfonso Rubbiani – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”[10]. Per questo l’uso della documentazione fotografica veniva raccomandato e codificato da Viollet-Le- Duc nel suo Dictionnaire del 1860[11].    Fu proprio a Vittorio Ecclesia, autore delle riprese di Issogne nel corso della campagna del 1882, cui Avondo si rivolse per celebrare con un album fotografico[12] il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro come dei criteri e degli esiti recenti del suo riallestimento quasi filologico[13], quelli  che tanto avrebbero colpito  lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947) durante la visita fatta all’edificio nel 1896: “un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale.”[14] Giudizio che avrebbe potuto essere esteso con profitto e condiviso con reciproca soddisfazione per diverse altre occasioni museografiche. Dalle nuove riprese realizzate nei primi mesi del 1884[15] emerse una lettura chiara e sistematica dell’architettura come degli apparati decorativi e degli ambienti arredati. Una fedele documentazione non solo del suo stato attuale di residenza “in stile”, ma anche – sorprendentemente – di come il castello doveva essere stato, e vissuto: abitato da personaggi in costume, come l’armigero poggiato al bordo della fontana del melograno.  In quegli stessi mesi  giungeva a compimento la costruzione del Borgo Medievale, “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle “parti più importanti e caratteristiche” delle architetture, selezionate dopo il ‘colpo di mano’ di Avondo e D’Andrade che aveva reindirizzato le prime scelte della Commissione. Si trattava – come è noto – di procedere raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio”,  compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia”, di un repertorio insomma.  “Obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[16]  Il nodo concettuale imposto da questo vincolo metodologico generò un monumento di tipo nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza disciplinare e civile del patrimonio medievale piemontese e valdostano,  ma soprattutto esito concretamente esperibile dell’aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, di presenze riconosciute autentiche. Alla manifesta necessità economica di sostituire la realtà col suo simulacro, infine. Analogamente a quanto accadeva con  le fotografie, l’aggregarsi improvviso di elementi esistenti in luoghi diversi dislocava il visitatore nello spazio e nel tempo, scardinando paradossalmente ogni realismo e nel Borgo trovava compiuta consistenza museografica quel concetto di analogo, di copia fedele e fungibile al reale che accomunava ‘ricostruzione’ e immagine ottico meccanica, mescolandosi ancora inestricabilmente con le suggestioni disciplinari e letterarie del restauro alla francese. Qui il luogo comune dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento  investiva  una pratica che si voleva filologica nonostante gli interventi di assemblaggio e collage, i sapienti aggiustamenti necessari ad  adattare i parametri originali al nuovo contesto[17]. Anche per questa realizzazione, come per ogni fotografia, si può così parlare di riscrittura apparentemente oggettiva e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di  un soggetto inesistente in quella forma. Analogamente a quanto accadeva quasi negli stessi giorni a Issogne, a ulteriore testimonianza della capacità dei membri più autorevoli della Commissione ordinatrice di conservare un affascinante equilibrio tra consapevolezza archeologica e piacere giocoso della messinscena, Vittorio Ecclesia veniva incaricato di realizzare anche al Borgo una serie di vedute animate da figure in costume.[18]

Così se “queste fabbriche non [apparivano] una fredda rassegna di cose da museo” ciò accadeva perché erano animate da “personaggi e scene dell’epoca a cui si riferiscono” (Nino Pettenati)[19], mentre al banchetto inaugurale offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (ispirati versi di Giuseppe Giacosa) intervenivano “un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…), il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” Alla cerimonia inaugurale poi, alla presenza dei reali, “il corteo passa. È il mondo moderno  che entra nel medioevo. È il secolo XIX che fa un ricorso fantastico nel XV. Quei due mondi destano un contrasto che non manca di una certa comicità” certo, ma per cogliere le emozioni più vere occorreva attendere la sera, quando la dotta attrazione archeologica trascolorava, trasformandosi: “un castello antico è bello – infine – al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e là come un lenzuolo candido […] quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono  il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” Era il coup de théâtre ostinatamente cercato e raggiunto, poiché “ora l’uomo è così fatto, che si sente suscitare dentro gli spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo” (Camillo Boito) , poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia” (Antonio Bonamore), specialmente quando la verosimiglianza – come a Issogne – era certificata dalla   rappresentazione fotografica degli ambienti e della “vita civile del XV secolo”, anticipando meccanismi narrativi che di lì a non molto avrebbe sviluppato con ben altri mezzi il cinema. Riproduzione tendenzialmente fedele dell’originale, testimonianza e documento, strumento – al pari dei rilievi grafici e dei calchi – di una disciplina  che stava definendo le proprie metodiche e il proprio progetto culturale e scientifico senza voler rinunciare al fascino letterario dell’evocazione[20]. Materializzazione di un sogno, questo assemblage di immagini costituiva un efficace dispositivo di realismo fantastico, non ancora consapevole dei rischi futuri di quelle rappresentazioni omologate in cui le più forti connotazioni dei luoghi sono trasformate in stereotipi.  Allora ciò non poteva neppure essere concepito per un patrimonio come quello piemontese, ancora in fase di scoperta e di studio,  ma nella spettacolarizzazione del Borgo oggi riconosciamo il primo indizio di un meccanismo di riduzione che si sarebbe rivelato tentacolare e onnivoro, di un percorso che ha condotto a certe superficialità consumistiche dell’oggi.

Il fascino e l’efficacia didascalica di questa museografia della verosimiglianza dovettero essere tenute nel dovuto conto dalla Commissione incaricata di stabilire il nuovo allestimento della Sezione di Arte Antica del Museo civico torinese, presieduta dal neodirettore Avondo, certo memore anche dei favorevoli commenti espressi da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito degli esiti del suo riallestimento del castello di Issogne come dell’Esposizione di Torino del 1880[21], che lo aveva avuto tra i commissari, dove la disposizione degli oggetti si presentava “come nella casa di un uomo di gusto”.[22] La revisione museografica degli allestimenti, consentita dal trasloco nell’aprile 1895 della Sezione di arte moderna nella nuova sede della palazzina dell’Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, ottenne il plauso del Comitato direttivo “pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate” [23], e quasi impose la messa in cantiere di una “pubblicazione illustrativa” la cui concreta realizzazione prese però avvio solo nel febbraio del 1899, affidata a Edoardo Balbo Bertone di Sambuy.  A causa di una serie di difficoltà successivamente sorte, la “riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo” fu particolarmente travagliata e lunga[24],  così che solo la vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica  venne presentata al Sindaco di Torino. Le bellissime tavole stampate dallo stabilimento eliotipico Calzolari & Ferrario di Milano illustravano la nuova sistemazione, in cui accanto all’organizzazione tipologica “per serie e per materiali” (ceramiche, tessuti ecc.) comparivano  ricostruzioni ambientali cronologicamente e stilisticamente connotate, come la Stanza piemontese del XV secolo, che costituivano non solo l’attualizzazione di importanti modelli internazionali, ma anche una rielaborazione delle esperienze e delle soluzioni adottate al Borgo e ancor prima poste in atto nella risistemazione del castello di Issogne. Mancavano ormai i figuranti in costume, che Edoardo di Sambuy aveva comunque utilizzato ancora in una serie di riprese valdostane del 1898, ma questi esempi di ricostruzione verosimilmente oggettiva di un altrove temporale e spaziale sarebbero stati ancora ben presenti nell’eclettico allestimento progettato da Augusto Cavallari Murat per il grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale mise a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte[25], incerto tra ormai consolidate soluzioni moderniste (penso all’uso dei bellissimi ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone[26])  e più tradizionali ambientazioni in stile di avondiana memoria. Qui, ancora una volta, i due diversi meccanismi di ‘riproduzione’ di una realtà lontana nel tempo e nello spazio prendevano forma nella goticizzazione degli spazi di Palazzo Carignano e nei rimandi visuali delle tavole fotografiche.

 

Note

 

[1] Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p. 120.

[2] Giuseppe Giacosa, 1908, citato in Sandra Barberi, L’ultimo castellano della Valle d’Aosta: Vittorio Avondo e il maniero di Issogne, in Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1997, pp. 137-164 (149).

[3] Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968. p. 12.

[4] A breve distanza dalla serie di incisioni realizzate da  Édouard Aubert, La Vallée d’Aoste. Paris: Amyot, 1860, utilizzate ancora molto tempo dopo da Amé Gorret, Claude Bich, Guide de la vallee d’Aoste. Torino: F. Casanova, 1877,  nel 1869 veniva pubblicato l’album  di Meuta e Riva La Vallée d’Aoste monumentale photographiée et annotée historiquement,  che costituisce il primo esempio di pubblicazione fotografica relativa al patrimonio artistico della valle.

[5]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891,. Torino:Paravia e C.,  1893, p.337, citato in  Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano. Torino: Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.19-43.

[6]  “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[7] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino, 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra ( Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I, oggi conservato presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria. Esemplari della sua campagna documentaria del 1882 sono attualmente conservati nell’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte, ma anche nel Fondo Avondo e nel Fondo Musei Civici della Fondazione Torino Musei, costituito da 96 stampe all’albumina di medio o grande formato essenzialmente dedicate a soggetti di architettura piemontese, nella maggior parte provenienti da Esposizioni torinesi o dalla campagna di documentazione dei “monumenti” piemontesi promossa dalla Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità della Provincia di Torino nel 1882.

[8] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).  Tre esemplari dell’album dedicato al Castello d’Issogne,  in due diverse edizioni, uno dei quali con  dedica di Vittorio Avondo ad “A. Pozzi antiquario” e numerosi esemplari delle due serie di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, 1884, sono oggi conservati presso la Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei, mentre 24 stampe all’albumina  di identico soggetto compaiono nel Fondo Brayda e fanno parte anche di un Fondo non meglio identificato della stessa Fondazione, che conserva anche esemplari riferibili alla campagna documentaria del 1882, di cui si conoscono copie conservate anche presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza per il patrimonio Architettonico e per il Paesaggio del Piemonte.

[9] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate nell’Alessandrino da Federico Castellani e alle  vedute urbane presentate dall’editore Giovanni Battista Maggi, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim; Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino:  Celid, 1999, p. 59. Diversi esemplari di queste immagini sono oggi conservati negli archivi fotografici della Fondazione Torino Musei, dell’Accademia Albertina di Belle Arti e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[10] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc, Restauration, in Id., Dictionnaire Raisonné de l’Architecture Française du XI au XVI siècle. Paris: Librairies Imprimeries Réunies, s.d. (1860),  VIII, pp.33-34.

[12]Per la ricostruzione dell’iter progettuale dell’album cfr. P. Cavanna, a cura di, Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, pp. 33-35.

[13] Quale fosse il valore assegnato dall’ambiente culturale che ruotava intorno ad Avondo e D’Andrade al riallestimento di Issogne mi pare indirettamente confermato anche dalla scelta dei soggetti per le tavole che Carlo Chessa ricavò dalle fotografie Ecclesia (senza dichiararlo) ad illustrazione del volume di Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898.

[14] Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassbur: Fritz Schlesier Verlag, 1896, citato in Barberi 1997, p.146.

[15] Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama- Fondo Vittorio Avondo, cartella “Conti – ricevute – fatture”.

[16] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana Torino 1884. Catalogo ufficiale della Sezione Storia dell’Arte. Torino: Tip. Vincenzo Bona, 1884, p.9.

[17] Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[18] Questa serie di  immagini ebbe un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra, Il Borgo ed il Castello medioevale nel 50° anniversario della loro inaugurazione. Torino: Tip. Carlo Accame, 1934, pur omettendone la paternità.

[19] Salvo diversa indicazione tutte le citazioni successive sono tratte da Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino – Milano: Roux e Favale- Fratelli Treves, 1884: n.8, p. 67, n. 42, pp. 331-334.

[20] Giova qui almeno ricordare che il  1884 costituisce un momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura italiana anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”, che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tenne in occasione dell’Esposizione affidò  al Collegio torinese. Questa iniziativa ebbe quale primo esito la donazione da parte di  Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale. In una macchina museografica costruita come un repertorio veniva ospitato un catalogo antologico fatto di calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto di fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.” Cfr. Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887; Volpiano 1999. Colgo l’occasione per segnalare come parte di quelle immagini sia stata recentemente ritrovata nei depositi di Palazzo Madama ed oggi sia conservata presso l’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei, ma  sia ancora in attesa di un’appropriata catalogazione e studio sistematico in grado di stabilire consistenza e congruenza di quelle immagini rispetto all’allestimento originario.

[21] Ricordo qui, ma il tema della produzione fotografica connessa alle diverse esposizioni andrebbe approfondito, che un’ampia selezione delle opere esposte venne pubblicata nelle cento splendide tavole in fototipia che costituivano la cartella L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: Fratelli Doyen, 1882. Anche G. B. Berra aveva documentato fotograficamente in un grande album la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ma dedicandosi all’arte moderna.

[22] Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-60, cui rimando anche per un inquadramento critico delle concezioni museologiche di Avondo.

[23] Archivio dei Musei Civici di Torino,  CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura mia.

[24] Cfr. Cavanna 2005, pp. 41-44.

[25] Realizzazione “che costituisce, ancora oggi  un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”, Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[26]Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano, a cura di Vittorio Viale.  Torino: Città di Torino, 1939. Scoffone firmava gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 mentre a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

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Pierangelo Cavanna, “La Fotografia Artistica”, in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895 – 1920.  Milano: Unicredit, 2003, pp. 166-167

Cavanna 2003b

Pierangelo Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp.40-116

 

Circolo Sciatori 1941

Circolo Sciatori Torino, Annuario 1941. Torino: Impronta, 1941

Colombo 2003

Cesare Colombo, a cura di, Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Torino: Agorà Editrice, 2003

Colombo 2004

Cesare Colombo, a cura di, Ferrania. Storie e figure di cinema & fotografia.  Novara: De Agostini, 2004

 

Costantini 1987

Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Mostrare paesaggi ovvero  “La documentazione dell’inesistente”[1] (2003)

testo integrale per  L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica di Modena, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003

 

La parte più nobile della fotografia italiana postunitaria aveva proseguito e consolidato, estendendola in misura mai prima immaginabile, l’esperienza indiretta della conoscenza visiva di luoghi e paesaggi avviata dai primi dagherrotipisti e poi dai grandi studi che si aprono nelle principali città d’arte italiane già intorno al 1850. A questo compito erano state chiamate anche le schiere sempre più nutrite di fotografi dilettanti, di amatori che (seguendo le suggestioni di Ruskin senza neppure conoscerne il nome) si erano assunti l’onere di documentare e illustrare  il “belpaese” anche nei suoi aspetti meno noti e celebrati, mentre le stesse municipalità si avviavano ad utilizzare lo strumento della fotografia per testimoniare le trasformazioni urbane in corso.  Si forma così quel “catalogo visivo” del patrimonio italiano cui miravano gli intelletti più accorti della cultura storico artistica nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo: da Camillo Boito ad Alfredo d’Andrade, da Giovanni Morelli a Corrado Ricci, sovente in piena consonanza con gli esponenti di maggior rilievo della cultura fotografica come Pietro Masoero e Giovanni Santoponte.

Un paese fatto di vestigia e paesaggi in cui schiere di poeti “hanno camminato molte volte”[2], e che rischia – già in quegli anni – di essere ridotto ad una rappresentazione omologata in cui “il luogo comune si trasforma in un ideogramma”[3], ma anche un paese che avvia la propria rivoluzione industriale e mostra orgogliosamente i ponti e le stazioni, i teatri,  le gallerie urbane e i cimiteri monumentali sempre più spesso citati dalle guide: l’immagine che così prende forma è quella che sulla scia dell’abate Stoppani, Gustavo Strafforello illustrerà nella serie regionale di volumi più retoricamente dedicati a La Patria[4], pubblicati a partire dal 1890 con un corredo di incisioni ricavate da fotografie, sovente ritoccate senza una precisa consapevolezza dei luoghi raffigurati, mentre Baedeker si affidava ancora alla sola efficacia della parola.

Mentre industrializzazione e urbanizzazione mutano il volto delle città,  gli esponenti più sensibili e curiosi della classe dirigente si fermano a osservare e testimoniare a futura memoria il mondo rurale che cambia, come sarà per Vittorio Sella e Domenico Vallino nelle vallate del Monte Rosa (1890) e – negli stessi anni – per la periferia e la campagna romane descritte da Giuseppe Primoli, incarnazione suprema del fotografo “irregolare” definito da Lamberto Vitali, “non legato a nessuna formula di meccanica uniformità e da nessuna schiavitù di mestiere [che] per posizione sociale e per cultura, era in grado di esercitare in modo tutt’affatto diverso la propria facoltà di osservazione.”[5]  Per Primoli la funzione di mediazione dell’esperienza che egli riconosceva alla sua sensibilità letteraria si riflette e corrisponde a quella necessità di cogliere l’evento, di porre  “una distanza in rapporto al presente”[6] per il tramite della rappresentazione fotografica che è – a  mio parere – il fondamento dell’estrema libertà e forza delle sue immagini, di quelle istantanee in cui lui stesso scopriva analogie non tanto con la più avanzata cultura visiva coeva, a lui ben nota per le costanti e qualificate frequentazioni parigine,  quanto con la sincerità e la verità delle rappresentazioni delle “peintures primitives “: quella “affettuosa, profumata castità di visione”[7] che caratterizza il suo uso dell’apparecchio fotografico e che trasmette senza sforzo apparente sottili elementi di lettura e giudizio, a volte affidati a notazioni quasi marginali, in altre ottenuti con un’orchestrazione bidimensionale degli elementi costitutivi che anticipa gli esiti più formalmente connotati della fotografia diretta (le bellissime Pecore al pascolo, 1890ca, col frontale della staccionata e gli animali disposti otticamente lungo le traverse come su un pentagramma costruttivista), ma sempre orchestrati per serie fotografiche raccolte su grandi cartoni in cui la singola immagine, per quanto accattivante non è che un elemento necessario del quadro complessivo.

Quello di Primoli è sovente paesaggio con figure, in cui i due elementi si compenetrano e giustificano a vicenda: il paesaggio è il luogo di quella figura, di quel tipo (mai un ritratto, ovvio), è il contesto necessario in cui collocare  lo svolgimento di un’azione che sensibilmente slitta dalla scena (Carro coi buoi ai Prati di Castello;  Buttero che sorveglia contadine che zappano, 1891ca; Contadina ad Ariccia, 1895ca) ancora ricca di debiti pittorici, alla rapidità dell’istantanea che blocca il gesto del Toro preso al laccio, 1890ca.

Nella sua intenzione descrittiva il mondo popolare  è lavoro e vita quotidiana, accettazione senza vagheggiamenti dello stato delle cose;  Primoli non sottostà alle mitologie dell’amico Michetti né al verismo verghiano[8], fenomeni che vanno invece inscritti – come il coevo richiamo classicista di Von Gloeden – in quella “attenzione nei confronti della cultura folklorica” – di cui ha parlato Luigi Lombardi Satriani – che “costituisce un tratto molto diffuso nella temperie culturale di quegli anni. La cultura italiana si avverte sempre più attratta da un altrove i cui tratti caratterizzanti delimitano variamente una topografia dell’immaginario”[9] identificato sempre come “spazio per l’idoleggiamento della semplicità”, che muovendo dalle prime reinvenzioni medievaleggianti si spinge poi verso l’oriente esotico o il mondo popolare extraurbano (a quello urbano pensava Bava Beccaris).

Nella rete di relazioni che lega, non solo personalmente, Primoli, Verga, Michetti e Von Gloeden le posizioni si fanno però distinte in rapporto al ruolo delle immagini e più specificamente all’uso della fotografia. Per Michetti[10] esso è – come noto – strutturale, inserendosi dapprima nel contesto più ampio delle diverse declinazioni del realismo e delle questioni connesse all’uso anche strumentale della documentazione fotografica, pur senza dimenticare la lezione di Luigi Capuana, per il quale  “l’artista non fotografa, neppure quand’egli stesso crede soltanto di fotografare”[11]. Si ripropone in questa lucida precisazione la questione del rapporto tra documentazione e interpretazione, chiave di volta non solo del dibattito in corso sul riconoscimento della possibile artisticità della fotografia, ma anche e più in particolare dei rapporti tra questa e la cultura verista, e ancora – in termini generali – del possibile esaurirsi della funzione artistica a favore della presunta oggettività della conoscenza scientifica, con l’apparecchio fotografico destinato a rappresentarne contemporaneamente il simbolo e lo strumento di attuazione. Anche il rapporto figura/sfondo che attira la critica letteraria verghiana e che viene riconosciuto come caratteristico della pittura ‘bidimensionale’ di Michetti, è anche un tema specificamente fotografico. Dopo la fatidica data del 1900 si assiste in Michetti al passaggio dalla fotografia come studio e repertorio al riconoscimento del valore della sua autonomia espressiva, in un ribaltamento delle gerarchie artistiche tradizionali che ha portato molti critici, specialmente nella prima metà del Novecento, a identificare negativamente questo passaggio come “crisi”, mentre sarà più corretto riconoscerlo come “scarto” e collocarlo in un pensiero segnato dal positivismo e dalla fascinazione per l’industrialesimo, dove l’urgenza del fare[12] che sempre lo aveva caratterizzato si traduce ora nel ricorso prevalente alla nuova tecnica, nella velocità di realizzazione come nell’accrescimento esponenziale delle immagini, fatte a macchina, per una produzione che si potrebbe definire potenzialmente seriale e quasi “a catalogo”[13]. Se solo portiamo alle conseguenze ultime l’interpretazione e il senso di quel suo sistema di codici e rimandi che legava fotografie e bozzetti, vediamo come l’operare dell’ultimo Michetti prefiguri questioni centrali dell’estetica e della produzione artistica del secolo che si apriva.

A questa trasformazione produttiva corrisponde all’abbandono dei temi demologici, la perdita di interesse per i contenuti narrativi a favore dell’indagine compositiva e formale, coloristica anche (mediante l’uso delle autocromie), mentre emergere il paesaggio come tema autonomo, indagato nelle sue componenti strutturali e minute, per orizzonti chiusi, “quasi che l’occhio meccanico michettiano si affidi al tatto, divenga – come ha riconosciuto Renato Barilli – lo strumento delegato a realizzare un corpo a corpo.”[14]

Al “grande artista che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natia” aveva guardato esplicitamente nei primi anni della sua attività anche Wilhelm von Gloeden, che proprio da Michetti aveva ricevuto vividi apprezzamenti per i suoi “primi modesti lavori fotografici”[15]. Sono gli anni intorno al 1880,  quando il fascino delle “classiche contrade della Sicilia” lo spinge a “rivivere fra i pastori arcadici e Polifemo”, a costruire una sua propria mitologia, per molti versi derivata e parallela a quella del pittore abruzzese, nella quale  evocazioni simboliste e cultura omosessuale si intrecciano indissolubilmente con le suggestioni più diverse, da Mariano Fortuny a Lawrence Alma Tadema, per mettere in scena un’ arcadia classicheggiante  che presenta analogie con i tableaux vivants cristologici di un autore coevo come Fred Hollad Day[16], ma che si rivela anche piena e ricca di elementi di acuta comprensione demologica[17]. Ciò che qui interessa sottolineare è che questo bagaglio di rimandi e suggestioni, questa “congerie di istanze culturali, umane ed estetiche”[18] non sia mai intesa da Von Gloeden come soluzione puramente stilistica, orientata alla conquista di un presunto valore “artistico” per le proprie immagini: suo scopo è di “far rivivere nell’opera fotografica i sentimenti che [l’autore] provò davanti alla natura”, senza fare ricorso “a esagerazioni che non possono essere approvate [quali] i formati giapponesi più strani, l’imitazione di pitture antiche o moderne, gli ingrandimenti confusi ricavati da piccole negative, la grana eccessiva e numerosi altri artifici cui oggi in fotografia si ricorre”[19], perché – dice Von Gloeden – “io non ho mai creduto necessario che la fotografia per elevarsi debba rinnegare la sua origine.” Insomma un rifiuto netto e circostanziato degli espedienti e dell’estetica pittorialista, e una presa di posizione che ci consente di non incorrere in equivoci in merito alle intenzioni se non agli esiti della sua poetica: nel rifiuto di ogni imitazione, dallo sforzo  di far “rivivere e sognare la Sicilia pastorale” (Anatole France[20]) prende forma quella sua aspirazione all’atemporalità del classicismo che è costretta a misurarsi con la temporalità ineluttabile della fotografia.  Da qui nascono queste immagini di un “genere spietato”, in cui “tutto lo sfumato sublime della leggenda entra in collisione (…) con il realismo della fotografia”[21], producendo un corto circuito in cui Von Gloeden riconosce la derivazione genealogica, l’identità letterale (e non letteraria) tra le figure modellate dalla mitologia  e l’umanità terragna dei giovani contadini taorminesi. In questa tensione trova la propria collocazione necessaria il paesaggio, sia – più raramente – come presenza autonoma sia nella sua funzione di elemento di definizione della figura, intriso degli stessi valori delle figure che lo animano: quasi fondale oleografico nelle immagini dedicate ai pescatori (debitrici dei “tipi” della fotografia ottocentesca, da Bernoud a Sommer) o luogo della quotidianità come della drammaticità della cronaca (terremoto di Messina e Reggio, del 1908) diviene, nella sua produzione più nota, sostanza e scena della celebrazione della mediterraneità primigenia, vista con gli occhi di un artista che si autorappresentava pensando a Dürer.

Ragioni affatto diverse portano al confronto col paesaggio un autore coevo come Francesco Negri, e più tardi Giuseppe Gallino, qui considerato quale rappresentante particolarmente significativo della selezionata pattuglia di fotografi che subisce il fascino delle autocromie Lumière. Non che Negri non lo avesse mai affrontato prima di quel 1901 in cui si misura con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedono principalmente nei vincoli imposti dal procedimento; si direbbe anzi che da questi possa essere derivata non solo la scelta del tema ma anche del luogo: ritorna infatti a indagare quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della sua città (Casale Monferrato) e che tante volte ha già descritto e studiato, nello sforzo tutto positivo di annodare le fila di tutte le trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[22]. Ora  la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile è il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Lippman, 1908). L’assunzione del tema non ha in queste prove di Negri nulla di ideologico:  il soggetto è imposto, quasi  ineluttabile nel momento in cui ci si voglia misurare col colore (insieme, non a caso, alla natura morta). Certo, stabilito questo, nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine influiscono e rientrano suggestioni e stimoli visivi e culturali precisi, sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali. Ciò che più attira e colpisce l’attenzione dei contemporanei è però la novità dell’applicazione, il passaggio dalla sperimentazione di laboratorio al plen-air, quel suo essere “il primo credo, [che] dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto (…) sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori[23], come sottolinea Masoero nel presentare le tricromie di Negri in mostra all’Esposizione torinese del 1902, avvio di una pratica che solo negli ultimi decenni del Novecento avrà il sopravvento.

Tanto il metodo interferenziale di Lippmann costituiva – nelle sottili parole dei Lumière – “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce” priva però di qualsiasi utilità pratica, tanto la nuova tecnica dell’autocromia da loro messa a punto nel 1904 e commercializzata tre anni dopo forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi, specialmente in area piemontese (Masoero, Pia, Tournon, Vercellone, solo per citarne alcuni) non solo per il fascino divisionista della grana colorata di queste immagini (certo prossimo a Pellizza, a Morbelli), ma anche e soprattutto per le possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi un tema con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento.

Mentre il trattamento del paesaggio che si afferma prepotentemente negli anni della “Fotografia Artistica” predilige i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entra in gioco la luce, meglio ancora la luminosità che poteva essere restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per proiezione delle autocromie. Mostrano bene questa attenzione inedita per le modulazioni cromatiche, slegate quasi da ogni vincolo narrativo e per questo lontane da quella “sentimentalità di un colorismo kitsch” che tanto preoccupava Lazlo Moholy-Nagy[24], i paesaggi alpini di Giuseppe Gallino,  esponente poco noto[25] di quella diffusa cultura piemontese che coniugava passione per la montagna e fotografia. Disegnatore, pergamenista e miniaturista, Gallino mostra nelle sue immagini di essere perfettamente aggiornato sulla pittura piemontese coeva, da Giuseppe Bozzalla (Il torrente d’inverno, 1910,  GAMTO) a Cesare Maggi, di poco più giovane, e ai suoi paesaggi innevati della metà degli anni Venti che vivono delle stesse suggestioni delle autocromie, mentre le luci calde a cui ricorre in altre riprese rimandano alle stagioni immediatamente precedenti. Nelle sue opere un solo tono satura l’immagine: solo bianchi invernali, le infinite gradazioni verdi o rossastre dei boschi nelle diverse stagioni. Solo raramente si preoccupa di articolare lo spazio per piani, di costruire una profondità che richiami l’idea di paesaggio come panorama, per restituire invece un effetto di superficie coloristica, non di rado racchiusa in un profilo centinato che riprende i modi della messa in cornice pittorica, ampiamente utilizzati anche da altri autori (si pensi a Cesare Schiaparelli o ad Andrea Tarchetti) fedeli ai modelli autorevoli proposti  sulle pagine de “La Fotografia Artistica”.

Non ha qui senso ripercorrere le ragioni e i termini del pittorialismo in tutte le sue differenti declinazioni; basti richiamarne l’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo segna a  livello internazionale e di cui costituiscono indizio rivelatore non solo elementi apparentemente secondari come il profilo di una cornice,  ma anche e specialmente il manipolare le apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.  È in questo contesto che nel secondo decennio del secolo si genera quello scarto drammatico tra la cultura fotografica di riviste e salon e lo scenario politico e civile che procederà in Italia, pur con ragioni successivamente diverse quasi sino agli anni del secondo dopoguerra.

Mentre si moltiplicano le scene arcadiche e crepuscolari guerra e fotografia si alleano per  offrire alla vista immagini sconosciute del mondo: non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si amplia e si ridefinisce la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente”[26], ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affianca e si sostituisce in parte una visione verticale e planimetrica; l’immagine fotografica si approssima all’astrazione cartografica conservando però intero il proprio carico di referenzialità[27]. Per questa sola ragione la ripresa aerea contribuisce a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[28], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. Picasso è di questo secolo. Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.”[29] Lo statuto di queste fotografie è, ancora una volta, ambiguo e ciò determina conseguenze importanti sul loro impatto estetico[30]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[31], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[32], ma la precisa formalizzazione ottico geometrica della rappresentazione ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica. Negando ogni confronto e il conforto che nasce dall’esperienza comune e diretta, questo terribile Paesaggio di rumori di guerra che  Depero descrive nel 1915 (oggi al Mart di Rovereto)  si trasforma in figura astratta e impone suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico degli anni successivi al primo conflitto mondiale.é appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree in due architetti fotografi come Pagano e Carlo Mollino, mentre Moholy-Nagy ricorre alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[33], e Antonio  Boggeri  nel 1929 annovera tra le possibilità di costruire una nuova visione “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[34].

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, apparve – come noto – sulle pagine dell’annuario Luci ed Ombre, testimonianza della volontà di apertura del gruppo redazionale, di stretta formazione pittorialista, e ulteriore conferma della contraddittoria vitalità di quel “laboratorio” torinese che si avviava a perdere il proprio primato: luogo di una cultura fotografica sempre più autoriferita e sterile, che si sclerotizza nella sua settorialità mentre la ben più viva realtà milanese si apre ai confronti con discipline diverse, dall’architettura alla pubblicità, e per questi tramiti si misura con gli esempi più alti della cultura visiva e fotografica internazionale.

Anche un autore di grande prestigio internazionale e di solida formazione analitica e positiva come Vittorio Sella si misura con le suggestioni tardopittorialiste durante il viaggio in Algeria e Marocco fatto nel 1925: ne ricava stampe morbide, di medio formato e virate in tono caldo, le sole ad essere ospitate sulle pagine del “Corriere Fotografico” e poi di Luci ed Ombre[35] e le ultime sue ad essere note al pubblico, prima del suo definitivo allontanamento dalla pratica professionale[36]. Sono immagini che vanno considerate quale avvio di una più ampia fase, che comprende anche la  ristampa di negativi realizzati alcuni decenni prima e ora trattati con viraggi semplici (blu, rossastri) o a doppio tono, sino alle colorazioni parziali e alle sbianche utilizzate nelle stampe realizzate per conto di altri autori quali Mario Piacenza e i fratelli Gugliermina, in cui risulta evidentissimo l’interesse per la pittoricità del gesto e dell’esito, lontani da ogni intenzione di verosimiglianza, poiché non era certo un maggiore effetto di realtà che interessava Sella in quegli anni, come dimostra indirettamente il fatto che non abbia mai realizzato (per quanto sinora noto) fotografie a colori. Questi ricordi di un viaggio finalmente familiare, sempre in bilico tra ricordo e autonoma ragione espressiva  più che un’anomalia nel percorso dell’autore devono essere considerati l’avvio di un riemergere di quella passione pittorica che aveva toccato il giovane Sella, ora pienamente accettata e accettabile, compresa e coerente com’era al gusto medio della fotografia italiana tra le due guerre, illustrato dall’importante serie di mostre che si susseguono in Italia a partire dal 1923 (Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia a Torino, a cui partecipano anche Drtikol e Rodcenko, sostanzialmente ignorato) e poi ancora a Monza nel 1927, mostra che doveva “rappresentare il contributo italiano alla Pictorial Photography”[37], mentre a Stoccarda – solo due anni dopo si sarebbe aperta Film und Foto,  la grande esposizione che segnava la maturità espressiva delle avanguardie fotografiche internazionali.

Il distacco dalle contingenze del reale non rappresenta, per molti degli autori di questo periodo, solo una sommaria adesione al neoidealismo, in un intreccio di ragioni che coniuga la reazione al materialismo ottocentesco con l’aspirazione all’arte fotografica (pur messa in dubbio da Benedetto Croce): i riferimenti ideali e astorici, il ripiegamento sui valori intimisti delle piccole cose, costituiscono un contraltare alla dura realtà politica e civile del paese e alla retorica roboante del regime; anche così si  giustifica in parte la produzione di quegli anni, il rifiuto generalizzato per quanto non esclusivo delle suggestioni provenienti dalle ricerche internazionali.

“A Sandro G.G. [Galante Garrone], per ricordargli, di fronte al brutto passeggero, il bello eterno”[38] recita il testo di una dedica (datata 1934) di Domenico Riccardo Peretti Griva,  uno degli autori più rappresentativi di questa stagione e membro autorevole di numerosissime giurie fotografiche in cui si celebrano “i candori squisiti di «purezze alpine» (…) il misticismo delle buone donnette del villaggio che, nella tregua della dura fatica dei campi, vanno alla bianca chiesetta, bianche esse pure nel sole che inonda le vicine messi.” [39] , mostrando come fosse possibile e quasi  naturale coniugare retorica passatista e fascinazione per il modernismo del tono alto delle immagini. Come ha rilevato Marina Miraglia[40], in quelle occasioni Peretti Griva elabora il concetto, poi ripreso da Mollino alla fine del decennio successivo, del prevalere dell’efficacia comunicativa sulla modalità di realizzazione, sullo stile: “io non vado cercando nei lavori fotografici il mezzo usato per ottenere l’effetto (…) io non faccio differenza fra ottocentisti e novecentisti, fra romantici e realisti”[41] afferma Peretti Griva,  che ancora anni dopo dirà “io non intendo sollevare discussioni sulla tecnica fotografica, né, tanto meno, ho la pretesa di sostenere la superiorità del procedimento (bromolio-trasferto), che io soglio praticare, su quello comune al bromuro.”[42] Sarà questa onestà di intenti, l’apertura critica mostrata e per certi versi palesemente contraddetta dalle sue scelte stilistiche, a giustificare la sua presenza a chiudere, con Sole nel cortile, l’Annuario di Domus del 1943, dopo una tesissima e ampia sequenza ultramodernista (pp.188-203); presenza che segna le incertezze e contraddizioni dell’intera operazione[43], ma certo non inserita “quasi per una svista”[44] se lo stesso Mollino riconosceva in lui pochi anni dopo un “artista tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico-pittorica  giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”[45]

In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  Peretti Griva è il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”, cui anzi sembrano indirizzati implicitamente gli strali più polemici di Scopinich[46]. Risulta quindi assente su quelle pagine anche un autore internazionalmente noto[47] come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto sia rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Aldo (p.80) ed Enrico Pedrotti (p.56)[48], che nei ritratti anticipa Vender. Giulio era stato tra i primi ad adottare coerentemente e sistematicamente questa soluzione stilistica, a partire almeno dalla seconda metà degli anni Venti: “abbacinati paesaggi di neve”[49] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, è confermata anche da certi titoli suoi (Armonie invernali, 1925; Trasparenze, ante 1932) e di altri autori[50] a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)  e Stefano Bricarelli (Tracce, 1932). Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata di una artisticità dell’immagine rappresentano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese. L’eliminazione del volume prospettico in favore della risoluzione e dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto portano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni luminose, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare ancora Moholy-Nagy, che utilizza sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck e Hannes Schneider[51] e i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” pubblica nel 1931.

Tra misticismi, purezze alpine e mondi di poesia la fotografia artistica si prodiga di fatto per ottenere quell’occultamento sistematico del reale cui tendeva, pur con intenti e strumenti opposti anche quella più propriamente di regime e di propaganda; “grande e infamante occasione”  per la fotografia italiana l’ha definita Giulio Bollati, chiamata e votata a “documentare l’inesistente” in un senso certamente meno poetico di quanto avesse potuto intendere Emanuele Sella nel 1922[52].

È quello che è stato definito “periodo d’oro dell’arcadia fotografica”[53], ma la prospettiva troppo prossima da cui tale giudizio era stato formulato oggi va in parte rivista, riconoscendo una varietà di posizioni e di effetti, una complessità di situazioni che trova il proprio interesse proprio nella ricchezza della sua articolazione.

Così, per rimanere ancora a Torino, accanto a Peretti Griva e Giulio si muove in un isolamento quasi assoluto e caparbio, forse imposto, Mario Gabinio che all’avvio degli anni Trenta impone uno scarto radicale e stupefacente al proprio guardare, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista. Superate le indagini sistematiche sul patrimonio architettonico aulico e sulle strade della città quadrata, Gabinio si dedica alla ricognizione, non senza intenti celebrativi, degli “elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne”, secondo la definizione del pittore Fillia[54].  Sono i lavori per il primo tratto di Via Roma (1931-1933) ad attirare la sua attenzione, intento ad indagare gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”, per riprendere le parole che  Benjamin dedica nello stesso 1931 alla Parigi di Atget[55]; è la costruzione dello stadio, sono le dotazioni infrastrutturali che ridisegnano lo spazio delle periferie, affrontate circa negli stessi anni con declinazioni diverse anche da Stefani e da Pagano. È lo scenario della città nuova, che conquista alla propria vita il tempo modernista della notte, attraversata a Parigi da Brassai e Kertesz, con i selciati bagnati di pioggia che avevano affascinato Stieglitz ormai più di tre decenni prima, e che ora costituiscono per Gabinio l’occasione estrema per confrontare il proprio racconto fotografico la “nuova cultura della luce”.

La cultura fotografica che qui emerge non è di certo quella dei Salon o degli annuari, piuttosto quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che nel maggio del 1932 ospita l’importante Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, che riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.[56]

I fermenti e le contraddizioni di questa stagione della fotografia italiana si traducono in sincretismo nelle prime produzioni di Bruno Stefani, attivo dalla seconda metà degli anni Venti, che oscilla tra una visione ancora tardo pittorialista della periferia milanese (Effetto di nebbia/ Riflessi Parco Lambro, 1930) e la dolorosa tensione grafica di Alta tensione, una cui versione più edulcorata sarà pubblicata in Luci e Ombre del 1932 (tav.10). è questo il periodo in cui, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella definizione dell’immagine della Montecatini, avvia la collaborazione con il TCI per la collana “Attraverso l’Italia” di cui Stefani fornirà la parte anche quantitativamente più rilevante dell’apparato iconografico, contribuendo a definire l’immagine del Bel Paese nella prima metà del Novecento, aggiornando e sostituendo in parte i modelli Alinari, ma contribuendo a sua volta a definire nuovi stereotipi narrativi, costruiti per reiterazioni di schemi compositivi in un contesto in cui “la committenza e la destinazione di queste fotografie diventano un motivo unificante al di là della dislocazione geografica.”[57] Sono immagini in cui una cultura fotografica ampia e aggiornata è di volta in volta posta al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del tema affrontato, accogliendo via via le suggestioni astrattiste di Giulio e i grafismi di gusto Bauhaus come le forme più mature del pittoricismo, aggiornato dall’uso del colore, portate a volte a convivere nella stessa immagine. Dall’enorme quantità di immagini prodotte e raccolte per la realizzazione della collana viene ricavato nel 1956 “un estratto quintessenziale di quell’immenso patrimonio di bellezza” come lo definì Cesare Chiodi, presidente del TCI, un’antologia dell’Italia in 300 immagini che costituirà per la generazione attiva dagli anni Settanta “un modello sbagliato [ma] che aveva una sua compattezza, era nell’insieme interessante, era – nel giudizio di Ghirri – un libro di immagini «basse», volutamente «basse». Il modello era sbagliato perché era la riconferma dello stereotipo ma, d’altra parte, per quel periodo (…) era il massimo che si poteva fare.”[58]

Sul fronte meno immediatamente legato alla pratica professionale la situazione si presenta diversa: già Turroni aveva notato come “la fotografia italiana degli anni 1930-40 è nelle mani degli architetti e dei futuri registi di cinema, oltre che dei professionisti di studio. Gli architetti di Milano sono raccolti intorno alla rivista Domus (…) Non si può tracciare un panorama dell’estetica fotografica di ieri e di oggi senza tener conto di Fotografia della Domus”[59] , diretta da Ponti, ma certo vanno ricordati anche gli interventi e il ruolo centrale di Edoardo Persico in “La Casa Bella” (con la direzione di Giuseppe Pagano dal 1933), così come il ruolo svolto da un altro periodico non settoriale come “Natura”, su cui pubblicano Pagano e Stefani, che nel 1930 bandisce un concorso “onde stimolare anche in Italia la produzione di fotografie artistiche con novità di soggetti a carattere essenzialmente moderno.”[60] Attorno a queste riviste milanesi si concentra la più avanzata ricerca fotografica italiana, vivificata dalle relazioni strette con la migliore cultura architettonica e grafica del momento, in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppa oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale, nel 1932.

Nell’ambito della Mostra internazionale di Architettura della Triennale di Milano (maggio-ottobre 1936) si tiene la  Mostra di architettura rurale, risultato di un’indagine “intrapresa con lo scopo di dimostrare il valore estetico della sua funzionalità[61] che costituisce l’occasione per Giuseppe Pagano di avvicinarsi alla pratica fotografica. Obiettivo dell’indagine condotta con Guarniero Daniel è “la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale sana ed onesta, [che] ci preserverà forse dalle ricadute accademiche, ci immunizzerà contro la rettorica ampollosa e sopratutto ci darà l’orgoglio di conoscere la vera tradizione autoctona dell’architettura italiana: chiara, logica, lineare, moralmente ed anche formalmente vicinissima al gusto contemporaneo.”

Questa lucida analisi di matrice funzionale, razionalista coniugata con suggestioni diverse, presenta significative analogie con quanto si andava elaborando – pur ad un livello più schematico – in contesti prossimi quali la pubblicistica fotografica; basti il confronto con l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, che definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, mentre Luigi Andreis poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale”, rivelando infine la comune matrice nazional-popolare sottesa, che si traduce in richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926. Una comprensione strutturalmente lontana da quella prestata negli anni Venti ai temi e ai nessi della cultura popolare italiana da geolinguisti ed etnografi come Ugo Pellis o Paul Scheuermeir[62], sebbene anche Pagano avesse consapevolezza della necessità di riconoscere e considerare le relazioni tra condizioni socioeconomiche, contesto ambientale e forme architettoniche.[63]

La sua ricerca fotografica prosegue per poco meno di un decennio, sino alla prematura morte nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1945 (dove muore anche Gian Luigi Banfi), articolata per temi, perfettamente scanditi e riflessi nell’organizzazione del suo archivio, in cui il paesaggio nelle sue diverse declinazioni e componenti, anche geografiche, assume un ruolo rilevante. Sono immagini in cui i canoni della composizione modernista, la geometrizzazione spinta ai limiti dell’astrazione  sono sempre intesi e coerentemente utilizzati quale strumento di comprensione analitica del reale, destinati  ad assumere “il valore di uno stile. Stile fatto di rapporti di chiaroscuro, di cadenze prestabilite, di assoluta dedizione all’irreale realtà della fotografia, e soprattutto tecnica di una nuova notazione pittorica: nitida, acuta, inesorabilmente obbiettiva e pur tanto poetica nella sua meccanica semplicità.”[64]

La rilevanza del ruolo svolto dalla cultura architettonica di area milanese nella definizione del carattere della fotografia italiana che si era avviato sin dai primi anni Trenta si conferma e si consolida nel decennio successivo, in un intrecciarsi di relazioni personali che resistono alle differenze ideologiche: la pratica fotografica e la passione per il cinema univano Pagano a Luigi Comencini, tra i primi commentatori delle sue fotografie, ma anche con i più giovani Enrico Peressutti e Gian Luigi Banfi (entrambi membri dello studio BBPR e redattori di “Quadrante”), Pier Maria Pasinetti  e Alberto Lattuada, che nel 1940 aveva pubblicato su “Corrente” una recensione di American Photographs, 1938, di Walker Evans[65].  Li unisce, in un momento di profondo e drammatico ripensamento ideologico, una concezione realista dello spazio esistenziale in cui – per dirla con Lattuada – è “sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove son rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma è quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni.”[66] 

Bel pensiero con echi pavesiani  che Pagano può condividere, ma di cui si faticherà a trovare traccia nella successiva rilevante occasione di affermazione e bilancio della fotografia italiana: l’annuario che E. F. Scopinich cura nel 1943[67] ancora per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner. Fotografia esce a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresenta la sintesi compiuta del dibattito e della svolta modernista, timidamente avviati dal “Corriere Fotografico”, poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Ponti,  Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi. La qualità della riflessione qui si fa però più incerta, sin dalle prime valutazioni iniziali sullo stato della fotografia italiana, considerata “giovane” da Scopinich e invece matura, tecnicamente e artisticamente da Mazzocchi. La logica del progetto segna poi un sostanziale ripiegamento, tutta rivolta com’è al chiuso mondo del puro esercizio fotografico, alla sin troppo ovvia messa in discussione di quelle “tre  generazioni di fotografi [che] hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo (…) senza preoccuparsi del mondo, della vita (…) della rivoluzione prima e dell’evoluzione poi, dei valori etici e morali della nostra cultura”[68], con un richiamo ormai politicamente fuori tempo massimo, nel 1943.

Come era già accaduto al tempo del primo conflitto mondiale sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, anche le pagine di questo annuario non ci dicono quasi nulla di ciò che stava accadendo in Italia e nel mondo; solo alcune riprese dell’Istituto LUCE richiamano la drammaticità del momento, mentre Scopinich si prodiga a giustificare un poco maldestramente l’incerta poetica delle scelte.[69] Ritroviamo in quelle pagine molti degli autori da noi considerati: da Pagano a Peressutti[70], da  Peretti Griva a Stefani e Federico Vender, che tra le altre pubblica una Natura morta a colori che risulta essere la versione un poco maldestra de La fourchette di Kertesz, del 1928. Vender[71] rappresenta in quegli anni un’altra delle figure di rilievo dell’ambiente fotografico milanese, contiguo ma non coincidente con le posizioni espresse dal gruppo che ruotava intorno all’Editoriale Domus.  Uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano, ben noto anche a livello internazionale almeno dal 1934, anche lui vicino alla cultura architettonica razionalista per il tramite del fratello[72] e direttore dal 1939 di quel Circolo Fotografico Milanese cui apparteneva anche Stefani, Vender risulta lontano dal realismo che affascinava Lattuada e Pagano, orientato semmai ad una trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, scelta che si traduce stilisticamente nel ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui caricato consapevolmente di senso, espressione di quella “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[73] che costituirà il presupposto e il credo estetico del gruppo de “La Bussola”. Le immagini realizzate da Vender consentono però letture più articolate e complesse, mutevoli, in cui suggestioni materiche si alternano e a volte si affiancano ad altre di pura evocazione poetica, mentre cresce con gli anni, accanto al grande interesse per il ritratto femminile, una vocazione sempre più marcata per la geometrizzazione del paesaggio, che origina e si misura dapprima con la lettura evocativa delle architetture razionaliste ma si amplia poi e si estende alle occasioni più varie, non tanto per sottoporre il mondo ad una rigida griglia interpretativa, totalizzante quanto piuttosto e più pianamente alla ricerca di occasioni e pretesti: lo scopo non è di formulare giudizi quanto di ricavare pretesti, fedele “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[74]

 

Note

[1] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. La rivista, indicata come milanese in Italo Zannier, Leggere la fotografia: Le riviste specializzate in Italia (1863-1990), con la collaborazione di Maria Beltramini. Firenze: La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 250, diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, aveva invece sede a Torino, in via Cernaia 18 ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Nel 1923 la sua gestione viene affidata a una società appositamente fondata che ne stabilisce la nuova sede in via Accademia Albertina, 1 e ne affida la direzione dal n.1 del 1925 ad Annibale Cominetti, che quindi riassume il ruolo di direttore di un periodico fotografico dopo l’importante esperienza del “La Fotografia Artistica”, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Non esistono per ora elementi certi che possano consentire di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, cfr. il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre,  cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”.

[2] George Gissing, 1888, citato in Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000, p. 18.

[3] L’efficace definizione è stata formulata da Leonardo Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità ad oggi, in Cesare de Seta, a cura di, Il paesaggio, “Storia d’Italia – Annali”,  5. Torino: Einaudi, 1982, pp. 369-428 (389)  per descrivere il senso della rappresentazione che Gustav Klimt offrì del teatro di Taormina, realizzata per il Burghtheater di Vienna nel 1886-1888, negli anni di Von Gloeden.

[4] Gustavo Strafforello, La Patria: geografia dell’Italia. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1890 –1900. è indizio chiaro del formarsi di una nuova, più ‘moderna’ gerarchia di valori che nell’elencazione delle tipologie di beni compresa nel frontespizio dell’opera i “monumenti” siano posti a chiudere l’elenco, dopo “fiumi, canali, strade, ponti, strade ferrate, porti”.

A testimoniare su di un fronte solo parzialmente diverso l’interesse per una conoscenza non superficiale della nazione ricordiamo la fondazione nel 1894 del TCCI Touring Club Ciclistico Italiano, TCI dal 1900. Per quanto riguarda la funzione di strumento non indifferente di conoscenza del territorio italiano  è opinione comune che le guide TCI abbiano svolto la stessa funzione della produzione Alinari, di cui del resto facevano ampio uso.

[5] Lamberto Vitali, Un fotografo fin de siècle: Il conte Primoli, Torino: Giulio Einaudi Editore, 1968 (nuova ed. riveduta e aumentata 1981, p. 14).

[6]  Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-544  (490-91).

[7] Lamberto Vitali in “Emporium”, citato da Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956, p. 17.

[8] Le implicazioni connesse allo scambio di fotografie tra Primoli e Verga, documentato da una lettera citata da Silvio Negro e pubblicata da Marcello Spaziani, sono discusse in Alberto Abruzzese, Carlo Grassi, La fotografia. In Alberto Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana: Storia e geografia, 3: L’età contemporanea. Torino: Einaudi, 1989, pp.1177-1222 (1193).

[9] Luigi M. Lombardi Satriani, La realtà e gli sguardi, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti: tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia, 6 marzo-1 maggio 1999; Francavilla al Mare, Museo Michetti, 25 maggio-30 agosto 1999), a cura di Claudio Strinati. Napoli: Electa, 1999, pp. 65-71.

[10] Dopo le prime segnalazioni di Carlo Bertelli, Le fotografie di F. P. Michetti, “Musei e Gallerie d’Italia”, 1968, n. 36, settembre-dicembre, pp. 22-29,  l’approfondimento analitico della sua attività lo si deve – come è noto – a Marina Miraglia, a partire dalla monografia del 1975 (Marina Miraglia, Francesco Paolo Michetti fotografo. Torino: Einaudi, 1975) sino al più recente contributo alla mostra promossa nel 1999 dalla Fondazione Michetti (Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti: Il cenacolo delle arti, op. cit., pp. 13-64).

[11] Luigi Capuana, Spiritismo?.  Catania: N. Giannotta, 1884, pp.221-222, citato in Abruzzese, Grassi, op. cit., p. 1193.

[12] “Egli era impaziente al sommo. Trovato un mezzo più rapido di resa, si elevava di un grado. Sicché se avesse potuto fare in un attimo un quadro, l’avrebbe fatto in maniera eccellente.”, Eugenio Jacobitti, Francesco Paolo Michetti.  Firenze: Seeber, 1933 cit.  da Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.14. Notazione certo molto interessante, che colloca l’atteggiamento del pittore all’interno dei modelli interpretativi canonici (Gisèle Freund, ad esempio) ma anche in una tradizione di ‘urgenza’ di produzione di immagini di perfezione naturale che origina dal sogno di Giphantie. Bisognerebbe però riflettere che se la fotografia consente di “fare” il quadro in un attimo, implica però un “vedere” dilazionato nel tempo. A questa urgenza si associava l’interesse per l’osservazione e la resa del movimento, oltre alla precisa consapevolezza “circa l’autonomia del linguaggio fotografico”,  Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[13] “E ancora sessant’anni dopo [1920ca] il vecchio Michetti diceva a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla, e faceva passare un fascio di schizzi fatti a colore sul vero: «Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.” (Negro, Album Romano, op. cit., p. 16) L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.” citato in Miraglia,  Michetti tra pittura e fotografia, op. cit., p.15.

[14] L’ultimo Michetti: Pittura e Fotografia, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, 27 novembre 1993-27 febbraio 1994)  a cura di Renato Barilli. Firenze: Alinari IDEA, 1993, p. 13.

[15] Wilhelm von Gloeden in Bruno Caruso, a cura di, Ritratti di Von Gloeden con una nota autobiografica. Roma:  Edizioni dell’Elefante, 1964, p.n.n.

[16] Si veda Verna Posever Curtis, F. Holland Day: The poetry of photography,  “History of Photography”,  18 (1994), n. 4, pp. 299-321 e più in generale sulle rappresentazioni fotografiche del Cristo: Nissan N. Perez, Corpus Christi: les representations du Christ en photographie, 1855-2002.  Paris: Marval, 2002.

[17] Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Già Cesare Schiaparelli nel presentare le opere di Von Gloeden esposte a Dresda nel 1909 aveva parlato a questo proposito di capacità di esprimersi artisticamente “in modo affatto speciale ed etnologicamente personale”, C. Schiaparelli, L’arte fotografica all’Esposizione internazionale di Dresda 1909.  Torino: Stab. Tipografico G. Momo, 1910, p.46.

[18] Marina Miraglia, Wilhelm von Gloeden fra realismo e simbolismo, in Michele Falzone del Barbarò, M. Miraglia, Italo Mussa, Le fotografie di Von Gloeden.  Milano: Longanesi, 1980, pp. 7-14 (14).

[19] Wilhelm von Gloeden in Caruso 1964, op. cit., p.n.n., sottolineatura nostra. Analoghi concetti erano espressi da esponenti di primo piano della cultura fotografica italiana proprio negli anni in cui si poteva avviare il confronto con la produzione pittorialista internazionale:“L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro” affermava ad esempio Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171(165), che riparlerà di “esagerazione della ricerca” anche a proposito della sezione americana recensendo l’Esposizione di Torino del 1902: Pietro Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia di Torino. Relazione al Consiglio direttivo,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 14 (1902, pp. 465-479). Tali concetti erano in netto contrasto con quelli espressi ad esempio da Livio Castellani, secondo il quale “per essere considerata opera d’arte, una fotografia deve spogliarsi da tutto quanto palesa l’azione meccanica del mezzo adoperato.”, cit. in Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, in Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179 (97).

[20] Citato in Le fotografie di Von Gloeden 1980, op. cit. , p. 18.

[21] Roland Barthes, Wilhelm von Gloeden. Napoli:  Amelio Editore, 1978, pp.9-10.

[22] Nicola A. Falcone, Il paesaggio italico e la sua difesa: studio giuridico-estetico. Firenze: Alinari, 1914.

[23] Masoero, Esposizione internazionale di Fotografia 1902, op. cit.

[24] Lazlo Moholy-Nagy, Pittura fotografia film (1925). Torino: Einaudi, 1987, p.  33.

[25] Segnalato per la prima volta da René Willien, Valle d’Aosta in bianco (e nero): un secolo di documentazione fotografica. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1976 , è stato poi compreso nel dettagliato panorama realizzato da  Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino:  Umberto Allemandi, 1990, pp. 345-346.

[26] Diego Leoni, Patrizia Marchesoni, Achille Rastelli, a cura di, La macchina di sorveglianza: la ricognizione aerofotografia italiana e austriaca sul Trentino (1915-1918).  Trento: Museo storico in Trento, 2001, p. 8.

[27] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche il periodico “La Fotografia Artistica” riprende ( 12 (1915), n.2 febbraio , pp. 25-25; n.3  marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 30 (1913), n. 3, pp. 57-75,  nel quale si descrivono le diverse applicazioni pur senza far cenno alla guerra incombente.

[28] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri, Kodachrome: Prefazione, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole.  Torino: SEI, 1997, pp. 18-19.

[29] Gertrude Stein, Picasso, 1938, in Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918. Cambridge, Massachussetts: Harvard University Press, 1983 (trad.it. Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento.  Bologna: Il Mulino, 1988, p. 395).

[30] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso” (p.12) citato in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile : fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo storico italiano della guerra –  Osiride, 200, p. 16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[31] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, op. cit., p.  42.

[32] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicati per cura di Dante Isella, Milano: Garzanti, 1992.

[33] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.126.

[34] Antonio Boggeri, Commento, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[35] La porta del mercato di Marrakesch, “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1925, tav. IV.

[36] Lodovico Sella, Vittorio Sella: cronologia, in Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982,  pp. 29-33 (p. 33).

[37] Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999, p.  186.

[38] Alessandro Galante Garrone, Domenico Riccardo Peretti Griva,  “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 20-27, ora in Fotografia luce della modernità: Torino 1920/1950, dal pittorialismo al modernismo, catalogo della mostra (Torino, Museo dell’automobile Carlo Biscaretti di Ruffia, 10 ottobre-17 novembre 1991) a cura di Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1991, pp. 151-163.   Oltre a quelli familiari, vanno ricordati qui anche i legami di passione politica e d’amicizia che legavano i due ed entrambi a Domenico Morelli, architetto e nipote dell’omonimo pittore napoletano, presso il cui studio si ritrovavano a Torino gli uomini del Partito d’Azione negli anni della Resistenza, cfr. Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli: il pensiero disegnato: opere su carta dal fondo dell’artista presso la GAM di Torino, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, 20 dicembre 2001-3 febbraio 2002), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001, p. 61.

[39] Cit. in Marina Miraglia, a cura di, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris –  Hopefulmonster, 2001, pp. 26-27.

[40] Ibidem.

[41] Ibidem.

[42] Presentazione della sua mostra La fotografia è una cosa seria, Torino, “Piemonte artistico e culturale”, 1959.

[43] L’opera di Peretti Griva risaliva infatti addirittura al 1930, anno in cui fu esposta a Torino al “Terzo Salon italiano d’Arte fotografica internazionale” (Miraglia 2001, op. cit., p.  41, nota 50).

[44] Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Bari-Roma: Laterza, 1986, p.  291.

[45] Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [gennaio 1950], p. 32; tavv. 135-137.

[46] Ermanno Federico Scopinich, con Alfredo Ornano e Albe Steiner, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941.

[47] La sua Scia/ The Trach era stata pubblicata ad esempio in un volume importante come Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”. London: 1931, p.81.

[48]  Si veda Daniela Floris, Floriano Menapace, Fratelli Pedrotti: immagini.  s. l. : s. n.[Trento, 1981], e in particolare, per la produzione di Enrico, Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001, p.  201 in basso, che mostra stringenti analogie con Emanuel Gyger e Giulio e che risulta più difficile collocare in un contesto di secondo futurismo, come fa lo studioso, nonostante i rapporti con Depero.

[49] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia,  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[50] Ricordiamo qui che anche gli Equivalents di Stieglitz (1923) vennero dapprima presentati come Songs of the Sky e furono preceduti da Music: A Sequence of Ten Cloud Photographs (1922), cfr. The Art of photography: 1839-1989, (catalogo della mostra itinerante,  Houston, Canberra,  London 1989), a cura di Mike Weaver. London: Royal Academy of Arts, 1989, p.  206.

[51] Moholy-Nagy (1925) 1987, op. cit., p.116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione è stata la Germania; efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di,  L’Archivio fotografico del Museo nazionale della montagna.  Novara: De Agostini, 2003, pp. 100 passim.

[52] Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, , pp. 5-55 ( 53); per E. Sella cfr. nota 1.

[53] Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz, 1959, p. 12.

[54] Cit. in Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino 1920 1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976, pp. 97-151 (112).

[55] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78 (71), che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  Questa relazione è sottolineata anche nella recensione di Edoardo Persico, Camille Recht: Atget,  “La Casa Bella”, 10 (1931), n.2, febbraio, p.51: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un’«arte» della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica”. Lo stesso Persico recensirà nello stesso anno l’importante volume di Franz Roh e Jan Tschichold, Foto-Auge – 76 Fotos der Zeit. Stuttgart: Wedekind,1929, “La Casa Bella”, 10 (1931), n.5, maggio, pp.57-58. A proposito di mediazioni culturali Germania-Italia, Floriano Menapace ricorda – in  Federico Vender: Photographien-Fotografie-Photographs 1930-1955, catalogo della mostra (Bolzano, Galerie Foto-Forum, 9 dicembre 1997-24 gennaio 1998; Innsbruck, Galerie Fotoforum West, 29 gennaio-21 febbraio 1998; Trento, Palazzo Geremia, 17 aprile-14 maggio 1998) a cura di Gunther Waibl. Bolzano: Raetia 1997, p. 9-  che Vender possedeva, forse per il tramite del fratello architetto,  una copia di questo volume.

[56] Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n. 53, maggio, pp. 285-283, corsivo dell’autore. Sottolineerei l’uso dell’aggettivo “disumana” che pare evocare (o  involontariamente presupporre) il concetto di “inconscio tecnologico”  espresso da Benjamin l’anno precedente. Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, del 1931, che contiene due importanti saggi di Godfrey Hope Saxon Mills e di Cyril Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931), n.47, p.67- mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” – (1931),  n.47, novembre 1931, p.54. All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti e la cura di Guido Pellegrini.

[57] Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976, pp. 7-8.

[58] Luigi Ghirri, Viaggio dentro le parole: conversazione con A.C. Quintavalle, in Viaggio dentro un antico labirinto (1991), ora in Costantini, Chiaramonte 1997, op. cit., pp. 305-314.

[59] Turroni 1959, op. cit., pp.  9-10.

[60] Luci ed ombre: Gli annuari della Fotografia Artistica Italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Largo Fratelli Alinari, 1987-1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier, introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987,  p. 32.

[61]  Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana. Milano: Hoepli, 1936, p.  6, sottolineatura di chi scrive.

[62] Cfr. Miraglia, Note per una storia,  1981, op. cit.; Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di, Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano: Federico Motta, 1999.

[63] Per le quali considera determinante “l’influenza del paesaggio circostante”(Pagano, Daniel 1936, p. 76). Orientamenti analoghi esprimerà Giuseppe De Santis che, proseguendo i discorsi di Lattuada e Pagano, scriverà nel 1941 (“Cinema”, n.116, 25-4-1941): “Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno vive, coi quali ogni giorno comunica”, cit. in Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo 1938-1948: Dieci anni di occhio quadrato. Firenze: Alinari, 1982, p.  8. Sono questi i temi condivisi in quegli anni da molti  intellettuali italiani di fronda, poi ripresi e sviluppati nella stagione neorealista.

[64] Giuseppe  Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, dicembre 1938, pp. 401-403, ora in Giuseppe Pagano fotografo, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’arte moderna, 10 marzo-9 aprile 1979; Roma, Istituto Nazionale per la Grafica,  15 maggio-30 giugno 1979) a cura di Cesare De Seta. Milano: Electa editrice, 1979, pp. 155-156, sottolineatura di chi scrive. Già alcuni anni prima Pagano, Struttura e architettura, in Id.,  Dopo Sant’Elia. Milano:  Editoriale Domus, 1935, pp.94-120, aveva parlato di “retorica della semplicità” e questa tensione non può non richiamare la “semplificazione” di cui parlava Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italianai al «IV Salon Internazionale» di Torino,  “Il Corriere Fotografico”, 28 (1933), n.5, maggio, p.252.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”, Boggeri  1929, pp. 9-16 (14).

[65] Lattuada risentirà della lezione di Evans nella formulazione del suo Occhio Quadrato, 1941; per Ennery Taramelli  il libro di Evans, penetrato clandestinamente in Italia, provocò un “profondo choc visivo (…) nella giovane bohème raccolta a Milano”  attorno a “Domus” e “Corrente. (Ennery Taramelli, Viaggio nell’Italia del neorealismo: la fotografia tra letteratura e cinema. Torino: SEI,  1995, p. 66) Va ricordato qui che sia Lattuada che Pagano collaboravano anche col settimanale illustrato “Tempo”.

[66]  Lattuada, Prefazione, in Id.,  Occhio quadrato, 1941, ora in Berengo Gardin 1982, op. cit., p. 15.

[67] Cfr. Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in  Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. vol. 1, Fotografia e raccolte fotografiche, “Quaderni/ Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali Scuola Normale Superiore”, 8. Pisa: Scuola Superiore Normale di Pisa, 1998, pp. 99-128 ( 106-112).

[68] Scopinich 1943, op. cit., p.  7.

[69] “Nella selezione delle opere non abbiamo accettato nessun compromesso e se qualcuno troverà riprodotte nel volume delle opere in aperta contraddizione con le teorie estetiche del sottoscritto, pensi che il nostro compito ci impone di presentare anche degli esempi negativi, perché con l’accostamento grafico ed il confronto diretto si ottiene spesso di più che con un’arida discussione”, Ivi, p.  10.

[70] Un altro architetto che raccontava luoghi e “paesaggi” e tra i visitatori di Film und Foto a Stoccarda nel 1929. L’Annuario pubblica la sua bellissima Riflessi, (tav.76). Spiace di non aver potuto presentare in questa occasione le fotografie di Peressutti, autore anche di drammatiche immagini della campagna di Russia, pubblicate in Bertelli, Bollati 1979,  II, pp. 648-655, ma pare che i pochi originali ancora reperibili a quella data siano poi andati dispersi.

[71] Della nutrita bibliografia su questo autore si vedano almeno Italo Zannier, Federico Vender: Un maestro della scuola mediterranea, “Fotologia”, 7 (1990), n. 12, primavera-estate, pp. 48-59; Federico Vender: Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco, Palazzo dei Panni) a cura di Floriano Menapace, prefazione di Italo Zannier. Trento –  Arco: Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni Culturali, Ufficio Beni Storico Artistici –  Comune di Arco, Assessorato alla Cultura, 2003.

[72] Claudio Vender condivideva con Marco Asnago uno dei più interessanti studi di architettura: cfr. Cleto Zucchi, Asnago e Vender. Milano: Skira, 1999, con fotografie di Olivo Barbieri.

[73] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Italo Zannier, Susanna Weber, a cura di, Forme di luce. Il gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra.  Firenze:  Alinari, 1997.

[74]  Ibidem.

Tornare a Ranverso (2000)

in Walter Canavesio, a cura di, Jaquerio e le arti del suo tempo.  Torino:  Regione Piemonte – Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 2000, pp.  111 – 133

 

 

“Jaquerio si conosce andando  a Ranverso”, ricordava Andreina Griseri nel ricostruire le vicende della fortuna critica del pittore[1], poiché proprio in quel luogo si era compiuta la scoperta dell’autografia delle opere mentre se ne forniva per la prima volta la conferma fotografica[2];  esito piuttosto che avvio delle campagne di documentazione della produzione pittorica del tardogotico piemontese, risultato non occasionale di una collaborazione tra studiosi e fotografi che era andata maturando a partire dagli stessi giorni in cui la nuova tecnica di produzione e riproduzione d’immagini aveva fatto la sua sconvolgente comparsa sul finire del quarto decennio dell’Ottocento, quando alle prime entusiastiche previsioni avevano fatto seguito considerazioni più attente e specifiche, che affrontavano  nel merito l’effettiva possibilità (almeno tecnica) di documentare correttamente le opere d’arte ed i dipinti in particolare.

Già il “Messaggere Torinese” del 23 febbraio 1839 aveva individuato uno dei temi che saranno poi cari a molta pubblicistica ottocentesca, ipotizzando che “il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo e infedeli”[3], e ancora nell’ottobre dello stesso anno Felice Romani aveva ricordato dalle pagine della “Gazzetta Piemontese” che “già si pensa a poter  riprodurre gli oggetti non solo colle loro forme e coi loro rilievi, ma eziandio coi loro colori”[4].  Nel novembre successivo però il fisico Macedoni Melloni, presentando alla Regia Accademia delle Scienze di  Napoli la sua Relazione intorno al Dagherrotipo[5], primo esempio italiano di analisi lucida e scientificamente attrezzata del fenomeno, a fronte della speranza espressa da molti di “ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura e il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro” affermava: “Ci duole l’animo di non poter confermarli in codeste lusinghe (…) No, gli oggetti colorati non possono rappresentarsi esattamente a chiaroscuro sulle lamine del Dagherrotipo (…) Dunque la copia riprodurrà gli effetti di chiaroscuro dell’originale, in quei casi soltanto, ov’essi derivano da una tinta o colorazione, presso a poco, omogenea in ogni  punto del quadro. Stando alle cognizioni sinora acquistate, par certamente improbabilissimo che si giunga ad ottenere la stessa azion chimica dai colori superiori e inferiori dello spettro solare: tuttavia non intendiamo negare con ciò la possibilità d’imitare un giorno coi processi fotografici il chiaroscuro risultante da varie colorazioni riunite in un sol quadro; e fors’anche, gli stessi colori.” La discussione del problema, almeno in Italia  pare per lungo tempo limitarsi ai soli aspetti tecnici, tanto che  le successive messe a punto dei procedimenti all’albumina e al collodio sono considerate progressivamente risolutive e in alcune rassegne dedicate alle sue applicazioni si riconosce che “felicemente oggi la riproduzione della pittura è uno de’ migliori attributi della fotografia”[6], dimostrando non tanto una scarsa conoscenza dei processi fotografici quanto una ormai acquisita insensibilità ai problemi posti dalla trascrizione dell’opera, propria di una cultura che si avvia a dimenticare il significato di traduzione per adottare progressivamente quello di riproduzione e poi di copia, in un  processo di slittamento semantico che corrisponde ad una sostanziale perdita di comprensione critica, certo in parte dovuta alla concezione positivistica del processo fotografico quale generatore di immagini obiettive, per definizione fedeli  e in quanto tali preferibili alle modificazioni introdotte dal lavoro dell’incisore: “Les reproductions de tableaux sont devenues des notes indispensables à ceux qui collectionnent l’oeuvre d’un maître – afferma Philippe Burty nel 1861- elles traduisent mot à mot ce que le burin (…) modifie toujours”[7], mentre alcuni anni più tardi, nel 1876,  Hermann Vogel riconosce ancora il maggior valore, almeno  artistico, dell’incisione di  traduzione, poiché la fotografia è sì in grado di fornire riproduzioni fedeli delle opere d’arte ma “cette reproduction n’est pas aussi artistique que celle donnée par la gravure (…) elle suffit pour faire rapidement connaître partout ce qui est nouveau. La gravure vien ensuite et conserve sa valeur” , per proseguire quindi, in una ingenua commistione di presunta oggettività ed effettiva manipolazione dell’immagine, ricordando che “les négatifs d’apres peinture à l’huile exigent la collaboration du retoucheur chargé de répartir entre les tons photographiques les proportions faussées par l’effet inégal des couleurs. Cette retouche peut être mal faite, si elle est exécutée par une main  inexperimentée. La plus habile est celle de l’artiste qui a peint l’original. Dèjà des peintres connus se sont essayés avec succès à la retouche…”[8]. Sono le stesse difficoltà a cui aveva fatto cenno Paul Liesegang nel 1864: “Trattandosi di quadri ed in particolare di quadri ad olio, s’incontrano spesso gravi difficoltà per ottenere un complesso armonioso”[9], e ancora all’inizio del nuovo secolo Paul N. Hasluck confermava che “i quadri riprodotti con lastre ordinarie vengono da queste talmente falsati, che il risultato merita decisamente la qualifica di pessimo  [ragione per cui] vanno riprodotti con lastre ortocromatiche combinate col filtro.”[10]

Come si è detto, ancora a questa data il problema sembra essere circoscritto alle sole questioni  tecniche; non si pongono esplicitamente questioni di ordine critico, linguistico: ciò a cui si tende è lo statuto della duplicazione perfetta[11] e la migliorata resa dei valori cromatici derivante dall’aggiunta di sensibilizzatori ottici alle emulsioni porta autorevoli studiosi a sottolineare acriticamente l’enorme valore assunto dalla fotografia nello studio della storia dell’arte. Così Adolfo Venturi nella Premessa al Catalogo 1887 della casa editrice fotografica Adolphe Braun riconosce come “inventata la fotografia, la critica fece un gran passo, allora furono resi possibili i riscontri diretti tra l’una e l’altra opera di un autore, e il metodo si fece più corretto, più fino e sicuro. Mentre tutte le discipline umane delle scienze naturali imparavano il rigore del metodo, anche la storia dell’arte si rinnovò in gran parte mercè il suo nuovo strumento di osservazione”[12], dichiarando una aspirazione allo statuto scientifico della nuova disciplina che ritroviamo circa negli stessi anni anche in Bernard Berenson per il quale  “When this continous study of originals is supplemented by isochromatic photographs, such comparision attains almost the accuracy of the physical science”[13], dimostrandosi lontano da alcune isolate, autorevoli posizioni come quella di Heinrich Wölfflin, ma in perfetta sintonia con le preoccupazioni delle maggiori case fotografiche che per adeguarsi ai continui e radicali avanzamenti tecnologici erano portate a rinnovare temi e soggetti già presenti in catalogo.[14]

Ciò che affascina e interessa è insomma la pura, e presunta, capacità tecnologica di duplicazione del reale e proprio su questa si misurano le prime iniziative, anche piemontesi, legate a questo particolare campo di applicazione della fotografia che in Italia a partire dalla metà del XIX secolo poteva ormai contare su imprese fotografiche di sempre maggiore rilevanza, dagli Alinari a Sommer.

Nella nostra regione le prime realizzazioni non sporadiche datano a partire dagli anni ‘60 con l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni italiani raccolto  dal biellese Vittorio Besso a partire dal 1868, al quale si deve anche la documentazione di quei “capolavori di pittura e d’architettura che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario”[15] di cui riferisce un articolo della “Gazzetta Biellese” del 1865, ma particolarmente significativa è la comparsa delle prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese nell’Album della Promotrice di Belle Arti di Torino del 1863: sei albumine realizzate da Francesco Maria Chiapella.[16] Nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  ed alla non eccellente qualità di stampa di alcuni esemplari, questo “album con magnifiche fotografie” viene considerato una “bella novità” ripresa ancora negli anni successivi, dopo l’interruzione del 1864, affidando l’incarico ad alcuni dei più noti fotografi torinesi quali Luigi Montabone, Alberto Luigi Vialardi, Fotografia Subalpina e Cesare Bernieri, che si era già distinto nel 1866 con un album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato.[17]

La fotografia di opere d’arte quindi muove in Piemonte i suoi primi passi rivolgendosi specialmente al contemporaneo, intesa a sostituire i processi di stampa calcografica e litografica quale mezzo più rapido ed economico, piuttosto che  proporsi o essere utilizzata quale strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico artistico[18].  Perché questo percorso si compia debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze, i contatti tra cultura artistica e fotografica che prendono forma non tanto col rapporto tra Bernieri e le opere neomedievali di gusto troubadour di Massimo d’Azeglio[19] quanto con Carlo Felice Biscarra ed ancor più con Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[20] Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile le prime applicazioni – pur non sistematiche[21] – della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[22], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[23] e la cui infondatezza era stata tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel 1884, con “una ricchezza e una varietà che i sussidi grafici e fotografici non avevano ancora potuto dare e in cui erano compresi i più illustri esempi della pittura e della scultura tardomedievale piemontese, che non erano stati oggetto, ancorché di riproduzione, nemmeno di studio.”[24] Intorno  e ancor di più in conseguenza di  questa realizzazione[25] operarono sia fotografi professionisti come Vittorio Ecclesia, che lavora tra l’altro a Fenis senza però dedicare agli affreschi del castello quella attenzione minuziosa con cui leggerà nello stesso periodo i cicli di Issogne, sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[26], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade, al quale si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione dello studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[27]

Esemplari in questo senso sono le fotografie realizzate da Nigra in San Bernardino a Lusernetta nel 1885 e quelle fatte nella primavera del 1887 nella chiesa di San Pietro ad Avigliana, a Ranverso e verosimilmente anche in San Pietro a Pianezza[28], qualitativamente non eccelse e con scarsa attenzione per una illuminazione ottimale degli affreschi, poco più che appunti visivi su cui condurre successivamente gli studi, mentre le immagini realizzate nei decenni successivi, almeno fino agli anni Trenta, dimostrano un più maturo controllo della strumentazione ed il ricorso sapiente a lastre di maggiore formato.

Anche per Nigra, come già era stato per il “verista” Pastoris interpretato da Stella ma seguendo forse un percorso inverso,  “la conoscenza della storia dei monumenti antichi contribuisce ad aumentare la suggestione che ne emana ed a completare il godimento del loro valore estetico, facendo nello stesso tempo meglio comprendere lo spirito dei tempi”[29] e l’inevitabile oggettività fotografica diviene strumento insostituibile di questo progetto culturale.

Accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[30] la figura più rilevante è però quella di Secondo Pia[31], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione. La cronologia delle sue campagne è relativamente ben nota, ma certo l’attuale campagna di catalogazione condotta sul Fondo donato dal figlio Giuseppe al Museo Nazionale del Cinema consentirà in futuro di definirne meglio l’operato e forse anche di correggere la datazione di alcune riprese, in alcuni casi  stabilita da Pia molti anni dopo la loro realizzazione. Ciò che qui però interessa sottolineare è come il suo percorso di indagine percorra inizialmente le stesse canoniche tappe seguite da Nigra circa gli stessi anni: da Avigliana (1886)  a Ranverso (1887)  a Pianezza (1889) per compiere prima dello scadere del secolo una ricognizione esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese e in parte aostano: Issogne, Marentino, Manta, Fenis,  Villafranca Piemonte, Forno di Lemie, Roletto, Bastia, Chieri, Piobesi e Piossasco, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, ma spesso in anticipo sui tempi della ricerca storico artistica, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro[32]. Questo suo impegno viene giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire, quando espone circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[33]

Cena conferma ciò che  il catalogo della mostra ed ancor più le pagine del giornale dell’Esposizione dimostrano: quanto ridotto fosse ancora l’interesse per la pittura quattrocentesca piemontese nonostante una prima disponibilità di segnalazioni e studi specifici, prevalentemente dedicati a Ranverso (da Gamba e Brayda a Cena stesso) ma anche al Pinerolese (E. Bertea) ed a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890.[34]

Questa scarsa considerazione della pittura tardogotica piemontese emerge dalla stessa regia con cui Pia impagina le immagini di Ranverso nei due album dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” (1907) ed “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” (post 1920)[35]; sia nel primo che – specialmente – nel secondo gli affreschi jaqueriani sono collocati buoni ultimi nella sequenza di presentazione, dopo i particolari scultorei e gli stessi arredi, dopo la minuziosa documentazione e ricomposizione fotografica del polittico di Defendente Ferrari.

Ad ulteriore conferma di questa condizione di ridotta visibilità e rilevanza monumentale ricordiamo che neppure gli operatori degli Alinari, in Piemonte e Valle d’Aosta tra luglio e ottobre del 1898 comprenderanno nella loro campagna di documentazione luoghi come Ranverso o la Manta[36]; solo gli affreschi del castello entreranno a far parte del loro repertorio a partire dal catalogo del 1925 [37], mentre gli operatori dell’Istituto di Arti Grafiche di Bergamo pare siano a  Ranverso e in San Sebastiano a  Pecetto prima del 1907 ma forse, più correttamente, entro il 1911[38].

Nel 1914 infine giunge a compimento sotto la direzione di Cesare Bertea la pluridecennale vicenda dei restauri di Ranverso, i cui  importanti esiti sono immediatamente resi noti dalla pubblicazione negli “Atti della Società di Archeologia e belle Arti per la provincia di Torino” , corredando il testo con una serie di tavole fotografiche, dovute a Giancarlo dall’Armi[39], che nell’urgenza della scoperta mostrano il cantiere di restauro ancora non ultimato e rivelano finalmente la firma di Jaquerio. Questa impresa risulta importante non solo in sé ma anche quale momento significativo di una collaborazione precisa e fruttuosa tra studiosi, organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata dal rapporto tra Riccardo Brayda e Mario Gabinio, ma che assumerà negli anni successivi forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate dallo stesso Dall’Armi al Barocco  Piemontese, con testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R. Deville[40], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[41]

La scoperta degli affreschi sollecita altri autori a tornare a Ranverso: Secondo Pia, che fotografa le pareti del presbiterio nel 1920,  e Mario Gabinio[42], che vi ritorna molti anni dopo le prime visite compiute con l’Unione Escursionisti per realizzare  una ventina di immagini che comprendono anche le nuove scoperte, e costituiscono, insieme a quelle di Santa Maria di Vezzolano, le sole testimonianze dell’interesse di questo autore per la storia della pittura piemontese.

Nei due decenni successivi, anche sulla scia di una bibliografia più generosa e attenta che consente ad alcune opere piemontesi di raggiungere una prima notorietà anche al di fuori degli ambiti specialistici o locali[43], le campagne fotografiche si estendono sia per iniziativa dei grandi studi nazionali (Alinari, Istituto Italiano di Arti Grafiche) sia di committenti istituzionali come le Soprintendenze e l’Ordine Mauriziano, che fa rifotografare Ranverso nel 1929, sia infine per un’importante istituzione internazionale quale la Frick Reference Library di New York, che affida a Mario Sansoni, uno dei più importanti e noti professionisti italiani del settore, l’incarico di documentare le testimonianze artistiche europee. La campagna piemontese, condotta negli anni 1934-1935 in compagnia di Helen Frick, risulta estremamente approfondita e dettagliata, singolarmente attenta anche agli episodi allora meno noti e studiati,  in questo confrontabile solo col precedente di Pia, verosimilmente condotta a partire da informazioni che presuppongono non solo la conoscenza della letteratura specifica.[44]  La documentazione, anche qui, è condotta in modo esemplare e rigoroso, con riproduzioni  che prediligono l’insieme dell’opera senza mai isolare il motivo né tanto più tentare trasposizioni personalizzate, alla ricerca di temi o elementi coi quali ottenere una restituzione narrativa dell’opera, letteraria o critica che fosse, in ciò mostrando non tanto di rifarsi ad un approccio ancora sostanzialmente ottocentesco, in debito coi  modi rappresentativi delle stampe di traduzione[45], quanto di aderire compiutamente al ruolo richiesto dal progetto della committenza, quello di raccogliere una documentazione precisa ed esaustiva, utile strumento e supporto per il conseguente lavoro degli storici.

Nei luoghi visitati da Sansoni si muovono circa negli stessi anni giovani studiosi torinesi come Umberto Chierici (affreschi nella cappella del  castello della Manta, 1937ca)  e specialmente Augusto Cavallari Murat, che in preparazione del suo intervento al Congresso storico di Asti del 1933 fotografa gli affreschi in San Giovanni ai Campi, a Ranverso e in San Pietro a Pianezza[46], preludio della collaborazione al grande progetto storiografico ed espositivo che Vittorio Viale metterà a punto nel 1939 con la mostra dedicata a Gotico e Rinascimento in Piemonte, realizzazione “che costituisce, ancora oggi, un riferimento insostituibile per ogni storico dell’arte piemontese”[47]. Qui, nello scenografico riallestimento delle sale  vengono riproposti, in ingrandimenti fotografici realizzati da Riccardo Scoffone, “Re David, una delle sei figure che ancora ornano la parete sinistra del presbiterio [mentre] su uno stesso piano è un’altra pittura della parete di fronte, là dove sotto le storie di S. Antonio, ora purtroppo molto svanite, il Jaquerio con una stupefacente realismo ha dipinto due contadini che recano al Santo l’offerta del simbolico animale.”[48]

La fotografia ha ormai raggiunto lo statuto di consapevole strumento di conoscenza e di salvaguardia del patrimonio artistico ed architettonico, costituendo a volte purtroppo anche l’ultima consolazione di fronte alle irreparabili perdite: nel 1931 viene istituita la Fototeca Municipale  di Torino mentre Viale, dal 1930 direttore del Museo Civico, predispone un primo nucleo di archivio fotografico che si propone di trasformare in Archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte[49].  A partire da questa data la raccolta organica di documentazione d’arte non spetta più solamente all’iniziativa di singoli studiosi come Lorenzo Rovere, ma diviene istituzionalizzata coinvolgendo e formando intere generazioni di fotografi piemontesi, torinesi in particolare.

Ciò che resta invece ancora oggi parzialmente inadeguata è la nostra capacità di guardare a queste immagini come documenti complessi e non come pure tracce del referente, mettendo da parte ogni superficiale pretesa di oggettività della riproduzione per riconoscerne fruttuosamente lo statuto di traduzione quando non di trascrizione delle opere.

 

Note

[1]Andreina Griseri, Ritorno a Jaquerio, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo  Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni Romano.. Torino:  Città di Torino, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.3-29.

Per aver contribuito con suggerimenti e precisazioni alla realizzazione di questa ricerca, che si propone quale prima occasione di ricognizione di un tema vasto e complesso, desidero qui ringraziare Giovanni Romano e  Virginia Bertone;  per la consueta disponibilità dimostrata nel favorire l’accesso alle fonti fotografiche ringrazio inoltre Rosanna Roccia e Annamaria Stratta, Archivio Storico del Comune di Torino; Daniele Jalla, Nunzia Mangano e Adriana Viglino, Musei Civici di Torino; Donata Pesenti e Cristina Monti, Museo Nazionale del Cinema di Torino; Lino Malara e Paola Salerno, Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte; Elena Ragusa, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte.

[2]Cesare Bertea , Gli affreschi di Giacomo Jaquerio nella chiesa dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la provincia di Torino”, 8 (1914), fasc. 3, pp.194-207, estratto, con fotografie di Giancarlo dall’Armi poi ripubblicate per la prima volta nel 1979 da Enrico Castelnuovo, Giacomo Jaquerio e l’arte nel ducato di Amedeo VIII, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, op.cit. pp. 30-57 (pp.35-41)  e quindi in parte riprese da Guido Curto, S. Antonio di Ranverso presso Buttigliera Alta: i restauri degli affreschi, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.284-294.

[3] Questo articolo venne segnalato per la prima volta da Maria Adriana Prolo, Alcune notizie sulla dagherrotipia a Torino, in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.13-16, ed è stato poi ampiamente ripreso in numerosi studi relativi alle origini della fotografia in Italia. Il richiamo alla “fedeltà” della riproduzione fotografica rimanda al dibattito, ancora vivo e fecondo in quegli anni, relativo alla distinzione tra traduzione e copia, cfr. Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930). In Giovanni Previtali, a cura di, L’artista e il pubblico, “Storia dell’arte italiana”, I. 2.Torino: Einaudi, 1979, pp. 415-484.

[4] Felice Romani, Fotografia. Primo Daguerrotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”,  42 (1839), n.234, 12 ottobre, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, , pp.69-71.

[5] Ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.212-232. Per la fortuna editoriale del testo di Melloni cfr. Costantini,  Zannier, op.cit., p.88 nota 2; nello stesso volume, al quale si rimanda anche per una buona antologia di testi relativi alle prime applicazioni della fotografia,  è compresa (pp.96-109) anche la trascrizione della successiva, analitica relazione di Melloni dedicata alle Esperienze sull’azione chimica dello spettro solare e loro conseguenze.

[6] Luigi  Corvaja,  La fotografia e le sue applicazioni, I, “Panorama Universale”, 30 giugno 1855, p.107, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci Editore, 1980,  p.51.

[7] Philippe  Burty, La photographie en 1861,  “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.241-249.

[8] Hermann Vogel, La photographie et la chimie de la lumière. Paris: Librairie Germer Baillière, 1876, pp.217-218. Ricordiamo che Vogel, docente di chimica fotografica alla Technische Hochschule di Berlino, fu il primo maestro di Stieglitz, dal 1883 al 1887, cfr. William Innes Homer, Alfred Stieglitz and the American Avant-Garde. Boston: New York Graphic Society, 1977, pp.11-13.

[9]Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana per Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864, p.225.

[10]Paul N. Hasluck, La fotografia; prima traduzione italiana a cura di Giulio Sacco. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1905, p.518. Anche altri autori, dopo aver ricordato che “i risultati che possono dare le lastre ordinarie sono addirittura pessimi” confermavano che “i veri amatori d’arte preferiscono una buona incisione ad una riproduzione fotografica (…) ricorrendo invece a lastre ortocromatiche (…) la fotografia si eleva  al di sopra di qualsiasi altro genere di riproduzione”, Carlo Bonacini, La fotografia ortocromatica, Milano, Hoepli, 1896,  p.237-238, ma tutto il paragrafo dedicato alla Riproduzione delle pitture, pp.237-247, costituisce una interessantissima documentazione delle ragioni tecnologiche di un lavoro di riproduzione che voglia restituire “non soltanto una traccia qualunque del disegno (…) ma il carattere artistico della composizione”.

Nonostante gli avanzamenti costituiti dall’uso delle lastre ortocromatiche la manualistica consigliava ancora di procedere ad una “pulitura” preliminare del dipinto mediante spugnature con una emulsione a base di bianco d’uovo sbattuto, acqua e glicerina, cfr. E. J., Reproduction des tableaux,  “Photo-Gazette”, 11 (1901), n.7, 25 maggio, pp.138-139.

[11]Le preoccupazioni di correttezza nella resa proporzionale dei volumi o della cromia evidenziate da Jakob Burckardt  e Hans Tietze (cfr. Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979/80), n. 2,  winter, pp.117-123, in particolare alla p.122) erano sostanzialmente estranee al dibattito italiano. Per quanto sinora noto Pietro Masoero è il solo fotografo a riflettere in questi anni su alcuni  problemi di lettura fotografica delle opere d’arte; si veda ad esempio l’articolo dedicato a La dilatazione dei supporti positivi, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78 e le osservazioni fatte a proposito della “Madonna col Bambino”   dell’Ospedale di Vercelli, che Masoero attribuisce a Cesare Lanino: “Fu, questa tavola, anche molto ritoccata e la fotografia, nel riprodurla svelò tutta la parte più recente della pittura, che non era ben visibile all’occhio umano.”, Pietro Masoero, La Scuola Pittorica Vercellese 1460-1586, manoscritto, p.74. Per la sua attività di studioso e divulgatore rimando a P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154.

[12] Citato in Spalletti, op.cit., p.471. Lo stesso Venturi molti anni dopo definirà la fotografia come “il migliore mezzo di riproduzione che distrugge la ragione d’essere della incisione e della calcografia.”, cfr. Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia:  interviste a Ernesto Biondi, Adolfo Venturi, Aristide Sartorio, Gustavo Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19 (p.18).

[13]Da un appunto datato 14 ottobre 1893, citato in Freitag, op.cit., p.119. Più accorte e consapevoli saranno le considerazioni fatte da Berenson cinquant’anni più tardi: “Per cominciare dobbiamo scartare l’idea che la fotografia riproduca un oggetto come è, quale essenza oggettiva di alcunché. Una tal cosa non esiste. All’«uomo medio» non è stato mai detto che il suo modo di vedere ha una lunga storia alle spalle, utilitaria, pratica, perfino cannibalesca (…)  Facendo debita attenzione all’illuminazione, e collocando la macchina a un determinato angolo con l’oggetto, voi potete, entro certi limiti, farle riprodurre l’aspetto di quell’oggetto che risponde al vostro fine momentaneo, senza dubbio rispettabile ma con una buona dose di  parzialità, (…) Il compito di fotografare un dipinto è pressoché insormontabile dov’è questione di conservare i valori, i rapporti e i passaggi di colore. Per altro verso è più facile, molto più facile che per gli oggetti a tutto tondo o in altorilievo.(…) L’esperienza mi spingerebbe a dire: più sono scadenti i dipinti, e migliore è la fotografia.”, Bernard Berenson, La fotografia, in Id., Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze:  Electa, 1948, pp.327-338.

[14]Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4 (1892), pp.101-103. Lo stesso Brogi  molti anni più tardi  ribadiva che “le fotografie hanno giovato immensamente allo studio della Storia dell’Arte (…) ed hanno servito a divulgare (…) l’esistenza spesso ignorata di tanti patrii tesori.”, Carlo Brogi, A proposito del divieto fatto ai fotografi di trarre riproduzioni nei Musei e nelle Gallerie dello Stato; prefazione di Giovanni Rosadi. Firenze: Tip. E. Ariani, 1904, p.10.

[15] P. Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese. In Antichità ed arte nel Biellese, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989) a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 (1990 -1991), monografico, pp. 199-216 (p.203).

[16]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino,  “Fotologia”, 8 (1991), vol.13, primavera/estate, pp.30-39. I testi a corredo degli album costituiscono anche una interessante testimonianza del dibattito piemontese intorno alla questione del valore artistico della fotografia e delle sue relazioni con la pittura; si vedano in particolare i contributi di Carlo Felice Biscarra (1860) e di Federico  Pastoris (1862).

[17]ibidem, p.36. Ricordiamo qui che si deve a Bernieri anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P.Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998, in Photographie, ethnograhie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n. 2/4, monografico 1995, pp.145-160.

[18]è noto che la documentazione urbana e di architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in “Bollettino d’Informazioni” del Centro di ricerche informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Quaderno VIII,  Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, 49-55.

[19] Quando Massimo d’Azeglio disegna San Giorgio e il drago da Fenis, nel 1825 non è interessato tanto ad una “lettura puntuale del testo (…) quanto a trarne uno spunto per una illustrazione di gusto troubadour”, Franca Dalmasso, Massimo d’Azeglio, 1825. San Giorgio e il drago (da Fenis), in Giacomo Jaquerio, op.cit., p. 327.

[20]Antonio Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891. Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio, op. cit., pp.325-326, da leggersi parallelamente a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade, op.cit., pp.19-43.

[21] P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade, op. cit., pp.107-125.

[22]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[23]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880,  citato in Maggio Serra, Uomini e fatti, op.cit., p.29.

[24] Ivi, p.36.

[25]Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonte, op.cit.; Alfredo d’Andrade, op.cit.

[26]Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20.

Una prima schedatura del Fondo Nigra conservato presso i Musei Civici di Torino è stata condotta   per la redazione delle due tesi di laurea dedicate a Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra, redatte da Cristina Ghione, a.a. 1993-1994 e Simona Paggetti, a.a. 1994-1995. Oltre al Fondo Nigra i Musei Civici conservano anche 249 stampe di questo autore comprese nel Fondo D’Andrade,  qualche centinaio di negativi su lastra compresi nell’archivio corrente della Fototeca e alcune stampe sciolte nel Fondo Rovere. Altre fotografie (negativi e positivi) fanno parte dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte mentre le immagini di argomento familiare sono conservate presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, a cui pervennero per lascito testamentario nel 1984. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

Il riferimento metodologico costituito da Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21.

[27] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[28] Musei Civici di Torino, Fondo D’Andrade, rispettivamente F43-45; F55-62; F.71-78. Le immagini relative a Pianezza non sono datate ma le modalità di realizzazione fanno supporre una cronologia di realizzazione corrispondente agli altri soggetti.

[29] Carlo Nigra, Torri, castelli e case forti del Piemonte dal 1000 al secolo XVI, I, Il Novarese. Novara: E. Cattaneo, 1937, p.5.

[30] Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade, op. cit. ed inoltre Claudia Cassio, ad vocem, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77 (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sulla attività fotografica legata alle prime attività di tutela piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Ghione, op.cit., p.87.

Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione,  “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari; cfr. Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P.Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48.

La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[31]Oltre al testo indicato alla nota precedente si vedano: Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998.

[32]Si vedano le due riprese, datate 1902, con “dettagli di affreschi recentemente scoperti”  relativi rispettivamente a San Eutropio e San Dionigi dalla terza cappella a sinistra di Ranverso, conservate nel Fondo Pia del Museo Nazionale del Cinema, F30992, F3099; cfr. anche Giovanni Romano, Storie della vita della Vergine. Buttigliera Alta, Sant’Antonio di Ranverso. Giacomo Jaquerio, 1402-1410?, in Giacomo Jaquerio, op.cit., pp.393-397.

[33]Giovanni Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. Ancora oggi la figura di Pia è ricordata nelle poche storie della fotografia italiana solo in virtù della sua notorietà quale primo fotografo della Sindone e Presidente della Società Fotografica Subalpina (1908-1923).

[34]Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto. La redazione del saggio nasceva da una prima visita condotta nel 1889, quando ancora “l’abside era completamente coperto da un sottile intonaco bianco rosato sotto del quale potei intravedere tracce di dipinti”, p.7. Alcune delle riprese effettuate da Nigra nel 1889-1890, ma in una stampa più tarda (1927?), sono conservate nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 20).

[35]Secondo Pia, Ricordi fotografici di insigni monumenti del Piemonte, 1907; Id., Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica, 1920ca; I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino, comprendono rispettivamente 32 e 73 stampe all’albumina di diverso formato e datazione, così distribuite: 1907, Sant’Antonio di Ranverso (1-11); Santa Maria di Vezzolano (12-32).  Vezzolano (1-36); Ranverso (37-73).

L’attività pur eccezionale di Secondo Pia va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi , solo di rado professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Pietro Masoero, di Francesco Negri e di Alberto Durio (entrambi in relazione con Samuel Butler), di alcuni religiosi come F. Origlia, A. Rastelli e G. Valle, tutti legati a Negri, Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla ed ancora Mario Gabinio, Giancarlo dall’Armi ed Augusto Pedrini, per i quali ultimi la documentazione d’arte assumeva modi e impegni che esulavano dalla pura pratica professionale. 

[36]A far comprendere questi soggetti nel catalogo Alinari non era evidentemente servita la notorietà derivante dalla loro riproposizione al Borgo Medievale, né le successive attenzioni critiche, cfr. Elena Ragusa, Fortuna degli affreschi della Manta, in Giovanni Romano, a cura di, La sala baronale del castello della Manta. Milano:  Olivetti, 1992, pp.73-80.

[37]Per le campagne Alinari del 1898 cfr. Mario Sansoni: Diario di un fotografo,  “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.50-51; [F.lli Alinari], Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. [1925].

[38]Si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che riportano appunto una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione) comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. In realtà la ripresa n.7441 “1792 Facciata dell’antico Ospedale dell’Abbazia” mostra l’edificio addossato alla facciata dell’Ospedale in uno stato certamente successivo al marzo 1907, data dell’ingiunzione ministeriale all’abbattimento della porzione di parete inglobante il pinnacolo di sinistra. (Daniela Brusaschetto, Silvia Savarro,  Cesare Bertea (1866-1941): note sul restauro in Piemonte nei primi decenni del Novecento. Tesi di laurea, Politecnico di Torino, Corso di laurea in Architettura, 2000, relatori Maurizio Momo, Daniela Biancolini, pp. 223 – 224). Le riprese potrebbero allora riferirsi tutte alla campagna realizzata per il padiglione piemontese alla Mostra Etnografica di Roma del 1911.

[39]  Bertea , Gli affreschi, op.cit. Come risulta da un primo confronto tra le tavole qui pubblicate e le stampe conservate nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della Città di Torino e nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte, il corpus realizzato dal fotografo è più esteso del pubblicato da Bertea, ma occorrerà un confronto con le lastre appunto conservate nel Fondo Dall’Armi per una più puntuale verifica di questa importante campagna di documentazione. Per Dall’Armi cfr. Dario Reteuna, Primario studio. Da Dall’Armi a Cagliero sessant’anni di vita a Torino.   Torino: Regione Piemonte, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1998, che costituisce un primo sommario tentativo di presentazione dell’attività di questo importante professionista torinese.

[40] Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche.

[41] Di Pedrini oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[42] Le immagini, non datate,  sono comprese negli album A34 ed A10 del Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino; una prima occasione documentata di visita a Ranverso risaliva al 4 novembre 1906, in occasione di una gita compiuta con l’Unione Escursionisti, a cui Gabinio apparteneva, sotto la guida di Riccardo Brayda; una delle immagini realizzate in quella occasione venne utilizzata dallo stesso studioso per la copertina del suo Una visita a Sant’Antonio di Ranverso (Valle di Susa).  Torino: Tip. Massaro,  1906. Per una più estesa discussione dei rapporti Brayda / Gabinio  cfr. P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35.

[43]Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I, Milano, Touring Club Italiano, 1930 comprende due riproduzioni degli affreschi in San Sebastiano a Pecetto (tavv.124, 125) mentre di Ranverso è pubblicata solo l’immagine del prospetto della chiesa.

[44]Mario Sansoni (1882-1975) dopo un primo periodo di attività come operatore Alinari si mette in società con Giulio Bencini nel primo dopoguerra e quindi in proprio intorno alla metà degli anni Venti, dedicandosi esclusivamente alla documentazione delle opere d’arte. In questa veste viene incaricato dalla Frick Reference Library di New York di compiere una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, cfr. redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 44-45. Una più approfondita conoscenza di questo progetto documentario potrà essere ricavata dallo studio attento dei diari di lavoro di Mario Sansoni, conservati presso l’Archivio Fotografico Toscano di Prato, che non è stato possibile consultare in questa occasione; ricostruzione che sarà da porre a corredo di quel “recupero delle fotografie realizzate da Mario Sansoni per miss Helen Frick all’inizio degli anni Trenta [che] è ormai un obbligo metodologico”, di cui ha parlato  Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1997, p.12.  L’individuazione del fotografo fiorentino quale responsabile di una così vasta e impegnativa campagna di documentazione si inserisce non solo nel progetto culturale  della famiglia Frick, ma costituisce anche una ulteriore conferma della  specifica attenzione per l’uso appropriato della fotografia, e del conseguente riconoscimento del lavoro dei fotografi,  che nella cultura statunitense risulta un dato acquisito ben prima che ciò accada in Europa; basti pensare, per fare solo alcuni esempi, all’attenzione prestata  da Arthur Kingsley Porter, Romanesque Sculpture of the Pilgrimage Roads.  New York: Hacher Art Books, 1966 (I ed. 1923), buon fotografo e severo giudice dell’attività degli studi più rinomati (“The catalogue is unfortunately of little use”, per Romualdo Moscioni, “Photographs of the highest quality”, per Clarence Kennedy e così via)  ed alle precisazioni contenute nella prefazione che Harry Dobson Miller Grier, direttore della collezione,  scrive per The Frick Collection. An illustrated catalogue, I-II. New York: The Frick Collection, 1968, p. xxii: “The black and white photographs of the paintings were made by Francis Beaton, our staff photographer, who has faithfully served the Collection for over thirty years. The reproductions in those and subsequent volumes of this catalogue will provide an enduring record of his talent, which has never been duly acknowledge. For the color reproductions of the paintings,  ektachromes were made by Joseph Corboy and Geoffrey Clements. The photograph of the Frick Collection building is by Ezra Stoller, and the colour photographs of the galleries are by Lionel Freedman.”

[45]Cfr. Massimo Ferretti, Fra traduzione e riduzione. La fotografia d’arte come oggetto e come modello, in Gli Alinari fotografi a Firenze 1852-1920, catalogo della mostra (Firenze, Forte di Belvedere, 1977) a cura di Wladimiro Settimelli, Filippo Zevi. Firenze: Edizioni Alinari, 1977 pp.116-142 (p.124), che per la casa fiorentina colloca a partire dal  1876 il periodo in cui le campagne di documentazione “diventano l’occasione di un rilevamento ravvicinato e linguisticamente più problematico”, ma sostanzialmente legato alla estrapolazione di elementi “decorativi” con immediata valenza commerciale e connessi al nascente interesse italiano per i rapporti tra arte e industria; si veda anche E. Spalletti, op.cit., p.473. Un diverso atteggiamento, orientato ad una lettura contestuale dell’opera e della scena rappresentata lo si ritrova invece, negli anni a cavallo tra i due secoli nelle fotografie dei gruppi statuari del Sacro Monte di Crea realizzate da Francesco Negri, non a caso nella doppia veste di fotografo e di studioso, cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145. Come è noto un uso mirabilmente critico della documentazione fotografica venne per primo realizzato in Italia da Roberto Longhi, Piero della Francesca. Roma: Valori Plastici, 1927.

[46] Augusto Cavallari Murat, Considerazioni sulla pittura piemontese verso la metà del sec. XV, “Bollettino  Storico Bibliografico Subalpino”, 38 (1936), n.1-2, gennaio-giugno, pp.43-79, corredato di una interessante documentazione fotografica prevalentemente dovuta all’autore stesso ma anche a Toesca (Fenis, cappella, particolare con una Santa), Rossi (Villafranca Piemonte, chiesa della Missione, particolare dell’Arcangelo e Deposizione) e Bertea (naturalmente per Ranverso, da confrontare con la produzione Dall’Armi). Questo significativo apparato di immagini è stato escluso dalla riedizione del saggio in Id., Come carena viva, I. Torino: Bottega d’Erasmo, 1982, pp.99-128.

[47] Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[48]Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte, catalogo della 2a mostra d’arte a Palazzo Carignano.  Torino: Città di Torino, 1939. Mentre Scoffone realizza gli ingrandimenti per le sale 4, 5 e 6 a Paolo Beccaria si devono le fotografie per il catalogo.

[49]Cfr. Cavanna, Mario Gabinio, op.cit., p.19.

Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese (1985)

in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

 

“lo non ho che un rimpianto, ed è che la fotogra­fia non sia ancora giunta a fermare sulla lastra i colori, per poter presentare queste opere in tutto il fulgore della loro bellezza.”[1] Così si esprimeva Masoero illustrando al pubblico della Società Artistica di Milano la sua confe­renza sulla Scuola pittorica vercellese, già presentata nei primi mesi del 1900 nell’aula della scuola di anatomia della Accademia Albertina di Torino, per la serie di conferenze in­dette dalla Società Fotografica Subalpina[2]. Erano questi gli anni di maggiore impegno per Pietro Masoero, il cui attivismo in campo fotografico veniva riconosciuto ufficialmente dap­prima col conferimento di una “Grande meda­glia d’argento data dal Ministero della Pubbli­ca Istruzione”[3] per le sue speciali benemerenze verso l’arte fotografica, quindi con la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia. Furono questi riconoscimenti a coronare il suo impegno de­cennale di protagonista del dibattito fotografi­co italiano ed a segnare il suo definitivo ricono­scimento a livello nazionale, insieme ad altri, pochi, nomi di fotografi piemontesi: Francesco Negri, Secondo Pia, Vittorio Sella; ciò che forse stupirà chi si occupa di storia della fotografia italiana, poiché il nome di Masoero è a tutt’og­gi, a fronte di quelli appena citati, quello di uno sconosciuto.

L’attività di Masoero, nato ad Alessandria nel 1863, inizia a Vercelli, dove dal 1880 è impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio Ca­stellani. L’apprendistato in questo studio non è senza conseguenze per la sua formazione: Fe­derico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli, presentando nel 1873 il suo Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, si qualificava qua­le “membro dell’Accademia artistica Raffaello – Socio Onorario dell’Istituto di Belle Arti del­le Marche … “, dimostrando un interesse per il mondo dell’arte che certo non passò inosserva­to al giovane aiuto, così come si deve presumi­bilmente sempre ai Castellani se Masoero ri­sulta, al 1892, con Teresa Castellani (vedova di Luigi, morto nel 1890) Felice Alman, Carlo Mar­setti e Vittorio Sella uno dei pochissimi abbo­nati piemontesi al “Bullettino della Società Fo­tografica Italiana”, allora e per molto tempo ancora il più qualificato organo a stampa del mondo fotografico italiano.[4]

Il 1890 segna il passaggio alla attività in pro­prio. Masoero apre in giugno il suo studio, ma la sua emancipazione risale a qualche tempo prima quando – ancora direttore dello studio Castellani – illustra il numero unico de «La Se­sia» dedicato alla inaugurazione del monumento a Garibaldi. Alcuni anni dopo illustrerà un altro numero unico, dedicato all’ossario di Pa­lestro, fotografando sia i luoghi della battaglia che i progetti dell’ossario e lo stesso architetto Sommaruga.[5] Nascono questi incarichi dal consolidamento della sua fama locale e dai suoi rapporti con l’ambiente vercellese di matrice liberal-progressista, iniziati alcuni anni prima quando, nell’ambito della Associazione Gene­rale degli Operai per mutuo soccorso ed istru­zione, di cui è presidente, entra in contatto con Antonio Borgogna e quindi con Cesare Faccio, cui si deve forse l’incarico a Masoero per la do­cumentazione dell’ossario.

Ancora nel 1898 il n. 4 di “Arte Sacra”, dedicato a Vercelli, conterrà numerose fotografie di Ma­soero, tra cui la Madonna degli aranci di Gau­denzio Ferrari in San Cristoforo e la Madonna della Grazia in San Paolo, immagine che illu­stra un breve testo dallo stesso titolo, siglato P.M., verosimilmente da attribuire a Masoero stesso, che costituisce il primo documento no­to del suo interesse per il patrimonio artistico vercellese. Da sottolineare come si debba ascri­vere alla capacità di Masoero di costruire e consolidare da un lato relazioni sociali qualifi­cate e dall’altro di superare il ruolo di fotogra­fo per dedicarsi alla pubblicistica di divulga­zione culturale, il progressivo e rapido consoli­damento del suo ruolo di documentatore del patrimonio architettonico e artistico vercelle­se che in precedenza era stato svolto da Castel­lani e soprattutto da Pietro Boeri, il quale con l’album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella Chiesa di San Cristofo­ro a Vercelli, edito nel 1886, aveva fornito un ec­cellente esempio, mai superato a livello locale, di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico.[6]

Agli impegni locali si affiancano a partire dal 1898 le attività più specificamente connesse al­la professione fotografica che lo vedono impe­gnato sia nel campo della qualificazione pro­fessionale – sua è la prima proposta di istitu­zione di una scuola di fotografia[7] – sia nella ri­flessione teorica sullo specifico fotografico: “La fotografia – si chiede Masoero – è un’arte o no ? .. nel nostro lavoro vi è una parte scientifi­ca ed una artistica … L’arte interviene nella de­terminazione della posa, e la migliore esposi­zione è un’ispirazione … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotogra­fia e non incisione, o pastello o altro”.[8]

A questa lucidità corrisponde un altrettanto chiaro impegno morale: “L’arte fotografica de­ve avere un compito, un mandato: lo studio del­la natura in modo vero, perfetto, sia nell’insieme sia nel particolare. L’arte fotografica deve avere un’ispirazione: di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte con le sue potenti verità.”[9]

Le riflessioni di carattere teorico sono seguite da interventi più puntuali, in cui l’uso dello strumento fotografico è analizzato nelle sue possibilità e difficoltà tecnico-espressive; così, riflettendo sui problemi della fotografia di do­cumentazione artistica, Masoero affronta il problema delle conseguenze della dilatazione dei supporti positivi per cui la “dilatazione del­la carta non meno nocumento porta alle linee architettoniche di un monumento, facendo pa­rere più larghi o più acuti certi archi in cui un’i­nezia può far perdere assai della loro grazia, così pure un disegno, particolarmente di piani e sezioni, e di quadri.”[10]

Con questi presupposti ci si potrebbe attende­re una specializzazione professionale nel cam­po della documentazione del patrimonio arti­stico ed architettonico, ma ciò non avviene. L’ampliarsi della sua fama è dovuto alle quali­tà di ritrattista, per le quali riceve, a partire dal 1893 alla Esposizione di Ginevra, una messe di premi, ed al suo impegno di organizzatore e di divulgatore a livello nazionale ed internaziona­le che lo vede tra i segretari dei primi due con­gressi fotografici italiani (Torino 1898, Firen­ze 1899), quindi rappresentante con Rodolfo Namias della Società Fotografica Italiana al Congresso di Parigi del luglio 1900 e autore di quel Decalogo del dilettante fotografo, pubbli­cato per la prima volta nel 1900, che divenne immediatamente il suo testo più noto e celebra­to.[11] Non è questa la sede per indagare a fondo le motivazioni che lo portarono invece ad inte­ressarsi, a titolo personale, del patrimonio arti­stico, motivazioni che nascono da una serie complessa di rapporti e riferimenti, costituiti dalla presenza in ambito locale di personaggi quali Camillo Leone e Antonio Borgogna e dal ruolo svolto da quelle singolari figure di foto­grafi piemontesi che sono Francesco Negri e Secondo Pia, con cui Masoero era in contatto, che certo gli furono esempio e termine di riferi­mento per la sua attività di uomo di cultura che usa le possibilità nuove offerte dalla fotografia per realizzare quel processo di promozione cul­turale che era il fine ultimo della sua azione. “Il Pia dona alla storia futura – dice Masoero – quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo la­voro è l’elemento più prezioso per chi studia”.[12] In questo breve giudizio, che è anche una dichiarazione di intenti, si legge con chia­rezza la posizione del fotografo che individua nell’obiettivo della commercializzazione il li­mite culturalmente negativo delle campagne fotografiche dei grandi stabilimenti, a favore di un progetto che si vuole caratterizzare inve­ce quale operazione culturale e strumento di conoscenza. Da qui l’attenzione per la fotogra­fia come mezzo che ci viene suggerita dalla con­ferenza presentata a Parigi al Congresso Foto­grafico Internazionale su L’applicazione della fotografia allo studio dell’arte[13], di cui non ci è pervenuto il testo, che indica fin dal titolo il ruolo strumentale assegnato alla nuova tecni­ca, senza che per questo ne venga misconosciu­to il valore autonomo, che anzi si fonda proprio sul riconoscimento dello specifico codice lin­guistico connesso all’uso coerente delle parti­colari qualità di traduzione.[14] Né si può dimen­ticare che questo progetto si inseriva coerente­mente in quella ampia corrente di opinioni e comportamenti che Ando Gilardi ha definito “socialismo fotografico”, ben sintetizzata nelle parole di Paolo Mantegazza: “… come il Cristo nel Vangelo, che moltiplicava i pani e i pesci per sfamare le moltitudini, essa [la fotografia] moltiplica le opere d’arte e concede anche ai di­seredati della fortuna, il possedere una dome­stica galleria dei quadri più insigni dei sommi artisti”.[15]

L’iperbole retorica del brano può forse scon­certare e risultare oggi per certi versi non com­prensibile e artificiosa, ma offre esattamente la misura del tempo trascorso e la distanza che ci separa dallo spirito di quelle iniziative in cui l’uso delle scoperte e invenzioni più recenti ve­niva posto al servizio di un progetto politico­ culturale preciso.[16]

La fotografia di documentazione quindi non tanto e non solo quale ausilio dello studioso e merce da offrire al turismo colto dell’epoca, ma anche strumento di definizione di varie identità culturali che nelle radici locali cerca­no le basi per un riconoscimento paritetico a li­vello nazionale, e in questo senso il caso vercel­lese mi pare sintomatico, e ancora, ausilio di­dattico, strumento di realizzazione del pro­gramma che abbiamo ricordato.

Questi temi e problemi convergono e si concretizzano nella serie di conferenze tenute da Pie­tro Masoero: Arte e fotografia[17]  ampia e do­cumentata rassegna sulle principali tendenze fotografiche nazionali ed internazionali e La scuola pittorica vercellese, che cercheremo di presentare in modo più dettagliato.

“Le conferenze con proiezioni rappresentano la forma migliore che presentemente si usa nei grandi centri per illustrare l’arte (…) le proiezioni sono indispensabili, imperocché nessuna parola, per quanto viva e colorita essa sia, riuscirà mai, neanche lontanamente, in un tempo lun­ghissimo, quello che la proiezione in un attimo stampa indelebilmente nella mente dell’ascol­tatore”.[18] Il testo della conferenza, di circa ot­tanta pagine compilate a mezza colonna, corre­dato da 78 diapositive (90 in una prima redazio­ne) si suddivide in due parti: la prima, che si apre con una breve descrizione delle vicende storico-politiche del Piemonte e del Vercellese, passa in rassegna quelli che vengono indicati quali precursori della scuola vercellese (Boni­forte Oldoni, Eusebio Ferrari da Pezzana, Mar­tino Spanzotti, Defendente Ferrari, Stefano Scotto) e si conclude con una lunga analisi delle opere di Gaudenzio Ferrari (pp. 20-45) da cui qui importa estrarre e riconoscere le moti­vazioni di fondo, riferibili a tutto il fenomeno, che hanno spinto Masoero a studiare e divulga­re le opere di questi pittori, ben sintetizzate nel brano dedicato alla Madonna degli aranci:  “Basterebbe questa sola opera per dare ad un artista gloria imperitura (…) Eppure quanti la co­noscono? Pochissimi, ed il silente coro della chiesa, che tale tesoro accoglie, rare volte sente interrotta la sua pace claustrale dal bisbiglio di ammirazione dei visitatori; ed il più sovente, questa, non è espressa in italica favella”.[19] Ecco allora la necessità di divulgare, di far co­noscere, come avviene anche per Bernardino Lanino per il quale “una delle cause per cui (…) fu troppo dimenticato è quella che pochissimi suoi lavori sono noti e visitati”.

L’opera del Lanino è presa in esame nella se­conda parte della conferenza che iniziando da una breve disamina della nascita dell’interesse per la scuola pittorica vercellese e del costituir­si di una storiografia specifica, individuati nel­l’opera di Roberto d’Azeglio e degli “studiosi di patrie glorie (che) andarono alla ricerca delle opere dei maestri vercellesi”, prosegue con gli anni della formazione del Sodoma per passare quindi ad analizzare l’opera di Gerolamo Gio­venone e Bernardino Lanino e concludersi con gli anni della decadenza, che Masoero fa coinci­dere con la morte del Lanino stesso, mentre “gli eredi della fama e delle ricchezze delle tre fami­glie (Oldoni, Giovenone, Lanino) che fondarono nutrirono e formarono la scuola, la più bella gloria artistica di tutto il Piemonte, si adagia­rono nella agiatezza e nella facilità connesse ad un bel nome, e non si scossero più”. La produ­zione laniniana viene descritta ed analizzata nel suo svolgimento cronologico e nella sua evoluzione stilistica a partire dagli affreschi del Duomo di Novara, ora collocati ad una data più tarda, di cui presenta la Fuga in Egitto “frammento di vaste composizioni, trasportato nella sacrestia (…) allorché si demolì l’antica chiesa, in cui furono dipinte da questo artista quando ancora sentiva tutta l’influenza del suo maestro Gaudenzio Ferrari”[20], per giungere si­no alla Madonna della Grazia in San Paolo, con­siderata “la tavola più importante del maestro [che] tuttavia è affatto sconosciuta”.

Se escludiamo il ciclo di affreschi novaresi il percorso visivo laniniano suggerito da Masoe­ro è tutto interno alle opere vercellesi (ricordia­mo che la conferenza si tenne anche a Milano) e comprende oltre ai lavori già citati parte degli affreschi del ciclo delle Storie di Santa Cateri­na, a proposito dei quali, correggendo un giudi­zio dell’abate Lanzi che diceva il Lanino “nato come il Ferrari per grandi istorie”, ricorda che “troppo spesso si inspirò alle composizioni del maestro suo e non seppe opporsi alla tendenza dei figli, che badarono piuttosto a fare molto che bene”, lo stendardo della Confraternita di Sant’Anna, l’affresco nel coro della chiesa di San Bernardino “un saggio delle composizioni drammatiche del maestro vercellese”, il Com­pianto sul Cristo morto a San Giuliano, la Depo­sizione dipinta per la chiesa di San Lorenzo e la Madonna col Bambino e Santi, entrambe alla Sabauda, la Madonna del cane del museo Bor­gogna e la Pala Olgiati a San Paolo. Risulta dal­l’elenco l’assenza totale di opere anche molto note come quelle biellesi, all’ epoca già fotogra­fate da Secondo Pia; il dato mi pare interessan­te: esclusa l’ipotesi della non conoscenza, è Ma­soero stesso a ricordare che Lanino “lavorò as­sai in tutta la provincia vercellese, nella Valse­sia e nel Novarese risalendo su per la valle del­l’Olona fino a Saronno”, l’assenza di queste opere sembra connessa alla pratica di volonta­rismo assoluto quindi di difficoltà a documen­tare quei lavori che per la loro ubicazione ren­devano molto onerosa la realizzazione delle ri­prese.

Dall’elenco di opere presentate nel corso della conferenza abbiamo omesso la Madonna con due Sante, già appartenente ai marchesi di Gat­tinara, ora ubicazione ignota, che Masoero as­segna alla maturità del Lanino e che ora viene attribuita a Giuseppe Giovenone il giovane; è questo – insieme all’affresco in San Bernardi­no oggi attribuito al Moncalvo – uno dei non molti casi di attribuzione errata, tra i quali si segnala la Madonna col Bambino e Santi dell’O­spedale Maggiore di Vercelli per la quale la stampa fotografica (n. 14584) dà una attribuzio­ne a Bernardino Lanino, mentre lo stesso Ma­soero, presentandola nel corso della conferen­za, segnalava “la scritta, indubbiamente apocrifa, Bernardino Lanino 1574” e proseguiva: “Porta lo stemma dei Volpi”. Fu attribuita an­che ad Ottaviano Cane, ma più probabilmente è di Cesare Lanino, primo figlio di Bernardino. Conforta la supposizione l’aver i figli di Lanino molto lavorato in Lomellina ed i Volpi erano di quella regione”. Il non aver reperito il negativo corrispondente impedisce per ora di stabilire una datazione della stampa stessa e di verifica­re quindi la successione delle attribuzioni; ma ciò che ne fa un caso interessante è la successi­va osservazione, sempre di Masoero: “Fu, que­sta tavola, anche molto ritoccata e la fotogra­fia, nel riprodurla svelò tutta la parte più re­cente della pittura, che non era ben visibile al­l’occhio umano”. Riemerge qui la cultura speci­fica del fotografo, in grado di usare al meglio le caratteristiche tecniche degli strumenti a sua disposizione, di sfruttare anzi positivamente gli stessi limiti, determinati in questo caso dal­la incapacità delle emulsioni fotografiche di re­gistrare i colori in modo costante ed indifferen­ziato; la scarsa resa tonale della gamma croma­tica propria delle emulsioni ortocromatiche, che pure avevano costituito già un grande pas­so avanti, è qui sfruttata per ricavare il massi­mo di informazione possibile, secondo il ricor­dato principio della fotografia quale “docu­mento inspiratore e coadiuvatore dell’arte”. L’impegno di divulgatore prosegue con la con­ferenza dedicata a Il Rinascimento della pittu­ra in Piemonte, tenuta ad Alba nel 1902[21],  men­tre si estendono i suoi contatti con le più note personalità del mondo della cultura quali Al­fredo d’Andrade, per il quale fotografa alcuni interventi di restauro a Orta ed Arona[22], e Gu­stavo Frizzoni il quale, in occasione del minac­ciato abbattimento del chiostro di Santa Maria delle Grazie a Varallo scrive ad Antonio Massa­ra richiamandosi alla autorevole opinione espressa “dall’egregio fotografo Masoero”[23]. La documentazione del patrimonio architetto­nico, iniziata già sullo scadere del secolo, si concretizza nel 1907 con la realizzazione del vo­lume dedicato alla basilica di Sant’Andrea, per il quale fornisce l’apparato iconografico a cor­redo dei rilievi del Mella, proseguendo poi con le illustrazioni per l’articolo di Guido Maran­goni Il Sant’Andrea di Vercelli, pubblicato in “Rassegna d’Arte” nel corso del 1909[24] e quindi col tredicesimo volume della serie “Italia Monu­mentale” del 1910, in cui ad un breve testo intro­duttivo di Francesco Picco fanno seguito 64 ta­vole fotografiche realizzate dallo Studio Masoero[25].

Il 25 ottobre 1908 si costituisce a Vercelli un Comitato per le celebrazioni del IV centenario della nascita di Lanino; Masoero, che fa parte della Giunta esecutiva, riprende per l’occasio­ne il tema affrontato alcuni anni prima ed ese­gue una documentazione a tappeto, seppure non esaustiva, delle opere della scuola pittori­ca vercellese ed in particolare del Lanino. Anche in questa occasione la competenza professionale ed il costante aggiornamento danno i loro frutti: sebbene manchino dati certi in proposito, alcuni indizi fanno supporre che Ma­soero abbia riprodotto contemporaneamente le opere sia in negativo, utilizzando lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21/27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare con­temporaneamente la duplice esigenza di larga diffusione – erano infatti diapositive da proie­zione – e di restituzione della gamma cromati­ca, realizzando il desiderio espresso nel corso della conferenza del 1901.

Una parte di queste autocromie, per le quali si rimanda all’elenco ragionato, viene utilizzata la sera del 22 settembre 1910, al Politeama Fac­chinetti, per illustrare la conferenza sulla Scuola pittorica vercellese tenuta da Luigi Cesare Faccio, “promossa dal Municipio e dalla locale Società di cultura” in onore dei parteci­panti al XIII Congresso Storico Subalpino che si tiene a Vercelli.[26]

Diversamente da quanto era accaduto nel 1901 e per ovvie ragioni, l’attenzione maggiore è ri­servata al Lanino, cui sono dedicate 103 auto­cromie su 242, comprendendo anche numero­sissime opere non vercellesi: Borgosesia, Casa­le, Tortona, Valduggia ecc.; da notare ancora una volta l’assenza delle opere biellesi mentre è presente – forse grazie agli stretti rapporti esi­stenti tra i due – il ciclo di affreschi nella chie­sa di San Magno a Legnano, reso noto nell’Ago­sto dello stesso anno da Guido Marangoni[27]. L’opera di documentazione legata al ciclo di ce­lebrazioni laniniane chiude la serie delle cam­pagne fotografiche di Pietro Masoero, il cui fondo, ormai noto ed esposto pubblicamente al Borgogna[28], verrà più volte utilizzato da autori quali Weber (1927) Brizio (1935) Jacini (1938). Masoero stesso pubblicherà in forma ridotta nel volume collettivo Vercelli nella storia e nel­l’arte il suo saggio sulla “Scuola vercellese”, corredato da alcune fotografie, modesta con­clusione del suo lungo impegno.[29]

 

 

Laura Berardi, Pierangelo Cavanna,  Elenco ragionato delle fotografie  di Pietro Masoero relative all’ opera di Bernardino Lanino

 

 

L’indagine è stata condotta sui fondi fotografi­ci del Museo Borgogna di Vercelli, fondo Ma­soero (MB/M), in cui sono conservati i negativi su lastra, le autocromie e alcune stampe; sul fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (MCT/R); sul fondo Bickley della Fondazione Sella di Biella (FS/B) e nelle fototeche dell’Isti­tuto di Storia dell’Arte della Facoltà di Lettere dell’Università di Torino (ISA), del Kunsthisto­risches Institut di Firenze e del Gabinetto Fo­tografico Nazionale di Roma. La consultazio­ne ha consentito di rilevare una diffusione a carattere regionale delle immagini relative al­le opere laniniane, mentre l’altro importante ciclo documentario di Masoero, relativo alla basilica di Sant’Andrea di Vercelli, è presente in parte anche presso il Gabinetto Fotografico Nazionale. Per la datazione dei materiali rile­vati, costituiti – salvo diversa indicazione ­da negativi su lastra di 21/27 cm, da stampe al citrato e alla gelatina bromuro d’argento da questi ricavate per contatto e da autocromie Lumière di 9/13 cm, essa va riferita complessi­vamente agli anni 1909-1910.

Non sono state reperite sino ad ora le diaposi­tive da proiezione utilizzate negli anni 1900­-1901 per illustrare le due conferenze Arte e fotografia e La scuola pittorica vercellese, forse perdute.

 

L’elenco, organizzato topograficamente, regi­stra per ogni soggetto la presenza di negativi, positivi e autocromie; il numero che segue questa specifica ne indica la quantità, mentre in parentesi sono registrati i numeri di identi­ficazione apposti da Masoero, generalmente a doppia numerazione per le autocromie. Segue la collocazione: mentre per negativi e diaposi­tivi (autocromie), conservati solo al Museo Borgogna, questa è costituita dal solo riferi­mento interno, provvisorio, in attesa del defi­nitivo riordino del fondo stesso, per i positivi è indicato anche il fondo di provenienza, iden­tificato con le sigle precedentemente indicate. Si è preferito in questa occasione non com­prendere nell’elenco le numerose stampe con­servate nei diversi fondi, presumibilmente di Masoero ma prive di identificazione, in attesa che la ristampa dei negativi originali consenta più puntuali riscontri.

 

Borgosesia, Parrocchiale

Madonna col Bambino e Santi Negativo: gen. 3 (23, s.i.); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (58/70), part. 3 (16/-, 51/72, 60/71) fratturata la 16/-; coll. 85/1.

 

Casale Monferrato, Oratorio del Gesù

Circoncisione e Angelo con carti­glio

Negativo: gen. 2 (39, s.i.), part. 1 (38); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (15/74), part. 3 (16/75,17/77,18/76); coll. 85/2.

 

Legnano, Chiesa di San Magno

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

 

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 1 (28); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (19/82) frattu­ra angolare; coll. 85/3

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (29); coll. 5/85

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (30); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (12/79) frattu­rata; coll. 85/3

Circoncisione

Negativo: gen. 1 (31); coll. 5/85

Adorazione dei pastori

Negativo: gen. 1 (32); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (8/80) due frat­ture; coll. 85/3

Visitazione

Negativo: gen. 1 (33); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (4/81); coll. 85/3

San Rocco

Negativo: gen. 1 (34); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (45/84) frattu­ra centrale; coll. 85/3

San Sebastiano

Negativo: gen. 1 (35); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (42/85); coll. 85/3

Cristo coi simboli della Passione

Negativo: gen. 1 (36); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (43/87); coll. 85/3

Santo Vescovo

Negativo: gen. 1 (37); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (44/86); coll. 85/3

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (22/83); coll. 85/3

Disputa al tempio

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (23/78) ampia perdita di pigmento colorato; coll. 85/3

 

Mortara, Chiesa di Santa Croce

Adorazione dei Magi, all’epoca conservata presso la chiesa di “Santa Trinitates”

Negativo: gen. 2 (41, s.i.); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.) due copie; coll. MCT/R Se. 21; MB/M n. 41

Autocromia: gen. 1 (13/67), part. 2 (13/68, 15/-); coll. 85/4

 

Novara, Duomo

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 2 (35, s.i.); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (20/89); coll. 85/5

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (40); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (11/90); coll. 85/5

Visitazione

Negativo: gen. 1 (42); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (5/92); coll. 85/5

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (43); coll. 6/85

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (44); coll. 6/85 Autocromia: gen. 1 (7/91) frattura centrale; coll. 85/5

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (47); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (1/93) piccola frattura d’angolo; coll. 85/5

 

Occimiano, Parrocchiale

Madonna col Bambino, Sante e devote, ‘Pala di Sant’Orsola”

Negativo: gen. 1 (“=6=N. 26”); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (62/39), part. 7 (63/102, 64/104, 65/40, 66/106, 67/107, 68/41, -/103); coll. 85/6

 

Oleggio, Chiesa dei Santi Pietro e Paolo

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

 

Tortona, Palazzo Vescovile

San Paolo

Negativo: gen. 1 (40); coll. 3/85

 

Positivo: gen. 1 (s.i.); MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (54/100); coll. 85/7

 

Valduggia, Parrocchiale

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (58); coll. 7/85

Polittico

Negativo: gen. 2 (24, s.i.) spezzata la 24, con mascheratura rossa per evidenziare la cornice, part. 1 (24); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (69/94), part. 5 (-/95, 70/96, -/97, -/98, -/99); coll. 85/8

 

Vercelli, Palazzo Arcivescovile

Assunzione della Vergine

Positivo: gen. 1 (14610) in due co­pie; coll. MCT/R Se. 21, MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/55), part. 2 (30/56, -/57) frattura d’angolo la 30/56; coll. 85/10

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (14589); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/46), part. 1 (-/47); coll. 85/10

Martirio di Santa Margherita (bottega di Giuseppe Giovenone il Giovane).

già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14604); coll. MB/ M

 

Vercelli, Basilica di Sant’Andrea, Sala Capitolare

Angeli musicanti

Autocromia: gen. 1 (35/66) con piccola frattura d’angolo; coll. 85/16

Madonna col Bambino, già con attribuzione a Gaudenzio Ferrari

Autocromia: gen. 1 (-/109); coll. 85/16

 

Vercelli, Chiesa di Sant’Antonio

Crocefissione

Negativo: gen. 1 (92); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (92) in due copie; coll. MCT/R  Se. 21, MB/M

 

Vercelli, Chiesa di Santa Cateri­na, Oratorio

Ciclo di affreschi con le Storie di Santa Caterina

Martirio di Santa Caterina Negativo: gen. 1 (15); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (53/91); coll. 85/15

Conversione di Santa Caterina Autocromia: gen. 1 (-/26); coll. 85/15

Gruppo di figure con Santa Cate­rina, attualmente non visibile

Negativo: gen. 1 (17); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/37); coll. 85/15

 

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/32, -/33, -/34, -/35, -/36); coll. 85/15

Corona di angeli

Autocromia: part. 2 (-/90, 34/-); coll. 85/15

 

Non appartenente al ciclo

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (16) spaccata; coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (16); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/38); coll. 85/15

 

Vercelli, Chiesa di San Giuliano

Compianto sul Cristo morto

Negativo: gen. 1 (s.i. formato 13 X 18); coll. 1/85

Positivo: gen. 2 (14587 in tre co­pie+ una s.i. in formato 9x 13), part. 1 (s.i. in formato 9x 13); coll. FS/B. MCT/R Se. 21. MB/M, ISA.

Autocromia: gen. 1 (24/-) con frat­tura, part. 5 (25/49, 26/50, 27/51, 28/?8, 29/52) frattura d’angolo al­la 25/49; coll. 85/12

 

Vercelli, Chiesa di San Michele

Sacra Famiglia con Sant’Anna

Negativo: gen. 1 (13); coll. 1/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (-/64); coll. 85/13

 

Vercelli, Chiesa di San Paolo

Adorazione del Bambino

Autocromia: gen. 1 (9/46); coll. 85/14

Madonna della Grazia

Negativo: part. 11(18, 19, 20, 21, 22, altri s.i.) spaccata la 21; coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (14585); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (71/42), part. 5 (36/43, 72/44, 73/44, 38/45, 74/45);

coll. 85/14

 

Vercelli, Museo  Borgogna

Madonna col Bambino e i Santi Bernardino e Francesco. “Madon­na del cane”

Positivo: gen. 1 (s.i.) montato su cartone  verde con scritte in oro; coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (?/37), part. 1 (54/38); coll. 85/9

Stendardo della Confraternita di Sant’Anna, all’epoca conservato presso l’istituto di Belle Arti

Positivo: gen. 1 (14591); due copie coll. FS/B, ISA

Autocromia: gen. 1 (-/61); coll. 85/9

Adorazione del Bambino (Mae­stro vercellese, circa 1600), all’e­poca conservata presso Palazzo Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Negativo: gen. 1 (14); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (14); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/65); coll. 85/9

Madonna col Bambino, Santi e angeli musicanti, già con attribu­zione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 3 (52, altre s.i.); coll. 3/85

Autocromia: gen. 1 (-/115) con frattura; coll. 85/9

Annunciazione, all’epoca conser­vata presso l’Istituto di Belle Arti

Negativo: gen. 1 (69); coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (69); coll. MB/M

 

Dal ciclo di affreschi con le Sto­rie di Santa Caterina nell’Orato­rio della chiesa omonima, all’epo­ca conservati presso il Museo Leone

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/1, -/2,32/3, -/ 4, 31/5) fratturata la -/4; coll. 85/9

Battesimo di Santa Caterina

Positivo: gen. 1 (14582); due copie coll. FS/B,  ISA

Autocromia: gen. 1 (46/35), part. 2 (48/36, 49/18); coll. 85/9

Santa Caterina presenta i confra­telli alla Madonna

Positivo: gen. 1 (14583); due co­pie; con. MCT/R Se. 21, ISA

Autocromia: part. 2 (47/23?, 51/48); coll. 85/9

Incoronazione di Santa Caterina

Negativo: gen. 1 (9) spezzata; coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/24); coll. 85/9

 

Ciclo di affreschi dalla chiesa di San Francesco ora Sant’Agnese (Gerolamo e Pietro Francesco La­nino?), all’epoca conservati pres­so il Museo Leone, già con attri­buzione a Bernardino Lanino

Angeli musicanti, otto vele

Negativo: gen. 8 (1-8) spezzata la1; coll. 4/85

Autocromia: gen. 8 (-17, -/8, -/9, 38/10,41/11, -/12, -/13, 40/14); coll. 85/9

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (lO); coll. 4/85

Autocromia: gen. 1 (2/15), part. 1 (3/16) con ampie perdite del pig­mento colorato; coll. 85/9

Fregi

Autocromia: gen. 1 (-/25); coll. 85/ 9

Angelo che sorregge un finto ocu­lo

Autocromia: gen. 1 (-/60?) con lie­ve frattura; coll. 85/9

 

Vercelli, Museo Leone

Adorazione del Bambino (Gerola­mo Giovenone), all’epoca conser­vata presso la chiesa di San Cri­stoforo con attribuzione a Ber­nardino Lanino

Autocromia: gen. 1 (16/62); coll. 85/11

Adorazione del Bambino (bottega di Gerolamo Giovenone), all’epo­ca conservata presso l’Orfanatro­fio con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (12); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/63); coll. 85/

 

Vercelli, Ospedale

Madonna con Bambino e Santi , già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14584); coll. MB/ M

 

Collocazione ignota

Cristo alla colonna, Madonna col Bambino, all’epoca conservata presso Palazzo Gattinara con at­tribuzione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 1 (52); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (52); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/110) con frattura angolare, part. 2 (-/111, -/ 112); coll. 85/00

 

Collocazione ignota

Madonna col Bambino e due San­te (Giuseppe Giovenone il Giova­ne), all’epoca in collezione priva­ta, forse Marchese di Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (17162?) in due co­pie; coll. MB/M, FSIB

 

 

Note

 

[1] Pietro Masoero, La scuola pittorica vercellese, 1901. Il testo, manoscritto, inedi­to, che costituisce lo studio più approfondito svolto da Masoero sul tema, mi è stato gentilmente fornito da Pino Marcone, che rin­grazio, a cui si deve anche il pri­mo studio sul fotografo vercelle­se: Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973, da cui sono tratte tutte le indicazioni biogra­fiche non altrimenti indicate.

[2] Marcone, 1973, p. 21.

 

[3] “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p.  231.

 

[4] “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 4 (1892). Gli altri fotografi piemontesi entrarono in contatto con la S.F.I. solo in occa­sione del Congresso di Torino del 1898.

 

[5] Palestro: inaugurandosi l’ossario pei caduti del 30-31 maggio 1859. Vercelli: Gallardi & Ugo, 1893, Le fotografie vennero tradotte in incisione da A. Colombo, Angerer e Goschl di Vienna e P. Carlevaris.

 

[6] Boeri-Valenzani, Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, 1886;  con un breve testo introduttivo tratto dalla Vita e opere di Gaudenzio Ferrari pittore, pubblicato a Torino nel 1881 da padre Giuseppe Colombo, con sessantaquattro grandi stampe all’albumina da negativi al collodio. Le foto­grafie che corredano il volume, firmato dai due titolari dello stu­dio, vennero realizzate dal solo Pie­tro Boeri.

 

[7] Nella seduta del 21 ottobre 1898 Masoero presenta per la pri­ma volta la sua proposta di costi­tuzione di una scuola di fotogra­fia, approvata dal Congresso, di­battuta poi, sempre senza succes­so, nel corso dei successivi incon­tri almeno fino al Congresso di Roma del 1911. Solo nel 1909 ven­ne instituita a Torino la prima scuola di fotografia italiana, ma su iniziativa del locale Photo­Club: Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, p. 82.

 

[8] Pietro  Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).

 

[9] Ibid.

 

[10] Pietro  Masoero, La dilatazione dei supporti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78. Il problema tecni­co-metodologico connesso alla realizzazione, conservazione e utilizzazione del materiale foto­grafico documentario sarà af­frontato con grande lucidità e competenza negli anni successivi da Giovanni Santoponte.

 

[11] Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901. Il testo, edito per la prima volta nel­la Breve raccolta pubblicata dal­la Società Fotografica Subalpina quale strenna sociale per il 1900, venne ripreso dal “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167, e ristampa­to alcuni anni orsono nel “Noti­ziario” n. 13, del Museo Naziona­le del Cinema di Torino, 1970.

 

[12] Pietro  Masoero, l’Esposizione fo­tografica di Torino. Note e appunti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.129-134 . Ricordia­mo che Masoero si era già occu­pato di Secondo Pia in Rassegna del mese – Annotazioni, “Rivista Scientifico-Artistica di Fotografia: Bollettino mensi­le del Circolo Fotografico Lom­bardo” 7 (1898), pp. 132-133,177.

 

[13] Pietro  Masoero, Congresso foto­grafico internazionale di Parigi, prima parte, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.429-439. Il Congresso fotografico Internazio­nale si tenne a Parigi dal 23 al 28 luglio 1900 in concomitanza dell’Esposizione Universale. La con­ferenza di Masoero, forse corre­data da 29 diapositive di opere di Gaudenzio Ferrari, programmata in un primo tempo per la sera del 25 venne rimandata al 28 luglio e chiuse i lavori del Congresso.

 

[14] Si veda a questo proposito Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930), in “Storia dell’arte italiana”, I**, L’artista e il pubblico. Torino: Einaudi, 1979, pp.417.484, ed in particolare le affermazioni di Adolfo Venturi qui riportate, ricavate dalla Pre­messa al Catalogo dello stabili­mento fotografico Adolphe Braun del 1887, p. 471, riconfermate venti­cinque anni dopo dallo stesso Venturi nell’intervista rilasciata a Bragaglia: “debbo riconoscere che se questa [la storia dell’arte] sorta tra le ultime, si è affermata e ha progredito così rapidamen­te, lo è appunto in grazia della fo­tografia che permette gli studi di comparazione con maggiore faci­lità ed efficacia (…) come il migliore mezzo di riproduzione che di­strugge la ragione d’essere del­l’incisione e della calcografia”, Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. 17-19, 55-57, 71-73 (p. 18).

 

[15] Paolo Mantegazza, Introduzione, in Carlo Brogi, Il ritratto in fotografia : appunti pratici per chi posa.  Firenze: pei tipi di Salvadore Landi, 1895, p. 12. Mantegazza, fondatore e diretto­re del Museo Antropologico Etno­grafico di Firenze, era il presi­dente della Società Fotografica Italiana. Il brano citato riprende il tema della fotografia quale strumento democratico a lui ca­ro, che costituiva anche il nucleo centrale del discorso inaugurale della Società stessa, tenuto a Fi­renze il 20 Maggio 1889, cfr. Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976, pp. 199-214.

 

[16] Inutile ricordare che il riscat­to sociale compreso in questo progetto aveva limiti grandi e ben definiti che è facile riscontra­re anche nell’operato di Masoero: nonostante i suoi trascorsi di pre­sidente delle associazioni operaie vercellesi e di promotore della Scuola Professionale il suo nome non compare tra i sostenitori de­gli scioperanti del 1906 che lotta­vano per le otto ore lavorative, anzi la sua appartenenza alla As­sociazione Costituzionale Demo­cratica, nelle cui liste fu eletto nel 1909 assumendo poi l’incari­co di assessore alla Pubblica Istruzione, lascia chiaramente in­tendere a quale schieramento fos­se legato.

 

[17] La conferenza venne tenuta una prima volta a Torino nei pri­mi mesi del 1901 quindi ripetuta a Vercelli, Novara e Lodi; era cor­redata da più di 250 diapositive, tra cui erano comprese, e furono molto ammirate, le prime tricro­mie realizzate da Francesco Ne­gri. Le immagini erano il più del­le volte fornite direttamente da­gli autori stessi, come si ricava dal carteggio Masoero-Sella che si riferisce appunto a questa oc­casione: Archivio Sella, San Gero­lamo, Biella: Fondo Vittorio, car­teggio. Il testo della conferenza, non pervenuto, doveva forse cor­rispondere all’articolo dallo stes­so titolo pubblicato sul “Bulletti­no”, cfr. nota 8.

 

[18] Pietro Masoero, Il Rinascimento, 1902. Il testo mi è stato cortese­mente fornito da Pino Marcone. Anche l’attività professionale del­lo studio Masoero è in questi anni segnata da questa particolare at­tività, tanto che le inserzioni pub­blicitarie riportano: “Masoero Cav. Pietro. Studio fotografico. Diapositive da proiezione, per contatto, ridotte da negativi o tratte da positivi”,  Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, supplemento, p. 23.

 

[19] Pietro Masoero, La scuola, 1901, p. 33 passim; lo scrupolo di prepa­razione e di ricerca è testimonia­to anche dalla consistenza della bibliografia usata da Masoero che comprende ben 20 titoli. In alcune occasioni è anche riporta­to il giudizio di Gustavo Frizzoni, sebbene suoi testi non siano com­presi in bibliografia, ciò che fa­rebbe supporre una frequentazio­ne diretta già in quegli anni.

 

[20] Per la datazione degli affre­schi novaresi cfr. Giovanna Galante Gar­rone, in Gaudenzio Ferrari e la sua scuola. I cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino,  Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-maggio 1982), a cura di Giovanni Romano. Torino: Accademia Albertina Belle Arti, 1982.

 

[21] Cfr. nota 18.

 

[22] Cristina Mossetti, Interventi di tutela sul patrimonio artistico del novarese, in Alfredo D’Andrade: tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana  Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, p. 342.

 

[23] Cronaca dell’agitazio­ne per la conservazione del convento di santa Maria delle Grazie in Varallo, in Il chiostro di santa Maria delle Grazie in Varallo.  Novara, s.e.,  1905, p. 13.

 

[24] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli, “Rassegna d’arte”, 9 (1909), n. 7, pp.122-126; n.  8-9, pp. 154-158; n.  11, pp. 180-186; le tre parti avevano come sottotito­lo rispettivamente “Intorno alle asserite sue origini inglesi,” “Le ipotesi sulle origini francesi” e “Prevalenza dei caratteri naziona­li”.

 

[25] Francesc Picco, Vercelli.  Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[26] Atti del XIII Congresso storico subalpino,  “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, 16 (1911), p. 193.

 

[27] Guido Marangoni, Bernardino Lanino a Legnano, “Rassegna d’arte”, 10 (1910), pp.114-121. Le imma­gini che corredano l’articolo ­senza indicazione dell’autore ­non sembrano essere di Masoero, ma sarà necessario un confronto diretto con le lastre conservate al Museo Borgogna per stabilirlo in modo più preciso.

 

[28] Nella seduta del consiglio di Amministrazione del Museo Bor­gogna del 18 Dicembre 1920 Ma­soero propone che vengano espo­ste periodicamente le “incisioni, disegni e fotografie che numero­se ed importanti sono possedute dal Museo (…) per concorrere all’e­ducazione artistica del popolo” (Archivio del Museo Borgogna, Verbali). Dal necrologio di Masoe­ro, morto il 2 giugno 1934, pub­blicato su “L’Eusebiano” sappia­mo anche che le immagini di Ma­soero erano pubblicamente espo­ste (“le cui diapositive possiamo ammirare nel Museo Borgogna”).

 

[29] Pietro Masoero, La scuola vercel­lese, in Vercelli nella storia e nell’arte: guida artistica illustrata.  Vercelli: Gallardi,  1930,

pp.39-50.