Da strumento a patrimonio: documenti e opere  (2007)

intervento al convegno Fototeche a regola d’Arte, Siena, Santa Maria della Scala, 30 novembre – 1 dicembre 2007, promosso dal CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro di Siena

 

 

Ciò che mi propongo con questo intervento è di ripercorrere le vicende che hanno portato alla costituzione delle diverse raccolte che formano il patrimonio fotografico della Fondazione Torino Musei direttamente gestito dalla loro Fototeca[1], con la duplice intenzione di indagarne la natura (e di farne emergere quindi un’eventuale definizione, non solo tipologica[2]) a partire dalla considerazione dei diversi modi e delle differenti ragioni e occasioni che ne hanno determinato la crescita, tracciando un percorso che si sviluppa parallelo a quello della considerazione stessa della fotografia e – qui – delle fotografie. Poiché l’archivio non nasce in quanto tale, né risulta immediatamente chiara, nella storia museale, non tanto cosa debba intendersi per fototeca quanto la necessità della sua stessa esistenza. Più in generale credo che non sia difficile verificare come nel corso del Novecento si sia assistito ad uno slittamento e poi ad uno scambio semantico tra i due termini: convenzionalmente il termine  ‘fototeca’ veniva e in parte ancora viene riferito all’insieme delle immagini raccolte e criticamente ordinate da uno studioso, mentre col termine archivio si indicavano le strutture istituzionali di accesso (per quanto ridotto) e quindi lo strumento di condivisione di insiemi più o meno organizzati di fonti fotografiche. Oggi il primo termine ha goduto di una estensione semantica che rimanda all’assunzione delle funzioni già proprie del secondo sulla base, direi, di un corrispondente incremento quantitativo del suo ambito d’uso, che ha assunto come parametro l’insieme degli utilizzatori: passato dall’unità ad un numero tendenzialmente infinito. Da testimonianza degli interessi, del metodo e dell’opera di un singolo studioso alle necessità eterodirette di un’utenza. Il termine archivio mi pare oggi circoscritto a definire l’insieme del patrimonio fotografico documentario – e non è precisazione senza conseguenze – pertinente a una istituzione[3] ed eventualmente costituito da fondi ma anche (con variazioni e delimitazioni a volte incerte) da collezioni e semplici raccolte[4]. Ulteriore testimonianza infine del passaggio – credo irreversibile, specialmente dopo che se ne è consumata la fine – della fotografia da puro strumento conoscitivo e ausilio mnemonico a prodotto culturale e materiale (di cultura anche materiale, cioè) cui si riconosce una valenza, e quindi un valore di bene cui corrisponde finalmente una diversa modalità di lettura, e di accesso, ormai estesa al riconoscimento delle caratteristiche complessive del lavoro fotografico e degli oggetti che questo ha prodotto: delle fotografie.

Per questo credo possa essere di un qualche interesse provarsi a mostrare i nessi tra cronologia e definizione tipologica delle diverse raccolte che progressivamente hanno costituito il patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi, provando a identificare e poi a riflettere sulle conseguenze che il diverso statuto riconosciuto alle fotografie, ma meglio sarebbe dire alla Fotografia, e quindi ai fototipi: dalla categoria all’oggetto, ha determinato nel tempo in relazione alle mutevoli concezioni culturali espresse dall’istituzione museale. 

In questa prospettiva credo sia ormai tempo di riconsiderare le pur notevoli riflessioni di Rosalind Krauss, che aveva auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per] cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[5] Vorrei dire allora che, per quanto concettualmente problematici in ambito fotografico[6], la figura, il ruolo, la funzione, la consapevolezza, insomma il progetto autoriale – per quanto minimo e tecnologicamente condizionato – non possono essere dimenticati o peggio abbandonati: pena l’impossibilità di comprendere storicamente e culturalmente il senso dei materiali prodotti e delle loro sedimentazioni. Con l’avvento della tecnologia digitale improvvisamente tutta la fotografia è diventata ‘antica’, quindi tendenzialmente passibile di essere riconosciuta nel suo “statuto di archivio”. Il problema non è però semplicemente questo: non si tratta tanto di sottoporre a critica le categorie indicate dalla Krauss, quanto di stigmatizzarne l’uso poco consapevole (e sovente improprio) che ne è stato fatto. Penso infatti sia inutile e dannoso – oltre che antistorico – provarsi ad escluderle, ma che sia indispensabile liberarle da ogni implicazione meccanicamente e acriticamente derivata dall’orizzonte teorico e metodologico, dalla tradizione estetica, e mercantile, della storia e della critica d’arte, che va intesa solo come uno dei possibili orizzonti interpretativi. L’immagine fotografica deve essere letta e intesa in una prospettiva più complessa e pertinente, che provo a dire culturale; in questo senso è necessario assegnare a ciascuna fotografia un doppio valore documentario: prodotto di una cultura (sociale e individuale, tecnologica e autoriale) che è precisamente espressa da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto come nella sua strutturazione discorsiva, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della condizione storica del referente, rispetto alla quale il valore è fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Ciò implica il riconoscimento teorico e fattuale dell’opera fotografica non solo come bene culturale, quale forma particolare di documento/ monumento aperto e disponibile a letture diverse, ma anche quale prodotto e agente di una storia più intrecciata e complessa, a sua volta esito attuale di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri)produzione e comunicazione tecnologica dell’informazione.

La fototeca e l’archivio, nella loro possibile configurazione e condizione materiale e – ancor più – nell’infinità virtuale delle reti, sono oggi soprattutto strumenti di accesso, di acquisizione e quindi, necessariamente di appropriazione delle immagini che vi si trovano. Non è mia intenzione affrontare, neppure sommariamente, le implicazioni di questi scenari, semmai richiamare l’attenzione sulle conseguenze che ne possono derivare in termini di produzione (o negazione) culturale. Vorrei ricordare come proprio l’estensione incommensurabile delle possibilità di accesso, acquisizione e manipolazione richiedano una ancora più forte e precisa definizione e rivendicazione dell’identità di ciascuna delle fotografie che formano ogni archivio o fototeca che si voglia “a regola d’arte”[7].

Non è infatti difficile pensare al patrimonio iconografico che le costituisce come a un’infinita fonte di possibilità discorsive, dove le immagini possono diventare altro da sé, disponibili per la strutturazione di nuovi discorsi, di altre narrazioni. È quanto esattamente è avvenuto e avviene nella pratica critica di ogni storico dell’arte come in quella artistica, a partire almeno dalle avanguardie storiche. È quanto avviene ogni giorno nelle diverse occasioni della comunicazione e dell’uso. Tutte metodiche e pratiche irrinunciabili, che dimostrano però la necessità di ancorare le immagini alla loro identità originaria come al riconoscimento della loro fortuna critica, per quanto ridotta. Una costruzione che è fatta di occasioni e di autori, di scelte tecnologiche più o meno consapevoli, di ragioni e di progetti; di soglie anche minime di considerazione, di decisioni e di caso (e di casi, ovvio) che han fatto sì che dopo essere state prodotte non fossero distrutte o disperse. Senza la consapevolezza e la descrizione (che chiamiamo catalogazione) di quella rete causale che costituisce la loro storia di produzione (e di conservazione) esse perdono la possibilità di essere comprese, di essere coinvolte in un discorso nuovo che non le condanni all’oblio dei materiali inerti.

Provare a seguire, a inseguire anche[8], le mutazioni incorse nella concezione della fotografia espressa da un’istituzione museale consente allora di comprendere come il suo limitarsi a intenderla “nel suo statuto di archivio” non solo non ne esaurisca il senso ma anche abbia comportato, e a volte comporti ancora rischi non solo per la sua comprensione critica, ma per la sua stessa tutela materiale e giuridica.

 

La fotografia al Museo

Il Museo civico di Torino, inaugurato il 4 giugno 1863,   “nei primi tempi non ebbe carattere ben definito: alle collezioni di oggetti antichi romani e medioevali [rinvenuti nel corso delle demolizioni della Cittadella e in occasione degli scavi per la nuova ferrovia a Porta Susa, 1859 – 1861], ai quadri antichi e alle memorie patrie si erano aggiunte due raccolte: la preistorica e l’etnologica, in parte avuta in dono e in parte acquistata.”[9] I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione, sotto forme differenti e in occasioni diverse per la maggior parte oggi non identificabili, ma delle quali può essere utile tentare una prima classificazione: opere sistematiche, quali i bellissimi fascicoli dedicati alle incisioni di Marco Antonio Raimondi da Benjamin Delessert nel 1853-1855, accompagnati da una lucidissima introduzione metodologica[10], o gli album illustrativi e celebrativi, come Turin ancien et moderne che Henri Le Lieure pubblicava nel 1867 con un ricco corredo di testi di autori diversi, una vera e propria guida illustrata alla città, forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dei testi. Alla stessa tipologia appartengono le prime riproduzioni fotografiche di dipinti comprese negli Album della Società Promotrice delle Belle Arti di Torino a partire dal 1863[11], considerate una “bella novità” nonostante le riserve legate alla meccanicità del procedimento, che ne escludeva l’artisticità,  come quelle che costituiscono l’album fotografico dedicato a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, realizzato da Cesare Bernieri nel 1866, con presentazione di Federico Sclopis[12]. Sono esempi precoci di riproducibilità tecnica delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimoniano gli interventi nelle pagine degli stessi Album di Federico Pastoris (1862) e ancor prima (1860) di Carlo Felice Biscarra, il quale avrebbe ripreso il tema ancora dieci anni dopo in un articolo dedicato alla tecnica di stampa fotoglittica, meglio nota come woodburytipia, “adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire”[13], la cui licenza italiana era stata recentemente acquistata da Le Lieure “con ingente somma”.

Ben più numerose, come è lecito attendersi, erano le riproduzioni realizzate e pervenute in forma occasionale ed episodica, legate a richieste di perizia e proposte di acquisto[14] di dipinti o di oggetti diversi così come a scambi di cortesie tra artisti e responsabili museali.[15].

A Torino, in ambito artistico (ed è nuovamente una distinzione significativa e necessaria[16]) ancora alle soglie del XX secolo siamo in presenza non tanto di vere e proprie raccolte quanto di forme di accumulo non programmato, in cui – secondo la consueta considerazione della fotografia propria della cultura ottocentesca europea (la “umile ancella” di Baudelaire[17]) – non solo prevaleva la funzione strettamente referenziale, ma mancava ogni idea benché positiva di uso sistematico di questo potente strumento documentario, mancava ancora – non solo da noi, in quegli anni – ogni idea di catalogo, e ancor più di archivio.

Ciò valeva ancora per Vittorio Avondo (1836 – 1910) pittore e collezionista, direttore dal 1890 al 1910 del Museo Civico torinese, una delle figure centrali della cultura torinese a cavallo tra XIX e XX che pure usò della fotografia per molte e diverse ragioni[18]. Sono riferibili agli anni della sua formazione le trentasette immagini di soggetto romano, tra cui un nucleo significativo di stampe delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855, mentre dipendono dai diversi ruoli istituzionali da lui successivamente ricoperti la presenza della serie di vedute di architetture piemontesi e valdostane realizzate nel 1882 da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per la Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino[19]  o quella – con figuranti in costume – realizzata ancora da Ecclesia nel 1884 al Borgo Medievale di Torino costruito per l’Esposizione generale italiana del 1884 sotto la direzione di Alfredo d’Andrade; un’opera in cui più chiara risulta a diversi livelli l’influenza della cultura della fotografia (l’idea di catalogo, l’idea di vero/simile).[20]

Alla direzione museale di Avondo va poi riferito il progetto “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo”[21], edita nel 1905 sotto il titolo di Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica[22]. Il volume ebbe ampia distribuzione e notevole successo, richiesto da studiosi e istituzioni diverse: da Robert Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole d’Arte applicata di Venezia a R. Agostoni fabbricante torinese di mobili, adempiendo così a quella funzione di istruttiva raccolta per “ricchi e poveri” cui mirava anche il coevo progetto di Pubblica Raccolta Fotografica che portò alla costituzione del “ricetto” di Brera[23].  Sebbene fosse una campagna documentaria dedicata al patrimonio museale nessuna traccia documentale porta a credere che questa implicasse la costituzione di un archivio o di un qualsivoglia strumento di studio. Di un progetto di comunicazione a fini celebrativi semmai, come negli stessi anni accadeva (sempre per restare a Torino) con le collezioni dell’Armeria Reale, ma anche – senza contraddizione – con intenti didascalici e divulgativi, rivolgendosi paternalisticamente agli artigiani, i destinatari ideologicamente ideali di ogni arte applicata, meglio sarebbe dire applicabile a un’attività che solo nominalmente si poteva definire industria.

Una prima consapevole attenzione per la raccolta sistematica di documentazione fotografica nell’ambito dei Musei civici torinesi si ebbe con Giovanni Vacchetta, nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo. Da tempo[24] sensibile al dibattito internazionale e locale sulla costituzione di raccolte fotografiche documentarie, tra i suoi atti iniziali vi fu l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico mediante l’acquisizione delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in vista della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 in occasione del cinquantenario dell’Unità [25], e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912.  Secondo la ricostruzione fatta da Vittorio Viale, in questo periodo il Museo disponeva quindi di un corpus di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”[26]. Notazione forse velatamente polemica nei confronti del ben più ricco e chiuso archivio fotografico delle Soprintendenze, ma per noi particolarmente interessante per quanto rivela dell’idea di archivio propria della Direzione museale: non gli album e le stampe ottocentesche, e neppure la documentazione sistematica (seppur parziale) del patrimonio museale, ma quella del patrimonio artistico regionale, mentre Lorenzo Rovere – successore di Vacchetta alla Direzione del Museo – andava costituendo per personali ragioni di studio una fototeca vera e propria, dove le circa seimila immagini (fototipi e cartoline, anche non fotografiche) erano da lui raccolte e organizzate in stretta relazione con le schede di storia dell’arte e con il ricco fondo librario[27].

Vittorio Viale, che gli successe nel 1930,  procedette lungo la direttrice tracciata da Vacchetta e l’anno successivo formalizzò l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino con una prima dotazione annua di L.8.000 mediante la quale diede  avvio ad una campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese”[28]  che ampliava la documentazione prodotta da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927, ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere. Nello stesso tempo non rinunciava però alla possibilità di costituire un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (formulata nel 1932 al Congresso della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di Cavallermaggiore), allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, ritenuto a rischio di dispersione: per questo invitava a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” [29]

Le sollecitazioni del Direttore non rimasero senza risposta: negli anni immediatamente successivi confluirono infatti nell’Archivio Fotografico dei Musei civici torinesi le fotografie raccolte dalla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti (oggi non chiaramente identificabili), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone del 1931 e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il suo Theatrum Novum Pedemontii, (Düsseldorf: L. Scwann, 1931). A queste si aggiunsero successivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939, Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939 o ancora l’imponente Mostra del Barocco piemontese, del 1963 per la cui preparazione vennero realizzate quasi settemila riprese.

Per quanto significative nei loro esiti le committenze istituzionali hanno costituito però solo una parte del meccanismo di accrescimento e diversificazione del patrimonio fotografico museale, che si è progressivamente arricchito per rilevanti acquisizioni di Fondi, senza determinare però alcuna significativa mutazione nella considerazione della fotografia. Solo con benevola attenzione  possiamo riconoscere  alcuni slittamenti di senso del suo valore documentario: passato inavvertitamente da referenziale a storico. Ciò è stato specialmente vero per le circa cinquemila stampe fotografiche comprese nel Fondo d’Andrade[30], donato dal figlio Ruy nel 1931. Il recupero e la salvaguardia di questo fondamentale patrimonio da un lato ribadivano l’originario utilizzo referenziale della fotografia mentre la assumevano – forse per la prima volta in questo contesto e per quanto implicitamente – tra le fonti documentarie storiche. Anche la tormentata acquisizione del Fondo Gabinio[31], parzialmente acquisito nel 1940[32], rispondeva ad analoghe esigenze ed è proprio al permanere del puro interesse referenziale che dobbiamo la perdita di una rilevantissima parte della produzione di quello che è stato uno dei più significativi autori dei primi decenni del Novecento. Delle 4424 lastre che costituivano la consistenza originaria dell’offerta, allo stato attuale ne risultano presenti solo 1078 essendo le altre – relative a soggetti già documentati – state scartate dallo stesso Direttore. Viale si dimostrava così,  nonostante la rilevanza della cultura fotografia nel contesto torinese di primo Novecento, ancora insensibile ai suoi autonomi valori espressivi, incapace di accogliere l’idea del fotografo come autore, della fotografia come opera (non necessariamente d’arte)[33], del valore intrinseco del fondo come corpus.

Per registrare un diverso atteggiamento, una differente sensibilità occorre procedere ben oltre negli anni e giungere almeno alla fine del secolo quando, nel 1997, venne perfezionata l’acquisizione dell’importante fondo di Stefano Bricarelli[34], autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, per  donazione della figlia Carla. In questa occasione finalmente ciò a cui si è mirato sono stati proprio il riconoscimento e la salvaguardia dell’intero archivio. La volontà di acquisizione si è fondata sul riconoscimento del valore autoriale, considerando solo in seconda istanza quello della testimonianza documentaria che pure  è inevitabilmente presente e non può, né deve essere disconosciuto.

 

And in the end…

Le Fototeche d’Arte saranno (mai state?) “a regola d’arte”: e cosa mai si potrà intendere con ciò? Che è l’arte a dettarne le regole, ovvero il suo studio? E se il Museo è il tempio dell’Arte com’è che questo – almeno qui, da noi, in una storia non brevissima –  per lungo tempo non ha avuto una Fototeca, ma forse un Archivio e certamente delle raccolte, anche dei Fondi, ma non delle collezioni? E poi, ancora: forse che la Fototeca d’Arte corrisponde a un’idea di fotografia che non corrisponde più allo stato dell’arte?

Insomma: le vicende sottese alla definizione storica di un termine (non di una struttura: concettuale e materiale) apparentemente semplice e piano come ‘fototeca’ mostrano  ancora una volta come solo il lavoro critico possa sperare di recuperare il senso delle diverse accezioni storicamente determinate, forse anche per farlo fruttare nell’oggi. Basta però un solo passo falso per ritornare alla partenza: come nel gioco dell’oca.

 

Note

 

[1] La Fondazione costituisce dal 2002 l’ente autonomo di gestione dei Musei civici torinesi: Borgo e Rocca Medioevale; GAM – Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea; MAO – Museo di Arti Orientali; Palazzo Madama – Museo civico d’Arte antica,  Biblioteca d’Arte e Fototeca. Le diverse Raccolte e Fondi sono prevalentemente conservati presso l’Archivio fotografico, che ha nella Fototeca la sua struttura di gestione e di accesso e – ad oggi – una consistenza complessiva di circa 310.000 fototipi, cui si sono aggiunte nel corso del 2007 le circa 120.000 fotografie già facenti parte del patrimonio della Fondazione Italiana per la Fotografia di Torino. Numerose immagini sono presenti anche nella Biblioteca d’Arte e, a partire dall’ultimo decennio, nelle Collezioni della GAM, qui specialmente nella forma propriamente contemporanea di opera, frutto di una politica di acquisizioni espressa non solo in relazione a singoli eventi espositivi, che ha portato all’arricchimento del patrimonio museale con opere di Gabriele Basilico, Mario Cresci, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Nino Migliori, Ugo Mulas, Paolo Mussat Sartor, per non citarne che alcuni. 

[2] Nel corso di un recente convegno dedicato agli Archivi fotografici on-line, Tiziana Serena si è provata – tra le altre cose – a misurare la varietà terminologica con cui si indicano questi “multiformi ed eterogenei insiemi di sedimentazione di immagini fotografiche (‘raccolte fotografiche’, ‘fototeche’, ‘iconoteche’, ‘collezioni’, fino a sfondare i confini disciplinari per riferirsi a ‘fondi’ e ‘archivi’)” (p.3 ) per arrendersi infine, almeno in occasione del suo intervento in queste giornate senesi (“chiamatele come volete”). Questo provocante cedimento mi pare un ulteriore indizio della distanza che ancora ci separa da una possibile definizione condivisa, ma è un invito che non vorrei accogliere, e – in termini generali – non avrei paura a provare a definire cosa sia un Fondo fotografico (in attesa della scheda ICCD, certo) cosa un archivio o una fototeca. Certo non mi pare si sfondi alcun confine disciplinare parlando di fondi e archivi anche a proposito di fotografie, nel momento in cui queste vengono a costituire insiemi storicamente e culturalmente determinati e identificabili, mentre altra questione potrebbe porsi (forse) in merito alla definizione di fototeca, sebbene anche qui la risposta (non temendo di misurarsi con la banalità) sembra essere piuttosto semplice, soprattutto se pensata in analogia con altre strutture organizzate di accesso al contenuto informativo di specifiche tipologie di oggetti, sulla scia del modello antico delle biblioteche. Ciò di cui invece sono convinto è che sia poco utile guardare ai sistemi utilizzati dai produttori, dai fotografi per tentare di individuare modelli o risposte: le tassonomie e i criteri organizzativi messi a punto da questi autori si muovono su di un terreno e in un quadro diverso; bastano e devono bastare a loro stessi proprio in quanto attori privilegiati della relazione coi materiali da loro stessi prodotti. La loro organizzazione non è intesa quale percorso di conoscenza, quale momento di una ricerca (se non, a volte, di senso) ma più comunemente quale necessità di reperimento. Cfr. Tiziana Serena, Il posto della fotografia (e dei calzini) nel villaggio della memoria iconica totale. Uno sguardo sulle  raccolte fotografiche oggi, in Archivi fotografici on-line, Cinisello Balsamo, Museo di Fotografia Contemporanea, giugno 2007, a cura di Gabriella Guerci, Atti disponibili on-line all’indirizzo https://www.mufoco.org/x-portfolio/atti-del-seminario-archivi-fotografici-italiani-online-maggio-2006/ (10 12 2022).

[3] Quasi superfluo ricordare che si parla di ‘archivio’ anche in relazione al patrimonio fotografico di enti diversi dai musei (industrie, università, strutture ospedaliere, organi di polizia e istituzioni militari e simili, editori e giornali ecc.) così come all’intera produzione di singoli fotografi o agenzie. Pur senza estendere ulteriormente la riflessione alle implicazioni pertinenti a questi differenti contesti, credo sia utile ricordare come ciascuno di questi archivi si trasformi in fondo nel momento in cui venga versato in una struttura conservativa di ordine superiore.

[4] Pur non potendo entrare nel merito vorrei ricordare come non di rado il lavoro critico condotto su di un corpus di opere determini un mutamento anche sostanziale del riconoscimento autoriale, con conseguenze giuridiche ma anche conservative, mercantili  e patrimoniali.

[5] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondadori, 1996, p.48. Una profonda riconsiderazione critica di alcuni concetti fondamentali della cultura fotografica è stata operata anche da André Rouillé, La photographie entre document et art contemporain. Paris: Gallimard, 2005, che ha espresso forti riserve sul valore degli apporti strutturalisti e semiotici nella definizione della fotografia.  Se la storia dell’arte e quella della fotografia si devono trasformare in una più generale e problematica storia delle immagini che aspira ad essere una storia, necessariamente culturale, delle rappresentazioni, allora tutti i nostri strumenti analitici e critici andranno ripensati allontanandosi – come già aveva sostenuto Ian Jeffrey anni fa (Introduction, in Id., Photography. A Concise History. London: Thames and Hudson, 1981, pp. 7-9) – dai modelli interpretativi mutuati più o meno consapevolmente dalla storiografia artistica. In questo senso credo vada accolto l’invito, forse la sfida di André Gunthert a verificare la possibilità di pensare una “storia del fotografico”, inserita nel più ampio orizzonte di studi di cui si è detto; si vedano i diversi interventi contenuti in Joan Fontcuberta, ed., Photography. Crisis of History. Barcelona: ACTAR, 2001.

[6] Nella contemporaneità lunga che si avvia con le prime avanguardie storiche la figura e il ruolo dell’autore in relazione allo statuto dell’opera sono stati certamente condizionati da ciò che negli anni recenti è stato definito come il “fotografico” cioè “una logica di funzionamento dell’immagine e una sua relazione con la realtà, con l’autore e con i fruitori tipica della fotografia, ma comune anche a molte altre espressioni dell’arte contemporanea (…) un vasto e unitario (per quanto sfaccettato) ambito d’esperienza (…) in cui i confini tradizionali tra fotografia e arte sembrano venir meno, o piuttosto costituire essi stessi un nuovo campo di attività e di teoria.”, Roberto Signorini, Arte del fotografico: i confini della fotografia e la riflessione teorica degli ultimi vent’anni. Pistoia, Editrice C.R.T.: 2001, p. 7. Per quanto riguarda l’altro ambito problematico di definizione della figura dell’autore, quello catalografico, mi permetto di rimandare al mio Oggetti, autori, cataloghi, in Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, Atti del convegno (Prato, 30 novembre 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato, Archivio Fotografico Toscano: 2001, pp.37-42 in cui riflettevo criticamente sulle conseguenze dell’eccesso di autorialità che caratterizzava l’approccio concettuale su cui si fonda il tracciato della Scheda F/ ICCD del 1999, anche qui riducendo la feconda ambiguità della fotografia.

[7] In termini più generali “il significato di ogni fotografia è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa. Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto socio politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria; impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.” Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History. Cambridge – Massachussets: The MIT Press, 2001, pp. VIII-IX (traduzione di chi scrive).

[8] Le ricerche condotte sulla formazione delle raccolte fotografiche che costituiscono il patrimonio della Fondazione Torino Musei – ma il problema è certo comune ad altre istituzioni simili – hanno mostrato con grande evidenza come sia difficile anche solo ritrovare tracce documentali delle diverse fasi e occasioni in cui queste sono state storicamente acquisite, per non dire delle ragioni. Rimando per questo al volume da me curato Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005, ma voglio almeno ricordare, a titolo esemplificativo, come il “Dessin photographique d’après le procedé de M. Daguerre” con la Veduta della chiesa della Gran Madre di Dio, realizzato da Enrico Federico e Carlo Jest l’8 ottobre 1839, ad oggi il più antico dagherrotipo italiano noto, venne rinvenuto nei depositi museali solo nel 1977, senza che se ne sia potuta stabilire la provenienza o la data di ingresso.

[9]Memoria sulla storia del Museo e le sue collezioni, 1899, citata in Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei civici: Inventario 1862 – 1965, I. Torino: Città di Torino, 2001, p. 27.

[10] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa l’autore dichiara che “les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Marc-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches : tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine ; ces procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p. 27.

[11]Cfr. Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera/estate 1991, pp.30-39.

[12]L’album è costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. A Bernieri si deve anche l’importante lavoro di documentazione del cantiere del Canale Cavour, cfr. P. Cavanna, Culture photographique et societé en Piemont: 1839-1998,  “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), n.2-4, pp. 145-160, online https://www.persee.fr/doc/mar_0758-4431_1995_num_23_2_1565 (10 12 2022).

[13] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, 4 (1870), p. 58.

[14] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nel Fondo Avondo,  cronologicamente riferibili per la gran parte agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della sua Direzione (1910). Tale materiale, sinora mai studiato, presenta un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese, e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza della pervasività della fotografia nella cultura delle belle arti sin dai primissimi decenni successivi all’invenzione.

[15] Sebbene apparentemente distante dal tema delle vere e proprie ‘fototeche d’arte’ credo valga almeno la pena di ricordare la consuetudine dello scambio tra artisti di carte de visite o di ritratti ambientati, ciò che ha portato alla formazione di vere e proprie gallerie tascabili che sono a loro volta la visualizzazione di trame di relazione in molti casi non altrimenti documentabili, sebbene allo stato attuale delle conoscenze a volte irrimediabilmente mute. (Si confrontino ad esempio le serie di ritratti pubblicati in Telemaco Signorini: una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti 8 febbraio-27 aprile 1997). Firenze: Artificio, 1997 e in  Vittorio Avondo e la fotografia, 2005). Vorrei ancora aggiungere la consuetudine, già ottocentesca, di commissionare e conservare la documentazione fotografica della propria produzione artistica, come fu ad esempio per Domenico Morelli, che raccolse alcune centinaia di riproduzioni di suoi dipinti e disegni  (cfr. Domenico Morelli: il pensiero disegnato, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM, 2001). Quella pratica, poi ampiamente diffusa sino all’oggi, ha portato alla costituzione di fototeche d’arte di tipologia ancora differente da quelle considerate in queste giornate di studi, ma altrettanto problematiche e interessanti.

[16] Per una puntuale considerazione delle  diverse iniziative in ambito nazionale si veda Marina Miraglia, “La fortuna istituzionale della fotografia dalle origini agli inizi del Novecento”, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Soprintendenza per i Beni Artistici  e Storici, 2000, pp. 11-21. Diverso fu l’atteggiamento – in ambito internazionale e poi italiano – nei confronti del patrimonio architettonico, oggetto di sistematiche attenzioni a partire almeno dal 1851.

[17] Giovanni Fiorentino, L’Ottocento fatto immagine. Palermo: Sellerio, 2007, pp. 76 passim, ha recentemente messo a confronto queste posizioni con il diverso pensiero dell’americano Oliver Wendell Holmes in un affascinante quadro sulle origini della comunicazione di massa.

[18] Tra i  beni pervenuti al Museo col suo legato testamentario del 1911 risultano circa  3000 fotografie  che solo con una accurata operazione critica  è stato possibile assegnare rispettivamente alla sua biografia ovvero al suo ruolo istituzionale. Cfr. Vittorio Avondo e la fotografia, 2005.

[19] Nel  1878 il Ministro della Pubblica Istruzione aveva invitato ogni prefetto a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” (“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880, p. 10). Nell’ottobre dello stesso anno la neonata Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità di Torino discuteva la proposta ministeriale, ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, venne deliberato di assegnare il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta a due dei migliori professionisti piemontesi Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina) e Vittorio Ecclesia, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli. In occasione della Esposizione generale italiana del 1884 prese poi avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si svolse in quella occasione aveva affidato al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia, 1887) questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale.  (Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1); è utile ricordare a questo proposito che un analogo progetto di costituzione di un Museo di Architettura e Belle Arti della Liguria, da realizzarsi nella chiesa restaurata di Sant’Agostino a Genova, fosse stato avanzato già nel dicembre 1883 proprio da Alfredo d’Andrade, figura centrale nelle vicende della realizzazione del Borgo Medioevale di Torino e del citato Congresso torinese del 1884 (cfr. Giorgio Rossini, “Chiesa di S. Agostino”, in Alfredo d’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, pp. 437-446).

[20] Tra la documentazione fotografica pervenuta al Museo torinese durante la direzione di Avondo va ricordato anche l’importante nucleo di stampe presentate in occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura inaugurata nel febbraio del 1890.  A conclusione dell’evento le opere esposte vennero affidate al locale Circolo degli Artisti per essere quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900  al costituendo Museo civico di Architettura, poi non realizzato. Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo civico anche decine e decine di fotografie, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

[21] Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80. Il progetto editoriale originava dalla divisione, stabilita nel  1892-1893, delle due sezioni museali: la pinacoteca moderna venne  spostata nella palazzina realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 nell’allora Corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris) sul sedime dell’attuale Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, mentre la sezione di Arte Antica rimase nella primitiva sede di via Gaudenzio Ferrari.  Inizialmente prevista per la grande esposizione del 1898, la pubblicazione vide la luce solo nel 1905 per una serie di difficoltà istituzionali e produttive. Della campagna documentaria realizzata per l’occasione attualmente si conservano in Archivio solo alcune decine di stampe originali.

[22] “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, da riprese appositamente effettuate dalla Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy”, come specifica il sottotitolo.

[23] Il testo integrale del progetto è stato pubblicato da Andrea Strambio, Profilo documentario della Fototeca di Brera, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, 2000, pp. 29-35 (p.32).

[24] Nel 1897 Vacchetta aveva già elaborato per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  mediante l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti lo portarono poi a ridimensionare il progetto, ridotto infine alla più vaga intenzione di ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro,  Maristella Pecollo, a cura di, G. Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare. Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p. 141). L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, come quella del 1890, poi cedute – come si è detto – al Museo Civico nel maggio 1900.

[25] Quella campagna fotografica venne nello stesso anno ampiamente utilizzata per il volume dedicato a Torino, edito dallo stesso Istituto per la cura di Pietro Toesca.

[26] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi,  1933, p. 4.

[27] Il materiale raccolto da Rovere (1869-1950) è entrato a far parte del patrimonio museale alla morte dello studioso, per donazione da parte della famiglia. La documentazione iconografica, suddivisa per autore o per scuola, riguarda il patrimonio artistico, in particolare pittorico in un arco cronologico che giunge, pur con limitazioni progressive sino al XIX secolo, mentre quasi nulla è la documentazione di opere del Novecento. Allo stato attuale delle conoscenze non risulta invece che Rovere avesse promosso l’accrescimento della raccolta fotografica museale, sebbene la sua attenzione per i temi della documentazione fotografica risalisse almeno al 1911, quando aveva proposto alla Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico”, coinvolgendo nell’iniziativa fotografi dilettanti e professionisti. (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, p.193).

[28] Viale 1933, p.5.

[29] Ibidem.

[30] Sulla figura e l’opera di D’Andrade risulta ancora fondamentale il riferimento a Alfredo d’Andrade 1981.

[31] Sulle vicende che portarono progressivamente all’acquisizione di questo Fondo si veda Mario Gabinio: dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890 – 1938, catalogo della mostra (Torino 1996 – 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi, 1996.

[32] Anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Carlo Nigra: 1940-1942; Lorenzo Rovere: 1950; l’editore Celanza: 1951) e alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’Archivio fotografico è valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiungono verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio (cui si aggiunse l’acquisto di circa un migliaio di stampe nel 1991),  più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti.

[33] La fortuna critica della figura e dell’opera di Gabinio credo costituiscano un caso esemplare di quanto la considerazione delle fotografie (non della Fotografia) quale ‘documento’ o quale ‘opera’ abbia rilevantissime implicazioni in termini di salvaguardia e tutela, non solo fisica ma anche giuridica delle stesse, per tacere delle implicazioni patrimoniali.

[34] Si veda Stefano Bricarelli: fotografie, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: GAM, 2005.   Il Fondo è costituito da circa 35.000 negativi su pellicola, 2700 stampe in diverse tecniche e circa 2000 diapositive, con cronologia 1908 – 1985. Quasi superfluo poi ribadire che – come  anche per Gabinio, e come sempre dovrebbe accadere – solo la disponibilità di un fondo fotografico sostanzialmente esaustivo  se non, illusoriamente, completo consente di  affrontare compiutamente lo studio critico di un autore.

Oggetti, autori, cataloghi (2001)

 

in, Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato 30 novembre 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Archivio Fotografico Toscano, 2001, pp. 37-42

 

 

 

Pensare / Classificare

 

                                                                                                     Che cosa significa la barra di divisione?

                                                                              Che cosa mi si domanda, alla fine? Se penso prima di classificare?

                                                                                    Se classifico prima di pensare? Come classifico ciò che penso?

                                                                                                  Come penso quando voglio classificare?

Georges Perec,  1985

 

 

 

Considero – come molti – un esito particolarmente significativo e un momento importante per la cultura fotografica in Italia la messa a punto da parte dell’ICCD del modello di strutturazione dei dati della scheda di catalogo relativa alle fotografie, e auspico una sua assunzione operativa generalizzata  al fine di porre termine al proliferare di modelli e tracciati a volte di indubbio interesse o valore, e certamente tra loro compatibili o integrabili, ma ormai sostanzialmente superati in termini gestionali  proprio dalla pubblicazione della scheda “F”, poiché ritengo che anche nell’ambito delle politiche di conservazione e tutela del nostro patrimonio culturale è indispensabile, al di là di ogni dirigismo, continuare a riconoscere un ruolo centrale alle istituzioni dello stato affinché risulti concretamente perseguibile l’obiettivo della condivisione diffusa dei dati e delle conoscenze.

Per queste ragioni, e nonostante l’avvenuta pubblicazione della prima parte delle norme possa costituire un limite imposto agli esiti operativi di queste riflessioni, ritengo più che mai importante sottoporre a verifica alcuni dei principi ordinatori sottesi alla loro redazione, per contribuire a meglio definire le modalità di trattamento dei dati che derivano da quella operazione critica standardizzabile che, per la caratteristica assenza di dati testuali, è la catalogazione delle immagini fotografiche, nella convinzione che la messa a punto e la condivisione di alcuni concetti di base abbia fondamentali conseguenze: metodologiche, strategiche e operative.

 

Come è buona norma in ogni progetto catalografico l’obiettivo primo e primario è quello della definizione della natura degli oggetti cui ci si intende applicare, ma poiché nel modello proposto dall’ICCD questa si lega indissolubilmente al  ruolo svolto dall’autore, le considerazioni che seguono tenteranno in particolare di analizzare e discutere le implicazioni di questo nesso, e ciò facendo giungeranno a lambire più spinose questioni intorno alla natura della fotografia e delle fotografie, non ridefinibili in questo contesto, ma certamente rilevanti specialmente quando il nostro riflettere e operare siano orientati alla catalogazione[1].

 

Nell’articolazione strutturale della scheda F il paragrafo og-oggetto è stato destinato a contenere le informazioni che consentono “la precisa e corretta individuazione, sia tipologica che morfologica del bene catalogato”, a partire dalla sua “connotazione funzionale”. Da questa è fatta derivare la necessità di distinguere non solo tra negativi e positivi, ma anche di aggiungere altre classi quali le diapositive (che sono però in tutta evidenza dei positivi) e i cosiddetti unicum, identificati come “immagini fotografiche «uniche», ottenute cioè senza mediazione di «negativi» e che, a loro volta, non possono essere utilizzate come « matrici»” (p.74), definizione estremamente pertinente,  ma certo non immediatamente corrispondente alla dichiarata individuazione del bene in termini di connotazione funzionale: è  chiaro infatti che anche queste tipologie di immagini – se considerate sotto il profilo funzionale – sono sempre (state) utilizzate quali positivi; non solo, questa incertezza definitoria aumenta se consideriamo le esemplificazioni proposte a chiarimento, tra le quali oltre al prevedibile percorso che va dai dagherrotipi alle polaroid (ma che non considera le immagini off camera) ritroviamo altri “prodotti unici (…) come fax o fotocopie”, a proposito dei quali risulta arduo sia sostenere la tesi dell’unicità (poiché in tutta evidenza derivano da matrici, anche se non «negative») sia, e ancor più, quella della natura fotografica, solitamente connessa all’idea di immagine ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.[2]

Le ulteriori indicazioni contenute nel manuale sembrano dapprima condividere e confermare quest’ultima classificazione più rigorosa e restrittiva, concordando con la  definizione etimologica della fotografia come “scrittura effettuata tramite la luce”, pur introducendo limitazioni che aprono impensati orizzonti metafisici nel momento in cui si stabilisce che questa “deve essere effettuata (…) per raggi luminosi …provenienti da oggetti appartenenti al mondo reale” (p.22), ma poco oltre questa formulazione  si amplia per comprendere “Nell’insieme «foto-grafia» (…) tutti quei segni che a seguito dell’azione di un pennello di luce (…) siano stati fissati vuoi nella trasmissione chimico-fisica di un sale d’argento, vuoi in una memoria di massa a seguito della trasmissione   dei pacchetti di elettroni accumulati in una CCD, vuoi, infine, sui supporti più vari a seguito di azioni di trasduzione e ri-oggettivazione dell’immagine virtuale” (p.26)[3].   Questa estensione dell’ambito catalografico a ogni immagine originata in maniera diretta o indiretta dall’utilizzo della radiazione luminosa in una qualsiasi delle fasi di produzione, sino a poter comprendere di fatto gli stessi prodotti di fotocomposizione, fotoincisione e fotolitografici, ha come conseguenza evidente  l’illimitata estensione del campo applicativo, dalla quale origina il rischio di una sostanziale inapplicabilità dello stesso progetto catalografico.

È questa onnicomprensività non tecnologicamente giustificata che porta di fatto e paradossalmente alla scomparsa dell’oggetto,  sommerso in una marea indistinta di prodotti apparentemente analoghi, consimili ma non identici. Questa è – a mio parere – la conseguenza più rilevante e preoccupante, sostanzialmente negativa di una impostazione di fondo che sotto una apparente riconsiderazione dell’orizzonte produttivo cela un atteggiamento ancora fortemente idealistico (forse postidealistico) che rifiuta la possibilità di definire e riconoscere la fotografia nella sua pura materialità per  assumere quale fondamento del proprio impianto concettuale “La scarsa rilevanza attribuita al mezzo e la conseguente accentuazione dell’intenzionalità di una comunicazione significante” (p.16)[4],  poiché  “va da sé che ciò che caratterizza una fotografia in quanto tale è unicamente la sua autorialità, ossia, la sua possibilità di trasmettere – in maniera più o meno diretta, convincente ed immediata – un’opinione, un concetto, un sentimento, un’emozione, una testimonianza dell’essere e dell’esistere che i referenti dell’immagine contestualizzano sotto il profilo storico.” (p.15)[5]

Il peso di queste definizioni tutte orientate verso la sola polarità autoriale non è di poco conto né appare privo di conseguenze,  poiché esse rimettono in discussione, senza fondarla teoricamente, una faticosamente acquisita identità ontologica di questa categoria di immagini, per le quali a partire dal Roland Barthes de La camera chiara “Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: «è stato», o anche: l’Intrattabile”[6], corrispondendo così alla sua natura semantica di indice nella doppia valenza di segno deittico e indiziario, studiata da numerosi autori a partire dalle riflessioni peirciane del 1895.[7] è questo statuto di esistenza ciò che fa si che “nello stesso istante dell’esposizione propriamente detta la foto possa essere considerata come un puro atto-traccia (un «messaggio senza codici»).   è in quel momento, e solo allora, che l’uomo non interviene e non può intervenire senza cambiare il carattere fondamentale della fotografia.” è in quel momento fondante che la fotografia si caratterizza “in quanto tale” proprio per la totale assenza di autorialità.  è qui che si attiva quello che Franco Vaccari aveva proposto di nominare inconscio tecnologico[8], con tutto quanto notoriamente ne consegue in termini di (scarsa) rilevanza del “piglio inventivo e autorevole dell’autore”[9]; è in questo contesto definitorio che si comprende l’immagine tecnica essenzialmente quale realizzazione di un apparato destinato a produrre simboli, apparato di cui i fotografi non sono altro che  “funzionari”  che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[10] e la fotografia è “l’immagine di una magica scena, automaticamente e necessariamente prodotta e distribuita da un apparato programmato nel corso di un gioco determinato dal caso, e i cui simboli rendono l’osservatore disponibile a comportamenti improbabili.”[11]

Se poi orientiamo la nostra attenzione agli oggetti, alle fotografie storiche o a quelle cosiddette documentarie (che certo costituiscono la stragrande maggioranza degli archivi e fondi da sottoporre a catalogazione) allora non dobbiamo dimenticare le riflessioni di Rosalind Krauss che, pur fondate su presupposti diversi ma solo in parte differenti da quelli citati, ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[12]

Invece nemmeno troppo nascostamente l’idea e la definizione di autorialità proposte dalla scheda F implicano la coincidenza tra autore e artista e l’identificazione della fotografia come opera (d’arte), in un tentativo tanto generoso quanto anacronistico di recuperare dignità a questa categoria di oggetti proponendo ancora una volta di assumerli  nell’empireo dei valori estetici tradizionali invece di riconoscerne lo statuto di novità storicamente determinata che porta alla definizione di un nuovo paradigma  per molti versi incommensurabile alle categorie antecedenti, che richiede strumenti analitici, e quindi anche storico critici nuovi, per i quali infine risulta necessaria e centrale la rinuncia a strumenti interpretativi fondati sulla valutazione estetica a favore del riconoscimento teorico e fattuale della categoria di bene culturale (frutto essa stessa di una cultura di massa fortemente segnata dalla fotografia e dalle altre forme di (ri)produzione e diffusione tecnologica), inteso quale traccia  di un evento o contesto dotato di valore storico, per il quale si porrà semmai il problema della sua determinazione

 

Ad una prima considerazione della   “fotografia intesa fondamentalmente nella sua accezione di Bene Culturale” (p.7) si sovrappone immediatamente quella di “fotografia come bene storico-artistico” (p.14), derivata dalla  “necessità (…) concordemente avvertita come centrale e prioritaria da parte della Commissione di studio promossa dall’ICCD (…) di esprimere la volontà deontologicamente portante di passare (…) ad una concezione qualificativa” di questa tipologia di immagini per le quali  “come avviene per qualsiasi intervento di restauro (…)  il riconoscimento del valore artistico (…) è infatti a monte di ogni attività specifica di catalogazione, anzi si può dire che, come il restauro, anche la catalogazione – considerata nelle sue implicite valenze di tutela e di valorizzazione – si ponga «essenzialmente come momento metodologico del riconoscimento dell’opera (…) nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica.»” (p. 13)

Risulta qui fondamentale e condivisibile – in termini metodologici – il ricorso alle elaborazioni  prodotte dai teorici del restauro, intorno alle quali, credo, la cultura fotografica più  impegnata sul versante della tutela farebbe bene a riflettere per più ragioni, non ultima quella che in questo ambito più che altrove si è riflettuto (e si riflette tuttora) intorno al  problema fondante del rapporto materia / opera,  ma certo vanno anche adottate maggiori cautele affinché l’operazione sia fruttuosa: nella citazione sopra ricordata ad esempio, il pur rilevante e significativo richiamo brandiano[13], di fatto assunto a sostegno di tutto l’impianto teorico adottato, non può esplicitarsi  in una citazione dalla quale sia stata espunta  un’unica e sola parola  (“d’arte”)  per tentare di ridurne quelle implicazioni idealistiche che si ritenevano ormai ampiamente superate, salvo poi individuare nel  “riconoscimento del valore artistico” il solo fondamento delle attività di valorizzazione e tutela dei beni.

 

 

Il determinismo che nell’impianto della scheda lega intenzione dell’autore e definizione dell’oggetto ha imposto ai redattori  “una adeguata riflessione sull’identità autoriale nel campo specifico della fotografia.” (p.14), dalla quale è stata fatta conseguentemente derivare l’indicazione normativa necessaria alla definizione del corrispondente contenuto descrittivo: ecco allora che nel paragrafo au – definizione culturale “Si indicheranno i dati individuativo-anagrafici relativi ai diversi autori responsabili dell’opera in esame, ossia alle persone o agli enti che hanno contribuito al contenuto creativo o intellettuale dell’opera che si sta catalogando (…). Saranno pertanto riportati in questo paragrafo sia gli autori responsabili della realizzazione dell’opera fotografica, sia gli autori dell’opera presa a modello.” (pp. 92-93)

La derivazione disciplinare e normativa dal trattamento catalografico di stampe e matrici incise è in questo passo evidente[14], ma continua a risultarmi incomprensibile  il nesso logico concettuale che unisce le due proposizioni facendole derivare l’una dall’altra: se mi applico all’opera “che si sta catalogando”, cioè a quella specifica fotografia, a quella materia signata  che ne costituisce l’individualità, il suo “contenuto creativo o intellettuale” (per quanto eventualmente ridotto a pura applicazione tecnica) non può che essere attribuito al responsabile della sua produzione e non a quello del referente fotografato. Né la contraddizione appare sciolta quando si analizzi compiutamente la questione de l’altro autore detto anche l’inventore: si scopre qui una ulteriore distinzione (che non saprei dire altro che gerarchica) tra gli  “autori fotografi (…), anche quando non siano direttamente responsabili dell’opera in esame, ma ne siano soltanto gli «inventori» (quando cioè una loro immagine sia stata presa a modello da altro fotografo)” e  “gli altri artisti, autori «inventori» delle opere riprese nelle fotografie oggetto di catalogazione” (ibidem). Anche qui si pongono almeno due ordini di problemi: in primis la definizione di “opera”, non immediatamente scontata e circoscrivibile a meno di ridurla nuovamente alla sola connotazione “artistica”, ma anche – e specialmente – cosa si intenda per  “prendere a modello”. Ci si vuol riferire a quanto tutta una nobile tradizione trattatistica ha inteso in termini di rimandi canonici a schemi compositivi o iconografici oppure più brutalmente, come pare suggerire il secondo caso, si pensa alla “riproduzione” di una fotografia o più generalmente di “un’opera (pittura, scultura, disegno, monumento, etc.) di altro autore (cosiddetto «inventore»)” (p.102)? Poiché è certo che nella prima accezione nessuno si sognerebbe mai di attribuire valore di coautore all’ideatore originario, nessuno indicherebbe Velásquez come “altro autore” delle Meninas di Joel-Peter Witkin, mentre proprio il nuovo riconoscimento di valore nato dalla “volontà deontologicamente portante  di passare da una definizione stantia e ormai ampiamente superata di fotografia, intesa in chiave esclusivamente servile e documentativa di un altro da sé referenziale, nella maggior parte dei casi già di per sé stesso esteticamente definito” (p.14) avrebbe dovuto impedire il formarsi della concezione stessa di qualsivoglia  “altro autore”  rintracciabile al di fuori della storia di produzione dell’immagine in catalogazione.

Io credo invece che in questa, e solo in questa possano essere rintracciati i differenti artefici dell’opera, vale a dire, nella accezione utilizzata nella “Introduzione”,  “tutti quegli autori e quegli operatori che, al momento dello scatto – o nella fase successiva della tiratura degli esemplari – hanno contribuito, concettualmente, esteticamente e tecnicamente alla realizzazione e alla formalizzazione iconica di una determinata fotografia e alla sua diffusione” (p.15). Questa concordanza si rivela però ancora una volta illusoria e di breve durata poiché le successive indicazioni normative per contro  impongono tassativamente di non riportare nel paragrafo relativo alla definizione culturale, e quindi all’indicazione di responsabilità dell’autore, proprio “i dati relativi a personalità che siano intervenute nel ciclo produttivo (…) dell’immagine fotografica con altre funzioni, responsabili ad esempio (…) della stampa/tiratura, di altri interventi tecnici sull’immagine (ritoccatori, coloritori, etc.) (..) che saranno tutti indicati (…) nello specifico paragrafo pd-produzione e diffusione.” (p.93)

Qui, al di là delle macroscopiche contraddizioni interne, si registra ancora una volta il distacco da una concezione materiale e tecnologica del bene a favore di una interpretazione idealistica che ne privilegia i soli contenuti informativi di ideazione e progettazione, certo determinanti ma insufficienti e inadeguati per fondare e garantire quel processo di conservazione e tutela di cui la catalogazione costituisce presupposto e strumento strategico.

Per queste ragioni avrei preferito che nello strutturare la scheda F si fosse tenuto conto  di un’idea di fotografia, di produzione fotografica per cui quella connotata autorialmente non rappresenta che una delle tante tipologie possibili, tutte, per definizione e per principio riconoscibili quali beni culturali e quindi passibili tutte di essere oggetto di catalogazione, a partire da considerazioni e politiche di intervento che non possono che essere storicamente determinate.

 

 

Note

[1] Tutte le citazioni riportate nel testo col semplice rimando di pagina sono tratte da Strutturazione dei dati delle schede di catalogo. Beni artistici e storici. Scheda F / prima parte. Roma: ICCD, 1999. Poiché considero tale elaborato il prodotto collettivo del gruppo di lavoro che lo ha redatto e sottoscritto, ho ritenuto opportuno non operare distinzioni individuali neppure nei confronti dei due testi introduttivi firmati rispettivamente da Marina Miraglia e da Carlo Giovannella, che non solo fanno parte a pieno titolo del sistema normativo della Scheda F, ma anzi ne costituiscono l’esplicitazione dei presupposti teorici e metodologici.

 

[2] Per un chiarimento delle ragioni che porterebbero a considerare queste immagini come “un unico assimilabile a una dagherrotipia” cfr. p.24. È chiaro che in questo contesto non si affronta né si pone in discussione l’eventuale possibilità di riconoscere lo statuto di bene culturale e quindi di catalogare immagini di questo genere, si avanzano dubbi sulla validità dei presupposti e sulla conseguente congruità del modello.

 

[3] Sottolineatura nostra; come già fu alle origini mi pare che il problema sia ancora quello del fissaggio: può una sequenza numerica considerarsi “fissata” così come la dimensione e la posizione di una molecola di argento o di gomma bicromatata? Nello stesso testo sono comprese altre considerazioni opinabili quali l’impropria assimilazione, e conseguente fungibilità “teorica”, dei concetti di discretizzazione e digitalizzazione, il primo ad esempio considerato senza tener conto di una variabile fondamentale quale è il rapporto di scala, tale per cui un’immagine fotografica, comunemente considerata “continua” si rivela ben presto “discreta” se sottoposta a opportuno ingrandimento: basti qui ricordare Il cielo per Nini, la quinta delle “Verifiche” di Ugo Mulas, e certo risulta altrettanto sorprendente scoprire che la “camera chiara” possa essere annoverata tra i “processi di stampa” (p.25). Ora poiché sarebbe ingeneroso supporre una scarsa conoscenza dei termini del problema si può credere che si sia fatto un ricorso eccessivo all’uso metaforico del linguaggio. è proprio questo che va però evitato nel momento in cui si procede alla messa a punto di criteri e procedure per la catalogazione, che comportano – come è ben noto –  il massimo sforzo di standardizzazione e di uniformazione, di chiarezza quindi.

 

[4] Quelle considerazioni “hanno infatti indotto a prendere in  considerazione nella scheda F tutte le possibili «uscite» tecnologiche della fotografia virtuale, anche se queste non hanno più niente di fotografico sotto il profilo chimico.

Per analogia concettuale è stato giocoforza impegnarsi (…) per individuare quei momenti in cui (…) la fotografia stessa si è avvalsa di altri media per la propria visualizzazione. Intendiamo riferirci in modo particolare a tutte le tecniche fotoincisorie – nella loro accezione di tecniche miste (…) Per questi motivi (…) la scheda F prevede la possibilità di prendere in considerazione anche le fotoincisioni, specie in quei casi in cui l’invenzione fotografica veicolata si impone per il proprio carattere di autorialità.” (p. 17). Poiché io ritengo invece che, almeno in una prospettiva catalografica, il mezzo (la materialità tecnologica dell’oggetto) abbia una sua rilevanza,  la verifica della possibile estensione catalografica alle tecniche che stanno “al bordo dello specchio”  quali le varie modalità di fotoincisione doveva essere condotta con maggiore circospezione, analogamente a quanto andava fatto per la cosiddetta  “fotografia digitale”, lemma che – giusta l’osservazione di W.J.Mitchell citato da Roberto Signorini, Ancora più ambigua. Primi tentativi di riflessione teorica sulla fotografia dall’immagine-traccia all’immagine digitale, in corso di stampa –  ha un valore metaforico piuttosto che descrittivo e referenziale, il cui uso rimanda a  quanto accadeva negli anni immediatamente successivi al 1839 quando per descrivere le prime fotografie si ricorreva come è noto ad una terminologia presa in prestito dalle arti del disegno.

 

[5] Questa definizione sembra rimandare al concetto riegeliano di kunstwollen inteso quale “elemento essenzialmente artistico [che si pone] prima del risultato effettivo”,  Mario Perniola, L’estetica del Novecento. Bologna: Il Mulino, 1997, p.54; per Riegl si veda Sandro Scardocchia, a cura di, Alois Riegl: Teoria e prassi della conservazione dei monumenti.  Bologna:  Accademia Clementina – clueb, 1995. Definita l’autorialità in questi termini resta tra le altre cose irrisolta la questione della sua determinazione: quale è e chi determina lo statuto di questa “possibilità di trasmettere”? Si collocano in questo snodo tra gli altri i problemi posti dalle teorie della ricezione (storicizzazione del valore ma anche cooperazione interpretativa) che pongono la questione dei diversi attori dell’intenzione.

 

[6] Roland Barthes, La camera chiara.  Torino: Einaudi, 1980, p.78.

 

[7] Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: QuattroVenti, 1996, pp. 53 passim, da cui salvo diversa indicazione sono tratte le citazioni successive.

 

[8] Franco Vaccari,Fotografia e inconscio tecnologico. Modena:Punto e virgola, 1979 (nuova ed., Torino, Agorà, 1994).

 

[9] Devoto – Oli, Nuovo Vocabolario illustrato della lingua italiana. Milano: Selezione del Reader’s Digest,1997, ad vocem “autorialità”. Non dimenticherei neppure, a questo proposito, quanto ricordava Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, Id., “La photographie à l’envers” in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T.Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie.  Torino:  Einaudi, 1975, pp.73-75. La stessa problematizzazione del ruolo dell’autore si pone al centro di importanti ricerche contemporanee: si pensi alle opere di Richard Prince.

 

[10] Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia.  Torino: Agorà, 1987, p.31.

 

[11] Photograph, in Andreas Müller-Pohle, Benrd Neubauer, eds., Flusser Glossary, “European Photography“ 50 (1992) , vol.13, n.2.

 

[12] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48.

 

[13] Non è questa la sede per affrontare i nodi di una possibile lettura fotografica delle teorie brandiane, ma certo la concezione della materia come “supporto” dell’opera, come “tramite dell’immagine” e come stimolo alla sua epifania offre stimolanti elementi di riflessione.

 

[14] Si veda Serenita Papaldo, a cura di, Strutturazione dei dati delle schede di catalogo e precatalogo. Beni artistici e storici Schede S-MI. Roma: ICCD, 1995. L’assunzione del concetto di “altro autore” pare costituire il retaggio della tradizione catalografica del GFN per la quale, com’è noto, il solo “autore” previsto era quello dell’opera fotografata; cfr. Paola Callegari  et alii, a cura di, La Fototeca Nazionale. Roma: ICCD, 1984.