Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

Albera, Ottaviano 1989

Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’Esposizione romana del 1911. Torino: Regione Piemonte, 1989

 

L’art rustique 1913

L’art rustique en Italie, “The Studio”, 1913, numero d’automne

 

Astrua, Romano 1979

Paola Astrua, Giovanni Romano, Vercelli, in Guida breve al patrimonio artistico delle provincie piemontesi. Torino: SBASP, 1979

 

Fotografi del Piemonte 1852-1899 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Barbiera 1884

Raffaello Barbiera, Le Fotografie, in “Torino e l’Esposizione Generale”, 1884, n.44

 

Becchetti 1978

Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Quasar, 1978

 

Besso 1881

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute, panorami, ritratti ecc. coi prezzi correnti. Roma: Elzeviriana,  1881

 

Besso 1893

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute e panorami. Biella: Amosso, 1893

 

Bianchino 1987

Maria Vittoria Bianchino, Studio fotografico Rossetti. Cento anni di immagini biellesi, “Bollettino DocBi”, 1987, pp. 56-71

 

Brayda 1904

Riccardo Brayda, Visita artistica a Candelo, Gaglianico e Biella, “L’Escursionista”, 1904, estratto

 

Butler 1913

Samuel Butler, Alps and Sanctuaries. London: Fifield, 1913

 

C.A.I. 1898

C.A.I., Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

C.A.I. 1928

C.A.I., Il Biellese. Ivrea: Viassone, 1928

 

Carandini 1914

Francesco Carandini, Vecchia Ivrea. Ivrea: Viassone,1914

 

Cassio 1980

Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci, 1980

 

Coiz 1873

Antonio Coiz, Guida storico-artistico industriale di Biella e del circondario. Biella: A.Chiorino, 1873

 

Costantini et al. 1989b

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989) a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Cucco, Varale 1920

Cornelio Cucco, Giovanni Varale, Regina Montis Oropae. Biella: Tip. Ospizio di Carità,1920

 

Esposizione 1882

Esposizione generale dei prodotti del circondario di Biella del 1882, Catalogo Ufficiale e Pianta. Biella: Amosso, 1882

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884, Arte Contemporanea: Catalogo Ufficiale, Torino, Unione Tipografica Torinese, 1884

 

Falzone del Barbarò 1979

Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Vittorio Besso (Biella 1828-95), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, p. 1404

 

Falzone del Barbarò 1987

Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987

 

Linton 1887

Elizabeth Lynn Linton, Andorno, with photographs and a map of the neighbourhood. Biella: Amosso, 1887

 

Maccaferri 1986

Gianfranco Maccaferri, a cura di, 1870-1940: I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Marangoni 1931

Guido Marangoni, Vercelli il Biellese e la Valsesia. Bergamo: Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1931

 

Mario Sansoni 1987

Mario Sansoni: Diario di un fotografo, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n. 5, giugno, pp. 44-53

 

Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

Pia Padovani, Emilio Gallo, Illustrated guide to the valleys of the Biellese region. Torino: Casanova, 1900

 

Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

“Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna” (2015)

in Cinzia Frisoni, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 26-11-2015/ 28-02-2016). Bologna:  Bononia University Press, 2015, pp. 13-28

 

Al titolo segue l’indirizzo, ma nessuna indicazione relativa al contenuto compare in copertina di quel primo fascicolo pubblicato da Pietro Poppi intorno al 1871[1].  Manca perciò ogni riferimento ai soggetti , ma sul genere non potevano esserci dubbi: a quelle date uno studio fotografico avrebbe potuto pubblicare solo un repertorio di riproduzioni di monumenti, quadri e disegni, certo non di ritratti o altro.

“Quale è l’importanza annua delle fotografie che si fanno nel vostro stabilimento? Vi occupate specialmente delle vedute di monumenti, e della riproduzione di quadri, disegni ecc.?”  si chiedeva nel questionario (“interrogatorio”) utilizzato per l’Inchiesta industriale promossa dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio nel 1870 e realizzata attraverso la rete delle Camere di Commercio[2].  E ancora: “Credete voi che possano farsi qui fotografie di monumenti, quadri ecc. ugualmente bene, ed allo stesso prezzo che all’estero? Si fa esportazione dall’Italia di tali fotografie, e quale ne giudicate l’importanza?” Questi i quesiti posti  nello stesso anno in cui il Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti scriveva ai presidenti delle Accademie di Belle Arti affinché gli fornissero “con sollecitudine una nota particolareggiata di tutti gli edifici pubblici (cioè non appartenenti a privati cittadini) di qualsiasi forma, sacri o profani, esistenti nel distretto di codesta Accademia, i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”[3].

Sono domande che rendono immediatamente chiaro quale fosse già allora il settore che più connotava la produzione dei principali studi fotografici attivi in Italia, anche nella percezione delle burocrazie ministeriali. Poppi fu tra i molti che non risposero all’Inchiesta, sebbene non dovesse  condividere l’opinione di Michele Schemboche che “i fotografi che si danno all’industria della riproduzione dei monumenti (e sono queste le sole fotografie che trovino all’estero facile smercio) si trovano a Roma, a Venezia, a Firenze, città eminentemente artistiche”[4].  E Bologna certamente non lo era, e non solo nell’opinione degli incolti. Quella necessità, evidente, di rivolgersi specialmente a una clientela straniera doveva essergli ben chiara già in occasione del suo secondo catalogo (1879), stampato in francese;  consuetudine che venne mantenuta anche nel successivo del 1883, nel quale non solo si indicavano le località rappresentate, ma l’elenco comprendeva appunto “città eminentemente artistiche” come Roma e Firenze, nel tentativo di adeguarsi alle pratiche commerciali dei grandi studi, ben delineate da Giacomo Brogi:  essendo “difficilissimo senza dubbio e che fa sciupare molto tempo utile a chi viaggia in Italia quello di recarsi presso i diversi editori di vedute per scegliere ciò che gli conviene (…) abbiamo creduto necessario di tenere un assortimento completo di fotografie di tutta l’Italia (…) e siamo stati convinti di questa necessità dallo splendido successo che abbiamo avuto”[5].

A Bologna l’edificio di via Mercato di Mezzo 56 era noto come Casa Campogrande. Fu  qui, in anni quasi concitati, che ebbero sede l’Officina di Fotografia di Dioneo Tadolini (dal 1857) e lo studio del polemico Emile Anriot (dal 1861-1862), posto “all’ultimo piano e non al primo”, come opportunamente precisava un avviso[6]. Qui Pietro Poppi, all’epoca ancora pittore ben presente nelle esposizioni locali[7], aveva aperto nel giugno 1863 una cartoleria in società con Adriano Lodi; attività formalmente chiusa quando, secondo la testimonianza per più ragioni affidabile di Carlo Malagola, in quell’edificio “lo Stabilimento Poppi [venne] fondato nel 1865 col titolo di Fotografia dell’Emilia”[8].   Senza dimenticare che nel frattempo Roberto Peli, dopo il distacco da Anriot e lo spostamento di quest’ultimo in Via San Mamolo nel 1864, aveva aperto un proprio studio (Nuova fotografia Peli), adottando come recapito proprio la cartoleria Lodi e Poppi. Si direbbero anni di tentativi incerti, di iniziative diverse destinate quasi a tastare il terreno, a verificare le possibilità del nuovo mercato delle fotografie che si andava definendo, come la società Peli, Poppi & C.[9], che stabilì la propria sede in strada San Mamolo 102, vale a dire nello stesso edificio in cui si era trasferito Anriot. Quasi per dispetto verrebbe da dire, specie considerando il fatto che la società ebbe breve vita[10].

Era il 1866. Lo stesso anno in cui lo “Stabilimento fotografico dell’Emilia” non solo era in piena attività ma ricevette il suo primo riconoscimento pubblico sotto forma di un articolo pubblicato ne “Il Monitore di Bologna”[11], in cui si lodava la riproduzione fotografica “dei 75 quadri, dell’Inferno (…) ormai celebri in Europa, del Sig. Gustavo Doré (…) per gentilezza usatagli dall’egregio Sig. Francesco Ratti, professore di questa nostra R. Accademia di Belle Arti”. Il brano offre con tutta evidenza informazioni per noi fondamentali: non solo ci informa di uno dei primi lavori di ‘riproduzione’ di opere d’arte,  qui condotto con largo anticipo sulla loro pubblicazione italiana[12], ma conferma i suoi legami con gli ambienti dell’Accademia bolognese  e suggerisce un elemento forte per la definizione del passaggio di Poppi dalla pratica pittorica a quella fotografica.  Certo, l’amicizia e la collaborazione con Roberto Peli. Certo, almeno in via ipotetica, la frequentazione delle lezioni che Anriot impartiva a pagamento, ma un ruolo centrale dovette svolgerlo proprio Ratti, docente di xilografia all’Accademia  più che interessato alle nuove tecnologie fotografiche[13]  e inoltre, dato per noi più significativo, vicino a Luigi Sacchi, con cui aveva collaborato all’edizione illustrata dei Promessi Sposi. Quello stesso Sacchi che dopo il passaggio alla fotografia documentò verso il 1852 le Arche dei Glossatori, il Palazzo Pontificio e la Fontana del Nettuno, inserendo poi queste ultime nella seconda serie dei Monumenti, vedute e costumi d’Italia[14].

Non si vuole qui suggerire alcuna derivazione di tipo artistico o stilistico; la formazione fotografica aveva significati e ragioni diverse da quella pittorica, ma forse possiamo accontentarci di credere che Poppi, sotto la spinta di concrete esigenze economiche, come molti in quegli anni del resto, abbia scelto di passare dalla pittura alla fotografia con il sostegno di Ratti e seguendone gli autorevoli insegnamenti tecnici,  magari confidando per breve tempo sull’esperienza maturata da Peli come assistente di Anriot. Nonostante la scarsa fortuna artistica di Bologna in ambito extralocale[15] anche la scelta di dedicarsi alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico non appare così inconsueta, considerando il buon successo delle Vedute Fotografiche Artistiche e Monumenti della città di Bologna  in cui Anriot nel 1864 aveva fornito  “un più libera lettura della città e dei suoi monumenti”[16] per poi lasciare pochi anni dopo Bologna e campo libero all’attività di Poppi.  La città non era stata compresa tra le mete delle Excursions daguerriennes e  si dovette attendere Richard Calvert Jones per averne le prime testimonianze fotografiche[17], quindi le prove di Sacchi e poi, in chiusura di decennio, il  primo panorama fotografico della città realizzato da Carlo Napoleone Bettini[18].

È proprio con Anriot allora che pare misurarsi Poppi agli inizi della propria attività professionale di fotografo, come mostrano alcune stampe databili a quei primissimi anni, relative ai maggiori monumenti bolognesi e note nei formati carte de visite e album[19]. Tra queste risultano per noi di particolare interesse una veduta di piazza Santo Stefano realizzata prima del 1869[20], inquadrata dallo stesso identico punto di vista ed esattamente con le stesse luci che ritroviamo in due riprese coeve di Anriot e di Giorgio Sommer[21], solo utilizzando un obiettivo di lunghezza focale minore e quindi comprendendo una porzione più ampia di piazza, e soprattutto le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio vedute dall’Albergo dei Quattro Pellegrini, di cui sono note oltre la lastra originale e la stampa per contatto, anche un’edizione in formato “Gabinét”,  derivata non da una specifica ripresa ma dalla rifilatura della stampa di formato maggiore.

Le Torri “prese dai tetti” aprivano il catalogo del 1871. Una scelta che non poteva essere più significativa dal punto di vista culturale e simbolico, ma che costituiva anche un eccezionale esito in termini di qualità specifiche dell’immagine, dove l’uso  di un obiettivo di grande apertura angolare, forse un poco decentrato, determinava una leggera deformazione ottica ma accentuava  il gioco dinamico delle diverse diagonali che costruiscono l’immagine, consentendo di mostrare le torri in tutta la loro altezza, a partire da quello spazio ristretto e quasi scavato da cui crescono. Considerando l’intera serie poi si chiarisce ancor meglio una delle modalità operative di Poppi, che circumnavigava il soggetto, riprendendolo da diversi punti di vista e pubblicandone edizioni diverse non solo per il formato[22] ma anche, secondo un uso non raro in quegli anni, con l’aggiunta di nuvole in ogni senso pittoresche a movimentare lo spazio vuoto del cielo.

Furono proprio i principali monumenti bolognesi a costituire la sezione  più rilevante di quel catalogo, pubblicato a breve distanza dal trasferimento dello studio nella nuova sede di Casa Rodriguez, in Strada San Mamolo 101, non lontano da quella della precedente società con Roberto Peli e dello studio di Anriot (San Mamolo 102). Di quel primo repertorio facevano parte anche i “Paesaggi” e i “Quadri della Regia Pinacoteca ed altri quadri classici”[23], con una scelta di temi già indicativa e che nei decenni successivi si sarebbe ulteriormente articolata ma mai smentita:  un buon numero di chiese bolognesi, e non solo le maggiori, con molte riprese dedicate ai loro elementi decorativi, poi i grandi palazzi storici; accanto a questi però anche le principali architetture contemporanee, come il Palazzo della Banca Nazionale (192)[24] e quello della Cassa di Risparmio (202);  poi le due torri (anche “intere”, n. 366 nel formato grande di 36×45) e i panorami (ben sette), le piazze, le porte e alcune ville (Frank, Hercolani, Marescalchi, Salina, Zucchini), occasione per realizzare i primi soggetti di paesaggio, anche con figure[25], la cui messa in repertorio costituisce forse la novità più rilevante, mentre la sostanza del trattamento (“Gruppo di cipressi”, “Dettaglio: Tronchi d’alberi”), rimanda ancora ai modi dei calotipisti attivi specialmente a Roma nel decennio antecedente l’Unità. Oltre a Ravenna, dove riprese anche alcuni paesaggi (638 Pineta, con un primo piano materico di calanchi), la sola altra località considerata era Roma, con uno sparuto gruppo di quattro riprese (Piazza del Popolo, Piazza San Pietro, Arco di Settimio Severo, Tempio di Veneree Arco di Tito)  Oltre a quelli già presenti nelle serie dedicate alle chiese, il catalogo conteneva anche una specifica sezione dedicata a “Bassi Rilievi, esemplari artistici” tra cui  un Cespo d’Accanto spinoso (691) e  una Miscellanea di 5 pezzi variati di rilievi e bassi rilievi.  La sezione degli Ornati veri e propri si sarebbe poi sviluppata a partire dal 1879 ma questi due titoli sono già di per sé indicativi: sia la Miscellanea, che escludeva  ogni intento documentario per proporsi esplicitamente come modello manualistico per la copia, sia le foglie d’acanto che anticipavano i soggetti “presi dal vero” pubblicati a partire dal 1888. Erano questi lavori, forse insieme ai “monumenti moderni” della Certosa, ad avere i destinatari e acquirenti più immediatamente identificabili nei professori e negli allievi dell’Accademia, negli artigiani e nei frequentatori delle scuole d’arte, nel solco di una tradizione incisoria e poi litografica particolarmente ricca e qualificata, che ormai a queste date pativa la concorrenza della fotografia. Meno semplice risulta comprendere l’immissione in un catalogo destinato alla vendita delle riprese dedicate alle architetture contemporanee, per le quali è difficile immaginare una richiesta da parte del turismo colto che frequentava Bologna, né erano destinate a un album antologico dedicato alla sua città, che non risulta Poppi abbia mai prodotto, sebbene fosse una tipologia che si andava diffondendo in quegli anni anche in numerosi centri minori.

Il secondo catalogo, del 1879[26], presenta novità significative: non solo affiancava in copertina il nome del titolare a quello dello studio ma fu pubblicato in francese e corredato di una sintesi in quattro lingue dei soggetti contenuti, con una nuova numerazione  che risulterà definitiva.

Oltre a Bologna i luoghi indicati erano Ravenna, Urbino, Ferrara “et leurs environs”; mancava  Roma che pure era presente con le solite quattro riprese.  Significative sono le qualifiche con cui Poppi si presentava per la prima volta: “peintre-photographe/ membre correspondant de la R. Académie/ Raffaello a Urbino”. La prima, adottata da molti, moltissimi fotografi coevi aveva qui un valore più sostanziale e aderente al vero, cioè all’immagine che lo stesso Poppi dava di sé, come risulta da una lettera del 31 agosto 1877 inviata al  Presidente della Accademia Raffaello di Urbino in cui scriveva della sua “modestissima qualità di pittore paesista e di fotografo” e gli stessi suoi contemporanei lo indicavano ancora, nell’ordine, “pittore, paesista, direttore dello Stabilimento fotografico”.[27]  Meno singolare invece l’associazione all’Accademia, di cui si fregiavano anche altri fotografi[28] e che gli derivava da una ricca campagna condotta in quella città, qui presentata in due distinte sezioni.

La tavola delle materie che apre il catalogo non indica espressamente Bologna, i cui soggetti sono divisi tipologicamente e comprendono anche la  “Gare du Chemin de Fer”(279), ma ben più rilevante rispetto all’edizione precedente era il numero di quelli non bolognesi, quasi triplicato con le campagne urbinati e ferraresi e con le prime riprese dello “château des Miracles”, vale dire della Rocchetta Mattei, della quale accentuò il già sovrabbondante aspetto fantastico, forse su suggerimento dello stesso proprietario. Molto ricca anche la sezione degli Ornati, poi in piccola parte accresciuta nei cataloghi successivi, con soggetti che vanno dal Plat portant un ail, une pomme, un artichaut avec leur feuilles (704) a un Chapiteau dans l’église de Saint Marc de Venise (733), che pone di nuovo qualche problema: poiché la campagna veneziana comparve per la prima volta nel catalogo del 1890 doveva trattarsi di un calco, come per altri numeri di quella sezione.  Se dalle pagine passiamo alle lastre e alle rare stampe superstiti scopriamo infatti con una certa sorpresa che anche il Candélabre par Michelange Buonarroti (694) o i diversi elementi del Monumento Tartagni in San Domenico (770) non erano tratti dagli originali ma dai calchi, ripresi in Accademia o, non di rado, nello stesso studio del plasticatore. Le ragioni di questo procedere non ci sono note né paiono facilmente comprensibili essendovi la disponibilità degli originali (il monumento nella sua interezza è rubricato al n. 101) né sussistendo problemi di resa delle policromie originali, quelli che ancora a date piuttosto tarde lo portarono a riprodurre le stampe di traduzione dei dipinti. Non semplici riproduzioni allora, ma impronte di un’impronta immesse a loro volta in circolo virtuoso di figure per servire  di modello per stampe litografiche, come fu il caso del Monument Tartagni: détail de la caisse, che costituì il modello per una litografia di Silvio Gordini  (774)[29].

La circolazione di quel primo catalogo in francese dovette sortire qualche effetto se già nel 1880 Poppi risultava tra i fornitori della “Bibliothèque photographique” di Adolphe Giraudon, insieme ai maggiori italiani come Alinari e  Brogi[30], e fu forse quella una delle ragioni che lo determinarono a confermare la scelta della lingua francese anche per l’edizione del 1883[31]. Nei pochi anni che intercorsero tra questa e la precedente si registrarono due eventi che ebbero certo influenza sul suo lavoro e sulla sua decisione di pubblicare un nuovo repertorio a soli quattro anni di distanza: nel 1879 il fotografo era stato chiamato a collaborare alla campagna documentaria promossa dalla Commissione Conservatrice locale per incarico del Ministero della Pubblica Istruzione[32] e – soprattutto – entro il 1881 gli Alinari avevano realizzato la loro prima, consistente campagna fotografica bolognese, con ben 188 soggetti. Non solo: Poppi nel frattempo aveva potuto fregiarsi della qualifica di “pourvoyeur de S.A.R. le Duc de Monpensier”, Antoine Marie Louis Philippe d’Orléans, uno dei più noti (e discussi) aristocratici europei, e questa attribuzione di grande prestigio fu anteposta in copertina  a quella di membro corrispondente dell’Accademia Raffaello, sebbene poi del principesco palazzo di più di trecento stanze in quell’occasione non fotografasse che pochi elementi (nn. 253259)[33].

Anche per le altre città non mancavano elementi nuovi: espunta Ravenna, forse per un accordo con Luigi Ricci, comparvero alcune città padane e altre toscane tra cui Firenze, con ben 119 soggetti, in evidente concorrenza coi grandi studi e applicando alla lettera la strategia indicata da Brogi,  mentre altre sezioni vennero notevolmente accresciute come Riola di Vergato, anche perché “Dopo nuove costruzioni si sono eseguite negative che portano il nome d’altre descritte, ma il soggetto è variato” (995).  Negli anni di maggior successo dell’attività elettromeopatica  del suo proprietario, Poppi dedicò ben 68 nuove riprese alla Rocchetta, certo in accordo con Mattei che poteva disporre di fotografie da vendere ai numerosissimi pazienti che lo visitavano per sottoporsi ai suoi trattamenti (963); per analoghe ragioni l’intera serie di Riola comprendeva anche il vicino Albergo della Rosa (10051018), a cui vennero dedicate più di una decina di riprese con evidente funzione promozionale, secondo una pratica comune ad altri fotografi[34].

Nella sintesi obbligata dallo spazio disponibile al verso di una stampa in formato gabinetto che riproduce una pagina de La Terra di Lavoro illustrata dal Professore Aristide Sala[35], pubblicata l’anno prima, Poppi reclamizzava la sua “Gran collezione di vedute/ Monumenti, Quadri/ Architetture e Dettagli/ d’Ornati Classici/ delle città di/ Roma – Bologna – Firenze – Pistoja – Lucca/ Ferrara – Padova – Vicenza – Mantova – Parma – Carpi – Modena – Imola – Ravenna – Urbino”. Di questo sintetico elenco colpiscono l’ordinamento e le scelte: per prima è indicata la capitale, sebbene le riprese romane a quella data non fossero più di una quarantina[36], quindi l’ovvia Bologna,  alcune località toscane (oltre la specificità urbinate) e una sequenza, che diremmo  genericamente padana, che connotava il suo ambito operativo: da Ravenna a Mantova, la sola località lombarda citata, sebbene le fossero state dedicate solo tre riprese, mentre risultava esclusa dall’elenco una città ben più documentata come Bergamo. Le assenze erano altrettanto significative e corrispondevano ai programmi dell’immediato futuro: Milano (già con 7 titoli al 1883), Verona, Venezia e Chioggia, entrate in catalogo tra 1888 e 1890 e ancora Perugia, per  limitarsi ai centri maggiori.  Non ancora un’estensione a tutto il territorio nazionale (ciò che non sarà mai) ma certo un’offerta molto ricca e variegata, un repertorio a cui attinsero in particolare  molti architetti dell’eclettismo: dal piemontese Melchiorre Pulciano[37], che raccolse in album fotografici un ricco repertorio di temi architettonici e di ornato, con quaranta stampe di Poppi, al reggiano Guido Tirelli[38] come al romano Francesco Azzurri, progettista del nuovo Palazzo Pubblico di San Marino[39];  ma anche lo statunitense Russell Sturgis[40], la cui ricca collezione di fotografie comprendeva ben 135 esemplari del fotografo bolognese, per non dire dei legami con i più noti rappresentanti della cultura architettonica locale come Tito Azzolini[41], Raffaele Faccioli[42] e Antonio Zannoni[43], che a vario titolo ricorsero all’operato di Poppi. Com’è noto il rapporto fu particolarmente proficuo con Alfonso Rubbiani, a partire dai restauri della chiesa di San Francesco, quando l’architetto fece ampio ricorso alle stampe fotografiche, utilizzate non solo quale strumento conoscitivo nella tradizione metodologica stabilita da Eugène Viollet-le-Duc[44] e codificata in Italia giusto in quegli anni da Camillo Boito[45], ma quale supporto per verifiche metriche, costruzioni geometriche, indicazioni di restauro e simili, con un procedimento analogo a quello utilizzato da Alfredo d’Andrade[46]. Potrebbero essere stati contatti professionali avuti nel corso della documentazione del cantiere di San Francesco a offrire a Poppi un incarico per lui inconsueto come quello relativo ai lavori ai fiumi Brenta e Bacchiglione a Padova, con otto immagini[47] realizzate tra il 1887 e  il 1890, caratterizzate da uno sguardo ampio, che ogni volta lega in una sola veduta tutto il cantiere, con una impostazione che ritroviamo anche nella coeva ripresa dedicata alla Frana alle Pioppe [di Salvaro] (10134)  in  cui paesaggio e cronaca dei lavori in corso si integrano compiutamente. Come accadde in altri simili casi quelle fotografie non entrarono a far parte del nuovo Catalogo generale pubblicato nel 1888[48], edito nell’anno in cui si sarebbero svolte in città le celebrazioni per l’ottavo centenario dell’ateneo bolognese e l’Esposizione Emiliana.

Era per Poppi il momento della sintesi e, diremmo, della sua affermazione definitiva: la lingua utilizzata tornava a essere l’italiano ma era soprattutto l’aggettivo qualificativo a connotare questo come il repertorio più compiuto, tutto fatto di “riproduzioni originali”, secondo una terminologia per noi inconsueta, ora riferibile con fatica alle architetture e ai paesaggi[49].  Diversamente dalle edizioni precedenti questo catalogo non presenta in copertina l’elenco dei soggetti principali, rimandato a un più opportuno e sistematico “Indice alfabetico” posto in apertura: è il sintomo e la testimonianza di una organizzazione più scientifica e quindi moderna del proprio lavoro (o – almeno – della propria immagine). Così Bologna compare solo al terzo posto e, dopo Ferrara, troviamo i “Fiori e foglie presi dal vero”. Ne risulta un singolare andamento, in cui i toponimi sono mescolati a categorie varie come “Ornati, scolture fiamminghe e statue” e “Paesaggi e costumi campestri”, insieme ai già noti “Personaggi illustri antichi e moderni”, una serie in cui la fotografia abdicava alla sua funzione sociale più diffusa per recuperare quasi archeologicamente il contenuto referenziale delle opere d’arte. A scorrere le stampe, le “Sculture Fiaminghe” si rivelavano essere una serie di più modesti “Puttini” alternativamente “volanti” o “posanti”, ripresi singolarmente o in gruppo a formare leziose scenette che dovettero avere però un certo successo se una di quelle fotografie (3005Puttini fiamminghi) fu fatta propria e riprodotta nel fotomontaggio pubblicitario preparato per la Mostra industriale di Lecce del 1886 da Pietro Barbieri, fotografo modenese attivo nella città salentina, di cui  Roberto Peli aveva rilevato lo studio[50].

Come prometteva il titolo, quello del 1888 risulta il catalogo più ricco:  non compaiono nuove tipologie ma soggetti nuovi. Non mutano le caratteristiche generali ma si amplia il repertorio e l’offerta diviene ancora più sistematica e articolata, in particolare per quanto riguarda le chiese, dove cresce il numero di dettagli decorativi e la riproduzione di dipinti. Poiché però anche la quantità costituisce un dato qualitativo va notato che l’accrescimento di riprese rispetto a un singolo edificio fu esponenziale; è qui che il lavoro mostra la propria logica e con un significativo salto di scala passa da tutti gli edifici importanti di una città a tutti gli elementi importanti di un edificio.  La sezione dedicata ai “Paesaggi” venne presentata in indice insieme alla novità costituita dai “costumi campestri”, con ben 97 soggetti, tutti estesamente descritti[51]  per solleticare e sollecitare i possibili acquirenti. Ciascuna descrizione meriterebbe di essere riportata per la sua singolarità ecfrastica, ma basti questo esempio : “Sul limitare di un rustico abituro, una contadina seduta, scherza amorosamente col bambino che tiene sulle ginocchia, il fratellino seduto a terra guarda allegro il fratellino minore”. Cercando di dare forma visiva a queste parole la mente corre alle opere coeve di un pittore come Gaetano Chierici[52], in particolare a una delle sue tante Gioie Materne, a cui la descrizione parrebbe adattarsi particolarmente bene, ma non corrisponde alla fotografia:  le parole e l’immagine parlano reciprocamente d’altro. L’espressione della contadina è difficilmente decifrabile; ancor meno quella del pargoletto, mentre ci è dato solo di immaginare l’allegria nello sguardo del fratello maggiore, che ci dà le spalle (10024).

A quella data le scene di genere non costituivano certo una novità in sé, ampiamente praticate in differenti declinazioni non solo dalla pittura coeva ma da numerosi fotografi, però con un’attenzione per la singola figura (ed erano i ‘costumi’ in senso proprio) ovvero per l’azione, ma staccata dal contesto e collocata in un spazio privo di connotazioni,  teatrale. Questa caratteristica generale e comune prevedeva però già allora alcune differenti intenzioni e atteggiamenti compositivi, riconoscibili in opere di autori  quali Federico Faruffini, Anton Hautmann o  Filippo Belli[53], forse prossime a quelle del padovano  Pietro Sinigaglia, del quale le fonti ricordano “varie scene campestri, come la mietitura, la falciatura, la vendemmia [che] hanno il merito intrinseco della fotografia, quello artistico di bella distribuzione delle persone e delle cose”[54], dove quel cenno alle qualità artistiche lascia intendere uno sguardo che ancora non si poteva definire folclorico né tantomeno proto etnografico, in cui cioè la figura fosse ripresa nello svolgimento di una sua attività consueta, senza cenni di posa.  Ancora più palesemente costruite, sino alla soglia del tableau vivant erano poi certe fotografie di Rive e Sommer  (San Martino a Napoli, Amalfi, con presenza di frati ad animare il contesto conventuale) che in termini di composizione e regia possono essere avvicinate a quelle di Poppi, essendo proprio questa relazione stretta tra ambiente e figure a connotare il genere, come accadeva anche per le immagini di ambiente veneziano e chioggiotto realizzate da Carlo Naya  per l’album L’Italie pittoresque, photographies d’après nature, 1870[55]. Volendo poi estendere lo sguardo oltre i nostri confini per verificare l’estensione del fenomeno a scala almeno europea, ma senza per questo lasciar intendere influenze o derivazioni, assai improbabili  allo stato attuale delle nostre conoscenze, potremmo richiamare un antecedente come Les  chasseurs di Humbert de Molard, 1851, o  le opere cronologicamente più prossime di un autore come Henry Peach Robinson, che confezionava circa negli stessi anni scene di genere di tipo aneddotico analoghe a quelle di Poppi[56].

Ciò che distingueva queste immagini dalle precedenti era l’adozione consapevole delle possibilità espressive consentite dalle nuove emulsioni alla gelatina bromuro d’argento, vale a dire la rappresentazione dell’istantaneità  del movimento, pur non riuscendo ancora a nascondere il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli ‘attori’. I nessi più che evidenti con certa pittura coeva non erano però solo di ordine iconografico ma più sostanzialmente concettuale, realizzando il passaggio fondamentale, e radicale in un autore come Poppi, dalla riproduzione all’invenzione di immagini ex novo,  ritornando con altri strumenti narrativi alla pratica della sua precedente stagione pittorica, in anni di nascente pittorialismo. In alcuni casi l’intenzione ‘artistica’  era rivelata proprio dalla relazione tra testo e immagine, come per la ripresa sopra citata, ancora in bilico tra pittoresco ed etnografia, in cui le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico gli consentivano di allontanarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica del mondo contadino solo in virtù delle potenzialità documentarie proprie del medium, sebbene emerga chiara la  messa in scena e le figure rappresentate perdano la loro riconoscibilità anagrafica per mutare di statuto: da persona a icona. Ne sono un chiaro esempio tra i molti Tre contadinelle (10019), Cacciatore e due contadine (10054), o Dettaglio di casa rustica con gruppo di contadini (10041) tutte realizzate entro il 1888, che sono scene nel gusto di Giovanni Battista Quadrone[57]. Di qualità sostanzialmente diversa è invece un’immagine come Gruppo di contadini che lavorano (10022) che dietro al genericissimo titolo nasconde  una composizione e una regia estremamente innovative e sapienti, di cui non è possibile trovare l’eguale nella produzione italiana ed europea di quel periodo. Qui un tema iconografico tipico della pittura di genere è declinato con un linguaggio e con soluzioni narrative propriamente fotografiche: si consideri  la figura centrale della contadinella, bilanciata dallo schermo nero della porta aperta e resa con un mosso che la coinvolge tutta. Tranne i piedi. Il fotografo le avrà chiesto allora  di ondeggiare o di ruotare sull’asse del proprio corpo,  ma senza muoversi, mentre altri la osservano e una bambina seduta al margine destro non riesce a trattenere il riso.

Nei due anni successivi Poppi accrebbe la propria produzione di genere con una trentina di nuovi titoli, esito evidente di un buon successo, ma chi volesse verificarne i soggetti avrebbe una certa difficoltà a ritrovarla completa nella sezione apposita dell’Appendice del 1890. Sebbene la didascalia in lastra parli ancora e sempre di “Genere campestre” i soggetti dal n. 10129 al 10133 erano rubricati sotto il curioso titolo di “Studi di Nudo”; nell’ordine: un San Giovannino (10129) “seduto” o “in piedi” in un improbabile “deserto”, due varianti di ripresa del “Martirio di San Sebastiano” (10131) e un “S. Giovanni sdraiato sull’erba” (10133). Nulla a che vedere col “Genere” di cui sopra, se non forse per le persone ritratte; certo non per i personaggi evocati. Quel titolo apparentemente fuorviante ci consente però di suggerire un confronto tra queste immagini e alcune altre di un autore come Wilhelm von Glöden[58], in cui la differenza appare più di rimandi iconografici che di sostanza: dalla mitologica arcadia siciliana al cristianesimo in versione rurale dell’Appennino emiliano, conservando entrambi quel  “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” di cui aveva parlato Carlo Bertelli proprio a proposito di  Von Glöden, riconoscendone la capacità di  restituire la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica di poco successiva, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare”[59].

Quei Costumi campestri dal vero, come li descrive il verso di una carte de visite, fecero parte  della ricca serie di fotografie presentate da Poppi all’Esposizione Emiliana del 1888, articolata nelle tre sezioni di Agricoltura e Industria,  Mostra Internazionale di Musica e Nazionale di Belle Arti[60]. La coincidenza tra data di produzione e occasione espositiva rende particolarmente convincente l’ipotesi a suo tempo formulata da Fabio Marangoni (1999) che quelle serie fossero state realizzate pensando in particolare ai visitatori dell’Esposizione di Belle Arti; un pubblico che avrebbe potuto apprezzare anche la  serie dei “Fiori e foglie presi dal vero”, della quale alcuni esempi erano già indicati in cataloghi precedenti, ma compresi tra gli “Ornati”.  Il tema godeva da tempo di una notevole fortuna a scala europea, con produzioni di altissimo livello quali la serie di Fleurs photographiées  pubblicata da Adolphe Braun nel 1854[61], una novità assoluta nella produzione fotografica, gli Études de Feuilles di Charles Aubry, del 1864 o ancora gli “Studi” realizzati da Alphonse Bernoud verso il 1875, dopo il suo ritorno a Lione[62], una città che non solo vantava una lunga tradizione pittorica nel genere ma aveva un’importante industria tessile.  Poiché erano i disegnatori, insieme ai pittori certo, i primi e più importanti destinatari di quelle opere che sulla neutralità della descrizione botanica facevano prevalere gli aspetti compositivi e formali dell’inquadratura come le possibilità offerte dalla fotografia di accentuare una resa quasi materica delle foglie e dei petali (10326, 10343)

Sebbene realizzati tra 1888 e 1890 vanno qui considerati anche gli studi di nubi “presi dal vero”, sottolineatura quasi pleonastica se non fosse che le nuvole erano già presenti in molte sue riprese, specie d’architettura, ma come frutto di un intervento manuale sulla lastra negativa (945). Questi invece sono proprio cieli carichi di nubi  (10162), nei quali solo di rado e in forma letteralmente marginale compare il resto di un profilo urbano (10158, 10164). Sono nuvole piene, corrusche e solide, viste da un piano prospettico fortemente inclinato o quasi verticale, per molti versi sovrapponibili agli studi “di nuvoli” realizzati dagli Alinari qualche anno dopo, quando l’impresa era diretta da Vittorio[63].  In entrambi i casi l’esiguità dei soggetti e la mancanza di un qualsiasi intento classificatorio non consentono di collocare quelle piccole produzioni nel contesto del dibattito internazionale che proprio in quegli anni si andava consolidando intorno al tema[64], anche se non possiamo neppure escluderne un qualche effetto di suggestione, combinato con il fascino pittoresco del tema, da sempre condiviso da pittori, letterati e poeti e che, per ragioni diverse, non aveva mai cessato di attrarre neppure i fotografi sin dai primi anni ‘50 e che ancora nei primi decenni del ‘900 avrebbe coinvolto amateur italiani come Andrea Tarchetti[65] e Mario Gabinio[66].

Il 1888 fu un anno cruciale per Poppi e la Fotografia dell’Emilia: non solo la privativa e il premio “con gioiello da S.M. la Regina d’Italia” ricevuto all’Esposizione e la pubblicazione di una cartella di stampe con testo di Corrado Ricci ma anche l’importante commessa da parte della Repubblica di San Marino per la realizzazione di un album da presentarsi all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno successivo, ottenuta per intercessione di Carlo Malagola[67], Commissario per la Divisione VIII Arti Grafiche della stessa Esposizione,  membro della Commissione Artistica e della Giuria che gli aveva assegnato il premio[68].

Nel testo che accompagnava le  trentuno fotografie dedicate ai  Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV,  Ricci richiamava l’impossibilità metodologica di “tessere brevi ricordi biografici senza valore e sopra la sola fede di storie piene d’errori e di leggende”[69], ciò che poteva ben corrispondere anche all’uso ormai consolidato della fotografia quale strumento e fonte di mediazione documentaria di cui proprio quell’opera costituiva un importante esempio. Una eco, e un’ulteriore conferma di quelle posizioni si sarebbe poi ritrovata nelle parole di un altro storico dell’arte che più volte si avvalse delle riprese di Poppi come Francesco Malaguzzi Valeri, che introducendo il suo volume dedicato a L’architettura a Bologna nel Rinascimento, dichiarava che “la dottrina dell’arte nostra ha troppo bisogno di rinnovarsi originalmente con lo studio dei [sic] fonti a stralciare gli ultimi veli del fantastico e dell’accademico che ancor l’avviluppano”[70]. In anni in cui la storia dell’arte si definiva metodologicamente come disciplina anche in virtù di un ricorso sistematico alla fotografia quale fonte documentaria e strumento comparativo, l’offerta delle ditte fotografiche si ampliava estendendosi anche alle nuove realtà museali: così entrarono a far parte del Catalogo Poppi del 1888 anche 130 riprese dedicate agli ambienti e alle opere del Museo Civico Archeologico di Bologna, mentre la sezione dedicata ai “Quadri” si estendeva sino a comprendere opere conservate all’estero, come la “Maddalena nel deserto” (503) del Correggio (Maria Maddalena leggente, oggi perduta) ricavata però da un’incisione, come non era raro che accadesse in quegli anni non tanto per la difficoltà di raggiungere l’originale quanto per l’insoddisfacente traduzione tonale della cromia originale consentita dalle emulsioni non ortocromatiche.

Il lavoro su San Marino condotto nell’ottobre del 1888 in collaborazione con nipote Angelo Marzola venne illustrato da uno specifico catalogo firmato come “Fotografo governativo della Repubblica di San Marino”[71],  corredato di nota introduttiva di Malagola[72], autore anche delle didascalie alle trentasei immagini repertoriate, su di un totale di almeno settanta  realizzate nel corso della campagna. Sono fotografie accurate, corrette, con una inevitabile attenzione per il contesto paesaggistico ma prive di quella capacità di dialogo coinvolgente con le architetture rappresentate che è uno dei grandi pregi dell’operare di Poppi e che lo distingue immediatamente dalla produzione di altri studi e autori coevi, anche quando sente l’attrazione dei dettagli (185). Se “una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi – come scrisse  Rudolf  Wittkower – poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani”[73], allora potremmo dire che Poppi, pur inevitabilmente legato allo stesso processo proiettivo, mostrava uno sguardo più nordico e padano, tra romanico e gotico e ovviamente non solo per le architetture fotografate (3430 – Bologna). Ne è testimonianza l’uso ricorrente del grandangolare, combinato con l’adozione di un punto di vista non di rado disposto in asse a uno spigolo dell’edificio, con  esiti non sempre controllati ma con risultati a volte eccezionali, come nella ripresa del Castello Estense a Ferrara (600),  che solo un residuo di consapevolezza storica ci impedisce di dire metafisica. Sono forse queste caratteristiche che fecero riconoscere a Renzo Grandi nel lavoro di Poppi “una percezione dei luoghi complessa e perfino inquieta e immaginosa”[74], non contraddetta da una sistematicità quasi maniacale, che lo portava a rifotografare a distanza di tempo lo stesso soggetto[75], in uno sforzo continuo di aderire alle mutazioni del reale nel tempo. Un’intenzione propriamente fotografica che lo induceva a  replicare rigorosamente le condizioni di ripresa (punto di vista e focale, e quindi inquadratura); indagando il soggetto con minime varianti, lavorando di campo e controcampo o riproponendolo scorciato dai due lati, come nella serie dedicata alla Porta dei Leoni di Palazzo Prosperi a Ferrara, a sua volta con varianti (6066076391).

E poi le luci: contravvenendo in non pochi casi alle buone regole che consigliavano riprese con illuminazione diffusa, Poppi apprezzava  e forse cercava  luci piuttosto radenti, in grado di dare maggior rilievo plastico agli elementi (2901 – Budrio – Palazzo Municipale), con ombre portate che a volte drammatizzano in modo quasi eccessivo la scena (1143).

E poi le persone: già nei primi esemplari noti gli spazi urbani appaiono occupati da figure in modi che è possibile riscontrare anche in Emile Anriot[76], ma qui ancor più marcati: Poppi amava riprendere i monumenti con la vita intorno. Persone ferme a guardare il fotografo, ancora curiose, magari celate nell’ombra di una porta, di un androne, protette da una grata di finestra. Più di frequente la presenza appare cercata e voluta,  (4960; 1721) non più come parametro dimensionale però: le figure occupano lo spazio e lo vivono; sono aneddoto non misura dell’opera (113). Nello spazio definito dal monumento accadono piccole storie, come nel caso delle due figure sulla scalinata della chiesa di San Fermo a Verona (4201),  messe in scena dal fotografo in modi analoghi a quelle di “Genere campestre”. Non si tratta – credo – di attenzione al colore locale nel “gusto di un Naya o di un Sommer” come sosteneva Zannier[77], ma di un portato della formazione pittorica di Poppi, quella stessa che lo induceva a dipingere a vernice grassa le nuvole nei cieli delle sue architetture anche in anni in cui la rapidità delle lastre alla gelatina  avrebbe consentito tecnicamente la loro ripresa. In fondo si trattava di risolvere un problema artistico: per ottenere l’effetto voluto, per arricchire la veduta, invece di utilizzare metodi fotografici come il fotomontaggio o la doppia esposizione, Poppi preferiva ricorrere alla manualità del gesto, infine pittorico.

 

 

Note

 

[1] Poppi 1871.

[2] Inchiesta 1873, p. 2.

[3] Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”, lettera del 6 maggio 1870; in una successiva missiva del 12-08-1870 indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti” il Ministro precisava: “a ciò fui mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa”.

[4] Inchiesta 1873, p. 10. Dopo l’attività di Anriot e di Poppi si dovrà attendere l’Appendice del 1881 per avere un primo, ricco catalogo bolognese; cfr. Sesti 1993.

[5] Citato in Tomassini 2003, p. 169.

[6] Citato in Cova 1987a;  la vicenda professionale di Anriot, ancora poco nota, lo colloca nel  gruppo non minuscolo dei fotografi itineranti di quegli anni: prima di giungere a Bologna aveva operato a Fiume e a Zara nel 1858-1859, cfr. Seferović 2009; dopo, come noto, si sarebbe trasferito a Roma.

[7] Suggestiva la lettura proposta da Varignana 1993, pp. 64-65, di un dipinto come Piazzetta dell’Aurora e via dell’Asse, post 1864, “che si direbbe realizzata, come già faceva Basoli, con l’aiuto della camera ottica”.

[8] Lettera ai Reggenti di San Marino del 18 marzo 1889, citata in Marangoni 1999, p. 54-55.

[9] La nuova società fu attiva parallelamente alla Fotografia dell’Emilia, che risulterebbe aver cessato la propria attività nel 1869, cfr. Cristofori 1992c.

[10] Varignana 1985, p. 44; Cristofori 1992c, p. 276.

[11] “Il Monitore di Bologna”, 17 aprile 1866, n. 105, citato in Cristofori 1992c; si veda anche Marangoni 1999, pp. 52-53, che riporta ampi stralci del brano. La porzione di Archivio Poppi acquistato nel 1940 dalla Cassa di Risparmio di Bologna è consultabile all’indirizzo https://digital.fondazionecarisbo.it/category/fondo-poppi?query=&sort=title&order=asc&page=1&size=20&filterField=

[12] Camerini 1868. Questa, come altre iniziative, si collocava nel contesto delle celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante, a cui è riferibile anche l’opera di Carlo Saccani che a Parma, nello stesso 1866, pubblicava la parte dedicata all’Inferno de La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata, riproducendo fotograficamente i disegni di Francesco Scaramuzza, preparatori del grande ciclo di tele  avviato in un primo tempo su commissione di Luigi Carlo Farini, cfr. Bersani 1992.

[13] Fu presente come tecnologo e inventore di nuovi procedimenti fotografici sia all’Esposizione industriale ed Agraria del 1869 che all’Esposizione Emiliana del 1888.

[14] Luigi Sacchi 1998, sch. 34; Mormorio 2000, p. 104.

[15] Basti in tal senso la testimonianza di John Ruskin in una lettera inviata al padre da Pisa: “Al Camposanto ho fatto la conoscenza di due artisti che, sebbene fossero francesi, parlavano proprio come esseri umani; (…) Sono due anni, ormai, che studiano i dipinti antichi, quelli degni di nota, e mi hanno prodigato suggerimenti assai utili; sostengono che dovrei fermarmi un mese a Padova, e mi assicurano che non c’è niente a Bologna; una notizia, questa, che mi procura gran gioia, giacché non amo quella città”  (in Ruskin 1985, lettera del 21 maggio 1840), che ritornava però nei deliri dei primi stadi della sua malattia, quando gli compariva in sogno la Beata Vigri, “the only woman painter ever canonized”; cfr. Viljoen 1971, p. 105, citato in Bradley, Ousby 1987, p. 413.  Nonostante gli apprezzamenti di Jacob Burckhardt (Der Cicerone, 1855) quella ridotta considerazione dovette permanere a lungo se il catalogo Alinari del 1863 comprendeva solo la Testa del Nazareno di Guido Reni e la Santa Cecilia di Raffaello (tra i primi dipinti riprodotti anche da Poppi). Ancora nel  settembre del 1896 Sigmund Freud, che pure acquistò due fotografie di Poppi,  poteva scrivere alla moglie: “città stupenda, pulita, con piazze e monumenti colossali [ma] Chiese ed arte qui [sono] per fortuna meno coercitivi”, citato da Cecilia Cristiani sul sito dell’Associazione Amici della Certosa http://amicidellacertosa.com/articoli.html [25-07-2014].

[16] Poi raccolte nel 1868 per Nicola Zanichelli nel volume Edifizi, vedute, quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna, rappresentate colla fotografia, cfr. Cristofori 1992a, p. 270.

[17] Gray 1992;  Tromellini, Spocci 1992a.

[18] Benassati 1992a, in cui forse per un refuso sfuggito all’acribia della redattrice e curatrice si indica come data di esecuzione un improbabile termine post quem: “esec. 1833 [sic]-1859”. Un altro esemplare dello stesso panorama, non montato, appartiene alla collezione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, cfr.  Bonetti, Maggia 2007, pp. 34-35.

[19] Scorcio di Piazza Maggiore con il palazzo del Podestà ed il mercato delle erbe, 1865 circa.

[20] L’attribuzione della ripresa si deve a Angela Tromellini e a Roberto Spocci che hanno confrontato le diverse stampe conservate presso la  Soprintendenza Beni Architettonici e le collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna con l’esemplare compreso in una cartella della Biblioteca Reale di Torino, che contiene altre sette stampe anonime  ma di identico formato e montaggio oltre che caratterizzate da una certa omogeneità di impianto, cfr. Tromellini, Spocci 1992b. Nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio è conservata una stampa  derivata da un’altra ripresa effettuata con luci analoghe ma con inquadratura meno accurata e spostata a destra, tale da comprendere anche la casa accanto. Nonostante il fatto che le imperfezioni comuni ed evidenti nel trattamento delle lastre al collodio da cui derivano le stampe comprese nella cartella conservata alla Biblioteca Reale sembrerebbero testimoniare non solo un’autorialità comune ma anche una plausibile scarsa perizia iniziale di Poppi o del misterioso fantasma della Fotografia dell’Emilia, la presenza nella stessa cartella della fotografia della Piazza di S. Domenico/ in Bologna, certamente di Anriot, ci fa ritenere che quella cartella non fosse di produzione editoriale ma semmai l’esito di una collazione, come sembrano confermare sia gli scarsi nessi tra le stampe e il bel raccoglitore con piatti in lacca cinese a motivi floreali sia una serie analoga  passata in asta da Gonnelli a Firenze nel 2013   http://www.gonnelli.it/it/asta-0013/anriot-andeacute-mile-bologna-.asp [23 07 2015], in cui erano comprese sia stampe di Anriot sia le Torri Asinelli e Garisendi intere con statua di S. Petronio di Poppi.

[21] Si confronti la stampa di Anriot compresa nelle Vedute Fotografiche con gli analoghi soggetto di Poppi e Sommer pubblicati rispettivamente da  Tromellini, Spocci 1992b e da Frisoni 2008, p. 64. Il punto di ripresa e la scelta dell’ora, della luce più adatta pare quasi obbligato o – almeno – largamente condiviso, come dimostra il confronto tra queste immagini, a loro volta utilizzate come modello per la realizzazione del dipinto di Alfredo Domenichini, Il complesso delle chiese stefaniane e il palazzo Isolani, 1875, olio su cartone,  55×45,5 cm. conservato nelle collezioni della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.

[22] Di quest’immagine venne prodotta anche  la versione in carte de visite, ottenuta apparentemente per riproduzione della stampa maggiore.

[23] A conferma della funzione selettiva di queste pubblicazioni ricordiamo che il catalogo non comprendeva le riproduzioni dal Dorè ed escludeva  le opere dei primitivi presenti nella Pinacoteca bolognese,  “coerentemente al gusto del tempo e agli ancora vigenti dettati accademici”, Varignana 1985, p. 44-45, quelli stessi che forse lo avevano portato a riprodurre anche La Sposa pompeiana di Modesto Faustini, presentata alla Esposizione triennale della Società Protettrice per le Belle Arti di Bologna del 1867 e acquistata dall’Accademia, cfr. Benassati 1992b che fraintendeva però il nome dell’autore attribuendo il dipinto ad un altrimenti ignoto “Faustino Modesti”. Come ricordava Diego Martelli nel 1867, prima che a Bologna l’opera era già stata esposta a Brera, ricevendo quegli apprezzamenti che avrebbero potuto indurre Poppi a realizzarne la riproduzione.

[24] In Poppi 1890 il repertorio si arricchirà di 15 riprese dei “Dipinti degli archi dei portici del Palazzo della Banca Nazionale,  del Prof. Lodi (1865)” (80808094) mentre in Poppi 1896 compariranno alcuni dei nuovi edifici costruiti su Via Indipendenza come il Palazzo Arena del Sole, il Palazzo Cavalieri Finzi e Treves e la  Casa Stagni.

[25] Si vedano le riprese relative alle cave di gesso di Monte Donato, che fu un tema ripreso molti anni dopo da Luigi Bertelli (1833-1916), Cave di Monte Donato, 1902 ca. MAMbo – Bologna, amico di Poppi di cui sono noti alcuni modesti lavori derivati da sue fotografie, cfr. Cristofori 1992b.

[26] Poppi 1879.

[27] Per entrambe le citazioni si rimanda a Marangoni 1999, pp. 61-62.

[28] Oltre a Luigi Ricci, a sua volta in rapporti con Poppi, ricordiamo almeno Federico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli e il cremonese Aurelio Betri.

[29] Si veda Benassati 1992c, che aveva correttamente ipotizzato la derivazione dalla ripresa di Poppi, allora non nota non essendosi conservata la lastra nel Fondo omonimo, di cui è stata reperita una stampa nella collezione di Melchiorre Pulciano.

[30] Come risulta da una serie di lettere e bollettini di spedizione conservati presso la collezione di Robert Marchesin, oggi donata agli Archives départementales du Cher, a Bourges; cfr. Le Polley Fonteny 2003, p. 71 e p. 84 nota 7.

[31] Poppi 1883.

[32] Mozzo 2004, p. 862.

[33] Restano da comprendere le distinte ragioni per cui il Duca consentisse di pubblicare immagini anche di sale non di rappresentanza come  il “gabinetto che mette al fumoir” (253D) o il salotto e la sala da pranzo di “S.A.R. l’infante Donna Eulalia” di Spagna (3497, 3498, ante 1896) e, per altro verso,  quali ne fossero i possibili acquirenti. Potrebbe riferirsi indirettamente alle relazioni col duca anche l’ingresso in catalogo delle riproduzioni (nn. 520-521) di  alcune incisioni di un autore minore come François Claudius Compte-Calix che (nel 1863?) aveva dipinto il ritratto di una delle figlie del duca: la piccola Marie-Christine.

[34] Una analoga attenzione commerciale per le strutture alberghiere si ritrova ad esempio in Sella, Vallino 1890.

[35] L’esemplare fa parte di una serie di otto albumine, di identico formato, riunite  in una custodia cartonata rivestita di tela rossa, con l’ex-libris della “Bibliotheca/ Regis/ Umberti”, conservata presso la Biblioteca Reale di Torino.

[36] Come segnalava Becchetti 1983, p. 335, la campagna romana venne commissionata o, almeno, utilizzata per l’apparato illustrativo di Schutz 1885, in cui “molte tavole fototipiche recano oltre ‘Phot. Dell’Emilia. Bologna’ anche gli anni di esecuzione che vanno dal 1880 al 1882.” Il dato è confermato dalla documentazione conservata presso gli archivi dei Musei Vaticani, dai quali risulta – come mi ha comunicato Cristina Gennaccari, che ringrazio per la preziosa segnalazione – che  Poppi fu autorizzato in data 30 ottobre 1880 a lavorare per un mese “per riprodurre colla fotografia alcuni affreschi” nelle “Camere e Logge”, intendendosi verosimilmente le Stanze e Loggia di Raffaello. Forse per ragioni legate ai diritti editoriali dell’opera di Schutz quelle immagini entrarono a far parte dei cataloghi di Poppi solo a partire dal 1888. Restano però ancora non pochi problemi aperti, come suggerisce il fatto che la lastra n. 2126 dedicata al  Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma, immessa in catalogo nel 1883 è una semplice variante di ripresa, eseguita quindi nello stesso momento, della lastra n. 5196, databile al  1875 ca e attribuita a  Pompeo Molins,  che verosimilmente deve essere considerato l’autore di entrambe, come ha indicato Jean-Philippe Garric, nel corso della sua comunicazione dedicata alla Collezione Parker, condivisa con Francesca Bonetti,  presentata al seminario internazionale Les capitales photographiques , che si è tenuto a Parigi il 17-18 settembre 2015,  promosso da Labex CAP (Création, Arts et Patrimoines) in collaborazione con altre istituzioni internazionali.

[37] Melchiorre Pulciano (1833-1923), collaboratore di Edoardo Arborio Mella e autore di alcune chiese e di edifici civili in stile ‘neomedievale’ o eclettico, attivo anche nell’ambito del restauro. Nel 1915 redasse il testo storico critico dedicato al Palazzo Barolo di Torino per la serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”, del fotografo Gian Carlo dall’Armi.

[38] L’Archivio dell’Ing. Guido Tirelli (1883 – 1940), costituito dai disegni di progetto e da una ricca raccolta fotografica che comprende anche 54 stampe di Poppi, è conservato presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia consultabile all’indirizzo https://collezionidigitali.comune.re.it/cris/fonds/fonds00211/fondsinformation.html?orderall=ASC&startall=440&sort_byall=11&open=all  [03 01 2023].

[39] Francesco Azzurri (1827-1901), Presidente dell’Accademia di San Luca dal 1890, acquistò una serie di fotografie di Poppi nel 1889 e negli anni successivi il fotografò documentò diverse fasi della costruzione del Palazzo, sino alla sua inaugurazione, cfr. Marangoni 1999, pp. 196-197. Altre fotografie di Poppi appartennero anche a Giacomo Santamaria, attivo a Milano tra eclettismo e liberty e a Gino Coppedè, queste ultime oggi conservate nel Fondo omonimo dell’Archivio Fotografico Toscano a Prato.

[40] Russel Sturgis (1836-1909), architetto e influente critico di architettura, fu tra i fondatori del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel corso del suo secondo Grand Tour acquistò numerose fotografie che andarono ad arricchire la sua già importante raccolta iniziata nel corso del primo viaggio in Europa nel 1858-1861; alla sua morte le circa 20.000 stampe che la formavano furono acquisite dal dipartimento di Architettura della Washington University. Può essere un interessante indizio, sebbene singolare, del successo commerciale (e culturale) dei diversi fotografi ed editori considerare che a fronte di 135 fotografie di Poppi la collezione ne conserva 1008 di Alinari, 370 di Brogi, 274 di Naya, 175 di Moscioni e 113 di Sommer, per limitarci alle maggiori presenze italiane; cfr. Hanlon 1997, consultabile on line : https://library.wustl.edu/spec/russell-sturgis/  [03 01 2023]. A conferma di una buona attenzione per la sua produzione da parte di viaggiatori internazionali segnaliamo che alcune stampe Poppi di soggetti bolognesi sono comprese nell’album Venice Spezzia [sic] Bologna, dell’International Center of Photography di New York;  tra questi anche il Gioacchino Murat di Vincenzo Vela nella tomba di Letizia Murat Pepoli, che fu a sua volta una delle prime estimatrici di Poppi pittore, di cui nel 1857 acquistò  il dipinto Campagna lambita da corrente di fiume, cfr. Grandi 1983.

[41] Le prime committenze risalivano al 1882, quando Poppi intervenne a documentare il restauro del castello di San Martino in Soverzano di Minerbio (Bo) e proseguirono almeno sino al 1894 col  Museo di San Petronio.

[42] Numerose fotografie di Poppi sono comprese nel fondo conservato nel Gabinetto Disegni e Stampe, della Pinacoteca Nazionale di Bologna.

[43] L’ingegnere possedeva alcune stampe Poppi relative a edifici da lui realizzati, poi donate dalla moglie nel 1939  alla Biblioteca dell’Archiginnasio “per ricordare l’attività del marito nel campo dell’edilizia”.   cfr. Roncuzzi Roversi-Monaco 1992.

[44] E. Viollet-Le-Duc, voce Restauration. in Viollet-Le-Duc 1860, pp. 33-34.

[45] Boito 1893, pp. 28-30.

[46] Cavanna 1981.

[47] Se ne conoscono le stampe all’albumina, in grande formato (37×41 circa, montate su cartoni 44×52 cm), firmate Pietro Poppi e conservate presso la Biblioteca Civica di Padova. Non si può naturalmente escludere che tale incarico derivasse da contatti intrattenuti in occasione della campagna documentaria sul patrimonio architettonico patavino effettuata prima del 1883, ma l’affidamento a Poppi costituisce comunque una singolarità, sia rispetto alla sua produzione consueta (almeno per quanto ci è noto) sia per la presenza in città di buoni professionisti come Ferdinando Farina o Costante Agostini ma soprattutto per la disponibilità nella vicina Verona di uno specialista di grande livello come Moritz Lotze; cfr. Lotze 1984; Vanzella 1997. Altrettanto eccentriche risultano le cinque riprese dedicate al ponte San Michele sull’Adda (ponte di Paderno), completato nel 1889, ma in questo caso l’eccezionalità dell’opera ingegneristica ne determinò l’immissione in catalogo con l’Appendice 2a del 1896 (nn. 1441-1445).

[48] Poppi 1888. Lo spazio disponibile non ci consente di analizzare compiutamente altre produzioni di Poppi non confluite in catalogo, come quella condotta presso l’Istituto Aldini Valeriani nel 1878 o quella commissionata dopo il 1895 dalla Fernet-Branca per documentare la diffusione bolognese delle nuove insegne pubblicitarie con l’aquila disegnata da Leopoldo Metlicovitz, cfr. Tromellini, Cecchini 2003.  Colgo l’occasione per ringraziare Angela Tromellini per la segnalazione delle preziose stampe di Poppi.

[49] Tanto affascinante quanto complesso, e impraticabile qui, anche solo il proposito di accennare all’evoluzione terminologica del linguaggio intorno alla fotografia, ma ricordo a puro titolo di suggestione che l’Adalgisa, uno dei grandi personaggi di Gadda, tra i numerosi interessi del suo compianto Carlo (il marito) comprendeva anche “i ritratti dei paesaggi della Libia”, Carlo Emilio Gadda, L’ Adalgisa: disegni milanesi. Firenze: Le Monnier, 1944.

[50] Laudisa 1995, p. 85.

[51] Alcune riprese di soggetto analogo erano presenti già nel catalogo del 1871, come “Cava con donne” (261) o Sasso [Marconi] – “La torre – casa con figure in costume di codeste montagne” (272). La serie venne poi ulteriormente accresciuta nel 1890 e 1896 rispettivamente con 26 e 16 nuovi soggetti.

[52] Si veda Gaetano Chierici 1986.

[53] Fusco et al. 2011, pp. 93, 116, 126.

[54] F. F., Corrispondenza, [10 ottobre], “Cronaca. Giornale di Scienze, Lettere, Arti, Economia e industria pubblicato da Ignazio Cantù”, 2 (1856), disp.7, pp. 331-333,  Milano: Tipografia di Giuseppe Redaelli. citato in Vanzella 1997,  p. 32 come F. Falzago, Fotografia di Padova nel 1856, datato 15 ottobre 1856.

[55] Voir l’Italie 2009.

[56] Si vedano a titolo di esempio Wayside Gossip, 1882 e He Never Told His Love, 1884, entrambe nelle collezioni della Royal Photographic Society di Londra.

[57] Si veda Giovanni Battista Quadrone 2014.

[58] Si consideri ad esempio il Ritratto di ragazzo con flauto, 1900 ca. in Arte in Italia 2011, p.177. Von Glöden fu a sua volta autore di una nutrita serie di “Scene di vita e di lavoro”, ampiamente pubblicate all’epoca in periodici quali “Il Progresso Fotografico” e oggi quasi dimenticate, cfr. Zannier 2008; ricordiamo inoltre che le sue fotografie, come quelle di Poppi, comprendevano tra i propri possibili destinatari anche gli Istituti d’Arte, cfr. Wilhelm von Gloeden 2000.

[59] Bertelli 1979, pp. 68, 84-87.

[60] Expo Bologna 1888 2015.

[61] Adolphe Braun 2000 ; per Charles Aubry cfr. McCauley 1994. Diverso era l’intento e la concezione delle nature morte realizzate da Roger Fenton intorno al 1860 come delle 47 albumine di Pietro Guidi per la  Flora fotografata delle piante più pregevoli e peregrine di San Remo e sue adiacenze per Francesco Panizzi, del 1870.

[62] Fanelli, Mazza 2012, pp. 154-155.

[63] Quintavalle 2003, p. 408.

[64] La pubblicazione della prima opera fotografica dedicata al tema fu  Hildebrandsson, Osti 1879, con 16 stampe all’albumina,  mentre proprio nel 1890 venne edito il primo atlante sistematico (Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890),  cfr. Lebart 1996, disponibile on line: http://etudesphotographiques.revues.org/288  [05 08 2015].

[65] Si veda Andrea Tarchetti 1990.

[66] Si veda Mario Gabinio 1996.

[67] L’accurata ricostruzione delle vicende che portarono a questo incarico si deve a Marangoni 1999, pp. 159-198, poi sintetizzate in Marangoni 2001.

[68] Marangoni 1999, pp. 133-159.  Poiché il valore dichiarato degli “oggetti esposti” era di L. 1000,  considerando che il prezzo di ciascuna stampa oscillava tra le L. 1,50 cadauna per le sciolte e L. 0.70/1.00 per quelle in album, Poppi avrebbe dovuto esporre più di 600 fotografie, numero che pare troppo elevato anche per uno spazio espositivo molto grande (7×2.90 m. a parete e 7×0.90 in ingombro a terra per le vetrine), il maggiore di quella sezione. Possiamo quindi supporre che esponesse la gran parte dei “campionari” del suo repertorio. La documentazione dell’Esposizione Emiliana, di cui la ditta Poppi era “unica concessionaria del Comitato esecutivo”, comparve in catalogo solo nella Appendice Ia del 1890, ma alcune di quelle immagini vennero pubblicate sul giornale della stessa Esposizione.

[69] Avvertenza, in Ricci, Poppi  1888, p. 3, che più oltre, a proposito del Sepolcro di Rolandino Passeggerio riconosceva che  “la Tavola V ci dispensa da una lunga descrizione”, p. 10. A conferma del ruolo autoriale ed editoriale di Poppi ricordiamo che la pubblicazione era registrata anche nella Appendice I del 1890.  I rapporti tra i due, forse inizialmente mediati dal padre di Corrado, Luigi, con cui Poppi intratteneva rapporti professionali,  proseguirono negli anni successivi quando Ricci divenne Direttore delle “Regie Gallerie” di Parma (1893) e poi di Modena (1894); in quella occasione Poppi rispose alla richiesta di Ricci di integrare la serie di vedute di Modena proponendo una nuova campagna affidata al nipote Angelo Marzola. Ancora nel 1896 Poppi gli avrebbe chiesto di verificare la correttezza delle descrizioni dei soggetti d’arte compresi nell’Appendice 2a; ricordiamo infine che per sua iniziativa 49 fotografie di Poppi entrarono a far parte del”ricetto fotografico” di Brera verso il 1899. La collaborazione editoriale di Ricci con i fotografi fu sempre costante, sia nell’ambito dei propri progetti editoriali, quali l’ “Italia Artistica” sia redigendo testi e saggi introduttivi come fu per Cassarini 1894 e per Pedrini 1929.

[70] Malaguzzi Valeri 1899, nota introduttiva non titolata, pp.n.n. Il volume raccoglieva, rielaborandoli in parte,  anche alcuni contributi specifici già pubblicati nell’ “Archivio storico dell’arte” a partire dal 1893 a loro volta illustrati da fotografie di Poppi. Al verso del frontespizio si segnalavano le  “Fotografie dello Stabilimento Poppi di Bologna/ Eliotipie e Fototipie dello Stabilimento Danesi di Roma”. In realtà le 79 figure nel testo sono zincotipie mentre le venti f.t. sono eliotipie (o fototipie, i termini sono sinonimi). Segnaliamo che nelle zincotipie si riscontrano interventi di modifica quali scontornature degli elementi architettonici (capitelli) e aggiunta di nuvole ai cieli. Il volume è stato studiato da Rubbi 2010.

[71] Album di fotografie della Repubblica di San Marino/ in Bologna presso Pietro Poppi Fotografo governativo della Repubblica di San Marino. Bologna: s.e.,  1889. Come accadeva non di rado, il contratto non prevedeva  altro compenso che la copertura delle spese viaggio, vitto e alloggio; fu però concesso a Poppi di porre in vendita alcune copie dell’album durante l’Esposizione parigina.

[72] Ricordiamo qui che anche il figlio del Console di San Marino a Bologna, Guido Malagola, si sarebbe pochi anni dopo dedicato alla fotografie en amateur realizzando non solo una interessante serie di ritratti del bel mondo internazionale che ruotava tra Venezia e Londra ma anche immagini di tipo documentario, alcune delle quali furono utilizzate per illustrare un volume dedicato a  San Marino (Ricci 1903).

[73] Citato in Bertelli 1984, p. 7.

[74] Grandi 1983.

[75] Le ragioni potevano essere di volta in volta diverse: dalle mutate condizioni dell’edificio all’utilizzo di nuove emulsioni (dal collodio alle prime gelatine poi alle lastre ortocromatiche) sino alla necessità di rifare lastre per una qualche ragione rovinate.

[76] Si veda Modena, Facciata meridionale del Duomo, in E. Anriot, Edifizi, vedute quadri insigni di Modena, Bologna, Ravenna rappresentati colla fotografia. Modena: Nicola Zanichelli, 1868, tav. 65. in quel periodo le vedute animate erano invece consuete nei formati minori, e specialmente nelle riprese stereoscopiche.

[77] Zannier 1980.

 

 

Bibliografia citata

Adolphe Braun 2000

Image and enterprise. The photographs of Adolphe Braun. catalogo della mostra (Providence, Museum of Art, Rhode Island School of Design, 4 febbraio -22 aprile 2000; Cleveland, The Cleveland Museum of Art,  18 giugno – 27 agosto 2000),  Maureen C. O’Brien, Mary Bergstein, eds. London/ Provincetown, Thames & Hudson in association with the Museum of Art, Rhode Island School of Design, 2000

 

Andrea Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di Pierangelo Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura di Vercelli, 1990

 

Arte in Italia  2011

Arte in Italia dopo la fotografia: 1850-2000, catalogo della mostra (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, 24 dicembre 2011-4 marzo 2012), a cura di Maria Antonella Fusco, Maria Vittoria Marini Chiarelli.  Roma; Milano: Ministero per i Beni e le attività culturali;  Mondadori Electa, 2011

 

Attraverso l’Italia 1902

Attraverso l’Italia. Raccolta di 2000 fotografie di vedute, di tesori d’arte e tipi popolari; con un testo di Ottone Brentani. Zurigo – Lipsia – Milano:  C. Schmidt – Touring club italiano, 1902

 

Becchetti 1978

Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978

 

Becchetti 1983

Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983

 

Benassati 1992a

g.b. [Giuseppina Benassati], Bettini, Carlo Napoleone (1819 – ?), in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/29, p. 132

 

Benassati 1992b

g.b. [Giuseppina Benassati], Fotografia dell’Emilia (att. 1865 – 1940)/ La Sposa Pompeiana, in Benassati,  Tromellini  1992, sch. I/64, p. 156

 

Benassati 1992c

g.b. [G. Benassati], Gordini Silvio (1849-1937)/ [Particolare dell’arca del Monumento Tartagni in S. Domenico], in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/9, p. 112

 

Benassati,  Tromellini 1992

Fotografia & Fotografi a Bologna 1839-1900, catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico Archeologico, 25 gennaio-1 marzo 1992), a cura di Giuseppina Benassati e Angela Tromellini.   Bologna: Grafis Edizioni, 1992

 

Bersani 1992

Cristina Bersani, Biblioteca dell’Archiginnasio: le raccolte fotografiche, in Benassati,  Tromellini 1992, pp. 80-83

 

Bertelli 1979

Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. In: Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali 2”, I, Torino: Einaudi, 1979, pp. 59-198

 

Bertelli 1984

Carlo Bertelli, La fotografia come critica visiva dell’architettura, “Rassegna”, n.20, 1984, pp. 6-13

 

Boito 1893

Camillo Boito, Questioni pratiche di Belle Arti. Milano, Hoepli, 1893

 

Bonetti, Maggia 2007

Un itinerario italiano: Fotografie dell’Ottocento dalla Collezione Sandretto Re Rebaudengo, catalogo della mostra (Roma, Museo Hendrik Christian Andersen, 18 aprile-17 giugno 2007), a cura di Maria Francesca Bonetti, Filippo Maggia. Torino: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, 2007

 

Bradley,  Ousby 1987

John Lewis Bradley, Ian Ousby, eds., The Correspondence of John Ruskin and Charles Eliot Norton. Cambridge; New York : Cambridge University Press, 1987

 

Camerini 1868

La Divina Commedia di Dante Alighieri illustrata da Gustavo Doré e dichiarata con note tratte dai migliori commenti per cura di Eugenio Camerini: Inferno. Milano: Stabilimento dell’Editore Edoardo Sonzogno, 1868

 

Cassarini 1894

Alessandro  Cassarini, Il Montefeltro. Bologna: Tipografia Zamorani e Albertazzi, 1894

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale/Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123

 

Cavicchi 2006

Monica Cavicchi, Quadraturismo e fotografia a Bologna, in Realtà e illusione nell’architettura dipinta : quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca,  Atti del convegno internazionale di studi (Lucca, San Micheletto, Palazzo Ducale, 26-28 maggio 2005), a cura di Fauzia Farneti, Deanna Lenzi. Firenze : Alinea, 2006, pp. 307-312

 

Cesareni [1885] 1915

Francesco Cesareni, Relazione sulla capacità della Botte alle Tresse sottopassante il nuovo Brenta a scaricare, oltreché le acque dei tre Consorzi Foresto, Fossa Paltana, Fossa Monselesana: Chioggia li 27 gennaio 1885 (nuova ed. Venezia: C. Ferrari, 1915)

 

Chiesi 1900

Gustavo Chiesi, Provincia di Bologna,  La patria : geografia dell’Italia”.  Torino : Unione Tipografico-Editrice, 1900

 

Commissione 1893

Commissione per la Fabbrica di San Francesco, Chiesa di San Francesco e tombe dei Glossatori in Bologna: Restauri e progetti. Bologna: s.e. 1893, esemplare unico dedicato “Alla Maestà di Margherita Regina d’Italia”

 

Congresso degli ingegneri 1883

Atti del quarto Congresso degli ingegneri ed architetti italiani : radunato in Roma nel gennaio del 1883. Roma: Tip. Fratelli Centenari, 1884

 

Cova 1986a

Massimo Cova, Pietro Poppi e la fotografia d’architettura a Bologna nella seconda meta dell’Ottocento. Tesi di laurea, Istituto universitario di architettura di Venezia, Corso di laurea in architettura, relatore Italo Zannier, a.a. 1985-1986

 

Cova 1986b

Massimo Cova, L’arte in Italia: Fotografia Poppi, Bologna, “Fotologia”, 1986, n. 6, dicembre, pp. 48-49

 

Cova 1987a

Massimo Cova, Emilio Anriot: dieci anni di fotografia a Bologna (1861-1870), “Fotologia”, 1987, n. 7, maggio, pp. 18-25

 

Cova 1987b

Massimo Cova, Fotografie e restauro architettonico, “Fotologia”, 1987, n. 8, autunno-inverno, pp. 24-30

 

Cova 1988

Massimo Cova, La fotografia a Bologna nel 1888, “Saecularia Nona: Università di Bologna 1088-1988”, 7 (1988). Casalecchio di Reno : Grafis, 1988, pp. 68-71

 

Cova 1989

Massimo Cova, Due professionisti dell’epoca del collodio: Pietro Poppi e Giorgio Sommer,  in  Alle origini della fotografia: Un itinerario toscano: 1839-1880, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Vecchio, Sala d’Arme, 28 settembre-26 novembre 1989), a cura di Michele Falzone del Barbarò, Monica Maffioli, Emanuela Sesti.  Firenze: Alinari, 1989, pp. 145-147

 

Cozzi 1987

Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 22-31

 

Cresti 1987

Carlo Cresti, Fondo Coppedè: Eclettismo come stile di vita, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n.5,  giugno, pp. 13-21

 

Cristofori 1992a

r.c. [Roberta Cristofori], Anriot, Emilio (1826 – ?), in Benassati,  Tromellini 1992, p. 270

 

Cristofori 1992b

r.c. [Roberta Cristofori], Bertelli, Luigi (1832 – 1916); Fotografia dell’Emilia (attiva 1865 – 1940), in Benassati,  Tromellini 1992, sch. I/14, I/15, pp. 118-119

 

Cristofori 1992c

r.c. [Roberta Cristofori], Poppi, Pietro (1833-1914), in Benassati,  Tromellini 1992, pp.  276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Le collezioni d’arte della Cassa di Risparmio in Bologna: Le fotografie, 1 : Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia, a cura di Franco Cristofori, Giancarlo Roversi.  Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Dall’Armi 1915

Gian Carlo dall’Armi, Il Barocco Piemontese. Torino: Dall’Armi, s.d. [1915]

 

Emiliani, Zannier 1993

Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il Tempo dell’Immagine: Fotografi e Società a Bologna: 1880-1980.  Torino: SEAT, 1993

 

Expo Bologna 1888  2015

Expo Bologna 1888: l’Esposizione Emiliana nei documenti delle Collezioni d’Arte e di Storia della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, San Giorgio in Poggiale, 8 aprile – 8 giugno 2015), a cura di Benedetta Basevi, Mirko Natoli, “Quaderni della Biblioteca di San Giorgio in Poggiale”, 1. Bologna: Bononia University Press, 2015

 

Fanelli, Mazza 2003

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Lucca: Iconografia fotografica della città, con la collab. di Gilberto Bedini, 2 voll. Lucca: Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca; Maria Pacini Fazzi Editore,  2003

 

Fanelli, Mazza 2012

Giovanni Fanelli, Barbara Mazza, Alphonse Bernoud. Firenze: Mauro Pagliai Editore, 2012

 

Ferretti 1980

Massimo Ferretti, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nelle riproduzioni d’arte. In: L’Immagine della regione: Fotografie degli archivi Alinari in Emilia e in Romagna, catalogo della mostra (Modena, Fondazione del Collegio San Carlo, 20 novembre-20 dicembre 1980). Modena – Firenze: Istituto per i Beni Artistici Culturali Naturali della Regione Emilia-Romagna, Comune di Modena –  Istituto Alinari, 1980, pp. 37-51;  ora in Fotologia”, n. 23-24, 2003, pp. 2-11, con minime varianti al testo

 

Fotografia Italiana 1979

Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier.  Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Fotografia pittorica 1979

Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980), a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano; Firenze: Electa Editrice;  Edizioni Alinari, 1979

 

Frisoni 1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte sacra in San Francesco: recupero di una documentazione fotografica, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, 1998, pp. 35-41

 

Frisoni 2008

Cinzia Frisoni, Leggere, interpretare, formalizzare: esempi di morfologie delle schede, “Acta Photographica”, 3 (2008), n. 1, gennaio-giugno, pp. 63-69

 

Gaetano Chierici 1986

Gaetano Chierici: 1838-1920, catalogo della mostra ( Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 15 Febbraio – 31 Marzo 1986), a cura di Elio Monducci. Reggio Emilia: Tipolitografia, 1986

 

Giovanni Battista Quadrone  2014

Giovanni Battista Quadrone: un iperrealista nella pittura piemontese dell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Fondazione Accorsi-Ometto, 19 settembre 2014 – 11 gennaio 2015), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Torino: Adarte, 2014

 

Grandi 1983

Renzo Grandi, Pietro Poppi, in Dall’Accademia al vero: La pittura a Bologna prima e dopo l’Unità, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio-aprile 1983), a cura di Renzo Grandi. Bologna: Grafis, 1983, pp. 212-213

 

Gray 1992

Michael Gray, Il reverendo Calvert Jones in Italia, in Benassati,  Tromellini 1992, p. 69

 

Guidotti 1996

Paolo Guidotti, Gli stemmi del Palazzo dei capitani della montagna a Vergato: una memoria visiva di secoli di storia dell’Alto bolognese (restauro 1992-1994);  “Accademia Clementina di Bologna: Saggi studi ricerche”. Bologna: CLUEB, 1996

 

Hanlon 1997

David R. Hanlon, Inventory of the Sturgis Photographic Collection: a complete listing of mounted photographs, loose prints and the contents of travel albums collected by Russell Sturgis at Washington University.  St. Louis, Mo. : [Washington University], 1997

 

Hildebrandsson, Köppen,  Von Neumayer 1890

Hugo Hildebrandt, Wladimir Köppen, Georg Balthasar von Neumayer, Wolken-Atlas – Atlas des nuages – Cloud-Atlas – Moln-Atlas. Hamburg: G. W. Seitz, 1890

 

Hildebrandsson, Osti 1879

Hugo Hildebrandt Hildebrandsson, Henri Osti, Sur la classification des nuages employée à l’observatoire météorologique d’Upsala.  Upsala: Berling, 1879

 

Inchiesta 1873

Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Atti del Comitato dell’inchiesta industriale, III, Deposizioni scritte. Cat. 13, § 2, incisione, Litografia e Fotografia. Roma : Stamperia Reale, 1873

 

L’insistenza dello sguardo 1989

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989),  a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Laudisa 1995

Ilderosa Laudisa, Ritratto di una città: Storia della fotografia leccese dell’Ottocento. Lecce: Edizioni Del Grifo, 1995

 

Le Polley Fonteny 2003

Monique Le Polley Fonteny, Alinari e Giraudon: una storia parallela, in  Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 71-86

 

Lebart 1996

Luce Lebart,  Les archives du ciel, “Études photographiques”, 1 (1996) n. 1,  novembre, pp.56-72

 

Lotze 1984

Lotze: Lo studio fotografico 1852-1909, catalogo della mostra (Verona, Museo di Castelvecchio, 26 luglio-30 settembre 1984), a cura di Pierpaolo Brugnoli, Sergio Marinelli, Alberto Prandi. Verona: Comune di Verona – Museo di Castelvecchio, 1984

 

Luigi Sacchi 1998

Luigi Sacchi: Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, catalogo della mostra (Torino, Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte, 8-28 maggio 1998), a cura di Roberto Cassanelli. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Maffioli 1996

Monica Maffioli, Il BelVedere: Fotografi e architetti nell’Italia dell’Ottocento. Torino, S.E.I., 1996

 

Maffioli,  Quintavalle 2003

Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002, pubblicato in occasione della mostra omonima (Firenze, Palazzo Strozzi, 2 febbraio-2 giugno 2003).  Firenze: Alinari, 2003

 

Malaguzzi Valeri 1893

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa della Madonna di Galliera in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 6 (1893) n. 1, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1894

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il portico di San Giacomo in Bologna, “Archivio storico dell’arte”, 7 (1894) n. 5, estratto

 

Malaguzzi Valeri 1895

Francesco Malaguzzi Valeri, La chiesa e il convento di S. Michele in Bosco. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1895

 

Malaguzzi Valeri 1896

Francesco Malaguzzi Valeri, La Chiesa della Santa a Bologna, “Archivio storico dell’arte”, serie II, 2 (1896), n. 1-2

 

Malaguzzi Valeri 1899

Francesco Malaguzzi Valeri, L’architettura a Bologna nel Rinascimento. Rocca S. Casciano: Licinio Cappelli Editore, 1899

 

Malaguzzi Valeri 1928

Francesco Malaguzzi Valeri, Il palazzo Zacchia-Rondinini Reggiani, “Cronache d’Arte”, 4 (1928) n. 3, pp. 45-64

 

Marangoni 1999

Fabio Marangoni, Pietro Poppi (1833-1914) fotografo bolognese dell’Ottocento. Tesi di laurea in Storia dell’Arte Contemporanea, Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in D.A.M.S., relatore Stefano Susinno, a.a. 1998-1999

 

Marangoni 2001

Fabio Marangoni, L’Album delle fotografie della Repubblica di San Marino e regesto dei cataloghi della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi, “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 7 (2001), febbraio, pp. 38-47

 

Mario Gabinio 1996

Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996

 

Martelli 1867

Diego Martelli, Esposizione triennale di Belle Arti in Bologna,  “Gazzettino delle Arti del Disegno”, 1 (1867), nn. 39, 40, 4, 17 novembre, pp. 306-307, 316-317

 

Matarazzo 2004

Carmela Matarazzo, Le testimonianze del quadraturismo bolognese nelle campagne fotografiche di Poppi, Croci, Alinari e Villani, Tesi di laurea, Corso di laurea in D.A.M.S., indirizzo Arte, relatore Marinella Pigozzi, a.a. 2003-2004

 

McCauley 1994

Elizabeth Anne McCauley, Industrial Madness. Commercial photography in Paris, 1848-1871. New Haven, London: Yale University Press, 1994

 

Melani 1907

Alfredo Melani, L’Arte nell’industria: lavori di legno e pastiglia, lavori di metallo, lavori di pietra, marmo. Milano: Vallardi, 1907-1911.

 

Moggi, Maffioli, Sesti 1994

Guido Moggi, Monica Maffioli, Emanula Sesti, a cura di, Fotografia e botanica tra ottocento e novecento. Firenze: Alinari, 1994

 

Mormorio 2000

Diego Mormorio, Vedute e paesaggi italiani dell’Ottocento. Milano: Federico Motta Editore, 2000

 

Mozzo 2004

Marco Mozzo, Note sulla documentazione fotografica in Italia nella seconda metà dell’Ottocento tra tutela, restauro e catalogazione, in Enrico Castelnuovo, Giuseppe Sergi, a cura di, Arti e storia nel Medioevo, 4: Il Medioevo al passato e al presente. Torino: Einaudi, 2004, pp. 847-870

 

Novara 2006

Paola Novara, L’ attività di Luigi Ricci attraverso i cataloghi del suo laboratorio. Ravenna : Fernandel scientifica, 2006

 

Paoli 2000

Silvia Paoli , Pietro Poppi, in 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia.  Milano: Electa, 2000, p. 164-165

 

Papone 1999

Elisabetta Papone, Il mare di vetro: Genova e le Riviere tra veduta e documentazione nell’archivio di Alfred Noack, in  Scoperta del mare: Pittori lombardi in Liguria tra’800 e ‘900, catalogo della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 9 luglio-24 ottobre 1999) a cura di Giovanna Ginex, Sergio Rebora. Milano: Mazzotta, 1999, pp. 199-213

 

Pedrini 1929

Augusto Pedrini, Il ferro battuto sbalzato e cesellato nell’arte italiana : dal secolo undicesimo al secolo diciottesimo.  Milano: Ulrico Hoepli, 1929

 

Pettina 1905

Giuseppe Pettina, Vicenza. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1905

 

Poppi 1871

Catalogo della Fotografia dell’Emilia/ Bologna/ Palazzo Rodriguez, via S. Mamolo N. 101 primo. S.l. : s.n. [Bologna: Tip. Fava e Garagnani], s..d. [1871]

 

Poppi 1879

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne : Imprimerie Fava et Garagnani, 1879

 

Poppi 1883

Catalogue de la Photographie de l’Emilia (…) de Pietro Poppi (…). Bologne (Italie): Établissement Typographique successori Monti, 1883

 

Poppi 1888

Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, s.d. [1888]

 

Poppi 1890

Appendice I al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi. Bologna : Tipografia Fava e Garagnani, 1890

 

Poppi 1896

Appendice 2a al Catalogo generale della Fotografia dell’Emilia di Pietro Poppi (…). Bologna : Premiata Tip. L. Andreoli, 1896

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Recine 2006

Francesca Recine, La documentazione fotografica dell’arte in Italia dagli albori all’epoca moderna. Napoli: Scriptaweb, 2006

 

Ricci 1903

Corrado Ricci, La Repubblica di San Marino. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903

 

Ricci, Poppi 1888

Corrado Ricci, Pietro Poppi, Monumenti sepolcrali di lettori dello Studio Bolognese nei secoli XIII, XIV e XV. Bologna: Tipografia Fava e Garagnani, 1888

 

Roncuzzi Roversi-Monaco 1992

Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Il ritratto della città, in Benassati,  Tromellini 1992,, pp. 83-87

 

Rubbi 2010

Valeria Rubbi, L’ architettura del Rinascimento a Bologna: passione e filologia nello studio di Francesco Malaguzzi Valeri.  Bologna: Editrice Compositori, 2010

 

Rubbiani 1886

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di S. Francesco in Bologna; con atlante di nove tavole. Bologna: Nicola Zanichelli, 1886

 

Rubbiani 1887

Alfonso Rubbiani, Le tombe di Accursio, di Odofredo e di Rolandino de’ Romanzi glossatori nel secolo XII. Bologna: Nicola Zanichelli, 1887

 

Rubbiani 1899

Alfonso Rubbiani, La Chiesa di San Francesco e le tombe dei Glossatori in Bologna: Ristauri dall’anno 1896 al 1899. Note storiche ed illustrative di A.R. Bologna: Tip. Zamorani e Albertazzi, 1899

 

Ruskin 1985

John Ruskin, Viaggi in Italia (1840-1845), a cura e con prefazione di Attilio Brilli. Firenze: Passigli, 1985

 

Schutz 1885

Alexander Schutz, Die Renaissance in Italien. Eine Sammlung der werthvollsten erhaltenen Monumente in chronologischer Folge geordnet. Hamburg: Strumper & C., 1885

 

Secchiari 1997

Simonetta Secchiari, a cura di, Corrispondenti di Corrado Ricci: Indice inventario. Ravenna: Società di Studi Ravennati, 1997

 

Seferović 2009

Abdulah Seferović, Photographia Iadertina: od dagerotipije do digitalne slike. Zagreb: Kapitol, 2009

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: G. Amosso, 1890 (nuova ed. Ivrea : Priuli e Verlucca, 1983

 

Sesti 1993

Emanuela Sesti, I cataloghi dei Fratelli Alinari a Bologna fra Ottocento e Novecento. in  Emiliani,  Zannier 1993, pp. 89-92

 

Tomassini 2003

Luigi Tomassini, L’Italia nei cataloghi Alinari dell’Ottocento: gerarchie della rappresentazione del “bel paese” fra cultura e mercato, in Maffioli,  Quintavalle 2003, pp. 147-216

 

Tromellini, Cecchini 2003

Venga a prendere un caffè da noi: dal mitico caffè chantant “Eden” ai moderni bar della città: 1861-1969, in Bologna d’archivio: 150 antiche fotografie della Cineteca, (catalogo della mostra, Bologna, Cineteca Comunale, 16 marzo 2003),  a cura di Angela Tromellini e Margherita Cecchini. Bologna: Cineteca, 2003

 

Tromellini, Spocci 1992a

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Calvert Jones, Richard (att. 1840-1846),  in Benassati,  Tromellini 1992, sch. II/44-II/47,  pp. 192-193

 

Tromellini, Spocci 1992b

a.t./ r.s. [Angela Tromellini, Roberto Spocci], Fotografia dell’Emilia (att. 1865-1940), attr. Piazza e Chiesa di S. Stefano in Bologna, in Benassati,  Tromellini 1992,  pp. 188-189

 

Vanzella 1997

Giuseppe Vanzella, a cura di, Padova: I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana 1985

Franca Varignana, Pietro Poppi: fotografia della città, “Fotologia”, 1985, n. 3, luglio, pp. 40-51

 

Varignana 1993

Franca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Emiliani, Zannier 1993

  1. 55-85

Varni 2011

Angelo Varni, a cura di, Palazzo Caprara Montpensier: sede della Prefettura di Bologna. Bologna : Bononia University Press, 2011

 

Vetruzzini 2007

Barbara Vetruzzini, Fotografi e fotografia a Pisa: Il Grand Tour e la rappresentazione della città, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 23 (2007), n. 45, giugno, pp.40-53

 

Viljoen 1971

Helen Gill Viljoen, ed.,  The Brantwood Diary of John Ruskin: together with selected related letters and sketches of persons mentioned.  New Haven : Yale University Press, 1971

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris : Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. [1860]

 

Voir l’Italie 2009

Voir l’Italie et mourir: Photographie et peinture dans l’Italie du XIXe siècle, catalogo della mostra (Paris, Musée D’Orsay, 7 aprile-19 luglio 2009), Guy Cogeval, Ulrich Pohlmann, dir. Paris: Skira Flammarion, 2009

 

Wilhelm von Gloeden 2000

Wilhelm von Gloeden: Fotografie ritrovate dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze: 1899-1902, catalogo della mostra (Firenze, San Pancrazio, marzo-aprile 2000), a cura Annarita Caputo. Firenze: Pagliai Polistampa, 2000

 

Zannier 1980

Italo Zannier, Il grande catalogo di Pietro Poppi, in  Cristofori, Roversi 1980, pp. 41-49

 

Zannier 2008

Wilhelm von Gloeden: Fotografie: nudi paesaggi scene di genere, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Ragione, 24 gennaio-24 marzo 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 ore, 2008

 

Zucchini 1914

Guido Zucchini, Bologna. Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1914

 

 

 

 

La variante Sommer (2011)

in Dal Vesuvio alle Alpi. Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli Castel dell’Ovo – Museo di Etnopreistoria, 27 marzo -30 aprile 2011; Torino, Museo nazionale della montagna 25 novembre 2011 – 20 aprile 2012).  Torino: Museo nazionale della montagna, 2011, pp. 6-19

 

Ho sempre visto tutto in forma di figura,

anche le parole.

Claudio Parmiggiani

 

“Ci sono poche prove che possono essere portate della grande diffusione del nuovo mezzo, e dei differenti modi della sua ricezione [quanto il fatto che] mentre la nostra Regina ha inviato un apparato fotografico completo per uso del Re del Siam, il solo Re di Napoli, in tutto il mondo civilizzato, ha vietato la pratica delle opere della luce nei propri domini!”[1]  Questo scriveva Lady Elizabeth Eastlake, in quello che è forse il primo resoconto critico della letteratura fotografica, nello stesso 1857 in cui Sommer apriva a Napoli il proprio studio[2], negli anni fervidi del passaggio dalla prima fase pionieristica a quella che si sarebbe poi detta età del collodio, nella quale – abbandonata la carta – il negativo su supporto in vetro avrebbe aperto l’era dei grandi studi fotografici e della sistematica commercializzazione.

Questo giudizio derivato dalla disillusione postromantica per il nostro paese era certo ingeneroso, ma soprattutto infondato[3], sebbene resti un sintomo significativo di quale fosse la percezione delle condizioni culturali e politiche del Regno borbonico, e forse italiane nell’Inghilterra intorno alla metà del XIX secolo. Va rilevato invece l’artificio retorico e implicitamente razzista (del resto ampiamente diffuso anche oggi) di collocare spregiativamente il reo a un livello inferiore a quello attribuito a persone e paesi che si consideravano modelli di arretratezza.  La Napoli di Ferdinando II (1830 – 1848), certo attenta alle suggestioni e ai simboli della modernità (si pensi alla ferrovia Napoli – Portici), fu invece uno dei centri italiani in cui  più precoce e qualificata era stata l’attenzione per le nuove, meravigliose invenzioni di Daguerre e Talbot:  la prima anticipata da Raffaele Liberatore sulle pagine de “Il Lucifero” già il 6 febbraio 1839; l’altra patrocinata dallo scienziato Michele Tenore, Direttore dell’Orto Botanico di Napoli e da più di un quindicennio in contatto con Talbot, che il 27 settembre dello stesso anno scriveva al Direttore di quel giornale per annunciare di aver ricevuto direttamente dallo studioso inglese alcuni “disegni fotogenici eseguiti da lui medesimo.”[4]  Insomma, dopo quel giovedì 28 novembre in cui il signor Raffaele Gargiulo “restò meravigliosamente dagherrotipato” ad opera di Gaetano Fazzini durante il “primo  sperimento”condotto a Napoli”[5], le vicende locali della fotografia dovettero avere sviluppo e attenzione ben più ampie di quelle supposte dalla Eastlake, specialmente per merito delle rilevanti presenze straniere in una città che costituiva una delle principali tappe del Gran Tour. “Amena più che ogni altra (…) per pittoresche circostanze – era infatti descritta questa città – [essa] darebbe all’artista o all’amatore che ne avesse genio l’agio di riprodurre per mezzo del Daguerre, le più belle vedute che la matita o il pennello de’ paesisti abbia mai tracciato sulla carta e sulla tela.”[6]

Le prime vedute al dagherrotipo di Napoli, e dei siti archeologici, entrarono molto presto, già nel 1840-1841,a far parte delle serie editoriali di Alexander John Ellis come di Noël Marie Paymal  Lerebours o dell’italiano Ferdinando Artaria e per tutto il quindicennio successivo – cioè fino a che tale tecnica non venne abbandonata – furono almeno una decina i dagherrotipisti in transito o presenti in città per periodi più o meno lunghi, mentre Francesco Gibertini pare essere stato il solo professionista locale.[7] Ancor più nutrita, e qualificata fu la frequentazione dei luoghi da parte dei calotipisti, a partire almeno dal 1846, con le presenze di Amélie Guillot-Saguez e di Richard Calvert-Jones, che a Santa Lucia si provò con una veduta urbana in due parti, dedicandosi anche a Pompei e Baja[8], ma soprattutto di Stefano Lecchi che, nella testimonianza del Reverendo George Wilson Bridges, era a Napoli per realizzare fotografie di Pompei proprio su incarico di Ferdinando II.[9]  Altri seguirono nei primissimi anni Cinquanta: Alfred-Nicolas Normand, Firmin Eugéne Le Dien, Paul Jeuffrain, Alphonse Davanne, i napoletani Arena e Pellegrino e il milanese Luigi Sacchi che verso il  1853 fotografò Pompei e Paestum,  ma anche una Veduta del Golfo di Napoli con Castel dell’Ovo poi non compresa nelle serie di Monumenti, vedute e costumi d’Italia pubblicata  nel 1852-1855.[10] Come si vede la scelta dei soggetti non presenta novità di rilievo. Pompei e Paestum, Mergellina e Santa Lucia, Ischia e Ravello: sono le mete che consigliava anche l’Handbook for travellers in Southern Italy, che Octavian Blewitt scrisse nel 1853 per la serie edita a Londra da John Murray, distribuita a Napoli da Detken, presso il quale sarebbero state poste in vendita negli anni successivi anche le stampe di Sommer.[11]

Dopo una prima, forse breve sosta a Roma nel mese di settembre, Giorgio Sommer aveva aperto il proprio studio napoletano nell’inverno 1857-1858. Poco sappiamo di quel suo avvio di attività; nulla a proposito delle tecniche adottate in quei primissimi anni, anche se pare verosimile ritenere che fin da subito adottasse l’innovativo negativo su vetro, come del resto avevano fatto gli Alinari solo pochi anni prima[12], magari utilizzando dapprima, al posto del collodio, un’emulsione all’albumina che consentiva una migliore resa dell’immagine pur scontando maggiori tempi di esposizione. Ciò che conosciamo  almeno un poco meglio è la sua capacità immediata di adeguarsi alle richieste di mercato avviando, accanto alle prime vedute in diversi formati, una ricca produzione di stereoscopie, e dedicandosi contemporaneamente al ritratto, una pratica che pare aver progressivamente abbandonato nei decenni successivi.[13] Risale a questo stesso periodo anche la collaborazione con Edmond Behles, che tanti problemi attributivi ancora pone agli studiosi[14], ma che qui vogliamo richiamare solo per quanto significa in merito alla questione della concezione autoriale del lavoro fotografico nel contesto della pratica professionale italiana dopo la metà del XIX secolo. Non si tratta tanto di richiamarsi alla questione del diritto d’autore riconosciuto alla fotografia, ancora di là da venire in quegli anni nel nostro paese, ma di considerare quale fosse il significato e il valore in termini di responsabilità intellettuale sotteso a una pratica di scambio di immagini che molti indizi ci dicono diffusa, anche se ancora poco nota e pochissimo studiata, ma che pare avesse implicazioni quasi esclusivamente commerciali.[15]  In questa prospettiva è ancora utile richiamarsi alle riflessioni di Rosalind Krauss che ha auspicato “la necessità di abbandonare, o almeno di sottoporre a una seria critica, categorie derivate dall’estetica come quelle di autore, opera e genere (come nel caso del paesaggio), [per]  cercare di mantenere la fotografia antica nel suo statuto di archivio e di chiedere che si esamini questo archivio in modo archeologico, come Foucault ce ne ha fornito insieme la teoria e l’esempio.”[16]

Un altro elemento problematico relativo ai primi anni della sua attività, riguarda la precoce circolazione delle sue immagini, che derivava credo dalla conquista di un’autorevolezza ben presto riconosciuta se già nel 1859 Domenico Benedetto Gravina, credo per il tramite dello stabilimento litografico Richter di Napoli, a lui si rivolgeva per l’illustrazione del suo Il Duomo di Monreale, certo una delle più rilevanti imprese della prima editoria fotografica italiana.[17] È una collaborazione questa che ci interroga anche sui tempi e sui modi della formazione di Sommer, sul farsi della sua prima cultura visiva come della sua maestria tecnica, per le quali non sembra sufficiente il riferimento all’apprendistato presso lo studio Andreas und Sohn di Francoforte. Certo avranno avuto un qualche rilievo le suggestioni che gli poterono derivare dalla frequentazione di alcuni membri dell’eterogenea colonia tedesca ben radicata a Roma negli anni della sua presenza in città, ma credo vada almeno presa in considerazione la possibilità che in quello stesso periodo abbia avuto contatti coi principali esponenti della Scuola fotografica romana, ancora molto attivi e presenti anche a Napoli, come si è detto, o – almeno – che abbia avuto occasione di conoscere e studiare le loro opere, di buona circolazione quando non addirittura predisposte per la diffusione seriale, come nel caso delle Vedute di Roma e dei contorni in fotografia pubblicate da Giacomo Caneva nel 1855. Sono domande a cui non siamo per ora in grado di rispondere, ma non per questo meno necessarie, nella convinzione che sia difficile attribuire il suo rapido percorso di formazione al contesto napoletano in cui, a prescindere dal valore discontinuo dei diversi operatori presenti, lui pare essersi proposto da subito quale professionista qualificato, non come un autore in fieri. Non solo: la qualità del lavoro che andava conducendo a Pompei almeno dal 1860, quando il 25 settembre fotografò Garibaldi in visita agli scavi[18], lo propose da subito quale interlocutore privilegiato del neo nominato Direttore del Museo Nazionale Giuseppe Fiorelli, cui si deve la prima applicazione a Pompei dei metodi dell’archeologia moderna, a scavo stratigrafico, e l’utilizzo del metodo della colatura di gesso nelle forme vuote lasciate dai corpi nella lava, di cui Sommer fotografò uno dei primi esiti nel febbraio del 1863[19].

Impronta di un’impronta. Matrice di una matrice sono questi negativi in cui la forma del vuoto lasciato dai corpi annientati dal calore della lava è l’immagine latente che il calco ha rivelato, in un processo concettualmente analogo a quello fotografico. Immagine di un’immagine quindi, ma in modo incommensurabilmente diverso dalla riproduzione di un dipinto, di una scultura o di un reperto. Il calco ha una diversa relazione col tempo; non è il reale che ritorna, ma una sua manifestazione seconda, differita, cui riconosciamo lo statuto di figura, ma che appartiene in maniera radicale e netta al regime dell’impronta, non dell’icona: come le sagome lasciate sui muri dal “vento-lampo della bomba”[20] atomica. Figure non tracciate da mano umana. “Ciò che rappresenta un ostacolo per lo sguardo si ricollega alla  (…) questione dell’impronta: non c’è nulla da guardare perché non c’è invenzione formale, e non c’è invenzione formale perché l’oggetto non è che un prelievo, una riproduzione, una semplice impronta della realtà. Non c’è nulla da guardare perché non c’è abilità, non c’è lavoro artistico, e non c’è lavoro artistico perché c’è solo un calco, un’impronta meccanicamente riproducibile della realtà. Non c’è nulla da guardare, come opera d’arte, perché c’è solo impronta: la non opera per eccellenza”[21], che era appunto ciò che si diceva, l’accusa che era mossa alla fotografia al tempo della sua comparsa e negli anni di Sommer, ancora.

Non considerando i lavori su commissione, l’archeologia – tra Roma e Napoli – sembra essere stata la sua prima area di interesse, cui si aggiunsero ben presto le vedute urbane, pur se non unanimemente apprezzate[22]. Roma, Napoli, di cui realizzò anche un panorama in cinque parti verso il 1865, poi Firenze, Milano (entro il 1869). E Torino, la prima capitale. Insolito soggetto per quegli anni, in cui la città sabauda era descritta quasi solo dai fotografi residenti, se si esclude la luminosa eccezione di Charles Marville[23], e di cui Sommer ci ha offerto una veduta stereoscopica della Contrada di Po e di Via della Zecca che restituisce le qualità prospettiche di questo spazio urbano che poi si sarebbe detto metafisico in maniera tanto più magistrale della già eccellente ripresa contenuta in Turin ancien et moderne, edito da Henri Le Lieure nel 1867. Sono anni questi in cui il suo catalogo si accresce rapidamente e, per la sua parte più connotata e consistente, si trasforma in repertorio iconografico napoletano: archeologia, veduta urbana e “tipi napoletani”, disponibili anche in versione colorata, nel formato carte de visite, destinati a soddisfare la diffusa richiesta del mercato turistico, specialmente nordeuropeo e che proprio per questo si ritrovano con minime variazioni e riprese al limite del plagio anche nel repertorio di altri fotografi attivi  a Napoli, come Giorgio Conrad, Achille Mauri e poi Gustavo Eugenio Chauffourier, in un andirivieni continuo tra grafica e fotografia, con forti influenze della tradizione tutta napoletana delle figurine da presepe. E il Vesuvio allora? Giustamente famosa è la sequenza relativa all’eruzione del 1872, sistematicamente ripresa a intervalli di mezz’ora, adottando una forma narrativa che suggerisce la durata piuttosto che sottolineare l’istantaneità della posa. Un trattamento antipittoresco, che segna uno scarto rispetto alle opere antecedenti relative allo stesso soggetto. La prima immagine nota [2204], in piccolo formato, in una copia firmata Edmond Behles, si riferisce all’eruzione del 1861, ma non è ancora una “vera fotografia”. Si tratta infatti della riproduzione di una stampa, analogamente a quanto accade per la pseudostereoscopia Scesa dal Vesuvio [753], questa firmata “Sommer e Behles Napoli & Roma”, che essendo formata da una coppia di riproduzioni necessariamente identiche mai avrebbe potuto sortire alcun effetto tridimensionale. “Lava con figure” potrebbe essere classificato il soggetto, comune anche a una ripresa stereoscopica [293] e ad altre fotografie successive [2546], così come alle immagini di altri autori, ancora Chauffourier e Mauri[24], che mostrano anche un’analoga se non perfettamente coincidente attrazione per le forme fantastiche, quella stessa che in Sommer accomuna le prime riprese in cui la lava è sontuosamente posta in primo piano [298] a quelle più tarde dei ghiacciai alpini [13307], entrambe forse debitrici della Colata di lava che James Graham fotografò intorno al 1860, utilizzando ancora il negativo di carta.[25]

Catalogo di fotografie d’Italia recita il suo primo titolo, pubblicato nel 1870, dove la geografia dei luoghi progressivamente si amplia, secondo percorsi e movimenti che sarebbe interessante poter seguire nel dettaglio, in particolare per quanto riguarda la Sicilia e altri importanti centri dell’Italia meridionale, soggetti che in parte contribuiranno all’apparato iconografico delle dispense relative agli Studi sui monumenti della Italia meridionale dal IV al XIII secolo che Demetrio Salazar pubblicò a Napoli, presso Richter & C. nel 1871 – 1877. La figura dello studioso risulta importante anche per il ruolo svolto nella fondazione del Museo Artistico Industriale, nel 1882,  con Gaetano Filangieri  e la collaborazione di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, che ne fu Direttore,  e Giovanni Tesorone. Prendendo a modello come in altre realizzazioni italiane  il South Kensington Museum, lo scopo della nuova istituzione era quello di divulgare e sviluppare la cultura delle arti applicate nell’Italia meridionale, avviando, accanto al Museo, le Scuole-Officine in cui i giovani potessero ricevere un insegnamento tecnico specializzato nei settori della ceramica come della lavorazione dei metalli e simili. Questo progetto è da porre in relazione anche con la produzione e col fiorente mercato di oggetti artistici e copie cui a diverso titolo si dedicavano molti fotografi napoletani quali Achille Mauri (che vendeva “ceramiche artistiche, collezioni di bronzi e terrecotte, copie del Museo e dei Costumi di Napoli)[26], la Fotografia Pompeiana di Giacomo Luzzati, che realizzava copie di busti e statue in scagliola col metodo della “scultofotografia”[27] e specialmente Giorgio Sommer, il quale a partire almeno dal Catalogo del 1873 si definiva  “Artiste fabricant de vases etrusques de l’Abruzzi et terre-cuites” reclamizzando “le sue copie di statue, di vetri Riton, di lampade, candelabri, allegorie e ancora vasi fra i più belli conservati al Museo Nazionale di Napoli.”[28]  Questa nuova pubblicazione, nell’anno in cui fu tra i premiati all’Esposizione di Vienna, ma a breve distanza dalla prima edizione, deve essere messa in relazione non solo con l’accresciuto numero di soggetti disponibili, ma anche con la comparsa di temi napoletani nel catalogo Alinari dello stesso anno[29]. La novità dichiarata sin dal titolo era la presenza di immagini di Malta[30], una delle mete più frequentate dai viaggiatori inglesi, ma anche il repertorio italiano si era nel frattempo esteso sino a comprendere i laghi di Como e Maggiore, più un’appendice luganese, con stampe destinate a circolare nella forma dei fogli sciolti o raccolte in album[31]. Napoli è il semplice titolo di quello dedicato “Alla Sezione centrale di Torino [dal]la Sezione di Napoli in occasione del VII Congresso del Club Alpino Italiano”, che si aprì  a Torino il  9 agosto 1874. Dopo l’orgogliosa antiporta con l’ostensione delle “Grandi Medaglie d’Oro” ricevute negli anni precedenti, il frontespizio con la grande “N” ornata di figure costituisce una sintesi iconica e una dichiarazione programmatica a un tempo, con quella barocca iniziale che si staglia su uno sfondo di vegetazione lussureggiante da cui emerge un pino marittimo (La Pina) sullo sfondo del Golfo con Castel dell’Ovo e il Vesuvio fumante[32]. La sequenza dei soggetti, il sommario diremmo, è canonica e la si può ritrovare in altri e successivi esemplari[33]. Apertura con panorama. Il primo è dal Vomero: verso nord, poi a sud. Quindi dalla Certosa di San Martino e – in controcampo, secondo una soluzione cui ricorreva sistematicamente  – dal molo della Stazione marittima. Segue una serie – qui di quattro immagini – dedicata al chiostro e all’interno della chiesa della Certosa, il primo monumento incontrato in questo percorso visuale e quasi materiale di avvicinamento alla città. Di fatto anche l’unico; la sola architettura a essere indagata in quanto tale e non nella sua presenza urbana. Poi si inoltra in città: Piazza del Plebiscito, Marinella, Santa Lucia (ancora campo e controcampo), la Villa Nazionale, Piazza del Municipio, Posillipo e le altre località dei dintorni da Baja a Caserta. La composizione ricorre spesso a un impianto in diagonale, che è un modo per restituire una maggiore profondità prospettica.  Nel leggere il paesaggio dei dintorni di Napoli  Sommer  si richiamava senza soluzioni di continuità – anzi, quasi citando – all’iconografia immediatamente precedente, ma ricorrendo di volta in volta a modelli e fonti differenti, a seconda del tema svolto, secondo il soggetto. Direi che è una modalità comune all’operare di molti grandi studi fotografici: non la definizione spasmodica di uno stile, forse ancora culturalmente inconcepibile,  ma la sapienza e la strategia visiva necessarie per adottare di volta in volta le soluzioni più adatte a inserire la propria produzione in una precisa tradizione iconografica,  giungendo alla formulazione di un discorso qualificato e riconoscibile a un tempo, in cui sovente l’effetto prospettico è accentuato collocando “un oggetto ombrato che facesse da primo piano”[34] ovvero un gruppo di figure, sovente posizionate a sinistra,  figure nel paesaggio che arricchiscono il pittoresco della veduta.  Anche il Vesuvio, certo. Proposto però in modo niente affatto romantico, privo di ogni pur lontana eco di sublime, mostrato anzi in tutta la terribilità della sua forza distruttrice, con le Ruine di San Sebastiano causate dall’eruzione del 1872, seguite da un’immagine tratta dalla ben nota sequenza. Poi: le ceneri che ne rimasero. Un’illustrazione che si potrebbe dire esauriente se non completa, da cui però risulta clamorosamente assente ogni riferimento ai pittoreschi stereotipi delle figure popolane cui tanta attenzione aveva dedicato nel decennio precedente, mentre ancora manca qualsiasi ripresa ‘dal vero’ della varia umanità che animava le strade di Napoli. Solo, al fondo, unica concessione a un pittoresco ormai in crisi come argomento e modalità di racconto, la riproduzione di una popolare litografia raffigurante il Calesse per Resina e la riproposizione dell’icona fotografica dei Mangiamaccheroni: quasi un atto dovuto. Singolare l’immagine dedicata all’interno del Teatro San Carlo, palese riproduzione di una grafica, forse una litografia, certo neppure tratta a sua volta da una ripresa fotografica, come dimostra non tanto la presenza della folla degli spettatori quanto l’incerta resa prospettica dello spazio[35]. Analoga soluzione era adottata per raffigurare altri interni ‘difficili’ come la Grotta di Pozzuoli  e la Grotta Azzurra , riproducendo un repertorio di figure cui negli stessi anni facevano ricorso anche altri fotografi come Chauffourier (Pozzuoli) e Mauri (Teatro San Carlo)[36]. L’insieme raccolto in questo album, ben rappresentativo del suo repertorio, mi pare sia l’ulteriore conferma di come sia quasi una forzatura collocare Sommer tra i fotografi di architettura o di riproduzione di opere d’arte, mentre invece i suo generi preferiti erano la veduta urbana, il paesaggio e in misura minore il costume, in ciò distinguendosi dalla linea Alinari, Anderson e simili.

La visita al suo studio in quello stesso anno da parte di Edward Livingston Wilson, fondatore e editore di “The Philadelphia Photographer”[37], il solo periodico fotografico professionale pubblicato all’epoca negli Stati Uniti,  certifica la notorietà del fotografo in una città che conta ormai quasi cento studi attivi, confermata anche dalla frequente pubblicazione di sue immagini su periodici internazionali, sebbene ancora nella forma del disegno o dell’incisione “d’apres une photographie”.[38]  A questa ormai consolidata posizione di prestigio si deve forse la commessa da parte della Società La Ferrovia Funicolare del Vesuvio  per la realizzazione di una ricca documentazione del nuovo impianto, pubblicata nel 1881 in “un piccolo ma raffinatissimo volumetto”[39], cui certo fece seguito una campagna autonoma realizzata nel 1886 dopo la sostituzione delle due prime vetture con un nuovo modello a fiancate aperte, puntualmente registrata nel catalogo edito in quello stesso anno. Questo incarico, con le relazioni che sottende e lascia intuire, potrebbe aver costituito un punto nodale per lo sviluppo di alcuni progetti successivi, in particolare quelli legati alla documentazione di alcune strade ferrate svizzere di diversa rilevanza ma di analoga notorietà turistica internazionale, quali la ferrovia del Gottardo e le due brevi linee che dai dintorni di Lucerna portavano al Monte Rigi e al Monte Pilatus. L’impresa della Funicolare vedeva infatti coinvolte figure ben inserite in una rete complessa di rapporti internazionali di tipo finanziario e industriale, come l’imprenditore Ernesto Emanuele Oblieght, azionista di numerose società di costruzioni ferro-tranviarie presenti ad esempio anche in Lombardia, ed Enrico Treiber, progettista e direttore dei lavori, in relazione per il tramite della sorella Clara, a sua volta parente del segretario generale di una compagnia ferroviaria tedesca,  con la famiglia Pallme[40], attiva a Napoli nel commercio e nella produzione di vetri intagliati e ceramiche. Nulla più che una suggestione per ora. Come escludere però che questa possa essere stata la via che portò Sommer a divenire socio della Mittelschweizerischen Geographisch Commerciellen Gesellschaft [Società Geografico Commerciale della Svizzera centrale] di Aarau, fondata nel 1884, che aveva tra i propri scopi statutari quello di istituire un vero e proprio “Museo fotografico.  Fotografie di paesaggi,  città, porti, villaggi, templi, palazzi, case, monumenti, opere d’arte, statue, dipinti. Immagini di tipi e costumi, queste ultime possibilmente colorate. Vegetazione, frutta e immagini di animali. Navi, veicoli e macchinari di ogni tipo. Fotografie stereoscopiche. Grafica pubblicitaria e oggetti etnografici. Chiediamo che tutte le fotografie,  se possibile, non siano montate, così come tutte le singole immagini di grande formato. Sono benvenute anche incisioni su acciaio e rame, fototipie e cromolitografie, xilografie e litografie.”[41]

All’iniziativa di questo sodalizio potrebbe riferirsi la serie fotografica relativa alla ferrovia del Gottardo, realizzata certo dopo la conclusione dei lavori e immediatamente resa nota nel catalogo del 1886[42], mentre fu lo studio Adolphe Braun & C.ie di Dornach[43] a documentare il cantiere sino alla messa in esercizio della linea il primo giugno 1882, illustrando con grande attenzione non solo le opere strutturali (ponti e gallerie) ma anche i macchinari utilizzati e gli impianti di servizio. Il confronto tra le due serie fotografiche mostra, al di là delle differenti intenzioni, il riproporsi di scelte che paiono obbligate: non solo i luoghi sono necessariamente gli stessi (gli stessi anche delle innumerevoli guide che seguiranno[44]), ma sovente coincidevano anche i punti di vista, quelli che consentivano non di distinguersi rispetto al lavoro di altri Studi ma di mostrare nella maniera più efficace lo stupefacente andamento della linea ferroviaria, le sue andate e ritorni, le gallerie. Ma Sommer non li descrive per sé. Non gli interessa l’ingegneria civile dei ponti e dei viadotti,  ma il loro inserimento quasi naturale nel paesaggio alpino, cui si aggiunge così un di più di meraviglia.  L’andamento delle immagini raccolte nell’album Souvenir de la Suisse è strutturato secondo il percorso della ferrovia, con una direzione certo non casuale da nord a sud (quasi un invito), in cui accanto ai punti più significativi o spettacolari del tracciato si illustrano le strutture ricettive più importanti, come l’Hotel Bellevue di Andermatt, ripreso anche da Braun, secondo la consuetudine di molta fotografia alpina della seconda metà del XIX secolo.[45] La documentazione di questa ferrovia costituì per Sommer una prima occasione per fotografare non solo Lucerna e il Lago dei Quattro Cantoni, che ne costituivano la destinazione svizzera, ma anche le montagne del Vallese e dell’Oberland Bernese[46]; luoghi in cui sarebbe tornato ancora negli anni successivi e per almeno un decennio per arricchire il catalogo di nuovi soggetti, come quelli dedicati alla Pilatusbahn [n. 13535] e alla Wengeralpbahn [n. 14300], aggiornando in molti casi riprese già presenti in catalogo, regolarmente ripetute confermando punto di vista e angolo di ripresa, secondo una modalità operativa ormai ampiamente consolidata.

Rispetto alla sua produzione antecedente, la novità di queste fotografie svizzere sta più nei soggetti che nei modi: mentre per Napoli e dintorni l’adesione alla richiesta culturale, e quindi commerciale, si traduceva in una generale accentuazione del pittoresco, qui l’attenzione era rivolta al paesaggio trasformato dalla modernità. Fedele ai modelli narrativi utilizzati per circa trent’anni, la veduta, lo sguardo d’insieme prevalgono sulla ripresa propriamente architettonica. Anzi, proprio la volontà di sottolineare le relazioni tra i diversi elementi costituenti la scena urbana, di segnalare visualmente le connessioni tra emergenze e tessuto, e questo e quelle col paesaggio e l’orografia sembra essere l’elemento caratterizzante del suo lavoro, cui si aggiunge una costante sistematicità. Nella progressione ottica delle riprese, dal generale al particolare, come nella scansione spaziale di avvicinamento al soggetto che suggeriscono (o consentono di ricostruire) un percorso di avvicinamento, lo spazio e il tempo di un viaggio. Si veda la bella serie realizzata intorno al Vierwaldstättersee in cui il segno luminoso del campanile di Fluelen emerge progressivamente dal fondo della veduta come un’epifania, sino a collocarsi in asse perfetto con la cima del Bristenstock sullo sfondo; poi, con uno scarto netto, l’attracco del traghetto al molo della stessa località, con un’immagine che Bruno Munari avrebbe potuto scegliere per le sue Fotocronache.[47] È nelle possibilità di questo impianto narrativo che mi pare di poter leggere la novità, importante, di queste realizzazioni, non,  ad esempio, nella scelta del punto di vista e nel taglio dell’inquadratura, che molte volte ripropongono schemi consolidati, citando quasi letteralmente esempi antecedenti, come accade proprio con alcune immagini di Lucerna e dintorni, in cui è evidente il richiamo alle fotografia dei bernesi Fratelli Charnaux, che avevano ampia circolazione anche in cartolina.

Le riprese relative alla Svizzera formano due serie distinte, la cui numerazione, almeno in questo caso[48] riflette una cronologia. La prima, numerata intorno al 12100-12500, è  coeva alle riprese del Gottardo,  cioè databile agli anni 1882-1885, mentre la successiva (nn. 13100-13700) data almeno al 1889.[49] L’occasione per il ritorno credo possa essere individuata nella conclusione dei lavori della ferrovia del Monte Pilatus (1889), che costituiva – accanto a quella del Rigi – una grande attrazione turistica[50], come confermano i soggetti offerti dal Diorama Meyer, a Lucerna in Zürichstrasse. Lo spettacolo offriva quattro vedute: il panorama dalla sommità del Rigi,  la veduta della ferrovia del Rigi e i panorami dal Pilatus e dal Gornergrat con “rappresentazioni degli effetti luminosi di mattina e sera. Somiglianza perfetta di grandi proporzioni. Ogni rappresentazione di 25-40 metri ca. è il miglior risarcimento per i turisti in caso di tempo cattivo e il miglior ricordo delle vedute alpine.”[51] Con un buon secolo di anticipo lo spettatore si ritrovava inconsapevolmente immerso nella condizione postmoderna della società del simulacro: “I Baedeker prima, e le cartoline illustrate poi, gli uni per un verso, le altre per un altro, hanno ai dì nostri tolto al viaggio ogni impreveduto, ogni poesia. I paesi, grazie a questi due portati della civiltà odierna, perdono ogni pregio di novità: tutto quanto v’è di stupefacente, di ammirevole è in anticipazione descritto, misurato, calcolato, pesato, fotografato! E addio impressioni vergini! Addio rivelazioni improvvise di paesaggi e di cieli! Addio punti di esclamazione sgorgati spontaneamente davanti a luoghi ignoti ed ignorati! Tutto quanto si vede è già cosi conosciuto! già così saputo! già così veduto!”[52]

Sono quelli gli anni in cui il figlio Edmondo iniziava a collaborare col padre, sino alla costituzione di una vera e propria società nel gennaio del 1889, e certo si dovrà tenere conto nell’attribuzione delle fotografie realizzate dopo questa data delle condizioni stabilite dal contratto, che prevedeva che il figlio dovesse “viaggiare per smaltire i prodotti dell’azienda e per formare le collezioni di vedute.”[53] Il successo internazionale della Ditta Giorgio Sommer e Figlio venne ribadito dall’assegnazione del Grand Prix all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 e dalla crescente diffusione di loro fotografie su pubblicazioni locali e internazionali[54], mentre i cataloghi di vendita, ancora nel 1914 distinguevano tra “Grand Etablissement Photographique/ sous la direction de Mr. Giorgio Sommer” e  “Grande Fonderie Artistique en Bronze (…) sous la direction du Chev. Edmondo Sommer”: una complessa attività che si muoveva sul crinale sottile che distingue produzione e riproduzione e che ancora attende di essere compiutamente indagata.

 

Note

[1] “These are but a few of the proofs  that could be brought  forward of the wide dissemination of the new agent, and of the various modes of its reception (…) for while our Queen has sent out a complete photographic apparatus for the use of the King of Siam, the King of Naples alone, of the whole civilised world, has forbidden the practice of the works of light in his dominions!”. L’articolo Photography, comparve anonimo in “The London Quarterly review”, 101 (1857), January – April, pp. 241-255 (243) per essere successivamente attribuito a Elisabeth Rigby Eastlake (1809-1893), in più occasioni fotografata da Hill & Adamson,  moglie di Charles Eastlake, Direttore della National Gallery e primo presidente della Photographic Society of London (ora Royal Photographic Society of Great Britain). Il saggio venne riproposto anche in Beamont Newhall, ed.,  Photography: Essays and Images,. London: Secker &  Warburg, 1980, pp. pp. 81-95 (84), ma citando in modo impreciso la fonte, oggi consultabile integralmente mediante il browser Google Books. Per il dibattito napoletano intorno alle nuove scoperte si veda Giovanni Fiorentino, Tanta di luce meraviglia arcana. Origini della fotografia a Napoli. Sorrento: Franco Di Mauro Editore, 1992, che rappresenta un indispensabile riferimento per la ricostruzione del contesto delle origini della fotografia in questa città. Rilievo ben maggiore ebbe la Relazione intorno al dagherrotipo presentata da Macedonio  Melloni alla Regia Accademia delle Scienze nella seduta del 12 novembre 1839 e più volte ristampata nei mesi successivi a Napoli, a Parma, a Roma e persino a Parigi, con traduzione di Alfred Donné; cfr. Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Antologia di testi sulla fotografia 1839/ 1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 88-89. La Relazione è stata ripubblicata integralmente in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia”, Annali, 2. Torino: Einaudi, 1979, pp. 212-232.

[2] Cfr. Marina Miraglia, Giorgio Sommer, un tedesco in Italia, in M. Miraglia, Ulrich Pohlmann, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia, 1857-1891. Roma: Carte Segrete, 1992, pp. 11-32, a cui si rimanda anche per la definizione del quadro generale della biografia, non solo professionale del fotografo. Si veda anche Giovanni Fanelli, L’ Italia virata all’oro  attraverso le fotografie di Giorgio Sommer.  Firenze: Pagliai Polistampa, 2007.

[3] Ancora in anni recenti si è affermato che “benché le prime tecniche di riproduzione fotografica (…) fossero state recepite immediatamente dagli ambienti scientifici napoletani, ciò non ha riscontro in una corrispondente attività di professionisti o dilettanti locali.”, Daniela del Pesco, Fotografia e scena urbana fra artigianato e industria culturale, in Giuseppe Galasso, Mariantonietta Picone Petrusa, D. del Pesco, Napoli nelle collezioni Alinari e nei fotografi napoletani fra ottocento e novecento. Napoli: Gaetano Macchiaroli Editore, 1981, pp. 65-107 (67).

[4] Già Ugo di Pace aveva ritrovato al Museo di San Martino una lettera di Talbot a Tenore datata 29 gennaio 1840, Cfr. U. di Pace, …E Napoli scoprì la foto, “Paese Sera”, Napoli, 3 dicembre 1982, p. 15. La corrispondenza di Talbot è stata digitalizzata e trascritta nell’ambito del progetto The Correspondence of William Henry Fox Talbot (d’ora in poi TCP), consultabile all’indirizzo http://foxtalbot.dmu.ac.uk/letters/letters.html [25-01-2011].

[5] “Il Lucifero”, 2 (1839), n. 43, 4 dicembre, p. 443, citato in Fiorentino 1992, p. 43 passim.

[6] A. De. L., Nuovo metodo per la pittura fotogenica, “Salvator Rosa”, 1 (1839),  n. 20, 24 marzo, pp. 154-155, citato in Fiorentino 1992, p. 31, che ha identificato l’autore in Achille de Lauzières, il quale mostrava così una precoce comprensione di quella linea che avrebbe collocato il dagherrotipo, e poi la fotografia nella consolidata tradizione di quel paesaggismo napoletano che proprio sull’oleografia dei luoghi e dei costumi avrebbe fondato la propria fortuna ancora per almeno due secoli a venire.

[7] Giovanni Fiorentino, Napoli e il Regno delle Due Sicilie, in L’Italia d’argento. 1839/ 1859 Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003, pp. 252-255.

[8] Per la ricostruzione delle presenza napoletane di fotografi calotipisti si rimanda ai saggi e alle opere pubblicate in Éloge du negatif. Les débuts de la photographie sur papier en Italie (1846-1862), catalogo della mostra (Parigi – Firenze, 2010). Paris: Paris Musées, 2010. Per l’attività di Calvert Jones cfr. la lettera di Bridges a Talbot del 23 aprile 1846, in TCP n. 5632.

[9] Maria Francesca Bonetti, Talbot et l’introduction du calotype en Italie, in Éloge du negatif 2010, pp. 25-35 (35, nota 45) in cui ricorda un calotipo di Lecchi relativo alla Casa del Fornaio di Pompei, firmato e datato 1846, che costituisce a oggi il più antico calotipo noto di autore italiano.  G.W. Bridges scriveva a Talbot:  “In Naples I met with a Sig. Lechie [sic], a Milanese – who is teaching the art at 600 francs – one only lesson: – a poor Optician in Toledo, paid that sum – & by some means obtained the whole process in writing: – from him I have it & have seen some very superior negative & possitives worked by it: – but have yet been too ill to try it myself. I give you the copy overleaf (…) Lechie’s skies are perfect – & he succeeds on paper of very inferior quality – no spots seeming to appear, or injure the process. (…) Certainly some few of his specimens are more perfect in detail than any I have seen – He is employed now by the King of Naples in copying at Pompeii – but I have some 4 or 5 taken there equal to his. – His advantage seems to be that he makes use of any inferior paper, & is more certain of good productions. – I saw him take 14 one morning at Pompeii without one failure.” (28 Aug 1847 , TCP n. 5985). Lo stesso Bridges si riprometteva di realizzare “a few [copies] which I shall take to the King of Naples, (of Pompeii) – who is infinitely pleased even with the negatives – especially those of the frescoes lately discovered” (lettera del 23 maggio 1847, TCP n. 5951).  Il nome di Lecchi era già noto a Talbot per il tramite di  Calvert Jones: “At Lyons, Avignon, and Marseilles I saw some Photographs which the Shopkeepers at the houses where they were exposed, represented as being paper Dags, but which, from certain identical stains on different copies, I discovered to be a kind of Talbotype; they appeared to be quickly done, as several figures appeared. They were done by an Italian, named Leuchi, who is prepared to reveal his method whenever a certain number (how many I know not) of persons shall have agreed to give him 100 francs each: I did not see him, but all the Photographers I have met with are delighted with my paper specimens.” (lettera del 1 dicembre 1845 , TCP n. 05453).

[10] Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi, “Quaderni della Biblioteca di Storia e Cultura del Piemonte”, 2. Torino: Provincia di Torino, 1998, cat. 41. Ben oltre gli anni in cui si iniziava a utilizzare il negativo di vetro Gustave de Beaucorps, realizzò ancora una serie di vedute al calotipo del Golfo di Napoli, una di Ischia e una di Ravello, datate  1859, cfr. Éloge du negatif 2010, pp. 40-41, 171, 173.

[11] Miraglia 1992, p. 18.

[12] Cfr. lettera di Leopoldo Alinari a Ernest Becker del 15 giugno 1858, in Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003, p. 129.

[13] Sino al 1862 avrebbe realizzato più di 1.000 ritratti, vale a dire una media di circa 200 ritratti l’anno, dato che può indicare non solo la sua riconosciuta abilità nel genere, ma anche la scarsità di alternative professionali locali. Per quanto riguarda la definizione dell’arco cronologico in cui Sommer si sarebbe dedicato a questo genere, che molti propendono a considerare conchiuso proprio nei primi anni Sessanta,  ricordiamo che il suo ben noto n. 11601 – Bersagliere, pubblicato in Miraglia 1992, p. 17 è datato “post 1873”, sebbene proprio la titolazione faccia propendere per una sua interpretazione come figura piuttosto che come ritratto, come conferma anche Fanelli 2007, p. 35, che ricorda come Il Bersagliere fosse compreso nella sezione “Costumi” del Catalogo del 1886. Quanto alle stereoscopie, la cui produzione secondo alcuni fu limitata allo stesso periodo,  si può affermare sulla base delle immagini note che proseguì almeno sino al 1880, data di realizzazione della serie dedicata alla Funicolare vesuviana.

[14] Pur senza pretendere di dirimere le questioni relative alla cronologia della collaborazione tra Sommer e Behles (questo fu, quasi sempre, l’ordine di citazione sui cartoni di supporto) proviamo a riordinare i dati sino ad ora resi disponibili dalle fonti bibliografiche: l’avvio del loro rapporto professionale, che Miraglia 1992 pone al 1857, andrà forse spostato al 1860, anno in cui Behles giunse a Roma (Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Carlo Colombo, 1983,  ad vocem), se non addirittura oltre, considerando che una richiesta avanzata ai Musei vaticani per fotografare alcune sculture, datata 2 luglio 1863, venne firmata dal solo Sommer, mentre la successiva, datata 20 settembre 1864, fu sottoscritta da entrambi; si veda a questo proposito l’attenta ricostruzione fatta da Maria Francesca Bonetti, Giorgio Sommer – Edmondo Behles, Laocoonte, 1863-1867 , in Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, catalogo della mostra (Città del Vaticano, 2006-2007). Roma: L’Erma di Bretschneider, 2006, sch. n. 87, pp. 190-191. Ancora nel 1867 i due fotografi firmarono congiuntamente un’analoga domanda, mentre furono premiati separatamente all’Esposizione Universale di Parigi dello stesso anno (Miraglia 1992, p.31, nota 84.) Pare quindi ragionevole sostenere che la separazione dovette compiersi in quel periodo, e comunque prima del 1870, anno in cui Sommer pubblicò il suo primo catalogo. A ulteriore conferma si ricorda che nel 1871 fu il solo Behles, con cui i rapporti dovettero restare ottimi se Sommer chiamerà il figlio Edmondo, a inoltrare una nuova richiesta di autorizzazione per fotografare nei Musei Vaticani (Bonetti 2006).

[15] Già Miraglia 1992 aveva segnalato i rapporti commerciali di Sommer con Celestino Degoix a Genova e  Carlo Ponti a Venezia, ma vogliamo qui ricordare almeno la proposta ben più tarda (a suo tempo ricordata dalla stessa studiosa) avanzata da Achille Mauri sulle pagine de “La Camera Oscura” nel 1883 in cui chiedeva “ai vedutisti italiani (…) di scambiare vedute, paesaggi e monumenti formato 21×27 con sue di Napoli, dintorni, Pompei, Museo Nazionale”,  Mariantonietta Picone Petrusa, Linguaggio fotografico e «generi» pittorici, in Galasso, Picone Petrusa, Del Pesco, 1981, pp. 21-63 (60, nota 175). Altra invece la questione delle copie illecite e delle contraffazioni, di cui pure è ricca la vicenda professionale di  Sommer e di altri fotografi napoletani, per la quale si rimanda alla stessa fonte.

[16] Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia. Milano: Bruno Mondatori, 1996, p.48. Va inoltre immediatamente posta una questione che qui non possiamo che limitarci a formulare: si dice Sommer come si direbbe Alinari o Brogi, proponendo un’indicazione di responsabilità che non sempre e necessariamente può aver coinciso con l’effettivo operatore, ma che deve semmai essere intesa quale adesione a una linea interpretativa e produttiva che costituiva l’identità del marchio. Ancora troppo poco sappiamo dell’organizzazione del lavoro degli studi fotografici di medie e grandi dimensioni per procedere oltre in questo percorso, che dovrà prima o poi essere avviato, pena l’incomprensione critica non solo dell’effettiva cultura fotografica di questi operatori ma anche delle modalità della costituzione di quell’iconografia dei luoghi che ha determinato l’immaginario del Bel Paese.

[17] Domenico Benedetto Gravina, Il duomo di Monreale  illustrato e riportato in tavole cromo litografiche. Palermo: Stab. tipogr. di F. Lao, 1859-1869; nuova edizione con riproduzione integrale dell’originale del 1869: Caltanissetta: Lussografica, 2007.

[18]  Del Pesco 1981, p. 74.

[19] Stephen L. Dyson, In pursuit of ancient pasts: a history of classical archaeology in the nineteenth and twentieth centuries. New Haven, CT:  Yale University Press, 2006, p. 48.

[20] Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra,. Milano: Bruno Mondadori, 2010, p. 121.

[21] Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009, pp. 17-18, che costituisce la riedizione in forma di saggio  del catalogo della mostra L’empreinte, curata dallo stesso Didi-Huberman nel 1997 presso il Centre Pompidou di Parigi. Particolarmente ricca di suggestioni è la lettura in parallelo dei saggi di Bailly e Didi-Huberman.

[22] Secondo la “Photographische Correspondenz”, 1865, p. 306 queste erano considerate “eccessivamente dure e tecnicamente al limite dell’errore”, citata in Miraglia, 1992 n.54 p. 29.

[23] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, [s.d.], in Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp. 37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p. 334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando “Charles François Bossu, dit Marville artiste photographe”, era in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della ben più nota Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie” ed è oggi conservato presso la Biblioteca Reale di Torino. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di riproduzione dei disegni della stessa Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese torinesi potrebbe essere ulteriormente anticipata alla metà del decennio considerando che Marville  si qualificava come “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, dicitura che ritroviamo sui cartoni di queste stampe, solo fino al 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori. La rivelazione del vero nome di Marville si deve a Sarah Kennel, conservatrice presso la National Gallery di Washington, che sta preparando una mostra monografica a lui dedicata.

[24] Picone Petrusa, 1981, tavv. 237, 245; Achille Mauri fotografo di Sua Maestà, catalogo della mostra (Bari,  2009–2010),  a cura di Clara Gelao. Firenze: Alinari 24 Ore, 2009, tav. 190.

[25] James Graham, Vesuvius. Lava of 1858-60 near the Observatory,  albumina, pubblicata in  Éloge du negatif, p. 195.

[26] Sergio Leonardi, Achille Mauri fotografo, in Achille Mauri fotografo 2009, pp. 19-31. (p. 30 nota 35).

[27] Del Pesco, 1981, p. 98 n. 44.

[28] Daniela Palazzoli, a cura di, Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Milano: Electa, 1981, p. V. Le relazioni tra le diverse attività di Sommer sono ancora, mi pare, tutte da datare con precisione e soprattutto da studiare, ponendo in relazione l’accrescimento del catalogo di fotografie con la produzione di bronzetti e simili che avrebbe avuto “un eccezionale incremento fra il 1879 e il 1886, tanto è vero che nel catalogo a stampa di quell’anno Sommer faceva precedere l’elenco delle proprie fotografie da un soggettario di ben 245 bronzi.” Miraglia 1992 p. 28 nota 52. Dal Catalogo del 1914 (Del Pesco 1981, p. 73) si ricava come oltre alla vendita di fotografie (anche al carbone, al platino e colorate) e diapositive, la ditta forniva cromolitografie di propria edizione, acquarelli, guache e dipinti a olio di Napoli, Pompei e dintorni. Veniva inoltre offerto un servizio completo di sviluppo e stampa di lastre e pellicole Kodak, di cui era rivenditore. Se a queste si aggiungono le attività della fonderia, dell’atelier di scultura, dei calchi in gesso, delle copie in argento e delle terrecotte, si ha un’immagine ben definita di un’azienda di medie dimensioni con una produzione molto diversificata, le cui diverse attività pare difficile poter separare. Una selezione di opere della Fonderia Sommer è visibile all’indirizzo  http://www.annona.de/alben/Sommer%20Bronze/ (8-2-2011).

[29] Catalogo generale delle riproduzioni fotografiche pubblicate per cura dei Fratelli Alinari. Firenze: Barbera, 1873.

[30] Giorgio Sommer, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta.  Napoli: Rocco, 1873, che risulta essere il solo catalogo di uno stabilimento fotografico registrato nel repertorio di  Attilio Pagliaini, Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899. Milano: Associazione tipografico-libraria italiana, 1901-1905, ad vocem.

[31] L’enorme diffusione delle stampe Sommer è confermata ancora oggi dalla presenza di numerosissimi esemplari non solo in collezioni pubbliche e private, ma anche dalla frequenza di presentazione in asta di fogli singoli e di album. Alla fine del decennio è databile, ad esempio, il bellissimo album Italia, con 130 albumine nel formato 21×27, presente nelle collezioni della Biblioteca Storica della Provincia di Torino, che apre proprio con Lugano e il Lago Maggiore, poi Como e Milano, Pavia e Torino (con veduta da Villa della Regina ante 1863), Genova, Verona, Venezia, Bologna, Firenze (ante 1876), Pisa, Siena, Orvieto, Assisi, Tivoli, Roma, Napoli, Baja, Amalfi, Caserta, Paestum, i Mangiamaccheroni, Pompei, un calco datato 1873 (n. 1279), Palermo, Monreale, Messina, Taormina, Siracusa, mentre la chiusa è affidata al tempio della Concordia di Agrigento. Un album di viaggio per stranieri, tedeschi e svizzeri direi: che apre coi laghi e chiude con l’archeologia siciliana.

[32] L’esame delle litografie che ornavano al verso i cartoni di supporto e che venivano riprodotte fotograficamente nei frontespizi dei diversi album mostra  quale fosse la varietà delle soluzioni grafiche di volta in volta utilizzate.

[33] Si veda ad esempio l’album Napoli conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, realizzato tra 1880 e 1887, che consente di esprimere alcune considerazioni rispetto ai modi operativi di Sommer, in particolare per quanto riguarda le varianti di ripresa, rispetto alle quali, oltre all’ovvia peculiarità delle riprese stereoscopiche, si nota come la posizione del punto di ripresa restasse identica nel passaggio da un formato all’altro; solo da alcuni mutamenti nella scena, solo dalle diversità del referente si comprende la distanza, per quanto minima di tempo intercorso tra uno scatto e l’altro: quello necessario a sostituire gli apparecchi sull’immobile cavalletto (cfr. Ischia, 1880 ca, n. 1187 nel 20/25, n. 5232 nel 10/15), mentre le focali dovevano essere diverse, con un angolo di ripresa più ampio per il formato minore (cfr. Funicolare del Vesuvio n. 5231 nel 10/15, n. 8120 nel 20/25). Anche nella consueta pratica dell’aggiornamento delle riprese (non del repertorio), ritornando a distanza di tempo sullo stesso soggetto, i modi  restano immutati, nella fedeltà a un canone che pare indiscutibile e stabilito da tempo. Si considerino due versioni di una delle più note immagini della serie dedicata al Grand Hotel di Amalfi, già convento dei Cappuccini, dove la seconda (n. 2996, post 1891) ricalca pedissequamente  la prima (n. 2013, 1870 ca.) conservando identici i dati di ripresa (punto di vista, focale, ora e periodo dell’anno, come si evince dallo studio delle ombre portate)  con la sola variante dei due ospiti al tavolino, mentre è inevitabilmente cresciuta la yucca in secondo piano. Della versione, in verticale, appartenente all’album 1874, si ricorderanno gli Alinari (n. 11480, ante 1896) collocando però una graziosa popolana al posto del frate (Quintavalle 2003, p. 300). Analogo discorso può essere fatto per 1202 Foro civile (Pompei), 1881 ante, di cui è nota  una variante con inquadratura da un punto un poco più elevato e lievemente spostata a sinistra, con aggiunta del pennacchio al vulcano, ma di cui esiste anche una ripresa precedente, 1870 ca, effettuata dallo stesso punto e con le stesse condizioni di luce, che si distingue solo per la presenza di un uomo in cilindro poggiato al basamento. A proposito di questa pratica, comune del resto a tutti i grandi studi fotografici coevi,  è stato giustamente notato che “si determina una griglia che è sempre adattabile a nuovi eventi e quindi costantemente aperta. Insomma è come se dentro lo schema (…) si potessero sempre inserire nuove edizioni, diciamo così, del loro simbolico documento archeologico per immagini, e anche per questo forse, la necessità di cambiare gli scatti che si sono fatti in passato con scatti nuovi viene considerata come un dato di fatto normale.” Quintavalle 2003, p. 212.

[34] Luigi Delàtre, Le fotografie dei fratelli Alinari, “Monitore Toscano”, 8 (1855), 30 marzo, citato in Quintavalle 2003, p. 98.

[35] Soluzione analoga a quella adottata alcuni anni prima per la stereoscopia n. 876 dedicata al  Teatro della Scala – Milano, datata al verso 1869.

[36] Per Achille Mauri 19 – Interno del Teatro San Carlo, cfr. Achille Mauri fotografo 2009, p. 33 in basso. Non può però essere questa l’immagine che fu oggetto del processo intentato da Mauri nel 1903 alla ditta Richter di Napoli e al fotografo Giorgio Sternfeld di Venezia per la contraffazione della sua ripresa (poi ritoccata) del 1894, come si afferma in Leonardi 2009, p. 28. Per la ricostruzione degli elementi salienti della vicenda cfr. Elvira Puorto, Fotografia fra arte e storia: il Bullettino della Società fotografica italiana (1889 -1914). Napoli: A. Guida, 1996, pp. 69-71. Della Grotta Azzurra di Sommer sono note, oltre a una variante colorata a mano (n. 2217) una pseudostereoscopia (n. 243) firmata ancora Sommer & Behles.

[37] “A Napoli il maggior produttore (di fotografie) è il Sig. Sommer [che] ha delle sale di vendita molto vaste in una delle principali strade, in cui è realizzata un’esposizione molto bella. [Il suo stabilimento] è fornito di tutti i requisiti necessari a ottenere risultati ottimi in ogni quantità.”. Il testo, reso noto per la prima volta da Van Deren Coke, Giorgio Sommer, “Bulletin of the University Art Museum”, n. 9 (1975-1976). Albuquerque: University of New Mexico, è stato a suo tempo ripreso da Palazzoli 1981, p. VI, che qualificava però Wilson come un generico “viaggiatore americano”.  Di questo autorevole encomio mi piace sottolineare quel richiamo alla “quantità” che ben sintetizza l’orizzonte produttivo e commerciale in cui si collocava l’attività della Casa Sommer.

[38]Pres de Sorrente. – Dessin de A. de Bar, d’apres une photographie de Giorgio Sommer”, “Magazin Pictoresque”, 42 (1878) tratto dalla stampa n. 1153 – Vallate di Sorrento.

[39] Miraglia 1992 p. 29 nota 60.

[40] Roberto, figlio di Clara Treiber e Franz Josef Pallme, è stato un grande appassionato ed esperto di cinema muto. La sua collezione è oggi conservata alla George Eastman House – International Museum of Photography and Film di Rochester, mentre la raccolta di proiettori cinematografici, radio e strumenti scientifici costituisce il Fondo Roberto Pallme presso la  Fondazione Micheletti di Brescia.

[41] Cfr. Statuten der Mittelschweizerischen Geographisch-Commerciellen Gesellschaft, „Fernschau“,  1 (1886), pp. XV-XVI. La Società Geografico-Commerciale della Svizzera centrale, fu attiva dal 1884 al 1905. Per la ricostruzione delle vicende di questa collezione si rimanda a Fernschau: global: ein Fotomuseum erklärt die Welt (1885–1905), catalogo della mostra (Aarau, Forum Schlossplatz, 2006), Markus Schürpf, hrg. Baden: Hier + jetzt Verlag für Kultur und Geschichte, 2006, e più in particolare al saggio di Ricabeth Steiger, Fotografieren als Geschäft: die Reportagen und Reisebilder von Giorgio Sommer, ivi, pp. 72-79. L’iniziativa di questa Società va inquadrata nel più ampio dibattito tardo ottocentesco sulle funzioni dei Musei fotografici documentari che interessava in quegli anni tutti i paesi europei, Confederazione Elvetica compresa, oltre agli Stati Uniti.

[42] Giorgio Sommer, fotografo di S.M. il Re d’Italia, Largo Vittoria, Napoli, Palazzo Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia, Malta e Ferrovie del Gottardo. Napoli: Tipografia A. Trani, 1886.

[43] Cfr. Maureen C. O’ Brien, Mary Bergstein, eds., Image et Enterprise. The Photographs of Adolphe Braun. London: Thames & Hudson, 2000 oltre che, nello specifico, Kurt Zurfluh, Gotthard: als die Bahn gebaut wurde. Zürich: Offizin, 2003, in cui è pubblicata parte della campagna fotografica della Ditta Adolphe Braun, certamente non realizzata dal titolare, morto nel 1877, conservata presso la Collezione Walter Reinert di Lucerna. Le riprese vennero utilizzate per la pubblicazione delle Photographische Ansichten der Gottardbahn, Photographien von Ad. Braun & Cie. Dornach im Elsass, 1882 ca., di cui sono note diverse edizioni con un numero di tavole compreso tra 44 e 77, tra le quali un panorama in quattro parti.

[44] La funzione di attrazione turistica della nuova infrastruttura è confermata dalle innumerevoli guide pubblicate negli anni immediatamente successivi alla sua apertura, non di rado illustrate con incisioni tratte da fotografie, anche di Sommer: Woldemar Kaden, La ferrovia del Gottardo ed i suoi dintorni. Bellinzona: C. Salvoni, s.d. [1882 post]; Jakob Hardmeyer,  Die Gotthardbahn, mit 48 Illustrationen von J. Weber. Zurich: Orell Fussli & co, s.d.[1886 ca]; Guide-album illustrée du chemin de fer du Gothard. Milano: Administration de Guide-Album du Gothard, s.d. [1890]; George L. Catlin, A travers les Alpes par le chemin de fer du Saint-Gothard. Zurich: Art Institut Orell Fussli, 1900; Edmondo Brusoni, Da Milano a Lucerna: guida itinerario descrittiva della ferrovia del Gottardo, dei Tre Laghi, del Lago dei Quattro Cantoni e del Canton Ticino.  Bellinzona: Colombi e C. editori, 1901. A titolo esemplificativo segnaliamo come la ripresa n. 12130 – Amsteg, venne ripresa in Catlin p. 21 e Guide-album p. 27, la n.12164 – Bellinzona è stata la fonte per Catlin p. 34 e Guide-album p. 45, in cui vennero pubblicate anche n. 12127 – Fluelen p. 21, n. 12242 – Goeschenen  p. 33 e n. 12291 – Hospenthal  p. 68, mentre a p. 15 è pubblicata Arth Goldau di Braun. Il confronto tra le diverse immagini costituenti l’apparato illustrativo di queste guide, tutte incisioni tratte alternativamente da fotografie (pubblicate rigorosamente anonime) e da schizzi dal vero, mostra come ai due media originari corrisponda una diversa intenzione narrativa: l’adozione di una impaginazione verticale per le immagini disegnate risulta più efficace nella  restituzione del contesto “orrido e sublime”, mentre  sia Braun che Sommer escludevano il cielo e i profili delle montagne per concentrarsi il più possibile sulla presenza dei manufatti nel paesaggio in campo medio. Un vivace resoconto, certo debitore dell’immaginario romanzesco di Jules Verne, così descriveva un viaggio notturno su questa linea: “ed il cielo è nero, o, piuttosto, il cielo non c’è più : si ha l’impressione, traverso infinite gallerie, di pozzi interminabili, rivestiti di ferro, di scendere, scendere, scendere verso il centro della terra. Le stazioni, davanti a cui si fanno brevi soste, al bagliore scialbo delle file di lampade che le illuminano, paiono vacillare come cose riflesse in un’acqua, ed hanno nomi stravaganti ed ostili.  Poi, a tratti, sopra il frastuono, il rombo metallico del treno, giunge all’orecchio, misterioso, uno scroscio di cascate, di acque vorticose, di torrenti precipitanti da chi sa quale balza ignota….. Un tremolio incerto, indistinto, infine, rompe l’oscurità. Giù in  fondo ad una vallata, che sembra spalancarsi come un’enorme mascella, sotto un cielo accigliato e torbido d’autunno, non ancora svegliato dall’alba, appare il Vierwaldstättersee, il lago dei Quattro cantoni, il paese leggendario di Guglielmo Tell.”, Ernesto Ragazzoni, Istantanee svizzere, “La Stampa”, 8 (1902), n. 213, 3 agosto, pp. 1-2 (1).

[45] Aldo Audisio, P. Cavanna, Emanuela De Rege di Donato, Fotografie delle montagne. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2009.

[46] Le montagne e i ghiacciai della regione furono oggetto di una prima campagna fotografica realizzata dai Fratelli Bisson,  presentata con grande successo all’Esposizione di Parigi del 1855; cfr. Les Frères Bisson photographes. De flèche en cime 1840-1870, catalogo della mostra (Parigi – Essen, 1999), Milan Chlumsky, Ute Eskildsen, Bernard Marbot, dir. Paris – Essen: Bibliothèque Nationale de France – Museum Folkwang, 1999; Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2004. Una nuova campagna fotografica venne realizzata alcuni anni più tardi e pubblicata in H[ereford] B[rooke] George, The Oberland and its glaciers explored and illustrated with ice axe and camera. London: Alfred W. Bennet, 1866, illustrato con ventotto stampe all’albumina di Ernest Edwards, autore anche di una interessante serie di Notes of the Photographer,  pubblicate in appendice, in cui descrive con grande chiarezza ed efficacia gli scopi, gli accorgimenti tecnici e le difficoltà dell’impresa.

[47] Bruno Munari, Fotocronache: dall’isola dei tartufi al qui pro quo. Milano: Editoriale Domus, 1944 (nuova ed. Milano: Verbaq edizioni, 1980; Mantova: Corraini, 1997).

[48] Risulta purtroppo difficile e quasi impossibile ricorrere alla progressione numerica dei soggetti per determinare la cronologia delle riprese. Analizzando le opere pubblicate nella non ricca bibliografia dedicata a Sommer, quelle presenti nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e quelle, numerosissime, disponibili in rete sembrerebbe possibile in prima approssimazione individuare  una certa progressione cronologica nella numerazione dei soggetti (n.1000 ca. per Roma, 1857-65; n.1100 ca. per Napoli 1860-1865), un nucleo dai nn. 1900 al 1990 ca. che riguarda Milano, Genova e Torino (1863 – 1873 ante), ma allo stesso periodo apparterrebbe anche la serie di Venezia, che ha una numerazione intorno al 3500 e quella su Como con numeri intorno al 7000 nel formato 21/27 (7100 formato album; 7200 stereo; 7300 carte de visite). Questa costruzione del codice di catalogo che pone in relazione soggetto e formato si ritrova anche in altri esempi (Torino, chiesa della Gran Madre, nn. 973, 1973, 3973), ma non rappresenta purtroppo una costante, né pare avere un andamento cronologicamente coerente, anche in conseguenza della sostituzione di nuove riprese dello stesso soggetto realizzate a distanza di tempo, ma entrate in catalogo con lo stesso numero, consuetudine del resto comune ad altri studi fotografici. Per analoghe considerazioni ed esempi si rimanda a Palazzoli 1981, Nota alle opere e alle analitiche schede delle immagini pubblicate in Miraglia, Pohlmann 1992.

[49] Se possiamo suggerire il 1889 come termine post quem, il 1894 è certamente quello ante quem della loro realizzazione. Presso l’Harry Ransom Center ad Austin è conservata una stampa di Sommer, Rigi Railway, Vitznau, Schnurtobelbrucke  (n. 964:0728:000), che porta la data June 8, 1894 analoga a quella apposta in calce, sul supporto secondario della stampa relativa al Maloja del Museo Nazionale della Montagna di Torino, datata “September 14 1894”. Poiché si deve pur presumere che le stampe per raggiungere l’acquirente dovevano essere immesse in un preciso circuito produttivo e distributivo, è ragionevole supporre che la loro data di pubblicazione, e ancor più di ripresa possa essere anticipata almeno di qualche mese. Superfluo a questo punto ricordare che questi soggetti risultano compresi in G. Sommer & Figlio fotografi di S.M. il Re d’Italia, Casa fondata nell’anno 1857, Catalogo di fotografie Svizzera e Tirolo. Napoli: Tipografia Scarpati, 1899.

[50] I due tronchi della Ferrovia del Rigi furono inaugurati rispettivamente nel 1869-70 per la parte da Vitznau e nel 1875 per la tratta da Arth-Goldau. Si calcola che negli anni ’70 la meta fosse frequentata da circa 80.000 persone l’anno, cfr. Kaden 1882 post, p. 27. Si segnala che recentemente, presso la Galerie Fischer Auktionen di Lucerna, è stato presentato in asta un album di Giorgio Sommer dedicato proprio al Pilatus, datato 1890 ca., con  23 stampe all’albumina relative al Monte e alla sua ferrovia.

[51] In Guide-album 1890, p.n.n.

[52] Ragazzoni 1902, p. 1.

[53] Miraglia 1992  p.21

[54] Loro immagini vennero pubblicate nei primi numeri di “Napoli nobilissima” illustrati da fotografie (1892), cfr. Picone Petrusa 1981 p. 57 n. 68. Si segnalano inoltre le fotografie dell’Oberland Bernese firmate G. Sommer & Figlio pubblicate in “The Graphic”, 54 (1896), cfr. Anton Gattlen, L’estampe topographique du Valais.  Martigny – Brig: Éditions Gravures, Éditions Pillets – Rotten verlag AG, 1987-1992, II, p. 313; il volume di Jakob Christoph Heer, Der Vierwaldstätter See und die Urkantone. Zürich: J. A. Preuss 1898 (ed. francese e inglese: Zürich: Th. Schroeter, 1900), corredato da 800 illustrazioni in photogravure e xilografiche, con immagini di Sommer, dei Fratelli Wehrli, di Schroeder e dei fotoamatori  Hans Brun, J. Muheim, L. Zimmermann, A. Soldenhof, H. Felder; Hippolyt Haas. Neapel seine Umgebung und Sizilien. Bielefeld und Leipzig: Verlag von Velhagen & Klafing, 1904, riccamente illustrato da fotografie firmate Sommer & Figlio e Alinari; Augustus J. C. Hare. Cities of Southern Italy. New York: Dutton and Company, 1911, per il quale “The Editor takes this opportunity of thanking Messrs. G. Sommer, of Naples, and Signor R. Moscioni, of Rome, for permission to use certain of their photographs for the illustration of this work.” Anche alcune delle illustrazioni pubblicate in Gustavo Strafforello, La Patria: Geografia dell’Italia: Provincia di Napoli. Milano – Roma – Napoli: Unione Tipografico Editrice, 1896 erano tratte da Fotografie Sommer.

 

Di un Viaggio in Italia, passando per il Piemonte  (2008)

in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932,  II, Le province di Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Novara, Verbania, Vercelli. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp.  319-331

 

L’immagine è semplice: al muro di fondo, basso, coronato di fogliame, con belle pietre squadrate all’angolo destro (il solo visibile) sono poggiati in bell’ordine alcuni oggetti: una scopa di saggina, una vanga, una forca a tre rebbi sul filo dello spigolo. A terra, un poco sulla destra, un annaffiatoio in metallo. Nessuna presenza ulteriore, nessun indizio che consenta di definire meglio il contesto, sebbene la disposizione niente affatto casuale degli attrezzi lasci intendere una certa cura, se non proprio un’ intenzione estetica a orientare le capacità descrittive proprie della tecnica fotografica.  Questo “angolo di muro soleggiato con attrezzi da giardino”, come lo descrisse John Herschel, porta la data del 2 maggio 1840 e la firma prestigiosa di William Henry Fox Talbot[1]. “Wall in Melon Ground, come l’autore identificava il proprio negativo, realizzato ancora con la tecnica del disegno fotogenico, è il primo esempio noto di natura morta fotografica con oggetti quotidiani, poi ripreso dallo stesso autore in The Open Door, 1844,  per la quale Larry J. Schaaf ha parlato di influenza evidente della pittura olandese del Seicento. Insieme costituiscono il prototipo se non proprio il modello, da ricercarsi semmai nella storia della pittura, di una vasta genealogia di immagini, e di modi di vedere, di cui è agevole ritrovare traccia ancora nelle fotografie di Paul Scheuermeier, e oltre.  

Nella produzione degli autori che hanno utilizzato il negativo di carta[2], e ancora in Talbot, si trovano anche i primi esempi del genere poi ampiamente frequentato delle scene di lavoro. Penso a Carpenters at Lacock Estate, del 1842-1845 (Bernard 1981, t. 1), ma anche a The Woodcutters – Nicole and Pullen Sawing and Cleaving, circa degli stessi anni (Schaaf 2000, p. 226), con la posa che mostra strumenti e gesti, con declinazioni e variazioni sul tema che dipendono e riflettono l’insieme complesso e ogni volta diverso costituito dai nessi tra il contesto di realizzazione, le ragioni e la cultura non solo visiva di ciascun autore. Sin dalle origini della fotografia infatti si ritrova “una miriade di esempi di significative convergenze tra l’occhio e i suoi prolungamenti e le teorie e le pratiche antropologiche”  (Faeta 2006, p. 11), che nello stesso periodo andavano definendo compiutamente le loro metodiche, anche mediante il ricorso sempre più consapevole e strutturato all’uso della fotografia[3].  Per gran parte del XIX secolo fu però un’intenzione che chiameremo genericamente ‘artistica’ a orientare l’attenzione dei fotografi verso temi e soggetti di carattere popolare, producendo immagini da vendersi a pittori e incisori, come agli epigoni del Grand Tour.  Per limitarsi all’Italia basti ricordare le opere di professionisti come Celestino Degoix a Genova, di Caneva e altri della Scuola romana, di Bernoud, Conrad  e Sommer a Napoli (anche nelle successive riproduzioni romane di Cesare Vasari), di Incorpora a Palermo[4]. In questa prima fase, che perdura per tutta la cosiddetta età del collodio, almeno sino al penultimo decennio dell’Ottocento, l’ambito resta quello della fotografia di genere, in relazione di mutua dipendenza con molta produzione pittorica coeva. Con una forte inclinazione per lo stereotipo e per il bozzetto pittoresco quindi, ma pure con una sua certa sistematicità e con l’inevitabile capacità intrinseca di restituirci almeno qualcosa, una qualche traccia di mondi e di modi di essere altrimenti inconoscibili.

Ben più complessa è stata la trama dei rapporti tra cultura fotografica e demologia[5] nei decenni che chiudono l’Ottocento, quando molta fotografia amatoriale rivolse la propria attenzione al mondo popolare, specialmente contadino, mentre la produzione dei grandi studi persisteva in una produzione di accattivante maniera;  valga per tutti l’esempio degli Alinari che nella serie di riprese napoletane del 1896-1897 rischiarono “di trasformare la realtà di una crisi sociale in un sistema di bozzetti di singoli mestieri.” (Quintavalle 2003, p. 410)  Le nuove possibilità offerte dalle emulsioni sensibili alla gelatina bromuro d’argento e il conseguente smisurato ampliarsi della pratica fotografica amatoriale tra la borghesia, per quanto piccola, e la nobiltà terriera inducevano e consentivano una produzione nuova, attenta all’intorno, alle figure del quotidiano e dei mestieri, che si distingueva in modo sempre più marcato (e sovente esplicito) dalla precedente fotografia professionale  di genere. Si sarebbe tentati di dire che con gli amateur la costruzione dell’icona passava in secondo piano, resa semmai implicita a favore di una narrazione della tranche de vie  che comportava di rivolgere l’apparecchio, e  lo sguardo prima verso quel mondo popolare con cui per ragioni e con ruoli diversi ciascun nobile, o borghese persino non poteva non entrare in contatto. Tutti incontravano qualche donna con la gerla, una qualche (bella) lavanderina[6]; tutti conoscevano un vecchio pescatore col corpo segnato dalla fatica e dalla salsedine; un massaro, un pastore  almeno.  Tutti li fotografavano anche senza chieder loro una posa: osti, elettricisti, falegnami e farmacisti, i molti sacerdoti attivi in tante piccole comunità del nord, ma anche i rappresentanti della più colta e letteraria “fotografia signorile”[7], meridionale e non solo. Quasi etnografi loro malgrado, in una singolare concordanza di tempi, che non può essere coincidenza, con quanto la cultura antropologica italiana, specialmente nell’ambito della cosiddetta “scuola fiorentina”, andava elaborando a proposito di uso documentario della fotografia.

Enrico Morselli, commissario per la Sezione di Antropologia dell’Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884,  raccomandava  di usare la fotografia “dal punto di vista antropologico” innanzitutto per ritrarre l’uomo “di faccia e di profilo” con intenti antropometrici, quelli stessi che accomunavano Bertillon e Lombroso, riconoscendo però che “alle fotografie scientifiche sarà utile aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti ed utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale”[8]. Era  proprio in questa seconda accezione, lontana dalla crudele e metodica scientificità di cui gli studiosi si riservavano – almeno in questa prima fase[9] – l’appannaggio,  che la cultura dell’epoca coglieva una possibilità di dialogo, un possibile ruolo da assegnare ai dilettanti, esplicitamente invitati da Giulio Fano a rilevare nelle varie regioni di appartenenza quei tratti caratteristici della cultura e delle manifestazioni popolari che erano a rischio di estinzione per la forza “livellatrice” della “civiltà di fine di secolo (…) sotto l’influenza imperiosa, eminentemente  suggestiva della moda”[10].  La questione venne ripresa e precisata da Lamberto Loria, anch’egli membro della Società Fotografica Italiana, che raccomandava non solo che  le immagini fossero ottenute “per quanto possibile di sorpresa (…) perché nelle persone fotografate non abbiano a mostrarsi (…) atteggiamenti intenzionali”, ma anche che esse venissero integrate “di quelle indicazioni di luogo, di tempo e di misura che sono indispensabili a dare all’oggetto illustrato il suo vero carattere.”[11]  Sul rifiuto della  posa convenivano negli stessi anni anche alcuni fautori della fotografia artistica (in una delle molte accezioni che il termine assunse a cavallo tra Otto e Novecento). Così sulle pagine del “Progresso Fotografico”, nel 1906, si stigmatizzava l’opera di un amateur  “gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce talvolta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto” (Redazionale 1906),  e pochi anni più tardi  Stefano Bricarelli riconosceva a proposito della buona riuscita di scene animate che “una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…). Condizione questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata” (Bricarelli 1913). A questa convergenza di modi, pur con ragioni sottilmente diverse, corrispondeva anche un’unità di intenti che diremmo di conservazione contraddittoriamente nostalgica delle tracce di quel “mondo umile ma pur tanto artistico [i cui] costumi agonizzano sotto i colpi dell’industrialismo dominante”[12], che aveva caratterizzato sin dal periodo post unitario i programmi  e l’opera di organismi quali il Club Alpino Italiano (1863) e poi il Touring Club Italiano (1894), così come di molte altre forme minori di associazionismo ricreativo e culturale.

In questo contesto va collocata e compresa anche la serie fotografica dedicata ai Villaggi e montagne della Val d’Ala che il musicista Leone Sinigaglia, di cui è nota l’attenzione per i canti popolari piemontesi[13],  aveva presentato all’Esposizione di Fotografia Alpina[14] organizzata dal CAI nel 1893 a Torino, ma l’esempio più illustre e compiuto di questa etnografia ideologica, di questa demologia, è il volume che Vittorio Sella e Domenico Vallino[15] dedicarono al Monte Rosa e Gressoney, pubblicato nel luglio 1890 con un ricco apparato di  tavole fuori testo da fotografie di Sella ed immagini nel testo dovute ad entrambi gli autori. “Il traffico più attivo – si legge nell’introduzione all’Album – cancellerà la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire, il dialetto svizzero-tedesco, l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie; porterà un livello medio di civiltà, percorrendo il cammino che il filosofo chiama evoluzione naturale, che l’artista deplora, per la monotonia che ne deriva al quadro della vita umana” (Monte Rosa 1890, p.5). Erano quelli i caratteri che i due autori indagavano e descrivevano con affettuosa attenzione, ripercorrendone le vicende storiche e le forme culturali, esemplificate nella rappresentazione di ambienti e strumenti di lavoro. A questo accompagnando la registrazione delle forme dialettali  attraverso la raccolta dei termini relativi agli strumenti di lavoro, ma anche con la trascrizione di “alcune delle ultime canzoni cantate dalla gioventù, le quali forse non lo saranno più alla fine del secolo [poiché] l’afa che sale dalla pianura, con le maggiori facilitazioni di traffico, non tarderà ad intisichire anche questo fiore presso le sorgenti del Lys” (Monte Rosa 1890, p.53). Il corredo di immagini rivela però intenti più incerti, mostra oscillazioni continue tra il preteso rigore analitico della descrizione e le concessioni al pittoresco dei “quadretti graziosi” e delle “figurine moventesi nel paesaggio verdeggiante”, non senza ricorrere alla pratica del fotomontaggio per risolvere compositivamente un’immagine solo apparentemente documentaria, per rendere più efficace la messa in pagina di una sequenza narrativa. (Dragone 2000, pp.274-275).

Si producevano così testimonianze a futura memoria, quasi un’archeologia del presente, segnate però da quella tensione irrisolta tra razionalità e pittoresco che ritroviamo in molta della fotografia ‘artistica’ di soggetto popolare dei successivi decenni. Non è difficile infatti cogliere in molta di quella etnografia pittorialista un tono passatista: per molti di questi autori non si trattava di comprendere analiticamente una cultura in radicale e definitiva trasformazione, ma di illustrare, celebrare e magari conservare in effigie i reperti di un’arcadia in dissoluzione, proprio negli anni dei primi significativi conflitti sociali. L’attenzione non era ancora rivolta al territorio in mutazione, alle nuove strutture produttive, industriali o agricole, alla città che sale della modernità nascente, ma a ciò che resisteva al cambiamento, residuale e tradizionale, primitivo quasi. “L’etnografia generale – nelle parole pronunciate da Loria in apertura del I Congresso di Etnografia italiana del 1911 – può e deve servire allo studio del nostro popolo perché come il selvaggio ha analogie con l’uomo primitivo, così le nostre classi meno evolute, rimaste indietro nel cammino della civiltà, conservano ancora, nascosti e sopiti, taluni degli istinti e dei caratteri delle genti selvagge”[16].  Era questo il terreno insicuro su cui si muovevano negli stessi anni le pratiche della fotografia artistica e di quella documentaria o scientifica, con confini non immediatamente tracciabili e per molti versi inesistenti, che rappresentano piuttosto l’esito di una storiografia che ha postulato una dicotomia allora non chiaramente percepita né unanimemente condivisa. Se Rodolfo Namias lamentava quanto “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica [avesse] sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie [tanto che] nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra” (Namias 1907), per il  francese Alfred Liégard,  promotore della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, “l’art et le document peuvent, et même doivent, s’entendre sur le terrain de la photographie (…). Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document (…).  Il me semble qu’ à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons qui s’appelle l’appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.” (Liégard 1905). Nessuna contrapposizione allora, ma la consapevolezza pur non criticamente attrezzata delle possibilità inscritte nello statuto della fotografia, della sua capacità di mostrare al di là delle intenzioni e dello sguardo dell’operatore, di costruire immagini disponibili a diverse interpretazioni e letture: dal realismo al  simbolismo[17]. Era questa scrittura fecondamente ambigua che aveva attratto Verga, Capuana e De Roberto, quella con cui aveva signorilmente giocato Giuseppe Primoli; quella a cui si era dedicato Francesco Paolo Michetti nel più generale richiamo ideale alla semplicità del sentire proprio di molta cultura ottocentesca, alla sua diffidenza  e resistenza, quando non al rifiuto dell’industrialesimo. È quanto abbiamo già potuto riconoscere nel progetto di Sella e Vallino; è uno degli elementi che nutriva il neoclassicismo, per alcuni metafisico,  di molti autori della scuola di Taormina e di Wilhelm von Gloeden in particolare, di cui intorno al 1900 venivano pubblicate immagini di soggetto popolare sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” e quindi sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, tra 1909 e 1914[18]. Erano queste, insieme alla torinese “La Fotografia Artistica”, le testate che  divulgavano e attraverso cui si confrontava la produzione fotografica italiana, e internazionale in parte, che in modi diversi si richiamava alla fotografia pittorialista con più o meno esplicite attenzioni per il mondo popolare, senza dimenticare il rilevante ruolo svolto dagli editori di cartoline. Penso a Cesare Schiaparelli[19] e ad altri autori minori biellesi come Franco Bogge; penso a Luciano Morpurgo, che nel 1917-1923 realizzò una importante serie dedicata al pellegrinaggio al Santuario della Trinità a Vallepietra, nella Valle dell’Aniene, attratto negli anni precedenti da soluzioni marcatamente pittorialiste[20], ma specialmente ad Andrea Tarchetti,  notaio vercellese le cui Scene di vita e di lavoro ebbero ampia diffusione sulle pagine di quelle riviste[21]. Anche la sua descrizione della vita rurale mostra un approccio sempre in biblico tra bozzettismo e documentazione:  il documento si mescola alla scena di genere e a volte ne emerge con fatica, quasi solo per l’incapacità strutturale della fotografia a escludere il reale, in un processo che direi inverso a quello di molta fotografia etnografica, inevitabilmente segnata dalla cultura visiva del suo tempo. Le fotografie di Tarchetti, segnalate ai lettori quale esempio di eccellenza, venivano pubblicate da “Il Progresso Fotografico” come tavole fuori testo, dal 1904 stampate dallo Stabilimento eliografico Brunner & Co. di Como, avviato proprio in quell’anno da Jacques Brunner come filiale della Brunner & Co. Kunstanstalt di Zurigo, da anni tra i più qualificati stampatori europei, a cui si era rivolto nel 1890 anche Vittorio Sella per la realizzazione dell’album dedicato al Monte Rosa.

Lo stabilimento Brunner, noto editore anche di cartoline, era quindi uno dei luoghi in cui si concentrava e transitava molta della produzione fotografica italiana ed europea destinata alla pubblicazione; una delle sedi in cui migliore era la possibilità di conoscerla. Non è necessario abbandonarsi ad un rigido meccanicismo per immaginare quanto possa aver contato per il giovane Scheuermeier, nel formarsi una propria cultura visiva, lo stretto e duraturo legame con i cugini Brunner, per i quali – come è noto – lavorava sin dal 1895 come fotografo il fratello Willy, che Paul accompagnerà in un memorabile viaggio in Italia nel 1909 “Da Como fino in Sicilia secondo i desideri dei clienti e le necessità dell’azienda” (Scheuermeier 1969, p. 335). Se lo scopo del viaggio fu quello di “reperire nuovi soggetti” allora possiamo veramente riconoscerlo come l’asse portante del suo percorso di formazione fotografica, non solo e non tanto per l’acquisizione sul campo dei necessari rudimenti tecnici, quanto per l’assimilazione dei canoni di rappresentazione che comportava l’assistere alla scelta dei soggetti e delle vedute destinate all’edizione in cartolina. In assenza di specifiche indicazioni di prima mano credo che l’orizzonte entro cui può essersi formata la cultura visiva che si rivela nei modi e nelle scelte compositive delle sue immagini[22], sia da individuarsi nel contesto qui sommariamente delineato per l’ambito italiano; certo non troppo dissimile da quello europeo quale ci viene restituito dai periodici fotografici e dai cataloghi delle esposizioni coeve.

A questi possiamo aggiungere i modelli forniti dalle organizzazioni tassonomiche di oggetti tipiche dei cataloghi illustrati delle grandi collezioni museali come dei campionari industriali e artigianali,  ma soprattutto – credo – il riferimento costituito dalle riprese del suo maestro Jaberg, che già aveva fatto uso di fotografie nel corso delle sue ricerche in Piemonte (Gentili 1997, p. 19) e che fu suo costante punto di riferimento anche metodologico nel corso dei lunghi anni di peregrinazioni per la preparazione dell’AIS.

Quando attraversava la frontiera con l’Italia nei “primi drammatici giorni” del luglio 1920,  dopo le rilevazioni nel Cantone dei Grigioni, Scheuermeier possedeva certo la preparazione tecnica e il supporto logistico[23] necessari a condurre al meglio la campagna fotografica prevista a corredo e supporto dell’indagine linguistica. Possedeva anche una sua propria cultura visiva, mentre gli scopi e il metodo si sarebbero precisati e affinati nel corso del lavoro[24].

Inattese forse, e solo in parte dovute al clima incerto di quegli anni di primissimo dopoguerra,  furono invece le reazioni alla sua presenza di “straniero con la macchina fotografica”, impreparato  “ad avere sulla [sua] scia la voce sussurrata che [fosse] una ‘spia’ ” (Scheuermeier 1969, p. 342), obbligato quindi a rivolgersi al viceconsole svizzero a Como al fine di ottenere per suo tramite i permessi necessari a superare le prescrizioni di polizia[25].

Stupisce al contrario la grande disponibilità delle persone ad accondiscendere alle imposizioni registiche di Scheuermeier, tranne rare eccezioni:  “A Bagolino non mi è stato possibile fotografare un uomo in calzoni corti (…)  – scrive a Jaberg nel dicembre 1920 – tutti se ne scappavano, non ho potuto metterne neanche uno davanti alla macchina fotografica.” (in Caltagirone, Sordi 2001, p. 22) e ancora:  “con estrema difficoltà e solo grazie alle esortazioni dell’informatore mi è stato possibile portare delle ragazze davanti all’apparecchio fotografico. Tutte scappavano per timore che se ne facessero cartoline.” (ibidem). Scrivendo poi a Jud da Cuneo nel settembre del 1922, a proposito di una veduta di Via Roma con persone in posa in primo piano: “Un altro fotografo sfortunato: la gente fa attenzione alla sua posizione.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 48).

Questa sintetica notazione, quasi di sfuggita, individua il nodo problematico della relazione tra operatore e soggetto, tra fotografo e fotografato e, più in generale,  richiama tutte le implicazioni poste dalla scelta tra messa in posa e istantanea, tra osservazione partecipata e “immagine rubata”, riflettendosi anche sul rapporto complesso tra rappresentazione e autorappresentazione. Cosa poteva significare per quei ‘contadini’ la richiesta portata da quell’estraneo, straniero e colto che era Scheuermeier? Che funzione poteva svolgere nel loro sistema sociale e simbolico? Che ruolo era consentito loro di assumere (o di recitare) al momento della ripresa? Non ci è dato saperlo, se non provando a misurarci – non qui, non ora – con l’esercizio poetico dell’interrogazione a distanza di quelle decine di sguardi rivolti all’operatore.

Mettere in posa equivale a mettere in scena, a ricostruire una rappresentazione formalizzata dell’azione e del gesto collocandola in un contesto strutturato di indagine, con evidenti corrispondenze con l’uso del questionario.  Non esistevano infatti a quella data ragioni tecniche per escludere l’uso dell’istantanea, ma la  posa gli consentiva di riunire sinteticamente la maggiore quantità di informazioni possibili; soprattutto svincolava il tempo della ripresa dal tempo del lavoro, dalla stagione e dal calendario, recuperando infine gesti e strumenti ormai fuori dal tempo: inutilizzati. Sebbene restasse memoria del suono del loro nome.[26]

In questa scelta Scheuermeier ha rivelato una sorprendente modernità, ormai dimentica delle concezioni tardo ottocentesche. Se “l’istantanea riconduce al quadro critico dell’osservazione non esplicitata o dichiarata [poiché] le istantanee sono immagini che rinviano al loro autore, e segnalano un intento di esclusione dell’oggetto rappresentato dal procedimento creativo” (Faeta 2003, p. 114), mettere in posa vuole dire dichiarare il proprio esserci. Solo così è possibile porsi quale “presenza sociale in quel mondo” (Counihan 1980, p. 28), se non proprio agire da osservatore partecipante, come andava facendo circa gli stessi anni (1915 – 1918) Bronisław Malinowski, che ricorreva alle fotografie non solo come strumento di controllo e verifica delle note di lavoro ma anche quale mezzo di comunicazione non verbale con l’altro, come sarebbe stato in parte per Scheuermeier e soprattutto per Ugo Pellis[27]. Una relazione comunicativa in cui l’immagine genera la parola, anticipando per certi versi  la pratica recente della photo-elicitation.

La fotografia indica, la parola nomina: “ogni fotografia è dotata di un foglio di accompagnamento, che contiene una descrizione e la terminologia dialettale dell’oggetto rappresentato e dell’attività in questione.” (AIS-Introduzione,  p. 254). Esattamente: questo e non altro; ma è su questa relazione che si fonda la possibilità del discorso etnografico. La nota di accompagnamento, poi la didascalia, identifica e nomina, mette cioè in relazione quell’immagine, esito del taglio operato nel continuum spazio temporale, quindi anche geografico e culturale, col proprio contesto d’origine, espresso dalla testimonianza linguistica. Non sempre però questo processo si svolge in modo piano. In alcuni casi l’immagine sembra perdere la propria capacità referenziale o – meglio – non viene riconosciuta come icona, poiché l’informatore mostra scarsa “comprensione di figure e foto, che spesso, stranamente, coglie con difficoltà o non riconosce” (Sanga 2007, p. 38). Questo tipo di reazione, ben nota anche agli antropologi  (Lanternari 1981, p. 749) ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, su cui altri  studiosi[28] hanno poi ironizzato dimostrando la maggiore complessità del problema e richiamando l’attenzione sulla rilevanza determinante del contesto culturale. Al di là delle questioni ontologiche è infatti questo a consentire di definire la fotografia quale “segno di ricezione”, il cui riconoscimento è condizionato dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché: una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica” ha chiarito Jean-Marie Schaeffer[29], sebbene poi questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”

È proprio nel rapporto dialettico tra i differenti reciproci saperi che si definiva lo spazio di relazione di Scheuermeier con i suoi informatori, l’ambito di sviluppo del suo crescente interesse per la cultura materiale,  per le tecnologie e per l’uso di attrezzi e utensili. Fondamentali anche in questo le sollecitazioni di Jaberg che in una lettera del novembre 1920, dopo essersi complimentato per la qualità delle fotografie (“Davvero molto abili gli scatti con cui ha fissato il trasporto di legname a Borno”) lo invitava a concentrare la sua attenzione sulla “diffusione di singoli tipi (per esempio tipo ‘gerla’, tipo ‘cestone’). Sono mol­to istruttive anche le immagini della raccolta delle castagne. Allora, se si presenta l’occasione, ritrag­ga un po’ più in grande anche i vari attrezzi.” (in La Lombardia dei contadini 2007, p. 364). E ancora, nel gennaio successivo: “In questi ultimi giorni mi sono occupato degli at­trezzi per la trebbiatura. A questo riguardo le sue osservazioni ai margini  e le sue fotografie sono state preziosissime. Anche se dovesse perdere del tempo con queste osservazioni di cultura materiale ne vale veramente la pena; non vorremmo rinunciarvi per via della fretta. At­tendo con ansia la prossima spedizione delle sue fotografie (…). Vorrei anche rielaborare i materiali sulla sedia. Su questo punto si trovano specie per i Grigioni osservazioni preziose e anche due foto; in Italia, al contrario, mancano quasi del tutto le riprese d’interno che potrebbero documentare anche altri tipi di mobilio (letto, armadio ecc.), oppure dei gruppi di sedie, sgabelli, ecc. Non vorrebbe verificare se la macchina fotografica e la luce invernale lo consentono? Noi siamo intenzionati a redigere al più presto un inventario delle foto che permetterà a noi e a Lei di vedere meglio dove ancora dobbiamo rivolgere  l’obiettivo avido di sapere. D’altronde il solo materiale fotografico fino ad ora prodotto costituisce già di per sé una collezione unica in area romanza”[30].

Nell’arco di pochi mesi l’entità e la qualità della produzione fotografica di Scheuermeier erano già tali da costituire una raccolta eccezionale, in grado quasi di riorientare e condizionare  gli obiettivi e l’andamento di tutto il progetto. Prima di colmare “il buchetto piemontese” tra Ticino e Sesia (ma con una curiosa incursione a Pettinengo, nel Biellese) riprendeva il dialogo necessario col suo maestro in una lunga lettera datata Como, il 17 gennaio 1921: “Mi rallegra che Lei possa utilizzare anche le mie osservazioni, sia quelle di carattere etnografico, sia quelle di carattere generale. Mi rendo conto benissimo che nella concitazione della rilevazione queste possano risultare non proprio sistematiche ed equilibrate. (…) Per questo motivo accompagno sempre le fotografie con una spie­gazione il più possibile comprensibile. Nelle descri­zioni delle foto mi affido in gran parte alla mia esperienza diretta, mentre per le osservazioni al margine dei questionari mi attengo spesso alle sole affermazioni dell’informatore  (…).  La mia posizione al momento è quindi la seguente: nella rilevazione assumere obiettivamente ciò che viene spontaneamente dall’informatore, secon­do il suo carattere, e ciò che posso cogliere con lo sguardo veloce passando in gran fretta, per lo più di notte. Nel resto limitare alle foto gli studi approfonditi sulla cultura materiale con descrizione. In queste [foto] tutto dovrà essere registrato in maniera sistematica e io non posso far altro che rallegrarmi del nuovo indice per argomenti delle riprese fotogra­fiche come aiuto graditissimo per evitare delle man­canze. Finora ho fotografato soprattutto ciò che era nuovo e particolare e che non avevo ancora visto altrove.  (…) È d’accordo, insieme con Jud, sul mio modo di procedere? È sufficiente la quantità delle osser­vazioni etnografiche alla quale mi sono finora atte­nuto? Nel caso non fosse d’accordo in qualche punto, La prego di segnalarmelo al più presto; altrimenti devo presumere di poter proseguire come ho fatto finora” (in Gentili 1997, pp. 21-22). La procedura si precisa empiricamente, lasciando intravedere – mi pare – l’emergere di due pratiche ancora distinte, cui corrisponde la netta separazione degli strumenti della ricerca: il questionario per l’indagine linguistica, la fotografia per l’indagine etnografica sulla cultura materiale, sebbene Scheuermeier si mostrasse ancora poco consapevole di un suo possibile uso comparativo. Jaberg rispose a stretto giro di posta, il successivo 23 gennaio: “Credo che in linea di principio abbia ragione anche nella scelta delle fotografie; io mi comporterei in modo un po’ diverso, nel senso che non attenderei sempre nuove forme di cultura materiale o qualcosa di assolutamente sorprendente, ma fotograferei a grandi intervalli anche cose che mi sembrano identiche con altre viste in precedenza. Piccole differenze non vengono spesso rilevate, non si riesce a tenere ben separato ciò che è importante da ciò che non lo è, specialmente se si vive troppo vicino agli oggetti; e, inoltre, ci si inganna anche nel ricordarli. Quali fruitori del materiale dell’Atlante e di quello iconografico, si è contenti di ricevere esplicite conferme anche di cose identiche. Neanche qui sono completamente affidabili le conclusioni ex silentio” (in Sanga 2007, p. 33). Con tutta la cortesia necessaria e il rispetto dovuto all’immane lavoro sul campo che si stava conducendo, Jaberg precisava e modificava nettamente gli indirizzi operativi proprio alla vigilia del periodo in cui Scheuermeier si apprestava a percorrere tutta l’Italia settentrionale, dalla Liguria all’Istria, per giungere infine in Piemonte solo l’anno successivo. Fu quello il momento in cui si chiariva l’esigenza di evitare il ricorso soggettivo alla documentazione fotografica a favore di una rilevazione più sistematica, certo connessa al “rilievo crescente che veniva assumendo l’indagine sulla cultura materiale” (Gentili 1997, p.20), allentando anche la relazione di stretta interdipendenza col questionario.  Questo atteggiamento nuovo comportava, letteralmente, un allargamento di campo, ulteriormente evidente nelle campagne degli anni Trenta, quando la presenza di Paul Boesch lo sciolse dal vincolo della descrizione degli oggetti, ma provocò anche un certo disorientamento. Era lo stesso modo di procedere che mutava.

Ancora nell’ ottobre del 1921 Scheuermeier appariva quasi fotografo suo malgrado, tanto da proporre una riduzione del tempo dedicato alle riprese, così obbligando nuovamente Jaberg a prendere posizione:  “La Sua minaccia di rallentare la documentazione fotografica a favore della ricerca linguistica, mi amareggia. D’altra parte mi rendo conto che il tutto Le richieda molto tempo e che Lei sia ansioso di procedere con il lavoro.” (in Gentili 1997 p. 24) Quando nel 1931 si sarebbe soffermato a riflettere sulla prima parte di quell’esperienza, il quadro di riferimento era ormai radicalmente mutato e la prevalenza dell’approccio visuale risultava chiara: “Nessun questionario (…) potrà servire dappertutto. Il miglior metodo sarà sempre di andare sul posto a vedere gli oggetti e i lavori e di fissarne l’immagine in fotografie e schizzi accompagnati da descrizioni particolareggiate.” (Scheuermeier 1932, p. 97). In modo ancora più esplicito avrebbe descritto il procedere nella conferenza berlinese del 1934:  “Nel frattempo [che Paul Boesch disegnava] io con il mio informatore percorrevo, casa e stalla, cucina e cantina, villaggio e campagna, e fissavo in immagini fotografiche che venivano tutte fornite di una descrizione tutto ciò che mi appariva interessante. (…) D’altra parte il mio dovere più importante, quello di raccogliere le risposte al mio questionario sistematico, finiva per dover essere svolto nelle pause tra tutte queste attività, e soprattutto nel tempo in cui gli impegni relativi al disegnatore e alle fotografie non mi distraevano più.”  (Scheuermeier 1936,  cit. in  Caltagirone, Sordi 2001, p.29)

Parafrasando una sua notissima affermazione si può dire che “l’acchiappadialetti” partì linguista e ritornò fotografo, accogliendo serenamente la contraddizione interna tra rilevamento linguistico, concepito e restituito in uno spazio bidimensionale e sincronico, dove la variabile temporale se non proprio esclusa non era esplicitamente considerata, e ripresa fotografica, indissolubilmente legata al qui ed ora dello scatto. Solo con la messa in scena, destinata a restituire un tempo ‘altro’, a produrre una “autenticità rappresentata” (Marano 2007, p. 107) le due forme di rappresentazione sarebbero tornate per quanto possibile ad avvicinarsi.

Sono proprio le fotografie in cui sono presenti figure che maneggiano oggetti a costituire la maggior parte delle riprese. Tutte – salvo rarissime eccezioni – frutto di una posa ricercata e accurata, certo non attribuibile a presunte limitazioni tecniche. In questo grande insieme è però necessario distinguere due categorie diverse: nella prima le persone erano chiamate a mostrare più che a mostrarsi: esponevano gli oggetti, essendo a volte attorniate da altri con simili caratteristiche tipologiche o funzionali. Nella seconda ne veniva mostrato l’uso, accennando il gesto corrispondente, come nella migliore tradizione delle scene di lavoro. Il carattere più rappresentativo che descrittivo di queste immagini è però rivelato da alcuni elementi indiziari: si pensi allo sguardo in macchina dei soggetti ripresi, che rende esplicito l’artificio. Anche i gesti presentano lo stesso carattere. Essendo stabiliti e letteralmente fissati prima dello scatto non definiscono un istante, rimandando semmai all’azione del lavoro in un senso molto lato, evocativo. Per questo riesce difficile concordare con Scheuermeier quando afferma che “le fotografie possono mostrarci  l’uomo al lavoro”[31]. Non è qui in questione il valore della fotografia come documento quanto la corretta determinazione del contenuto documentario di ciò che lui fotografa, poiché nell’accezione e nell’uso consueto che ne ha fatto l’immagine fotografica funziona piuttosto da tableau vivant: è la parola che dà movimento, che racconta l’azione, nominandola. Non è l’iconografia, né il suo trattamento ciò che distingue la produzione fotografica di Scheuermeier: è la relazione col testo, col progetto che questo uso significa e a cui dà corpo; poiché infine erano le parole e le cose a interessarlo, non i gesti[32].

Quelle cose con cui costruiva le sue misurate nature morte di oggetti, morbidamente illuminati per essere pienamente leggibili in ogni dettaglio[33], solo a volte ripresi un poco da lontano e di scorcio, con scarsa attenzione per ciò che accadeva ai margini dell’inquadratura[34]. Nella maggioranza dei casi la ripresa è invece frontale, gli oggetti ordinatamente disposti secondo le consuetudini dei cataloghi illustrati. Lo si vede nelle immagini realizzate a Ronco[35] e a Vico Canavese[36] nell’ottobre del 1923, o nella serie più tarda di Montanaro del 1932[37], dove c’è ancora una luce di gusto pittorialista a illuminare gli interni[38]. Questa è però un’eccezione: in quegli ultimi anni le riprese si fanno in certa misura più complesse e articolate, prive di un unico centro di interesse e (quindi) di un ‘fuoco’ compositivo[39]. Sono meno costruite, più immediatamente referenziali; a volte il campo si allarga sino a far scomparire il soggetto dichiarato: “l’informatore dà da mangiare alle mucche”[40]  dice il testo, ma l’informatore non si vede, sta ormai oltre la soglia della stalla, mentre una ragazza si affaccia a guardare, imprevista.

Nella produzione di Scheuermeier sono complessivamente pochi i ritratti veri e propri, quelli in cui la persona si mostra doppiamente consapevole: di essere fotografata, certo, ma anche di costituire il solo elemento di attenzione del fotografo, di essere cioè compiutamente soggetto. Nascono sempre da legami personali. Sono alcuni informatori, a volte con le loro famiglie, ritratti nei modi propri di molta fotografia locale ancora in quegli anni: in esterni, con un fondale magari bianco[41] a isolarli dal contesto quotidiano o per proiettarli in un ambito più letterario e alto. Anche stereotipato però, com’è per quella “sposa lombarda”, la “classica «Lucia» (…) figlia dell’informatrice di Galliate” che costituisce il soggetto della cartolina inviata a Jakob Jud nel febbraio del 1921[42], e a cui Scheuermeier dedicò una particolare attenzione[43]. Sono i suoi diversi assistenti (a loro volta fotografi[44]) ripresi sul campo, comunque in posa, a volte mettendo argutamente in scena il dialogo tra le due culture, come nell’efficace ripresa realizzata a Borgomanero nel 1928 in cui “lo studente Walser di Zurigo (…) parla con il marito dell’informatrice”[45]. In altri casi la figura perde la propria identità di persona, ma non per questo diventa semplice elemento della scena: è il caso ad esempio della donna di Vico Canavese col suo carico di steli di granturco, incorniciata dall’arco in pietra[46], o del vecchio con la pipa seduto in controluce accanto al vano della porta, sempre a Vico[47]; proprio la sua presenza non necessaria, che anzi nasconde alla vista parte degli attrezzi fotografati, rivela l’intenzione estetica di Scheuermeier.  Questa raggiunge a volte sorprendenti effetti espressivi, come nel fienile di Rochemolles, dove la luce sottolinea il comune profilo nodoso dell’attrezzo e del contadino[48].

Un cenno a parte meritano i ritratti legati all’amorevole histoire romancée dell’incontro con la signorina Nicolet, tutti scalati negli ultimissimi giorni dell’agosto 1923 in valle Antrona. Le fotografie si rivelano come non mai catalizzatore e memoria di sguardi, e di sentimenti[49]: alla  “immagine riflessa” di lui viene fatta corrispondere “l’altra immagine riflessa” di Nellie che interroga lo specchio della lanca come un candido Narciso, mentre l’aspro fondale alpino è tenuto sapientemente fuori fuoco, secondo la migliore sintassi pittorialista. In questo felice momento della sua vita Scheuermeier si consentiva di intrecciare il rigore analitico dell’indagine con la tensione che nasce dal desiderio: “Sguardo nella stalla attraverso la porta (…) Dietro la kasínα dla zónt, dove ci si intrattiene nelle sere d’inverno per lavorare e chiacchierare. Un uomo sulla bánca che corre tutto intorno alle pareti. (…) dietro [biancovestita a illuminare il buio del fondo] la signorina Nicolet; dietro di lei un letto vuoto”[50]. Questa fotografia, come altre ma certo per ragioni più nette, non venne pubblicata nel Bauernwerk, per il quale non solo venne utilizzata una porzione ristretta dell’intera produzione di Scheuermeier, ma le stesse immagini selezionate furono a volte modificate per essere più pertinenti al testo, più funzionali all’uso comparativo previsto dal progetto finale[51].

Diverse sono le ragioni e gli esiti dell’attuale riedizione, che ripristina invece  nella loro interezza e articolazione le primitive sequenze di realizzazione, rivelandone i nessi non solo tematici con le specificità di ciascun punto di indagine. Vengono così recuperati e resi comprensibili  l’originario ritmo e tono narrativo, a quella data destinati ai suoi soli lettori privilegiati.  Jakob e Jud naturalmente, ma ancor prima gli informatori di Scheuermeier, che potevano misurarsi con la memoria di quell’incontro, con gli esiti delle loro strategie di autorappresentazione, quasi sempre implicite, ma soprattutto con le ragioni e il possibile senso dello sguardo portato dall’altro, dall’estraneo, “colpiti forse dall’onore che un signore sconosciuto veniva a fare alle loro povere cose.” (Scheuermeier 1963, p. 295).

Anche per Scheuermeier la rielaborazione dell’esperienza ha costituito il nucleo centrale e problematico del progetto. In particolare la traduzione, l’adattamento e (certo in parte) la reinvenzione del gesto e dell’oralità in scrittura verbale e iconica, sia nella fase interlocutoria del questionario, sia – specialmente – nella sistematizzazione successiva, a sua volta scandita in almeno due fasi distinte. Mentre nella redazione della singola didascalia testo e immagine funzionavano come due voci dello stesso coro, di cui l’etnografo era il maestro concertatore, nella messa in pagina editoriale l’operazione comportava un ulteriore distanziamento dal contesto di riferimento e di produzione; l’immissione in un nuovo e diverso sistema significante, in una nuova narrazione, in un ulteriore contesto d’uso che presumeva a sua volta una gamma solo parzialmente definibile a priori di contesti di ricezione[52]. A maggior ragione ciò accade nelle attuali edizioni sistematiche per serie locali o regionali.  Al determinante recupero delle inedite sequenze documentarie originarie  corrisponde un mutamento di posizione, della distanza critica da cui possono essere nuovamente studiate e osservate. Muta la nostra comprensione del procedere di Scheuermeier sul campo.

 

Note

[1] Schaaf 2000, pp.82-83. Nessuna immagine di lavoro venne invece inclusa in The Pencil of Nature, per la cui approfondita analisi si veda Signorini 2007.

[2] Il confronto qui si pone, ovviamente, con la coeva produzione di dagherrotipi, che avevano più rigidi parametri d’uso e un ambito di applicazione mediamente più descrittivo che narrativo: dal ritratto alla veduta urbana. Tra i non molti esempi di pose di lavoro si possono segnalare Terrasse de Lerebours, eccezionale dagherrotipo panoramico coi lavoranti della stamperia omonima realizzato da Noël-Marie Paymal Lerebours verso il 1845 (Bajac e De Font-Réaulx 2003, pp. 168-169) dove argomento e schema iconografico sono analoghi al coevo Il Laboratorio di Reading, di Talbot e Nicolaas Henneman, 1846 ca, carta salata da negativo (Gernsheim 1981, p. 186),  e il bellissimo dagherrotipo colorato di anonimo autore americano, 1850ca, con il fabbro e l’assistente al lavoro all’interno della fucina (Bernard 1981, p. 24). Non si conoscono invece dagherrotipi italiani di ‘lavoro’, cfr. Italia d’argento 2003.

[3] Antoine étienne Renaud Augustin Serres, famoso docente di anatomia comparata, propose ad esempio sin dal 1844 – 1845 di realizzare collezioni di fotografie antropologiche, ma anche la realizzazione di un Musée Photographique des Races Humaines, a Parigi. (Faeta 2006, p. 10) Quelle iniziative si collocavano esemplarmente nel clima di entusiastica accettazione delle potenzialità documentarie del nuovo mezzo appena inventato (1839), analogamente a quanto accadeva in altri ambiti di studio: dalla botanica alla documentazione del patrimonio artistico e architettonico, dando immediatamente corpo alle previsioni espressa da Arago nel corso della sua presentazione del dagherrotipo nel luglio del 1839 (Arago 1839).

[4] La bibliografia di confronto è sterminata, rimando qui ad alcuni testi e ai loro apparati, utili per un primo confronto: Auer 2003; Cavanna 2003; Michetti 1999; Miraglia 1985; Miraglia, Pohlmann 1992; Morello 2000; Roma 1840 – 1870 2008.

[5] Sulle differenze profonde tra atteggiamento demologico ed etnografico ha richiamato l’attenzione Faeta 2006, p. 18, cui rimando.

[6] Il solo Francesco Negri [Lavandaie, 1905 ca] si distinse per la scelta inconsueta del punto di vista, che anticipava di molto, ma certo occasionalmente, la futura sintassi modernista con una eccezionale ripresa dall’alto in diagonale (Negri 2006, p. 103).

[7] La felice definizione è tratta da Sguardo e memoria 1988. Per orientarsi metodologicamente nell’ormai sterminata bibliografia italiana di riscoperta, non sempre ideologicamente limpida e  scientificamente attrezzata, di fondi fotografici e autori locali di interesse etnografico sono imprescindibili le indicazioni contenute in  Faeta e Ricci 1997, da leggersi in parallelo al più recente Faeta 2006.

[8] Morselli 1882, p. 7 che riprendeva e ampliava le Istruzioni di  Giglioli, Zannetti, 1880,  che si rifacevano a loro volta alle suggestioni di Paolo Mantegazza. La distinzione introdotta da Morselli, ma non era il solo, mi pare significativa non tanto per l’ovvia contrapposizione tra misurabile/ non misurabile, vale a dire tra metodo ed empiria, ma anche per la consapevolezza di quante fotografie di contenuto potenzialmente etnografico fossero prodotte proprio nell’ambito della nascente fotografia artistica. Analoga attenzione per i due opposti modi della descrizione – anche se in ambito testuale e non visuale – si ritrova ancora nella tesi di dottorato di Gregory Bateson del 1936. (Bateson 1988, p.7)

[9] I modi della ripresa artistica, attenta alla restituzione del contesto, saranno poi di fatto prevalenti, per un mutato statuto della ricerca antropologia ed etnografica, recuperando la scientificità attraverso la sua applicazione metodologicamente avvertita e definita. (Faeta, Ricci 1997; Marano 2007).

[10] Fano 1901, p. 88. Il Direttore del Laboratorio di Fisiologia del Regio Istituto di Studi Superiori di Firenze aveva avanzato questa proposta sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”  sin dal 1898, riproponendola quindi nel corso del  II Congresso Fotografico Italiano di Firenze (1899),  dove invitava la Presidenza a nominare un’apposita commissione di studi, proponendo anche l’istituzione di un’apposita rubrica sullo stesso “Bullettino”,  il tutto in collaborazione con la Società Italiana di Antropologia, Etnologia e Psicologia Comparata, anch’essa con sede a Firenze, ma l’iniziativa ebbe scarso successo (Panerai 1991). Riprendendo un’intuizione di Ruskin 1880, la possibilità di utilizzare l’opera della crescente ‘armata’ di fotografi dilettanti, che non potevano non aver realizzato “quelque chose d’intéressant à un point de vue quelconque, une épreuve qui venant s’ajouter à d’autres, apportera un élément utile à une collection”, venne sostenuta anche da G. Moreau in occasione del Congresso internazionale di fotografia di Parigi del 1900  (Moreau 1901). Qui alla fiducia positivista nella obiettività del mezzo si accompagnava la chiara percezione della funzione sociale della fotografia e la possibilità che ne derivava di utilizzarla quale fonte, per le proprie valenze quantitative di serie potenzialmente infinita piuttosto che qualitative di singolo elemento documentario, secondo una impostazione metodologica che venne ripresa da Corrado Ricci nel 1904 con la proposta istituzione di un Archivio Fotografico Italiano da realizzarsi agli Uffizi, mentre Loria avrebbe aperto nel 1906 – sempre a Firenze – un primo piccolo Museo di Etnografia Italiana, finanziato dal conte Giovanangelo Bastoni.

[11] Loria 1900; Loria 1912. Il dibattito intorno alla fotografia documentaria procedeva anche in altri ambiti come dimostra la relazione presentata da Carlo Errera nel 1908. Ancora nel 1911 il III Congresso Fotografico Italiano ospitava una sessione internazionale specificamente dedicata alla documentazione fotografica.

[12] Favari 1899. Per un approfondimento su alcune figure della scena milanese si veda ora Paoli 2007.

[13] Sulla scia degli studi pionieristici di Costantino Nigra, Sinigaglia trascrisse a partire dal 1901 una grande quantità di Vecchie canzoni popolari del Piemonte, poi in parte trascritte  per canto e pianoforte tra il 1914 e il 1927 (Leydi 1998; Sinigaglia 2003).

[14] In queste occasioni  erano frequentemente esposte immagini di argomento demologico: ancora nel 1895 all’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino il biellese Giovanni Varale, partecipava con “impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, mentre negli anni e decenni immediatamente successivi altri autori piemontesi rivolgevano la propria attenzione ad analoghi soggetti, specialmente nelle prime fasi della loro produzione. Penso ad alcune immagini di Mario Gabinio tra 1900 e 1910 (Gabinio 1996; Gabinio 2000) o a quelle di Cesare Giulio prima del 1920 (Giulio 2005),  mentre nelle prove di poco più tarde di Stefano Bricarelli o di Domenico Riccardo Peretti Griva il tema del lavoro dei contadini diventa puro motivo, se non mero pretesto per esercizi di stile tardo pittorialisti.

[15] Sulla figura di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi della seconda metà del XIX secolo rimando a Sella 2006 e alla bibliografia ivi citata. Per quanto riguarda il meno noto Domenico Vallino, autore a sua volta di due Album di un alpinista (1877, 1878) dedicati rispettivamente alle valli di Andorno e Gressoney e alla Valsesia, rimando a Cavanna 1995. Sarà proprio la valenza etnografica di queste immagini a spingere Alessandro Roccavilla a rivolgersi a Vallino quando nel 1911 viene chiamato da Loria a collaborare alla realizzazione dell’Esposizione di Etnografia Italiana di Roma (Albera, Ottaviano 1989; Bellardone, Cavatore 1991) proponendo anche un diorama dedicato all’antica cerimonia del Battesimo in alta Valle Cervo (Roccavilla 1922). Segnalo qui che alcune immagini della serie dei Costumi biellesi , in parte pubblicate ne Il Biellese 1898, vennero riutilizzate con attribuzione e titolazione errate nel numero autunnale della rivista “The Studio” del 1913 interamente dedicato a L’art rustique en Italie, a corredo del contributo fornito da Roccavilla. Con una disinvolta operazione di dislocazione geografica, quelli che erano I piccoli Valìt (Valle di Andorno) nel 1898 (p.71)  divennero così Peasants butter-making, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.28), mentre il soggetto secondario della ripresa relativa a Miagliano, Case operaie Poma (Il Biellese 1898, p.130) assunse sulla rivista il ruolo di protagonista: Peasant women washing clothes, Aosta, Piedmont (Art rustique 1913, n.17; entrambi interessanti esempi dei problemi posti dall’uso delle fonti secondarie.

[16] Loria  1912, in Puccini 2005, p. 33.

[17] Come ha chiarito lucidamente Faeta (1988, p. 12) sintetizzando una lunga serie di riflessioni sulla fotografia (da Benjamin a Vaccari e Barthes passando attraverso Bourdieu) “In particolare rispetto all’ideologia mi sembra che la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”

[18] Le sue Scene di vita e di lavoro, allora  notissime e certo pubblicabili senza problemi di censura o autocensura sono state poi quasi dimenticate, a favore della più nota e intrigante serie di nudi maschili; si vedano  Faeta 1988; Gloeden 2008.

[19] Schiaparelli 2003; anche la cartolina spedita da Galliate nel febbraio del 1921, Pascolo Biellese. Sulla via del ritorno, edita da Bonda a Biella, (Canobbio, Telmon 2007, p. 40) mostra quanto il gusto di Scheuermeier fosse prossimo a questa declinazione piemontese del paesaggismo pittorialista.

[20] Palestina 1927  2001. Di Morpurgo, a sua volta editore di cartoline, ricordo qui – a testimonianza di una lunga vicenda di intrecci ancora da studiare compiutamente – la sua Proposta per una più vasta raccolta delle nostre tradizioni popolari, da realizzarsi mediante la raccolta di documentazione visiva, presentata nel 1930 al I Congresso di Arti e Tradizioni Popolari di Trento (Di Castro 2001, p.47).

[21] Tarchetti 1990; le sue immagini venivano edite in cartolina dall’editore vercellese Larizzate presso il quale Scheuermeier acquistò nel marzo del  1921, Nelle risaie vercellesi. Mondatura del riso, con l’iscrizione al verso “ho sbrigato il questionario 65 Desana in un nido di riso.” (Canobbio, Telmon 2007, p. 41) Come rivelano le didascalie, solo il cattivo andamento della stagione precedente consentì a Scheuermeier di documentare almeno la pulitura, la sola fase della coltivazione del riso ad essere descritta. Neppure a livello locale le donne e gli uomini della risaia avevano allora il loro cantore, nessuno che li celebrasse se non occasionalmente in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accadeva ad esempio con le immagini partecipate dell’Agro Romano che  in quegli stessi anni realizzavano  Luciano Morpurgo e  Arrigo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.  Le testimonianze fotografiche delle genti di risaia dei primi anni Venti si limitano alle  foto di gruppo, che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere, fornendo al più indicazioni sull’abbigliamento da lavoro.

[22] Le prime riflessioni sulla cultura visiva di Scheuermeier, con la proposta individuazione di analogie con autori coevi si devono a Marina Miraglia (Scheuermeier 1981) poi riprese e ampliate in Silvestrini 1997 e 2001. Per la loro discussione critica, sostanzialmente condivisibile, si rimanda a Roda 1999 e Scianna 2007.

[23] Come noto la sede Brunner di Como svolse il doppio compito di supporto tecnico logistico per tutto il corso delle rilevazioni sia fornendo a Scheuermeier i nominativi dei propri clienti, a cui ricorrere quali “punti d’appoggio” nelle diverse località, sia nel processo di sviluppo e stampa delle fotografie. I negativi erano infatti spediti alla Ditta per lo sviluppo e per la stampa dei positivi. Questi erano restituiti a Scheuermeier  per il successivo riordino e per la descrizione, sempre corredata dei dati tecnici di ripresa (tempo e diaframma, secondo una consuetudine ampiamente diffusa all’epoca specialmente tra i dilettanti), ma anche – almeno in parte – per essere poi inviate agli informatori in segno di ringraziamento, come accadde la sera del 16 ottobre, a Ivrea, passata a preparare le “fotografie per gl’informatori di Val Vogna, Ronco, Borgosesia” (in Canobbio, Telmon 2007, p.62) dove era stato nelle settimane precedenti. Questa pratica consolidata, che vedeva Brunner anche nelle implicite vesti di mecenate, se è vero che i prezzi delle copie erano appena sufficienti a coprire le spese  (Lettera a Jaberg del 24 settembre 1921, in Gentili 1997, p. 24), dovette avere alcune singolari eccezioni, come mostra la fotografia che venne scattata al nostro “Explorator nella nebbia” alla Capanna Milano in Val Zebrù nel settembre 1920, (dove era in vacanza col cugino Rudy Wiss), poi edita come cartolina da U. Trinca di Sondrio (n. 1495), a sua volta cliente di Brunner. (Gentili 1999,  nn. 15, 42)

[24]  La produzione fotografica di Scheuermeier è consultabile all’indirizzo http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, conducendo la ricerca nella sezione “Immagini”, ricercabili per numero del fototipo, località, autore o data.

[25] Erano le limitazioni ‘militari’  relative alle cosiddette “zone di guerra” in cui si trovavano postazioni o fortificazioni. Il Ministero della Pubblica Istruzione rispose l’11 di agosto del 1920 senza far cenno esplicito alle fotografie, ma con una raccomandazione diretta a Provveditori e Direttori di istituto che sostanzialmente gli consentiva libertà di azione.  “Più che dai delinquenti, ebbi delle seccature da parte dei tutori dell’ordine” ricorderà con amara ironia ormai a molti anni di distanza dall’esperienza sul campo (Scheuermeier 1969, p.338), raccontando le tragicomiche vicissitudini occorsegli con brigadieri, cardinali e pubblici ufficiali, oltre che con i primi fascisti locali.

[26] Si veda http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 339, ripresa a Galliate il 27 febbraio 1921: “Questo tipo di zangola qui è da tempo in disuso e la donna è dovuta andare fuori a procurarsela. Lei stessa non ha più idea alcuna della lavorazione del latte. (…) Anche il setaccio (…) poggiato sul secchio, viene usato ancora solo raramente per colare il latte: tutte cose vecchie.” E ancora, per la ripresa successiva, a proposito di un costume “scomparso da circa 40 anni”: “Ciascun indumento ha una provenienza diversa ed è stato scovato dopo una lunga ricerca per poter fare la fotografia.”

[27] La procedura d’indagine utilizzata da Pellis prevedeva di affiancare al questionario una raccolta di ben 2500 immagini da mostrare contestualmente (Pellis 1926, in Ellero 1999, p. 13). Non è questa la sede per affrontare sistematicamente la questione, ma va almeno ricordato il differente modo di intendere la fotografia tra Scheuermeier e Pellis, certo meno attento alle qualità compositive delle riprese e più propenso all’uso libero dell’istantanea.

[28] “è qui che entra in scena il famoso melanesiano: egli costituisce l’ossessione della letteratura semiologica  e deve reggere da solo tutto il peso dell’alterità radicale – il che mi pare troppo per un solo uomo.”, Schaeffer [1987] 2006 , pp. 48 passim. Il fatto che, in un determinato contesto di ricezione, non sia riconosciuto il contenuto referenziale di un’immagine fotografica  comporta che questa possa perdere il suo specifico statuto di segno (non è più significante) oppure che ne sia mutato il valore (da icona a simbolo, ad esempio), ma ciò può accadere  senza la perdita della sua primaria natura indicale. Non è la comprensione del ricevente che stabilisce la natura della cosa.

[29] Ibidem.

[30] Gentili 1997, p. 20-21, corsivo di chi scrive. L’affermazione mostra bene quale fosse a quella data l’interesse quasi esclusivo, oltre che dichiarato dell’indagine. La lettera è stata ripubblicata in La Lombardia dei contadini 2007, pp. 370-371 con significative varianti di traduzione.

[31] Scheuermeier 1936, p. 357, traduzione di Carla Gentili che ringrazio per la cortesia e la disponibilità a discutere  un passaggio particolarmente delicato delle riflessioni metodologiche di Scheuermeier.

[32] Per questa ragione, credo, non gli importava che a compierli fossero semplici figuranti, coinvolti per ragioni diverse: a Montanaro nel 1932, ad esempio: “la scena si è svolta pressappoco così, quasi naturalmente” (http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6119, corsivo dell’autore; Canobbio,  Telmon 2007, pp. 228 passim), ma si veda  anche  http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 325, Galliate, 1921: “Tutte queste operazioni vengono eseguite per lo più da pettinatori professionisti. (…) Il nipote e la nipote [dell’informatrice] si sono messi al loro posto durante la pausa di mezzogiorno.” Anche a Sauze, nel 1922 a versare il grano nel ventolatoio non era un contadino ma “lo studente Hobi di Zurigo” (Canobbio, Telmon 2007, p.97) uno dei molti inviati da Jaberg e Jud  durante tutto il tempo della ricerca.

[33] Basti notare con quanta cura disponeva un panno bianco a terra per rendere meglio leggibile il fuso nella ripresa realizzata a  Villafalletto nel 1922: http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 837.

[34] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 808.

[35] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 1241.

[36] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 1245 – 1251.

[37] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini nn. 612, 6120.

[38] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6123.

[39] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6093.

[40] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 6095.

[41] “Uno sfondo bianco permette ai soggetti di diventare simboli di sé stessi” avrebbe detto Richard Avedon nel 1987 (in Livingstone 1994, p. 59), ma questo solo espediente non è certo sufficiente e non può prescindere dalla duplice intenzione, non necessariamente convergente, tra soggetto fotografante e soggetto fotografato.

[42] Canobbio, Telmon 2007, p. 42. L’immagine venne pubblicata anche in Scheuermeier [1943-1956] 1980, II, F. 495), ma con inversione sinistra/ destra.

[43] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagini n. 330, 340 a, b.

[44] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS , immagine n. 833, Villafaletto, settembre 1922, nella quale compare lo stesso Scheuermeier.

[45] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 2170. Nel Bauernwerk (I, 1943, F. 53) l’assistente, certo non un testimone della cultura contadina, scomparve dall’immagine a seguito di un accuratissimo intervento di ritocco, mentre nell’edizione italiana (Scheuermeier [1943-1956] 1980, I, F. 53) venne fatto, discutibilmente, ricomparire. Anche la figura a fronte (F.54) è il risultato di una elaborazione: il taglio in stampa della ripresa http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1173 realizzata a Borgone nell’agosto del 1923, di cui costituisce la parte destra, pubblicata nella sua interezza nel vol II, F. 150 con l’indicazione “Ceppomorelli (Piemonte)”.

[46] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1247.

[47] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1248.

[48] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 813.

[49] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagini nn. 1180-1182.

[50] http://130.92.166.34/fmi/webd/AIS, immagine n. 1187.

[51] Cfr. la nota 44.

[52] Per le definizioni di contesto d’uso e di contesto di ricezione formulate da Heintze 1990 si veda Marano 2007, pp. 44-46.

 

 

 

Bibliografia

 

AIS-Introduzione

Karl Jaberg,  Jakob Jud, Der Sprachatlas als Forschungsinstrument. Kritische Grundlgung und Finftihrung in den Sprachund Sachatlas Italiens und der Sidschweiz. Halle (Saale): Max Niemeyer Verlag, 1928 ( Edizione italiana, a cura di Glauco Sanga. Milano: Unicopli, 1987)

 

Albera, Ottaviano 1989

Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’esposizione romana del 1911. Torino:  Regione Piemonte, 1898

 

Antropologia visiva 1980

Antropologia visiva: La fotografia, a cura di Sandro Spini, “La ricerca folklorica”, 2 (1980), ottobre

 

Arago 1839

François Jean Dominique Arago, Rapport de M. Arago sur le Daguerréotype, lu à la séance de la Chambre des Députés le 3 juillet 1839 et à L’Académie des Sciences. Séance du 19 août.  Paris:  Bachelier, 1839 (trad. it. con testo a fronte a cura di Gianfranco  Arciero. Roma: Arnica, 1979)

 

Art rustique 1913

L’art rustique en Italie, “The Studio», numero d’automne. Paris: Editions du “Studio”, 1913

 

Auer 2003

Collection M.+ M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nice – Genève, 2004), a cura di Michel Auer, Michèle Auer.  Hermance: Editions M+M, 2003

 

Bajac, De Font-Réaulx 2003

Quentin Bajac, Dominique de Font-Réaulx, dir., Le Daguerréotype français. Un objet photographique, catalogo della mostra (Parigi, Musée d’Orsay, 2003). Paris: Réunion des Musées Nationaux, 2003

 

Bateson 1988

George Bateson, Naven. Torino: Einaudi, 1988

 

Bellardone, Cavatore 1991

Patrizia Bellardone, Giuseppe Cavatore, a cura di, Alessandro Roccavilla e “La Rivista Biellese”.  Biella: Edizioni leri e Oggi, 1991

 

Bernard 1981

Bruce Bernard, Photodiscovery. Milano: Garzanti, 1981

 

Il  Biellese 1898

Club Alpino Italiano, Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), 8, agosto, pp. 2255-2260

 

Caltagirone, Sordi 2001

Fabrizio  Caltagirone,  Italo Sordi, Gli “approfondimenti etnografici” e la cultura materiale negli inediti di Paul Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2001, pp.27-32

 

Canobbio ,Telmon 2007

Sabina Canobbio, Tullio Telmon, Introduzione, in Il Piemonte dei contadini 2007,  pp. 13-20

 

Cavanna 1995

  1. Cavanna, Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

 

Cavanna 2003

  1. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra ( Modena, 2003 – 2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, pp. 40-116

 

Counihan 1980

Carole M. Counihan,  La fotografia come metodo antropologico, in Antropologia visiva 1980, pp. 27-32

 

Di Castro 2001

Daniela di Castro, Luciano Morpurgo (1886 – 1971), fotografo, scrittore, editore, in Palestina 1927, pp. 43-58

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895.  Torino:  Banca CRT, 2002

 

Ellero 1999

Gianfranco Ellero, Due linguisti fotografi: Paul Scheuermeier e Ugo Pellis, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 117-130

 

Ellero, Michelutti 1994

Gianfranco Ellero, Manlio Michelutti, Ugo Pellis fotografo della parola. Udine : Società Filologica friulana, 1994

 

Ellero, Zannier 1999

Gianfranco Ellero, Italo Zannier, a cura di,Voci e immagini: Ugo Pellis linguista e fotografo. Milano – Spilimbergo: Federico Motta Editore – CRAF,  1999

 

Errera 1908

Carlo Errera,  Sulla convenienza di ordinare un Archivio fotografico della regione italiana in servizio degli studi geografici,  “Atti del Sesto Congresso Geografico Italiano”(Venezia, 26-31 maggio 1907), I. Venezia : Premiate officine grafiche C. Ferrari 1908, pp. 40-47

 

Faeta 1988

Francesco Faeta, Wilhelm von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, 9, 1988, maggio, pp. 88-104

 

Faeta 2003

Francesco Faeta, Strategie dell’occhio: saggi di etnografia visiva. Milano: Franco Angeli, 2003

 

Faeta 2006

Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: Uno sguardo antropologico.  Milano: Franco Angeli, 2006

 

Faeta, Ricci 1997

Francesco Faeta, Antonello Ricci, a cura di, Lo specchio infedele. Materiali per lo studio della fotografia etnografica in Italia, ” Documenti e ricerche”. Roma: Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, 1997

 

Falzone del Barbarò 1981

Michele Falzone del Barbarò, Paul Scheuermeier ricercatore e studioso, in Scheuermeier 1981, pp.24-31

 

Fano 1901

Giulio Fano, Sull’applicazione della fotografia agli studi etnografici, in “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 1899).  Firenze:  Ricci, 1901, pp.87-90

 

Favari 1899

Pietro Favari, L’Illustrazione fotografica dell’Italia per il T.C.I.,  “Il Dilettante di Fotografia”, 10 (1899),  n.15, novembre, p. 896

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra ( Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Gabinio 2000

Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, Villa Remmert, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000

 

Gentili 1997

Carla Gentili, Scheuermeier nel Trentino, dalla linguistica all’etnografia, in Il Trentino dei contadini, 1997, pp. 15-25

 

Gentili 1999

Carla Gentili, Dall’Italia per l’Atlante. Le cartoline di Paul Scheuermeier a Jacob Jud: 1920-1928, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 171-220

 

Gernsheim 1981

Helmut  Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981

 

Giglioli, Zannetti 1880

Enrico Hillyer Giglioli, Arturo Zannetti, Istruzioni per fare osservazioni antropologiche ed etnologiche.  Roma: Tip. Eredi Botta, 1880

 

Giulio 2005

Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna,  2005

 

Gloeden 2008

Wilhelm von Gloeden. Fotografie: Nudi Paesaggi Scene di genere, catalogo della mostra (Milano, 2008), a cura di Italo Zannier. Firenze: Alinari 24 Ore, 2008

 

Heintze 1990

Beatrix Heintze, In Pursuit of a Chameleon: Early Ethnographic Photography from Angola in Context, “History in Africa: A Journal of Method”, 17 (1990), pp.131-156

 

L’Italia d’argento 2003

L’Italia d’argento 1839-1859: Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Firenze – Roma, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli.  Firenze:  Alinari, 2003

 

Lanternari 1981

Vittorio Lanternari, Sensi, “Enciclopedia”, vol.12.  Torino: Einaudi, 1981 , pp.730-765

 

Leydi 1998

Roberto  Leydi, a cura di, Canzoni popolari del Piemonte: la raccolta inedita di Leone Sinigaglia.  Vigevano : Diakronia, 1998

 

Liégard 1905

Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10

 

Livingstone 1994

Jane Livingstone, L’arte di Richard Avedon, in Mary  Shanahan, a cura di, Evidence 1944-1994 : Richard Avedon.  Milano: Leonardo Editore – Eastman Kodak, 1994 , pp. 11-102

 

La Lombardia dei contadini 2001

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, I,  Lombardia orientale. Le province di Brescia e Bergamo, a cura di  Giovanni  Bonfadini, Fabrizio Caltagirone, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2001

 

La Lombardia dei contadini 2007

Paul  Scheuermeier:  La Lombardia dei contadini. 1920 – 1932, III,  Lombardia occidentale, a cura di  Fabrizio Caltagirone, Glauco Sanga, Italo Sordi. Brescia: Grafo, 2007

 

Loria 1900

Lamberto Loria, Relazione sulla proposta pubblicazione fotografica: tipi, usi e costumi del popolo italiano, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n. 1, pp. 19-22

 

Loria 1912

Lamberto Loria, Il primo Congresso di etnografia italiana: Parole dette nella Seduta inaugurale. Perugia: Unione Tipografica Cooperativa, 1912

 

Marano 2007

Francesco Marano, Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale. Milano: Franco Angeli, 2007

 

Michetti 1999

Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Electa, 1999

 

Miraglia 1985

Marina Miraglia, Cesare Vasari e il  ‘genere’ nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bollettino d’Arte”, 70 (1985), serie VI, nn. 33-34, settembre-dicembre, pp. 199-206

 

Miraglia, Pohlmann 1992

Marina Miraglia, Ulrich  Pohlmann, a cura di, Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia. Roma: Carte Segrete, 1992

 

Mirisola, Vanzella 2004

Vincenzo Mirisola, Giuseppe Vanzella, Sicilia Mitica Arcadia: Von Gloeden e la ‘Scuola’  di Taormina.  Palermo:  Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Moreau 1901

Georges Moreau, Douzième Question: Veu à émettre pour qu’il soient créé des dépôts d’archives photographiques, in Exposition Universelle de 1900. Congres International de Photographie.  Paris:  Gauthier-Villars, 1901, pp. 132-135

 

Morello 2000

Paolo Morello, Gli Incorpora, 1860-1940.  Palermo – Firenze:  Istituto superiore per la storia della fotografia – Alinari, 2000

 

Morselli 1882

Enrico Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia, in Esposizione Generale Italiana în Torino 1884. Programmi.  Torino: Stamperia Reale Paravia, 1882

 

Namias 1907

Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n.  2, febbraio, p. 30

 

Negri 2006

Francesco Negri fotografo 1841-1924,  a cura di Barbara Bergaglio, P. Cavanna.  Cinisello Balsamo:  Silvana Editoriale, 2006

 

Palestina 1927  2001

Palestina 1927 nelle fotografie di Luciano Morpurgo, catalogo della mostra (Gerusalemme,  The Israel Museum, marzo – giugno 2001), a cura di Gabriele Borghini, Simonetta Della Seta, Daniela Di Castro. Roma: U. Bozzi, 2001

 

Panerai 1991

Cristina Panerai, Fotografia e antropologia nel «Bullettino della Società Fotografica Italiana»: una promessa disattesa, “AFT”,  7 (1991), n. 13, pp. 64-69

 

Paoli 1991

Silvia Paoli, Le tematiche sociali nella fotografia milanese dell’Ottocento, in “AFT”, 7 (1991), n. 13, pp. 55-63

 

Paoli 2007

Silvia Paoli, «Ora l’istantaneo è reso duraturo, perpetuo, una macchinetta vince il tempo. ..». La fotografia istantanea a Milano tra Otto e Novecento: Giuseppe Beltrami, Luca Comerio, Italo Pacchioni, in Elena Degrada, Elena Mosconi,  Silvia Paoli, a cura di, Moltiplicare l’istante: Beltrami, Comerio e Pacchioni tra fotografia e cinema, “Quaderni Fondazione Cineteca Italiana”. Milano: Il Castoro, 2007, pp. 23-35

 

Pellis 1926

Ugo Pellis, La prima messe, “Rivista della Società Filologica Friulana”, 1926, p. 99

 

Il Piemonte dei contadini 2007

Paul Scheuermeier: Il Piemonte dei contadini 1921-1932, I, La provincia di Torino, a cura di Sabina Canobbio,  Tullio Telmon.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 2007

 

Puccini 2005

Sandra Puccini, L’itala gente dalle molte vite. Lamberto Loria e la Mostra di Etnografia italiana del 1911.  Roma: Meltemi, 2005

 

Quintavalle 2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari.  Firenze: Alinari, 2003

 

Redazionale 1906

Redazionale, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10, ottobre, p. 145

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Malinowski e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2004

 

Ricci 2004

Antonello Ricci, a cura di, Bateson & Mead e la fotografia.  Roma:  Aracne, 2006

 

Roccavilla 1922

Alessandro Roccavilla, Il battesimo nell’Alta Valle del Cervo, “La Rivista Biellese”  2 (1922), nn. 7-8, pp. 21-22

 

Roda 1999

Roberto Roda, Il contadino fotografato: da Scheuermeier ad Avedon e oltre, in Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999, pp. 131-145

 

Roma 1840 – 1870   2008

Roma 1840-1870. La fotografia, il collezionista e lo storico, catalogo della mostra ( Roma – Modena, 2008), a cura di Maria Francesca Bonetti. Roma: Peliti Associati, 2008

 

Ruskin 1880

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture.  Orpington (Kent): G. Allen, 1880

 

Sanga 2007

Glauco Sanga, Gli interlocutori di Scheuermeier, in La Lombardia dei contadini  2007, pp. 27-44

 

Schaaf 2000

Larry  J. Schaaf, The Photographic Art of William Henry Fox Talbot. Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2000

 

Schaeffer [1987] 2006

Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire.  Paris: Editions du Seuil, 1987 (traduzione italiana a cura di Marco Andreani, Roberto Signorini. Bologna: CLUEB, 2006

 

Scheuermeier 1932

Paul Scheuermeier, Observations et expériences personnelles faites au cours de mon enquête pour l’atlas linguistique et ethnographique de l’Italie et de la Suisse méridionale, “Bulletin de la Société de Linguistique”, 33 (1932), n. 1, pp. 93-110

                                                                               

Scheuermeier 1936

Paul Scheuermeier, Methoden der Sachforschung. Zur sachkundlichen Materialsammlung für den Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, “Vox Romanica”,  I, (1936), pp. 334-369 

 

Scheuermeier [1943-1956] 1980

Paul  Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, a cura di Michele Dean e Giorio Pedrocco, 2 voll. Milano: Longanesi, 1980 (ed. originale, Bauernwerk in Italien der italienischen und ritoromanischen Schweiz, Vol. I.   Erlenbach – Zürich:  Eugen Rentsch Verlag, 1943; Vol II.  Bern: Stimpfli & Cie, 1956)

 

Scheuermeier 1963

Paul Scheuermeier, Regioni ergologiche della vita agricola italiana, in Il mondo agrario tradizionale nella Valle Padana, “Atti del convegno di studi sul folklore padano” (Modena, 17-19 marzo 1962).  Modena:  Enal, Università del tempo libero, 1963, pp. 291-307

 

Scheuermeier 1969

Paul  Scheuermeier, Della buona stella sul nostro Atlante, 1969, traduzione di Carla Gentili in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 329-346

 

Scheuermeier 1981

Paul Scheuermeier: fotografie e ricerche sul lavoro contadino in Italia: 1919-1935, catalogo della mostra (Roma, 20  maggio -20 giugno 1981), a cura di Marina Miraglia. Milano: Longanesi, 1981

 

Scheuermeier le Alpi e dintorni 1999

Scheuermeier le Alpi e dintorni, “Atti del Seminario permanente di Etnografia Alpina”, 4° ciclo (SPEA 4, 1997), a cura di Carla Gentili, Giovanni Kezich, Glauco Sanga,  “Annali di San Michele”, 12 (1999)

 

Schiaparelli 2003

Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, catalogo della mostra (Occhieppo Superiore – Torino, 2003), a cura di Gian Paolo Chorino. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Scianna 2007

Ferdinando Scianna, Il film muto di Scheuermeier, in Lombardia dei contadini  2007, pp. 45-47

 

Šebesta 1980

Giuseppe Šebesta, Fotografia e disegno nella ricerca etnografica, in Antropologia visiva 1980, pp. 37-44

 

Sella  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella.  Torino: Fondazione Torino Musei – GAM,  2006

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890]; (reprint, Ivrea: Priuli & Verlucca, 1983)

 

Sguardo e memoria  1988

Sguardo e memoria: Alfonso Lombardi Satriani e la fotografia signorile nella Calabria del primo Novecento, catalogo della mostra (Roma, 1988-1989), a cura di Francesco Faeta,  Marina Miraglia.  Milano – Roma:  Arnoldo Mondadori – De Luca Edizioni d’Arte, 1988

 

Signorini 2007

Roberto Signorini, Alle origini del fotografico. Lettura di  The Pencil of nature di William Henry Fox Talbot.  Bologna: CLUEB, 2007

 

Silvestrini 1981

Elisabetta Silvestrini, Cultura materiale tra linguistica ed etnografia, in Scheuermeier 1981, pp. 16-23

 

Silvestrini 1997

Elisabetta Silvestrini, La fotografia di argomento demologico in area svizzera , in Il Trentino dei contadini 1997, pp. 42-48

 

Silvestrini 2001

Elisabetta Silvestrini, Paul Scheuermeier: Itinerario fotografico nella Lombardia orientale, in La Lombardia dei contadini 2001,  pp. 23-26

 

Sinigaglia 2003

Leone  Sinigaglia, La raccolta inedita di 104 canzoni popolari piemontesi con accompagnamento per pianoforte, revisione a cura di Andrea  Lanza.  Torino: Giancarlo Zedde, 2003

 

Tarchetti  1990

Andrea Tarchetti notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna e Mimmo Vetrò.  Vercelli:  Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Il Trentino dei contadini 1997

Paul Scheuermeier:  Il Trentino dei contadini : 1921-1931, a cura di Giovanni Kezich,  Carla Gentili, Antonella Mott. San Michele all’Adige: Museo degli usi e costumi della gente trentina, 1997

 

 

Il trapianto del mito: acque, risaie, mondine nell’iconografia ottico-meccanica (2000)

“Studi di museologia agraria: notiziario dell’Associazione Museo dell’Agricoltura del Piemonte”, 17 (2000), n. 33, pp. 23 – 37

 

 

Fotografie e storie

 

Come è stato rilevato da più parti, il maggior limite individuabile nel corrente utilizzo storiografico del documento fotografico è costituito dal  riconoscimento acritico della sua natura mitica di impronta oggettiva, per certi versi socialmente necessaria e utile di analogon del mondo, di documento puro che pare non potersi mai trasformare o essere anche monumento, e per il quale quindi non sembra necessario né possedere né tantomeno fornire adeguate chiavi di interpretazione e lettura. Si  preferisce ancora credere che ogni fotografia si esaurisca tutta in quell’ “hic et nunc con cui la realtà ha folgorato il carattere dell’immagine” di cui parlava Benjamin all’inizio del Novecento, oltre i linguaggi e i codici di costruzione, oltre le modalità e i contesti di utilizzazione dell’immagine, pensata come traccia di una realtà immediatamente attingibile – e quindi conoscibile – da parte dello storico; da questa fiducia (controbilanciata da opposti atteggiamenti di rifiuto totale) originano i problemi posti dall’utilizzo dell’immagine fotografica quale documento per la ricerca storica[1]. Tranne casi sporadici esso  ha sempre oscillato, e continua ad oscillare, tra una mera funzione illustrativa, priva di significato intrinseco, ed una funzione referenziale assoluta, di puro dato che racchiude “parte importante del soggetto, lo significa, ma insieme lo evoca e lo presentifica”[2], dimenticando come – contestualmente alla sua natura semiotica di indice – l’immagine fotografica sia anche documento/monumento, prodotto specifico di una condizione culturale e tecnologica, storica e sociale, per la cui comprensione risulta indispensabile non solo individuare e collocare cronologicamente il soggetto, ma anche stabilirne le relazioni con il fotografo, le occasioni e committenze, i condizionamenti sociali e culturali, tecnologici e iconografici che ne hanno segnato la produzione, ponendo in atto un’indagine storica della comunicazione visuale che renda ragione di “quello che può o non può essere fotografato, quale contenuto può essere mostrato, quale effettivamente viene mostrato, e come è stata organizzata e strutturata quella rappresentazione”[3], tenendo presenti insomma tutti i problemi delle diverse scritture fotografiche (posa o istantanea, uso delle luci, singole immagini o sequenze narrative) e dei modelli comportamentali e iconografici di riferimento (la tradizione pittorica e figurativa in genere, le relazioni prossemiche, le forme simboliche di disposizione dei personaggi nel taglio operato dall’inquadratura.

Quando poi si debbano affrontare i problemi posti dalla ricerca e dallo studio di un insieme tematicamente omogeneo di immagini non possiamo non considerare, anche per la fotografia, la questione delle fonti: dalla natura degli archivi disponibili alle vicende frequenti di dispersioni o conservazioni parziali, alla tipologia e alle finalità delle pubblicazioni che hanno ospitato documentazione fotografica su questi temi. Vale a dire che al cosa e come è stato fotografato, e perché, vanno anteposte considerazioni a proposito di  cosa è stato conservato o pubblicato, e perché.

Anche nel nostro caso quindi i materiali esaminati non possono essere intesi tout court quali elementi per una ricomposizione esaustiva (tanto meno fedele) del percorso che ha condotto alla formazione e al consolidamento di una  precisa e riconoscibile iconografia del mondo della risaia, ma solo, e in modo più pericolosamente complesso e sfuggente, quasi un effetto di memoria, il risultato selettivo e occasionale di iniziative individuali o istituzionali di conservazione attiva o passiva di documenti della propria storia, l’emergere di tracce editoriali per ora poco note e studiate o il semplice permanere inerte di materiali destinati ad una obsolescenza che è di contenuto ancor prima che fisica, con fotografie  private di indicazioni per noi oggi indispensabili quali autore, titolo e data di esecuzione della ripresa, come se il peso del reale di cui la  fotografia sarebbe portatrice potesse  liberarla dalla necessità di possedere un corredo paratestuale di elementi identificativi.[4]

 

Fotografie del lavoro

Ricordava Arturo Carlo Quintavalle ormai molti anni fa in quello che è forse il primo saggio italiano dedicato al lavoro in fotografia[5], che quando si conduce una ricerca sul tema attraverso e per mezzo dell’immagine fotografica ci si deve ricordare come anche la fotografia sia lavoro, ogni immagine essendo contemporaneamente risultato di una pratica fotografica ed effetto strutturale del lavoro fotografico come sistema complesso di produzione dell’immagine. Qui entrano in gioco quelle scritture fotografiche a cui abbiamo fatto cenno, che si intersecano con le condizioni e le ragioni per cui quella fotografia è stata commissionata e quindi realizzata; ragioni che dipendono da una dinamica economica e sociale, la cui comprensione comporta il riconoscimento dei reciproci ruoli (committente – soggetto – fotografo) e relazioni (occasionali, parentali o professionali), i rapporti di classe e la conseguente scelta dei temi e dei modi, dei diversi linguaggi fotografici.

Poiché il lavoro non è un tema che attraversa tutta la storia della fotografia indistintamente, né la sua rappresentazione si manifesta secondo accezioni immutabili: se escludiamo la più antica produzione dagherrotipica e calotipica, nel cui ambito le immagini di lavoro risultano rare e sostanzialmente frutto di posa, vere rappresentazioni,  le prime immagini che riconosciamo – oggi – legate a questo tema avevano piuttosto, al momento della loro realizzazione, un intento bozzettistico (si pensi alla produzione di Giorgio Sommer ad esempio)[6], di raffigurazione di stereotipi che si andavano codificando in una fase di lenta ma progressiva costituzione del nuovo modello industriale, portando con sé il cristallizzarsi di figure e mestieri prima immersi indistintamente in un unico orizzonte produttivo[7].  Questa fase si estende almeno fino al primo decennio del Novecento e assume toni diversi solo nelle rare fotografie occasionali eseguite da dilettanti, comunque più tarde, ormai legate alla diffusione di massa della fotografia di piccolo formato, che costituiscono le prime testimonianze di una pratica fotografica interna al mondo del lavoro, slegata dalle convenzioni grammaticali e rappresentative del fotografo professionista o amateur[8]. Solo col secondo dopoguerra si assiste ad una accresciuta attenzione per la narrazione del lavoro che trova le proprie origini nel più ampio contesto di rinnovato interesse per la cultura delle classi popolari di matrice neorealista, per giungere infine alle indagini   politicamente connotate condotte  a partire dagli anni Sessanta, tutte giocate sulla identificazione tra le categorie di popolare e subalterno e sulla conseguente rivalutazione di questa cultura come antagonista, “come capitolo specificamente italiano della dinamica fra ceti e classi.”[9]

 

Risaia

Pur lette con tutte le cautele e gli accorgimenti prima sommariamente indicati, anche le immagini del lavoro in risaia offrono, come tutte le fotografie, una traccia forte del reale dal quale sono state formate[10]; raccontano dei soggetti rappresentati più di quanto potrebbe fare qualsiasi altro tipo di raffigurazione (manuale, cinematografica, televisiva) e in ciò risiede il loro fascino e il loro interesse, per lo storico del lavoro e della società, per l’antropologo, a cui noi vorremmo segnalarle per una analisi, per una interpretazione extrafotografica che non ci compete. Ma alcune considerazioni, alcuni suggerimenti e percorsi di lettura (da cui forse far derivare delle cautele, ma anche degli stimoli)  possono essere proposti e indicati proprio ancorandosi allo specifico fotografico e anzi su questo fondando il possibile loro interesse.

Intanto la prima e più importante: la progressiva comparsa della documentazione del lavoro come lavoro in atto, non come ambiente e contesto: proprio come azione lavorativa, assente di fatto in tutta la produzione ottocentesca, e la conseguente documentazione – più strumentale e tecnica che etnografica – dei gesti del lavoro; altra conquista iconografica progressiva che segna il distacco dalla posa (modificazione tecnica), ma anche l’affermarsi del lavoro stesso come tema figurativo e fotografico in particolare (modificazione socioculturale), per ritornare quindi ancora, più sottilmente, alla posa concepita in termini di ‘neorealismo’.[11]

La storia moderna della risicoltura in Italia, e nella Pianura Padana occidentale in particolare, data a partire dagli anni intorno alla metà del XIX secolo, col passaggio da estensivo a intensivo dei sistemi colturali, dalla risaia stabile ai sistemi a rotazione, a cui si accompagna un grande sforzo di ridisegno, potenziamento e trasformazione gestionale della rete irrigua, in particolare a partire dal 1853 con l’istituzione della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia (AIOS)[12], a cui viene affidata la gestione delle acque demaniali, e più ancora con la realizzazione del grande canale di irrigazione che sarà intitolato a Camillo Cavour[13].

La realizzazione di questo imponente cantiere è stata ampiamente documentata fotograficamente per volere della stessa società promotrice e sono proprio queste immagini, databili tra il 1864 e il 1866, a costituire le più antiche rappresentazioni fotografiche sinora note della pianura risicola tra Vercellese e Novarese, esempio importante di documentazione e rilevamento del territorio, di quegli ambiti cioè in cui la fotografia trova una delle sue prime applicazioni, sulla scia di una tradizione di iconografia ‘topografica’ particolarmente significativa in ambito piemontese, qui connotata da una particolare attenzione per gli aspetti ingegneristici del cantiere e delle opere. Le immagini dei Fratelli  Bernieri e di Alberto Luigi Vialardi evidenziano il senso del progetto mostrandone le differenti fasi di realizzazione, la tipologia funzionale delle macchine impiegate, le caratteristiche dell’organizzazione del lavoro, fino a trasformare in alcuni casi l’enorme cantiere in grandioso apparato scenografico nel quale si muovono visitatori di rango, preludio alle immagini celebrative della cerimonia di inaugurazione.[14]

La ridefinizione della rete irrigua (e di ciò che questo comporta in termini di dimensione proprietaria, struttura gestionale ecc.) accelera il processo di razionalizzazione e modernizzazione della risicoltura, che si traduce sia nel ridisegno della trama fitta delle risaie sia nella riplasmazione del patrimonio edilizio, avendo sovente come modello  quello della nascente architettura industriale[15], con investimenti che presuppongono una programmazione di lungo periodo, scarsamente influenzata dalla crisi che colpisce il settore nel periodo 1880 -1885, tutta fondata sulla messa a punto di un meccanismo produttivo centrato sulla ottimizzazione di impiego del capitale fisso mentre un assoluto disinteresse è dimostrato nei confronti della forza lavoro.

Il mondo della risaia ormai non è più malarico e infetto, ma certo non riesce ancora a essere (forse non lo sarà mai) tema di esercitazioni bucoliche, né letterarie né iconografiche; non ha il richiamo georgico della campagna asciutta né tanto meno il fascino dei paesaggi alpini popolati di greggi e pastorelle, tanto cari all’iconografia piemontese tra Otto e Novecento: tra pittura e fotografia artistica.

Quando il mondo della risaia prende forma di figure il tema è – da subito – quello delle  condizioni della forza lavoro, protagonista politica delle prime rivendicazioni sindacali e oggetto d’affezione per certa pittura di simpatie più o meno distintamente socialiste: da Morbelli a Pellizza da Volpedo.

“Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie”[16] rimprovera Pellizza all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi[17] in una lettera databile tra 1896 e 1897, dove l’appunto non pare riguardare tanto l’uso della fotografia come modello o come aide-memoire, del resto estremamente diffuso in tutto il XIX secolo[18] e consuetamente praticato da Morbelli, fotografo amatore, quanto una eccessiva adesione all’impianto fotografico, oggi leggibile come tentativo di “sperimentare la validità di un approccio «fotograficamente oggettivo»”, modalità che si ritrova ancora nel successivo dipinto di Morbelli dedicato allo stesso tema: In risaia, 1901, oggi al Museum of Fine Arts di Boston.[19]

Ciò che qui interessa è l’esplicita connotazione sociale dichiarata dal titolo del primo dipinto, a testimonianza della chiave di approccio al tema prima suggerita, e soprattutto il documentato ricorso a riprese fotografiche di risaia, oggi non reperibili, realizzate dallo stesso Morbelli o dal suo amico casalese Francesco Negri, tra i più importanti fotografi italiani di secondo Ottocento, presso il cui archivio forse potrebbe valer la pena di condurre qualche ricerca.[20] Prestando fede all’appunto di Pellizza, e supponendo una forte analogia di impianto con Per ottanta centesimi, noi possiamo ritenere che la ripresa fotografica di riferimento, chiunque ne sia stato l’autore, possa essere considerata la più antica immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituisca  l’elemento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le   mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità.

Un analogo gruppo in azione sotto l’occhio vigile del patronato compare anche nella vignetta di testata de “La Risaia. Giornale socialista vercellese” il cui primo numero si pubblica a Vercelli il primo dicembre 1900 per iniziativa di Modesto Cugnolio, promotore anche del successivo “La Monda”, organo della Federazione Regionale Agricola Piemontese, fondato nel 1903. Qui la testata è ornata da una fotografia: è ancora la  dimensione del paesaggio a dominare e connotare l’immagine, col piccolo gruppo di mondariso sperduto nello spazio aperto, certo non protagonista; in contraddizione evidente – per noi, ora – con il programma politico di cui il giornale era portavoce.[21]

La produzione iconografica muta temporaneamente registro, accentuando il ruolo dei lavoratori in occasione delle rivendicazioni sindacali che portano  allo sciopero per le otto ore del 1906, un momento di rottura radicale con le consuetudini antiche delle campagne che vede per la prima volta esplicitamente protagoniste le donne. A Vercelli nella giornata del primo giugno “il corteo dei dimostranti, con le solite bandiere bianche  e rosse, era imponente per numero, essendosi uniti agli scioperanti volontari quelli forzati, frotte di ragazzi e sfaccendati. (…) Verso le ore 10 uscì la truppa, la quale accorse nei pressi dello stabilimento Tarchetti e C. già Locarni, dove erano i dimostranti. Vi fu un sequestro di bandiere subito dopo però restituite. La fanteria fece una carica per sgombrare il passaggio a livello dell’Isola. La massa dei dimostranti, dopo aver atterrato il casotto del dazio, tentò di fermare la truppa rovesciando due carri di ghiaia.”[22]  L’evento e il suo significato devono essere stati dirompenti per la piccola società locale,  ma il corteo riesce comunque ad affascinare, con la sua carica vitale, lo sguardo di un borghese come Andrea Tarchetti, fratello di un grande amministratore terriero[23], che ad esso dedica tre istantanee di grande bellezza ed efficacia (Sciopero), mai pubblicate da alcuna delle riviste fotografiche con le quali collaborava. In quegli anni a Vercelli egli è certamente l’autore più attento al mondo della pianura irrigua[24]; le sue “Scene di vita e di lavoro” delle classi popolari (urbane e rurali) sembrano staccarsi dai modi della rappresentazione più tradizionale per mettere a frutto almeno in parte le possibilità di narrazione, sempre in incerto equilibrio tra verismo e simbolismo, offerte dallo strumento fotografico, mostrando di aver saputo cogliere le suggestioni più vive offerte dalle opere presentate alla grande Esposizione di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902 e dal dibattito italiano che intorno a queste era nato.[25]

Sette di queste immagini vengono esposte alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre e il novembre del 1912 in occasione della Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione, mostra che accosta significativamente opere pittoriche (Follini, Reycend, il già citato Morbelli e altri)[26] e fotografiche, tra le quali  “la magnifica raccolta esposta dall’avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del colore [autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore.”[27]

Il palese carattere celebrativo dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, contrasta con la fase di ulteriori conflitti sociali, qui  solo lontanamente evocati e comunque ‘trasfigurati’ dalle immagini degli autori presenti, semmai orientate alla rappresentazione di un mondo rurale collocato in un orizzonte sociale bloccato.

Specialmente in Tournon[28], che sarà poi Presidente dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, la morbida suggestione dei colori propria del procedimento messo a punto dai fratelli Lumière pochi anni prima, rimanda alla tradizione pittorica, sebbene la riproposizione insistita del tema delle mondine al lavoro costituisca certamente una novità, almeno per quanto riguarda la produzione fotografica. Ciò che permane immutato nelle immagini sinora considerate, a prescindere dall’autore, dalla tecnica e dalla eventuale utilizzazione, è lo schema iconografico: ciò che assume rilievo è il rapporto tra gruppo – a volte collocato in primo piano – e contesto/ paesaggio. I volti restano nascosti dalla postura o dall’ombra forte dei copricapo: la mondina è ancora invisibile.

Il lavoro di risaia non ha ancora prodotto in questi anni una propria cultura (materiale, linguistica) sedimentata: pur nella sua conduzione arcaica, ancora quasi completamente manuale, è paradossalmente un lavoro moderno. Nei primi decenni del secolo non ha una propria tradizione intrinseca che non sia di lotte e forse per questo risulta il grande assente dall’imponente  repertorio raccolto e ordinato da Paul Scheuermeier nel 1919 -1925.[29]

Le donne e gli uomini della risaia non hanno neppure il loro cantore, nessuno che li celebri in quella stagione della fotografia che si colloca tra pittorialismo e prima etnografia, come accade negli stessi anni con le immagini partecipate dell’Agro Romano che realizzano  Luciano Morpurgo,  Aldo Ravaioli e – un poco più tardi – Adolfo Porry Pastorel.[30]  Nei primi anni Venti le testimonianze fotografiche si limitano a foto di gruppo che conservano intatto lo schema compositivo e prossemico della tradizione ottocentesca del genere[31], fornendo al più indicazioni sulle caratteristiche dell’abbigliamento da lavoro:  ancora fazzoletti e gonne, pochi cappelli di paglia e un solo pantaloncino corto.[32]

Alla fine del decennio si verifica una ulteriore congiuntura sfavorevole per il comparto risicolo, con una rovinosa caduta dei prezzi sul mercato interno dovuta alla concorrenza del prodotto estero, alla quale il Regime risponde con l’istituzione dell’Ente Nazionale Risi (1931) che promuove economicamente il settore favorendo le esportazioni a prezzi sovvenzionati e sostenendo i prezzi interni, anche con campagne promozionali destinate ad aumentarne il consumo alimentare in prospettiva autarchica (malto e “caffèriso”), il tutto inserito nei programmi della “battaglia del grano” (1925), qui da intendersi nella specifica variante colturale riassunta ne “l’aureo assioma del Duce, che: nel problema granario italiano il riso è frumento.”[33] In questo contesto si collocano anche le sperimentazioni genetiche (già avviate dalla Stazione Sperimentale di Risicoltura di Vercelli, istituita nel 1908) e tecnologiche, con la messa a punto di nuovi attrezzi e macchinari, la cui pubblicizzazione costituisce fonte ulteriore di documentazione iconografica del lavoro di risaia: in alcune di queste immagini appare per la prima volta la mondina ripresa singolarmente, anticipando un modello che avrà larga fortuna solo nel secondo dopoguerra, però qui il senso è diverso: non si tratta di raccontare la figura della mondariso, ma di documentare con precisione ad esempio il Trapianto del riso coll’apparecchio “Rosso”, costituito da “una lama di ferro ricurva le cui due estremità terminano in tre grosse punte. (…) Lo scopo di questo apparecchio è quello di agevolare il trapianto nel senso che l’operaia non è costretta ad affondare le piante colle dita, operazione questa che a lungo andare nei terreni duri e sassosi, provoca escoriazioni alle dita che rallentano di molto le operazioni del trapianto.”[34]

In questi anni alcune Congregazioni religiose si dedicano all’assistenza e alla diffusione della stampa cattolica, specialmente in alcune zone risicole come il Pavese: visitano le risaiole sul luogo di lavoro, nei campi o in cascina e gestiscono servizi di ristoro nelle stazioni e mense[35], affiancandosi alle iniziative promosse dal Regime che “nel suo slancio verso il popolo, e con particolare simpatia verso il popolo dei rurali, ha messo il problema su un alto piano di giustizia e di umanità sociale [organizzando] treni confortevoli (…) posti di ristoro nelle stazioni di partenza, di transito e di smistamento (…) appositi modernissimi edifici costruiti dall’Ente Risi [che] ospitano in lieti refettori, ed in ampie e comode camerate, le squadre.”[36] Tra le piccole provvidenze offerte dal “vigile amore” del Regime vi è anche la fornitura dei grandi cappelli di paglia, avviata con successo nel 1938 e documentata da alcune significative immagini quali la fotografia di un Gerarca che passa in rassegna le mondine nella tenuta Sacerdoti di Carpi, tutte allineate in fila parallela all’argine o nella successiva foto di un Gruppo di mondine di Carpi, 1939, entrambe dello Studio  Bandieri, nella quale finalmente la posa concilia gruppo, ambiente di lavoro e individualità.[37] In altre immagini  coeve relative al Vercellese, la composizione, pur non discostandosi dallo stereotipato rapporto figura/sfondo che riduce il racconto della vita di monda alle variazioni sul tema mondine in risaia, assume un tono meno celebrativo, che non cela le fatiche delle condizioni e dei rapporti di lavoro,[38] mentre nella bellissima fotografia del ravennate Alvaro Casadio, Ravenna, lavoro in risaia, 1938,  il senso della ripetitività e della perdita di identità del lavoro di gruppo è affidato al gioco grafico delle ruote di biciclette ribaltate lungo una ‘corda’, orchestrate sulla diagonale dell’immagine secondo i dettami della “nuova visione” fotografica di matrice mitteleuropea.[39]

Altre immagini di quegli anni assumono un tono più documentaristico, assimilabile semmai all’estetica del reportage, a partire ancora da una bella immagine dei  Bandieri, I bagagli delle mondine modenesi, 1938, nella quale un intero mondo di storie di vita e di fatica è narrato per sineddoche col nitidissimo mucchio di poveri bagagli poggiati a terra nel triangolo formato dai corpi acefali delle mondariso in attesa del treno.

Altre immagini di altre partenze si susseguono fino agli anni Cinquanta: donne in attesa cariche di sporte e sacchi, affacciate ai finestrini di terza classe[40] o ammassate al portellone di un carro ferroviario, durante una sosta,  le braccia protese a ricevere generi di conforto, in una fotografia che per composizione e cronologia (1955ca) non può non rimandare alle immagini tragiche di altri convogli umani.[41]

“Tornavo da Parigi dove ero andato a presentare Caccia tragica, aspettavo una coincidenza, ero praticamente da solo, saranno state le due di notte, c’era un’atmosfera da film espressionista. Quando, all’improvviso sento delle voci di donne che cantano. Vado a vedere e trovo due treni fermi, su due binari vicini, con migliaia di donne che mangiavano, ballavano, ridevano, cantavano: erano le mondine in transito verso Vercelli, andavano verso la pianura del riso. Insomma io mi sono messo a parlare con queste ragazze, ho perso il treno, e ho passato la notte con loro. Così comincia Riso amaro.”[42] è il 1949 e l’uscita del film col suo singolare connubio di istanze politiche e neorealiste amalgamate da una forte  “carica di carnalità e di erotismo” (De Santis) che trova nella figura di Silvana Mangano la sua compiuta definizione simbolica, costituisce un punto di non ritorno nella generazione dell’iconografia della mondina e nella sua assunzione nell’immaginario collettivo, specialmente maschile.

Con questo film l’attenzione si sposta dal gruppo alla singola protagonista, dalle mondariso alla mondina, dal lavoro alla figura immediatamente disponibile a essere trasformata in icona nazionalpopolare.[43]

Come è noto dure polemiche accolsero il film di De Santis, il quale nonostante  un “amore per la realtà che rasenta il fanatismo” (Italo Calvino) era rimproverato (da sinistra)  per aver mostrato “le mondine (…) sotto una luce di avventurosa immoralità, che non è proprio di questo lavoro: lavoro sacrosanto e duro”[44] mentre – da parte di esponenti della cultura agraria più conservatrice, come il presidente dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia – lo si accusava di essersi celato “sotto le più strabilianti parvenze di una pretesa artistica di ben nota ispirazione, [per convertire] nelle più assurde e inverosimili scene dello schermo quelle che avrebbero potuto essere invece l’esaltazione di un poema grandioso vissuto in armonia di comun lavoro; (…) al solo fine di raggiungere coll’architettata mistificazione (…) quel fine ben noto che tutt’ora ci accora se pur sdegnosamente obliato con sor… riso veramente amaro.”[45]

Al di là delle polemiche il film contribuì, insieme al successivo La risaia di Raffaello Matarazzo (1955) a porre al centro dell’attenzione la mondina specialmente (ma, progressivamente, non solo) in quanto donna-oggetto del desiderio e quindi protagonista dell’immagine, dando avvio a una cospicua produzione fotografica nella  quale accorto mestiere del fotografo e gratificazione della modella occasionale si incontrano sul piano di un blando erotismo ruspante, che assume l’arcadico mondo rurale nella nascente cultura del fotoromanzo.

Così come nell’iconografia precedente la mondina non era persona né  ancor meno corpo, negazione indiretta ma esplicita delle fatiche e condizioni terribili a cui questo era sottoposto, ora, a partire dai primi anni Cinquanta, accanto a immagini di impianto più tradizionale compaiono con sempre maggiore frequenza fotografie di giovani donne in calzoncini corti e blusa, come quelle che fotografa Enrico Pasquali nei primi anni Cinquanta, quando ritrova quelle stesse donne alle quali da bambino distribuiva l’acqua, in compagnia della madre, nelle campagne intorno a Medicina.[46] Sotto le ampie tese del cappelli volti immancabilmente sorridenti e ammiccanti: “Il sudore gronda dai visi e incolla alle reni le bluse leggere. Eppure la mondina canta” recita l’esergo di un articolo pubblicato sulla rivista “Il Riso”, a marcare il tono complessivo dell’iconografia di questi anni, sostanzialmente simile in pubblicazioni padronali o sindacali; si veda il caso de “Il Lavoro”, settimanale della CGIL edito dal 1948, che più volte dedica la copertina alla mondina, lavoratrice protagonista e quindi figura singola, anche qui con progressivi slittamenti e concessioni all’erotismo di derivazione cinematografica, semmai bilanciato da titoli e didascalie che richiamano la “dura fatica, dura vita”[47]. Un tono analogo si ritrova negli opuscoli informativi dell’ENPI nei quali sono pubblicati “candidi disegnini di mondine che con scarso sforzo ci conducono all’idea di donne-vamp o delle bamboline lenci (…)”,[48] mentre permangono immutati i ritmi di lavoro e le gravi condizioni igienico-sanitarie nelle quali le mondariso sono costrette a vivere, ben documentate sia dai lavori della  Sottocommissione istituita dal Senato nel 1950 sia dalle relazioni presentate al Convegno di studi sulla Risaia promosso dall’Amministrazione Provinciale di Pavia nel 1955, nei cui Atti compaiono anche immagini significative delle patologie dermatologiche che colpivano le mondariso[49], duro contraltare all’iconografia corrente. A queste può essere utilmente affiancata la fotografia della bella mondina modenese ricoverata in ospedale[50], che nello stridente contrasto tra eleganza delle fattezze e dell’acconciatura e condizioni patologiche degli arti inferiori sembra racchiudere in sé dandogli forma efficace di figura, la contraddizione insanabile tra immaginario e realtà.

A queste altre immagini si affiancano negli stessi anni, meno stereotipe, nelle quali il riconoscimento dell’individualità della donna al lavoro, delle condizioni esistenziali della persona pare essere più immediatamente connesso alle conquiste politiche e culturali del secondo dopoguerra: le figure intere, frontali, i primi piani di  volti, lo sguardo diretto in macchina raccontano di una consapevolezza nuova[51], di soggetto culturale e politico, di momenti di vita che non coincidono più solo col lavoro in risaia. Anche in questo il film di De Santis ha avuto un ruolo; fotoreporter e giornali allargano lo sguardo alla vita in cascina, ai momenti di socializzazione: dalla distribuzione del rancio alle occasioni di svago[52], mentre il mondo della risaia, le fatiche e le lotte, divengono soggetto di opere letterarie e pittoriche tutte inserite in quel filone che un poco genericamente si continua a chiamare “neorealismo”.[53]

Nei primi anni Cinquanta l’impiego di manodopera per la stagione di monda, le condizioni di vita e di lavoro in molti centri e cascine non si discostano di molto dalla realtà dell’anteguerra e – per certi versi – addirittura di inizio secolo, mentre incomincia a diffondersi l’uso dei diserbanti, dapprima visto come efficace ausilio alla diminuzione del carico di lavoro, ma ben presto individuato come la causa ultima di un progressivo e radicale calo occupazionale, tanto che le Federazioni sindacali si ritrovano a combattere una battaglia per certi versi di retroguardia, lamentando – ormai nel 1964 – che “buoi e cavalli sono stati sostituiti da trattori e mietitrebbie.”[54]

Mutazioni economiche degli anni del “boom”, conflittualità politica e modificazione dei modelli culturali e sociali, ristrutturazioni aziendali e dei cicli colturali determinano nell’arco di un quindicennio la drastica riduzione della forza lavoro femminile impiegata in risaia, che passa dalle 200.000 unità del 1952 alle 70.000 nel 1960 per giungere a poco più di 14.000 nel 1968. Nell’Italia settentrionale il modello occupazionale vincente, in termini reali e immaginari, è ormai quello urbano del lavoro di fabbrica o nel terziario: le fotografie realizzate in questi anni ci mostrano giovani donne, riunite la sera nelle camerate,  ormai indistinguibili per abbigliamento e abitudini dalle coetanee impiegate in città[55], con abiti e acconciature che guardano al mondo di Sanremo e del Cantagiro.

I gruppi di donne curve nell’acqua melmosa scompaiono progressivamente dai campi e dall’iconografia; se ne trovano ancora solo alcune tracce relitte nella più vieta produzione fotoamatoriale e in certa pubblicistica sindacale, sovente poco attenta all’aggiornamento dei contenuti e delle forme di comunicazione.[56]

La pianura irrigua è divenuta ormai la “fabbrica del riso”.

“L’elicottero è la mondina degli anni Sessanta.”[57]

 

 

 

Note

[1] Alcuni elementi di  riflessione su questo tema sono contenuti in P. Cavanna, Frammenti, incisi, suggestioni intorno alla storia e alle immagini, in  Paola Corti, Chiara Ottaviano, a cura di, Fumne: Storie di donne storie di Biella. Torino: Cliomedia Edizioni, 1999, pp.145-152. Le difficoltà ancora attuali di “fare storia” con la documentazione fotografica sono ben esemplificate dalla recente collana di “Storia fotografica della società italiana” diretta per gli Editori Riuniti da Giovanni De Luna e Diego Mormorio:  nonostante l’aggettivazione del titolo i testi a corredo dei volumetti che la compongono suggeriscono scarse cautele critiche per la lettura dei testi fotografici proposti, del resto pubblicati con una povertà di cura che l’edizione economica non pare sufficiente a giustificare.

[2] Francesco Faeta, Le figure inquiete. Milano: Franco Angeli, 1989, p.20.

[3] Sol Worth, Margaret Mead and the Shift from “Visual Anthropology”  to the “Anthropology of Visual Communication”  (presented at a symposium honoring Margaret Mead, American Association for the Advancement of Science, 1976), ” Studies in Visual Communication”,  6 (1980), pp. 15-22, citato in Paolo Chiozzi, Storia, antropologia, fotografia,  “AFT. Rivista di Storia e Fotografia”, 5 (1989), n.10, dicembre, pp.46-51 (p.50).

[4] A queste considerazioni altre vanno aggiunte, specialmente pertinenti ai primi esiti qui presentati. Essi sono il frutto di un’indagine condotta a campione e utilizzando prevalentemente fonti edite, operando generalizzazioni che tengono conto solo parzialmente ad esempio delle eventuali differenze regionali o delle caratteristiche editoriali delle fonti a stampa che nel corso del Novecento hanno pubblicato materiale fotografico comunque connesso al ciclo di coltivazione del riso. Un discorso a parte inoltre andrà fatto (in altra occasione) per la fortuna fotografica del tema del paesaggio della risaia.

[5] Arturo Carlo Quintavalle, Il lavoro e la fotografia, in Aris Accornero , Uliano Lucas , Giulio  Sapelli   a cura di,  Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980. Bari: De Donato, 1981, pp. 311-333, ora in A. C. Quintavalle, Messa a fuoco. Studi sulla fotografia. Milano: Feltrinelli, 1983, pp.53-92; Cesare Colombo, La fabbrica di immagini. Firenze: Alinari, 1988; Angelo Bendotti, Eugenia Valtulina, a cura di, Uomini, macchine, lavoro. Immagini fotografiche dalla fine Ottocento agli anni Cinquanta. Bergamo: CGIL, IBSML, 1989; Cento anni di lavoro. CGIL Modena Immagini per la storia del Movimento Operaio,catalogo della mostra (Modena, Palazzo Comunale,  27 aprile-23 giugno 1991), a cura di Claudio Silingardi. Milano: Mazzotta, 1991; Cent’anni a Venezia. La Camera del Lavoro 1892-1992.  Venezia: Il Cardo, 1992.

[6] Cfr. Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia: 1857-1891. catalogo della mostra (München, Fotomuseum im Münchner Stadtmuseum, 11 settembre-8 novembre 1992; Roma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993) a cura di Marina Miraglia, Pino Piantanida, Ulrich Pohlmann, Dietmar Siegert. Roma: Carte Segrete, 1992; Marina Miraglia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bollettino d’Arte”, serie 6, 70 (1985), n. 33-34, pp. 199-206. 

[7] Si veda l’attenta ricostruzione di un esempio biellese di trasformazione dell’immagine del lavoro da documento a stereotipo condotta da Rita Vineis, Rappresentazioni del lavoro femminile tra Ottocento e Novecento. Un’esperienza di ricerca, in Corti, Ottaviano, Fumne, op. cit., pp.177-187.

[8] Numerosi ormai sono gli esempi pubblicati ai quali è possibile fare riferimento, specialmente nei tanti volumi prodotti da Pro Loco e associazioni o cultori di storia locale, troppo sovente intesi quale occasione per celebrare dubbi revival nostalgici, volumi che nella migliore delle ipotesi possono servire ad ampliare il repertorio delle immagini note, ma certamente non a salvarle dall’oblio. Troppo sovente infatti la fase di ricognizione e raccolta è finalizzata alla semplice pubblicazione, non accompagnata da interventi tanto semplici quanto efficaci quali la catalogazione, la registrazione dei prestatori e la duplicazione delle immagini a futura memoria, e la costituzione di un nucleo per quanto minuto di archivio fotografico locale, magari collegato alla Biblioteca Civica o all’Archivio Comunale, con la conseguenza di garantire solo una fugace apparizione di questo ricchissimo patrimonio, comunque sottoposto a rischio di dispersione.

[9] Lello Mazzacane, Visual Anthropology ed etnofotografia,  “Fotologia”, 5 (1988), n.9, maggio, pp.78-81, (p.80).

[10] Sul concetto di traccia fotografica come indizio e come indice (semiotico) si veda Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: Edizioni QuattroVenti, 1996,  da porre in relazione alle sempre affascinanti riflessioni di Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia.  Torino, Einaudi: 1980: “La Fotografia non dice (per forza) ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato. (…) E’ una profezia alla rovescia: come Cassandra, ma con gli occhi fissi sul passato, essa non mente mai: o piuttosto: essendo per natura tendenziosa,  può mentire sul senso della cosa, ma mai sulla sua esistenza.  (…) Facendo della Fotografia, mortale, il testimone principale e come naturale di «ciò che è stato», la società moderna ha rinunciato al Monumento. Paradosso: lo stesso secolo ha inventato la Storia e la Fotografia.” (pp.86-94, corsivi dell’autore).

[11] Significative risultano a questo proposito le copertine di  “Lavoro. settimanale dei lavoratori italiani” (poi “settimanale della C.G.I.L.”) dedicate alle donne lavoratrici e in particolare alle mondine nel decennio 1951-1960, pubblicate nella “Appendice fotografica” in Simona Lunadei, Lucia Motti,  Maria  Luisa Righi, è brava, ma… Donne nella CGIL 1944-1962.  Roma: Ediesse, 1999, pp.529-573.

[12] L’Associazione d’Irrigazione dell’Agro Ovest-Sesia in Vercelli. Cenni storici, Ordinamento amministrativo e tecnico. Vercelli: G. Lignetti, 1930; AIOS, La celebrazione del primo centenario 1853 – 1953. Vercelli: Tip. “La Sesia”, 1953. 

[13] Una prima ipotesi di realizzazione di un canale di derivazione delle acque del Po per irrigare la Lomellina e il basso Novarese venne formulata nel 1842 da Francesco Rossi, agrimensore e agente generale della famiglia Cavour nella tenuta di Leri (Trino). Lo stesso Camillo Cavour ne affidava il progetto di fattibilità all’ing. Carlo Noè nel 1852, ma solo nel 1862  dopo la morte del promotore vennero reperiti i capitali, inglesi e francesi, per la realizzazione dell’opera, avviata nel 1863 per iniziativa di Quintino Sella e compiuta nel 1866 senza che  venissero realizzati i canali sussidiari, ciò che condusse al fallimento della società concessionaria e al successivo riscatto del canale da parte dello stato. Cfr. Romeo Piacco, Il Canale Cavour,  “Risicoltura”,   13 (1950), nn.4,5,7, , consultato in estratto, e i diversi saggi  compresi ne Gli assetti del territorio: il Canale Cavour, “Padania”, 4 (1992), n.12.

[14] All’Album Vialardi, conservato presso l’AIOS di Vercelli devono infatti essere affiancate le immagini dei Fratelli Bernieri di Torino e del fotografo novarese Felice Tarantola conservate presso l’Archivio Storico dei Canali Cavour di Novara (ASCC) e in alcune collezioni private. Di fatto però le fotografie di Vialardi divennero le immagini ufficiale della grande impresa, diffuse anche sotto forma di piccole stampe montate in serie su di un unico supporto (Biella, Biblioteca Civica, Archivio Fotografico), corredate di mappe relative al tracciato del canale. Undici di queste immagini vennero inviate all’Esposizione di Dublino del 1865, cfr. ASCC, Novara, Libro Mastro A, f.170, 27 aprile 1865. Nel 1884 Oreste Canavotto, impiegato dell’Amministrazione dei Canali Demaniali, realizzerà l’album Amministrazione dei canali Demaniali d’irrigazione Canale Cavour. Riproduzioni fotografiche e disegni delle opere più importanti dei Canali derivati dal Po, dalla Dora Baltea e dal Sesia, oggi conservato presso l’Associazione Irrigazione Est Sesia, Novara, mentre nell’ASCC  è conservata un’altra serie, anonima, di immagini relative al Canale Cavour e ai principali rami della rete irrigua vercellese, non datate ma verosimilmente riferibili alla realizzazione della mostra Vercelli e la sua Provincia dalla Romanità al Fascismo, realizzata nel 1939 a Vercelli nelle sale del Museo Leone appositamente riallestito da Augusto Cavallari Murat, per la cura di Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Torino ma di origine trinese e già direttore dei musei vercellesi.

[15] P. Cavanna, Due secoli di trasformazioni nella zona delle grange di Lucedio. Trino: Circolo Culturale Trinese, 1991.

[16] Citato in Luciano Caramel, Angelo Morbelli: le ragioni del vero e quelle della pittura, in Angelo Morbelli, catalogo della mostra  ( Alessandria, Palazzo Cuttica, aprile – maggio  1982), a cura di L. Caramel.  Milano: Mazzotta, 1982, pp.9-20. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati nella stessa occasione da  Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  ibidem, pp. 21 – 32.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, eserciterà la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli Angelo & Morbelli Alfredo, catalogo della mostra (Masnago e Casale Monferrato, giugno luglio 1995), a cura di Giovanni Anzani e Filippo Maggia.  Varese:  Lativa, 1995.

[17] Vercelli, Museo Borgogna, firmato e datato Morbelli 1895;  il dipinto venne esposto alla Prima Biennale di Venezia nello stesso anno e presentato, tra le altre, anche alla Esposizione di Risicoltura e di Irrigazione di Vercelli del 1912, cfr. Aurora Scotti, Angelo Morbelli. Soncino: Edizioni dei Soncino, 1991, p.76 anche per una presentazione analitica del dipinto. Significativamente il titolo viene modificato nel più innocuo Le risaiole nella prolusione tenuta dal presidente Giuseppe Borsarelli nel 1954 in occasione delle celebrazione del centenario dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia quando, lamentando di non conoscere “opera pittorica (…) dalla quale risulti la grandiosa odierna imponenza della terra vercellese in pieno fervore di agricola attività”, ricorda il dipinto di Morbelli come “unica opera d’arte che sa donarci, con esasperata applicazione del divisionismo, il vibrare della luce e dell’atmosfera sui vasti specchi della risaia assolata”, opportunamente dimenticando il significato sociale del titolo originario; cfr. AIOS, La celebrazione,  pp. 23-39.

[18] Della ormai amplissima bibliografia relativa ai rapporti tra la fotografie e le altre forme d’arte si vedano almeno Combattimento per un’immagine: Fotografi e pittori, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea, marzo-aprile 1973) a cura di Luigi Carluccio, Daniela Palazzoli. Torino: Associazione Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea, 1973; Aaron Scharf, Arte e fotografia. Torino: Einaudi, 1979;  Peter Galassi, Prima della fotografia: la pittura e l’invenzione della fotografia. Torino: Bollati Boringhieri, 1989; Heinrich Schwarz, Arte e fotografia: Precursori e influenze, a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992; Silvia Bordini, Aspetti del rapporto pittura-fotografia nel secondo Ottocento, in Enrico Castelnuovo, a cura di, La pittura in Italia: L’Ottocento, vol. 2. Milano: Electa, 1990 pp. 581-601; Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento: Una storia senza combattimento. Milano: Bruno Mondadori, 1999; The Artist and the Camera:  Degas to Picasso, catalogo della mostra (San Francisco – Dallas – Bilbao, 1999-2000), a cura di Dorothy Kosinski. Dallas: Dallas Museum of Art, 1999.

[19] Scotti, Angelo Morbelli, op. cit.,  p.82.

[20] Sulla figura e l’opera di Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924.  Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969; P. Cavanna, Francesco Negri e la Biblioteca Civica di Casale Monferrato,  “AFT”, a7 (1991), n.14, dicembre, pp.57-63.

[21] Cfr. Francesco Rigazio, Il movimento socialista nel Vercellese dalle origini al 1922.  San Germano Vercellese: Circolo Modesto Cugnolio, 1993.

[22] Da un articolo del giornale padronale vercellese “La Sesia”, citato in Adolfo Fiorani, Se otto ore vi sembran poche… Vercelli: Comune di Vercelli, 1976, pp.17-18.

[23] Il fratello Giovanni era agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettignè, presso Santhià (VC).

[24] Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990) a cura di P. Cavanna, Domenico Vetrò. Vercelli: Assessorato alla Cultura, 1990. Le interpretazioni del paesaggio di risaia sono poi ulteriormente mediate – in caso di pubblicazione – dai titoli redazionali  assegnati: così una stessa immagine del 1909 compare come Quiete campestre sulle pagine del milanese “Il Progresso Fotografico” per assumere quello più rarefatto e astratto di Nuages et rizières nella torinese e aristocratica “La Fotografia Artistica”.

[25] Cfr. Paolo Costantini, L’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica. In Torino 1902: Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna, 23 settembre 1994-22 gennaio 1995) a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[26] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione – Mostra d’arte della campagna irrigua. catalogo delle opere esposte. Vercelli: Gallardi e Ugo, s.d. [1912].

[27] Anonimo, La Mostra d’arte della campagna irrigua,  “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

[28] Questa serie di riprese costituisce per Tournon, autore anche del saggio Il problema del riso. Roma:  Provveditorato generale dello Stato, 1928,  un exploit eccezionale, egli infatti non ne realizzerà altre dopo il 1911, cfr. Claudia Cassio, ad vocem, in Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p.426, tavv.211-216. L’approccio di Tarchetti e Tournon risulta lontano dall’analiticità dell’indagine, non solo fotografica, condotta da Vittorio Sella e Domenico Vallino in contesto alpino, cfr. P. Cavanna,  La montagna abitata di Domenico Vallino,  “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[29] Alle prime campagne condotte in questo periodo fecero seguito alcune riprese nel 1928 e poi ancora nel 1930-1935, anni in cui fu accompagnato da Paul Boesch, autore dei disegni che corredano l’edizione del 1943, mentre le fotografie come è noto sono dello stesso studioso, cfr. Paul Scheuermeier, Bauernwerk in Italien der italienischen und rätoromanischen Schwiez. Erlenbach – Zürich: Eugen Rentsch Verlag, 1943 (ed italiana,  Il lavoro dei contadini. Milano:  Longanesi, 1980; Marina Miraglia, a cura di, Fotografia e ricerca sul lavoro contadino in Italia 1919-1935. Milano: Longanesi, 1981.  Nella  fondamentale disamina di Scheuermeier il ciclo di coltivazione del riso non è preso in considerazione, neppure nel capitolo dedicato all’irrigazione.  Non è stato possibile in questa occasione consultare l’importante archivio di immagini realizzate da Ugo Pellis, a sua volta in contatto con lo studioso svizzero, realizzate nel 1925-1942 nel corso delle inchieste per la realizzazione dell’Atlante Linguistico Italiano, cfr. Voci e immagini. Ugo Pellis linguista e fotografo, catalogo della mostra (Lestans, 1999), a cura di Gianfranco Ellero, Italo Zannier. Milano: Federico Motta – CRAF, 1999.

[30] Cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante”, in C. Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp.121-122, tavv.171-172, 379-380.

[31] Guardare la storia. Immagini di Pavia e della sua provincia 1915/1945,  “Annali di storia pavese”, n.12-13, giugno 1986, p.210, n.5: Anonimo, Cascina Boragno Lomello (Valle Lomellina), Mondine di Mantova che lavorano nelle risaie lomelline, 1920.

[32] Anonimo, Gruppo di mondine in posa sul traghetto di Pontestura, 1932, Trino, Biblioteca Civica , Archivio Fotografico.

[33] Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Leone, 1939), a cura di Vittorio Viale.  Vercelli: Federazione dei Fasci di Combattimento, 1939. p.92.

[34] Riccardo Chiappelli, Il riso. Pratiche colturali, “Quaderni della Stazione Sperimentale di Risicoltura – Vercelli”, 9 (1939), n.19, aprile, pp.156-157, sottolineatura nostra.  Documentazione analoga è reperibile in altre pubblicazioni dello stesso ente, in testi analoghi quali Romeo Piacco, Il riso. Torino:  Società Editrice Internazionale, 1942, ma anche nelle immagini pubblicate in Guardare la storiaop. cit., pp.319-320.

[35] Guardare la storiaop. cit., pp.451-454.

[36] Viale, Vercelli e la sua provincia, op. cit., pp. 96-97.

[37]  Cento anni di lavoro,  op. cit., pp.113-114.

[38]Anonimo, Di buon mattino le mondine sono già al lavoro; Anonimo, Mondina durante il trapianto, Torino, Archivio “La Stampa”, entrambe con data di pubblicazione 6 giugno 1937, e ancora, nello stesso archivio,  Anonimo, Gruppo di mondine al lavoro, 19 giugno 1938, in cui oltre alla novità dei grandi cappelli di paglia, compare al centro dell’immagine la figura della giovane mondariso in piedi, mentre osserva il fotografo.

[39] Pubblicata in Italo Zannier, a cura di, Segni di Luce. III. La fotografia italiana contemporanea. Ravenna: Longo Editore, 1993, p.73.  Non si distacca invece dalla più consolidata tradizione (da Morbelli a Tournon e oltre) la ripresa di Bruno Stefani, Raccolta del riso in Lombardia, s.d. [1940ca], pubblicata in Storia fotografica del lavoro in Italia, op. cit., p.166.

[40] Anonimo, Vercelli, partenza delle mondine, 1950ca, Torino, Archivio “La Stampa”.

[41] Anonimo, Mondine assistite a un posto di ristoro durante il viaggio verso le zone di impiego, in Amministrazione Provinciale di Pavia, Atti del Convegno di studi sulla risaia (Pavia, ottobre 1955). Milano:  Alfieri & Lacroix, 1956, f.t.

[42]  L’arte della profondità. Conversazione con Giuseppe De Santis, in Sergio  Toffetti, a cura di, Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis.  Torino: Museo Nazionale del Cinema – Lindau, 1996, pp.17-53 (p.40). A proposito del recente, meritorio restauro di questa pellicola si  veda  Giorgio Simonelli, Guido Michelone, Riso amaro. La storia, il cinema, il restauro. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 1999.

[43]  “La Mangano in Riso amaro l’ha inventata Martelli [direttore della fotografia], nella realtà non era come la crea lui, aspettavamo delle ore perché le andasse via qualche macchia sul viso o la pelle d’oca sulle gambe, stavamo attenti a non girare in certe ore per controllare meglio le ombre, insomma, l’abbiamo curata molto.”, L’arte della profondità, op. cit., p.45. A questa costruzione iconica non contribuì invece il reportage di Robert Capa, interessato non al  soggetto ma al film, di cui documenta la lavorazione per circa dieci giorni, cfr. Anna Gobbi, Come abbiamo lavorato per «Riso amaro», Cinema , 14 (1949), n.8, 15 febbraio, ora in Toffetti, Rosso fuocoop. cit., pp.201-207.

[44] Giuseppina Palumbo, Riso amaro, intervento pronunciato al Senato nella seduta del 17 maggio 1951, ora in Irea Gualandi, Mondine tra cronaca, storia e testimonianze.  Roma: Ediesse, 1984, pp.131-140.

[45] Borsarelli, in La celebrazione del primo centenarioop. cit., p.27.

[46] Cfr. Enrico Pasquali, Il Po si racconta, in Invitation au voyage, catalogo della mostra (Napoli, 1993), a cura di Ennery Taramelli, Claude  Nori. Roma: Carte Segrete, 1993, pp.122-127. 

[47] Cfr. l’Appendice fotografica in Lunadei, Motti, Righi, è brava, ma, op. cit., pp.529-573.  Altre realizzazioni fotografiche coeve legate alla risaia non affrontano il tema delle mondine, ma piuttosto quello del paesaggio: è il caso della cartella di stampe ricavate da originali al bromolio commissionata dall’AIOS a Domenico Riccardo Peretti Griva sempre in occasione delle celebrazioni del centenario dell’Associazione, con una presentazione di Adriano Tournon, mentre sulle pagine della rivista “Il Riso” negli stessi anni compaiono belle immagini, sempre anonime, di attrezzi di lavoro o di presentazione del prodotto che risentono di una cultura fotografica eclettica, in bilico tra Tina Modotti e le più moderne esperienze della “Subjektive Fotografie”.

[48] Carlo Fermariello, segretario della Federbraccianti Nazionale, intervento al “Convegno di studi sulla risaia”, ottobre 1955, in Amministrazione Provinciale di Pavia, Atti,  op. cit., pp.128-132.

[49] Ibidem, f.t.

[50] Anonimo, Conseguenze del lavoro di mondariso, s.d. [1955ca], Modena, Archivio Cgil, in Cento anni di lavoro, op. cit., p.167.

[51]  Si vedano a titolo di esempio: Anonimo, Una mondina finalese in partenza per la risaia con il figlio, s.d. [1955ca], Modena, Archivio Cgil, ibidem, p.166; Anonimo, Ritratto di mondina con la sigaretta in mano,  s.d. [1955ca], in Pietro Cerutti, Enrico Villa, a cura di, Scriviamo un libro insieme, III. Vercelli: Cassa di Risparmio di Vercelli, 1984, p.105.

[52] Publifoto, Mondine durante la distribuzione del rancio  nel Vercellese, 27 giugno 1951, Torino, Archivio “La Stampa”.

[53] Roberta Viganò pubblica Mondine.  Modena: Arti Grafiche Modenesi, 1952, dedicato alla memoria e alla figura di Maria Margotti, mondina di Filo d’Argenta uccisa da un carabiniere nel 1949, alla quale sono state dedicate opere di Renato Guttuso e Gabriele Mucchi, ma molti altri artisti in quegli anni si accostano con partecipazione un poco idealistica a questa realtà; cfr. Arte e mondo contadino, catalogo della mostra (Torino – Matera, 1980), a cura di Mario De Micheli. Milano: Vangelista, 1980. Nel 1953 l’Ente Nazionale Risi realizza a scopo di propaganda registrazioni di cori di mondine a Veneria di Lignana, nella stessa azienda in cui era stato girato Riso amaro. Per una rassegna esaustiva delle registrazioni di canti delle mondine piemontesi cfr. le indicazioni e i riferimenti contenuti in Roberto Leydi, Materiali per una discografia e nastrografia della musica popolare in Piemonte e Valle d’Aosta, in Archivi sonori, Atti dei seminari ( Vercelli, 1993; Bologna 1994; Milano, 1995). Roma: Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1999, pp.89-123.

[54] Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.1. Vercelli: Stamperia Vercellese, 1964, p.7.

[55] Foto Moisio, Mondine che si preparano per la festa, 13 giugno 1963, Torino, Archivio “La Stampa”.

[56] Il quadro nazionale è stato illustrato da Carlo Cerchioli, Sindacato e fotografia, in Il lavoro della Confederazione. Immagini per la storia del sindacato e del movimento operaio in Italia 1906-1986.  Milano: Mazzotta, 1988.

[57] Federbraccianti Provinciale di Vercelli, Documento n.4.  Vercelli: Stamperia Vercellese, 1967, copertina; Id., Documento n.1,  p.6.

Il miele e l’argento: storie di storia della fotografia in Italia (2020)

Melfi: Libria, 2020

http://www.librianet.it/

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

 

Sommario

 

 

01 – Introduzione

           01.1 – Avvertenze – Acronimi

02 – Dal 1839

           02.1 – 1839 e oltre
           02.2 – Intorno al 1939: Lamberto Vitali e l’antica fotografia
           02.3 –  1949-1950 Carlo Mollino e il Messaggio dalla camera oscura
           02.4 – Silvio Negro e la fotografia a Roma
           02.5 – Ancora Lamberto Vitali

 

03 – 1967-1978

           03.1 – Il posto dell’Italia nelle storie generali 
           03.2 – Dizionari ed enciclopedie
           03.3 – Storie italiane:  Archivi, fondi, raccolte
           03.4 – Carlo Bertelli, “Popular Photography” e la fotografia storica
           03.5 – Piero Becchetti e le prime ricognizioni
                       a scala locale e territoriale
           03.6 – Le prime monografie
           03.7 – Arte e fotografia: contatti
           03.8 – Fotografia e ideologia
           03.9 – “La storia, il collezionismo, i maestri, le tecniche,
                      i mercanti, i capolavori, i prezzi”

 

04 – Intorno al 1979

           04.1 – Grandi mostre
           04.2 – La fotografia come bene culturale
           04.3 – Gli Annali della Storia d’Italia Einaudi
                 04.3.1 – La progettazione                                              
                 04.3.2 – Struttura e contenuti
                 04.3.3 – La ricezione dell’opera e la questione
                                della fotografia come fonte

 

05 – 1980-1988

           05.1 – L’Italia nelle storie generali / Alcuni modelli storiografici
           05.2 – Quale storia della fotografia
           05.3 – Prime riflessioni sulla fotografia come fonte per la storia
           05.4 – Storie italiane
           05.5 – A proposito di cultura fotografica
                 05.5.1 – La “Rivista di storia e critica della fotografia”
                 05.5.2 – “ Fotologia”
                 05.5.3 – “AFT”
           05.6 – La fotografia e le arti: studi sul Novecento
           05.7 – Indagini a scala  territoriale
                 05.7.1 – Valle d’Aosta
                 05.7.2 – Piemonte
                 05.7.3 – Liguria
                 05.7.4 – Lombardia
                 05.7.5 – Veneto
                 05.7.6 – Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige
                 05.7.7 – Emilia Romagna
                 05.7.8 – Umbria e Lazio
                 05.7.9 – Campania e Calabria
           05.8 – Monografie
           05.9 – La Storia della fotografia italiana di Zannier

 

06 – Intorno al 1989

           06.1 – Alcune indagini a scala locale e la questione dei generi
           06.2 – Monografie
           06.3 – Verso la catalogazione

 

07 – 1990 -2003

           07.1 – Nuove storie della fotografia
           07.2 – Percorsi trasversali e storie settoriali
           07.3 – Elementi di storia della fotografia italiana
                 07.3.1 – In generale
                 07.3.2 – Intorno al dagherrotipo
                 07.3.3 – Lo spazio discorsivo della stereoscopia
                 07.3.4 – Società fotografiche ed editoria periodica
                 07.3.5 – Studi settoriali
                 07.3.6 – Una geografia degli studi

                                07.3.6.1 – Torino e il Piemonte

                                07.3.6.2 – Milano e la Lombardia

                                07.3.6.3 – Bologna

                                07.3.6.4 – Roma

                                07.3.6.5 –  Al Sud

                 07.3.7 – Una nuova rivista
                 07.3.8 – Monografie

                                07.3.8.1 – Protagonisti della calotipia in Italia

                                07.3.8.2 – Alcuni modelli storiografici per l’età del collodio

                                07.3.8.3 – Alinari 150

                                07.3.8.4 – Regolari e irregolari del Novecento

                 07.3.9 – Archivi: storie e catalogazioni

                                07.3.9.1 – Storie di archivi

                                07.3.9.2 – Manuali e norme di catalogazione

           07.4 – Storie e fotografie
                 07.4.1 – La breve stagione delle Storie fotografiche dell’Italia
                 07.4.2 – La guerra serve a fare fotografie
                 07.4.3 – Fotografia e industria
                 07.4.4 – “Il contadino fotografato”
           07.5 – Fotografia come fonte / Fotografie come fonti

 

 08 – 2004-2015

           08.1 – Nuova storiografia e nuove storie generali
           08.2 – Raccontare storie italiane
                 08.2.1 – L’eredità di Giulio Bollati:
                           fotografia, identità nazionale e modernità
                 08.2.2 – Convergenze parallele

                                08.2.2.1 – La lista di discussione s-fotografie

                                08.2.2.2 – La Società Italiana per lo Studio della Fotografia

                 08.2.3 – Archivi e raccolte:
                           verso il censimento dei patrimonio fotografico
                 08.2.4 – Storia e fotografie

                                08.2.4.1 – Archivi, fonti, dispositivi e oggetti sociali

                                08.2.4.2 – Turn! Turn! Turn!:  da singolare a plurale

                                08.2.4.3 – Fotografie nella rete

                08.2.5 – Studi settoriali

                                08.2.5.1 – Fotografia e scienze dell’uomo

                                08.2.5.2 – Arte, Storia dell’arte e fotografia

                      08.2.5.2.1 - Storie di storici dell’arte 

                      08.2.5.2.2 - Biografie fotografiche: alcuni casi di studio 

                      08.2.5.2.3 - Storia dell’arte, editoria, fotografia 

                      08.2.5.2.4 - Produzione artistica e fotografia 

                      08.2.5.2.5 -  Fotografia e pratica artistica: Accademie, atelier, archivi 

                                08.2.5.3 – Storia dell’architettura e fotografia

                                08.2.5.4 – Storia dell’archeologia e fotografia

                                08.2.5.5 – Letteratura e fotografia

                                08.2.5.6 – Immagini dai conflitti

                      08.2.5.6.1 - Temi e problemi  risorgimentali 

                      08.2.5.6.2 - Fotografie delle guerre 

                      08.2.5.6.3 -  Fotografie di protezioni antibelliche 

                                08.2.5.7 – Fotografie e storie del lavoro e dell’industria

                                08.2.5.8 – Indagini a scala territoriale

                      08.2.5.8.1 - Territori, archivi, repertori

                      08.2.5.8.2 - Immagini dei luoghi

                      08.2.5.8.3- Immagini e identità: sguardi interni/ sguardi esterni

                                08.2.5.9 – Storie locali

                      08.2.5.9.1 - Storie illustrate  

                      08.2.5.9.2 -Storie illustrate con fondi fotografici locali

                      08.2.5.9.3 -Storie della fotografia locale

                      08.2.5.9.4 -Immagini, mutazioni e catastrofi

                                08.2.5.10 –Monografie

                      08.2.5.10.1 -Gli evergreen

                      08.2.5.10.2 -Di alcune storie veneziane

                      08.2.5.10.3 -Oriente e orientalismi

                      08.2.5.10.4 -Cataloghi virtuali/ repertori virtuosi

                      08.2.5.10.5 -Intorno alla pratica del ritratto

                      08.2.5.10.6 -Di alcuni studi fotografici

                      08.2.5.10.7 -Fotografia amatoriale

                      08.2.5.10.8 -La scena torinese

                      08.2.5.10.9 -Figure di passaggio

 

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

Introduzione

 

Ma la perizia si accresce ereditando: e anche in senso limitativo,

ereditando la cognizione dell’errore.”

Carlo Emilio Gadda, 1939

 

 

Questo lavoro nasce da un incontro e da un incrocio. L’incontro è stato quello con Giovanni Fanelli, che ci ha portati in più occasioni a confrontarci sui modi e le ragioni del fare storia della fotografia; sul lavoro nostro e degli altri partendo da una medesima spinta a comprendere ma da posizioni non di rado diverse. Queste occasioni di  confronto si sono poi incrociate con qualcosa di per me inatteso; qualcosa che certo viveva da qualche parte ma non aveva sino ad allora preso forma né nome ed era l’attrazione (e il fascino) per la riflessione storiografica. Qualcosa che poco alla volta, e ciononostante improvvisamente, mi chiariva le ragioni per cui nei miei scaffali e tra i miei libri si fossero accumulate negli anni così tante storie della fotografia: quelle generali intendo; quelle che narrano vicende a volte molto simili, magari coincidenti, in modi tra loro anche molto diversi. Quelle, appunto, che hanno perduto (per me) quasi ogni funzione informativa; che mi attraggono per le questioni che pongono le loro differenti impostazioni storiografiche e connotazioni narrative.

Il riferimento non narcisistico a sé vale anche e forse soprattutto per chiarire i limiti di questo lavoro, in cui l’accento autobiografico sottende anche (ma è una questione almeno generazionale) una formazione ancora sostanzialmente autodidattica. Così mi auguro che si possano comprendere se non proprio scusare le insufficienti conoscenze che possono emergere, che derivano anche da una forzata autarchia nell’accesso ai testi e ai documenti, reperibili sempre con difficoltà in un contesto in cui scarseggiano istituzioni dedicate alla fotografia e alla sua storia, così come mancano biblioteche specializzate. Quindi non solo nell’approntare il repertorio bibliografico ma specialmente nelle segnalazioni e nelle scelte si sono privilegiati quei testi che ebbero almeno il riconoscimento di una recensione, una buona o discreta circolazione, qui verificata sulla base della loro presenza in biblioteche pubbliche desunta da OPAC SBN,  e  naturalmente dalle citazioni nella letteratura specialistica.     Questa condizione di difficoltà, infine, ha di necessità accentuato il ricorso alla rete come canale di accesso indiretto alle fonti bibliografiche, specie di quelle che per cronologia, occasione o sede di pubblicazione hanno goduto di minore circolazione materiale. Ciò che invece non ho incontrato, ma certo l’indagine non è stata sistematica, sono state produzioni significative di un fare storia della fotografia al tempo di internet, poiché pare che anche nei casi migliori e più precisamente orientati non si riesca  ancora  a sfruttare appieno tutte le potenzialità del nuovo medium e a mettere a punto strutture narrative innovative e paradigmaticamente diverse dai modelli cartacei.

 

In queste condizioni si sono sviluppati e hanno progressivamente preso forma (una forma in progress, mai chiusa) il testo che segue e la bibliografia che lo accompagna, cresciuti anche sotto lo stimolo rappresentato dal crescente interesse internazionale per la storiografia fotografica; un interesse che rappresenta uno dei frutti più succosi della svolta culturalista. Contrariamente a quanto avviene per le discipline artistiche, non esiste infatti una tradizione di studi che abbia affrontato sistematicamente l’analisi delle storie di storia della fotografia e non è certo un caso che  il primo manifestarsi di interesse per il tema abbia corrisposto alla messa in discussione dei modelli storiografici novecenteschi e alla stessa ridefinizione del fare storia innescata dalla tecnologia digitale, a sua volta origine di una radicale ridefinizione del concetto stesso di fotografia. E allora il tentativo di delineare una possibile storia della storiografia italiana ha avuto per me anche lo scopo di raccogliere elementi e offrire l’occasione per riflettere sui criteri, sul senso, i significati e i modi dello scrivere possibili storie della fotografia oggi, in presenza di uno scenario tecnologico radicalmente mutato; di fronte alla marginalizzazione  -almeno in termini tecnologici -dello stesso oggetto di studio della storiografia qui considerata.

Dati questi elementi il gioco risultava irrimediabilmente avviato

 

È  solo dalla fine  degli anni Settanta del Novecento che gli studiosi hanno incominciato a  interrogarsi  sistematicamente su cosa si dovesse intendere per Storia della fotografia e sulla necessità di riscriverla. La domanda si è poi fatta sempre più impellente a partire dal decennio successivo, specie in occasione delle celebrazioni del centocinquantenario, né ha cessato di essere riformulata sino ad oggi, assumendo di volta in volta posizioni e attese le più diverse, segnate da preoccupazioni di tipo teorico che sono giunte a considerare il fare storia della fotografia come possibile paradigma del lavoro storico tout court, ovvero hanno proposto nuovi approcci settoriali che ne hanno indagato e posto in questione la stessa identità disciplinare, proponendosi di volta in volta di intendere la storia della fotografia come “storia di una abiezione” o -all’opposto –  come “storia di attese” successive Una storia che ha preso corpo in oggetti materiali  “storicamente formati”  coinvolti in una serie quasi infinita di pratiche, strategie e modalità di circolazione, ricezione  e sedimentazione delle informazioni che li costituiscono. Lo studio di questa variegata produzione consente per intanto una  prima considerazione: che le storie della fotografia (al singolare) dovrebbero essere (e raramente sono) storie dell’idea e delle teorie intorno alla fotografia, attente alle componenti concettuali e alle loro mutazioni storiche e culturali, distinguendosi così da quelle che chiameremmo piuttosto storie delle fotografie (ma comunemente dette della) che  contemplano e contengono in sé in modi di volta in volta diversi, ponendole in relazione tra loro, le istanze concettuali, teoriche, estetiche con le pratiche e le opere che da quelle sono derivate, verificandone quindi il loro agire sociale e culturale storicamente dato in aree geografiche di diversa estensione.  Non dissimili dal punto di vista strutturale ma circoscritte tematicamente sono poi  le storie settoriali (della fotografia di architettura, di montagna o di quella pornografica, ad esempio) mentre negli ultimi decenni si sono sviluppati specifici settori di studio con più forti implicazioni teoriche e metodologiche nei quali  si considerano i rapporti storicamente significativi della fotografia con altri ambiti e discipline quali la storia dell’arte, quella della psichiatria ma anche (e forse prima di altre) dell’etnografia, sulla base dell’acquisita consapevolezza di quanto la fotografia abbia influito storicamente sulle costellazioni metodologiche di quelle discipline; con arricchimenti reciproci che in più di un caso hanno  inciso in modo significativo sulla storiografia fotografica. Infine non possiamo dimenticare, anche solo per un cenno,  le ‘storie con’:  trattazioni di diverso argomento e livello qualitativo e scientifico in cui il ricorso alla documentazione fotografica storica presenta forme d’uso estremamente variabili: dal mero utilizzo illustrativo e commemorativo, rischiosamente referenziale, alla rigorosa critica ed edizione delle fonti utilizzate, ciò che implica una consapevolezza delle culture fotografiche che le hanno prodotte.

 

Quale  limite cronologico per l’argomento degli studi considerati è stato adottato il 1945, nella convinzione che il discrimine costituito dalla Seconda guerra mondiale sia stato di portata epocale anche in ambito fotografico sia a livello internazionale che in Italia, dove è col secondo dopoguerra che ha inizio la nostra contemporaneità. L’intenzione di ripercorrere le vicende della storiografia che ha eletto a proprio oggetto di studio il periodo compreso tra le origini della pratica fotografica in Italia e il 1945 si è da subito dovuta confrontare con un aspetto che rendeva problematico e discutibile quello stesso intento, poiché non si poteva non constatare come  questa produzione nascesse e si fosse sviluppata in un più generale contesto di formazione di una cultura storica della fotografia, in un maturarsi cioè della considerazione stessa della fotografia come possibile oggetto di studio, anche storico. Un fenomeno sviluppatosi in tempi diversi ma che ha accomunato tutta la prima letteratura fotografica a livello internazionale. Per questa semplice ma fondamentale ragione  è risultato indispensabile dare conto almeno dei principali di quei contributi prodotti nel nostro paese a cui (in modi diversi) possiamo riconoscere una prima attenzione (magari in nuce, magari strumentale o ingenua, ma presente) per temi di storia della fotografia, anche se non ancora rivolti allo scenario italiano. Ne è derivata la necessità di interrogarsi sulla progressiva definizione e sulle mutazioni di questa identità disciplinare, ciò che  ha implicato di dar conto e riflettere su cosa si sia inteso e si intenda per “fare  storia della fotografia”, verificando metodi, strumenti e modi che hanno determinato una successiva estensione di  tipologie e confini; con un andamento (teorico e pratico) che mostra non poche analogie con quello di ben più ampia portata che ha riguardato la questione delle fonti per la storia in generale. Come in quella si è passati nel corso del Novecento dalla prevalenza della parola, del documento scritto, a un concetto di fonte sostanzialmente onnicomprensivo e determinato dalle scelte dello storico. Così la storia della fotografia ha impiegato circa un secolo per divenire storia di immagini e solo a partire da quel momento, tra post pittorialismo e istanze moderniste, si sono potuti sviluppare strumenti e metodi in grado di analizzare e rendere conto delle diverse e distinte dinamiche che hanno connotato funzioni e ruoli della fotografia nelle culture del proprio tempo; di studiarne quindi le dinamiche storiche proprie dei diversi contesti. Questi processi non hanno però avuto alcuna sincronicità geostorica: così in ciascuna area culturale non sono significativi solo i mutamenti di canone storiografico, da storie di tipo tecnologico (con più o meno rilevanti connotazioni nazionalistiche) ad altre di tipo iconografico (e surrettiziamente artistico) sino alle più attuali storie culturali, ma anche la loro cronologia e  incidenza in relazione alla cultura dei paesi di produzione e d’influenza.

Il primo passaggio determinante, la prima svolta paradigmatica  di questo accidentato percorso quasi bicentenario è stata la possibilità, favorita dal pittorialismo e fatta propria dal modernismo,  di concepire una storia della fotografia come storia di fotografie, riconoscendo loro un valore autonomo, non semplicemente strumentale. Un  ‘genere’ di storiografia che ha caratterizzato gran parte del Novecento, con progressivi arricchimenti e slittamenti, ancora in corso, che hanno visto solo recentemente un passaggio dall’immagine alla fotografia e alle fotografie per considerarne non solo i valori estetici e comunicativi ma anche le manifestazioni materiali, le valenze sociali e politiche delle diverse forme di sedimentazione e aggregazione. Non è allora difficile dire che oggi si può intendere la storia delle fotografia anche come storia della cultura fotografica;  quella espressa dalla fotografia in tutte le sue forme di produzione e d’uso ma anche intorno alla fotografia, e delle diverse modalità con cui si è storicamente manifestata.  Certo in tal senso la storiografia è una delle sue forme privilegiate, specie se possiamo intenderla in senso lato, riunendo sotto questa categoria tutte quelle produzioni e azioni che a diverso titolo e a diverso livello e intenzioni si sono rivolte al patrimonio fotografico storico:  dalla ricerca al saggio e alla mostra;  dalla catalogazione alla tutela.

 

Stabilito empiricamente l’areale d’indagine e gli elementi che ne sono compresi, si trattava di provarsi a individuare le fonti e i metodi da adottare per realizzarne una mappatura sufficientemente ampia; tale da consentire di tracciare alcuni degli elementi caratterizzanti del contesto culturale che progressivamente costituivano e del quale erano espressione più o meno compiuta.

Componente determinante di questo percorso, fonte privilegiata e oggetto storiografico a un tempo sono stati i testi a stampa nelle loro numerose varianti tipologiche (dal saggio in periodico a  quello in volume, al catalogo di mostra, al volume illustrato), con una prima, inevitabile attenzione e predilezione per quei contributi che si qualificavano esplicitamente come di storia della fotografia, e senza ancora chiedermi cosa si intendesse con quella definizione. Nel raccogliere quei primi materiali, nel compilare le prime voci della bibliografia di riferimento e supporto, emergeva sempre più riconoscibile una condizione (di fatto) di storiografia come autobiografia;  di un lavoro di ricostruzione e di analisi che ripercorreva  (certo più sistematicamente)  le tappe confuse e incerte della mia formazione: i libri letti e non letti; quelli letti male; le relazioni ascoltate e presentate ai convegni;  le conversazioni a margine; le determinanti necessità di fare chiarezza per mettere a punto un ciclo di lezioni o di seminari. Ne risultava un bilancio di attenzioni e di studi  che intersecava e toccava a volte molto da vicino quello personale. Un elemento, una caratteristica che ho accolto a sua volta come dato costitutivo progressivamente arricchito dalle esigenze  che lo sviluppo del progetto poneva e definiva con maggiore chiarezza, prima delle quali è stata proprio la crescente necessità di considerare altri modi del fare storia della e con la fotografia che non fossero solo quelli delle pubblicazioni a stampa.

Il percorso che ne è risultato (uno dei possibili, quindi) sempre più diramato col procedere della cronologia e dell’avanzamento degli studi relativi al nostro paese,  rappresenta l’esito (molto personale ma -mi auguro -non personalistico) di un processo di avvicinamento e di riconoscimento delle diverse storiografie che hanno riguardato la fotografie e le fotografie (non necessariamente in questo ordine o in perfetta sincronia). Nella tensione feconda tra autobiografia e metodo, l’intento  è stato quello di considerare per primi tutti quegli autori e progetti che per opinione diffusa hanno svolto un ruolo significativo nella formazione e nelle trasformazioni della cultura italiana intorno alla storia della fotografia nel nostro paese, considerandoli quindi sotto il duplice aspetto dello specifico storiografico e della loro natura di “documento/monumento” della cultura che li ha prodotti. Non si è trattato quindi di individuare l’eventuale processo di formazione di un canone, che pure progressivamente emerge e muta,  ma semmai di riconoscere indizi, aspetti ed elementi che abbiano contribuito nel tempo a definire una metodologia, consentendo di comprendere e valutare criticamente il livello di congruenza tra gli assunti (magari impliciti) e gli effettivi esiti storiografici. In molti casi si è trattato anche (e purtroppo) di sottoporre a verifica l’esistenza di un’attrezzatura conoscitiva minima, indispensabile per analizzare con cognizione di causa il sistema complesso della fotografia e delle fotografie a prescindere dai presupposti teorici e dai modelli metodologici con cui queste sono affrontate. Un set minimo di conoscenze che appare scontato possedere per qualsiasi altra disciplina ma che sembra ancora essere facoltativo se non superfluo quando si parla di storia della fotografia, dove capita ancora che qualcuno si permetta di discettare a proposito di “lastre di peltro imbevute di una soluzione di bitume”, o simili. Questa è la ragione per cui il differente  spazio dedicato alle discussione delle singole produzioni (saggi, mostre) non implica necessariamente alcun giudizio di valore. Ciò che è stato considerato sono invece (e semmai) i testi e relativi sottotesti, non solo verbali. Ciò ha determinato due evidenti conseguenze:   il ricorso sistematico  ad ampie citazioni dirette, nella convinzione che non solo i concetti ma anche i modi e le formule con cui sono stati espressi costituiscano un elemento imprescindibile per la comprensione del dibattito e della cultura di un momento storico, e un più ampio spazio di attenzione critica a quelle opere che per la loro problematicità risultavano più discutibili.

 

Devo a quella frase di Carlo Emilio Gadda posta in esergo la comprensione delle ragioni profonde che hanno motivato questo lavoro, e non tanto nel senso (peraltro determinante) dell’accrescimento personale quanto piuttosto nell’intravvedere un’utile chiave di lettura storiografica da cui derivare (anche)  la possibilità di riconoscere e tracciare un eventuale percorso identitario. Una genealogia nel senso più comune e pieno del termine, che potesse dar conto del  successivo emergere di elementi e spunti (più metodologici che teorici, a dire il vero) dei quali riconoscere una necessità e un’efficacia attuali nell’affrontare dal punto di vista storico e storiografico la fotografia e il patrimonio di oggetti e culture che questa ha prodotto. E ancora, e nello stesso tempo, altrettanto necessariamente dare corpo al desiderio di mantenere traccia delle vicende, dei dibattiti,  delle    opere  e  insomma  delle culture che in Italia  si sono rivolti con intenzioni e in modi diversi

alla fotografie e alle fotografie in questo arco di tempo ormai non più breve. Questo ha voluto dire comprendere come sia stata di volta in volta intesa (sebbene non definita) la fotografia; quali siano stati gli aspetti e le caratteristiche considerate, e in quale orizzonte fossero poste. Si considerino a questo proposito le più precoci narrazioni, che nella loro impostazione prettamente  tecnologica sottolineavano in particolare la ‘moltiplicabilità’ di questa nuova tipologia di immagini,  guardando alla comunicazione e non all’opera, in una prospettiva che sarebbe stata ripresa e sviluppata solo a metà Novecento.

Il primo dato macroscopico che è emerso dalla questa ricostruzione è che l’Italia è arrivata tardi a produrre una storia generale della sua fotografia  (Zannier 1984), poiché rari sono stati i momenti e le occasioni di formazione di una precisa cultura storica e storiografica nei decenni precedenti.  Si può dire, con una schematizzazione a cui cercherò di porre rimedio nel corpo del saggio, che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento questi temi hanno goduto di una vera attenzione, che si è manifestata dapprima sotto forma di produzioni espositive, meritoriamente divulgative ma non sufficientemente supportate da precedenti studi e ricerche specialistiche. Il ritardo della cultura italiana nei confronti della fotografia si direbbe dovuto all’incidenza e al perdurare di un atteggiamento che semplicisticamente diremo ‘idealistico’,  in un contesto segnato da un cronico ritardo nei processi di industrializzazione. Tra gli elementi che hanno variamente condizionato e determinato le caratteristiche della  storiografia italiana un ruolo non secondario è stato però anche svolto dalle culture, dalle professioni e più ampiamente dalle ragioni di chi si è di volta in volta proposto come storico della fotografia, o di coloro che noi oggi identifichiamo come tali, così come dalla tipologia di lettore ‘ideale’ cui ciascuno si rivolgeva; un modello a sua volta mutevole e storicamente determinato. Basti anche qui considerare i primi resoconti relativi alle molteplici invenzioni della fotografia, provandosi a distinguere tra cronache, cronologie e prime ricostruzioni, ma anche tra le differenti sedi di pubblicazione. Così le notizie comparse sui periodici avevano il sapore netto della  cronaca, per quanto imprecisa e magari fantasiosa,  mentre le prime voci enciclopediche (Minotto 1839) si distinguevano da quelle per l’intento  evidente di sistematizzare e ‘spiegare’ dati ed eventi, per quanto recenti. Un atteggiamento e un metodo che caratterizzarono tutta la successiva manualistica ottocentesca, a partire dagli esempi di Giacomo Caneva e di Venanzio Sella,  adottando i canoni stabiliti dalle coeve storie della scienza e della tecnologia, fondate sulla convinzione che una migliore conoscenza del passato avrebbe consentito all’utilizzatore attuale di compiere meglio il proprio lavoro.  Nei decenni successivi si ebbero ricostruzioni schematiche e celebrative; certo indizio interessante della volontà (magari implicita) di collocarsi dentro la storia ma di fatto manifestazioni di una forma esteriore di religione del passato; quella stessa che portò al ricorso alla documentazione fotografica storica in occasione delle prime celebrazioni risorgimentali. Dopo la stagione pittorialista e in anni di modernismo nascente l’accento mutava e l’attenzione per la storia assumeva il tono e il senso di un processo di legittimazione di un fare che si voleva sempre più autoriale, senza escludere più o meno forti accentuazioni nazionalistiche, perfettamente aderenti all’ideologia del Regime, mantenute però sottotono dalla mancata realizzazione di un storia di produzione italiana. Questa lacuna, che non ha  interessato paesi quali la Francia, la Germania e gli USA,  era verosimilmente dovuta a una scarsa considerazione culturale per la fotografia e alla quasi insormontabile difficoltà di ascriverne la scoperta tra le italiche glorie nazionali. I pochi contributi databili agli anni tra le due guerre mondiali riuscirono comunque a indicare possibili, e per certi versi divergenti direzioni di ricerca, tra storia sociale attenta alle pratiche professionali (Enrico Unterveger),  e storia autoriale derivata da interessi storico artistici,  rappresentata dai primi saggi di Lamberto Vitali, al quale è stata assegnata la titolarità di un paradigma (più simbolico che reale però) che sarebbe risultato dominante nei decenni successivi: un atteggiamento critico così attento agli aspetti iconografici e referenziali da porre in secondo piano la necessità di comprensione degli elementi tecnici; una caratteristica ampiamente diffusa  tra le prime generazioni di storici anche quando provenivano dalla professione di fotografo e di cui era indizio non secondario (e certo complesso) la consuetudine di riferirsi nelle descrizioni dei materiali alle caratteristiche tecniche della matrice negativa e non del positivo studiato.

Un disinteresse (magari non formale) per le questioni tecniche che si può anche interpretare  come residuo non elaborato di avversione a  quel marchio culturale originario che attribuiva alla fotografia la natura di vile immagine meccanica e, contemporaneamente ma conseguentemente, la manifestazione del desiderio di distaccarsi dalla tradizione premodernista delle storie tecniche, ma senza poi procedere a elaborazioni nuove, metodologiche e storiografiche, per ridursi infine a una più o meno consapevole interpretazione idealistica delle fotografie e dei loro autori. Ciò che era mancato era proprio una riflessione sulla specificità ontologica della fotografia, sostituita da un’assunzione di posizioni e, in parte, di metodi derivati da discipline  di più lunga e solida tradizione, dimostrando carenze di ordine teoretico e metodologico che favorivano o quanto meno consentivano da un lato quel basico utilizzo referenziale  dell’immagine fotografica  che per troppo tempo ha connotato l’attività degli storici contemporaneisti, e dall’altro un’assunzione implicita dell’artisticità come unico elemento valoriale, forzando la storia della fotografia negli spazi nobili ma angusti della storia dell’arte. Una cultura fotografica che per lungo e troppo tempo è stata e si è considerata marginale e subalterna, ponendosi sulla difensiva,  e che  – si direbbe – per quella sola ragione adottava meccanismi di valutazione critica di tipo rigorosamente autoriale,  che si risolvevano puntualmente in esercizi di analogia con figure o canoni  ritenuti ‘alti’, vale a dire già riconosciuti dalla letteratura internazionale,  senza interrogarsi troppo sul fondamento e sul senso di tali operazioni. Per analoghe ragioni temi e figure della fotografia italiana si affacciarono timidamente solo a partire da alcune storie generali pubblicate negli anni Sessanta, anche da autori italiani (Enrie, Zannier, Settimelli), certo penalizzati nelle loro ricerche da quel  “vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza”  che lamentava Racanicchi nel 1961, mentre si avviavano riflessioni di ordine più ampiamente culturale dovute a figure di studiosi appartenenti a diversi e magari distanti ambiti disciplinari, da Mario Praz a Emilio Servadio, ospitate in un importante numero monografico de  “I problemi di Ulisse” (1967).

Fu solo sul finire del decennio successivo che si coagularono una serie di contributi e realizzazioni che hanno costituito uno spartiacque con le produzioni antecedenti, tanto da poter dire –schematizzando ancora -che hanno segnato la nascita della storiografia italiana in senso proprio. Così accanto a importanti mostre come Fotografi del Piemonte, Gli Alinari fotografi a Firenze e Roma dei fotografi, tutte del 1977, la cultura (fotografica) italiana offriva titoli di grande rilievo come l’impeccabile monografia dedicata a Michetti da Miraglia (1975) o la Storia sociale di Gilardi (1976); una proposta storiografica per molti versi eccentrica che ebbe però il grande merito di spostare l’accento sui temi della produzione e  del consumo di immagini, certo inconsueti per lo scenario italiano. Il decennio si chiuse con la serie di mostre e iniziative dedicate ad “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia” che segnarono il passaggio da un uso strettamente referenziale della fonte fotografica, proprio di iniziative quali La famiglia italiana in 100 anni di fotografia  (Macchieraldo 1968) o L’Italia nel cassetto (Berengo Gardin et al. 1978), a una indagine disciplinare rivolta a ricostruirne la storia (Fotografia Italiana dell’Ottocento; Fotografia pittorica 1889/1911) pur con un taglio ancora fortemente – e forse inevitabilmente  – derivato dai tradizionali modelli storico artistici e in sostanziale assenza di chiare impostazioni metodologiche. Dal punto di vista editoriale la produzione più rilevante fu la pubblicazione nello stesso 1979 de L’immagine fotografica 1845-1945, il volume in due tomi curato da Carlo Bertelli e Giulio Bollati per gli  “Annali della Storia d’Italia” Einaudi, che intendeva porre in relazione esplicita gli ambiti culturali e disciplinari della storia culturale e politica e della fotografia, con un’ipotesi storiografica – dovuta prevalentemente a Bollati – che leggeva le vicende fotografiche quali componenti dei processi di modernizzazione e di definizione dell’identità nazionale. La sede di pubblicazione produsse inoltre una specie di processo di legittimazione della fotografia in quanto campo di studi, favorendo inedite riflessioni critiche e metodologiche intorno alla questione della fotografia come fonte, ma su presupposti ancora metodologicamente incerti, poveri di riferimenti strutturati, così che anche i rimandi ai saggi di Benjamin e della Freund sembravano nella più parte dei casi poco più che rituali, mentre pochi raccolsero all’epoca le suggestioni psicanalitiche e ‘culturali’ del testo di Bollati.  Pur tra molte contraddizioni si trattava però di un primo reale riconoscimento della fotografia, e delle fotografie, in quanto beni culturali, come titolava il convegno modenese dello stesso anno, segnando  l’avvio di quel passaggio significativo che avrebbe portato a privilegiare il patrimonio e il tessuto connettivo rispetto alle ‘emergenze’, introducendo quindi i temi della catalogazione e dell’archivio; un argomento sul quale  uno studioso come Quintavalle aveva da poco proposto le sue prime, mature riflessioni interrogandosi su quali dovessero essere i modelli storiografici adeguati per lo studio del fenomeno fotografia.

In anni in cui a livello internazionale emergeva una prima attenzione specifica per la storiografia di settore, derivata dalla necessità di riconsiderare i modelli canonici e di definire l’oggetto (teorico e storico) fotografia, il panorama italiano produceva importanti contributi come quelli di Miraglia e Gilardi per la “Storia dell’Arte” Einaudi (1981), dei quali interessa qui sottolineare non tanto l’incommensurabile distanza di impianto e di esiti ma la loro comune caratteristica di elaborazione autarchica; ciascuno per opposte ragioni dotato di un metodo ‘autocostruito’,  solo empiricamente adeguato al proprio progetto di ricerca e apparentemente indifferente ai dibattiti teorici in corso. Così il contributo di Miraglia, che nasceva da una solida formazione accademica, risultava poi carente in termini di comprensione dei processi di produzione di questa “arte industriale”, magistralmente affrontati da Gilardi in un testo quasi orgogliosamente privo di metodo. Tentativi più circoscritti di ridefinizione e di approfondimento trovarono invece ospitalità e furono sollecitati dal fenomeno nuovo delle riviste di cultura fotografica che nel periodo 1980-1985 videro la nascita (ed anche la morte, in un caso) della “Rivista di storia e critica della fotografia” (1980-1984), di “Fotologia” (1984) e di “AFT” (1985). Erano segni di un processo di strutturazione del campo disciplinare necessario e determinante, che vide anche la progressiva estensione delle indagini a scala territoriale, a cui si accompagnarono iniziative di conservazione e tutela,  e delle presentazioni monografiche: una letteratura da cui iniziavano ad emergere le figure di alcuni autori evergreen.

Superate senza iniziative degne di particolare rilievo le celebrazioni del centocinquantenario dell’invenzione, gli anni Novanta videro un primo consolidarsi dell’interesse internazionale per la storia della nostra fotografia, mentre in Italia il confronto teorico e metodologico era sostenuto specialmente dalle iniziative (convegni, seminari) promosse dall’Archivio Fotografico Toscano. La cultura storica e la riflessione metodologica che si erano andate faticosamente formando nel ventennio precedente si tradussero in una serie di progetti di ricerca ed iniziative espositive  che adottavano un approccio storico filologico assumendo l’archivio quale base di studio e che si proponevano di definire un corretto standard di edizione. Certo una concezione di archivio ancora piuttosto strumentale e lontana dal più recente riconoscimento delle sue caratteristiche di “dispositivo” culturale e politico, ma che portò al consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio fotografico al di là di ogni prospettiva riduttivamente autoriale o artistica; attenzione che si tradusse in una serie di convegni (Prato 1992, 2000), nei primi tentativi di censimento a scala nazionale e nella messa a punto e poi emanazione delle norme di catalogazione delle fotografie (1999), mentre anche gli storici contemporaneisti ribadivano la necessità di definire una “diplomatica del documento fotografico” (Pavone).

Nell’ultimo quindicennio una storiografia sempre (più) sicura di sé e ormai sufficientemente radicata anche in ambito accademico, ha espresso in modo sempre più chiaro l’opportunità se non proprio  la necessità   di dotarsi di spazi di aggregazione e di confronto come la lista s-fotografie,  la Società Italiana per lo Studio della Fotografia e la rivista che questa esprime (“RSF”, dal 2015), mentre i sistemi di catalogazione si sono aperti progressivamente al web e si è finalmente avviato l’indispensabile censimento delle raccolte e degli archivi fotografici italiani, in anni in cui la riflessione teorica ne rimetteva in discussione la stessa definizione tradizionale e si affermava il concetto, fortemente influenzato dagli apporti antropologici, di fotografia come “oggetto sociale” dotato di una sua propria biografia. I contemporaneisti d’altro canto appaiono ancora incerti tra fonte e documento, tra indessicalità e connotazione culturale ma sono forse finalmente disposti ad accoglierle entrambe, a integrare tra le loro conoscenze le riflessioni intorno alla natura primaria dell’immagine fotografica ed alle culture specifiche che questa ha prodotto. Elementi indispensabili  per una decifrazione delle immagini stesse, nella consapevolezza che un riconoscimento dell’attendibilità e della veridicità del contenuto referenziale da queste  trasmesso, e delle culture che esprimono,  non possano che fondarsi sulla capacità di discernere le forme e i modi della trascrizione del mondo in fotografia.

È stata proprio la svolta culturalista a connotare maggiormente la più recente produzione storiografica, offrendo una serie di contributi -non solo italiani -che si propongono di individuare e riflettere intorno ad alcune caratteristiche già a suo tempo riconosciute da Bollati e ora più precisamente indagate, quali il policentrismo come specificità del rapporto, specie alle origini, tra fotografia e identità culturale italiana, o quello – di fatto complementare – tra questa e la modernità, con declinazioni non di rado di carattere essenzialista, intese a stabilire e verificare i caratteri di una possibile (o presunta) italianità della fotografia, dell’esistenza di una specifica fotografia italiana. A questa possibile ricostruzione identitaria hanno contribuito in misura determinante  e necessaria gli studi settoriali, indagando relazioni e ruoli svolti dalla fotografia nei più diversi ambiti, dalla storia dell’arte e dell’architettura alla letteratura e alla geografia; dalla guerra al lavoro e all’industria, mentre le ricognizioni a scala territoriale hanno determinato un accrescimento micrometrico e continuo, quasi frattale, delle nostre conoscenze, prestando particolare attenzione al contesto e alle pratiche piuttosto che alle emergenze e facendo nettamente emergere la necessità sempre più stringente dell’integrazione dei saperi e delle consapevolezze teoriche e metodologiche come uno dei nodi centrali di una storiografia che intenda muoversi nel territorio complesso della fotografia e delle pratiche fotografiche. Per queste ragioni sono convinto che le questioni poste dall’uso come dal riuso delle immagini, anche quale soggetto storiografico, siano un portato eminentemente culturale che si può provare a comprendere solo affidandosi alle risorse di un metodo storico che si nutra delle indicazioni e degli apporti di ogni altra procedura conoscitiva, tra le quali riveste importanza sempre maggiore l’antropologia a partire dalle riflessioni che questa ha condotto ed elaborato specialmente intorno alle immagini storiche, portando a riconsiderare più consapevolmente anche la loro natura di oggetti materiali e sociali dei quali, ad esempio, si dovranno incominciare a studiare sistematicamente le condizioni economiche e il contesto di produzione e ricezione, quindi anche le specifiche relazioni con l’immaginario collettivo contemporaneo e di come la fotografia vi abbia partecipato e lo abbia condizionato, contribuendo così a delineare un ampio orizzonte di problemi e di intersezioni che riguardano anche le modificazioni storiche dell’immaginare.

Ciò che infine è emerso con maggiore chiarezza è che nel corso del lungo periodo qui considerato non è mutata solo la definizione dell’oggetto di studio, delle tipologie e ambiti che si è ritenuto di volta in volta più necessario, opportuno o interessante considerare con attenzione (studiare, valorizzare, conservare) ma soprattutto la dotazione metodologica. Così, al di là delle valutazioni di merito, ciò che risulta evidente nel considerare le produzioni più recenti sono le marcate differenze di impianto con quelle prodotte nei decenni precedenti, determinate da una coerenza epistemologica di cui quelle risultavano in diversa misura carenti. Così insieme all’identità degli oggetti si definiscono le teorie e i metodi, prendendo progressivamente coscienza del fatto che per lo storico della fotografia (una figura in fieri, come la sua disciplina) fonte e oggetto di studio coincidono. I fototipi sono infatti oggetto di studio e fonte primaria di sé stessi, di cui è indispensabile conoscere e comprendere le condizioni storiche e culturali di  produzione come di ricezione, utilizzando ove è il caso attrezzi che provengono dalla cassetta di altre discipline di più consolidata (e sottilmente qualificante) tradizione, in primis certo gli storici dell’arte e dopo, più recentemente e faticosamente, ma efficacemente, etnografi, antropologi e altri studiosi sociali.  Una svolta ‘culturale’ da cui ci si può attendere molto se non si ridurrà all’applicazione schematica di formule né dimenticherà i meriti delle elaborazioni passate; di chi ad esempio già negli anni Settanta parlava di “funzione della cultura di immagine in differenti momenti” come oggetto di studio (Quintavalle 1977, p. 71). Così la crescente attenzione per la materialità dell’immagine che è stato uno dei frutti succosi del  material turn e il corrispondente concetto di  “biografia sociale” delle fotografie  non possono far dimenticare  il lungo percorso di  elaborazione, molto raffinato (che altri potrebbero addirittura considerare estenuato ed estenuante) dei modelli di catalogazione dei fototipi che proveniva da differenti presupposti teorici e metodologici, frutto di una concezione del fare storia della fotografia che ha inteso lavorare per la tutela e la valorizzazione del patrimonio che si andava studiando.

 

A conclusione di questo lavoro non posso che ringraziare tutti quelli che si sono dedicati con passione  a studiare e far conoscere la storia della fotografia in Italia, e quelli che continueranno a farlo.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

AVVERTENZE:

La bibliografia citata nel testo e nelle note, nella forma Cognome anno, è consultabile nel file relativo.

Per non appesantire il testo e l’apparato di note, il rimando bibliografico viene dato in occasione della prima citazione della fonte, intendendo che tutte le citazioni successive provengono da quella sino a diversa indicazione.

Tranne che dove esplicitamente indicato, le traduzioni sono di chi scrive

 

Acronimi

ACS:                      Archivio Centrale dello Stato, Roma

AFS:                      Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso, ora FAST

AFT:                      Archivio Fotografico Toscano, Prato

“AFT”:                 “Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano –  Rivista di Storia e Fotografia””

AIB:                      Associazione Italiana Biblioteche, Roma

AIM:                     Alinari Image Museum, Trieste

ALI:                       Atlante Linguistico Italiano, Torino

ANIMI:                                Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, Roma

ASMI:                   The Association for the Study of Modern Italy, London

AST:                      Archivio di Stato di Torino

ATAC:                  Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea, Torino

BREL:                   Bureau Regional Etnologie et Linguistique, Aosta

CAF:                      Civico Archivio Fotografico, Milano

CAMERA:           Centro Italiano per la Fotografia, Torino

CIFe:                     Centro informazione Ferrania, Milano

CIHA:                   International Committee of the History of Art

CLN:                     Comitato di Liberazione Nazionale

CRA:                     Centro interdipartimentale di Ricerca Audiovisuale dell’Università di Napoli

CRAF:                   Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, Spilimbergo

CRICD:                Centro Regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei beni culturali della                                  Regione Siciliana, Palermo

CSAC:                   Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Parma

ECPA:                   European Commission on Preservation and Access,  Amsterdam

ENEA:                   Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Roma

ERPAC:                Ente Regionale Patrimonio Culturale della Regione Friuli Venezia Giulia, Gorizia

ESHPh:                 The European Society for the History of Photography, Vienna

FAST:                    Foto Archivio Storico Trevigiano, Treviso, già AFS

FIAF:                     Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Torino

FIF:                        Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino

FINSIEL:              Finanziaria per i Sistemi Informativi Elettronici, Roma

GFN:                      Gabinetto Fotografico Nazionale – ICCD, Roma

IBC:                      Istituto Per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna

ICCD:                   Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma

ICCU:                   Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche,                          Roma

ICG:                      Istituto centrale per la grafica, Roma (dal 2014), già ING

IFLA:                    International Federation of Library Associations and Institutions, L’Aia

IGM:                     Istituto Geografico Militare, Firenze

ING:                      Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, ora ICG

INGV:                   Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma

INSMLI:               Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano

IRE:                       Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia

ISBD (NBM):       International Standard Bibliographic Description for Non-Book Materials

ISRE:                    Istituto Superiore Regionale Etnografico,  Nuoro

ISRSC Bi-Vc:      Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in                            Valsesia, Varallo

ISTORECO:         Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Reggio Emilia

ISUC:                    Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, Perugia

IUAV:                   Istituto Universitario di Architettura di Venezia (dal 2001: Università Iuav)

KIF:                       Kunsthistorischen Institut in Florenz – Max- Planck- Institut, Firenze

MAST:                  Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, Bologna

MiBAC:                                Ministero per i Beni e le Attività Culturali

MIUR:                  Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

MNAF:                  Museo Nazionale Alinari della Fotografia, Firenze

MUFOCO:            Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo

OPAC SBN:          Catalogo del Sistema Bibliotecario Nazionale

PRIN:                    Progetto di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale

REICAT:              Regole italiane di catalogazione

RIBA:                   Royal Institute of British Architects, Londra

RICA:                   Regole Italiane di Catalogazione per Autori

RMFA:                  Raccolte Museali Fratelli Alinari, Firenze

“RSCF”:               Rivista di storia e critica della fotografia

“RSF”:                  Rivista di studi di fotografia

SEPIA:                  Safeguarding European Photographic Images for Access

SGI:                       Società Geografica Italiana, Roma

SICOF:                  Salone Internazionale Cine, Foto, Ottica e Audiovisivi, Milano

SIGEC:                 Sistema Informativo Generale del Catalogo

SIRBEC:              Sistema Informativo Regionale Beni Culturali della Regione Lombardia

SIRPaC:               Sistema Informativo Regionale del Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia

SISSCO:               Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea

SISF:                     Società Italiana per lo Studio della Fotografia

SPSAE:                 Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico

TCI:                       Touring Club Italiano

 

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

Dal 1839

 

 

1839 e oltre

 

 

Le opinioni sulla data in cui collocare le origini della fotografia possono legittimamente divergere ma l’avvio della sua storiografia è certo, e risale al 1839.

“Gli inventori della fotografia – ha scritto André Jammes[1] – non attesero gli storici per far rientrare le loro scoperte nell’ordine della storia scritta. Si incaricarono loro stessi di quel compito. Collocando quelle scoperte nell’evoluzione scientifica e tecnica, definirono una tradizione che avrebbe influito su tutte le successive narrazioni: la storia della fotografia sarebbe stata la storia della sua tecnica.” Da noi se ne era accorto per tempo Giuseppe Gioacchino Belli, rilevandone anche le connotazioni nazionalistiche:  “a Parigi sostienesi che il trovato è cosa francese, a Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è alemanna o britannica.”[2] Dopo le prime, necessariamente imprecise e fantasiose cronache comparse sui periodici italiani, un accurato resoconto dell’invenzione del dagherrotipo venne pubblicato sulle pagine de “Il Politecnico” già nel giugno[3] del 1839,  ma la prima trattazione ‘storica’ dell’invenzione apparsa in Italia sullo scorcio di quello stesso anno fu la voce Fotografia redatta dal veneziano Giovanni Minotto, per il  “Supplemento” al Nuovo Dizionario Universale Tecnologico[4]. Qui l’articolata presentazione delle vicende francesi e inglesi era arricchita da una aggiornatissima rassegna delle prime prove italiane, poi non considerata da altre opere enciclopediche, che adotteranno analoga impostazione ‘evoluzionistica’ delle  voci, con un alternarsi significativo di omologazioni o distinguo tra i termini dagherrotipo e fotografia[5]. Si registrava qui – tra le prime – quella linearità genealogica che divenne ben presto canonica e si sarebbe poi ripetuta con scarse varianti sino alle grandi storie del Novecento; sino a Gernsheim e Newhall: Della Porta, Wedgwood e Davy, Niépce e Daguerre, con l’aggiunta di Talbot alla voce “fotografia”. Quella che la Nuova Enciclopedia popolare italiana pubblicata a Torino nel 1859 apriva segnalando – credo per prima in Italia[6]  – lo strabiliante capitolo del Giphantie di Charles-François  Tiphaigne de la Roche (1760) in cui quella era prefigurata,  ma con un evidente refuso di datazione (“1670”). In perfetta aderenza alla natura di matrice moltiplicabile del nuovo procedimento, l’attenzione maggiore delle enciclopedie era però riservata a un’invenzione allora ritenuta di ben maggior avvenire quale l’eliografia (fotolitografia), oggetto di trattazioni ben più analitiche e di ampio respiro, che celebravano la possibilità per ciascuna immagine di “potersene con la stampa ottenere molte copie”[7]. Una prospettiva scarsamente frequentata poi dalla più parte degli storici del mezzo, ma che un secolo più tardi sarebbe stata cara all’Ando Gilardi della Storia sociale della fotografia.

Diverse erano invece le ragioni che imponevano di dedicare il capitolo di apertura dei primi manuali italiani a una sintetica narrazione delle vicende storiche: “La Fotografia è la successione pura del Dagherrotipo” dichiarava Giacomo Caneva in apertura del suo trattato del 1855[8], facendo seguire una breve disamina delle ragioni critiche su cui fondava quell’affermazione, con cui concludeva il paragrafo primo, da lui intitolato Origine e storia. Di ben altro tenore e impegno l’ampio manuale di Giuseppe Venanzio Sella, quel Plico del Fotografo edito a Torino l’anno successivo che si apriva con una ricca introduzione corredata di note, per complessive quarantanove pagine,  in cui si ripercorrevano storia e ‘preistoria’ dell’invenzione:  dalla camera oscura di Della Porta allo stereoscopio; dalle prime prove di Wedgwood alle lastre al collodio, con un’intenzione che oggi potremmo definire di consapevolezza critica del mezzo. “Da quello che precede – scriveva Sella – il lettore ha potuto conoscere in modo generale l’origine, ed i successivi progressi ed applicazioni della fotografia, ed avrà potuto convincersi che non basta una triviale conoscenza dei procedimenti pratici per possedere a fondo quest’arte incantevole.”[9] “Cenni storici sull’arte fotografica” sarebbero poi comparsi ciclicamente su periodici italiani anche non di settore, come “L’Alchimista friulano”[10] o la Rivista periodica dei Lavori dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova”[11], a firma di Luigi Borlinetto, mentre “Il Dilettante di fotografia” di Luigi Gioppi ospitò una serie di “Appunti storici” sin dal suo primo numero del 1890[12] e, dato ancor più significativo, nella seduta inaugurale della SFI Società Fotografica Italiana[13], il 26 maggio 1889, il Consigliere Ing. Arnaldo Corsi teneva una prolusione dedicata alla Storia delle origini della fotografia[14], nel cinquantenario della sua invenzione.

Per quanto ci risulta non pare che in Italia quella ricorrenza fosse particolarmente considerata dall’editoria fotografica (nessun manuale pubblicato in quell’anno, neppure in traduzione) o  dai quotidiani, né celebrata dalla comunità dei fotografi: oltre alla cerimonia di fondazione della SFI si ha notizia  solo del banchetto torinese che si tenne il 28 febbraio per iniziativa di Felice Alman, presidente dell’Unione Fotografica Italiana,  a cui presero parte quasi solo fotografi piemontesi.[15] Allo stesso episodico interesse possono essere attribuiti gli interventi di Luca Beltrami e di Luigi Gioppi sulle pagine della “Rivista scientifico-artistica di fotografia”, organo del Circolo Fotografico Lombardo, dedicati rispettivamente all’invenzione della camera oscura e alla triade degli inventori[16].

Più interessanti e mirate le scelte compiute  nel 1898 in occasione della mostra realizzata per l’Esposizione nazionale di Firenze, dove la Società fotografica di Vienna espose nella prima sala la riproduzione del “contratto preliminare fra Daguerre e Niépce, stipulato nel 1829. (…) Così sappiamo subito a quali condizioni noi venimmo alla luce; o, meglio, a quali condizioni la luce venne a noi.” [17] Negli stessi locali Brogi mostrava “una vecchia tenda per sviluppare le lastre al collodione” accanto a una “collezione di primitive macchine Daguerre” e a fotografie ‘antiche’ con vedute di Firenze e Roma presentate da Alinari e Tuminelli [sic]. “In una parola, e per concludere – scriveva Augusto Novelli –  una buona parte di questa prima sala è come un tempio dedicato alla religione del passato; religione che sentiamo tutti e le cui reliquie, se talvolta possono farci sorridere, hanno sempre diritto al nostro rispetto e alla nostra venerazione. Anzi, dirò di più; questa parte mi sembra così importante e così ben raccolta e conservata, che dovrebbe essere trasportata, fatta qualche ampliazione, alla mostra futura di Parigi. Messa colà essa direbbe chiaramente i primi cinquant’anni della vita fotografica italiana.”

Un altro “tempio”, quello del “Risorgimento Italiano” realizzato per l’Esposizione Generale Italiana di Torino nel 1884 aveva rappresentato invece l’occasione di un primo ricorso alla fotografia quale testimonianza storica, forse con valore simbolico e iconico più che documentario. In quella sede – tra gli altri cimeli –  furono esposte “Fotografie a dagherrotipo delle rovine della campagna del 1848-49”[18], verosimilmente da identificarsi con la serie di calotipie di Stefano Lecchi pubblicate da Danesi nel 1849 come “tratte dal dagherrotipo”, da cui l’errata identificazione in catalogo. Quelle vedute vennero presentate anche all’Esposizione Romana per la storia del Risorgimento dello stesso anno, nella quale accanto a ritratti e gruppi diversi compariva anche una foto di “Prigionieri in Aspromonte, gruppo eseguito nel 6 ottobre 1864”[19].  Date queste prime realizzazioni non è difficile sostenere che il tema risorgimentale sia stato uno dei primi se non il primo a sollecitare una qualche forma di interesse per la fotografia storica  (ma non per la storia della fotografia, ovvio). Di impianto più celebrativo che storico documentario fu invece la proposta di Aurelio Favara, fatta propria dalla Società Fotografica Italiana nella seduta del 13 aprile 1911, quindi presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma nello stesso anno cinquantenario dell’Unità; l’intenzione non era più quella di raccogliere ed esporre cimeli storici bensì di  dare “visione fotografica di paesaggi e città, di piazze e di edifici, di monti e di marine che furono teatro di avvenimenti e di eroismi”, da pubblicarsi in fascicoli che avrebbero dovuto costituire “il Museo fotografico di ogni scuola d’Italia”[20]; un’iniziativa che risentiva del dibattito ormai pluridecennale che accanto allo sviluppo del pittorialismo, e quasi in reazione a questo, aveva portato  anche in Italia alla nascita di raccolte, archivi e musei documentari, accompagnati da un acceso dibattito metodologico e dalle prime acquisizioni di fondi storici, considerati però esclusivamente per il loro valore referenziale[21].

 

Fino al primo dopoguerra la cultura fotografica italiana era tutta rivolta alla contemporaneità  e i pochi testi ‘storici’ pubblicati nel più importante periodico italiano dell’epoca, “La Fotografia Artistica”, “seguivano uno stesso filo conduttore. Il ritrovamento di un’idea di tradizione nella lettura evoluzionistica delle vicende fotografiche [che] si ancora saldamente al presente, fornendo certezze sugli aspetti tecnici come valori fondativi per un conseguente sviluppo del ‘sentimento estetico’ ” [22]; un’intenzione non così lontana da quella espressa da G. V. Sella esattamente mezzo secolo prima, che si tradusse qui in una serie di articoli intitolati alla Histoire de la Photographie  curati dal direttore Annibale Cominetti e tratti da periodici inglesi[23], e in un più lungo saggio pubblicato in tre parti a firma di Fanny Dalmazzo[24].  Per disporre di un primo accenno di disegno storico critico  relativo alle immagini si dovette attendere  il resoconto della grande Esposizione di Dresda del 1909 pubblicato da  Cesare Schiaparelli[25],  nel quale il noto fotografo tracciava in apertura una sintesi dell’evoluzione artistica del mezzo a partire Hill e Adamson, recentemente riscoperti[26], e le testimonianze a stampa relative al primo periodo di quella storia presentate alla Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tenne nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911[27], alcune delle quali appartenevano ad Adriano Tournon[28], ingegnere e autocromista en amateur, primo sintomo di un interesse collezionistico per i cimeli fotografici. Un’analoga retrospettiva si sarebbe tenuta ancora a Torino nel 1923, nell’ambito dell’importante Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia: L’Arte nella Fotografia, promossa dalla locale Camera di Commercio per onorare  – con notevole ritardo –  il terzo centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615), una delle glorie italiche che ben poteva essere fatta propria dalla macchina propagandistica del fascismo nascente. Secondo Pia, che era stato presidente della Società Fotografica Subalpina, ed Annibale Cominetti  furono chiamati a far parte della commissione di quella mostra, presieduta da Carlo Baravalle, che con gli amici Stefano Bricarelli e Achille Bologna aveva da poco costituito il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e che proprio in quell’anno aveva acquisito la testata milanese “Il Corriere fotografico”, trasferendola a Torino. Anche in Italia  si sentiva la necessità di riferirsi alla storia (e quindi di conoscerla) quale elemento fondamentale del processo di legittimazione culturale ricercato dalla ‘nuova fotografia’ (tra pittorialismo e modernismo), così come era già accaduto in altri paesi europei e negli USA.

 

 

Intorno al 1939: Lamberto Vitali e l’antica fotografia

 

Diversamente da quanto accadeva in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti, la cultura italiana non si misurò con la redazione di una storia generale né nazionale ed oltre  le poche opere e iniziative sopra citate, le prime prove di storiografia fotografica propriamente intesa erano rappresentate dagli scritti oggi quasi dimenticati di un fotografo come Enrico Unterveger, figlio di Giovanni Battista, che nel 1922 pubblicava sul periodico torinese “Vita fotografica italiana” un suo Contributo alla storia della fotografia in Italia con speciale riguardo al Trentino e all’ex Regno Lombardo -Veneto[29] mentre altre andavano cercate in ambiti contigui ed estremamente specialistici, come il contributo di Giuseppe Albertotti Disegni fotogenici comunicati da Fox Talbot a G.B. Amici, presentato nel 1925[30].  Ben più noti e ampiamente citati dalla successiva storiografia sono invece  gli interventi che Lamberto Vitali pubblicò dal 1935 su “Emporium”, la rivista di cui  fu direttore per un triennio sino al 1938[31], anno in cui fu costretto a lasciare a causa delle leggi razziali emanate dal governo fascista.  Al primo articolo del 1935 dedicato a Federico Faruffini fotografo[32], fecero seguito l’anno successivo Ritorno all’antica fotografia e Un primitivo della fotografia: David Octavius Hill[33], testi da intendersi in quel contesto  internazionale caratterizzato da una nuova attenzione per la storia del mezzo che segnò gli anni in prossimità del centenario dell’invenzione.   Nella loro diversità quegli scritti suggerivano una prima distinzione tipologica: dalle ricerche d’archivo alle indagini a scala locale e territoriale,  alla riflessione fenomenologica e alla monografia.

In quello  dedicato alla “antica fotografia” i soli autori italiani (o attivi in Italia) citati da Vitali erano Bettini, Marzocchini, Alinari, Bernoud e Metzger, mentre la presentazione critica della figura di D.O. Hill derivava dalla recente fortuna internazionale di questo autore e dalla  “fondamentale monografia” di Heinrich Schwarz[34], citata col dovuto rilievo insieme a numerosi altri titoli nella puntuale nota bibliografica che chiudeva l’articolo; testimonianza di un approccio metodologicamente fondato e corretto ma anche di quella sua raffinata passione collezionistica che già si era espressa in altri ambiti[35]. Hill apparteneva a quel ristretto gruppo di nomi entrati ormai a far parte di un primo empireo della storia europea della fotografia; riferimenti forse non consueti ma dati almeno per noti a un pubblico di cultura medio alta sebbene non settoriale:  magari lettori come quelli di “Domus”, la rivista di  Gio Ponti in cui il direttore aveva pubblicato il proprio  Discorso sull’arte fotografica[36] e con la quale Vitali collaborava  dal 1928. Riferimenti e attenzioni che era possibile ritrovare in altri periodici milanesi come “Fotografia” e “Natura” o nelle recensioni di Edoardo Persico su “La Casa Bella”, non senza puntuali letture critiche[37]. Era la stessa attenzione testimoniata dalle pagine scritte da Raffaele Carrieri per la “La Lettura”, la rivista mensile del “Corriere della Sera”, dedicate ai ritratti in carte-de visite, dove si trattava di quello stesso “ritorno” studiato da Vitali ma con mano più lieve: “Risorgono tutti gli album di famiglia. Prima gli antiquari compravano pendoli e porcellane, ora fotografie: Niépce, Daguerre e Talbot sono diventati già dei primitivi  [con evidente richiamo, quasi ironico, alle categorie utilizzate da Vitali]. Davy è una specie di Giotto della fotografia. Si stabiliscono date, si identificano i maestri ignoti. La fotografia fa parte delle collezioni. In America, le fotografie delle guerre d’indipendenza costano un patrimonio. Non parliamo di un originale di David Octavius Hill, o di un Nadar firmato.”[38]

In una lettera a Zannier datata 15 dicembre 1988 e pubblicata nel n.11 di “Fotologia” (1989), non a caso concepito proprio in quell’anno In onore di Lamberto Vitali[39],  il grande collezionista citava un poco disordinatamente la sua produzione bibliografica tra fotografia, incisione e pittura;  in modo non esaustivo, quasi distratto però,  fornendo (per tono e contenuto) una bella testimonianza, un interessante indizio della sua personalità  come della sua figura di studioso, non separabile se non strumentalmente da quella di collezionista. Quale primo titolo  poneva il Ritorno all’antica fotografia e non il testo su Federico Faruffini fotografo, sebbene fosse dell’anno precedente e affrontasse una questione difficile e nuova come quella del rapporto degli artisti del XIX secolo con la fotografia[40], alla quale avrebbe dedicato uno specifico contributo solo vent’anni più tardi[41]: quasi una noncuranza o forse il segno di una predilezione, di una tenuta nel tempo del testo più programmatico e ‘militante;  più  strettamente legato al modello interpretativo e storiografico assegnato alle distinte genealogie del dagherrotipo e del calotipo dai curatori di Film und Foto, l’importante rassegna di Stoccarda del 1929. L’idea di fotografia di Vitali si rivelava nell’apprezzamento per quegli autori che mostravano “espressioni appropriate al nuovo mezzo”, facendo emergere così la sua avversione radicale e radicata – tutta modernista, della Milano modernista direi – ai valori pittorici e ingenuamente simbolisti del tardo pittorialismo[42], assimilato impropriamente alla pittura di genere, ciò che ci aiuta a comprendere come fosse il tema del ‘vero’ e della sua rappresentazione a costituire il centro della sua valutazione; a giustificare una considerazione per la fotografia che fu per lungo tempo prevalentemente di tipo referenziale, documentario [43]. Fotografie come testimonianze disponibili a  una lettura quasi archeologica, modernamente fondata sul loro specifico; ciò che più caratterizzava quei suoi contributi  era però il loro impianto storico critico e il presupposto collezionistico inteso in termini di necessità di studio e di tutela di un patrimonio allora come ora sottoposto ai rischi della dispersione.

Il Ritorno cui si riferiva il titolo del 1936 registrava  in realtà il fenomeno  inedito dell’interesse – poi confermato da Carrieri – per le fotografie “antiche”, tanto che ancora poteva “sembrare a tutta prima cosa stranissima”  il fatto che queste potessero essere “oggetto proprio di studi, di ricerche, perfino di analisi critiche”. Le ragioni che muovevano Vitali erano certamente quelle di soddisfare il “desiderio di fissare la fisionomia di una società scomparsa” ma accanto a queste emergeva, del tutto nuova, la “ragione estetica, perché veramente la fotografia fu un mezzo d’espressione per i primi maestri.” I principali riferimenti, piuttosto scontati già all’epoca, erano a Hill, Le Secq e Nadar, riuniti impropriamente nella definizione di fotografi “dei primi tempi”, quelli che con fortunata formula,  poi ripresa anche da Negro,  apparivano segnati da “castità di mestiere cui naturalmente s’associa l’affettuosa, profumata castità di visione”. Era stato proprio Nadar a parlare a sua volta di “primitifs de la photographie”[44], ma  nella formulazione di Vitali  emergeva una sensibilità prossima se non debitrice del venturiano “gusto dei primitivi”, che aveva preceduto le sue riflessioni di giusto un decennio[45], e ancora  più di una eco di quella “innocence of the eye” di cui aveva parlato Ruskin[46], qui ben distinta dalla più modesta “onestà di mestiere”[47] riconosciuta ai “regolari” italiani; ulteriore e altrettanto fortunata categorizzazione, tutta compresa nell’orizzonte temporale del 1875, data che per Vitali chiudeva il “periodo aureo” della fotografia[48]. La novità di quel breve testo risiedeva, per l’Italia, proprio nella proposta di un inedito oggetto di indagine, l’antica fotografia per l’appunto, rivolta ad un pubblico probabilmente non “del tutto ignaro di vicende, termini e nomi finora sconosciuti”[49], ma certo poco avvezzo a considerare criticamente quelle immagini. Più che un abbozzo storico, l’articolo costituiva l’aggiornatissimo riconoscimento di un fenomeno culturale e storiografico (“la decisa prosperità di scritti dedicati ad un argomento in apparenza tanto profano”) letto attraverso il filtro delle posizioni critiche espresse dalla cultura modernista internazionale. Ciò risultava evidente anche nella bella chiusa in cui dichiarava che “la rinascita della fotografia poteva avvenire soltanto con un capovolgimento completo dei termini, [con] la ricerca di effetti quali soltanto l’obiettivo può dare. Ed appunto la scoperta delle facoltà visive della lente, diverse affatto da quelle dell’occhio umano, ha determinato, con l’invenzione di un nuovo mondo, la ripresa dell’ultimo tempo: ma questo è un altro discorso.”[50]

In Italia, a considerare la letteratura nota, non pare che la ricorrenza del centenario dell’invenzione avesse sollecitato studi specifici  ma solo una serie di richiami giornalistici, tra i quali merita segnalare quelli precoci di chi (tra i più attenti e informati)  individuava in Niépce l’origine del percorso definitivo, anticipando così le celebrazioni di quasi un ventennio.  Accogliendo le tesi esposte da Georges Potonnièe sulle pagine del bollettino della Société Française de Photographie [51], “Il Corriere Fotografico” e “Il Fotografo” ospitarono nel 1922 due articoli dedicati a Niépce[52], uno dei quali a firma di Enrico Unterveger, mentre nel maggio del 1927 un altro illustre figlio di fotografo, e importante fotografo a sua volta come Carlo Wulz curava per  il Civico Museo di Storia ed Arte una Mostra temporanea di fotografie di Trieste scomparsa, composta di circa trecento stampe realizzate dal padre Giuseppe e donate per l’occasione al Museo; antecedente tanto significativo quanto poco noto di iniziative culturali che prefiguravano la nascita delle fototeche civiche.  In quello stesso anno si stavano avviando i lavori per la realizzazione della Prima Esposizione nazionale di Storia della scienza, prevista a Firenze nel 1928 ma inaugurata solo l’8 maggio 1929, destinata a dimostrare “come in quasi tutti i fondamentali rami dello scibile gli italiani siano stati grandi e geniali precursori.”  A quello scopo il Commissario per la sezione fotografica Luigi Castellani diramò un invito, diffuso dalle riviste di settore, affinché chiunque possedesse “un qualche cimelio o altro materiale di importanza storica, inerente a lavori di italiani nel campo fotografico o fotomeccanico” lo volesse mettere a disposizione, e inoltre “se può darci informazioni su lavori, invenzioni, applicazioni di una certa importanza inerenti alla fotografia o alle sue applicazioni, eseguiti da Italiani, le saremmo gratissimi e di questa sua collaborazione terremo il massimo conto.”[53]   I risultati furono inferiori alle aspettative e per quanto risulta[54] la mostra ospitò sì molte fotografie documentarie ma quasi nessun cimelio, se si esclude un “daguerrotipo (1856) – il primo eseguito a scopo scientifico” del Museo di Antropologia di Firenze,  il fototeodolite progettato da Pio Paganini nel 1878 esposto nel padiglione dell’Istituto Geografico Militare e una “Mostra Alinari” con “fotografie di scienziati o di argomento scientifico, insieme ad altre di soggetto comune.”[55]

Negli anni successivi fu soprattutto l’edizione italiana di “Galleria” ad ospitare contributi storiografici di un certo rilievo, a partire da quello di Heinrich Schwarz sulla storia della camera oscura, pubblicato nel febbraio del 1933[56], che si proponeva anche come un erudito saggio di storiografia (quasi fuori luogo in quel periodico, che ne offriva una traduzione incerta) intorno alla questione della “spiritualità della scoperta” – e non dell’invenzione quindi – provandosi a definire come si fosse manifestato nei secoli quello che chiamava “il desiderio di fotografare”; prima elaborazione di quella prospettiva storico critica che avrebbe poi sviluppato  compiutamente nei suoi più importanti saggi successivi. A partire dal marzo 1938 lo stesso periodico avviava la pubblicazione di una serie di testi storici con estratti dal Trattato pratico di fotografia di Marc Antoine Gaudin,  pubblicato a Torino da  Jest nel 1845[57], mentre nel marzo 1939 comparve una anonima e breve rassegna dei Punti capitali della Storia della Fotografia,  seguita nei mesi successivi da una serie di contributi “alla storia della fotografia” firmati dal  direttore Luigi Andreis e da alcune brevi schede monografiche (Hill, Schulze ma anche Misonne), comprese in un inserto staccabile destinato a formare l’ “Enciclopedia Galleria”. Anticipando di pochi mesi l’ufficialità della ricorrenza, anche l’altro periodico torinese “Il Corriere Fotografico” celebrava il centenario con un intervento di Federico Ferrero (1938) che conteneva  una interessante presa di posizione storiografica:  “per me come per altri storici della Fotografia, il 1839 rappresenta il vero anno d’inizio, l’inizio ufficiale per così dire [poiché] in quel giorno [7 gennaio] per la prima volta al mondo si parla pubblicamente di Fotografia: da quel giorno comincia veramente la storia della Fotografia.”[58]  Dopo aver asserito – poco coerentemente – che  “il vero fondatore del moderno processo fotografico non è Daguerre (…) ma Fox Talbot” il pubblicista ricordava “la fulminea diffusione” del fenomeno a scala mondiale, lamentando infine che  nessuno in Italia  avesse pensato a celebrare degnamente il centenario. Al redattore del “Corriere” rispose Enrico Unterveger[59] con una lunga lettera nella quale confermava che “pochi studi storico-fotografici se ne vedono pubblicati in Italia, ove manca anche una pubblicazione di valore sulla storia della fotografia”; aggiungeva poi alcune precisazioni di non secondo rilievo tratte da fonti in lingua tedesca, evidentemente sconosciute al redattore torinese che aveva infarcito il proprio testo di gravi imprecisioni, e chiudeva proponendo che proprio “a Torino ove più di tutte in Italia si tiene in debito conto l’arte fotografica, si potrebbe iniziare qualcosa.” Fu ancora Unterveger (1939a), il primo e misconosciuto storico della fotografia in Italia, a fornire ulteriori contributi e approfondimenti, come quello dedicato a L’invenzione della fotografia nella stampa trentina del tempo, con riproduzioni in facsimile delle prime notizie sulla dagherrotipia pubblicate nei periodici della regione[60], da porre in relazione con la progettata “Mostra retrospettiva” che si sarebbe  inaugurata a Trento[61]. Qui dopo “una opportuna illustrazione del contributo dato dall’ingegno italiano alla grande invenzione (Leonardo, Della Porta, Beccaria) vennero esposti “pregevoli esempi (…) di procedimenti di fotografia tramontati e sorpassati”, dal collodio su vetro e su carta all’albumina, dai pigmenti al platino; alcuni esempi di tecniche fotomeccaniche (woodburytipia, fotolitografia, zincotipia), “apparati ed apparecchi dei già lontani tempi” e una sezione bibliografica che comprendeva “il primo manuale pubblicato in Italia (1856)”, cioè, verosimilmente il Plico del fotografo di G.V. Sella, e uno dei “primi periodici (1870)”, forse quella “Rivista fotografica universale” di Antonio Montagna a cui aveva collaborato anche il padre di Enrico, Giovanni Battista. Infine “dieci pubblicazioni di Enrico Unterveger su argomenti storico-fotografici.” Fu quella la sola iniziativa espositiva legata al centenario[62]; un evento a cui quasi non fecero cenno le principali testate di settore[63], con l’esclusione de “La Gazzetta della Fotografia” di Palermo sulla quale il direttore Arturo Valle scrisse un lungo articolo[64] nel quale accentuava fascisticamente il nazionalismo proprio di molta storiografia fotografica coeva. Considerando che “come tutte le grandi invenzioni anche quella della fotografia non avrebbe potuto vedere la luce senza che precedenti invenzioni e ricerche gliene avessero dato la possibilità” e inoltre essendo “indubitato che la invenzione della camera oscura è prodotto del genio italiano (…) in ultima analisi questo basta”, per rivendicare un ruolo determinante di Della Porta[65] e quindi dell’Italia in quel processo.  A Torino fu l’edizione serale de “La Stampa” [66] a ricordare La prima fotografia eseguita a Torino, riportando ampi estratti dello storico articolo del direttore della  “Gazzetta Piemontese” Felice Romani[67], pubblicato il  12 ottobre 1839, ma confondendo in parte i termini a proposito della corretta sequenza delle due riprese.  Al di là di queste imprecisioni l’iniziativa meritava di essere segnalata anche per la scelta di celebrare il centenario  ripubblicando ampi stralci di una fonte cronachistica importante, con ciò celebrando anche l’autorevolezza e la storia dello stesso periodico, essendo la “Gazzetta Piemontese” la testata da cui derivò “La Stampa” nel 1894. Di respiro internazionale e culturalmente complesso fu invece il contributo di Giuseppe Maria Lo Duca pubblicato in due parti su “Emporium”[68]; nella prima offriva un sintetico excursus con corredo di iconografia storica, tra camera obscura e lanterne magiche, individuando   “nell’evoluzione dei mezzi tecnici (…)  il rapporto che conduce alla nascita dell’arte fotografica”, ma soprattutto proponendo confronti iconografici per mostrare come esistesse uno “stile comune nella pittura di Ingres e nella fotografia di Nadar e dell’Anonimo” autore di uno dei ritratti proposti.  Mostrando tutta l’aggiornata competenza che gli derivava dalla sua recente emigrazione in Francia  Lo Duca indicava i “nomi più importanti di questa manifestazione estetica”: da Nadar a Pierson sino a Lotar, Tabard, Kérstez (di cui pubblicava una distorsione, messa in pagina accanto al notissimo ritratto della Contessa di Castiglione), Bragaglia; Bandy, Cahun, Kesting e Man Ray, all’epoca sostanzialmente sconosciuti in Italia,  e chiudeva con la trascrizione di una  sua (presunta) intervista  a Paul Valéry  fatta “in occasione del centenario di questa scoperta”[69], che  si rivelava però una rielaborazione dell’importante  discorso che il poeta aveva tenuto alla Sorbona  il 7 gennaio 1939 su richiesta della Société Française de Photographie et de cinématographie[70].

Questa sostanziale assenza di manifestazioni di rilievo nazionale, contrariamente a quanto avvenne in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, consente ora di comprendere meglio (pur senza chiamare direttamente in causa l’estetica crociana, che pure vi ebbe un ruolo) le ragioni per cui le fotografie non fossero comprese tra le “cose d’interesse artistico o storico”  tutelate dalla legge 1089 del 1939, sebbene un Regio Decreto dl 1927 avesse almeno previsto la possibilità che fossero descritte “in appositi cataloghi (…) sotto uno stesso numero (…) le fotografie, anche non riunite in volume, se costituiscono o possono costituire una serie organica sotto una stessa denominazione.”[71] Troppo lontana, addirittura estranea alla cultura accademica e della tutela l’idea che questa tipologia di immagini, che quegli oggetti potessero avere un interesse più che strumentale. Una concezione che pare aver influito nella lunga durata  anche sulla stessa nostra genealogia storiografica, sulla costruzione di una tradizione che nell’indicare le proprie origini ha celebrato i contributi di uno studioso come Vitali (che nelle proprie pubblicazioni avrebbe privilegiato le funzioni documentarie e le produzioni “irregolari”, tra arte e cronaca) relegando nell’oblio quelli di un professionista come Unterveger, più attento alla storia della pratica fotografica.

 

1949-1950 Carlo Mollino e il Messaggio dalla camera oscura

 

Primo frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu da noi il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi: Il messaggio dalla camera oscura, scritto da  Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato solo nel dopoguerra[72], costituì la prima vera sintesi prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo.  Come già in Film und Foto[73] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive  a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. La prima parte, che si apriva con “la più antica fotografia del mondo (Niépce 1822)” non essendo ancora nota la Veduta di Gras[74], era dedicata a una “Storia breve del gusto nella fotografia”, avendo come prima tavola fuori testo un ritratto femminile al dagherrotipo, splendidamente stampato su carta argentata da Vincenzo Bona, che era stato lo stampatore de “La Fotografia Artistica”, a conferma di una cura per la resa visuale e materiale delle immagini proposte che derivava da una chiara preoccupazione filologica; qualcosa a cui l’editoria fotografica non solo italiana si sarebbe dedicata solo alcuni decenni più tardi.

“Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo”, dichiarava Mollino analogamente a Lo Duca, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sull’analisi stringente dei rapporti di quella con la cultura visiva e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[75], anche Mollino (come sarà per Gernsheim e Vitali) condannava come decadente la “fotografia d’arte”, quella in cui “il fotografo (…) si butta alla razionale simulazione del quadro e della pittura”[76], sebbene poi pubblicasse alcuni tardi bromolii di Peretti Griva, la cui presenza giustificava essendo quello “tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico – pittorica, qui non gratuita, giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”

 

 

Silvio Negro e la fotografia a Roma

 

Fortemente legato a Vitali ma meno interessato alle questioni critiche era Silvio Negro, che nel 1942 pubblicava uno studio dedicato a I primi fotografi romani[77] poi posto in appendice a  Seconda Roma 1850 – 1870[78] arricchito da “79 illustrazioni da documenti fotografici dell’epoca”, scelti con la collaborazione di Giovanni Scheiwiller e  Lamberto Vitali[79], ma registrati senza alcuna datazione e con rare attribuzioni all’indice. La prima ricostruzione delle vicende romane[80], e la prima italiana di tale ampiezza, prendeva avvio dalla nota di Giuseppe Gioacchino Belli nel suo Zibaldone[81] e per individuare i nomi dei primi dagherrotipisti ricorreva a fonti quali i manifesti e i fogli pubblicitari oltre che a quanto veniva esposto nelle grandi mostre internazionali, come indicava il riferimento a due dagherrotipi anonimi, “rappresentanti rispettivamente il palazzo Vaticano e la fontana di Trevi”, e ad un calotipo del Colosseo erroneamente attribuito a Prevost[82], presentati “in una mostra di incunaboli della fotografia ordinata a Nuova York alcuni anni fa.”[83]  La periodizzazione adottata, strettamente connessa allo sviluppo tecnologico come già in Vitali,  portava con sé un giudizio di valore degli esiti che le era inversamente proporzionale: “i ritratti della loro epoca hanno ai nostri occhi una pulitezza e un potere evocativo che si perdono del tutto dopo il ’75. In questo tempo ci fu realmente uno scadimento, ed esso derivò proprio dal progresso della tecnica.” Sebbene richiamasse per primo l’attenzione per il lavoro dei fotografi che lavoravano per i pittori, per i quali “la necessità di tenersi al vero ha portato ad effetti sobri e consistenti”[84], in quel testo Negro non riservava neppure una fuggevole citazione a Caneva, che forse gli era ancora sconosciuto ma a cui avrebbe  dedicato un breve saggio monografico l’anno successivo[85],  né ad altri componenti di quella che sarebbe poi stata conosciuta come Scuola fotografica romana[86], facendo coincidere la nascita del professionismo in quella città con l’età del collodio e in particolare con Antonio d’Alessandri, titolare di uno specifico profilo biografico, mentre le notizie sui fotografi attivi nel campo della documentazione del patrimonio artistico (tra i quali segnalava gli Anderson) erano tratte essenzialmente dalle guide e dall’importante Elenco (…) degli oggetti spediti dal Governo pontificio all’Esposizione di Londra del 1862.

All’iniziativa di Carlo Pietrangeli ma alla competenza di Negro “che ne fu l’anima”, si doveva la successiva Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915 [87], allestita nel 1953 “con criteri topografici e romanistici”[88] un anno dopo il trasferimento del Museo di Roma nell’attuale sede di palazzo Braschi; prima organica occasione espositiva italiana fondata sull’uso della fotografia storica quale “fonte di informazione storica e di documentazione topografica e artistica.”[89] A quello scopo venne imbastita un’impresa di enormi dimensioni: 3689 pezzi esposti, di cui soltanto cinquantaquattro riprodotti in catalogo,  ordinati per sezioni tematiche:  Storia, Arti-Lettere-Scienze, Amministrazione Civile, Topografia, Usi e costumi, Corte e Società, Moda, Vaticano, tra le quali – come già in Seconda Roma – anche una specificamente dedicata alla Storia della fotografia a Roma[90]. Si trattava infatti di documentare le trasformazioni “che subisce ogni giorno la nostra città e la scomparsa di ambienti, di usi, di costumi e di modi di vita che si verifica continuamente sotto i nostri occhi e che ancor più avvenne nei tempi passati e specialmente nel periodo della trasformazione urbanistica e della febbre edilizia tra il 1870 e il 1885.”  Roma nella fotografia quindi, più che la fotografia a Roma, con uno scarto allora forse non avvertibile e un atteggiamento analogo a quello che sarà del Vitali studioso delle immagini risorgimentali, nonostante il testo di Negro in catalogo[91], che costituiva sin dal titolo (I primi fotografi romani) una ripresa esplicita di quanto da lui pubblicato alcuni anni prima, con poche ma significative aggiunte. Tra queste la più rilevante era rappresentata dalla ‘scoperta’ delle prime opere di Caneva ( “il fotografo locale di cui si è trovata finora la più antica documentazione datata o databile […] un pittore”), però non ancora posta in relazione con quello sviluppo del genere “dei modelli vivi ed elementi di paesaggio da servire al pittore nello studio” già precocemente individuato come proprio della produzione romana nel saggio precedente.  Il regesto delle opere in mostra indicava il titolo, cioè l’identificazione del soggetto, qualche volta l’autore e sempre la provenienza (alcuni enti pubblici e molte collezioni private), mentre solo raramente era riportata l’indicazione della tecnica e mai quella delle misure. Pur con questi che oggi riconosciamo come rilevanti limiti  metodologici, certamente connessi anche all’intenzione – propria di Negro e dei suoi collaboratori – di fare storia con la fotografia piuttosto che una storia della stessa, la mostra e il catalogo costituivano la prima organica occasione di misurarsi con la fotografia considerandola almeno un prezioso documento storico. Nella misura in cui si interessavano anche agli autori di quei documenti e alle loro condizioni di lavoro essa rappresentava però anche un momento determinante nella formazione  della storiografia fotografica italiana, soprattutto considerando che l’imponente insieme di opere esposte dimostrava che “l’Ottocento ha, fra i moltissimi suoi meriti, anche quello di aver creato un’estetica fotografica, una sua particolare ‘logica’ delle immagini meccanicamente riprodotte”, come rilevava il notista de “La Stampa”[92].

Il desiderio di illustrare più compiutamente le immagini utilizzate in quella occasione portò alla pubblicazione nel febbraio 1956 di  Album romano[93],  che di quella mostra fu il “catalogo postumo”. Il testo di Negro costituiva una ulteriore rielaborazione di quanto pubblicato nelle due occasioni precedenti; testimonianza di un inesauribile work in progress che ne riconfermava impianto e obiettivi, mirati prevalentemente alla ricostruzione per immagini del quadro storico (ciò che portava anche ad arbitrari tagli delle riprese originali, come nel caso di Primoli) ma con precisazioni e notazioni critiche che risultano oggi, e per ragioni diverse, sorprendenti. Mi riferisco al giudizio sprezzante riservato a “Jacopo Caneva (…) questo pittore (…) che ha fornito risultati senza rilievo anche colla camera oscura”, a cui preferiva gli anonimi calotipisti che “per nobiltà di taglio e capacità evocativa dell’ambiente si lasciano indietro di molte lunghezze il paesaggista veneto”[94] o – per converso – al precoce riconoscimento dell’opera di Giuseppe Primoli, che per lo studioso costituiva “la più vistosa eccezione [alla] scarsa vocazione locale per l’istantanea”, rendendolo “l’unico fotografo di alto livello che abbia mai avuto Roma”[95]. Un giudizio che appariva in lampante contraddizione con l’opinione, ribadita nelle stesse pagine, che “l’epoca dei mezzi e delle attrezzature rudimentali fosse anche l’epoca d’oro della camera oscura”; una valutazione critica che certo avrà pesato sulla successiva scelta di Vitali di accogliere il suggerimento di Giulio Bollati per aprire proprio con il volume dedicato a Primoli la sua collaborazione su temi fotografici con Einaudi, maturata negli stessi mesi in cui Lucilla Negro stava tentando di portare a termine il lavoro di riordino dell’archivio della Fondazione Primoli[96], interrotto nel 1959 dalla morte del marito. La pubblicazione dell’Album riscosse notevole successo così  sui quotidiani come sulla stampa specializzata e il “Corriere Fotografico” gli dedicò un’ampia recensione, riproducendo ben otto fotografie, la metà essendo di Giuseppe Primoli, e segnalando come “il pittoresco quadro della vita di Roma”[97] che ne risultava oltre a costituire una “eloquente documentazione dei fasti e più ancora dei nefasti della trasformazione urbanistica subìta dalla Città Eterna dopo il 1870” fosse integrato dalle precise indicazioni descrittive a proposito di ciascuna delle immagini pubblicate[98].  Era anche quello il segno della diffusione, per quanto embrionale, di un fenomeno culturale che all’interesse per la fotografia storica e per la storia della fotografia  come parte della storia di una città affiancava una consapevolezza nuova, che  ne riconosceva il valore autonomo di formazione culturale, tanto che la necessità di una precisa coscienza e conoscenza storica dei fatti e delle culture fotografiche era in quegli anni fortemente sentita anche dai fotografi più attenti: si pensi al programma di iniziative del Centro per la cultura nella fotografia di Fermo, voluto da Luigi Crocenzi  nel 1954 ma attivo dal  1956, che tra le “sezioni di studio” comprendeva “Storia della fotografia” e “studi storici”, ma anche “Letteratura e fotografia”, “Cinema e fotografia” e “Fotografia e arti figurative”[99]; il tutto destinato a favorire lo “studio approfondito della storia delle idee e delle poetiche che hanno condizionato la creazione di opere che sarebbe opportuno studiare per comprenderne i valori e per acquisirle come ‘classici’ della fotografia.”[100]

Ancora Lamberto Vitali

 

Il ruolo pionieristico svolto da Vitali[101] per il riconoscimento e la valorizzazione del patrimonio fotografico storico italiano divenne ancor più rilevante quando,  nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957, promosse la mostra dedicata a  Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[102] a  soli due anni dalla pubblicazione di The History of Photography[103],  anche  con la speranza di poter creare in città un Museo nazionale della fotografia presso la stessa sede[104].  Nella Prefazione al catalogo i coniugi Gernsheim riconoscevano criticamente un nesso significativo tra il nostro neorealismo e la storia della fotografia, ricordando come “negli ultimi anni la fotografia e la cinematografia italiane hanno riportato il mondo a una interpretazione realistica della vita, lontana dalle romanticherie e dalla finzione. In ciò può essere visto un ritorno alla documentazione onesta e immediata della metà dell’Ottocento che ebbe una breve rinascita nei reportages [sic] di alcuni fotografi tedeschi, francesi ed americani fra il 1920 e il 1940”[105]. Si auguravano perciò che l’iniziativa potesse servire anche a promuovere la conoscenza della storia della fotografia italiana, di cui citavano quale unico antecedente di rilievo la mostra romana del 1953[106], esponendo comunque alcuni esemplari di autori attivi in Italia nel corso del XIX secolo tratti dalla loro collezione: James Anderson, Luigi Bardi (ma Leopoldo Alinari), Robert Macpherson[107], Antonio Perini, Carlo Ponti e un “Ignoto” napoletano attivo intorno al 1865, accanto a alcune tavole della monumentale opera dedicata alla Basilica di San Marco dall’editore Ferdinando Ongania[108].

Accanto a questi comparivano gli autori compresi nell’inedita sezione dedicata alla Antica fotografia italiana curata da Vitali, “precoce conoscitore del patrimonio culturale della fotografia”[109] nel nostro paese, formata da circa ottanta fototipi provenienti da musei e collezioni private (Marino Parenti e Silvio Negro tra gli altri).  L’occasione e il momento consentirono di delineare in prima approssimazione le caratteristiche di una storia della fotografia liberata da ogni vincolo referenziale, fondata sulla “minuziosa competenza e il rigore critico” del curatore quanto sulla consapevolezza che “la storia della fotografia italiana ancora deve essere scritta, né essa potrà esserlo se non quando saranno compiute quelle ricerche, che il passare del tempo e la dispersione e la distruzione di un materiale fragile e apparentemente di poco conto rendono purtroppo sempre più difficili.”[110] Nonostante questi dichiarati limiti conoscitivi, Vitali ritenne di poter esprimere un giudizio severo a proposito della vicenda italiana, che “non ebbe operatori dalla personalità, per esempio, dello stesso Hill o di Nadar (…) anche se in Italia si ripeté la vicenda di pittori scoraggiati (il Faruffini) o falliti (il Caneva), che nella fotografia cercarono una fonte di guadagno più sicuro, bisogna riconoscere che si trattò essenzialmente di un artigianato, che tuttavia diede frutti assai saporiti.” Il testo proseguiva specificando le  motivazioni non tanto dell’iniziativa in sé (“doverosa appendice alla mostra della collezione Gernsheim”) quanto dell’impostazione e della selezione delle opere, certo condizionate dalle conoscenze e dalle disponibilità di collezioni pubbliche e private ma anche dalla capacità di individuare criticamente alcuni punti nodali di quella storia: “È naturale che in un Paese come il nostro, ricco di testimonianze preziose dell’antica arte, i professionisti (…) si dedicassero soprattutto, anche per ragioni di opportunità commerciale, alla documentazione di monumenti e opere d’arte [realizzando] serie notevolissime, oggi doppiamente preziose per le trasformazioni rabbiose subite dalle città italiane nel corso degli ultimi cent’anni. Naturalmente questa non fu la sola attività dei fotografi nostrani, non tutti professionisti (…) Accanto alla fotografia di paesaggi e di architetture, prosperò quella di ritratti, forse aiutata dagli entusiasmi per la riconquistata unità e per i suoi eroi (…). Ma accanto a vedute di città (…)  si è voluto attirare l’attenzione su quelli che si possono definire gli incunaboli del reportage fotografico. In una civiltà come la nostra, nella quale l’elemento visivo acquista ogni giorno più peso, anche se a scapito di ben altri valori, simili esempi, oltre alla loro importanza di documenti storici, acquistano un particolare sapore.  Ed il giorno, che speriamo non lontano, in cui la personalità dei fratelli conti Primoli, Giuseppe e Luigi, ma soprattutto di Giuseppe troverà il suo illustratore, ci si accorgerà quale ‘poeta della vita del popolo’ e quale ‘avvertitissimo fotografo giornalista’  – per ripetere le parole di Silvio Negro – fosse quest’ultimo: il fotografo forse più originale e più vivo che in cent’anni abbia dato l’Italia, certo quello più vicino al nostro gusto.” [111]

Un augurio che assume, letto oggi, il senso di un auspicio e di una promessa e che rendeva ragione delle molte immagini di tema risorgimentale e delle ricchissime sequenze (circa settanta fotografie) che componevano i reportage di Primoli, cui Vitali avrebbe dedicato la prima importante monografia nel 1968[112]. Questo brevissimo testo, che si riallacciava idealmente sin dal titolo (Antica fotografia italiana) al contributo del 1936,  non poteva né voleva essere quella prima sintesi storiografica (delineata semmai dagli esemplari in mostra) di cui si sentiva ormai l’esigenza e che invece prese forma più articolata, per quanto ancora necessariamente sintetica nel testo redatto dallo stesso Vitali[113]  per l’edizione italiana di The Picture History of Photography di Peter Pollack [114], tradotta tempestivamente  da Garzanti sulla scia del successo della mostra alla XI Triennale. Una grande opera di oltre 600 pagine, dedicata “a Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim”, strutturata in modo molto discutibile[115] sulla presentazione di un ristretto numero di “grandi autori” considerati quali figure emblematiche e qui arricchita di un capitolo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, ricco di quarantasette riproduzioni in parte corrispondenti a quelle già utilizzate nel 1957. Qui lo studioso milanese ribadiva la propria interpretazione della “storia della fotografia italiana dell’Ottocento (…) soprattutto [come] la storia di un artigianato anziché quella di singoli artisti (…) Si aggiunga che in Italia il campo d’azione era in un certo senso già segnato e delimitato (…) così i fotografi ebbero la maggior fonte di guadagno proprio dai fogli di vedute e dalla riproduzione di opere d’arte (…) Ma si trattava di un compito che richiedeva una precisione obiettiva e scrupolosa senza permettere quasi un’interpretazione personale della realtà.” Nel tracciare il profilo delle vicende italiane inevitabili emergevano i debiti, e quindi i limiti di una ricostruzione ancora prevalentemente fondata su una rete di rapporti personali tra collezionisti[116], sebbene il quadro che ne risultava considerasse ormai – e per la prima volta – tutto il territorio nazionale: così tra le più antiche testimonianze comparivano  Duroni e Stefano Stampa a Milano accanto ai dagherrotipi di Girault de Prangey (in collezione Gernsheim, di cui non pubblicava alcuna immagine); Giacomo Caneva, lo pseudo Augusto Agricola[117] e il vero Luigi Sacchi “un altro dei nomi che compare con onore fra i primitivi della fotografia italiana [che] ha lasciato una serie di grandissime fotografie (…) che sono fra le più belle che si conoscano, e perché è suo uno dei più vecchi nostri esempi di reportage fotografico, quello del ponte di Magenta dopo la battaglia del 1859.” Per i decenni successivi la ricostruzione storiografica adottava la ben nota distinzione tra “regolari”, tra i quali collocava i professionisti stranieri attivi in Italia, e “irregolari”, cioè “i dilettanti, non legati ad una formula destinata a rivelare presto la sua meccanica uniformità [che] ebbero certamente un’idea della fotografia che si avvicina alla nostra quando colsero aspetti apparentemente minori della vita del loro tempo con una schiettezza e talvolta un’audacia di visione e di tagli sconosciute ai professionisti.”[118] Che il giudizio fosse quello del critico piuttosto che dello storico lo rivelava  proprio  il richiamo a una sensibilità riconosciuta come moderna[119], quella stessa che gli faceva privilegiare la linea documentaristica del reportage che a partire da Lecchi conduceva a Giuseppe Primoli, “un uomo che nessuno aveva preso sul serio e che tutt’al più era tenuto con compatimento per maniaco”, a proposito del quale Vitali riproponeva letteralmente il giudizio encomiastico già espresso nel 1957. Quella posizione critica non poteva che implicare il rifiuto della “cosiddetta fotografia artistica”, tenuta ben distinta dalla fotografia dei pittori, a cui per primo aveva dedicato le sue cure col breve saggio su Faruffini del 1935 e qui ripresa a proposito dei rapporti tra De Gori e Signorini. L’avversione al pittorialismo e alla sua genealogia (analoga, credo, a quella per la pittura accademica e di storia), quella stessa che lo aveva portato nel 1957 a chiedere ai  Gernsheim  – senza successo – di escludere la Cameron ed Emerson dalla selezione per l’XI Triennale, individuava nei “nuovi procedimenti di stampa e [nella] pratica del detestabile ritocco” le caratteristiche principali di quella “disgraziata tendenza, che aveva tutti i favori dei sedicenti competenti, tanto la maniera dei ‘primitivi’ sembrava superata; gli esempi qui riprodotti del milanese Giovanni Battista Silo [ma  H.P. Robinson[120]] e del piemontese Guido Rey (…) mostrano come ormai si fosse lontani dalle nettezze del dagherrotipo e dalle mediocri virtù della carte de visite, e quale eredità in questo clima provinciale si andasse preparando ai fotografi del secolo successivo.” Un giudizio che confermava la condivisione delle posizione critiche moderniste ancora a trent’anni di distanza[121], ma che contemporaneamente si distanziava e quasi si contrapponeva a quello di Heinrich Schwarz, a cui come sappiamo Vitali aveva guardato con grande interesse, che nella mostra da lui curata nel 1928, Die Kunst in der Photographie, aveva tracciato una genealogia che comprendeva anche Robinson. Oggi, quando a partire anche dal magistero di Vitali le nostre competenze storiche si sono fatte più ampie e strutturate, oltre a comprendere meglio quella sua avversione contestualizzandola, potremmo forse tornare a condividere in parte quel giudizio, ma per altre ragioni. Ora siamo consapevoli che la breve stagione pittorialista (e non la sua lunga, lentissima agonia salonistica e concorsuale, che ha avuto altre ragioni e significati) costituì uno snodo fondamentale per la formazione di una specifica cultura e produsse opere anche di altissimo livello, a cui corrispose però una sconfortante riflessione estetica, fatta di poco consapevole riproposizione di riflessioni, tesi e argomenti già ampiamente presenti negli anni intorno alla metà del XIX secolo e ormai consunti. Senza aggiungere elementi veramente significativi, senza sentirsi addosso l’alito incombente della tragedia e poi della modernità.

Per Vitali il 1960 fu l’anno de La fotografia e i pittori, pubblicato in estratto nella Biblioteca degli Eruditi e dei Bibliofili di Sansoni[122], anello cronologico di congiunzione tra quella Fotografia italiana dell’Ottocento compresa nella Storia di Pollack e la trilogia einaudiana. A partire dalle ricerche svolte per la pubblicazione del Diario di Delacroix[123], Vitali riprendeva – pur nella brevità del testo – alcuni temi già affrontati nel primo saggio dedicato a Faruffini  per illustrare la funzione di ‘regista’ svolta da Telemaco Signorini nella realizzazione delle fotografie di Giulio de Gori e, più in generale, l’interesse anche strumentale dell’artista nei confronti della fotografia[124]. Nella lettura critica di questo breve intervento Paolo Costantini avrebbe poi riconosciuto il “ritorno a una questione grande, calata tutta nell’analisi del documento (…) Qui, ancora una volta, Vitali dimostra la volontà di rimanere vicino e aderente all’opera e insieme di muoversi con sicurezza in un terreno affatto indagato, intorno al quale non esisteva alcun comune consenso su cosa significasse fare critica, né su cosa si volesse prendere a oggetto di storia.”[125] Notazione affettuosa ma anche eccessivamente generosa, poiché se era vero che quei temi e quelle posizioni critiche erano ancora tabù per molta critica d’arte non solo nostrana, va ricordato che l’argomento era stato da poco affrontato da Jean Adhémar in una mostra da lui curata per il Cabinet des Estampes della Bibliothèque Nationale di Parigi, in cui veniva per la prima volta presentato “un insieme di opere molto varie, di epoche molto diverse che fa emergere i legami, le connessioni e le opposizioni fra la fotografia e la pittura”[126] e che sempre nel 1955 era comparso sulle pagine di “Fotografia” un articolo di Heinrich Schwarz[127] nel quale si sintetizzavano i contenuti di un suo importante intervento sui rapporti tra arte e fotografia[128]. Il tema sarebbe stato ripreso poco dopo in una lunga, importante intervista di Piero Racanicchi a Carlo Ludovico Ragghianti[129], al quale si doveva anche la riscoperta delle fotodinamiche dei Bragaglia, dovuta al fortuito ritrovamento nel catalogo della libreria antiquaria torinese Bottega d’Erasmo del numero de “La Fotografia Artistica” del maggio 1913 che ospitava l’articolo di Edoardo di Sambuy loro dedicato[130], da lui ampiamente chiosato nel proprio saggio per “sele arte”[131]; una fonte allora insostituibile essendo quasi “impossibile venire in possesso [dell’] introvabilissimo” volume originale di Fotodinamismo futurista prima della sua riedizione[132].

 

 

1967-1978

 

 

Il posto dell’Italia nelle storie generali

 

Il 1960 fu l’anno in cui venne dato alle stampe il primo tentativo italiano (quasi dimenticato) di redigere una ‘storia’ della fotografia di tipo manualistico o almeno, come modestamente ammetteva l’autore, un suo “facile compendio”. La Società Editrice Internazionale di Torino, di proprietà della Congregazione Salesiana, con forte indirizzo pedagogico e scolastico, pubblicava Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie, fotografo ben noto almeno in Piemonte e più in generale in ambito religioso per essere stato il secondo in ordine di tempo a riprendere ufficialmente la Sindone in quello stesso 1931 in cui partecipava con alcune sue interessanti opere all’edizione torinese della Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista[133]. Quel testo, per il quale non ci sentiamo di condividere il giudizio di Zannier che lo ha considerato un “rigoroso manuale”[134], era caratterizzato da una narrazione prevalentemente tecnico aneddotica, forse redatta per larga parte ben prima della sua pubblicazione come sembrava suggerire la sistematica italianizzazione dei nomi stranieri e la mancata citazione di Pollack  tra “gli autori stranieri che lo precedettero”, ai quali rendeva omaggio pur con qualche refuso e qualche dimenticanza: “al grande storico della fotografia Joseph Maria Eder, al Potonnié, a Raymond Lecuyer, a Erich Stenger, al Newhall, al Gernsheim ed agli italiani Gioppi, Bettini, Santoponte, Rodolfo Namias, Enrico Unterveger ed altri, dai cui scritti raccolsi come l’ape dai molti fiori.”  Questi, di fatto, i soli nomi italiani citati nel compendio, che non comprendeva Vitali né Negro, mentre l’apparato illustrativo presentava opere di Alinari e di un buon numero di ritrattisti (Sorgato, Brogi, Schemboche, D’Alessandri, Bernieri, Bolletti e Verri, Montabone, Sebastianutti & Benque, Ecclesia) ma riproducendo solo il verso delle carte de visite: indizio certo di un embrione di collezionismo. Accanto a questi autori ottocenteschi comparivano due delle opere presentate alla Mostra Futurista, comprese nel capitolo dedicato a Trucchi e fotomontaggi, e una piccola antologia di immagini di Sella, Rey, Massaglia, Sommariva, Bertoglio, Bricarelli, Peretti Griva e del fratello Angelo Enrie, prevalentemente tratte (ma senza dichiararne l’origine) dalle pagine degli annuari “Luci ed Ombre”[135] editi tra il 1923 e il 1934. Nonostante questi limiti l’opera presentava più di un motivo di interesse quali la conferma ‘poetica’ della distinzione tra dagherrotipia e fotografia[136]; l’accenno a temi di sociologia della fotografia quali la diffusione delle carte de visite;  le pratiche fotomeccaniche ed anche i rapporti fra fotografia e letteratura. Certo non era, e non voleva essere “uno storico trattato”, di cui non possedeva né l’impostazione né la cura filologica nella presentazione dei materiali e delle opere, ma certamente era l’indizio, anche editoriale, di una prima considerazione per questi temi in un ambito diverso da quello  del pubblico colto e del collezionismo erudito. Un’opera per certi versi da collocare accanto a un’iniziativa di tutt’altro genere e risonanza (e chissà se maggiore) come la pubblicazione nel 1966 delle sei figurine Liebig dedicate alla Storia della Fotografia (La camera oscura; Gli esperimenti del dottor Schultze; Le Eliografie di Nicéphore Niépce; La stereoscopia; Una preziosa alleata del giornalismo; Le più recenti conquiste)[137], mentre sulle pagine del “Notiziario” del Museo nazionale del Cinema di Torino Maria Adriana Prolo avviava la pubblicazione di fonti per la storia della fotografia italiana, sistematizzando notizie e dati raccolti in un quarto di secolo di amorevoli ricerche sulla storia del cinema muto italiano[138].

 

Anche la traduzione italiana di A Concise History of Photography[139] dei coniugi Gernsheim venne pubblicata nel 1966 da Adelphi sotto il marchio Frassinelli; il volume conservava l’impostazione dell’opera maggiore, suddivisa in due  parti ancora poco integrate tra loro: “L’evoluzione tecnica della fotografia” e “I risultati artistici della fotografia”. Intenzione evidente era quella di superare i modelli storiografici di impianto tecnologico senza spingersi però sino a proporre una autonoma  storia delle immagini e dei loro usi, articolata per problemi, come aveva iniziato a fare Newhall. Quale fosse la ‘posizione’ dei curatori  rispetto al fare storia risultava esplicitamente da un’intervista raccolta da Angelo Schwarz nel 1977 nella quale il grande collezionista affermava  con orgoglio di  non essere “stato guidato da una metodologia storica, assolutamente, non ne avevo bisogno. Quando uno ha tra le mani cento immagini della Cameron o i famosi tre album di Lewis Carrol, ha tra le mani la vita.”[140]  Per Ando Gilardi quell’opera era “largamente derivata da quella meravigliosa di Eder (…). Di originale, nel libro dei Gernsheim, si trova specialmente quanto può essere vantaggioso per accrescere la loro collezione di fossili e cimeli della fotografia, non solo in quanto tali, ovvero oggetti curiosi, ma opere d’arte: la qual cosa accade inevitabilmente quando i ruderi sono delle immagini.”[141] Sebbene – come in Newhall – si potessero riscontrare  un’eccessiva propensione per la produzione anglosassone[142] e  certe posizioni critiche oggi discutibili come la condanna assoluta del fenomeno pittorialista, il ruolo svolto dall’opera dei Gernsheim è stato rilevante specialmente nei confronti del panorama italiano essendo rimasta per almeno un ventennio, sino alla traduzione einaudiana di quella di Newhall,  l’opera più nota in Italia. Dopo la mostra milanese del 1957 e il volume di Pollack la storia della fotografia italiana si era conquistato un piccolo spazio nella narrazione generale delle sue vicende, ma nella Storia dei coniugi Gernsheim non si faceva che un cenno indiretto all’utilizzazione del dagherrotipo nell’ambito della ritrattistica[143], mentre più ampi erano i riferimenti alla documentazione architettonica: venivano ricordate le riprese italiane di  Girault de Prangey e quelle realizzate per Alexander John Ellis da Achille Morelli e Lorenzo Suscipi, considerati autori delle “più antiche fotografie d’Italia giunte sino a noi”, e soprattutto la meraviglia di John Ruskin a Venezia, di cui si citavano ampi stralci della nota lettera al padre.[144] Ancora all’ambito della documentazione del patrimonio storico erano riferibili gli altri autori attivi in Italia citati nel volume: da Eugène Piot a Robert MacPherson[145], segnalato come “uno dei più importanti fotografi di architetture del diciannovesimo secolo”, mentre il solo “che poteva reggere il confronto” con questi era ritenuto James Anderson, non a caso ben rappresentato nella collezione dell’autore[146]. Brevi citazioni erano riservate anche a Luigi Sacchi, Antonio Perini, Carlo Ponti e naturalmente agli Alinari, sciogliendo implicitamente l’equivoco attributivo della mostra del 1957, determinato dal fatto che “tutte le loro fotografie più antiche e più belle del 1854-1855 (…) portano stampigliato il nome di Bardi, cosa questa che portò naturalmente ad attribuirle a lui.” A questi si aggiungevano Giacomo Caneva, membro del “piccolo circolo di fotografi animato dal conte Flacheron”, Vittorio Sella col padre Giuseppe [Venanzio], “autore tra l’altro, del primo manuale generale di fotografia pubblicato in Italia”. Di Giuseppe Primoli si proponeva invece un interessante accostamento a Jacques Henri Lartigue (poi accolto anche da Daniela Palazzoli nella sua monografia del 1979), entrambi compresi da Gernsheim nel novero di quelle centinaia di “fotografi dilettanti, totalmente indifferenti alle esposizioni e alle accademie, [che] si servirono della macchina fotografica per istinto come del mezzo più appropriato per rappresentare i vari aspetti della vita in modo diretto e obiettivo, senza sentire il bisogno di manifesti che illustrassero le finalità ultime della fotografia.”

Alle tempestive traduzioni dei volumi di Pollack e  Gernsheim  fecero  seguito le prime proposte sistematiche di una nuova generazione di autori italiani, a volte fotografi essi stessi come Ando Gilardi e Italo  Zannier, o Renzo Chini, che nel discutere questioni di linguaggio fotografico[147] forniva anche alcuni elementi di storia. In ambito fotografico Chini  fu tra i primi in Italia a confrontarsi con le posizioni di Roland Barthes, da poco tradotto, in un contributo compreso nel sessantunesimo fascicolo monografico de “I problemi di Ulisse”, dedicato a Cento anni di fotografia[148], pubblicato nel novembre del 1967 in occasione del ventennale del periodico.  Le ragioni della pubblicazione erano indicate nella premessa di Maria Luisa Astaldi, che riconosceva alla fotografia il ruolo di “progenitrice e base di ogni tipo di riproduzione, che ormai si estende dal giornale e dal libro al cinema e alla televisione”, ma anche “in considerazione del fatto che ricorrono oggi cento anni dacché fu scoperta”; affermazione di per sé incomprensibile e contraddetta dalla stessa precisa Cronologia essenziale posta in appendice al fascicolo. Prescindendo da questo, l’insieme dei brevi saggi costituiva certamente il primo autorevole contributo italiano a una riflessione complessiva sul ruolo della fotografia nella società e nella cultura contemporanee, sino ad allora oggetto di scarsi e scarni interventi giornalistici, qui affidato a intellettuali di grande levatura: da Mario Praz a Cesare Brandi, Gillo Dorfles, Emilio Servadio, Mario Spinella ed altri. Nel generale intento di considerare i diversi aspetti del fenomeno risiedeva forse la ragione della scarsa e un poco eccentrica presenza di studiosi provenienti dall’area fotografica vera e propria (Chini, Ando Gilardi, Piero Berengo Gardin)[149] e l’altrettanto ridotta presenza di storici italiani: assenti Negro e Vitali come i più giovani Bertelli, Racanicchi o Zannier, il saggio di apertura venne affidato proprio a Gernsheim, seguito da un contributo di Jean Keim, entrambi però circoscritti al tema delle possibilità artistiche della fotografia[150]. Le questioni storiche e storiografiche risultavano quindi nominalmente assenti da quella ricognizione ad ampio raggio, sebbene ampi e significativi riferimenti e riflessioni fossero comprese nella maggior parte dei saggi ed Emilio Servadio, all’epoca presidente della Società Psicoanalitica Italiana, affrontasse i comportamenti di chi fotografa[151] a partire dalle analogie utilizzate da Freud ne L’Interpretazione dei sogni; quelle stesse a cui avrebbe fatto ricorso circa dieci anni più tardi Giulio Bollati a proposito di “fotografia e storia”[152].

Si doveva invece a un “bravo giornalista e cronista di nera” come Wladimiro Settimelli – così lo avrebbe un poco velenosamente definito Angelo Schwarz  – la Storia avventurosa della fotografia[153] pubblicata nel 1969 con un anno di ritardo rispetto ai programmi editoriali.  L’autore ne  proponeva una ricostruzione dichiaratamente soggettiva e parziale, con esplicita esclusione delle vicende italiane per le quali riteneva “necessario un ulteriore lavoro  di ricerca”; ciò che avrebbe dato i suoi  discutibili frutti alcuni anni dopo. Il lavoro, costruito avendo in mente il “modello di letteratura popolare: il feuilleton”[154], assunse l’andamento di una sequenza di avvenimenti piuttosto che di immagini, adottando il tono e i titoli propri dei rotocalchi “popolari” (“Daguerre il furbo scende per le strade”, “Carta all’albume: una strage di uova”, per citarne alcuni) nella convinzione – errata – di essere utilmente provocatorio e didascalico; volendo proporsi come popolare ma essendo invece populista, inanellando perciò una serie ininterrotta di colpi di scena che toglievano interesse anche alle parti più ricche ed innovative, quali il capitolo dedicato a “Guerra – Rivoluzioni e repressioni”, certamente una novità importante nell’ambito della storiografia disponibile in Italia. Quella Storia avventurosa  fu il solo riferimento bibliografico italiano citato da Zannier (1974) nel dare alle stampe una versione notevolmente ampliata della sua Breve storia della fotografia del 1962,  che era stata il suo primo contributo storiografico in volume. La  versione ampliata  confermava una definizione del mezzo  quale “prodotto di due diverse esperienze scientifiche, l’una nel settore dell’ottica (…) l’altra in quello della chimica”, che avevano consentito alla luce di “disegnare” “l’apparenza delle cose”. Adottando un andamento cronologico che riprendeva il modello di Newhall, Zannier procedeva per temi caratterizzanti (“Nasce un’industria” ma anche – più interessante – “Nasce un linguaggio”) secondo una trama evoluzionistica che si svolgeva senza soluzioni di continuità dalla “Preistoria” alla “Panoramica contemporanea”, a partire dalla considerazione fondamentale che “la fotografia, con tutte le prerogative che questo linguaggio ha nella civiltà contemporanea, nasce in definitiva con Talbot.”  Scorrendo quelle pagine si comprendeva bene come i sintetici cenni alle vicende italiane non potevano ancora essere l’esito di fondate considerazioni storico critiche ma, più empiricamente, il frutto di una insufficiente conoscenza generale del patrimonio fotografico complessivo e delle relative fonti primarie, surrogato dal ricorso sistematico a informazioni ricavate dalle poche storie generali allora disponibili (Lécuyer, Newhall, Gernsheim, Pollack, l’edizione americana di Eder), senza ricorrere agli studi di Unterveger o  di Negro, pur brevemente richiamati nel testo. Così Alessandro Duroni risultava il solo dagherrotipista citato e poco più che elencate erano le “oleografiche astrazioni architettoniche” di Alinari e Brogi o le “romantiche vedute romane” di MacPherson e di Anderson, già molto apprezzate da Gernsheim. Escludendo Primoli, trattato sulla scorta degli interventi di Piero Racanicchi e della recente monografia di Vitali, il resto si riduceva a poco più che un’elencazioni di nomi, determinando accostamenti che apparivano motivati da superficiali analogie formali, come nel caso di Faruffini, Rey e Peretti Griva, mentre uno spazio ampio era dedicato alla fotografia futurista: dai Bragaglia al Manifesto di Marinetti e Tato, pubblicato integralmente, dimostrando una per noi rara considerazione per l’edizione delle fonti.

Ancor meno fortuna ebbero le vicende nostrane in un’altra Breve storia, quella di Jean-Alphonse Keim[155], che citava solo di sfuggita pochissimi nomi,  tra i quali il solito Anton Giulio Bragaglia, presentato come “fotografo [che] tenta talvolta di servirsi dello sfocato [sic] per ottenere un effetto di velocità.”  Quando venne pubblicata la traduzione della sua Histoire, Keim era noto da noi per la sua collaborazione a “I problemi di Ulisse”[156] e per la pubblicazione di un interessante contributo sulle pagine di “Popular Photography Italiana” in cui aveva posto, seppure in modo necessariamente poco articolato, alcune questioni nodali e inedite per il panorama italiano: “Che cosa si deve intendere con ‘storia della fotografia’? E come affrontarne un’elaborazione? (…) Due appunti si impongono immediatamente, che paiono evidenti agli storici di mestiere, ma che spesso sono stati dimenticati da autori di diversa formazione. Comunque si affronti la storia della fotografia, essa si è sviluppata nel quadro della storia generale, della quale fa parte pur se essa ne viene molto spesso esclusa. Essa non può dunque venir studiata utilmente che posta nel contesto del momento, dei movimenti politici, economici e sociali dell’epoca.” [157]

Considerazioni indiscutibili ma di fatto prive di conseguenze visibili in quella Breve storia, arricchita da un’appendice sulla fotografia italiana firmata da Settimelli con una soluzione analoga a quella adottata per il volume di Pollack di quasi vent’anni prima. Il testo, redatto in origine per una collana di divulgazione, apriva infatti con questa imbarazzante definizione: “La fotografia è essenzialmente un’immagine del mondo ottenuta senza che l’uomo vi svolga un’azione diretta” e chiudeva coerentemente (cento pagine dopo) ricordando che “la fotografia si è allargata: non vi è più soltanto la luce a riprodurre il reale. I raggi fuori dallo spettro visivo (…) impressionano nuove superfici sensibili.”[158] Nel mezzo, una narrazione per schemi canonici (dalla preistoria al colore) che ricalcava la struttura utilizzata da Gernsheim, adottandone a volte anche i titoli di capitolo o di paragrafo, e forniva una sintetica sequenza di figure e vicende da cui era escluso non solo ogni riferimento più che generico “alla storia generale” ma anche qualsivoglia presa di posizione critica da parte dell’autore, che tendeva così ad oggettivare il contenuto del proprio discorso.

Di ben diversa impostazione e impegno la Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi[159] che Feltrinelli pubblicava nel 1976, della quale merita richiamare l’impatto che ebbe sulla cultura fotografica italiana, sebbene proprio le sue caratteristiche critiche e narrative (strutturali e testuali) la rendessero un prodotto culturale difficile da ‘maneggiare’, cioè da considerare e utilizzare secondo le consuete convenzioni della storiografia[160].   Il volume costituiva lo sviluppo e la sistematizzazione di ricerche già comparse  su alcune riviste italiane come “Ferrania”, “Popular Photography Italiana” e in particolare “ Photo 13” ma – come ha ricordato l’autore nella premessa alla seconda edizione (2000)  – l’opera venne scritta “nell’estate del 1976, pressato dall’Editore (…) appena in tempo per essere pubblicata come libro strenna per il Natale. Questo significò che non ebbi il tempo per modificarne due o tre volte la forma della scrittura, com’era mia nevrotica abitudine[161]. Com’era perché oggi so con assoluta certezza che quando viene riveduta e corretta la forma peggiora.”  Pochi allora si accorsero che la sua copertina costituiva un’immagine a chiave e non una semplice figura antologica, essendo una citazione di quella del n. 140 di “Popular Photography Italiana” (maggio 1969), il più gilardiano dei numeri di quel periodico,  dedicato al Calendimaggio della fotografia e al Primo Incontro Nazionale di Fotografia che si era tenuto a Verbania dal 31 maggio al 2 giugno di quello stesso anno[162]. Una inequivocabile scelta militante quindi; una presa di posizione fondata su di un assunto critico determinante e innovativo, e non solo per l’asfittico panorama italiano dell’epoca: “La fotografia (…) ha un secolo e mezzo, ma con essa da tempo si producono in un giorno qualunque più immagini di quante non ne sono state realizzate con tutti gli altri mezzi nella storia dell’uomo”; per questo la fotografia doveva essere considerata “l’ultimo dei procedimenti per fabbricare figure, il quale aggiunge alle proprie le possibilità di tutti gli altri”. Si trattava allora di affrontare le questioni poste dalla fotografia in quanto fenomeno di massa, considerandone gli aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi per insistere sulla comunicazione piuttosto che sulla produzione, abbandonando di fatto ogni prospettiva autoriale e estetica -ma anche linguistica – per affrontare piuttosto i nodi inestricabili che avevano legato storicamente produzione e consumo di questa “polvere iconica indistinta” determinata dalla moltiplicazione fotomeccanica di cui lo stesso Gilardi fu appassionato cuoco bulimico. Posizione non inedita, anzi patrimonio comune di molta cultura di secondo Ottocento, riconoscibile in molte voci enciclopediche o negli scritti di autori quali Paolo Mantegazza e Domenico Vallino[163] per limitarsi all’Italia, ma qui declinata avendo ben presenti Mac Luhan (“la galassia Niépce”) e Benjamin, a cui dedicava una bella voce del Dizionario in appendice al volume (“Linke Melancholie”). Accanto a questi numi tutelari si poteva riconoscere qualcosa di più che una traccia, una consonanza politica e culturale neppure troppo sotterranea con l’antiautoritarismo del decennio che si stava amaramente chiudendo. L’attenzione per l’iconografia delle figure sociali e culturali marginali (per la cultura, non solo materiale delle classi popolari) ed emarginate (dal delinquente lombrosiano all’alienato) si legava alle riflessioni filosofiche e politiche nate dal lavoro sulle istituzioni totali (da Basaglia a Goffmann, Laing e Foucault) nell’interpretare quelle immagini e le pratiche da cui derivavano come espressione di una società classista che intendeva la fotografia anche come strumento di controllo sociale.  Secondo quella interpretazione i processi fotomeccanici, e non la fotografia in quanto tale (come voleva il titolo) costituirono l’esito di un processo (per Gilardi un progresso) di affinamento delle tecniche di moltiplicazione dell’immagine che aveva portato  alla comunicazione di massa.

Anche la struttura del testo risultava innovativa, con andamento tematico più che cronologico, dove il titolo di ciascun capitolo costituiva – come in Settimelli – una sintesi icastica del contenuto (“Quell’industria sognata da Niépce poi chiamata la fotomeccanica”; “Il foto ritratto: dall’atelier alla galera, dallo schedario al computer”) strutturato su tre narrazioni parallele (testo/ immagini/ ampie didascalie), che fornivano suggestioni e percorsi di lettura poco praticati allora e dopo. Si veda a titolo di esempio l’analisi della serie di Figurine Liebig già ricordate, corredate da una nota che mettendo a confronto disegno, fotografia e fotoincisione costituiva a sua volta una sineddoche dell’intero impianto storiografico. Il solo dato mancante in quella lunga, virtuosistica didascalia era proprio la data di emissione (1966), e anche questa assenza costituiva un elemento caratterizzante del lavoro di Gilardi. Non che le date fossero sistematicamente assenti, né che si potesse sostenere che solo sul loro trattamento si dovesse fondare la valutazione di quell’opera, ma questa lacuna era significativa e più che interessante. Ciò che mancava clamorosamente a quella Storia era proprio un metodo storico ovvero, ancor più semplicemente, l’adesione minima alle regole della correttezza delle informazioni fattuali e della verificabilità delle fonti mediata dalla citazione archivistica o bibliografica. Adottando la distinzione semantica della lingua inglese potremmo dire che qui si trattava di Story e non di History; quello che veniva proposto  era un racconto fortemente personalizzato, una narrazione pura (ma non arbitraria né – quasi mai – d’invenzione)[164]. Riprendendo una sua stessa, recente definizione (cui si sarebbe di certo fieramente opposto) potremmo dire che Gilardi è stato un caso tipico di “storico borghese (…) uno scrittore che scrive romanzi, ma crede o vuol far credere di essere uno scienziato”[165]. Il suo interesse prevalente era rivolto ai processi e agli ambiti, agli uomini di scienza e di varia cultura, meno ai fotografi; poiché le immagini citate (e poveramente riprodotte) erano da intendersi come esempi  e tipi e non come realizzazioni emblematiche: da qui il disinteresse quasi assoluto per i loro autori.  Era proprio nel continuo richiamo al ruolo centrale delle tecniche, in particolare quelle fotomeccaniche, alla sociologia dell’industrializzazione dell’immagine in termini di produzione e, in misura minore, di ricezione che risiedevano la novità e  l’interesse di quel lavoro, accanto alla considerazione, allora altrettanto inedita, per le pratiche ‘culturalmente’ marginali ma socialmente e politicamente più rilevanti: le schedature operate da medici legali, psichiatri e polizia[166], la fotografia pornografica e quella anonima; prestando sempre una grande attenzione (più affabulatoria che analitica)  alle loro relazioni con l’immaginario e l’iconografia di tradizione ‘popolare’.

In quella prospettiva evoluzionistica e sociale in cui lo sguardo si spostava necessariamente dalla fotografia, intesa come forma specifica per quanto diversificata di raccontare il mondo, all’universo generale delle immagini, non mancavano prese di posizione critiche allora certo non comprese ovvero considerate bizzarre. Basti pensare alla determinante riflessione sui fondamenti tecnologici (“avevamo sempre sospettato – come dirlo? – che la prima fotografia doveva essere il primo negativo, e non gli strani oggetti corrosi dagli acidi e dalla ruggine che vengono abitualmente proposti come tale, e che nessuno si azzarda a definire positivo o negativo”[167]) o alla posizione controcorrente espressa in merito alla fotografia artistica: “Da inqualificabili storiografie e critiche fotografiche improvvisate e correnti, le immagini del genere sono catalogate come ‘pittorialiste’ e addirittura decadenti e sono considerate non il massimo sforzo di ricerca prima di tutto tecnica sperimentale, ma come libera scelta fra varie possibili soluzioni espressive (…) Incredibilmente le storie della fotografia parlano di quella dell’Ottocento dimenticando che è stata prodotta con macchine e materiali che erano essi stessi medesimi quasi sempre sperimentali e alla sperimentazione costringevano anche chi non voleva.” Ancor più rilevanti alcune proposte di studio, come quella  su uno dei “maggiori consumi fotografici di massa del nostro paese (…) relativo all’uso che ha fatto il fascismo della fotografia per la promozione del consenso al regime”, a cui dedicava un’importante voce del suo Dizionario, con puntuali indicazioni di ricerca ancora oggi scarsamente frequentate, come quella sul “fotoamatorismo come attività organizzata del tempo libero” o  “all’impiego dell’immagine meccanica per l’organizzazione e la promozione del consenso”, riconoscendone l’elevata qualità al di là di ogni preconcetto ideologico.

Il volume conteneva anche un imponente Dizionario degli antichi termini, miti e personaggi dell’immagine ottica, di ben cento pagine, che si rifaceva alla tipologia di lunga tradizione dei dizionari, glossari e prontuari tecnici presenti in ogni buon manuale ottocentesco, mutandone però radicalmente il senso proprio nella scelta dei lemmi così come nelle caratteristiche di una scrittura barbaramente immaginifica, che rinunciava volentieri – come in tutti i suoi scritti del resto – alla correttezza filologica o storica a favore della fascinazione affabulatoria (si veda l’esempio ricordato da Tempesti  del lemma Acqua di Javelle al posto del più ordinario e comprensibile Candeggina). Completavano gli apparati una “Biblioteca del fotografo dell’Ottocento”, che si proponeva di integrare la ricca bibliografia prodotta da Buguet e Gioppi[168] nel 1892, estendendola sino all’anno 1900, e una più sintetica “Biblioteca moderna”.

Data la sua posizione critica e l’impostazione del volume che da quella coerentemente derivava, sarebbe stato difficile attendersi dalla Storia sociale di Gilardi, un riferimento sistematico alle vicende italiane e ai nostri autori,  fossero questi Stefano Lecchi o l’amato Francesco Negri, alla cui prima monografia aveva pur collaborato nel 1969, ma di cui non si peritava di fornire dati tecnici errati in merito ad alcuni singolari materiali sensibili da quello utilizzati[169]. Lui era più interessato ai processi che agli autori; alle caratteristiche generali dei fenomeni piuttosto che alle loro manifestazioni nazionali o locali, ricordando semmai figure minori o minime (come Rebughi – Candiani e C. di Brescia o Arrighi di Portoferraio, sconosciuto allo stesso Becchetti[170]) ma funzionali al proprio discorso. In questo contesto andava inteso quindi solo in parte come un’eccezione il capitolo quattordicesimo[171], tutto dedicato all’ideologia del “socialismo fotografico” espressa dalla Società Fotografica Italiana e dal suo primo presidente Paolo Mantegazza, che produsse alcuni dei “documenti fondamentali per mettere a fuoco (è il caso di dirlo) la questione sociale della fotografia alla fine dell’Ottocento, e non solo nel nostro, ma qual è in tutti i paesi industriali.”  Analoghe furono le ragioni per collocare numerosi esempi di fotografia ‘sociale’ (briganti, criminali politici e comuni, soggetti lombrosiani in genere) nell’ambito del successivo capitolo dedicato al ritratto, uno dei più efficaci argomenti di ricerca e divulgazione di Gilardi, a cui due anni più tardi avrebbe dedicato una monografia.[172] Altre importanti suggestioni riguardavano poi un ambito che da sempre aveva connessioni profonde con le vicende italiane, vale a dire “l’accoglienza da parte della Chiesa, romana specialmente ma poi delle organizzazioni religiose nell’insieme, del nuovo mezzo  di produzione delle immagini, ovvero dei procedimenti fotografici”, a partire dal commento al testo del gesuita Pietro Antonacci, scritto nel 1847 “per comodo delle Missioni straniere”[173].

  

 

Dizionari ed enciclopedie

 

Alla fotografia dedicavano un rinnovato interesse, e uno spazio maggiore,  anche le varie opere di consultazione che si andavano pubblicando in quel periodo. Nel quarto volume dell’Enciclopedia Europea edita da Garzanti la redazione della voce specifica venne affidata a Oscar F. Ghedina[174], prolifico autore di manualistica, il quale  le diede – coerentemente – una impostazione evoluzionistica su base tecnicistica ma facendola precedere da una sintetica sezione dedicata alla Nascita ed evoluzione del mezzo fotografico,  strutturata diacronicamente per coppie  di categorie o concetti ma sorprendentemente inficiata da strafalcioni tecnologici, ben esemplificati dalla descrizione della “lastra di peltro spalmata con una sospensione bituminosa di sali d’argento” di cui si sarebbe servito Niépce. Da questo quadro incerto  emergeva però qualche suggestione culturalmente più aggiornata, quale la lettura della diffusione del ritratto come fenomeno connesso alla “ascesa sociale e [al] desiderio di affermazione mondana dei nuovi ceti benestanti”, che riecheggiava le tesi di Gisèle Freund, pubblicate in Italia l’anno precedente su sollecitazione di Bertelli[175]. L’edizione italiana della notissima “The Focal Encyclopedia of Photography” (1969) venne pubblicata dalla Fabbri Editori a dieci anni di distanza, rivista e aggiornata da Maurizio Capobussi, come “Enciclopedia pratica per fotografare”; destinata al grande pubblico dei fotoamatori, con una tiratura iniziale di 100.000 copie ben presto cresciuta a 160.000. Ciò che distingueva nettamente quella edizione era la presenza in ciascun fascicolo di inserti dedicati ai più interessanti autori italiani contemporanei curati da Quintavalle, al quale si doveva anche la corposa introduzione ai volumi, in cui delineava un “territorio della fotografia (…) ampio quanto la nostra cultura”[176]. Le finalità eminentemente pratiche dell’opera e la scelta di individuare “un sistema letto orizzontalmente, cioè tutto contemporaneo” portarono al rifiuto del “modello arcaico delle figure-guida, dei capolavori fotografici” ma anche alla ridotta presenza di elementi di storia nelle quasi 2.700 pagine complessive, che pure contenevano una voce non banale dedicata al Pittorialismo[177], né comparivano altro che nell’introduzione riproduzioni di fotografie storiche, essendo le voci corredate di efficaci, didascalici disegni. Con una qualche realistica ragione i curatori originari avevano ritenuto che la storia  non rientrasse tra i principali ambiti di interesse di chi si dedicava alla “Amatoriale, fotografia”,  di coloro cioè che “praticando un mestiere o una professione qualsiasi, occupano una parte del loro tempo libero con la fotografia”[178]. Per colmare questa lacuna si ritenne indispensabile “fornire al pubblico italiano una enciclopedia della tecnica fotografica e della sua storia”: per colmare “un vuoto che è anche il vuoto della cultura dell’idealismo, il vuoto dell’arte contrapposta alla tecnica (…) per dare a lui ed a tutti coloro che vogliono concretamente sperimentare e ricercare, uno spazio diverso, una differente dignità culturale”[179]. Lodevole intenzione che non si tradusse però in una radicale revisone del’impianto originario né teneva sufficiente conto del fatto che  alla “storiografia fotografica” era dedicata una specifica voce, verosimilmente non apprezzata da Quintavalle per la sua impostazione, datosi che vi si affermava perentoriamente che “lo scopo principale delle storiografo fotografico è quello di trattare l’evoluzione tecnica. Oltre a ciò deve menzionare gli uomini che impiegarono le tecniche e i risultati da questi raggiunti. La storia della fotografia è infatti anche la storia di fotografi e fotografie.”[180] La concezione qui espressa da Andor Kraszna-Krausz, fondatore della Focal Press e curatore dell’edizione originale, certo piuttosto distante dalle più recenti riflessioni storiografiche, si rifletteva chiaramente nella struttura e nel trattamento generale dei temi di storia, che trovavano spazi concreti di sviluppo specialmente nelle voci tecniche e non in quelle dedicate ai ‘generi’ o agli ambiti di applicazione: quelli che meglio avrebbero consentito una presentazione storico critica culturalmente aggiornata. Nonostante questi limiti l’intento di offrire alcuni primi elementi di orientamento al pubblico fotoamatoriale fu certo positivo, specie considerando che gli strumenti sino ad allora disponibili erano di livello incommensurabilmente inferiore. Basti considerare a questo proposito una pubblicazione come la “Enciclopedia generale della fotografia” delle Edizioni AFHA Italia di Milano, che nel primo volume conteneva un breve testo anonimo che raccoglieva Aneddoti sulla Storia della fotografia, illustrato con disegni al tratto di sapore incongruamente e involontariamente ottocentesco. Un contributo che non merita neppure di essere commentato  ma che costituiva  – accanto alla voce curata da Ghedina per Garzanti – un buon  indicatore di quale potesse essere  considerato il livello minimo di conoscenze nell’Italia degli anni Sessanta – Settanta, prima che si avviasse anche da noi una prima e più attrezzata riflessione generale su questi temi.

Anche Cesco Ciapanna, noto editore di manualistica e della rivista “Fotografare”, pubblicava un Dizionario della fotografia[181] prevalentemente tecnico, nel quale però “non potevano mancare i nomi dei personaggi che hanno contribuito a creare la storia della fotografia, o con le loro ricerche, o con le loro immagini”;  dove per “ricerche” si dovevano implicitamente intendere quelle fotochimiche o tecnologiche, datosi che risultavano mancanti  le voci dedicate a Gernsheim o a Newhall, del quale Zanichelli aveva tradotto in italiano il saggio sulle origini della fotografia[182],  e lo stesso Josef Maria Eder era ricordato principalmente quale scopritore “dell’azione indurente del cromo e dei cromati sulla gelatina.” Sorte non migliore toccava agli studiosi italiani, mancando ogni riferimento a Negro, Vitali, Gilardi o Miraglia, mentre a Zannier, “critico fotografico e fotografo”, era dedicata una voce piuttosto esauriente, con ampi riferimenti bibliografici. Altrettanto lacunosa risultava la serie delle voci dedicate ad autori storici della fotografia italiana[183], tanto che lo stesso Zannier nel recensire il volume indicava come “in una prossima edizione [fosse] opportuno integrare l’elenco dei fotografi, specie dell’800, in parte mancanti, perlomeno quelli italiani.”[184] Analoghe lacune connotavano la più recente edizione de La nuova enciclopedia dell’arte edita da Garzanti nel 1986, per la quale le voci specifiche furono redatte da Enzo Minervini e Roberta Valtorta. Nell’accurata recensione critica che ne diede Renzo Chini poneva però un problema diverso, derivato dalla difficoltà di “segmentare la cultura fotografica per riferirne in modo organico in una enciclopedia dell’arte”[185], certo un problema  comune a questa tipologia di opere, ma ne segnalava anche alcuni limiti di impianto poiché “le voci specifiche non inquadrano abbastanza i fotografi presentati” essendo “impostate in modo alquanto pregiudiziale secondo il principio che solamente il genere della fotografia creativa è creativo”, mentre “il fatto che sorprende di più è l’assenza della voce fotografia, nel testo e nel dizionario dei termini in appendice.”[186]

 

 

Storie italiane: Archivi, fondi, raccolte 

 

Nel 1967 venne pubblicato un numero monografico di “Imago – Proposte per una nuova immagine”, l’innovativo house organ  della Bassoli Fotoincisioni di Milano[187],  che conteneva “un piccolo Museo del Risorgimento in miniatura che è al tempo stesso un piccolo Museo delle origini della Fotografia in Italia”[188], utilizzando parte dei materiali presenti nella mostra Immagini del Risorgimento, prodotta dal CIFe nel 1967[189]. Nella sezione intitolata La fotografia arte diabolica  Settimelli[190] citava una serie di documenti che testimoniavano come “voler fissare immagini effimere fosse un’offesa a Dio”, poste  a commento della riproduzione anastatica dell’Editto cardinalizio del 28 novembre 1861 che vietava la detenzione non dichiarata di apparecchi fotografici, ben noto agli storici della fotografia a Roma. Quel documento venne poi pubblicato anche da Gilardi che ne dava però un’interpretazione diversa, connessa a questioni poliziesche[191] più che ecclesiastiche, tanto da polemizzare indirettamente (anche) con l’amico Settimelli: “si legge in alcune storie fotografiche di una opposizione, addirittura, che l’organizzazione religiosa avrebbe mosso, nell’Ottocento, all’immagine fotografica accusandola di diavoleria. Non esiste affermazione più infondata e sciocca di questa.”

Lo stesso Settimelli avrebbe di lì a poco raccontato La fotografia italiana in appendice al volume di Keim[192], dichiarando in apertura che “c’è ancora molto da indagare, qui da noi, sulla fotografia intesa soprattutto come fenomeno con spiccatissime caratteristiche sociali”.  A  quell’intenzione corrispondevano una serie di dichiarazioni velleitariamente  ‘controculturali’ (“il ruolo rivoluzionario dell’immagine ottica”, la fotografia come strumento per “negare al potere la possibilità di ‘interpretare’ la realtà a proprio uso e consumo” e simili), per certi versi comprensibili nel clima di quegli anni sebbene poco consone a un giornalista di una testata ortodossa come “L’Unità”; prese di posizione che già all’epoca dovevano apparire come espressioni di una rozza superficialità ammantata di pretese politiche, incommensurabilmente lontana – solo per fare un esempio cronologicamente prossimo – dalle raffinate interpretazioni di Bourdieu, ben note in Italia per essere state pubblicate da Guaraldi nel 1972[193]. A queste sembrava comunque riferirsi polemicamente Settimelli nel criticare “i sociologi, gli specialisti in scienze umane e persino gli stessi studiosi marxisti [che] continuano ad avere, con la fotografia, un tipo di approccio poco rigoroso  (…) Si rinuncia così – e questa può essere la sola logica spiegazione – ad utilizzare il lavoro di alcune centinaia di colti e bravi fotografi italiani dell’Ottocento.”[194] Il testo che seguiva, che sarebbe stato difficile definire sistematico, pescava a piene mani dall’ancora scarsa pubblicistica precedente – per altro mai citata – e si segnalava soprattutto per la scarsa accuratezza delle informazioni fornite[195], a cui non riusciva a fare da contrappeso l’estensione dell’arco temporale sino agli anni  Cinquanta, come di lì a poco avrebbe fatto anche Zannier con un contributo specificamente dedicato al nostro Novecento[196].

Gli evidenti limiti della storiografia italiana di quegli anni si nutrivano di elementi diversi: da un lato l’assenza totale, quasi ingenua, di preoccupazioni metodologiche di ricerca e di elaborazione, sostituite nei casi migliori da una verve militante che soffriva però ancora troppo della formazione giornalistica degli autori; dall’altro una cronica carenza di dati, di materiali e di fonti disponibili per lo studio e l’indagine, a cui si tentava di porre rimedio con iniziative diverse per intenzioni e impegno, sebbene non scarse. Così accanto alle ricognizioni locali e territoriali, sovente però di stampo revivalistico, si assisteva a uno sviluppo per noi inedito di monografie, sia nella forma di articoli o allegati monografici ai periodici, in particolare “Popular Photography”,  sia in quella più impegnativa del saggio autonomo o del catalogo di mostra, a loro volta legati a una prima preoccupazione conservativa per il patrimonio fotografico storico che si manifestava con programmi e interventi anche a livello centrale.

Tra il 1968 e il 1970 la Fototeca della Ferrania – 3M Italia aveva acquisito, con la cura di Roberto Spampinato,  gli archivi di Ghitta Carell, di Elio Luxardo e di Attilio Badodi[197], mentre nel 1971 si costituiva come organismo separato l’Archivio fotografico del Comune di Roma, diretto da Lucia Cavazzi, e due anni dopo il Ministero per la Pubblica Istruzione emanava l’importante notifica di vincolo – la prima di tal genere in Italia –  dei negativi costituenti l’Archivio Alinari, avanzata dal Soprintendente alle Gallerie di Firenze il 7 aprile e firmato dal Ministro Salvatore Valitutti il 18 giugno successivo[198]; atto che costituiva la conclusione – che crediamo inattesa – della proposta di vendita allo Stato fatta dallo stabilimento fiorentino di tutto il proprio archivio in bianco e nero, in previsione di convertirsi “nel ramo del colore.” L’offerta non venne accolta poiché la cifra richiesta era “assolutamente al di sopra di ogni ragionevole previsione di spesa e, a parere dello scrivente, sproporzionata al valore effettivo della collezione, per quanto esso sia veramente ingente”, ma l’impossibilità di un’intesa suggeriva a Carlo Bertelli, di applicare lo strumento della notifica, “nel caso in cui vi fosse una concreta minaccia di dispersione”, anche se, avvertiva, “non si sa se la legge consentirebbe di estendere la notifica alle lastre fotografiche (in tal caso sarebbe allora assai più urgente notificare quanto è rimasto degli archivi Reali e Sansoni, che sono stati quasi interamente acquistati dalla Frick Library di New York).” [199]  La difficoltà di tutelare ex lege il patrimonio fotografico rendeva ancora più significative e rilevanti alcune iniziative del 1975: a livello statale, la costituzione dell’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e  dell’ING – Istituto nazionale per la Grafica e la Fotografia (questa la denominazione completa, dal 2014 modificata in ICG – Istituto Centrale per la Grafica), nel quale confluirono il Gabinetto nazionale delle Stampe e la Calcografia Nazionale, quali organismi del neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, e la nascita a Parma, del Centro Studi e Museo della Fotografia, poi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione[200], voluto da  Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università, che avviò una innovativa politica di acquisizione e tutela degli archivi (o parte di essi)  di studi e autori italiani: da Orlandini e Villani a Bruno Stefani, promuovendo importanti mostre di Ugo Mulas, Nino Migliori, Luigi Ghirri e Mario Giacomelli.[201]

Fu lo stesso Quintavalle a firmare nel 1978 l’introduzione al volume dedicato a un altro, sommerso e negletto patrimonio archivistico, quello delle famiglie italiane.  La mostra L’Italia nel cassetto[202] che si tenne alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nei primi mesi del 1978 prendeva le mosse dal programma televisivo Album: fotografie dell’Italia di ieri, curato da Piero Berengo Gardin e Virgilio Tosi con la collaborazione di Iole Sabbadini e contributi filmati di Raffaele Andreassi.  L’esposizione, strutturata in diverse sezioni tematiche[203], si presentava quasi come  una storia per immagini della nazione,  frutto di una raccolta pubblica che mirava alla costituzione di un archivio fotografico, così che i materiali raccolti vennero riprodotti e ristampati tutti nello stesso formato, quindi filmati e – appunto – presentati nel corso di sedici puntate su RAI2 a partire dal 26 aprile 1977.  I problemi metodologici e critici di quell’operazione vennero affrontati in apertura di catalogo da Quintavalle[204], offrendo al grande pubblico una serie di ‘istruzioni per l’uso’, a partire dal fatto che le poche centinaia di immagini presentate in mostra non potevano corrispondere né alla totalità di quelle inviate né di quelle selezionate per la trasmissione, sulle quali, inevitabilmente, Berengo Gardin e Tosi erano intervenuti con modalità diverse: dalla lettura del singolo esemplare con movimenti di macchina in truka all’ordinamento in una nuova sequenza temporale o spaziale. Non solo: la scelta di lavorare su riproduzioni uniformi cancellava ogni caratteristica originale dei materiali, riducendone ulteriormente il valore documentario, qui sottoposto a un doppio e distinto ordine di trascrizione per la mostra e per il catalogo. Quella assunzione di consapevolezza critica, da trasmettere e condividere col visitatore e col lettore, si accompagnava alla verifica delle possibili opzioni che sarebbero potute derivare da un diverso processo operativo, quello della conservazione degli originali: l’analisi dei differenti “codici della fotografia” presenti in quei materiali ma anche “l’organizzazione storica di una rassegna della fotografia in Italia”. Operazione allora “sostanzialmente impossibile” per ammissione stessa dell’autore, perché “debbono passare ancora molti anni di indagine (e di scoperta) dei materiali, e la nostra cultura su questo particolare modello di trascrizione (la foto appunto) deve diventare molto più acuta e soprattutto deve conoscere ben di più di quanto, oggi, ci è dato conoscere della produzione fotografica nel nostro paese.” Scartata quindi l’ipotesi di una restituzione storica, restava aperta la prospettiva sociologica “e, al meglio, antropologica dei fatti, cioè delle immagini proposte”; non quindi delle fotografie. Ne derivava la necessità di comprendere o almeno ipotizzare i criteri e le censure operate a monte dalle stesse persone che raccolsero l’invito, per provarsi poi – in sede critica – a suggerire alcuni problemi di comprensione della cultura visiva che quelle stesse fotografie esprimevano. Muovendosi lungo percorsi e ipotesi da sempre centrali nel lavoro storico critico di Quintavalle, si trattava di far emergere le relazioni non esplicitate con l’universo del visivo: dai generi pittorici, all’illustrazione e alla grafica, nella consapevolezza che “la sociologia dell’immagine comunque passa, o dovrà passare, per meglio dire, anche dall’analisi del senso che le immagini stesse assumono grazie al modello della loro trascrizione. La scrittura infatti è il modello attraverso il quale le immagini ‘sono’ e la scrittura è la loro materialità.”[205]

Posizioni critiche molto diverse, dovute a una differente formazione piuttosto che alla distanza temporale, erano state espresse da Tullio Seppilli giusto un decennio prima in apertura del catalogo della mostra L’evoluzione della famiglia italiana in cento anni di fotografia[206],  che lo vedeva tra i curatori. L’antropologo aveva infatti parlato di “immagine fotografica” e non di fotografia, considerandola la “registrazione di una realtà (…) un’operazione (e il suo risultato) attraverso la quale a partire da una determinata realtà viene prodotta una sorta di ‘impronta’ o di ‘matrice’, stabilmente capace di provocare nell’osservatore una immagine percettiva (visiva, acustica) analoga a quella che egli avrebbe direttamente ricevuto dalla realtà stessa trovandosi al posto dell’apparecchio registratore.” [207] I debiti con la prima semiologia francese risultavano evidenti, piegati però a una specie di ‘ingenuità’ fenomenologica che riduceva il concetto barthesiano di messaggio senza codice a un meccanicismo positivista, essenzialmente tecnologico, (“la immagine fotografica non rinvia a un significato mentale ma direttamente alla realtà”) da cui sembrava escluso qualsivoglia elemento di connotazione culturale e linguistica, sebbene Seppilli riconoscesse poi che “l’impiego della fotografia può tuttavia comportare una codifica di significati mentali, e perciò il ricorso a un ‘linguaggio’, dando luogo a un vero ‘messaggio’ e quindi a un processo di comunicazione in senso stretto”[208], circoscritto però alla sola, esplicita e consapevole intenzione dell’operatore. Per Roberta Valtorta, che aveva dedicato a quelle due esperienze la propria tesi di laurea[209], si era tentata la “strada del censimento fotografico realizzato grazie alla diretta collaborazione dei cittadini e delle famiglie attuato attraverso i mass media”, utilizzando la fotografia “come strumento per cercare nel passato l’identità presente del paese, indagata con intenzioni democratiche nel suo tessuto sociale grazie alla partecipazione dei protagonisti stessi”, con un’intenzione di fondo che non poteva dirsi quindi altro che politica, sebbene sottintendesse anche quel “recupero di sapore revivalistico dell’immagine fotografica di utilizzo popolare” che avrebbe avuto proprio in quel decennio un primo considerevole sviluppo.

Le nostre prime e più estese ricognizioni del patrimonio fotografico non furono quindi di tipo storico ma antropologico e sociologico[210], perfettamente coerenti con i profili intellettuali dei curatori (da Gilardi a Seppilli), poco interessati o propensi a una riflessione sul linguaggio e orientati per converso ad una utilizzazione in termini strettamente referenziali (da qui le avvertenze di Quintavalle)  come testimonianza delle condizioni di vita delle diverse classi sociali lungo circa un secolo.  Certo contro le stesse intenzioni e aspettative dei curatori quelle realizzazioni costituirono di fatto l’antecedente e il modello di una sterminata serie di nostalgiche esposizioni locali, solo di rado condotte con criteri e obiettivi scientifici, anche quando originavano ed erano animate da intenzioni positive, come la ricerca condotta dai soci del Fotocineclub di Fermo che portò alla pubblicazione del volume Fermo, …ieri (1969) così recensito da Gilardi sulle pagine di “Popular Photography”: “io sono profondamente convinto che il fatto che dei soci di un circolo fotografico italiano si occupino di una ricerca storica (…) è storico davvero (…) è  serio e, per quel che mi riguarda, rappresenta una svolta nella storia patria dell’immagine ottica. (…) Il senso dei discorsi ‘antipecora’ di Verbania era anche, forse soprattutto questo.”[211] Più interessato a comprendere il senso generale di quel genere di operazioni, e lucidamente critico,  fu Franco Fortini, che offrì una lettura diametralmente opposta del fenomeno: “Oltre la moda, non l’intento di avvicinare bensì quello di distanziare mi pare dominante. È come pubblicare l’epistolario dei nonni. Portare a conoscenza storica, si dice. In verità: sbarazzarsi (…) volersi separare da un ieri ancora troppo vicino.” Le ragioni profonde di questo inconscio atteggiamento collettivo risiedevano “nel mezzo fotografico: saldato alle sue origini, alla causale della sua nascita, che è naturalistica, scientistica, verista, lassù nell’Ottocento. E fintanto che noi viviamo in una società dell’immagine (…) ogni nostro sforzo per liberarci di quell’ottica (e del suo inverso, simbolistico e magari surrealista) equivale a liberarci da quell’eccesso di vicinanza e di parentela (…). Quella illusione ci incolla addosso le generazioni fotografate, nell’album o nella cornice della credenza. Ricoverandole nell’ospizio della cultura istituzionale, nella esposizione e nel museo, crediamo di poter essere nuovi, di dimenticare il ‘caro estinto’ ”.[212]

 

Carlo Bertelli, “Popular Photography” e la fotografia storica

 

Anche l’Enciclopedia del Novecento, pubblicata nel 1978,  conteneva la voce Fotografia,   redatta da Carlo Bertelli, nella quale  lo studioso ne restituiva il percorso collocandolo criticamente nel solco generale della storia della produzione e della ricezione (i modi e i codici) delle immagini; ponendo l’accento sulla industrializzazione delle tecniche e dei prodotti  e sulla conseguente “moltiplicazione dei produttori [che] si ripete negli avvertimenti estetici impartiti dalle riviste specializzate”. Accanto a quel fenomeno collocava la scoperta e l’accettazione dell’imprevisto che avevano aperto le porte all’affermarsi della fotografia quale strumento di esplorazione e di narrazione soggettiva del mondo, contribuendo così alla riconsiderazione critica e al riconoscimento del valore storico della fotografia pittorialista (a cui l’anno successivo sarebbe stata dedicata la prima mostra italiana[213]), qui intesa quale momento di rottura con la concezione documentaria ottocentesca e come anello di congiunzione e avvio dell’avventura modernista. In quella prospettiva attenta alla fotografia come elemento costitutivo della modernità, poco spazio era concesso alle vicende italiane poiché “per molti anni, per tutto l’Ottocento e fino a questo dopoguerra, salvo rare punte isolate, la fotografia italiana risente del tono provinciale delle arti figurative, del giornalismo, della ricerca scientifica e, in genere, della mancanza di strutture del nostro paese”. Così il parco elenco di nomi considerati (oltre ai grandi studi: da Alinari a Sommer) comprendeva solo Cugnoni, Michetti, Morpurgo, Nunes Vais e Primoli, vale a dire tutti e soli quegli autori i cui fondi (con l’eccezione di Cugnoni e Primoli) erano stati acquisiti dal GFN nei primissimi anni Settanta[214] proprio per iniziativa di Bertelli. Alcuni di questi erano inoltre stati oggetto di recenti monografie edite dalla casa editrice Einaudi, di cui Bertelli era consulente, curati da studiosi romani a loro volta dipendenti (Miraglia) o in stretto contatto (Porretta) col Gabinetto Fotografico Nazionale e quindi con l’Istituto Nazionale per la Grafica di cui lo stesso Bertelli era stato via via direttore[215].  Il ruolo svolto dallo storico dell’arte milanese nella formazione e nella promozione di una cultura storica della fotografia in Italia e per la tutela del patrimonio prodotto nel corso di quella stessa storia è stato fondamentale, sebbene nella sostanza prevalesse ancora in lui il riconoscimento delle qualità del “fotografo interprete sensibile dell’oggetto”[216], vale a dire una concezione documentaria, per quanto raffinata, della fotografia. Altrettanto rilevante fu lo sforzo di portare questi temi all’attenzione del più vasto pubblico amatoriale, provandosi ad utilizzare sapientemente il canale offerto dalle riviste di settore per avviare iniziative che era allora impossibile proporre né tantomeno realizzare in quella che avrebbe dovuto essere la loro sede istituzionale.

I primi contatti con “Popular Photography Italiana” risalivano al 1970, quando Bertelli scrisse a Gilardi in risposta a “un suo gustoso articolo” comparso nel numero di aprile, per lamentare il fatto che, se si fossero incontrati, il Direttore avrebbe potuto fargli risparmiare “qualche grossa inesattezza”; in quella stessa occasione suggeriva che “Popular Photography dibattesse a fondo il problema della documentazione fotografica del patrimonio artistico, magari in una tavola rotonda cui sarei lieto di partecipare. Penso infatti che sia buon giornalismo risalire alle fonti.”[217] Nei successivi scambi epistolari Gilardi[218] propose, anche “a nome del  direttore”, la stesura “di un articolo che la nostra rivista sarebbe lusingata di pubblicare”, trovando consenso in Bertelli  che lo intendeva “come avvio di un dibattito più ampio.”[219] Ebbe così inizio un’importante per quanto problematica collaborazione che nel maggio 1971 vide la messa in cantiere di un censimento concepito da Bertelli che avrebbe dovuto essere condotto da “Popular Photography Italiana”: si trattava di realizzare “un repertorio degli archivi fotografici, sull’esempio di quello prodotto dalla Direction de la Documentation in Francia (1966),  pubblicando in appendice al periodico una serie di schede “sul tipo di quelle francesi”, anche in considerazione del fatto che “naturalmente ci vorrà molto perché da noi un ministero compia un lavoro del genere.”[220] Il direttore della rivista accolse l’invito[221] proponendo a sua volta una collaborazione al periodico sotto forma di “rubrica fissa storica” che segnalasse anche le attività del GFN; nei giorni immediatamente successivi venne stabilito il titolo (Entroterra fotografico[222]) e definita una scaletta per i primi numeri: Morpurgo, Chigi, Valenziani, Cugnoni, Michetti, temi sui quali Lanfranco Colombo avrebbe poi coinvolto il GFN nell’edizione del SICOF di quell’anno.

Il censimento era a sua volta accompagnato da un Questionario agli uomini d’immagine, che aveva lo scopo di “accertare quanto la cultura fotografica entri nel bagaglio normale delle persone interessate all’immagine e di avviare in grandi linee un censimento delle raccolte fotografiche esistenti in Italia”, intendendo però prevalentemente quelle professionali (fotografi e agenzie) piuttosto che quelle istituzionali.[223]  Il questionario apriva con la richiesta di informazioni in merito all’eventuale acquisto di fotografie, alla loro tipologia, cronologia e quantità, chiedendo infine di indicare le ragioni di quella raccolta e  se la professione dell’intervistato avesse qualche “attinenza con l’immagine”. Nessun cenno invece, per quanto marginale, alla formazione culturale e agli eventuali mezzi per raggiungerla e aggiornarla (libri, mostre, periodici), ciò che rendeva piuttosto singolare lo stesso scopo dichiarato in apertura. Le parti destinate al vero e proprio censimento (“Repertorio alfabetico” e “Repertorio analitico”)  confermavano il carattere strumentale dell’indagine, prevedendo oltre ai dati anagrafici del proprietario o del responsabile della collezione, una breve descrizione “al massimo di una ventina di righe” e la qualificazione professionale del titolare (Agenzia o  fotografo professionista, per settore; editore; “servizio pubblico”; collezionista; “uno specialista che aggiunge la fotografia alla sua attività principale”). A queste informazioni seguiva una più articolata indagine quantitativa per generi (arte, ritratti, usi e costumi, istituzioni, fotografie scientifiche, ecc.)  e tipologia (b/n o colore).

A chiusura del SICOF di quell’anno, che nella propria sezione culturale aveva ospitato una mostra dedicata a Michetti[224] e un incontro col direttore del GFN,  Bertelli scrisse alla rivista un “letterone post-Sicof”[225] che il redattore capo Pier Paolo Preti decise però di non pubblicare perché “dal punto di vista redazionale (cioè del pubblico destinatario) la lettera risulta un po’ confusa”.[226] A questo rilievo il mittente rispose notando che “la lettera era stata letta da diverse persone prima di inviarla, ed era apparsa chiara a tutti, ma evidentemente non ci configuravamo il lettore-tipo di Popular photography sul modello del lettore di Grand Hotel.” Ciò che però gli premeva maggiormente era che si fosse lasciata cadere l’ipotesi di censimento, rispetto alla quale Preti confermava invece l’interesse del periodico, specie in quella fase in cui se ne stava ridefinendo l’impostazione. Nella lettera in questione Bertelli aveva lamentato anche lo scarso interessamento del pubblico del SICOF, “venuto essenzialmente per vedere i films [sic] di e su Michetti, sull’argomento che mi sta più a cuore, che è, per enunciarlo in termini burocratici, quello del contributo del fotografo alla conservazione e alla fruizione del bene culturale. Sono anzi gratissimo a Franco Leonardo [sic, per Ferdinando] Scianna, che con un paio di interventi calzanti mi ha consentito di accennare (…) ad alcuni dei temi più pressanti.”  Scianna fu in quell’occasione, con Jean-Claude Lemagny, Giorgio Lotti e Lamberto Vitali, tra i pochi a intervenire al dibattito intorno a un possibile “Museo fotografico”, sollecitato anche da una piccola mostra del Cabinet des Estampes della Bibliothéque Nationale di Parigi, curata per quella stessa edizione da Lemagny, alla cui conferenza di presentazione però – notava sconsolato Bertelli – “c’eravamo, se ricordo bene, soltanto Lei [L. Colombo], io e [Lello] Mazzacane; un isolamento vergognoso, che fa temere che la sensibilità a un problema grave di organizzazione culturale sia scarsissima quando non vi sia la prospettiva di un inserimento in un apparato industriale.”[227]

La sezione culturale del SICOF (dal 1969) era un’invenzione e una creatura di Lanfranco Colombo[228], una delle figure centrali della fotografia italiana della seconda metà del Novecento, che contribuì non poco a sviluppare l’interesse per la fotografia storica nel nostro paese presentando nelle diverse edizioni non pochi autori e temi che negli anni successivi avrebbero goduto di grande interesse: dalla produzione degli Alinari (1969 e 1977) a Naya (1977); dalle fotografie del brigantaggio (1970)[229] a quelle dell’emigrazione italiana nelle Americhe (1973), ottenendo però scarsi riscontri poiché “la recente riscoperta della fotografia in Italia non nasce dal momento di una politica culturale anche nostrana, ma piuttosto di rimbalzo: dagli USA, dalla Francia, dall’Inghilterra (…) E non è solo un problema di egemonia economica.”[230] Nel marzo del 1966 Colombo era divenuto comproprietario e condirettore di “Popular Photography Italiana”, pubblicata dal 1957 come edizione italiana della testata statunitense sotto la direzione dell’architetto Alessandro Pasquali[231]; col numero 105 la testata si rese indipendente dall’edizione americana e la rivista uscì con una nuova veste, dovuta a Giancarlo Iliprandi. Crebbe in quegli anni anche lo spazio dedicato ad argomenti di storia della fotografia, con interventi tra gli altri di Gilardi, Settimelli, Turroni e Schwarz, redattore dal 1970, mentre si avviava una collaborazione con il fotografo e scrittore praghese Petr Tausk, al quale venne  affidata una rubrica dedicata a La fotografia del ventesimo secolo. Appunti per una storia della fotografia, accompagnata da Note storiche redatte da Giuseppe Turroni[232]. Nulla più che uno zibaldone di considerazioni varie ma certo un inizio e un indizio. Col 1971 l’interesse si accrebbe, se pure non si può dire che si precisasse, con le collaborazioni degli studiosi legati al GFN e con gli interventi di Jean A. Keim e Oreste Grossi, in collaborazione con Gilardi, alle soglie del nuovo mutamento di testata: dal 1972 la rivista assunse infatti il nome de “Il Diaframma – fotografia italiana” per diventare poi semplicemente “il Diaframma”[233], come la galleria aperta da Lanfranco Colombo a Brera nel 1967, la prima ad essere esclusivamente dedicata alla fotografia.  Nell’opinione di Ando Gilardi[234]  la prima “versione italiana, arricchita con poveri testi tecnici e critici di produzione locale, fu in principio ancor peggiore di quella americana” nonostante la presenza di un redattore capo, poi condirettore, come Pietro Donzelli e di una rinnovata serie di collaboratori qualificati che comprendeva tra gli altri Piero Raffaelli, Luigi Crocenzi, Morando Morandini, Bruno Munari, Gualtiero Castagnola e Piero Racanicchi, ai quali ultimi Beaumont Newhall espresse in quegli anni il proprio apprezzamento “dal momento che nessun altro periodico di fotografia ha mai avuto la costanza di ospitare in ogni suo numero articoli di tal genere.”[235] Tra i rari interventi dedicati ad autori italiani sulle pagine della rivista[236], particolarmente significativo risulta ancora oggi il breve ma denso saggio del 1961 che Racanicchi dedicò a quello che era allora il solo nome italiano a godere di fama e considerazione internazionali: Vittorio Sella[237]. L’interesse del testo non risiedeva tanto nell’analisi critica del grande fotografo quanto piuttosto in alcune considerazioni di ordine generale e di metodo che l’autore pose significativamente in apertura:  “A volte mi domando se sarà mai possibile tracciare un disegno organico della fotografia italiana. Dalle prime ricerche, che qualcuno di noi ha già condotto, è emerso chiaramente e dolorosamente il vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza di coloro che avevano in consegna tale materiale. Specie se risaliamo indietro nel tempo, agli anni lontani del dagherrotipo e del collodio, sentiamo il peso di questa lacuna; ed allora ci rendiamo materialmente conto di quanto sia significante, in questo lavoro di ricerca, la mancanza di elementi concreti e di riferimenti precisi. Uno storico della fotografia che si rispetti, infatti, non può prescindere dallo studio diretto del materiale riferentesi ad autori dei vari periodi presi in esame. (…) Ne viene fuori un panorama della nostra fotografia che manca di compiutezza e di sintesi. E questo non può che disorientarci nel nostro lavoro di ricerca, specie se consideriamo il vantaggio competitivo dei critici americani, francesi ed inglesi, ben assistiti e coadiuvati da istituzioni ed enti, pubblici e privati, che da tempo e con cura si sono assunti il ruolo di archivisti scrupolosi di una massa di immagini fotografiche, che oggi vengono offerte allo studio attento degli storici e dei ricercatori. In Italia, probabilmente – proseguiva Racanicchi – fece difetto agli enti pubblici ed ai mecenati privati, una opportuna valutazione del significato informativo ed estetico di questo moderno linguaggio, proprio perché fu estranea alla coscienza dei più una idea precisa della sua moderna funzione sul piano dei valori visivi. (…) Trascurando così di valutare per le sue effettive possibilità un mezzo tra i più funzionali nel settore del linguaggio figurativo, gli italiani negarono alla fotografia quel credito di cui essa invece aveva bisogno. Perciò i nostri fotografi – molti sono gli anonimi o quasi – fecero del loro lavoro una seria produzione artigianale e niente di più, tralasciando le impegnative ricerche estetiche che difficilmente avrebbero avuto un pubblico men che disattento ed indifferente.”  Analisi lucidissima, che non solo denunciava con largo anticipo lo status assegnato dalla cultura italiana al patrimonio fotografico, ma individuava – anche storicamente – nelle nostre condizioni socio culturali le ragioni e i condizionamenti che avevano connotato come ‘artigianale’ la produzione italiana, senza limitarsi – come invece aveva fatto Vitali, col quale condivideva le preoccupazioni per la dispersione del patrimonio – a segnalarne quasi di sfuggita i “frutti saporiti”.  Questo e altri articoli monografici di Racanicchi vennero poi raccolti in due fascicoli di “Critica e storia della fotografia”[238] ma la rubrica che li ospitava ebbe vita breve;  “poiché – come ricordava Renzo Chini –  non vi era motivo intrinseco di interrompere tale rubrica, forse la prima del genere mai tentata, almeno in Italia, è da supporre che la sospensione sia stata la conseguenza del poco gradimento da parte dei lettori della rivista. La nostra ipotesi è avvalorata da giudizi ingiusti e  insipienti su quegli articoli da noi ricevuti oralmente anche da parte di dilettanti così detti evoluti.”[239]

 

 

Piero Becchetti e le prime ricognizioni  a scala locale e territoriale

 

Tra istanza revivalistica e interpretazioni psicanalitiche, ma anche con intenti di ricostruzione storica, si produssero tra anni Sessanta e Settanta una trentina tra volumi e cataloghi di mostra di argomento locale. Eterogenei per impostazione e interesse, molti di questi rimandavano sin dal titolo a una equivoca nostalgia dello sguardo, ricorrendo più volte a lemmi come “ieri”, “cent’anni fa” (e varianti), “antica”, “vecchia” (Asti, Bergamo, Oneglia, Torino); accanto a questi si potevano trovare alcuni, ancora pochi esempi di approccio storico e storiografico più consapevole[240], quali la pubblicazione nel 1963 del facsimile dell’album di Edouard Delessert del 1854 dedicato alla Sardegna[241], e i primi studi di storia della fotografia a Roma di Piero Becchetti, tra cui la mostra Roma cento anni fa nelle fotografie del tempo[242], che costituiva di fatto l’anello di congiunzione con l’iniziativa analoga curata da Silvio Negro nel 1953, anche per la presenza tra i curatori di Giovanni Incisa della Rocchetta, che era stato uno dei membri di quel Comitato esecutivo. A quella avrebbero fatto seguito negli anni successivi la monografica dedicata a Enrico Valenziani, con immagini provenienti dal fondo omonimo del GFN, e la mostra itinerante dedicata a Roma intorno alla metà del XIX secolo, con fotografie provenienti da collezioni romane e danesi, che dopo Palazzo Braschi venne presentata al Museo Thorwaldsen di Copenhagen e al Museo Ludwig di Colonia.[243] Pur con le dovute differenze queste mostre romane, come altre analoghe torinesi degli stessi anni[244], fondavano il loro interesse, e l’impianto storico critico che le sosteneva, sul delicato equilibrio tra rappresentante e rappresentato, certo imprescindibile e fondante per questo genere di fotografia documentaria, ma con una eccessiva accentuazione del secondo termine della relazione, orientandole ancora verso una storiografia urbana che vedeva nelle fotografie la propria fonte più accattivante e ostensibile.

Un primo tentativo di spostare l’accento sul patrimonio fotografico in quanto tale, quindi anche sugli autori e sulle opere fu proposto da Giorgio Avigdor, fotografo e collezionista, che ideò e diresse una prima ricerca sistematica presso le principali istituzioni della regione, poi confluita nella mostra Fotografi del Piemonte 1852-1899[245], riconosciuta come “una tappa metodologica importante [che] costituirà un modello di ricerca per mostre successive.”[246] Il catalogo valorizzava sin dal sottotitolo la presenza delle “duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana” presentate in mostra, ciascuna corredata da una scheda descrittiva che – nonostante le indicazioni dichiarate[247] – non contemplava la tecnica ma forniva ogni altra indicazione catalografica (titolo, data, misure, iscrizioni, collezione di appartenenza); anzi, a sottolineare l’importanza di quei dati le “schede delle opere esposte”, accompagnate da brevi note biografiche e dalla bibliografia relativa a ciascun fotografo, precedevano le riproduzioni a piena pagina, purtroppo stampate in un uniforme inchiostro seppiato.  Scopo primo della ricerca era stato, ancora, quello di utilizzare e confrontare “materiali prodotti negli anni della prima diffusione del mezzo fotografico in Piemonte (…) per le sue implicazioni dirette con la storia dei luoghi”[248], ma arricchito da  più complesse suggestioni originate dalla lettura di un dialogo in cui Carlo Bertelli e Giovanni Romano[249] avevano invitato a riflettere sull’efficacia dello studio dell’antica fotografia per gli autori delle nuove generazioni. Accanto alla funzione storico documentaria se ne riconosceva così la sua valenza di forma espressiva, di manifestazione di cultura che necessitava di essere studiata e materialmente salvaguardata. I due contributi in catalogo di Maria Adriana Prolo[250] e di Rosanna Maggio Serra[251] davano conto delle prime attività dagherrotipiche a Torino, non considerate dalla ricerca, e dell’importante fondo di documentazione archeologica e architettonica raccolto da Alfredo d’Andrade, senza tentare – se non tangenzialmente – un primo profilo storico complessivo; quello che avrebbe ricostruito Marina Miraglia pochi anni più tardi[252].  La ricerca, la mostra e il catalogo che ne dava conto presentavano rilevanti elementi di novità rispetto al povero panorama italiano, a partire proprio dalla volontà di fornire i primi elementi utili a ricostruire storicamente l’attività fotografica in quel preciso contesto territoriale e culturale. Da quei presupposti derivava la definizione delle stesse modalità dell’indagine, condotta prevalentemente in archivi pubblici e biblioteche, facendo emergere per la prima volta un patrimonio negletto, ora accuratamente studiato facendo ricorso a fonti primarie coeve e presentato in originale. L’approfondimento dell’analisi, sollecitato se non imposto dal misurarsi con un contesto circoscritto, e il confronto con le fonti, che obbligava a rinunciare alle generalizzazione e alla genericità, fornivano le prime occasioni per elaborazioni metodologiche di portata più generale, mentre la progressiva estensione del repertorio dei fotografi attivi in Italia offriva la base per delineare progetti di più ampio respiro.

Più complessa e articolata dell’esempio piemontese si presentava in quello stesso 1977 la mostra fiorentina dedicata agli Alinari[253], curata da Settimelli e Filippo Zevi, nuovo titolare della società dopo la scomparsa di Vittorio Cini che l’aveva fortemente voluta, marcando una svolta significativa nella considerazione della ditta fiorentina del valore storico ed economico del proprio patrimonio.  Diversamente da quanto si era fatto per Fotografi del Piemonte, per la grande mostra al Forte Belvedere, poi trasferita a Torino a Palazzo Reale[254], si era scelto di ristampare e ingrandire le vecchie lastre “con le tecniche più aggiornate” invece di esporre gli  originali, “così – dichiarava Zevi – la fotografia rispetta il suo compito primario: che è di trasmettere una ‘registrazione’, qualunque essa sia”[255], privilegiando ancora la consolidata funzione e concezione referenziale, sottoposta invece a stringente verifica nei numerosi, importanti saggi in catalogo. Questi costituivano dal punto di vista storico critico la vera, determinante novità del progetto e dimostravano in concreto la necessità e la possibilità di affrontare i diversi aspetti della storia della fotografia con i più affilati strumenti metodologici.

Il volume apriva con una attenta ricostruzione delle vicende della famiglia Alinari, redatta da Settimelli in uno stile insolitamente sobrio, ed era corredato di un accurato regesto delle opere esposte, che per ciascuna immagine riportava gli elementi identificativi delle lastre originali[256].  Una prassi certamente importante ma viziata da una contraddizione interna, avendo come esito la descrizione puntuale di oggetti non corrispondenti a quelli esposti  e pertanto ignoti all’enorme pubblico di visitatori[257], sebbene potesse forse trovare una qualche  ragione d’essere nella volontà di soddisfare contemporaneamente esigenze di comunicazione divulgativa e di correttezza metodologica, almeno tendenziale. Una lettura criticamente attrezzata qualificava invece la sezione dedicata alla documentazione d’arte, curata da Massimo Ferretti con Alessandro Conti ed Ettore Spalletti, tre giovani storici dell’arte formatisi tra Bologna e Pisa. Il primo affrontava il tema nodale della ridefinizione storico critica dei concetti, e dei rapporti, tra traduzione e riproduzione, a partire dalla constatazione che “non sembra infatti opportuno presentare l’avvento della fotografia nella riproduzione d’arte come una frattura immediata e totale, un rapido voltar d’angolo, dietro il quale si incontrerebbero subito I Maestri del Colore e le tardive, spesso un poco talmudiche, letture italiane di Walter Benjamin”[258]; meglio seguire “le tappe di quella rivoluzione frenata e non sempre avvertita che fu la riproducibilità dell’opera d’arte”, coniugando trasformazioni tecnologiche (nella capacità di trascrizione del colore, ad esempio[259]) e allargamento delle fasce culturali e sociali degli stessi destinatari, dal momento che “la fotografia diventò uno strumento di conoscenza più facile e immediato”, per la cui lettura non era più necessaria la competenza specifica del conoscitore di stampe. “La fotografia d’arte – proseguiva Ferretti – è un codice non meno complesso di quelli stabiliti nei vecchi procedimenti, ma il suo utilizzo è più vasto e meno specializzato. Per questo motivo le testimonianze degli ‘addetti ai lavori’  sull’importanza e sulla funzione della fotografia nello studio dell’arte non vanno sopravvalutate.” Mostrando una certa sintonia con Gilardi ricordava infine come l’utilizzo della riproduzione fotografica non avesse più che tanto influito sulla disciplina storico artistica e sul suo insegnamento, poiché semmai “la svolta si avverte acuta e definitiva (…) quando la fotografia esce dalle cartelle dei collezionisti ed entra nei libri d’arte.”  Le due altre sezioni, dedicate rispettivamente a Firenze e all’attività ritrattistica, erano curate da un gruppo di studiosi di diversa formazione[260], alcuni dei quali avrebbero poi dato vita all’Archivio Fotografico Toscano. Mentre il testo di Silvestrini su Firenze restituiva  il contesto storico economico degli anni considerati dalla mostra, senza affrontare il problema del cosa e del come gli Alinari avevano raccontato la loro città contribuendo non poco alla sua fortuna turistica, l’intervento di Fernando Tempesti, che solo l’anno precedente aveva  curato una mostra dedicata ad analoghi temi[261], entrava nel merito dei modi e degli stilemi della loro produzione ritrattistica, utilizzando quale termine di confronto i ben noti “appunti pratici per chi posa”, dati alle stampe da Carlo Brogi nel 1895[262]. A considerarlo oggi il saggio di Tempesti presenta ancora una scrittura convincente ma notevoli limiti metodologici e più propriamente storiografici: nell’adottare quel testo e nello svolgere le proprie riflessioni, infatti, lo studioso non aveva tenuto conto di alcuni elementi che appaiono con grande evidenza determinanti, a partire dal fatto che Brogi si rivolgeva al soggetto piuttosto che all’operatore. Pur volendo prescindere da quell’artificio retorico restavano però aperte almeno altre due questioni altrettanto dirimenti:  che esistesse una corrispondenza, non dimostrata, tra i modi di Brogi e quelli di Alinari, e che le modalità e i canoni adottati nei loro primi ritratti, datati verso il 1860, fossero rimasti immutati in quel trentennio cruciale che li separava dalla pubblicazione del ‘manuale’, redatto ormai a  ridosso del nuovo secolo.

La mostra fiorentina costituì il primo evento di risonanza mediatica legato alla valorizzazione del patrimonio fotografico storico, privato in termini economico produttivi ma pubblico per incidenza culturale, che invitava a letture spinte oltre la superficie documentaria:  “La mostra degli Alinari a Firenze – scrisse Stefano Reggiani – ha fatto capire che quando al documento si aggiunge l’autore, la vecchia fotografia diviene preziosa e articolata come un saggio. Per esempio, i monumenti d’Italia sono stati inventati dagli Alinari, che ne hanno stabilito in celebri immagini la forma ufficiale, la prospettiva vincolante. Ma come? Con che diritti? Diventando interpreti della realtà anche artistica, sovrapponendo alla bellezza una loro lucida, un pochino frigida e punitiva inclinazione moralistica. E così la gente, gli interni fotografati dagli Alinari sono documenti già elaborati e consegnati agli storici con un’aggiunta che bisogna ‘togliere’ e valutare.”[263] Una breve notazione giornalistica, certo, ma ben consapevole della necessità di superare il puro dato referenziale per interrogarsi sulla funzione culturale, di prodotto e produttore di cultura, di una certa cultura, di quelle fotografie e dei loro autori.[264]

A quelle prime analisi monografiche (una regione, un’impresa) si affiancò poco dopo un’indagine di taglio orizzontale, che considerava tutto il territorio italiano: il fondamentale repertorio che Piero Becchetti dedicava a Fotografi e fotografia in Italia[265], adottando una titolazione che avrebbe avuto nei decenni successivi grande fortuna editoriale in opere declinate a scale diverse. Il lavoro, presentato da Fortunato Bellonzi come il “primo contributo sistematico ad una storia della fotografia in Italia che è ancora da scrivere”, era per larga parte fondato sulla raccolta personale dello studioso, testimoniando ancora una volta il legame strettissimo tra pratica collezionistica e storiografia che caratterizzava molte produzioni di quegli anni. Esso costituiva cronologicamente il frutto maturo di quel decennio che possiamo far iniziare con la pubblicazione del saggio di Vitali dedicato a Primoli, di cui diremo,  e che si sarebbe di lì a poco compiuto con la pubblicazione del secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi. Il riferimento alla propria personale passione collezionistica posto in apertura, sebbene sotto tono, trovava la propria ragione e giustificazione anche nella quasi totale assenza di ricerche a scala regionale o locale che avrebbero potuto svolgere per lo studioso la funzione di fonti secondarie, mentre di una certa utilità era risultato il ricorso ad alcuni titoli stranieri, compresi i cataloghi di vendita delle principali case d’asta. Delle circa duecento immagini pubblicate, la prima ricca esemplificazione a scala nazionale, Becchetti forniva indicazioni in merito ad autore, soggetto, data, formato e tecnica, corredando a volte la didascalia di brevi note di contenuto, ricalcando cioè il modello editoriale utilizzato da Vitali, di cui riprendeva anche alcune formule testuali[266]. Il saggio introduttivo aveva andamento cronologico: dalla diffusione della notizia dell’invenzione alle relazioni di Talbot con studiosi italiani sino a “L’impero del collodio”, ampiamente trattato con approfondimenti relativi ad alcuni particolari ambiti di applicazione quali il ritratto, la stereoscopia e la fotografia scientifica, a cui si aggiungevano tre brevi capitoli di più ampia contestualizzazione. Da questi si distingueva quello relativo alla Grande panoramica con i combattimenti del 1849, con un salto di scala e di ambito che risultava difficilmente comprensibile nell’economia generale del volume ma che era dettato dalla volontà, poi frustrata, di pervenire a una corretta datazione di quella discussa immagine a partire dall’analisi dei referenti urbani, non considerando però quelli oggettuali né la tecnica, come se – ancora – la fotografia fosse in sé trasparente.[267] I singoli capitoli derivati dalla  “umiltà severa  della ricerca di Becchetti”[268] costituivano a quella data la più compiuta sistematizzazione dei periodi considerati, condotta con ampi riferimenti alle fonti archivistiche e bibliografiche coeve, non solo italiane, ciò che gli consentì di correggere e precisare alcuni dati forniti dai pochi studiosi precedenti che si erano misurati specialmente con la ricostruzione del periodo delle origini, da Silvio Negro a Maria Adriana Prolo, e di fornire alcune chiavi interpretative che dovevano favorire, in anni di sostanziale ignoranza del tema, una prima, diffusa comprensione dei fenomeni storici connessi alle innovazioni tecnologiche come la riproducibilità del calotipo o l’introduzione del negativo di vetro con emulsione al collodio, quando  “la fotografia (…) cessò di essere considerata una meraviglia ottica o una curiosità. Con la folgorante introduzione del collodio termini come dagherrotipia e talbotipia, che pure avevano suscitato deliranti entusiasmi, vennero presto dimenticati ed eliminati dall’uso comune”. Un altro punto di svolta da lui precisamente indicato fu l’industrializzazione dei materiali sensibili e la conseguente diffusione amatoriale della pratica fotografica, portando di fatto – come per Negro e Vitali –  alla conclusione della “grande stagione” della fotografia (in Italia e non solo).  In quella periodizzazione andavano perciò individuate le ragioni, per altro non esplicitate,  dell’arco cronologico considerato dalla sua ricerca, ma del resto questo lavoro di Becchetti si proponeva non tanto come una storia quanto come un repertorio (anzi, per molto tempo a venire: il repertorio) originato e condizionato dalla sua stessa, preziosa passione collezionistica piuttosto che dall’applicazione di un metodo in senso proprio. Le ragioni critiche credo possano essere invece riconosciute nella condivisione delle opinioni espresse dai maggiori studiosi che lo avevano preceduto: “Nonostante la rapida diffusione del mezzo fotografico e la sua immediata fortuna, la fotografia in Italia non ebbe personalità di rilievo tali (…) da farla considerare una fotografia d’eccezione. Essa ebbe uno sviluppo simile a quello di altre nazioni europee dove la produzione non raggiunse vertici altissimi pur esprimendosi attraverso valenti e qualificati artisti.” Oltre a questo giudizio pesava la consapevolezza, altrettanto condivisa, della necessità imprescindibile della ricerca di base, e delle sue lacune: “Dopo i pochi qualificati saggi che sono stati pubblicati sulla fotografia italiana, attualmente siamo in condizione di poter affermare che in Italia si è fotografato molto e bene ma non siamo ancora in grado di poter dare un giudizio critico complessivo a causa del grave ritardo con il quale nel nostro paese sono stati intrapresi questi studi. Per questo motivo, gran parte del materiale fotografico è ancora disperso in mille rivoli di difficile accesso o peggio ancora molto è andato inconsultamente distrutto. Solo quando il patrimonio fotografico residuo, che giace ancora negletto in biblioteche, archivi o soffitte, avrà avuto l’esatta collocazione storica e critica, integrata anche da ampie ricerche presso musei e biblioteche straniere, sarà possibile valutare nella sua interezza la fotografia italiana.”[269] Di quale potesse essere l’entità di questo patrimonio residuo dava indirettamente conto l’incredibile repertorio di circa 1.300 fotografi attivi in Italia dal 1839 al 1880 che costituiva la parte più rilevante e il contributo fondamentale di questo lavoro di Becchetti per la costruzione di una storia della fotografia nel nostro Paese, ordinato topograficamente per luogo di attività. Di ciascuno erano fornite informazioni di diverso livello e rilevanza, condizionate dalla disponibilità delle fonti,  nella gran parte costituite dai soli supporti secondari dei fototipi reperiti, di cui in alcuni casi venne fornita la riproduzione,  mentre solo per i maggiori Becchetti poteva disporre di documentazione bibliografica o archivistica, a sua volta indizio del loro contributo alla cultura e non solo alla pratica della fotografia; mi riferisco alle schede dedicate a grandi tecnici come Giuseppe Venanzio Sella, di cui ancora non era nota la produzione fotografica, Luigi Borlinetto o Giuseppe Pizzighelli e agli editori dei primi periodici come Ottavio Baratti e  Antonio Montagna.

 

Le prime monografie

 

Con quelle iniziative si andavano delineando due distinti e per certi versi opposti filoni di ricerca, rivolti rispettivamente alla definizione di un contesto o all’approfondimento autoriale (dall’amateur ai grandi studi).  La ricerca condotta da Becchetti aveva per la prima volta tentato la messa a punto di un repertorio sistematico, mentre la mostra dedicata agli Alinari, pur condividendone la dimensione  territoriale (qui garantita dall’areale geografico della loro attività) rappresentava un importante modello di studio monografico, che da noi aveva ancora pochi precedenti, specialmente se espresso sotto forma di catalogo di mostra.

Un importante ruolo di promozione era stato svolto in tal senso  dalle iniziative realizzate dal CIFe, il Centro Informazioni Ferrania, istituito nel 1961 dalla società omonima e chiuso  nel 1972[270]. Il primo direttore era stato Guido Bezzola, capo delle pubbliche relazioni della Società Ferrania e direttore della rivista omonima, poi docente di Letteratura italiana all’Università statale di Milano, che firmò il testo della mostra dedicata alle  Immagini del Risorgimento[271] (1967), prodotta ancora come Ufficio stampa e pubbliche relazioni della società. Quando la direzione passò a Marcantonio Muzi Falconi dopo l’acquisto da parte della 3M Italia  vennero realizzate altre mostre di interesse storico, con cataloghi editi in collaborazione con la Cooperativa ”Il libro fotografico” di Bergamo, nata per iniziativa di Antonio Arcari, Cesare Colombo e altri[272].  Scopo della cooperativa era quello di “pubblicare libri che rispondano a certe esigenze di ordine ‘ideologico’, non nel senso politico certamente, ma nel senso di un nostro particolare modo di intendere la fotografia”[273], dando vita a “una attività editoriale fotografica culturale in un senso abbastanza largo del termine”, ma senza perdere di vista gli aspetti commerciali dell’impresa.  Tra gli argomenti prospettati, tutti segnati da un preciso intento sociale e politico,  “La condizione della donna in Italia” (…) “emigrazione, Scuola, Sport ecc. [che] potrebbero essere i titoli di una collana di ‘Storia italiana’, un progetto che da tanto sta a cuore di molti di noi.” Accanto ai volumi era prevista una “attività marginale, di minor impegno economico, ma di più precisi interessi culturali (…) rivolta all’attuazione di due ‘quaderni’ di 60-80 pagine che trattino problemi di storia e di cultura fotografiche, soprattutto nelle sue relazioni con il mondo della pittura e della grafica. La critica fotografica e gli agganci che essa ha creato in questi ultimi anni con i cultori di altre discipline è in grado di realizzare saggi che possono proporsi come contributi alla conoscenza e all’approfondimento di aspetti particolari e a volte decisivi della nostra civiltà dell’immagine. Per esempio: la fotodinamica futurista. Il fotomontaggio dada. Le rayografies [sic]. Toulouse Lautrec e la fotografia. Nascita del fotoromanzo. ecc.”[274] Ipotesi particolarmente suggestive e innovative, si pensi all’attenzione per un prodotto popolare come il fotoromanzo, in alcune delle quali si riconosceva, forte, l’influenza di Piero Racanicchi, ma che per più ragioni si tradussero in uscite editoriali più ‘moderate’ come  La famiglia italiana in 100 anni di fotografia (1968) e le monografie dedicate a Francesco Negri fotografo a Casale (1969) e a Giovanni Verga fotografo (1970), a ridosso della scoperta dell’archivio fotografico dello scrittore fatta da Giovanni Garra Agosta nel 1966[275].  Il riscontro cronologico dei materiali verghiani aveva subito mostrato come quella sua passione si fosse manifestata solo nella fase declinante della sua attività di romanziere (“compagna di  giorni stanchi”, la definì con esattezza Bertelli[276]) aprendo quindi interrogativi non ovvi sul più ampio tema del rapporto tra verismo e fotografia, tra letteratura e pittura: da Capuana a Michetti, ma dal quale, solo per apparente paradosso, dovevano essere escluse proprio quelle immagini. “Possiamo istituire un parallelo tra la narrativa di Verga e la sua fotografia? Sarebbe troppo – scriveva Enzo Siciliano – Queste immagini che il tempo ha ingiallito sono state l’occasione, a volta a volta cercata, per distrarsi da una feroce ipocondria.”[277] In conseguenza di queste e analoghe valutazioni critiche, lamentava deluso Settimelli, “chi pensava che la scoperta di un Verga anche fotografo stimolasse una analisi più precisa del rapporto tra fotografia e verismo è stato, fino a questo momento, smentito dai fatti perché non è successo niente di niente. (…) quella del Verga fotografo mi pare sia stata una grande occasione fatta cadere anche dai ‘verghiani’ più preparati e soprattutto dagli studiosi dello scrittore siciliano che si rifanno a Marx e Gramsci.”[278]

La monografia dedicata a Francesco Negri[279] da un gruppo di studiosi coordinati da Cesare Colombo era stata invece l’esito di un primo incarico di ricerca assegnato a Settimelli e alla moglie Fridel Geiger dall’Amministrazione comunale di Casale Monferrato nell’ambito delle iniziative promosse nel 1967 per “studiare e sviluppare l’azione necessaria per la rivalutazione e la divulgazione dell’opera di Francesco Negri e per degnamente onorarne la memoria” in vista del cinquantesimo anniversario della morte (1974). Il Comitato appositamente costituito aveva già promosso una prima pubblicazione ampiamente illustrata da immagini del fotografo casalese ma in un contesto di ricostruzione delle vicende ottocentesche della città[280], mentre il nuovo volume affrontava tutti gli ambiti di applicazione della fotografia coi quali Negri si era misurato, ciascuno affidato a un singolo studioso,  preceduti da un testo di inquadramento generale della sua figura a firma di Settimelli.  La presenza di differenti competenze consentì diverse letture e contribuì certamente a mettere in rilievo l’interesse dell’opera e del ruolo da lui svolto nella cultura fotografica italiana coeva, specialmente in qualità di sperimentatore curioso e qualificato di varie tecnologie, sebbene poi mancasse ogni e qualsivoglia descrizione delle caratteristiche tecniche delle immagini pubblicate. Come ricordava Settimelli, Francesco Negri “ha sperimentato di persona, volta a volta, nuove tecniche e nuovi strumenti ed ha messo a punto attrezzature mai usate prima. (…) Usa lastre di ogni genere e formato”, e così via enumerando, ma poi mai che si dicesse delle immagini riprodotte quali fossero le misure del negativo (non essendo quasi sopravvissute stampe), quale l’emulsione e la data di ripresa[281].  Unica eccezione la sezione dedicata alle tricromie, curata da Fabrizio Celentano, in cui si ripercorrevano le vicende delle prime ricerche sul colore sino agli ultimi anni di attività di Negri, pur non considerando la comparsa coeva delle autocromie Lumière con le quali si era pur sporadicamente misurato. Le modalità applicate e il quadro che ne era risultato  erano per molti versi stimolanti e innovativi ma non ancora compiutamente coerenti, incerti com’erano tra un certo revivalismo neppur troppo celato (forse attribuibile alle esigenze della committenza) e una propensione all’analisi storico critica non ancora sostenuta dagli strumenti e dalle metodologie necessarie.

Ben più autorevole e accurata era stata la ricostruzione storico documentaria offerta dalla monografia dedicata al conte Giuseppe Primoli[282], di cui Vitali decise finalmente di diventare l’ “illustratore” dando la stura a una sequela di titoli fondati sulle testimonianze fotografiche di questo autore che ha avuto pochi confronti in Italia[283].  L’uscita del volume si collocava a poco più di un decennio di distanza dalle prime entusiastiche segnalazioni e costituiva un omaggio alla cara memoria dell’amico Silvio Negro, a cui era dedicato. L’avvio dell’importante saggio era canonico, trattandosi dello sviluppo di tesi già ampiamente annunciate nei più brevi testi precedenti, mentre molto più netta e incisiva era  l’enunciazione dell’ipotesi storiografica, che legava sviluppo tecnologico e innovazione linguistica: “quando, attorno al 1880, dalla negativa al collodio umido fu possibile passare a quella della gelatina secca, si può dire che veramente avesse inizio un tempo nuovo per le sorti della fotografia. Fu, ancora una volta, l’ingresso rinnovatore degli ‘irregolari’ della fotografia”. E più oltre: “la fotografia di reportage o di attualità, quale noi l’intendiamo, quella che ormai ci opprime e rischia di sopraffarci talvolta con una mancanza di tatto e di scrupoli veramente inscusabile[284], la fotografia con i personaggi in azione fu conseguenza naturale del ritrovato di lastre più sensibili, che abbreviarono i tempi di posa da minuti primi a frazioni di secondo; così tutto un nuovo modo di intendere la fotografia si apriva agli operatori e non soltanto a quelli che ne esercitavano la professione.” Oggi siamo più consapevoli della rilevanza e del ruolo che gli amateurs ebbero nella pratica e nella costruzione di una cultura della fotografia, ben prima del processo di massificazione consentito e avviato dalle emulsioni alla gelatina e – ancor più – dall’uso dei supporti plastici, ma  la rilevanza della notazione di Vitali non può essere diminuita dal riconoscere che era (anche) strumentale alla migliore presentazione critica del protagonista del saggio, introdotta dalla messa a punto di una genealogia italiana del fenomeno che gli serviva per “spiegare come il caso dei due fratelli Primoli non possa essere considerato eccezionale se non per i risultati.” Basti a questo proposito confrontarla con l’interpretazione riduttiva del fenomeno espressa solo pochi anni prima da Helmut Gernsheim, per il quale “usando apparecchi piuttosto semplici e, nella stragrande maggioranza, privi di un’educazione specifica, questi nuovi dilettanti non avevano mai sentito parlare di teorie compositive e si limitavano a fare istantanee facili e spesso molto graziose. (…) Facendo fotografie unicamente per il  proprio piacere, la maggior parte dei dilettanti della nuova generazione è rimasta sconosciuta. Per questa ragione l’opera di alcuni di loro è venuta alla luce solo recentemente. Le numerosissime fotografie che il conte Giuseppe Primoli fece tra il 1885 e il 1905, per esempio, descrivono con ammirevole immediatezza e straordinaria originalità di concezione infiniti momenti di vita romana, tanto dell’aristocrazia quanto del popolo minuto.”[285]

Dopo aver affrontato in termini metodologicamente significativi la questione attributiva, assegnando al solo Giuseppe la più parte del corpus di immagini superstiti, e di fatto relegando il fratello Luigi in posizione assolutamente marginale, Vitali affrontava l’analisi del suo lavoro secondo categorie che – un poco contraddittoriamente – ricavava dal reportage moderno, considerando Giuseppe Primoli “come un vero e proprio ‘primitivo’ del reportage”; un autore che “del fotoreporter ha l’occhio sicuro, la decisione pronta, la rapidità d’azione, la curiosità insaziabile e inesauribile di tutti gli aspetti della vita che si anima intorno a lui”; il desiderio – si potrebbe dire – di cogliere l’immagine di quella vita “passante frammentaria e fuggevole” di cui scriveva il contemporaneo Marcel Proust[286]. Quella sua disposizione “alla creazione di una serie di immagini (…) è la stessa pratica che adottano al giorno d’oggi tutti i fotoreporters a principiare dai più illustri (…),  i punti di contatto con gli operatori attuali sono altri ancora e non meno singolari. Primoli insegue l’avvenimento e non se ne lascia sfuggire nessuna fase. (…) E ancora: anticipando di mezzo secolo i Cartier-Bresson e i Bill Brandt – e qui veramente precorre il gusto d’oggi – Primoli ritrae spesso non l’avvenimento, ma l’avvenimento riflesso nelle impressioni degli astanti”[287]. A quella analisi delle qualità narrative di questo autore avrebbe reso omaggio Carlo Bertelli[288] un decennio più tardi riconoscendo “quella divinazione letteraria – tanto bene individuata da Lamberto Vitali – che dava al Primoli la capacità d’intervenire tagliente come un epigramma, e sempre al momento giusto. (…) Primoli è il vero e geniale fotografo zoliano: è suo il miracolo di una ‘rappresentazione esatta della realtà’ (…) [poiché] accetta la totalità della fotografia, ossia la sua incapacità di selezione e di organizzazione dell’immagine altro che in rapporto al tempo. (…) Avido di notizie, scatta dello stesso episodio quattro, cinque lastre in rapida successione, trovando di continuo, nell’osservare la scena, uno sviluppo che aggiunge qualcosa al già detto, al già fermato, quasi con un senso infelice del tempo che già non è più, dell’ora irripetibile. Allora la difesa, se non si vuole essere trascinati da una mania sconfinante, è l’ironia, la garbata ironia”. Le ragioni di quella disposizione narrativa erano riconosciute da Vitali nell’essere Primoli “doppio memorialista, scrittore e fotografo”, tanto che  “Primoli fotografo non si spiega se non con Primoli memorialista, si può dire che uno nasca dall’altro.” L’analisi proseguiva serrata, considerando i moduli compositivi adottati[289] per svilupparsi con grande finezza interpretativa anche a proposito di quegli aspetti che Vitali giudicava negativamente, come le opere “ispirate alla pittura del tempo” nelle quali riconosceva un gusto non solo “essenzialmente letterario” ma anche scarsamente sensibile alle proposte più innovative del momento, pur riconoscendo che Primoli “fu salvo” dalla tentazione “di ottenere, con stampe alla gomma o al bromolio, effetti che rivaleggiassero con quelli della pittura più scadente.”

L’autorevolezza di quel modello e il successo del volume  determinarono una diffusa attenzione editoriale per la produzione amatoriale dei rappresentanti della nobiltà italiana a cavallo tra Otto e Novecento: così dopo le Memorie fotografiche di Francesco Chigi[290]  si pubblicarono le conturbanti pose della Contessa di Castiglione accanto alle più familiari fotografie di Casa Pignatelli, di Giuseppe Caravita Principe di Sirignano, del Marchese di San Giuliano, di Wladimir d’Ormesson, di Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia[291] o dei Lorena in Toscana. In quella occasione la selezione dei materiali piuttosto che fornire complesse testimonianze di vita o far trasparire un peculiare sostrato ideologico consentiva semmai di riconoscere le forti affinità espressive con altre analoghe produzioni del fotoamatorismo borghese coevo, tanto da indurre i commentatori a non “nascondere, sotto sotto, un senso di delusione per aver scoperto un mondo che credevamo e volevamo diverso, meno banale e meno quotidiano; delusione alla quale si sostituisce però ben presto il piacere di una lettura più partecipata di una visione di persone, luoghi e vicende colte nella loro reale, e quindi più genuina e sincera, dimensione umana.”[292] Un caso non infrequente in cui l’analisi non si spingeva oltre quelle descrizioni retoricamente superficiali,  riducendo così di molto l’interesse della pubblicazione dei materiali presentati.

Nobiltà e alta borghesia come committenti e produttrici di corpora fotografici inestricabilmente connessi a un’intenzione più o meno consapevole, se non proprio a un progetto di costruzione di un’immagine di classe[293], furono in quegli anni il soggetto privilegiato di saggi e mostre, come fu per il banchiere fiorentino Mario Nunes Vais, al quale tra 1974 e 1978 vennero dedicate ben due esposizioni con relativi cataloghi e due volumi monografici, tutti derivati dalla donazione del fondo fatta dalla figlia Laura Weil al GFN[294].  Quel gesto consentì al nuovo direttore Oreste Ferrari di avanzare l’ipotesi della costituzione di un museo della fotografia, utilizzando gli altri fondi conservati da quell’istituto: “troppo poco, forse, per presumere di parlare d’un vero e proprio Museo storico della fotografia italiana; ma intanto c’è un nucleo di base che consente almeno di assolvere dignitosamente parte di quei compiti di informazione e di promozione degli studi che del Gabinetto Fotografico Nazionale sono peculiari e che meglio esso potrà assolvere quando farà parte integrante di quel nuovo Istituto per il Catalogo e la Documentazione dei Beni Culturali che è previsto dal progetto del Ministro Spadolini.”[295] Diametralmente opposta, decisamente riduttiva in termini di potenzialità museale e preciso sintomo di una divergenza nella definizione dei reciproci ruoli istituzionali ben riconoscibile  ancora oggi, l’opinione di  Bertelli, passato alla direzione dell’ING, che riteneva invece che fosse “da  escludere che il vecchio Gabinetto Fotografico, ora confluito nell’Istituto Centrale per il Catalogo, possa essere ancora un promotore di cultura fotografica. Nella situazione attuale sarebbe innaturale. L’Istituto del Catalogo si occupa del catalogo delle opere d’arte. È il suo compito primario, e compie ogni sforzo per assolverlo. Quando il Gabinetto Fotografico fu assorbito dal nuovo Istituto proposi che le sue raccolte storiche fossero assegnate al nuovo Istituto per la Grafica, dove la fotografia avrebbe avuto un posto diverso, quello documentario.[296] Mi sembrava che le fotografie di attori di Nunes Vais, quelle della bella gente di Mario[297] Chigi, quelle dell’industria lombarda di Bombelli, o quelle del mondo meridionale di Michetti (tutti fondi che avevo acquisito io, e forzando le cose, al vecchio archivio del Gabinetto Fotografico) non avessero rilevanza per la documentazione delle opere d’arte e che avrebbero trovato la loro collocazione più ragionevole in un istituto che si fosse dedicato all’opera multipla, stampa, serigrafia, fotografia. Non fui capito e fu perduta un’occasione storica. Il lavoro potrà essere ripreso ora sul piano regionale e delle soprintendenze,  con ben altre difficoltà, e con un’ottica inevitabilmente provinciale.”

La fotografia come pratica e strumento di rappresentazione borghese non era invece una categoria storico critica immediatamente applicabile (nonostante le forti componenti classiste)  a quella che fu in quegli anni una delle ‘scoperte’ di maggiore successo editoriale e commerciale: l’opera di Wilhelm von Gloeden, che pian piano emergeva dalla damnatio memoriae in cui l’avevano relegata dapprima il fascismo e poi la cultura perbenista (tra cattolicesimo e comunismo) del secondo dopoguerra. Dopo il profilo biografico romanzato da Roger Peyrefitte[298] e la ricostruzione d’ambiente di Pietro Nicolosi, la lussuosa monografia edita nel 1964[299], con belle riproduzioni in fototipia applicate su fogli di carta uso mano, aveva presentato una ristretta selezione di ritratti, corredandoli con una breve nota autobiografica. La scelta dei soggetti era certo stata prudenziale ma aveva portato a considerare un nome sino a quel momento escluso dalle storie della fotografia, nelle quali iniziò a comparire solo a partire dal 1975, quando Cecil Beaton ne pubblicò un arcadico gruppo con veduta sul golfo[300]. Difficile dire oggi sino a che punto le modificazioni dei costumi e dei comportamenti sociali indotte dai  movimenti politici della fine degli anni Sessanta influirono sulla possibilità stessa di considerare un autore la cui opera era stata caratterizzata da quello che Goffredo Parise aveva definito uno “sguardo omosessuale”, segnalando – con crudele slittamento semantico – come questo fosse “rigettato dagli estetisti storiografi”[301], ma credo che non sia priva di significato la concentrazione di saggi e di mostre, in gallerie prevalentemente private[302] e quindi anche, certo, con scopi commerciali, dedicate al barone di Taormina negli anni tra il 1977 e il 1980, con ampie proliferazioni successive.

Un percorso di avvicinamento ancora diverso aveva segnato un pittore come Michetti, col  quale a sua volta Von Gloeden stesso si era dichiarato in debito per l’avvio della propria attività fotografica, anch’egli oggetto di una articolata serie di studi  e di mostre originate dalla riscoperta del suo archivio fotografico. Tra la fine degli anni Quaranta del Novecento e l’inizio del decennio successivo una concatenazione di iniziative e di eventi aveva richiamato l’attenzione sulla figura e sull’opera del pittore abruzzese, ma  fu solo nel 1966 che Raffaello Delogu durante un sopralluogo a Francavilla a Mare[303]  aveva scoperto l’archivio di Michetti segnalandolo a Bertelli che, “in diverse mostre, fra il ’67 e il ’71, [si era provato] a dare un ordine cronologico al vasto materiale (2921 lastre, 9349 disegni), collegando certe fotografie a dipinti noti e supponendo che l’interesse autonomo per la documentazione di ciottoli, rocce, foglie e acque appartenesse agli ultimi tempi. Affidai la classificazione di tutto il materiale prima a Francesca Galli, poi a Marina Miraglia. Con mia sorpresa vidi, dallo studio accurato e di molti anni compiuto da Marina Miraglia (…) che non mi ero sbagliato.”[304]   La catalogazione e la duplicazione del Fondo (1968-1970) avevano infatti costituito l’occasione per una prima mostra fortissimamente voluta da Vitali per gli Amici di Brera[305], curata dallo stesso Bertelli  nel 1968 e prontamente segnalata da Giuseppe Turroni: “Se la storia della fotografia è ancora tutta da scrivere – notava – bisognerà certo aggiungere un capitolo su questo grande pittore (…) il quale fece della fotografia non soltanto uno strumento pratico di lavoro (…) ma anche un mezzo espressivo”, sottolineando il fatto singolare che “Michetti è stato forse il primo a saper catalogare così bene le sue fotografie” poiché per ciascuna  redigeva “schede disegnate, con riferimenti agli elementi più interessanti.”[306] Pochi anni dopo l’interesse per le fotografie di Michetti venne ulteriormente sollecitato dalla mostra prodotta dal GFN per la sezione culturale del SICOF 1970[307] e da una serie di articoli pubblicati in riviste di grande diffusione come  “Popular Photography Italiana”[308] e “Photo 13”[309]. Il contenuto ma ancor più il titolo (Il vizio segreto di Michetti) adottato in quell’ultimo caso irritarono però non poco Bertelli che ne scrisse all’autrice Marina Cacciò: “Ho visto, naturalmente, l’articolo e non direi che mi sia piaciuto. Intanto il titolo, mi sembra che confonda un po’ le cose: perché sembra in relazione con le fotografie dei nudi e perché toglie alla scoperta di Michetti fotografo uno dei suoi aspetti più curiosi, e cioè che attraverso la fotografia la sua esperienza artistica si faccia europea e dunque tutt’altro che ‘segreta’. (…) dispiace che una scoperta originale di Marina Miraglia, e su cui la stessa stava lavorando con serietà, sia già stata divulgata prima che l’autrice abbia ancora potuto definirla e presentarla come meglio avrebbe creduto. Intendo tutta la storia della documentazione fotografica per la rappresentazione della Figlia di Iorio.”[310] Considerazioni per più motivi ancora oggi interessanti: perché mostrano quale distanza, diciamo così, deontologica vi fosse tra la ricerca storica metodologicamente fondata e la pubblicistica di divulgazione e perché il disappunto di Bertelli smascherava l’atteggiamento ammiccante comune a tutte le testate giornalistiche di fotografia dell’epoca (e non solo), talmente pervasivo da connotare anche temi di interesse storico. Il lavoro che si stava conducendo produsse ulteriori interventi rendendo nota la figura di Michetti ben oltre i confini degli addetti ai lavori[311], consolidata infine dalla monografia che gli dedicò Miraglia nel 1975, esplicitamente intitolata a Francesco Paolo Michetti fotografo, uscita nella collana “Einaudi Letteratura” in cui erano già stati pubblicati il Fotodinamismo di Bragaglia (1970) e La fotografia di Mulas (1973), mentre l’anno successivo comparve l’altro saggio sollecitato da Bertelli: Ignazio Cugnoni fotografo, a firma di Sebastiano Porretta[312].

Già solo considerando il sommario, il volume curato da Miraglia forniva importanti indicazioni metodologiche, evidenti nell’articolazione dei capitoli che prevedeva in apertura la sintetica descrizione dell’archivio fotografico, vero fondamento e fonte primaria per qualsiasi ipotesi di studio e valutazione critica dell’opera di un autore[313]; a quella faceva seguito un capitolo di inquadramento generale che collocava l’opera di Michetti pittore nell’ambito della cultura del suo tempo e affrontava il tema nodale di quella “crisi di espressione che porterà il maestro a rinunziare definitivamente alla pittura”, considerando il rapporto arte – fotografia con ampi riferimenti al contesto europeo, ricavati dall’attenta lettura dei saggi di Aaron Scharf[314] (1962-1968) e di Van Deren Coke (1964) come delle più recenti mostre Malerei nach Fotografie (1970) e Combattimento per un’immagine (1973), ciò che le consentiva di sottoporre a revisione critica le prime notazioni in merito formulate da Ugo Ojetti e le indicazioni a suo tempo fornite da  Costantino Barbella, scultore amico di Michetti. L’ultima parte era invece dedicata alla lettura delle fotografie, nella quale considerava “non tanto il riporto nella pittura di modelli fotografici (…) ma il contributo della fotografia come linguaggio ed espressione al rinnovarsi dell’arte”,  tenendo però presente che “se anche prima del ritrovamento del fondo fotografico di Michetti, era inequivocabile, a ben guardare, il ricorso alla fotografia, altrettanto inequivocabile risulta, dall’esame delle fotografie, che tale ricorso non trovò mai un percorso in senso inverso dalla pittura alla fotografia”. Si stabiliva così un giudizio di merito sulla ‘modernità’ di Michetti fotografo rispetto alla sua produzione pittorica, anche se – per stessa ammissione dell’autrice – “forse è forzato pensare ad un Michetti che, dati i tempi aberranti della fotografia contemporanea, puntualizzi il problema con la stessa lucidità d’analisi che costituisce il presupposto della verifica n.1 di Mulas.”

Il libro di Miraglia costituì un evento importante non solo dal punto di vista del merito ma anche e forse soprattutto, perché rappresentava il primo sistematico contributo italiano all’analisi dei rapporti tra pittura e fotografia, già accennato a suo tempo da Vitali e più recentemente antologizzato in modi che destarono più di una perplessità nella mostra Combattimento per un’immagine[315], condotto con gli strumenti e le metodologie propri di uno storico dell’arte, ciò che di riflesso legittimava anche quell’area di studi a considerare il rapporto dei pittori con la fotografia come un possibile ambito di ricerca, superando rimozioni e censure. A distanza di anni il volume assume però un ulteriore valore testimoniale, rappresentato da quelli che oggi ci appaiono come alcuni rilevanti limiti dell’opera, che più che essere ascrivibili all’autrice ci sembrano ben rappresentare lo stato degli studi e la disponibilità, a quella data, di adeguati strumenti metodologici e conoscitivi: mentre la raffinata lettura storico artistica poteva contare su di una strumentazione teorica e metodologica consolidata da una lunga tradizione, alla nascente e meritoria consapevolezza della necessità di mettere in relazione tecniche e modalità espressive non corrispondeva ancora un bagaglio di competenze e di conoscenze storico tecnologiche adeguato a interpretare correttamente il corpus di  opere analizzate[316], determinando così una evidente discrasia tra i vari piani analitici, che non solo restarono nettamente separati ma anche pericolosamente disequilibrati.

La consapevolezza della necessità di partire dalla realtà materiale e tecnologica dei fototipi analizzati costituì il fondamento del successivo volume dedicato alla Collezione Cugnoni, nel quale una gran parte venne dedicata alla descrizione delle caratteristiche delle lastre conservate presso il GFN[317], corredando il testo anche di un sintetico glossario delle tecniche. Sebbene non esistesse una documentazione esauriente, la realizzazione di quel cospicuo insieme di lastre (4.515) venne assegnata all’architetto Ignazio Cugnoni, qualificato sin dal titolo come fotografo, da annoverarsi tra gli “irregolari” poiché “in effetti egli non fotografa per vendere a terzi, ma per sé, per la propria professione; così la sua espressività può definirsi libera, ma solo in quanto svincolata dal mercato”[318]. Tale condizione era allora parsa sufficiente a giustificare quell’insieme di materiali eterogenei per soggetto, cronologia e modalità di ripresa, oggi più ragionevolmente comprensibili come repertorio di immagini raccolte a scopo professionale attingendo dai cataloghi di autori diversi, da Filippo Belli a Carlo Baldassarre Simelli ed altri.[319]

 

Arte e fotografia: contatti

 

La questione dei rapporti tra la fotografia e le altri arti visive, la pittura in particolare, che Miraglia aveva analizzato a proposito di Michetti, era stata affrontata per la prima volta in  una mostra tenutasi alla Bibliothéque Nationale di Parigi nel 1955[320] e aveva goduto di una considerazione sempre maggiore nei due decenni successivi anche in area italiana, con gli interventi di Ragghianti su “seleArte”[321], di  Racanicchi in “Popular Photography Italiana” (1963)[322] e con altri raccolti nel gà citato numero monografico di “Ulisse” del 1967[323]. In ambito internazionale i contributi più sistematici  di quel periodo vennero dal volume divulgativo del cineasta e fotografo André Vigneau  e dagli studi di Beaumont Newhall, di Van Deren Coke, storico dell’arte ma anche fotografo, allievo di Ansel Adams, di Otto Stelzer (1966)[324] e di Aaron Scharf (1968)[325]. Per quanto riguarda la situazione italiana va ricordato che nel 1969 Paolo Fossati aveva proposto a Lamberto Vitali di curare “un libro sul lavoro dei pittori italiani fine Ottocento inizio del ‘900 condotto su fotografia – pittura. Si tratta di proporre un buon numero di esempi che illustrino il problema, quasi interamente illustrato e perciò in termini visivi. (…) si dovrebbe procedere più a provocare, come conseguenza di una proposta del genere, in altri il bisogno di lavorare al tema”[326].   Vitali declinò l’offerta, ma in un panorama artistico segnato dalle più mature esperienze concettuali e comportamentali  il tema era nell’aria, così che poco dopo la chiusura della grande mostra di Monaco Malerei nach Fotografie: von der camera obscura bis zur Pop Art. Eine Dokumentation[327], si apriva a Milano  nell’ambito della Sezione culturale del SICOF 1970  la mostra Arte e Fotografia curata da Daniela Palazzoli[328]. In occasione dell’inaugurazione si svolse la tavola rotonda Rapporti tra arte visuale contemporanea e fotografia,  a cui presero parte la stessa Palazzoli, Gillo Dorfles, Pier Paolo Preti, Pierre Restany e Lea Vergine[329]  e vennero proiettati lavori di Luca Patella e Franco Vaccari, anch’essi presenti, che scatenarono le ire dei convenuti. Nella cronaca offerta da Dorfles “la cosa più sorprendente della serata fu l’inattesa reazione del pubblico, formato in maggioranza da fotoamatori. Ebbene, costoro trovavano poco interessanti e belle (fotograficamente parlando) le immagini proiettate ed esposte e si scagliarono contro gli oratori che, a loro avviso,  parlavano non di fotografia ma di ‘arte’, dimostrando così come, purtroppo, non basti maneggiare, anche ottimamente, una tecnica, per intendere il valore artistico: come cioè tra arte e tecnica ci sia spesso un baratro incolmabile.”[330] Non migliore il ricordo di Lea Vergine che parlava di “una massa urlante di frustrati – a livello ‘ottico’ beninteso”, mentre a sua volta Preti, in una lettera aperta pubblicata nel successivo numero di gennaio di “Popular Photography”,  accusava il gruppo dei critici non solo di aver manifestato pubblicamente il loro disprezzo per quel pubblico ma anche di aver dato una lettura strumentale e quindi riduttiva dell’utilizzo del reperto (e del riporto) fotografico da parte degli artisti considerati. Le risposte di Lea Vergine e soprattutto di Daniela Palazzoli, pubblicate sullo stesso numero furono molto articolate e appropriate,  mettendo in evidenza e sottoponendo a un forte giudizio critico le  convenzionalità e quindi le ingenuità di opinione della  cultura fotoamatoriale sostenuta da Preti e vivacemente espressa dal pubblico dei presenti, misurando così quale fosse ancora a quella data l’incommensurabile, paradigmatica distanza tra questi due universi di  produzione e cultura dell’immagine.

Quando Palazzoli propose a Luigi Carluccio[331] di realizzare la mostra che poi si sarebbe chiamata Combattimento per un’immagine[332], trasformandosi quasi in una formula idiomatica[333], la ripresa del tema aveva certo anche il sapore di una sfida e di una scelta di campo, essendo ora destinata a un contesto museale.  La sua elaborazione, avviata sul finire del 1971, entrò nella sua fase esecutiva nella primavera successiva, quando si formularono anche alcune ipotesi di titolo;  tra queste la ripresa di Arte e Fotografia, apprezzata anche dal gallerista newyorkese Leo Castelli, ebbe per molto tempo la miglior fortuna, sino a che Carluccio propose alla presidente dell’ATAC il titolo definitivo, più mediaticamente efficace, a soli quindici giorni dall’apertura della mostra alla Galleria civica d’Arte Moderna di Torino il 28 febbraio 1973[334]. In quella sede vennero presentate circa 500 opere, secondo un percorso che procedendo da Canaletto giungeva sino alle più recenti opere concettuali, ma agendo per sommatoria piuttosto che per accostamenti e confronti critici, di numero piuttosto ridotto. L’intenzione era infatti quella di “costituire  una specie di antidoto alla visione prospettica che crea la storia, e che fa di ogni storia un fatto a sé”, come dichiarava Palazzoli  nel testo in catalogo, caratterizzato da un titolo che rafforzava l’assunto della mostra (Descrizione di una battaglia: l’Immagine) sebbene poi ricorresse più volentieri al concetto di dialogo, poiché “invece che delle differenze, siamo portati a diventare sempre più consapevoli dei legami che uniscono disciplina a disciplina, immagine a immagine.”[335]

Antonella Russo ha ricordato che “l’esposizione riscosse un enorme successo e fu accolta con grande soddisfazione specialmente dalla comunità fotografica, che vide finalmente ammessa, anche in Italia, la fotografia in un importante museo d’arte. Gli storici dell’arte, invece, riservarono non poche critiche, lamentando la genericità dell’impostazione della mostra.”[336] Le prime avvisaglie di quelle riserve si potevano rintracciare già in uno scambio epistolare tra Paolo Fossati e Carlo Bertelli del 1972, in cui il primo, prospettando la calendarizzazione dell’uscita del volume di Gisèle Freund scriveva: “forse si potrebbe uscire per il prossimo inverno quando di fotografia, pittura e simili si parlerà, e a vanvera spesso”[337]; giudizio poi confermato e ulteriormente articolato in una recensione in cui lo stesso Fossati contestava i presupposti critici che avevano governato la concezione della mostra, fondati sulla presunta contrapposizione tra manualità delle tecniche artistiche e meccanicità della fotografia, per poi mettere in luce (e un poco alla berlina, anche) il rifiuto da parte dei due curatori di “ogni connotazione di tipo filologico e storicistico” per affidarsi “a contesti intuizionistici e lirici variamente motivati.”[338]  Quel richiamo alle mancate attenzioni filologiche venne plasticamente espresso in una delle didascalie a corredo del dialogo tra Carlo Bertelli e Giovanni Romano, pubblicato a mostra appena conclusa, in cui si segnalava  come fosse stato presentato come originale, datandolo al 1900 ca, un fotomontaggio relativo a Gli storpi  di  Michetti, che invece era stato eseguito nel 1968 a cura del GFN con fotografie tratte dall’archivio del pittore.[339]  Il giudizio dei due storici dell’arte sulla mostra torinese fu senza appello:  certo  –  ammetteva Bertelli – era doveroso riconoscere che gli organizzatori  avevano dovuto “impegnarsi in una battaglia non facile. Fra l’altro dovevano distaccarsi da (…) «Malerei nach Fotografie», pittura dalla fotografia [ma «Pittura dopo la fotografia»], allestita a Monaco due anni fa. Era una mostra d’una precisione infallibile nella ricostruzione puntigliosa delle relazioni segrete tra pittura e fotografia e soprattutto aveva il merito di far sentire con forza lo “scandalo” di questi rapporti”. I limiti però risultavano evidenti e ingiustificabili:  dall’assenza di alcune importanti figure come Signorini alla mancanza di una bibliografia di riferimento in catalogo, sino allo stesso allestimento, che sembrava fatto apposta per confondere le idee. “Che senso può avere – notava Romano –  un bruttissimo Renoir accanto alle fotografie di Nadar; il confronto è troppo ingeneroso, anche per chi non amasse l’impressionismo. Fino a che limite è credibile il confronto tra il commovente incunabolo di Niépce rifotografato, stampato, ingrandito, sgranato e un disegno di Seurat? Le domande potrebbero continuare (…). Si è tenuto troppo poco conto della qualità, che esiste anche tra i fotografi (…).” Ancor più perentorio il giudizio espresso da Quintavalle che riconosceva come “una volta fu di un certo interesse un grave errore di prospettiva storica, quello di costruire le vicende contrapposte della pittura e della fotografia che semmai, sono reciprocamente funzionali, sono una storia soltanto; l’errore fu proficuo, almeno da noi, perché mostrò il livello culturale degli interventi, perché chiarì come non si potesse far storia delle tecniche ma storia di queste legata alle ideologie. Chiarì anche la povertà metodologica, la disarmante ingenuità degli ‘esperti’.”[340] Alcune macroscopiche esemplificazioni di quel procedere vennero poi fornite da Piergiorgio Dragone, che  recensendo l’edizione italiana del volume di Scharf, notava come il lettore avrebbe potuto stupirsi “nello scoprire che questi casi [esposti in mostra] erano solo alcuni dei numerosi esempi illustrati  nel volume inglese e che invece nel catalogo della mostra torinese non si fosse neppure riusciti a citare Scharf (…) ma neppure Van Deren Coke viene mai nominato. (…) Se, dopo aver letto il libro di Scharf, andando a sfogliare il catalogo di Torino ci si sentisse quindi un po’ delusi, e quasi ingannati, ci si potrebbe però sempre consolare consultando quello curato da Erika Billeter (…). Si vedrebbe così come, lavorando seriamente, si possa approfondire davvero un problema col risultato di fornire una corretta informazione e un effettivo contributo critico, allargando anche le conoscenze sull’argomento con nuove scoperte filologiche ed originali osservazioni storiche.”[341]

 

Fotografia e ideologia

 

Tra i rari italiani a meritare una certa attenzione nel catalogo della mostra torinese compariva Anton Giulio Bragaglia, mentre solo alcuni fotogrammi di Luigi Veronesi potevano costituire un richiamo alla fotografia italiana del periodo tra le due guerre mondiali, poco considerato anche dai più attenti studiosi italiani[342] specialmente per la difficoltà di misurarsi con le forti implicazioni ideologiche che tale analisi comportava.

L’imponente produzione degli anni del fascismo era stata sino ad allora utilizzata prevalentemente per nostalgiche ricostruzioni iconografiche quali la Storia fotografica di Mussolini e del fascismo prodotta nel 1952 dal “Meridiano d’Italia”, settimanale fiancheggiatore del Movimento Sociale Italiano, o, nel 1961, la Storia del fascismo: rassegna fotografica dal 1914 al 1945, curata da Pietro Caporilli, già membro del Partito Nazionale Fascista sino alla Repubblica Sociale Italiana,  per la sua casa editrice Ardita[343]. Solo nel 1973 il direttore dell’Istituto LUCE, Ernesto G. Laura, avrebbe pubblicato un primo vasto repertorio di immagini del fascismo costruito quasi come un reportage; “una serie di immagini fotografiche, veri e propri emblemi per una lettura critica del periodo, accompagnate da brevissime didascalie esplicative che inquadrano storicamente l’immagine a cui sono sottese”[344], mentre negli anni immediatamente successivi vennero realizzate alcune mostre che a quella produzione facevano riferimento, tutte segnate da un preciso impegno politico sebbene diversamente manifestato.  Così la mostra dedicata alla colonizzazione del territorio[345] prodotta dai membri del gruppo fiorentino UFO (Carlo Bachi, Lapo Binazzi, Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Titti Maschietto), tra gli esponenti di punta dell’architettura radicale italiana, con la collaborazione di Daniela Palazzoli, che trasse  dall’archivio del Touring Club Italiano la documentazione sull’Italia agricola negli anni del fascismo; la mostra curata da Luigi Crocenzi e Luigi Ricci sulle Marche dal fascismo alla Repubblica[346], organizzata dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione,  e quindi la prima iniziativa critica esplicitamente dedicata alla produzione di quegli anni: Fascismo 1922-1943: modi e tecniche di utilizzazione della fotografia al servizio dell’ideologia fascista, curata da Italo Zannier per la sezione culturale del SICOF ‘75[347]. La mostra fu successivamente esposta a Pordenone e alla Galleria d’Arte moderna di Bologna, qui in parallelo col ciclo pittorico di Renzo Vespignani Tra due guerre, rispetto al quale l’iconografia fotografica era ancora intesa come “un utile documento per meglio comprendere il clima ‘rivisitato’ dall’artista.”[348] “Quel maledetto ventennio – scriveva Zannier – incuriosisce, da un po’ di tempo, forse più del lecito, tanto da suscitare un diffuso interesse filologico e critico per tutto ciò che, in un modo o nell’altro, abbia avuto a che fare con il fascismo: moda o freudiana paura?” La risposta doveva rivelarsi tutto meno che semplice se  poco dopo lo stesso autore poteva avanzare alcune osservazioni che oggi possono sorprendere: “le immagini del fascismo fanno dunque ridere, tutte”; e inoltre: “questa fotografia fascista di cui vogliamo raccontare la storia, non è mai esistita, se non in tracce assai  deboli e sporadiche; è però un’assenza di cui vale la pena parlare.”[349] Tale affermazione, palesemente provocatoria, era un poco retoricamente giustificata dalla presunta contraddizione in termini tra la coercizione esercitata dal regime e la presunta libertà che avrebbe caratterizzato la  pratica fotografica in quanto tale, risolvendosi infine nel riconoscimento risolutivo di una costante azione mistificatoria. Un’interpretazione  che sembrava voler liberare i fotografi dalla responsabilità di adesione o connivenza al regime, riducendone molti a semplici “documentatori inconsapevoli (…) di un’Italia risibile e assurda”, mentre altri (i fotoamatori) si sarebbero rifugiati in un “atteggiamento aristocratico” di distacco dalla realtà, dimenticando però come fosse possibile ritrovare i nomi di molti autori in entrambe le categorie.

L’attenzione per la produzione di quel periodo si fece più ampia e sistematica specie per merito del CSAC, che in una serie di mostre successive presentò diverse produzioni emblematiche, quasi a indicare possibili tipologie. La prima monografia venne dedicata a Luigi Veronesi, tra gli artisti italiani più seguiti dalla critica senza soluzioni di continuità e ancora ben attivo in quegli anni, di cui si proponeva una sintesi del percorso artistico a partire dai primi lavori degli anni Trenta.  Già  Zannier[350]  aveva pubblicato nel 1966 un ampio intervento dedicato alla sua opera, posta sotto l’egida delle “arti della visione”,  segnalando come fosse stato il solo in quegli anni in Italia a praticare una fotografia “che impropriamente chiamiamo astratta”, sebbene il ricorso a quella tecnica fosse da  intendersi soprattutto come “un mezzo per esprimere la sua semantica figurativa al pari del disegno e della pittura”,  inserendo “le sue immagini fotografiche, quasi ad integrazione, in talune strutture pittoriche e specie nelle scenografie.” Notazione interessante, che non teneva però criticamente conto  della incommensurabile differenza tra segno grafico e impronta fotografica. Era quella una problematica che non si era ancora imposta alla considerazione critica e metodologica degli studiosi, come del resto indicavano anche altri contributi di poco successivi, quali la breve nota che apriva il catalogo della torinese Galleria Martano del 1970, in cui Maurizio Fagiolo parlava di “discorso parallelo tra le diverse tecniche”, suggerito con evidenza visiva dagli accostamenti pubblicati in catalogo[351], che riportava anche alcuni bellissimi esempi di grafica applicata all’editoria. Anche Paolo Fossati avrebbe chiarito in apertura del proprio testo critico  che sarebbe stato “inesatto” isolare le fotografie e i fotogrammi dal resto della sua produzione, specie  per evitare che una mostra dedicata a Veronesi fotografo corresse “il rischio di divenir equivoca, mentre è indispensabile e utile. Equivoca perché con la moda artistica della fotografia che ci troviamo oggi a misurare, lo scoprire un Veronesi ottimo fotografo assolve due compiti di cattiva coscienza: lo rende artista, in quanto fotografo degno di un capitolo sperimentale di grande impegno da Schad a Moholy Nagy e dintorni, e lo evacua dal fortilizio della pittura -pittura astratta, facendo così tornare i tormentatissimi conti.”[352]  Il bel testo di Fossati scandagliava criticamente il percorso e le opere di Veronesi confermandone i legami internazionali ma anche “la solitudine pressoché assoluta” rispetto alla scena fotografica italiana, tanto da risultare poco comprensibile e immotivata la sua adesione nel 1947 a La Bussola, a cui partecipò “con ben altro materiale”, chiamato da Cavalli e Vender solo alla vigilia della sua costituzione[353].

Quell catalogo per molti versi esemplare era però segnato da una impostazione storica (e quasi ideologica) che presentava più di un aspetto problematico, a partire dalla scarsa propensione a definire e considerare criticamente le relazione con altre importanti figure della scena milanese degli anni tra le due guerre come Boggeri, Grignani, Munari o Carboni, ed a interpretare la loro attività alla luce dei rapporti non occasionali con l’universo della comunicazione e delle ‘arti applicate’ durante il regime fascista; vale a dire, cioè, dei rapporti di quegli autori col fascismo [354]. Quasi l’effetto lungo di una pervicace rimozione.

In un decennio fortemente politicizzato come quello chiuso dal sequestro Moro sembrava quasi di cogliere, anche nei migliori tra gli studiosi, una certa forma di autocensura che rendeva difficoltoso, quando addirittura non impediva la formulazione di un giudizio in grado di comporre valutazioni critiche e condizioni storiche, superando fondamentali quanto inevitabili condizionamenti ideologici, quasi che – nonostante le esplicite dichiarazioni contrarie – sopravvivesse ancora una concezione idealistica dell’arte e del lavoro degli artisti, avulsi dal contesto sociale e liberi da condizionamenti che non fossero quelli di una espressione liberamente scelta.

Analoghe reticenze si potevano riscontrare nella monografia dedicata a un fotografo tout court come Bruno Stefani, tra i professionisti più attivi  in Italia a partire dalla fine degli anni Venti specialmente nell’ambito della fotografia di documentazione di luoghi e monumenti;  un autore tanto presente in periodici e volumi illustrati, come quelli del Touring Club Italiano, da  rinnovare e modificare i canoni rappresentativi definiti nel corso del XIX secolo dal ‘modello’ Alinari. L’analisi che ne fece Roberto Campari[355] adottava lo strumento interpretativo dei ‘generi’ – qui la fotografia turistica –  seguendo indicazioni metodologiche a suo tempo fornite da Quintavalle[356] per considerare gli stereotipi visivi e narrativi reiterati nel racconto per immagini realizzato da Stefani in decenni di lavoro. La consistenza del fondo recentemente acquisito dal CSAC (circa 150.000 fototipi) precludeva al momento “ogni possibilità di rassegna unitaria” e suggerì di presentare una selezione di immagini di soggetto milanese, distribuite lungo l’arco di poco più di un trentennio a partire dal 1925, sulle quali venne esercitata una puntuale e raffinata lettura critica, che individuava una serie ampia di riferimenti che spaziavano dagli annuari di “Luci ed Ombre” al cinema di Ruttmann e Ivens, e poi di Visconti, passando per Hokusai e Cartier-Bresson. Della complessa retorica fascista dell’immagine, a cui pure doveva sottostare un professionista con solide committenze pubbliche durante il Ventennio, neppure un cenno fuggevole, anche quando le immagini avrebbero più facilmente consentito di farvi riferimento, come nei due fotomontaggi con la ciminiera fumante e il Duomo in secondo piano.  A una ulteriore tipologia di produttori, lo studio fotografico, venne dedicato un altro catalogo dello CSAC, primo esito della donazione di circa centomila lastre dello Studio Villani di Bologna[357] favorita da Nino Migliori, all’epoca docente di Storia della fotografia al Corso di perfezionamento in Storia dell’arte dell’Università di Parma e curata da Paolo Barbaro.  Il  catalogo della mostra apriva con un ampio saggio di Quintavalle che  prima di entrare nel merito della produzione della ditta bolognese dedicava alcune dense pagine al rapporto tra archivi, storia e storiografia, interrogandosi – tra le altre cose – su quello che chiamava “spazio degli archivi (…) quello che modella l’ampiezza dei riferimenti, l’ampiezza delle aree che l’archivio stesso tocca; (…) Esiste uno spazio dei generi, ed anche, più sottilmente, uno spazio tra generi, che nasce dalla storia della loro organizzazione, dalla loro interna gerarchia, dalla loro trasformazione nel sistema della fotografia. Un grande studio è anche un sistema che vive in rapporto ad una società, non è morta gora di ombre trasparenti ma punto di riferimento per una cultura che vi si riconosce e vi si trova, appunto, come condensata, in nuce, o, meglio, in vitro.” [358] Per queste ragioni era indispensabile riconoscere nella loro produzione, nella “costruzione del sistema di segni dell’icona fotografica (…), icone fornite nell’ottica dei proprietari [committenti] che rispondono a modelli specifici, a modelli rigorosamente storicizzabili.” In quella sede Quintavalle riconosceva, certo, che dalle loro immagini degli anni Trenta emergeva “l’epica del lavoro per la patria”[359], ma come di sfuggita, quasi un incidente di poco conto in un percorso luminoso guidato dalle stelle di John Ford, del Bauhaus e ancora di Ruttmann, Visconti ed Eisenstein, pur ammettendo che questo “al massimo, agli operatori di Villani poteva essere noto indirettamente.” Notazione solo apparentemente marginale questa, e certo non sviluppata per evitare l’insorgere di contraddizioni interne, ma di cruciale importanza storiografica. La lettura del saggio di Quintavalle, come di quello precedentemente citato di Campari era allora, e rimane, un compito affascinante che lasciava però insoddisfatti: mentre si apprezzava l’esercizio funambolico del citazionismo – seppur ridotto a una circolarità di nomi –  si coglieva il limite di un’analisi non sostenuta da altro che non fosse la ricerca di analogie che  in mancanza di riscontri storico documentari rischiavano di essere solo superficiali. Risultava così eccessivo il ruolo assunto dal critico, che – certo involontariamente – colonizzava l’opera relegando ai margini la sua storia di produzione così come l’esistenza storica dell’autore; senza domandarsi mai come si potesse costruire, se e in quali condizioni poteva darsi, quella “cultura che vi si riconosce”; quali le condizioni di circolazione e ricezione di quei riferimenti, di quei modelli di cui l’intelligenza dello studioso  supponeva la funzione.  Al di fuori del metodo storico queste componenti e queste tracce correvano  e corrono ancora il rischio di ridursi a schemi applicati ex post, non ricostruzioni e verifiche del farsi di una cultura, anche visiva, personale e collettiva; dei suoi canali, occasioni, contesti.

Pur non adottando esplicitamente la categoria interpretativa dei ‘generi’, anche il lavoro condotto su parte dell’archivio di Giuseppe Pagano[360], coordinato da Cesare de Seta, considerava separatamente le singole voci di soggettazione da lui adottate; un lemmario che era “il derivato di una cultura tardo positivistica ancora viva ed operante al Politecnico di Torino negli anni di studio dell’immediato dopoguerra.”[361] E già il riferirsi alle aggregazioni operate dall’autore era una chiara e importante indicazione di metodo, essendo quelle riconducibili “ad alcuni interessi dominanti della sua cultura ed alle sue precise scelte di gusto.” Quale fosse, e come si collocasse la sua produzione fotoamatoriale (“ma questo,  sia detto subito ad evitare equivoci -avvertiva De Seta – non vuol certo diminuire la qualità della sua produzione”) in relazione alla sua formazione e professione di architetto fu il compito assunto dai numerosi collaboratori al volume. Così emerse che “tutto ciò che Pagano riprende viene fotografato in funzione dell’architettura (…) per cui tutte le foto del suo archivio sono in qualche misura foto di architettura”[362], destinate a entrare a far parte, come lui scriveva, “di un vocabolario di immagini che parlano dell’Italia a modo mio e per me”[363], insoddisfatto come molti architetti della sua generazione dei repertori di derivazione ottocentesca come della nuova iconografia  veicolata dalle pubblicazioni del TCI. Non minore attenzione venne mostrata per le fotografie che si riferivano al fascismo e alla guerra[364],  tralasciando però, forse per una malintesa forma di  pudore censorio, ogni esplicito riferimento al tragico percorso ideologico di Pagano,  dall’adesione al PNF sino alla morte in campo di concentramento a Mauthausen, così da ridurre a nulla più che una sensazione il fatto che “nelle immagini del covo [di via Paolo da Cannobio, sede del “Popolo d’Italia”] ci pare di cogliere qualche oscuro presagio.”

Il decennio che separava le monografie dedicate a Primoli ed a Pagano ha segnato un periodo importante di sviluppo della storiografia italiana, che in quegli anni mise a punto i propri strumenti e metodi registrando anche un mutamento di figura sociale dei propri attori. Si stava infatti passando dall’impegno quasi volontaristico (e politicamente connotato) dei fotografi, giornalisti e tecnici riuniti intorno a Crocenzi o al CIFe ai primi interventi di studiosi di formazione accademica, tra storia dell’arte e dell’architettura, con l’eccezione luminosa di un outsider come Vitali, che traeva il proprio magistero da una raffinata cultura collezionistica. In quelle variegate e determinanti produzioni due erano gli elementi che sembravano emergere al di là dei singoli esiti: il ricorso sempre più sistematico all’archivio e la lettura a più mani della produzione di un autore o di uno studio. Quasi un riconoscimento implicito della complessità della fotografia come campo d’indagine.

A più di dieci anni di distanza dalla monografia su Primoli e dopo la raccolta monografica dedicata a Nadar[365],Vitali pubblicava nel 1979 Il Risorgimento nella fotografia, dedicato alla moglie America Campagnani appena scomparsa. Un volume che fin dal titolo, nella scelta accurata della preposizione, affermava il prevalere della funzione documentaria, tradotta nella “volontà critica di stabilire legami quanto mai stretti con la cultura del medesimo periodo, [nella] lettura simultanea e comparata di fotografia e fonti letterarie”, la sola che riuscisse a soddisfare la sua volontà di restituzione del tema[366], ma rischiando troppe volte la pura reciprocità didascalica, illustrativa. Lo scopo era chiarito sin dalle prime righe dell’introduzione: “Questo libro si propone di dare un corpus delle fotografie risorgimentali, che documentano, cioè, fatti e personaggi di quel periodo”, modificando il giudizio espresso vent’anni prima a proposito dei “rarissimi esempi” di qell’epopea.  Vitali non si mostrava interessato a comprendere le funzioni assegnate o svolte dalla fotografia in quel contesto; non era nelle sue intenzioni la redazione di un saggio (neppure visuale) come indicava anche la mancanza di una bibliografia di riferimento. Semmai l’intento era di realizzare un album storico che fornisse anche l’occasione di mettere a punto un primo repertorio (poi vedremo quanto esauriente), con la segnalazione di alcuni nomi (Lecchi, Mehédin, il suo Sevaistre[367], Sommer) e brevi notazioni critiche a proposito del fenomeno della circolazione e al conseguente problema dell’attribuzione di molte di quelle immagini, specialmente ritratti, con cui di fatto terminavano le due paginette che aprivano il volume e ne costituivano la sintesi introduttiva. Che l’interesse risiedesse principalmente nel referente più che nella specificità delle immagini risultava chiaro sia dalla scarsa cura per le attribuzioni autoriali[368] sia dallo stesso impianto del volume, che relegava all’Indice delle fotografie  i dati concernenti autore, misure e collezione di provenienza, con rare indicazioni tecniche[369] riservate ai soli ‘calotipi’ ma senza distinguere tra originali e copie; per non dire di alcune indicazioni erronee quali la definizione di “stereogrammi” per le carte salate di Stefano Lecchi, già presentate nella mostra Immagini del Risorgimento. Le origini della fotografia in Italia[370], in cui era compresa anche la serie di fotomontaggi raffiguranti la fuga di Orsini[371]. Anche dal punto di vista più propriamente storico il saggio di Vitali si prestava a numerose riserve[372]: il suo era un Risorgimento oleografico e d’élite, fortemente ideologico, dal quale – ed era l’elemento più eclatante – era stato espunto ogni riferimento al fenomeno, anche fotografico, del cosiddetto brigantaggio[373], ormai ben noto e definito se Becchetti aveva potuto scrivere giusto un anno prima che “la inumana pagina del brigantaggio che insanguinò le provincie meridionali, disseminando lutti e rovine, ebbe una agghiacciante documentazione da parte di numerosi fotografi spesso anonimi.”[374] Su questo tema, e nonostante l’encomiastica valutazione espressa nel risvolto di copertina (“Col suo metodo di lavoro egli ha aperto una strada lungo la quale bisognerà cercare di seguirlo”), il contributo di Vitali non poteva reggere il confronto con le coeve considerazioni svolte da Giulio Bollati nel testo introduttivo agli “Annali” einaudiani dedicati alla fotografia, che merita riportare per esteso: “andrà ricordata la sua [della fotografia] partecipazione al moto risorgimentale e la sua non indifferente interpretazione di quei fatti (…) Il problema non è tecnico, ma politico e storico, e su questo piano la fotografia italiana ha una sua preziosa e autonoma verità da comunicare: l’immobilità, le lacune, sono elementi essenziali, non accidentali, del processo storico in questione. (…) non è difficile separare i ritratti autentici dalle effigi apologetiche o dai fotomontaggi e dalle fiorite composizioni grafiche influenzate dalla industria cattolica delle immagini. (…) I militari, solitamente così avari di immagini, rivelano un’improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio (…). Ecco che d’un tratto l’impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all’obbiettivo (…). Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione. (…) La guerra al brigantaggio segna, in campo fotografico, il primo esordio di una pedagogia unitaria destinata a crescere rapidamente diramando in ogni direzione.” [375]

Il confronto tra l’interpretazione di Bollati e la lettura delle fotografie risorgimentali avanzata da Vitali impone almeno di interrogarsi (e magari di provarsi a rispondere) sulle ragioni profonde che hanno portato a identificare in lui il padre nobile della storiografia fotografica italiana. Certo la sua militanza culturale, il suo attivismo di lunga data nell’organizzazione di mostre importanti; certo il lavoro dedicato a Primoli, che ha rappresentato un momento determinante per la formazione di una specifica considerazione culturale della fotografia storica in Italia, dovuto però più al prestigio della sua figura e all’autorevolezza della sede di pubblicazione che alla esplicitazione di un metodo storico che aderisse alla complessità della fotografia oltre il suo valore testimoniale. Un prestigio che gli derivava dall’essere un raffinato conoscitore d’arte, un fine studioso di pittura, come aveva acutamente notato Antonio Arcari, che aveva riconosciuto nel successo del volume dedicato a Primoli soprattutto un “avvenimento editoriale”[376].  Per queste ragioni non è condivisibile e risulta quasi incomprensibile una valutazione come quella ancora recentemente espressa da Antonella Russo, secondo la quale invece “le sue [di Vitali] analisi critiche erano volte alla descrizione e alla ricostruzione dell’œuvre di un fotografo, all’identificazione di simbologie e influenze artistiche, grafiche e letterarie. Vitali, infatti, tendeva a ricondurre la fotografia all’interno della tradizione umanistica attraverso una puntuale analisi filologica che rintracciava l’origine di ciascuna opera collocandola nell’ambito del sapere umano nel senso più alto del termine.”[377]

Se il Primoli di Vitali era stato a tutti gli effetti un buon esempio di equilibrio storiografico, certo significativo dal punto di vista del rapporto tra storia della e storia con la fotografia, in quegli anni molti altri ricorsero allo scandaglio del patrimonio fotografico per indagare aspetti diversi delle vicende italiane.  Non storia del mezzo e delle sue immagini e neppure, o non solo, storia attraverso le immagini ma raffigurazione e rappresentazione di un processo con forti intenzioni e implicazioni identitarie, socio antropologiche, inversamente proporzionali si direbbe alle dimensioni del territorio e delle comunità indagate.

Che in quegli anni l’interesse per la fotografia storica, se non proprio per la storia della fotografia[378], che è questione problematica ancora oggi, fosse ormai entrato a far parte (ma quasi come un esotismo temporale) della cultura diffusa, lo  testimoniava l’iniziativa del Touring Club Italiano Foto d’archivio: Italia tra ‘800 e ‘900, che prese corpo in due volumi editi rispettivamente nel 1979 e nel 1982, il primo dei quali corredato di due magistrali testi di intellettuali tanto distanti quanto potevano esserlo Cesare Zavattini e Paolo Monti[379]. “Credetemi – scriveva Zavattini traducendo nell’apparente bonomia del suo dire una questione su cui si interrogava anche Barthes – fino a poco tempo fa una stessa istantanea di me, immediatamente sviluppata, creava perfino nel mio cuore una diversità di me con me, malgrado il mio unico e imperturbabile nome e cognome”,  invece ora – proseguiva – con il “presente revival (…) passato e presente si uniscono nel mio animo. (…) Adesso mi identifico coi miei antenati e antenatissimi al punto da sentirmi ‘fotografato’ con loro. (…) Ora, ripeto, sento che costoro (…) mi assomigliano così inesorabilmente da avere i mie medesimi problemi morali e di gusto.” Che era un bel modo per sintetizzare una parte, superficialmente profonda verrebbe da dire, delle ragioni che stavano alla base di quella inedita e un poco spasmodica curiosità per la fotografia storica già a suo tempo riconosciuta da Carrieri e Vitali e che Zavattini identificava ora come un fenomeno sociale di gusto (revival) più che specificamente culturale. Monti invece si rammaricava del fatto che la cultura italiana “non si accorse” per tempo della fotografia, tanto che  “ci troviamo ora, dopo due guerre mondiali che hanno cambiato la faccia della terra, a chiederci come era prima l’Italia e solo poche sono le fotografie che ce lo dicono. (…) Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza, mentre all’estero la fotografia entra, a mio avviso di fotografo, fin troppo trionfalmente nei musei e nei quadri di tanti nuovi pittori rompendo limiti e tradizioni della loro arte, siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.”[380] Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli.

 

“La storia, il collezionismo, i maestri, le tecniche, i mercanti, i capolavori, i prezzi”

 

Intorno alla metà del decennio la casa editrice Bolaffi, la più importante impresa italiana attiva nell’ambito del collezionismo, dedicava alla Fotografia un numero speciale di “Bolaffiarte” [381], allora diretto da Umberto Allemandi, sintetizzando nell’ampio sottotitolo – qui citato in apertura – tutte le componenti che andavano a formare la fisionomia dell’inedito fenomeno che interessava il mercato internazionale dell’arte. Tra i due poli costituiti dalla storiografia e dal mercato, entrambi crescenti, gli interventi dei numerosi specialisti invitati (tra gli italiani: Castagnola, L. Colombo, Fossati, Gilardi, Palazzoli,  Quintavalle, Racanicchi, Schwarz, Settimelli, Turroni, Zannier) tracciavano i primi abbozzi di una situazione in profondo mutamento, delineandone le tendenze e i problemi a favore del pubblico italiano e in particolare dei lettori della rivista, storico punto di riferimento per il nostro collezionismo medio. Per quella ragione il numero si offriva quasi come un vademecum se non proprio come un manuale nel quale il lettore poteva trovare sintetiche risposte alla maggior parte delle curiosità e domande nate da un primo approccio al tema. Così l’editoriale di Racanicchi affrontava l’argomento, particolarmente pertinente alla sede, della fotografia come opera d’arte, illustrando “i nodi del confronto che da tempo oppone l’arte come categoria concettuale alla fotografia intesa come sottoprodotto dell’intelligenza”, mentre i contributi degli altri esperti spaziavano da una breve storia alla segnalazione dei grandi maestri (esclusi gli italiani, trattati a parte) e dei grandi libri, proponendo anche un “museo ideale” in circa centocinquanta immagini. Con intenti più immediatamente pragmatici si affrontavano poi i meccanismi di formazione del valore commerciale delle fotografie (coi più eclatanti risultati d’asta del periodo 1972-1976), corredati da un indispensabile glossario dei termini tecnici, non privo di macroscopici errori, e da temibilissime istruzioni per il restauro  fai da te di calotipi e specialmente dagherrotipi, che prevedevano anche il “ripristino” chimico della leggibilità dell’immagine.[382]

“Cominciano a parlarne un po’ tutti – scriveva Quintavalle in altra sede, quasi chiosando quella pubblicazione – anche se ne sanno generalmente ben poco, ma, soprattutto, cominciano a venderla in molti e, questi, ne sanno certamente qualcosa di più. Alludo alla fotografia, che sta ormai assumendo, nel contesto del mercato dell’arte italiano, la funzione di un volano possibile e, certamente, quella di una rassicurante riserva di caccia. Da noi, in Italia, di fotografia, salvo per gli studi pionieristici di Lamberto Vitali, si era parlato ben poco almeno fino a tre-quattro anni fa; esisteva infatti una frattura ben netta tra fotoamatori da un lato, con le loro riviste soprattutto tecniche, e storici della fotografia dall’altro. Questi ultimi erano, appunto, in Italia quasi inesistenti e cosi era ancora un enorme paesaggio senza ‘figure’, una eventuale possibile storia della nostra fotografia. In questo disegno ancora da colorire, o, meglio, in questo foglio ancora da disegnare, sono intervenuti rapidamente e stanno ancor di più intervenendo coloro che gestiscono il mercato”[383]. Un mercato che era quello dell’arte, certo, falcidiato dal crollo dei prezzi delle opere ‘maggiori’ determinato dalla prima grande crisi energetica conseguente alla guerra del Kippur  dell’ottobre 1973; sebbene poi quello mercantile non fosse il solo elemento a determinare e condizionare questo interesse inedito, almeno per la scena italiana, dove la necessità di disporre di strumenti e di conoscenze sistematiche era fortemente sentita e condivisa in vari contesti, e credo dovesse essere messa in relazione non solo con l’ambito del collezionismo e degli studi storici ma anche con l’inedito ruolo e posizione assunte  da certa fotografia contemporanea in relazione stretta con le altre ricerche visuali coeve, specie di area concettuale, che portarono a una ridefinizione profonda della consapevolezza di sé del fotografo come autore, sino al suo ribaltamento in autore come fotografo, contribuendo così anche al formarsi di un’esigenza più diffusa di comprensione storico culturale delle vicende della fotografia.  A questi elementi si doveva aggiungere, e non in posizione secondaria, il progressivo passaggio culturale, epistemologico (e poi giuridico), a cui qui possiamo solo accennare,dal concetto di opera, proprio di una storiografia artistica estetizzante a quello antropologicamente fondato di bene culturale, nel cui novero doveva essere inteso anche  il progressivo riconoscimento della fotografia quale componente imprescindibile del patrimonio culturale della modernità, per certi versi riconosciuto già al momento dell’istituzione del Ministero per i Beni Culturali[384] nel 1975, sebbene poi si dovesse attendere l’emanazione del Testo Unico D.L. 490/ 1999 per comprendere “le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico”  (art.2, comma e) tra le categorie passibili di tutela.

In riferimento a quella sensibilità nuova andava intesa anche la nascita della collana di “Biblioteca di Storia della Fotografia” della casa editrice modenese Punto e Virgola, fondata nel 1977 da Giovanni Chiaramonte, Luigi Ghirri e Paola Borgonzoni con Ernesto Tuliozi, Ornella Corradini e Susetta Sirotti.  Il primo titolo fu il volume di Zannier 70 anni di fotografia in Italia, che forniva un inedito profilo sistematico della storia della fotografia nel nostro paese; una pioneristica “breve cronistoria”[385], quindi più descrittiva che interpretativa,  delle vicende novecentesche della nostra fotografia che si apriva con una crudele citazione da Roland Barthes: “L’immagine è ciò da cui sono escluso.”  L’avvio, come sarebbe sempre stato costume in Zannier, era privo di mediazioni e individuava il punto di partenza del proprio percorso in un articolo di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy del 1901 e nella questione cruciale che con andamento carsico attraversava tutto il volume, della artisticità della fotografia, qui posta immediatamente in relazione, e reazione, con la sua industrializzazione e conseguente massificazione. I consueti giudizi negativi venivano immediatamente confermati (“la granulosità di queste carte e l’implacabile ritocco, conducono a un irrimediabile kitsch, che a fatica oggi si tenta di rivalutare, nel vento del revival”[386]), ma risultavano qui più articolati e inseriti in un quadro interpretativo complesso, che teneva conto anche di un altro aspetto della diffusione della fotografia tra XIX e XX secolo, quello della sua moltiplicazione a mezzo stampa, in evidente consonanza con le posizioni espresse da Gilardi: “il destino della fotografia è di essere diffusa tramite il giornale, sulla carta stampata ad inchiostro; lo sfalsamento di tempi, tra il progresso tecnico della fotografia e la concreta possibilità di utilizzazione nel giornalismo, ha favorito il ‘pictorialism’, che tende così a cristallizzare la fotografia nell’immagine unica, irripetibile e perciò artistica”; fenomeno di lunga durata se ancora negli anni tra le due guerre mondiali le diverse manifestazioni della nuova visione avevano “per contro la ‘lux et umbra’ di un pictorialism deprimente e cimiteriale, dove al vedutismo oleografico, si alterna il ritratto ritoccato o la scenetta populista, in posa”. Qui, per Zannier, “l’equivoco della fotografia ‘artistica’ si fa esplicito, nell’assenza assoluta di immagini documentaristiche, che sino al secondo dopoguerra sono insistentemente, con varie motivazioni, messe al bando dai salon” poiché “i fotografi ‘creativi’ insistono nel non comprendere o nel non accettare la  ‘specificità’ del linguaggio fotografico, preferendo esercitarsi nelle raffinate alchimie del pittorialismo, che li identifica e sottrae alla ‘volgarità’ della fotografia diretta, quotidiana, che pare essere ormai alla portata di tutti.” L’elenco degli autori compresi in quell’ambito spaziava da Guido Rey a Domenico Riccardo Peretti Griva e Silvio Maria Buiatti[387] e comprendeva ancora l’improbabile “Giovanni Battista Silo [che] realizza a sua volta quadri fotografici nell’atelier”; evidente retaggio del fraintendimento proposto da Vitali nel catalogo delle mostra alla Triennale del 1957, mentre una serie di Tipi siciliani di Von Gloeden era visivamente accostata alle fotografie di Giovanni Verga. Altri argomenti e nuclei tematici risultavano più convincenti, come il breve richiamo alle prime vicende italiane di musei e archivi; la nascita e le successive trasformazioni del giornalismo fotografico; la descrizione dell’Italia contadina e delle tradizioni popolari in quelli che definiva, integrando le categorie di Vitali con un’ulteriore analogia pittorica, quella dei “fotografi naif (…) visualizzatori tanto spietati quanto magnificamente inconsci”: categoria nella quale accanto a un autore raffinato e colto come Luciano Morpurgo collocava l’orologiaio di Nismozza di Busana Amanzio Fiorini o l’oste di Marone  Lorenzo Antonio Predali, tanto amato da Giovanni Testori[388]. Più innovativa e utile  – considerata a distanza – era la ricostruzione dei punti salienti che portarono anche in Italia al rinnovamento espressivo avviato dalle fotodinamiche dei Bragaglia e poi dalla fotografia futurista, come, su di  un altro fronte, i progressivi avvicinamenti ai dettami della Nuova Visione a partire dagli interventi di Antonio Boggeri del 1929 su “Natura” e “Luci ed Ombre”, sino ai Concetti per fotografi moderni che Mario Bellavista pubblicò nell’edizione italiana di “Galleria”; tutti curiosamente posti sotto il titolo dubitativo di “Fotografia fascista?”. Una stagione che vide tra i principali protagonisti soprattutto i grafici e gli architetti con i loro periodici come “Campo Grafico”,  “La Casa bella” o  “Domus” e che per certi versi si chiuse con l’importante annuario Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che per Zannier rivelava “l’esistenza di una fotografia a livello europeo, insospettata (…), le immagini scelte per questo volume dimostrano l’intenzione di far dimenticare il grigio crepuscolo di almeno quarant’anni di pittorialismo fotoamatoriale e di epica fascista, ma soprattutto di suggerire i nuovi orizzonti di questo linguaggio.” Giudizio forse troppo generoso, che non considerava opportunamente le contraddizioni interne, evidenti nella scelta degli autori e delle immagini; i possibili condizionamenti, anche politici, posti da una realizzazione che cadeva in uno dei periodi più difficili di quei lunghi anni di guerra, ma certo una pubblicazione che ha rappresentato uno snodo e un  cardine nella storia della fotografia italiana[389].

Pur con i limiti critici che si sono detti il lavoro costituiva il primo tentativo di ricostruzione storiografica delle vicende novecentesche della nostra fotografia, supportato da un ampio ricorso a fonti bibliografiche coeve quando non a esperienze dirette dell’autore, ma nonostante quelle caratteristiche ci fu chi accolse quella sintesi come il lavoro di “un ‘professorino’ lontano dal mondo tumultuoso di chi produce immagini, dalla sua vivacità, dai suoi contenuti, e dico questo dopo aver letto il libro di Zannier, dove chiudendo l’ultima pagina si ha una sensazione di smarrimento, di pochezza di contenuti. Scrivere una storia della fotografia italiana, mescolando tutte le carte, significa anche prendere ‘posizione’, scrivere con una metodologia, inquadrare ‘la storia’ in un contesto più ampio (vedi per tutti la storia d’Italia edita da Einaudi). Invece che troviamo nella storia di Italo Zannier? Il fritto e rifritto, una sequenza di nomi per non far dispiacere a nessuno, scelte arbitrarie, mancanze vistose (…) e allora che senso ha questa operazione di giocare all’ammucchiata?”[390]  Zannier, in quegli anni primo titolare di corsi universitari dedicati alla fotografia allo IUAV di Venezia e al DAMS di Bologna, poteva allora essere compreso in quella categoria che Quentin Bajac ha definito dei “fotografi storici”, quelli che “attraverso testi, mostre, collezioni, interpretazioni e riscoperte di figure dimenticate hanno contribuito, accanto agli storici e ai collezionisti, a scrivere la storia della loro tecnica.”[391] Accanto a quella, che comprendeva anche autori come Cesare Colombo e Ando Gilardi, altre erano le tipologie professionali e i percorsi intellettuali che avevano segnato la formazione dei primi e per lungo tempo più importanti  protagonisti della storiografia italiana di quegli anni, che  nel loro insieme  costituivano un nucleo consistente per quanto variegato nella formazione e nelle esperienze:  alcuni provenivano dal giornalismo, non necessariamente di settore (come Racanicchi, Schwarz e Settimelli), altri avevano fatto nascere la ricerca storica  dalla loro passione collezionistica, come Vitali e Becchetti, mentre si affacciavano studiosi con una formazione accademica come Bertelli, Quintavalle, Palazzoli e Miraglia, ciò che dava ragione delle diverse metodologie e posizioni critiche espresse, fortemente condizionate dagli ambiti culturali e professionali di provenienza piuttosto che da posizioni epistemologicamente fondate.

Si assisteva in quegli anni a una crescita esponenziale di iniziative, tanto che l’ottava edizione della Sezione culturale del SICOF, del 1979, mentre prendeva atto che “anche gli enti pubblici cominciano ad assumere iniziative e ad organizzare mostre sull’argomento”,  riconosceva che era “necessario introdurre un certo rigore che consenta di impostare e approfondire correttamente l’argomento, per evitare che l’attenzione verso la fotografia si riduca solo ad una moda e che l’attuale, felice momento risulti, di qui a qualche anno una ‘occasione mancata’. Bisogna cioè impostare dei temi, dei filoni di ricerca, delle ipotesi di lavoro e presentare quindi dei materiali suscettibili di elaborazioni e di sviluppi successivi. In questa fase le ‘personali’ delle grandi ‘vedettes’ della fotografia non bastano più, a meno che non siano il risultato di una seria revisione critica e storiografica. L’obiettivo che si deve ora porre per la fotografia è infatti quello di ampliare e approfondire metodicamente le conoscenze della sua storia e di acquisire dei validi strumenti di analisi dei suoi risultati e delle attuali tendenze di ricerca.”[392] A questo impegno programmatico, così lontano da alcune grandi manifestazioni di quell’anno come Venezia ’79: La Fotografia,  corrisposero in particolare due delle sezioni principali della manifestazione milanese: quella dedicata alla prima messa a punto di una storia dell’utilizzazione della fotografia nei periodici italiani, curata da Angelo Schwarz[393], e quella sul ritratto curata da Piergiorgio Dragone[394], il quale – pur consapevole delle difficoltà insite nell’affrontare “un fenomeno che è ancora sostanzialmente sconosciuto” – ne illustrava le varianti fotografiche collocandole nel solco lungo della tradizione pittorica, a partire dalla considerazione che “la fotografia non è che un modo di produrre delle immagini e che quindi ogni analisi va riferita al contesto generale della cultura figurativa del periodo.”  Posizione forse eccessivamente connotata dall’assunzione del punto di vista dello storico dell’arte, ma che certo colpiva nel segno quando lamentava come la situazione fosse “sconfortante per quanto riguarda gli aspetti metodologici  [perché] prima che un metodo ampiamente impiegato per analizzare  la produzione degli altri settori  delle arti figurative venga utilizzato anche da chi si occupa di fotografia trascorrono di solito alcuni decenni.” Una condanna senza appello, ulteriormente ribadita nel descrivere i cultori di storia della fotografia “ancora legati ad un modo aneddotico o tutt’al più formalistico o vagamente ‘estetico’ di descrivere le immagini.”[395]  Ulteriori limiti storico critici erano individuati in apertura del contributo di Schwarz, il quale riconosceva con qualche ragione che “pure tra coloro che si sono occupati, più specificamente, di critica fotografica, è difficile rintracciare articoli, saggi e studi utili per valutare e ricostruire la storia del periodico illustrato. Spesso, costoro si sono limitati a trattare figure più o meno eroiche di reporter fotografi e non hanno studiato quando, dove e come le immagini vennero pubblicate. Ciò essenzialmente per due ragioni: (…) a causa dell’esigenza di riscattare la bistrattata qualità estetica dell’immagine fotografica (…) e la difesa della professionalità giornalistica del fotografo, misconosciuta dagli editori e dalla maggioranza dei loro colleghi di penna.” Una condizione che Schwarz si proponeva di correggere mostrando e commentando antologicamente le fonti, vale dire le pagine di quei periodici in cui le immagini vennero pubblicate, a partire dal torinese “Mondo illustrato” edito da Giuseppe Pomba dal 1846, ricorrendo ad ampie citazioni di testi relativi alle difficoltà produttive degli apparati illustrativi, nella convinzione che “in quel prodotto industriale che è il periodico illustrato dell’Ottocento sono già presenti molte delle situazioni tutt’ora caratterizzanti la fabbricazione degli attuali settimanali in rotocalco”, da integrare con ulteriori dati di carattere economico e culturale sulla composizione sociale del pubblico dei lettori, condividendo quella impostazione col “fotografo, storico e critico della fotografia Ando Gilardi.”

 

 

 

 

Intorno al 1979

 

 

Grandi mostre

 

La casa editrice Electa costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente e sorprendente di iniziative concentrate nell’anno 1979, in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali di interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o gli eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del  SICOF.

Quelle iniziative, che avevano lo scopo di  creare una domanda editoriale e magari collezionistica sino ad allora quasi inesistente, coinvolsero e coagularono  personalità di studiosi con formazioni variegate e interessi complessi (dal collezionismo al professionismo, dalla storia alla conservazione) e portarono alla realizzazione di una serie altrettanto ricca e variata di progetti espositivi che li videro a diverso titolo protagonisti, e di cui Electa si aggiudicò la realizzazione dei cataloghi, affidando contestualmente a Daniela Palazzoli la curatela della collana “Visibilia -Fotografia”, i cui primi titoli furono affidati proprio ai membri del Comitato tecnico scientifico di Venezia ’79[396]: la porzione più ricca e spettacolare  del panorama italiano di quell’anno mirabile [397].

La prima di quelle iniziative si caratterizzava per avere un programma di forte e per noi inedito impegno economico[398], che prevedeva ventisei mostre con cinquecento autori, per un totale di circa 3.500 fotografie, a cui si aggiungevano quarantacinque workshop di cinque giorni ciascuno tenuti da fotografi e studiosi di fama internazionale, specialmente statunitensi. Insomma, come dichiarava apoditticamente il titolo, Venezia ’79: la Fotografia. Nulla di meno.

La scelta di Venezia quale sede e la prima definizione della proposta si dovevano all’International Center of Photography di New York diretto da Cornell Capa, che nel 1978 aveva a suo volta coinvolto l’UNESCO, mentre i finanziamenti provenivano da numerosi sponsor privati, non solo di settore (Kodak, Polaroid e Philip Morris  tra gli altri) e dal Comune di Venezia, anche in previsione della costituzione a Palazzo Fortuny di un centro permanente per la fotografia, orientando in tal senso l’indicazione compresa nell’atto di donazione fatta al Comune nel 1956, che imponeva che fosse  “utilizzato perpetuamente come centro di cultura in rapporto con l’arte”[399].  La prima bozza di programma messa a punto negli USA venne discussa e modificata da alcuni membri italiani del Comitato tecnico scientifico (Daniela Palazzoli, Alberto Prandi, Italo Zannier)[400], ma anche nella sua versione definitiva esso venne fortemente criticato per una troppo marcata  tendenza mercantilistica e per l’eccessiva acquiescenza ai voleri degli sponsor.  Nel presentare il catalogo Carlo Bertelli[401] dichiarava che l’intento non era di “aspirare, nonostante l’insegna ambiziosa, ad offrire un’enciclopedia universale della fotografia, ma soltanto testimoniare l’opera di alcuni riconosciuti maestri e presentare alcune tendenze attuali nella fotografia. Venezia ‘79/ La Fotografia è un’impresa di grande impegno divulgativo che potrà essere il punto di riferimento per l’organizzazione di altre manifestazioni che documentino il significato della fotografia in ogni civiltà e cultura.” Tra i “riconosciuti maestri”, da Atget a Weegee, erano compresi anche gli italiani Michetti e Primoli, oggetto di due sezioni monografiche curate rispettivamente da Miraglia e Palazzoli, mentre agli autori della nostra contemporaneità era  riservata una sezione specifica, con catalogo proprio, curata da Zannier[402] che aveva disegnato un percorso che muovendo da Cavalli e Veronesi giungeva sino a Ghirri e Toscani. Anche i workshop, così come le mostre, erano prevalentemente orientati alla contemporaneità ma riservavano uno spazio non secondario a temi di carattere storico come  Storia, teoria e tecnica del fotogramma, tenuto da Luigi Veronesi; Storia della società e documento fotografico, di Settimelli e Storia della fotografia di Helmut Gernsheim[403], a cui era collegata la conferenza di Palazzoli Lineamenti della storia della fotografia italiana, anticipando così la collaborazione e la struttura del volume che lo studioso inglese avrebbe pubblicato due anni dopo con Electa nella collana diretta dalla stessa Palazzoli[404].

La “impostazione monografica intesa nel senso più elitario e fuorviante possibile”[405] era certo distante dal progetto degli “Annali” einaudiani a cui lavorava in quei mesi Bertelli, ma quella non era certo la sola contraddizione o il solo limite dell’iniziativa.  “Venezia – la fotografia è, secondo me, un gigantesco errore di prospettiva e un consistente affare finanziario soprattutto per la città che la ospita e che l’ha voluta a tutti i costi”, scriveva Piero Berengo Gardin[406],  mentre per Lanfranco Colombo, che aveva declinato l’invito a partecipare, “il problema della fotografia [doveva essere]  affrontato con ben altro impegno storico e scientifico soprattutto quando viene chiamato in causa il grande pubblico. Gli enti pubblici sono chiamati ad una attività di ricupero, di conservazione di questo patrimonio culturale che sta andando in malora e di catalogazione disponibile allo studio.”[407] Analoghe considerazioni vennero espresse  anche da Quintavalle il quale, partendo dalla fondamentale obiezione che il progetto non fosse stato “elaborato all’interno della civiltà fotografica del nostro paese [ma] calato dall’esterno, sopra le nostre strutture culturali”[408], si chiedeva quale dovesse essere “il compito del critico, dello storico, dello studioso, insomma dell’intellettuale di fronte a fatti del genere.” L’analisi che ne seguiva indicava compiutamente i limiti di quell’impresa a partire dal fatto che “il problema della fotografia non è di vedere semplicemente, anche se è importante questo, mostre in serie di grandi fotografi, ma di prendere coscienza e far prendere coscienza al pubblico dell’importanza dei singoli contesti, dell’importanza delle singole situazioni. Sinceramente mi fa molto poca impressione una mostra di un grande fotografo, o medio o piccolo che sia (quando si espone in mostra si suppone che il fotografo sia ‘grande’, la mostra infatti è un canale che media capolavori per antonomasia) ma mi interessa invece in che contesto culturale opera, perché opera, quando opera, mi interessa, insomma, non l’idealismo nascosto (la reazione nascosta) nella raccolta delle belle immagini ma la storia. Ebbene il problema è che manca proprio la storia, la nostra storia, e la storia della cultura fotografica occidentale, se si vuole meglio precisare, in questo programma. Manca un metodo, o, meglio, esiste un metodo che è ‘altro’, che è diverso. Un metodo che dovremo analizzare. Ma a che serve dunque una rassegna fotografica? Serve naturalmente a promuovere la fotografia; ebbene questa promozione rischia proprio di risolversi nel suo contrario; quando avremo una antologia di grandi nomi, una serie di maestri che necessariamente devono essere raccolti nei futuri musei della fotografia del nostro paese, avremo completamente perso di vista la funzione della fotografia che è quella di contesto, che è quella di struttura della comunicazione. Il punto è proprio questo, mancano ancora in Italia una analisi ed un censimento del patrimonio di immagini fotografico (un aspetto solo del problema), manca ogni e qualsiasi politica della conservazione (…) manca ogni e qualsiasi politica che non sia di semplice e sconsiderata raccolta di materiali reputati ‘esteticamente’ significativi da parte di Enti Pubblici. E neppure esiste, finora, un mercato reale[409] della fotografia.” Affiancavano la kermesse altre importanti iniziative comprese sotto il titolo comune di “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia”[410], affidate a un comitato scientifico costituito da Miraglia, Palazzoli e Zannier, con Filippo Zevi, Michele Falzone del Barbarò  e Giuseppe Marcenaro.

Il nucleo principale era costituito dalla grande esposizione dedicata alla Fotografia italiana dell’Ottocento[411], con un importante catalogo che rifletteva e dava conto della complessità del fenomeno studiato, misurando l’enorme sviluppo delle ricerche, specialmente a scala regionale e soprattutto locale condotte dagli autori dei testi e delle schede monografiche, ma anche dei lavori pur disomogenei realizzati da altri cultori italiani nel corso del ventennio precedente e ampiamente citati in bibliografia. Si delineava così non solo una prima sommaria storia della fotografia in Italia nel corso del XIX secolo, ma anche una geografia degli studi e degli studiosi; frutto di una rete di relazioni anche personali in grado di connettere e interpretare i dati emersi dalle indispensabili  ricerche a scala territoriale,  spesso condotte nell’indifferenza se non nella perplessa ostilità degli studiosi di altre discipline e dei responsabili delle istituzioni, come mostrava bene questa testimonianza di Daniela Palazzoli a proposito delle ricerche condotte presso la Biblioteca Reale di Torino: “Entro in quella splendida biblioteca e domando se hanno album fotografici. No, mi rispondono con fastidio. Invece gli album c’erano. Centocinquanta, duecento album fotografici. (…) Compilo un elenco delle cose che mi interessano e poi chiedo i prestiti in vista della mostra. In prima battuta la Biblioteca rifiuta, adducendo come motivazione il valore delle opere. Alla fine il prestito fu concesso ma ciò che mi sconvolse era che prima non sapevano cosa avevano.”[412] Il catalogo apriva con una presentazione di Helmut Gernsheim, che sottolineava il legame ideale con la mostra per la Triennale del 1957, seguita da un estratto del bellissimo testo di Giulio Bollati di imminente pubblicazione negli “Annali” della “Storia d’Italia”, mentre la sequenza dei saggi affrontava la ricostruzione delle vicende italiane secondo una partizione cronologica articolata con accenti diversi a seconda degli autori. Così Palazzoli  dava conto di come La notizia dell’invenzione dello “specchio dotato di memoria” fosse arrivata in Italia; Miraglia trattava de L’età del collodio e Zannier affrontava il problema de La massificazione della fotografia. A questi tre interventi facevano seguito ampie schede regionali, cui corrispondeva una bibliografia di analoga ripartizione,  le schede biografiche dei fotografi e un opportuno indice dei nomi. L’apparato iconografico si presentava ricco, con alcune riproduzioni anche a colori, ma piuttosto sorprendentemente per una pubblicazione di quel livello, le didascalie alle immagini riportavano solo autore e titolo, senza alcuna indicazione di data né di tecnica, misure e collezione di provenienza. Mancava, infine, un pur striminzito glossario dei termini, tanto più necessario in una iniziativa espositiva ed editoriale destinata al grande pubblico in un momento in cui il lessico della fotografia storica non poteva essere certo considerato patrimonio comune neppure dei cultori più attenti.

Palazzoli[413] – come si è detto – ricostruiva puntualmente la sequenza degli annunci comparsi sulla stampa italiana, dei primi esperimenti locali e della produzione editoriale legata all’invenzione del dagherrotipo (dalla manualistica alle raccolte di vedute) e alla conseguente rivoluzione nella pratica del ritratto, per passare quindi alle vicende di Talbot e dei suoi ‘amici’ italiani, segnalando anche la presenza eccezionale di “tre disegni fotogenici firmati, se ho decifrato bene, Faggiarani”, che avrebbero rappresentato “con ogni probabilità il primo tentativo italiano in questa direzione”[414], ma di cui non venne fornita alcuna riproduzione in catalogo.  Diversa l’impostazione dello scritto di Miraglia[415], che si poneva immediatamente il problema dei rapporti tra tecnologia e “significato che, nella concezione ottocentesca, veniva attribuito alla fotografia come nuovo ‘medium’ nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine”, con una lettura dei fenomeni posta sotto il segno di Bourdieu e della Freund, da cui ricava anche le ragioni per formulare una risposta alle interpretazioni dell’amato Vitali: “manca in Italia una figura come Nadar perché manca quel contesto culturale, storico e sociale che caratterizzò il raffinatissimo ambito intellettuale in cui Nadar si mosse.” L’analisi proseguiva con l’identificazione dei generi più praticati  posti in relazione con le rispettive tradizioni iconografiche per sottolineare come “uno dei motivi che maggiormente contribuì all’affermarsi della fotografia fu (…) il suo carattere conservativo nei confronti della tradizione rappresentativa dello spazio.”  Un testo importante, che rivelava la formazione specifica e fortemente strutturata della storica dell’arte e che mostrava quanto fossero indispensabili strumenti raffinati e complessi per la lettura e la comprensione delle immagini, a partire da quello – precisamente posto – dell’autorialità, concetto che sarebbe stato sottoposto da più parti a profonde verifiche nei decenni successivi e radicalmente contestato in quello stesso 1979 da Franco Vaccari[416].   Il testo di Zannier trattava invece dello sviluppo della “diffusione delle immagini”, sebbene con generalizzazioni oggi non più condivisibili che accomunavano produzione e riproduzione, camera obscura e calcografia, ma sottolineando opportunamente che “la massificazione dell’iconografia fotografica nasce con la stessa fotografia; è latente nelle intenzioni degli inventori e implicita nel suo procedimento, che si riassume nella riduzione del tempo di produzione dell’immagine” [417]; un processo che contemplava tra le proprie conseguenze anche “una crescente illusione che l’immagine sia in effetti la realtà, una realtà che sbalordisce, perché è sempre più sconosciuta.” L’interesse per i processi comunicativi quali elementi morfogenetici e il richiamo implicito all’idea di simulacro – pur semplicisticamente posti – contenevano elementi di quella che nello stesso arco di tempo si andava definendo come interpretazione postmoderna della società e della cultura, in particolare per merito di Jean Baudrillard[418], e consentivano a Zannier di individuare la nascita  di un  “nuovo concetto di ‘qualità’ che obbliga a considerare anche la ‘quantità’”, ciò che conduceva inevitabilmente a un rifiuto, per quanto implicito, delle posizioni critiche espresse da Vitali: nell’accezione comune di “massificazione della fotografia” (…) vi è implicita l’accusa di decadimento, volgarità, banalità di un’ ‘arte’ che pare uscire da una vicenda storica irripetibile e sublime”, mentre si doveva riconoscere (riferendosi  a Primoli) che “le fresche, estrose immagini, a volte persino felicemente disordinate, libere dai rigidi condizionamenti compositivi della noiosa fotografia ‘ufficiale’ [rappresentavano] una positiva conseguenza di quella massificazione della fotografia che si insiste nel considerare deleteria.”

Ai tre saggi seguivano schede regionali di diversa ampiezza e impianto,  presentate come Appunti sulla fotografia nell’Italia dell’Ottocento. Così se per tutta l’Italia settentrionale e in parte centrale si procedeva su base geografica, con approfondimenti che nel caso del Veneto – trattato da Alberto Prandi – assumevano la forma di una vera e propria piccola monografia, per la restante parte della nazione il criterio di ripartizione era invece storico politico (lo Stato Pontificio, il Regno delle due Sicilie, entrambe redatte da Miraglia), con una suddivisone che solo in parte celava la difficoltà di disporre delle informazioni sufficienti a trattare in forma autonoma alcune regioni come le Marche, l’Umbria o lo stesso Lazio, poiché la trattazione dello Stato Pontificio considerava in effetti la sola città di Roma, “fra le poche che sia stata oggetto di studi approfonditi; essa rappresenta un’isola privilegiata che già da tempo ha rivelato la propria fisionomia sotto varie angolazioni.” Chiudevano il volume i profili biografici di più di duecento autori, compresi anche alcuni anonimi (tutti di area romana o meridionale)  ma escludendo editori come Baratti e Borlinetto (ma non Montagna) o un tecnico come Pizzighelli, mentre venne incluso Ignazio Cugnoni la cui responsabilità autoriale rispetto al fondo che portava il suo nome era stata messa in discussione da Piero Becchetti solo l’anno prima. Quella eterogeneità di impianto e di approcci rendeva evidente l’assenza di una metodologia storico critica aggiornata e condivisa e in molti casi il riproporsi, come scriveva Massimo Ferretti[419],  “di una storia scandita da singole istanze creative, da colpi d’ala, da maestri o da opere; in una parola la vecchia, non necessariamente spregevole, ma semplicemente diversa, storia dell’arte. Cresciuta, di necessità, dalle esperienze di un collezionismo raro e fascinoso, fra i comprensibili entusiasmi del pionierismo, la storiografia fotografica stenta talvolta a superare certi atteggiamenti che di quelle esperienze sono  tratti tipici.” Ancora più sferzante fu il giudizio di Arturo Carlo Quintavalle che comprendeva quella rassegna  fra “gli episodi più penosi” della recente storiografia italiana[420], non tenendo in conto le attenuanti prima considerate. Sebbene quelle non fossero sufficienti a giustificare le gravi lacune d’impianto né quelle redazionali, che lasciavano più che perplessi, non si può negare che la serie di mostre fiorentine e veneziane costituì un punto di svolta nella crescita, per quanto difficoltosa e necessariamente incerta, di una attenzione  diffusa per la fotografia storica in Italia che superasse gli opposti limiti della ricerca erudita e dell’amatorismo.

Una novità ulteriore e per certi versi più rilevante era costituita dalla mostra Fotografia pittorica 1889/1911,  coordinata da Alberto Prandi con testi in catalogo di Miraglia e Zannier e schede firmate da alcuni degli autori già coinvolti nel progetto maggiore. L’iniziativa affrontava in modo sistematico, per la prima volta in Italia, quel fenomeno che altri più correttamente chiamavano pittorialismo[421] ovvero, da noi e negli anni del suo massimo rigoglio, “fotografia artistica”[422], come ben precisava un autore coevo: “L’appellativo di ‘Pictorial’ che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’  non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione”.[423]  Una certa considerazione per quella stagione della fotografia, rifiutata da Newhall,  Gernsheim e Pollack, così come da Negro e Vitali, era stata espressa per la prima volta nell’immediato secondo dopoguerra da Raymod Lécuyer[424] in un testo che però ebbe rara circolazione in Italia,  quindi per certi versi rinnovata dallo stesso Gernsheim[425] che, messi da parte gli anatemi di appena un decennio prima, a proposito di “pittoricismo” ora scriveva di “malaugurata tendenza (…) anche se interessante”[426] e soprattutto ne pubblicava numerosi esempi, alcuni dei quali (Rejlander e Robinson, Stieglitz e il gruppo della Photo Secession) sarebbero poi stati meravigliosamente visibili nella discussa mostra torinese Combattimento per un’immagine: fotografi e pittori[427] del 1973, che aveva però altri presupposti e obiettivi. In Italia era stato  Giuseppe Turroni tra i primi a dedicare brevi articoli alla fotografia artistica nel 1960[428], a cui era seguito un intervento di J. A. Keim[429], per il quale “la Prima Esposizione di Fotografie Artistiche a Torino nel 1902, nel quadro della Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative Moderne, costituì uno degli avvenimenti più importanti della storia della fotografia.”  Soprattutto importante era stato l’interesse per il fenomeno manifestato da Italo Zannier, che pure come fotografo proveniva dalla cultura ‘neorealista’ del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, il quale nella seconda edizione della sua Breve storia (1974) aveva rielaborato alcuni contributi sul tema già proposti su vari periodici nel decennio precedente, dedicando al pittorialismo l’intero primo paragrafo del capitolo intitolato Nasce un linguaggio; i giudizi lì espressi erano ancora  fortemente limitativi e in parte contraddittori[430], ma consentivano per la prima volta di delineare approssimativamente il fenomeno anche a scala internazionale.

“In genere gli studi e le mostre fotografiche che si sono prefisse di scandagliare questo specifico settore -scriveva Miraglia nel catalogo veneziano prendendo in parte le distanze dal presunto Combattimento  –  hanno sottolineato il contributo che la fotografia ha offerto o ha potuto offrire (…) alla pittura e alla sua espressione. Lo studio della ‘fotografia pittorica’ sottolinea invece un percorso inverso dalla pittura alla fotografia.”[431] Questo chiarimento implicava la definizione preliminare del più generale quadro di riferimento storico critico, sebbene con giudizi che oggi possono far sorridere, quale la definizione di Rejlander come “autore del più mostruoso quadro allegorico del pittoricismo, dal titolo Le due vie della vita”; un lavoro che Gernsheim si era limitato a definire “la più ambiziosa composizione allegorica dell’intera storia della fotografia”[432] e che la stessa studiosa di lì a poco avrebbe più correttamente definito “ambizioso e complesso” scrivendone per il saggio pubblicato da Einaudi.[433] Diversamente da quanto proposto da Bollati[434], che collocava il fenomeno nel più ampio contesto culturale e ideologico italiano, l’analisi del pittorialismo proposta dalla studiosa era circoscritta all’ambito propriamente fotografico, nel quale ritrovava le connessioni, e quasi la dipendenza dalla diffusione della fotografia amatoriale così come l’influenza contraddittoria (e, oggi lo sappiamo, fraintesa: “in termini apparentemente veristi”, scriveva Bertelli in quegli stessi mesi[435]) della Naturalistic Photography di Emerson, senza rilevarne invece le forti connotazioni elitarie di reazione a quella stessa massificazione amatoriale che le nuove tecnologie avevano consentito e determinato. Il saggio procedeva intercalando quelle che oggi possono apparire come semplificazioni con considerazioni critiche che invece segnarono un definitivo punto di svolta e ancora oggi mantengono tutta la loro efficacia. Mi riferisco all’assunzione in un’unica linea genealogica del “pittoricismo” di Rejlander e Robinson e del pittorialismo[436], oggi non più accettabile,  e per converso al riconoscimento del fatto che  “la fotografia pittorica abbia offerto la prima occasione per una riflessione critica sul destino della fotografia, anche nei suoi aspetti meno appariscenti, come quando, ad esempio, sottolinea e verifica, ai fini dell’espressione, l’importanza dei vari processi fotografici e dei segni che li caratterizzano”. Per queste ragioni – ribadiva Miraglia – va riconosciuto al fenomeno “il ruolo storico che esso giocò verso la definizione di una fotografia in senso moderno.”[437]  A queste precisazioni  faceva seguito quella che fu a tutti gli effetti la prima ricostruzione delle vicende della fotografia artistica in Italia, con una considerazione particolare per il ruolo di aggregazione e conoscenza del fenomeno svolto dalla rivista omonima di Annibale Cominetti, con un termine posto significativamente al 1911 non solo per il ruolo svolto dalle due mostre del Cinquantenario a Torino e a Roma, ma anche perché fu intorno a quell’anno, o poco prima, che le fotodinamiche dei Bragaglia avrebbero aperto le porte alla modernità[438].

Il compito di descrivere e analizzare i “processi fotografici e i segni che li caratterizzano” venne svolto da Zannier nel saggio successivo[439], da leggersi necessariamente in  parallelo con quello di Miraglia, con la quale condivideva l’opinione che “l’avanguardia in fotografia inizia, paradossalmente, con il kitsch del flou o della gomma bicromatata [ma] questo deprecato pittoricismo va inteso anche come un atto di fiducia nella fotografia quale prodotto culturale, sebbene d’élite”. Questa prima parte del saggio, seppur molto ricca di informazioni intese a connettere soluzione tecnica ed espressione formale, mancava però di rilevare con sufficiente chiarezza quanto quelle scelte corrispondessero e fossero manifestazione di un bisogno di unicità dell’opera, di una malintesa concezione della manualità come garanzia e quasi sinonimo di artisticità, in opposizione dichiarata alla riproducibilità consentita e quasi indotta dalle nuove emulsioni e, soprattutto, dai processi di stampa fotomeccanica. La seconda parte era invece composta da un susseguirsi mirabolante di descrizioni dei diversi processi, tratte dai manuali di Rodolfo Namias e Luigi Gioppi, con precisazioni e termini che non potevano che suonare esoterici in quel mitico anno (antracotipia; charbon-velours, “da non confondersi”  – ovvio –  col carbondir, e altri consimili), in una spensierata commistione testuale che la avvicinava alla pubblicistica per il fai da te, ma consentiva anche di intuire, se non proprio di scoprire quale fosse stata la ricchezza anche tecnica, la maestria artigianale che quelle superfici sensibili celavano, ben oltre l’apparente banalità e un’espressione di gusto discutibile e ormai datata. Insomma un invito a riconsiderare storicamente il fenomeno, ma drasticamente contraddetto dalla chiusa del testo: “Tutte queste tecniche -scriveva Zannier – sono state applicate in modo volgare nella produzione di immagini kitsch che oggi si è troppo spesso disposti a rivalutare, e che sono comunque un prodotto emerso da un concetto deformato della funzione della fotografia, intesa non nella sua autonomia di linguaggio, ma come concorrente della pittura e per giunta di una pittura provinciale e reazionaria.”[440] Un giudizio drastico, che sembrava cancellare l’opportunità e il senso stesso di quella mostra.

Tracce evidenti di quelle incertezze erano ben riconoscibili nella scelta degli autori, tanto eterogenea da collocare ad esempio Oreste Bertieri o Giuseppe Caravita principe di Sirignano e Mario Nunes Vais con Federico Maria [ma Pietro] Poppi, e questi con Guido Rey, ma anche Luigi Ceradini e Filippo Rocci[441] accanto a Wilhelm Pluschow e Wilhelm von Gloeden.  Non poteva essere maggiore la distanza dalle posizioni di Carlo Bertelli[442], il quale – rileggendo Von Gloeden attraverso Harald Szeemann – parlava invece di “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” influenzata da Alma Tadema e Max Klinger; restituendo la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare.” Il lungo percorso trasversale compiuto da Bertelli intorno a questo tema aveva un ben più lontano avvio: dal “fine artistico” di una “grandissima parte di queste immagini realistiche di tema apparentemente sociale” destinate ai pittori intorno alla metà del secolo XIX, coniugando pittoresco e verismo, ma anche dalla fotografia di nudo, che “poneva in modo perentorio il problema della fotografia artistica [poiché] la fotografia del nudo è la fotografia inventata per eccellenza.” Altre ancora erano le  feconde indicazioni critiche di quel testo, quali la precisa individuazione delle dinamiche che consentirono alla fotografia di “avere un oggettivo valore estetico soltanto [arrivando] a imporsi come stampa, e ciò poteva avvenire soltanto in un contesto di raffinato livello tecnico e dentro un sistema di scambi che desse un valore reale alla stampa d’autore”; per questo “il movimento dei pictorialists in fotografia assomiglia molto a quello degli artisti incisori”[443], poiché “i fotografi – artisti rivendicano la creazione contro la riproduzione; sanno che i tempi in cui le associazioni dei fotografi si occupavano di promuovere il progresso tecnico sono finiti dal momento che di questo si occupano direttamente le branche chimiche, ottiche e meccaniche delle grandi industrie fotografiche. (…) I fotografi artisti constatano l’enorme facilità della fotografia del loro tempo, l’indifferenza della stragrande maggioranza della fotografia che si produce verso problemi estetici; (…) la fotografia pittorica reagisce alla casualità meccanica per riaffrontare un lavoro fotografico consapevole.”  Anche l’origine della (s)fortuna critica di quella stagione era puntualmente individuata da Bertelli nel giudizio a suo tempo espresso dalle avanguardie, “così perentorio da convincere pressoché chiunque abbia tentato di avvicinarsi alla storia della fotografia che il periodo pittorico sia stato una deviazione aberrante, una non-fotografia. Si dimentica che cosa fosse la fotografia commerciale negli anni ’85-90, quanto falsate dai ritocchi fossero le fotografie che dovevano onestamente ‘documentare’ e come la fotografia ‘artistica’ fosse un passaggio obbligato per la stessa avanguardia, che è nata proprio all’interno della fotografia simbolista”, prova ne sia che “le fotografie di Bragaglia furono accettate subito e con molto favore dalla redazione della ‘Fotografia Artistica’ (…) Nessuno ne fu sconvolto, nessuno vi avvertì il pericolo di una rottura con un modo di pensare intorno alla fotografia, o intorno all’arte”  poiché “la fotodinamica non usciva dall’orizzonte della fotografia artistica italiana. Secondo la tradizione italiana, non si preoccupava di un rinnovamento dei temi, ma di una trasfigurazione di quelli noti, del ritratto specialmente.”[444]

  

 

La fotografia come bene culturale

 

Il convegno organizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di  Modena nei primi giorni di novembre del 1979 e  dedicato a La fotografia come bene culturale[445], venne messo a punto da un comitato scientifico costituito da Andrea Emiliani, Massimo Ferretti, Daniela Palazzoli e Italo Zannier e costituì la prima importante occasione di confronto sulle necessità conoscitive, sull’archivio fotografico (nelle sue più diverse accezioni) come fonte e come patrimonio da tutelare e valorizzare. Il dibattito venne orchestrato intorno a tre aree tematiche: il ruolo delle istituzioni, le funzioni culturali (insegnamento, editoria, mostre, associazionismo e professionismo) e infine “esperienze e metodi di ricerca storiografica”.  Fu quello l’esito di una prima stagione di elaborazione già sufficientemente raffinata, sebbene poi alle “grandi invocazioni, agli ottativi ormai un po’ stentorei dei conservatori” avesse corrisposto “ben poca vera attività”[446]. In quella progressiva presa di coscienza, anche politica, svolgeva un ruolo determinante la cultura amministrativa emiliana, espressa in particolare con la costituzione nel 1974 dell’ IBC – Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (con Andrea Emiliani e Lucio Gambi tra i promotori), quale strumento della programmazione regionale e come organo di consulenza degli enti locali nel settore dei beni culturali. La Premessa dell’Assessore al catalogo della mostra Antiche fotografie nelle collezioni civiche modenesi[447] costituiva una  chiara testimonianza di quale fosse il livello di consapevolezza politica raggiunto, specie per quanto riguardava la necessità di “considerare il materiale fotografico non come corpo staccato dalle raccolte e dai materiali presenti negli Istituti, ma come parte integrante della documentazione più generale in essi conservata. (…) Questa considerazione metodologica generale risulta utile anche per affrontare tutta una serie di problemi relativi ai modi ed alle tecniche di archiviazione e divulgazione dei materiali. (…) Mentre da un lato si dovranno risolvere con urgenza i fatti propriamente tecnici della conservazione (…) è possibile ipotizzare come strumento conoscitivo unificante [il] ‘catalogo’ che insieme alla schedatura dei reperti dovrà consentire, con la riproduzione delle immagini, una utilizzazione delle medesime aperta e pubblica, rivolta a molteplici utenze.”   “È nel catalogo – ribadiva Andrea Emiliani nella stessa occasione – che le sapienti istanze dei conservatori dei convegni e delle tavole rotonde possono abbandonare l’enfasi per acquistare – se mai la possiedono – la fragranza di un atto finalmente pragmatico, finalmente operativo. È proprio nel catalogo, infine, che la sonda della microstoria mette a punto le sue possibilità, offrendosi al futuro.” Un programma di politica culturale quanto mai chiaro, ma di realizzazione quasi utopica in quei tempi di riproduzione inevitabilmente analogica, come rilevarono alcuni interventi al convegno e come purtroppo avrebbero dimostrato le vicende italiane dei decenni successivi.

La prima sessione di lavoro comprendeva gli interventi di Emiliani, Oreste Ferrari e Tea Martinelli dell’ICCD a cui si affiancavano le relazioni dedicate alla Francia di Jean Claude Lemagny, responsabile delle collezioni fotografiche della Bibliothèque Nationale di Parigi, e alla Gran Bretagna di Barry Lane, referente per la fotografia dell’Arts Council di Londra;  nella seconda a Paolo Lazzarin, Paolo Fossati e Settimelli succedevano i responsabili delle maggiori associazioni fotografiche italiane (Michele Ghigo; Maurizio Bizziccari; Fabio Simion). Più prossima ai nostri interessi attuali la terza parte con interventi di Helmut Gernsheim (Fondamenti e metodi delle ricerche inerenti a una storia della fotografia), di Giulio Bollati, che presentava gli esiti del lavoro realizzato per gli “Annali” einaudiani in corso di pubblicazione, di Maria Adriana Prolo, sui rapporti tra fotografia e cinema, e infine di Marina Miraglia, che illustrava Risultati e prospettive della ricerca storiografica conseguenti ai lavori per la mostra sulla ‘Fotografia Italiana dell’800’, un testo che avremmo volto leggere con grande curiosità e interesse.  Tra i relatori spiccava la mancanza di alcuni dei “nostri più brillanti e intelligenti studiosi come Arturo Carlo Quintavalle, Carlo Bertelli, Ando Gilardi, Lamberto Vitali, che potevano dare testimonianza delle loro originali e importanti ricerche sul tessuto storico della nostra produzione fotografica [che] hanno preferito disertare il convegno, in polemica col comitato scientifico che da alcuni anni monopolizza l’attività in questo settore”[448]. Assenze che per molti versi limitarono il giudizio positivo sull’importante iniziativa modenese,  rispetto alla quale  del resto risulta oggi  impossibile esprimere compiute valutazioni di merito poiché le vicende di quell’incontro per molti versi fondativo  si conclusero  con un vero e proprio atto mancato, non giungendo alla pubblicazione delle relazioni presentate, così che la sola traccia nota è costituita dalla trascrizione dell’importante intervento di apertura di Emiliani[449]. Un’accorata e alta riflessione di politica culturale, aperta con sconsolata ironia da una sintetica ricostruzione delle povere vicende italiane che avevano portato al riconoscimento della fotografia come bene culturale e da un’avvertenza sull’esito fallimentare a cui sarebbero stati destinati quei progetti di ricerca che si fossero proposti di “dare al mondo raccolte fotografiche e loro relativi cataloghi senza preoccuparsi di denotare e illuminare le circostanze di origine culturale, di committenza e dunque di economia”; anche per questo, esprimendo preoccupazioni analoghe a quelle di Quintavalle[450],  invitava a prendere coscienza del fatto che la spinta che aveva condotto al riconoscimento della fotografia come bene culturale proveniva essenzialmente da un “motore privato e mercantile”, mentre invece aveva bisogno di aprirsi e dilatarsi “verso l’orizzonte unificante del concetto di patrimonio (…) verso la più generale visione di un’idea di cultura.” Altre preziose informazioni si potevano ricavare da un resoconto a firma di Andrea Jemolo[451], a partire dalla constatazione che “solo ora che la fotografia si è ormai solidamente installata nella nozione di bene culturale, le amministrazioni locali si sono accorte di possedere un vasto patrimonio di immagini fotografiche e di dover procedere ad un suo riordino per poterlo utilizzare sistematicamente”, sebbene poi proprio tra i maggiori difetti del convegno vi fosse stato, a suo parere, “quello di non essere riuscito a indicare chiaramente che cosa si debba intendere per ‘Fotografia come bene culturale’. (…) Ma il convegno di Modena ha messo soprattutto in risalto l’estrema arretratezza della nostra cultura fotografica nei confronti di analoghe esperienze di altri paesi europei [dove] anche grazie ad ingenti sostegni statali, la ricerca storiografica è attiva e fertile già da vari decenni.” Proprio in quel senso numerosi interventi avevano auspicato che si potesse pervenire “attraverso l’Istituto Centrale per il Catalogo, ad un sistema di schedatura unica per tutti i reperti fotografici che sono conservati nel nostro paese”, ma come è noto quell’auspicio si concretizzò solo un ventennio più tardi e senza ottenere la necessaria adesione di tutte le istituzioni interessate.

 

Gli Annali della Storia d’Italia Einaudi

 

Da quella imponente serie di iniziative, ma certo non dal convegno modenese, prendeva neppure troppo implicitamente le distanze l’altra grande realizzazione editoriale di quell’anno: la pubblicazione dei due tomi de L’immagine fotografica 1845-1945[452], con l’affettuosa dedica “A Lamberto Vitali”. Secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi, curato da Carlo Bertelli[453] e Giulio Bollati[454] proprio nell’anno in cui si consumava la rottura tra l’editore e il suo prestigioso direttore generale.

La progettazione

Il precedente volume della “Storia d’Italia”, l’Atlante pubblicato nel 1976, era stato concepito come “una raccolta di materiali visivi attinenti alla storia non in forma meramente accessoria, ma come prolungamento del discorso ‘storico’ portato sui linguaggi della visione e della figurazione (…). Avremmo voluto già allora – scriveva Giulio Einaudi – dedicare un capitolo alla fotografia, ma la situazione provvisoria del settore – tuttora impegnato nella ricerca e nella sistemazione dei materiali e nella sperimentazione di autonomi criteri storici e metodologici – ci indusse ad allungare i tempi per ampliare lo spazio della trattazione e arricchire di inediti la documentazione, nello spirito di un contributo ai ‘lavori in corso’ che è tipico della Storia d’Italia.”[455]  Confermava quelle intenzioni, rivelando alcuni retroscena, una lettera di Bollati a Bertelli del febbraio 1977: “Non so se a quest’ora hai ricevuto e letto o almeno sfogliato l’Atlante (…). Se così fosse non ti sarà sfuggito che, mentre la prefazione insiste non poco sulla storia della percezione visiva, il volume difetta almeno su due fronti. Lasciamo il cinema, che pure meriterebbe un discorso. Ma la fotografia! Quale triste e lamentabile lacuna! Ti dirò in confidenza che il capitolo apposito era stato progettato e affidato. Malissimo affidato, tanto che si dové rinunciarvi. Allora a qualcuno era sembrato eccessivo ‘disturbare’ te, già bersagliato da altri impegni. Ma a cose viste, si è capito che quel capitolo non era dei minori, ma dei maggiori, e che l’autore andava cercato a livelli alti. Hai già capito che sto chiedendoti di farlo tu ora: cento immagini e quaranta – cinquanta cartelle di testo (salvo variazioni in più a tua discrezione). Potremo, inizialmente, distribuire il fascicolo come supplemento, in un secondo tempo, abbastanza ravvicinato, farlo rientrare in una ristampa del volume. Alla proposta, che Giulio Einaudi sottoscrive di persona, ci associamo noi tutti. Penso che per te potrebbe essere un lavoro non gravoso e ricco di ‘invenzione’ e ‘divertimento’.”[456] Bertelli accolse la proposta, indicando anche alcuni possibili ambiti d’indagine (le donne, città e paesaggio) così che nei mesi successivi il progetto prese corpo anche se tra indecisioni e incertezze come sembra indicare il passo di un’altra lettera di Bollati all’amico in occasione dell’uscita del primo volume degli “Annali”: “Guarda bene quel grosso tomo, e immagina come sarà importante il volume II a firma Carlo Bertelli, magari anche sdoppiato in due tomi.”[457]   Lettera di evidente lusinga, dalla quale risultava che a quella data il piano non prevedeva ancora la doppia curatela, come confermavano anche i verbali  di una riunione editoriale di poco successiva[458], nel corso della quale lo stesso Bollati  illustrando il “programma di libri fotografici”  citava fra gli altri “l’Annale di Bertelli che è l’Italia vista dai fotografi. Bertelli stesso ci ha segnalato due libri tedeschi: uno su Arte e fotografia di Otto Stelzer[459] e un altro che è una storia della fotografia.[460]”  Le difficoltà di realizzazione dovettero però essere non solo numerose e impreviste ma anche di diversa natura se in un Promemoria[461] all’editore Bollati arrivava a scrivere che  “la situazione resta acrobatica e impone uno sforzo notevole. Com’era da aspettarsi, man mano che la nostra ricerca procede, Bertelli deve rivedere le sue ipotesi di partenza, sulle quali non ha mai potuto riflettere con la concentrazione che un’opera così vasta richiede. Nell’incontro che gli abbiamo dovuto praticamente imporre, avvenuto a Milano giovedì 11 [gennaio 1979], abbiamo dovuto anche imporgli di ripensare il piano dell’opera, e di farlo subito, compitando insieme i temi intorno a cui organizzare la raccolta del materiale. Il risultato di questo lavoro si può vedere nell’allegato, che rispecchia una fase ancora provvisoria e disordinata, ma che, rispetto al niente di prima, è già una traccia per il completamento della raccolta di fotografie (condotta finora cercando di indovinare il pensiero di Bertelli, ma anche con molti contributi personali). La raccolta del materiale continua. Quando Bertelli vedrà le foto, dovrà probabilmente adattare il testo alle molte cose nuove trovate. Per il momento la situazione del testo è questa: Cap. I: L’obiettivo sugli italiani (…) Cap. II: La realtà trasformata (…) Cap. III:   (…) da scrivere. Il progetto prevede che a questo punto segua nel volume il materiale fotografico, diviso in sezioni tematiche (ho voluto una sezione ‘eventi’, se no troppe cose storiche sarebbero rimaste fuori). (Mi accorgo che manca ancora una sezione scienza e tecnica). Ogni sezione sarà introdotta da un cappello. Ovviamente nel libro, rispetto all’elenco allegato, il numero delle sezioni diminuirà notevolmente. Concluderà l’opera un’appendice di documenti sulla fotografia: testi critici, testi di ‘poetica’, testi insomma di interesse storico e tecnico o di riflessione teorica. La ricerca fotografica, dicevo, va avanti. Abbiamo finito l’importante esperienza dell’Istituto Luce (…). Questa settimana completiamo Torino: Museo della Montagna (fatto Sella e Rey); Fondo D’Andrade (quello del borgo medievale, il primo soprintendente italiano, grande disegnatore e fotografo di monumenti); le raccolte della Biblioteca Reale; quelle del Museo del Cinema; le minoranze etniche e culturali (ebrei, valdesi, occitani). Poi E.M. [Enrica Melossi] ha un programma emiliano, al quale mi unirò se necessario. Andrò di sicuro, invece, a Venezia, Trieste, Firenze. Non ho il coraggio in questo momento di organizzare un’indispensabile visita a Napoli. Qualcosa intanto ho trovato a Mantova. Rifiniture a Roma: è necessario ritornare al Gabinetto Fotografico Nazionale. Molte cose le sta mandando avanti E.M. da sola d’accordo con me. Malgrado l’apparenza, abbiamo chiuso i capisaldi – luoghi e cose – della ricerca, non navighiamo alla cieca. Pensiamo anche di poter chiudere a un segnale convenuto – dovrà venire da Bertelli – senza farci pescare con omissioni gravi. Anche entro febbraio, non è escluso. Se mai, si tratta di limare e integrare i singoli casi.” Alcuni capisaldi, infatti, erano delineati: la struttura del volume col testo separato dalle immagini, la presenza di una appendice di documenti, ma altri aspetti fondamentali risultavano ancora tutt’altro che chiari; in primis l’arco cronologico di riferimento, che a quella data prevedeva ancora un’estensione sin “dopo il ’45”, ma soprattutto l’articolazione tematica era ben lontana da una soddisfacente soluzione e la settantina di lemmi individuati richiamava più un soggettario che una struttura discorsiva[462].  L’altro dato rilevante e per molti versi inatteso che emerge da questi documenti è il ruolo svolto dai due studiosi: nonostante la competenza specifica e la lunga esperienza di Bertelli come direttore del GFN e dell’ING fu infatti Bollati a coordinare e svolgere in prima persona le ricerche iconografiche negli archivi italiani, pubblici e privati. Non solo: fu lui a definire l’orizzonte storiografico del progetto. Come scriverà anni dopo Bertelli ricordando l’amico scomparso  “Giulio Bollati si mise alla ricerca di quegli elementi che nei caotici archivi fotografici italiani permettevano di riconoscere linee di tendenza corrispondenti a una modernità che, malgrado tutto, premeva e infine s’imponeva. (…) Bollati era andato a cercare le tracce del cambiamento negli archivi delle società industriali più direttamente interessate alla concorrenza cosmopolita e, con notevole intraprendenza, in quel lembo d’Italia austriaca che erano state Trento e Trieste. (…) Eppure, nella ricerca a tappeto condotta in tutta la penisola, l’autore era consapevole delle lacune e dei silenzi. Macabre fotografie di banditi del sud ce n’erano (…) per contro quasi nulle le fotografie relative alla classe operaia.”[463]

Struttura e contenuti

“L’uscita di questo volume – scriveva Giulio Einaudi nella nota di apertura – cade, per una coincidenza significativa, in un momento di interesse particolarmente intenso per la fotografia, la sua storia, il suo significato, il suo legame con la vita italiana. Le origini del volume sono, comunque, autonome e risalgono al progetto culturale che sotto il titolo di Storia d’Italia ha dato luogo, a partire dal 1972, alla pubblicazione di un’opera di cui gli Annali costituiscono la continuazione e lo sviluppo. (…) I due autori dell’opera, Carlo Bertelli e Giulio Bollati, partono da premesse e da formazioni diverse, ma concordano nella necessità di collegare la fotografia, come sistema linguistico e produttivo, alle strutture e ai problemi della organizzazione della cultura.”[464] Una dichiarazione programmatica chiara, che collocava precisamente la nuova realizzazione nel progetto storiografico dell’intera opera, sinteticamente richiamato nelle righe finali e di cui si potevano trovare ampie tracce in molti dei volumi già pubblicati[465].  Il volume apriva con l’Elenco delle [676] illustrazioni, organizzato per temi che non trovavano immediata corrispondenza nell’articolazione dei saggi, costituendo così un ulteriore spazio discorsivo. Di ciascuna immagine erano indicati nell’ordine Soggetto, Autore, Data e Provenienza (collezioni pubbliche e private, ma anche da fonti bibliografiche), senza fornire però  – se non per alcuni calotipi assegnati a Tuminello, poi attribuiti a Caneva da Becchetti – alcuna indicazione tecnica, come se questa non appartenesse e non fosse anzi costitutiva del “sistema linguistico e produttivo” della fotografia. Seguivano i saggi dei due curatori e quindi quello che con discutibile scelta terminologica[466] venne definito  l’Apparato fotografico  sviluppato nei due tomi, il secondo dei quali chiudeva  con una importante Appendice di testi e documenti  e con l’Indice dei fotografi.

L’immagine contrastata fu il titolo emblematico scelto da Bollati per il primo paragrafo del suo saggio, qualificando così i nodi problematici, gli scenari e i contesti del proprio territorio d’indagine, segnato da un’apertura che invano avremmo cercato nelle altre produzioni coeve. “Questo libro non è una storia d’Italia attraverso la fotografia, né una storia della fotografia in Italia – scriveva in quel suo citatissimo incipit – (…)  Si situa di proposito in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista. Abbiamo del resto motivo di credere che la nostra scelta sia appropriata alla fase attuale della fotografia, questa ultima arrivata nella nostra lungamente estranea e diversa cultura.”  L’origine di quella estraneità era riconosciuta nella “persistenza di una tradizione culturale di antica ascendenza classica” e nel ritardato ingresso del nostro paese nel mondo industriale avanzato.  Per queste ragioni “la fotografia, riportando alla superficie[467] il tema primordiale dell’immagine e dei suoi rapporti col pensiero, si è trovata coinvolta in sommovimenti profondi della nostra eredità culturale [poiché] all’apparire del nuovo mezzo, la cultura figurativa tradizionale si sentì  in pericolo e diede l’allarme: con la pretesa di fare arte mediante una macchina e il sussidio di reazioni chimiche, il mondo dell’industria rompeva un antico confine e invadeva il territorio dei valori consacrati.” Da quella interpretazione storica del fenomeno Bollati faceva derivare una precisa posizione critica, considerando  un errore “mantenere la fotografia (…) dentro quella continuità estetico – figurativa che essa, appunto, ha interrotto, e nell’aspettarla alle prove di una annosa concezione dell’ ‘opera d’arte’ ”.  Non solo: facendo proprie una serie di suggestioni che muovevano da Benjamin sino all’ultimo Barthes[468], Bollati invitava a riconoscere che “malgrado l’educazione estetica che abbiamo ricevuto, il  nostro rapporto con la fotografia è più grossolano e affonda nell’indistinto dell’esperienza: tende a privilegiare come valore il contenuto, di più, inclina a confondere l’oggetto e la sua rappresentazione, scivolando inavvertitamente nella mentalità magica del cacciatore paleolitico. La fotografia ci fa regredire a uno stadio in cui l’immagine si sottrae al controllo del pensiero razionale (…) ha risvegliato l’arcaico e il demonico dormienti nel profondo”.  Questi alcuni dei nodi che per Bollati era indispensabile riconoscere  e sciogliere se si intendeva affrontare la presenza della fotografia nella storia della società italiana; l’elemento di continuità nel  rapporto dialettico “tra la risvegliata ‘naturalità’  della percezione (sedimentata da una precedente storia antropologica, psicologica, ecc.) e la cultura dominante, che cerca di non perdere il controllo del fenomeno”.  Si precisava così l’intenzione di “tracciare l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana, dedicato alla visione e con particolare riferimento alla fotografia”, recuperando “prescrizioni e divieti, minacce e lusinghe intesi a fissare la linea del vedere e le norme per la produzione di immagini visuali”. Un programma perfettamente coerente e rappresentativo di quella che allora si definiva ancora nouvelle histoire, nella specifica accezione di storia delle mentalità.

Nei paragrafi seguenti l’ipotesi interpretativa prendeva corpo intorno ad alcuni temi centrali quali l’industrializzazione; i rapporti con la tradizione estetica o lo stato e ancor più lo spirito dei luoghi,  le cui rappresentazioni avrebbero contribuito a definire L’inventario fotografico dell’Italia unita (come recitava il titolo del terzo paragrafo): “Un vasto campo di lavoro si apre alla fotografia come strumento di unificazione.  (…) Più in generale essa collabora alla creazione di una retorica nazionale didattica e celebrativa, traducendo in immagini i tòpoi derivati da varie fonti o producendone copiosamente di propri. (…) La raccolta di ‘bellezze naturali’ del Bel Pese sarà compiuta da un esercito di fotografi spesso di basso e infimo livello, capaci però di comporre un mosaico di stereotipi visivi tanto tenaci, che molti luoghi e paesaggi reali ne saranno ‘sostituiti’ per sempre.”[469]  Quelle immagini oleografiche e retoriche, ma anche  la retorica di quelle immagini e di quell’immaginario si riveleranno ben presto strumentali – ci ricordava Bollati – a quell’ “occultamento del reale” che avrebbe poi segnato una buona parte del modernismo del ventennio fascista e l’opera dei “nostri fotografi di ruralità artistiche”; un’ironica definizione che compendiava il giudizio su quel “pittorialismo ricchissimo di Kitsch e tuttavia capace in alcuni casi di sorprendenti riuscite.” Un fenomeno di cui Bollati individuava i riferimenti culturali non solo e non tanto nella più immediata aspirazione all’artistico ma – con sguardo più ampio e profondo –  in quel “neoidealismo italiano” già richiamato in apertura che aveva innalzato  “una barriera tra la cultura italiana e la cultura del mondo industrializzato, e al riparo di quel muro esteti di varia estrazione, letterati, moralisti scendono in campo contro il nemico comune: il materialismo.”

Con una lettura che appariva debitrice dell’interpretazione gramsciana del futurismo, sarebbe stata la Grande Guerra, scriveva Bollati, a gettare improvvisamente l’Italia in quella modernità industriale di cui costituiva una “violenta intensissima esperienza”[470]; occasione in cui “nel trionfo della demenza autoritaria, la fotografia scopre se stessa, la sua democraticità, l’assolutezza del suo rapporto con le cose. Le fotografie della Grande Guerra sono spesso ‘solitarie’, come se non dovessero essere viste da nessuno, neppure da chi ha premuto il pulsante della Kodak portatile”. Il successivo ventennio fu invece la “grande e infamante occasione per la fotografia italiana, chiamata a documentare la realtà dell’inesistente[471] mentre il reale viene sistematicamente occultato”, sebbene poi per la sua stessa natura la fotografia rivelasse  “tutto quello che le si ordina di nascondere. Basta ormai la faccia di un bambino, o una colonna di fumo sullo sfondo di una periferia per sfatare i colli fatati e i medioevi cristiani, cavallereschi e comunali.” Per Bollati la sola  produzione  dotata di una certa autonomia era stata quella “legata soprattutto a ricerche architettoniche, pubblicitarie, di design industriale. Si assiste come al formarsi di una grammatica e di una sintassi della visione moderna, che sul terreno della ricerca formale trova il contatto con esperienze internazionali d’avanguardia  [che] maturano anche il pittorialismo italiano di base a effetti di più aggiornata trasposizione letteraria del reale. (…)  Dopo una lunga sottomissione all’alta cultura aristocratica dei vati e dei moralisti, e dopo il confino fascista, con la fine della guerra la fotografia italiana esce finalmente dall’isolamento e raggiunge in breve tempo traguardi alti. Ma non diremmo che sia sicura di sé, né, del resto, che possa esserlo.”[472]

Diversi l’impianto e gli obiettivi del successivo saggio a firma di Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, che si proponeva come inedita sintesi storica fondata sulla chiara necessità storiografica di collocare le vicende della fotografia in Italia nell’ampio e mutevole contesto storico del lungo periodo considerato e in un rapporto di scala che col progredire dei decenni necessariamente si ampliava.  “Lo sforzo di uno storico della fotografia – scriveva Bertelli – deve mirare a collegare il più possibile il documento fotografico  a una trama storica, assumendolo non come riflesso di una realtà storica ipotetica, ma come una parte, a seconda delle circostanze più o meno rilevante, della stessa.”[473]. Altre considerazioni di ordine generale erano poste in chiusura del saggio, a proposito delle ragioni industriali, commerciali ed economiche che avevano da poco suscitato “un nuovo e quasi inedito interesse verso il collezionismo fotografico estendendo fino ai livelli attuali la concezione di una fotografia destinata al libro, alla mostra, al museo. Il tipo di storiografia che ne è stato sollecitato, ricalcato sullo schema della storia dell’arte, conviene perfettamente allo scopo. Poiché in una ricerca di meriti, il problema di fondo di che cosa abbia costituito la fotografia nella storia della società italiana è rimandato alla speranza di scoperte successive che dimostrino, contro ogni evidenza, che l’Italia può entrare nel consesso dei paesi che hanno una storia della fotografia con gli stessi titoli. Quando si deve invece riconoscere che l’Italia è un caso diverso, che non ha gli stessi titoli e non ha nessuna ragione per cercare questo tipo di promozione fra i paesi industriali. Al contrario sarà proprio una più approfondita conoscenza della nostra storia industriale e dei suoi complessi intrecci con le industrie estere che potrà contribuire a conoscere la storia della fotografia in Italia, la storia cioè della forma di documentazione, di comunicazione e di riproduzione tipica della moderna società industriale. Sapremo così ascoltare anche il silenzio, e interpretarlo.” Lascia oggi qualche perplessità quella disposizione all’ascolto del silenzio degli innocenti in cui pare di cogliere ancora una traccia, se non proprio una consonanza, per quanto incommensurabilmente più articolata, con le posizioni a suo tempo espresse da Negro e Vitali.  Sono convinto che ormai da tempo (e fortunatamente) nessuno storico della fotografia italiana si applichi ai propri studi alla ricerca di un primato da verificare, ma nella consapevolezza, del resto enunciata dallo stesso Bertelli in apertura, che la fotografia e i suoi prodotti sono stati e sono parte della storia e della cultura di un Paese e che questa è la sola ragione, necessaria e sufficiente perché debbano essere studiati.

La varietà dei temi e la maestria con cui sono stati affrontati ha fatto di quest’opera un riferimento imprescindibile per ogni storico a venire, anche quando risultava inevitabilmente condizionata dai differenti livelli di conoscenza disponibili all’epoca, determinando attenzioni e approfondimenti di cui  a volte è difficile stabilire quanto fossero l’esito di scelte critiche oppure di condizionamenti contingenti. Pur senza pretesa di antologizzarla credo sia utile dare conto almeno di alcuni degli elementi più significativi, così come di quelle che ora paiono incertezze di comprensione da cui derivarono improprie considerazioni storico critiche: ne costituiva un buon esempio l’esclusione del calotipo dalla sequenza tecnologica significativa, senza cogliere la novità determinante, linguisticamente inedita del primo processo negativo/ positivo, del quale tutto ciò che ricordava Bertelli era che “anche la  nuova invenzione (…) del negativo su carta (calotipo) ha una sua fase accademica in Italia attraverso lo scienziato modenese Giovanni Battista Amici”. La cultura tecnologica, come già nei volumi da lui ispirati dedicati a Michetti e Cugnoni[474], doveva essergli sostanzialmente estranea se non proprio ostica se poco dopo possiamo leggere che “il calotipo ha una granulosità strana, che ricorda il disegno, ma che, per non dipendere dalla carta, bensì da una sospensione di materie meno fini nel pigmento stesso che forma l’immagine, lascia interdetti [i contemporanei, si suppone] e si risolve in una curiosa sensazione atmosferica, con una incertezza di definizione che si presta al racconto.”[475] Brano incredibile, che misurava concretamente la distanza tra inoppugnabili dichiarazioni di principio e competenze che (almeno in ambito fotografico) si rivelavano ancora incommensurabilmente lontane dalle necessità di comprensione dei processi propri di  una tecnologia di produzione che forse più di altre di questi viveva e da questi era determinata, anche e soprattutto nelle proprie possibilità espressive.

Meglio allora guardare alle più raffinate considerazioni critiche di lettura dell’immagine di Bertelli, molte delle quali ancora oggi efficaci sia in termini di definizione generale[476] che di interpretazione storicamente circoscritta, ricordando ad esempio che “attraverso la fotografia la medicina ottocentesca tocca una delle punte più appariscenti della sua immersione nell’individuo e nel contesto sociale cui appartiene.” Un richiamo che consente di sottolineare l’ampiezza e la novità dei temi proposti da Bollati e variamente scandagliati da Bertelli, che accanto ai generi  canonici di derivazione pittorica (la veduta, il ritratto, il nudo) ne affrontava di sostanzialmente inediti, suggerendo percorsi di ricerca tuttora validi: emigrazioni e catastrofi; gli scrittori e la fotografia; lo sport[477] e  la moda; la fotografia geografica e di montagna;  la fotografia di guerra e quella industriale; o ancora quella editoriale in rapporto alla grafica e al linguaggio cinematografico: “dal momento in cui la fotografia si trova a confrontarsi non più soltanto con la pittura, ma anche con il cinema, è costretta a una concentrazione di significato che dia alla singola fotografia una densità narrativa enorme, che ormai non può essere ottenuta con prestiti dai modi della pittura, ma si attua in una scomposizione della realtà, secondo le esigenze ottiche e meccaniche della fotografia, tale da estrarne immagini simboliche.” In questo ricchissimo excursus alcuni temi o contesti costituivano un terreno privilegiato d’indagine: autori come Michetti o Nunes Vais, ma anche le successive declinazioni della fotografia artistica e la politica dell’immagine nel ventennio fascista e sino alle prime reazioni del secondo dopoguerra. Sorprendeva invece  lo spazio marginale, poco più che un cenno, riservato alle funzioni e al ruolo della fotografia dell’arte, a proposito della quale rimarcava come “ancora più indicativa del dissidio fra fotografia e cultura è l’assenza di una riflessione sulla fotografia delle opere d’arte”, senza menzionare non dico alcune campagne ottocentesche allora forse sconosciute ma neppure il magistrale esempio del Piero della Francesca di Roberto Longhi[478] o i necessari antecedenti di Adolfo Venturi, Corrado Ricci e Pietro Toesca che pure dovevano essergli ampiamente noti, non foss’altro che per il ruolo istituzionale da lui svolto in quell’arco di tempo.

La ricezione dell’opera e la questione della fotografia come fonte

La rilevanza e il significato dell’impresa editoriale, così come le questioni metodologiche poste, sollecitarono un’ampia serie di riflessioni critiche da parte sia di storici contemporaneisti che di quelli di fotografia, anticipate però da una importante intervista allo stesso Bollati[479].   Quell’opera, chiariva, andava intesa come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia. (…) Non c’è distanza fra i testi e le foto. Il mio saggio è nato insieme alla ricerca del materiale. Ne è scaturito l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana dedicato alla visione, con particolare riferimento alla fotografia.” Per Mario Accolti Gil, che lo intervistava, le foto riprodotte non potevano però essere “un campione statisticamente attendibile di quello che è stato prodotto e consumato nel periodo (…) c’è una certa sfasatura fra la corposità dei testi e le foto che dovrebbero comprovarli”[480], ragione per cui  “un impianto statistico avrebbe dato maggiore consistenza alla sistemazione che questi Annali si limitavano a delineare con taglio saggistico.” Bollati riconosceva che “l’obiezione metodologica di una mancata scelta di campo” era stata messa in conto, ma si augurava che il libro potesse “contribuire a uscire da schemi  un po’ appartati che non portano molto lontano. (…)  Più in generale le dirò che in fatto di teoria e lettura della fotografia abbiamo ancora tutti molto da imparare e studiare (…) Se mai un libro è stato fatto con passione di scoperta è questo. Ho dovuto studiare, ricercare. Siamo partiti dai repertori classici (GFN, Bertarelli, Luce, IGM), ma poi abbiamo battuto campagne, la provincia, le case private. Non è un libro nato sull’onda della moda; è stato pensato anni fa nel quadro della Storia d’Italia Einaudi [ciò che era vero solo in parte]. Gli stessi difetti che lei sembra riscontrarvi lo dimostrano. Ma questo libro è anche, passata questa fastidiosissima voga che incontra oggi la fotografia nel nostro paese, un invito a lavorare seriamente a riordinare il patrimonio fotografico, che in Italia è profondamente dissestato, e a scandagliarlo ancora perché siamo appena agli inizi.” In quella stessa occasione Bollati si era dichiarato curioso di sapere “come giudicheranno questi Annali i Gilardi, i Colombo, i Settimelli, per parlare della vecchia guardia, o la Palazzoli e Quintavalle, per citare i più sofisticati, i novissimi”, ma le prime reazioni non vennero dal fronte fotografico, né furono immuni da distinzioni legate alle diverse posizioni ideologiche. Così Nicola Tranfaglia sottolineava l’interesse della fotografia come “fonte significativa per cogliere l’immagine che gli italiani vollero lasciare di sé stessi ma anche aspetto non marginale del rapporto tra intellettuali e potere”[481]; un elemento individuato anche da Paolo Spriano, che apprezzava “lo scrupolo e l’acume di scelta dei due studiosi italiani della storia attraverso la fotografia (e della fotografia attraverso la storia) (…) che ci hanno dato, per un secolo intero, un’immagine complessiva della borghesia”, ma con una notazione ulteriore a proposito di una certa “sensazione così sottile che finisce per prevalere: pare tutto così lontano, il 1845 come il 1940, ciascuna data con le sue tragedie ma anche ciascuna con la sua impronta di ‘tempo scomparso’. Insomma c’è un sottofondo permanente di Italia piccolo-borghese.”[482] Il nodo centrale, storico e storiografico, del rapporto tra identità nazionale e rappresentazione fotografica venne ripreso e sviluppato da Anne Marie Sauzeau Boetti, per la quale piuttosto che chiedersi “se si tratta più della storia della fotografia in Italia o di quella dell’Italia moderna (…) è meglio porre il problema in altri termini: come si inventarono gli italiani, intendiamo la neonata nazione italiana attraverso la fotografia? Oppure (ma si tratta della stessa cosa) come inventarono, gli stessi italiani, la grammatica progressiva di un tessuto di rappresentazione e di comunicazione, moderno per eccellenza, il linguaggio dell’immagine fotografica? (…) Il luogo mentale della raccolta è il confine fragile, ribollente di speranze e di nostalgie, tra antica e degradata cultura regionale e vocazione di potenza moderna, persino coloniale. Di questa mutazione, il testimone è stato un occhio nuovo, appunto la scatola nera del fotografo.”[483]

Altri recensori si soffermarono invece su questioni più squisitamente storiografiche: dopo aver tempestivamente segnalato l’uscita del volume, Rosario Romeo ritornava sull’argomento dichiarando preliminarmente di non voler seguire “i curatori nelle attente analisi che accompagnano questa raccolta di fotografie (…) per mancanza di competenza e un po’ anche di interesse”; preferiva semmai considerare la “questione dei rapporti tra fotografia e storia” rilevando che  “la raccolta sembra un po’ troppo orientata per costituire una documentazione convincente. Troppo poco essa offre di fotografia scientifica e di altri ‘generi’ per natura più ‘realistici’: e quasi nulla di momenti così riccamente documentati come le due guerre mondiali. (…) Nonostante i fieri propositi e gli intenti ideologici e politici enunciati nella presentazione, la raccolta sembra guidata più da criteri estetici che di documentazione storica: e questo ne diminuisce la significatività nella sede scelta per la pubblicazione. Certo, essa non reca molto sostegno a chi vede nella fotografia una fonte importante per la ricerca storica. Che la fotografia appaghi talune superficiali curiosità è evidente. Ma resta il fatto che i momenti della storia sono quelli che meno si prestano a farsi fotografare. (…) Questo andrebbe detto, mi pare, a evitare che si disperdano energie a caccia a base fotografica [sic] destinata a restare al margine dei veri problemi della ricerca.”[484] Una lettura meno condizionata ideologicamente e una critica meno radicale al progetto fu quella di Giuseppe Galasso, che richiamava in termini generali il permanere nella cultura degli storici  del pregiudizio della ‘oggettività’, della costante dicotomia oggettività/ costruzione, riproduzione/ espressione, documento/ arte; proprio per questo  apprezzava quella “indeterminatezza” su cui si apriva il saggio di Bollati, che costituiva “motivo di grande pregio sul piano di una storia della fotografia in Italia” sebbene potesse far nascere “qualche perplessità sul piano più strettamente storico-cronistico.”[485] Ancora al tema “della fotografia come documento, se vogliamo come fonte storica” era dedicata la recensione di Franco Cardini[486] che confermava come “gli italiani non hanno una buona sensibilità per le fonti iconografiche, e in particolare gli storici trascurano spesso di servirsene o le sottovalutano. È un errore a correggere il quale una pubblicazione di questo genere può senza dubbio servire egregiamente” nonostante qualche rischio di retorica.  Ancora sul contributo di Bollati si soffermava Cesare de Seta, per il quale “nonostante le sue reticenze, nonostante il suo discretissimo modo di presentare le sue analisi al lettore” esso costituiva  “il più asciutto ed originale scandaglio della complessa relazione che si istituisce tra cultura del testo e la cultura dell’immagine” [487]; opinione condivisa anche da Federico Zeri che considerava  “di non comune interesse il capitolo sull’ ‘immagine contrastata’, sulla polemica tra foto-documento e foto-opera d’arte, e sulle componenti storiche, sociali e culturali dalle quali vengono evidenziati o depressi certi temi di ripresa (sino all’ ‘occultamento del reale’)”. Il grande storico dell’arte liquidava invece in poche parole “il saggio di Bertelli [che] è di carattere storico”[488], molto apprezzato invece da De Seta per il quale rappresentava “la più sistematica ed ampia analisi attualmente disponibile sulla fotografia italiana: anche se naturalmente sono privilegiati quei momenti e quei passaggi che sono stati fino ad ora meglio indagati”; anche se, vale a dire, non presentava novità di rilievo. Più severo il giudizio di  Guido Bezzola che lo considerava nulla più che “una gradevolissima e azzeccata serie d’interventi su episodi della storia e del gusto fotografici in Italia”, segnalando nel contempo alcuni errori nell’identificazione delle immagini, elemento che qui interessa richiamare  soprattutto come indizio di un più ampio problema di metodo, che negli anni successivi avrebbe interessato in particolare gli storici con la fotografia, ponendo la questione cruciale  della corretta edizione delle fonti.[489]

La “indeterminatezza” apprezzata da alcuni era invece vista come un elemento di debolezza da parte di qualche esponente della “vecchia guardia” dei critici militanti: dalle pagine di “Phototeca” Roberta Clerici e Ando Gilardi segnalavano infatti “una nota di ‘insicurezza’, del resto caratteristica di tutti gli studiosi, pur di solida cultura visiva, quali Bollati e Bertelli, che si cimentano con la fotografia. La fotografia resta alla fine essenzialmente ‘un processo’ tecnico e industriale e si pensa di doverlo conoscere dall’interno, come tale, per trattarne in piena sicurezza. Ora i due autori non sono, e non pretendono di essere, tecnici esperti, e nemmeno storici dei procedimenti fotografici. È la ragione per cui si muovono con tanta circospezione.” Interpretazione certo riduttiva sia della fotografia come fenomeno storico sia delle scelte storiografiche espresse in quegli “Annali”, ma in certa misura supportata e giustificata sia dalla mancata considerazione delle tecniche fotografiche sia dall’analisi quantitativa condotta dai  recensori sui nomi citati nell’opera, dalla quale risultava che nel saggio di Bollati solo il 4% erano di fotografi e solo il 7% in quello di Bertelli.  Sarebbe però errato – scrivevano i due attenti recensori con intenti polemici – considerare questo “come un difetto dell’opera. È solo un modo di usare la fotografia fuori dai suoi confini. Entrambi gli autori intendono recuperarla alla cultura ‘vera’, alla  ‘buona’ cultura: la storiografia, l’arte tradizionale fatta a mano, la psicologia, la sociologia, la critica del costume e dei nuovi consumi intellettuali promossi dall’industria ecc. C’è, probabilmente, anche una ‘seria’ cultura fotografica [che] riguarda la fotografia ‘ancora da fare’, vale a dire le vicende delle industrie fotografiche: vicende produttive, commerciali e promozionali (…) fino a quando questa storia della fotografia non sarà stata scritta, o almeno definita nella sua impostazione, la ‘buona’ cultura potrà interessarsi alla fotografia, intesa come supporto interessante per la dotta speculazione. Ma la cultura fotografica resta da fare.”[490] Lo stesso Gilardi ribadiva queste posizioni in una successiva recensione[491] riconoscendo che i due tomi erano “più che indispensabili per chi studia fotografia. I fotografi debbono essere grati all’Einaudi perché la stampa di questi volumi segna, di per sé, il primo solenne ingresso della fotografia come forma di cultura particolare, nella forma generale della cultura accademica ufficiale. (…) i testi del Bollati, del Bertelli e del Gilardi, in fondo, li leggono con attenzione e sottolineandoli (come meritano) solamente il Gilardi, il Bertelli e il Bollati. Poi li legge Arturo Carlo Quintavalle, i testi del quale, anche per debito, proviamo onestamente a leggere, ma sia pure spingendo lo sforzo allo spasimo, non ce la facciamo. Per ragioni di limite esoterico. Continuiamo a scherzare, infantilmente.” In questi volumi, proseguiva con ironia affettuosa, “c’è dentro tanto lavoro, tanta ricerca, tanta intelligenza. E tanta modestia: Bollati chiama il suo scritto ‘note’ e Bertelli il proprio ‘schede’. Insieme all’editore si affannano a ripetere che non si tratta di una ricerca sufficiente, e nemmeno di un’analisi piena.” La chiusa era tutta dedicata a Bertelli, che aveva individuato “nel riutilizzo da parte di altre ‘cose’ (la pittura, la grafica, l’architettura, il tempo libero, l’antropologia eccetera) l’unica possibilità di dare alla fotografia uno scopo. Quando si esaurisce in sé stessa si esaurisce, appunto.  Chi scrive questa segnalazione è tristemente noto per una sua conferenza, troppe volte ripetuta, che ha per tema ‘La fotografia non è arte, non è comunicazione e, quel che è peggio, non è nemmeno fotografia, ovvero: meglio ladro che fotografo!’ però confessa che in fondo al cuore gli restava una speranza d’avere torto. L’amico Bertelli, con il suo fare timido da cobra rispettoso, gliel’ha tolta.”

Su alcune discordanti caratteristiche dell’opera insisteva anche Angelo Schwarz, ma avviando la propria trattazione con una notazione singolare:” C’è una cosa che va detta subito: la noia scorrendo i testi e guardando le immagini non ti sorprende mai. Non è cosa da poco per un’opera, anche, di storia della fotografia” [492], riconoscendo ai due autori l’abilità nel fornire ai dati storici “un contesto e una scrittura adeguata”; più in particolare considerava esemplare il contributo di Bollati per essere riuscito a “rompere l’isolamento della fotografia come storia particolare”, mentre agli “storici della fotografia, postulanti, canonizzati o da canonizzare” mancava una “adeguata metodologia storica (ancora da inventare)”. Da questo punto di vista anche il considerevole contributo di Bertelli restava, nonostante i riconosciuti pregi, “disperante” poiché  vi si toccava “con mano l’insufficienza di studi seri sulla fotografia, di una ricerca che non  può essere relegata a un gruppo di sparuti ricercatori”, conseguenza  – anche – dell’assenza di specifici corsi di formazione universitaria. Per questo “i rilievi (…) concernenti imprecisioni, dimenticanze presunte o reali (…) diventano marginali se non li si riconducono ai grossi vuoti di documentazione dispersi nelle memorie individuali.”[493]

Di genere più propriamente storiografico le riserve espresse da Quintavalle a proposito dello stesso saggio, che considerava “interessante” ma “discutibile”, essendo la predilezione per “alcune personalità ben individuate” espressa da Bertelli inconciliabile con la necessità di conoscere e considerare  un contesto come quello italiano che era ancora sostanzialmente insondato;  “in secondo luogo perché operare solo sull’insieme dei supposti artefici protagonisti, degli ‘artisti’, è certamente un’operazione di stretta marca idealistica, crociana; e ancora perché proprio il rifiuto di analizzare la fotografia come strumento della comunicazione preclude a chiunque la possibilità di comprendere la realtà della storia: una storia della fotografia per genii, per figure-guida appare essere contrapposta alle storie reali, al tessuto reale, quelle storie, quel tessuto che decenni di critica ci hanno insegnato a rispettare e a considerare come strutturante.”[494]

 

 

 

1980-1988

 

 

L’Italia nelle storie generali / Alcuni modelli storiografici

 

 

La risposta del pubblico alle molteplici iniziative del 1979 aveva sollecitato gli editori a considerare diversamente la cultura della fotografia e  la sua storia, tanto che in meno di un decennio si pubblicarono le maggiori sintesi storiografiche generali allora disponibili, sia contributi originali sia traduzioni, mentre si assisteva a qualche timido ma prezioso tentativo di riedizione delle fonti[495]. Il periodo, delimitato quasi esattamente dalla pubblicazione dei due volumi della Storia della fotografia di Gernsheim  (Le origini, 1981; L’età del collodio, 1987), vide nel 1982 l’uscita della Storia e tecnica della fotografia di Zannier e  nel 1984  la traduzione italiana dell’ultima edizione di quella di Beaumont Newhall, seguita due anni dopo dalla traduzione della Storia curata da Jean-Claude Lemagny e André Rouillé, che  proponeva un nuovo modello storiografico.

A chiudere editorialmente il 1979 era stato un volume di Settimelli dedicato alle origini della fotografia[496], che aveva il lodevole scopo di far sì che “il lettore, stufo di tante opinioni diverse [potesse] giudicare con la propria testa”. Così nel breve spazio di poco più che cento pagine venivano compendiati, come recitava il sottotitolo, I fatti, i pionieri, gli eroi, le polemiche, le tecniche e i documenti inediti dal 1820, con qualche riferimento alle vicende italiane. Nella breve Prefazione, e forse con qualche bonaria intenzione ironica, l’autore dichiarava di non avere “molto da dire” a proposito delle ragioni del libro e del tema (inteso ancora come controverso) dell’invenzione della fotografia, essendo però consapevole del fatto “che un libro in più non faccia male a nessuno.”  La narrazione delle vicende riprendeva l’andamento romanzato già adottato per il volume del  1969, compreso quel gusto nella titolazione dei capitoli improntato a criteri e modi da copywriter pubblicitario (“Daguerre e Niepce [sic] fanno impazzire il mondo”). Anche in questo caso l’aneddoto prevaleva sull’accuratezza delle informazioni fattuali e tecniche[497], così come sulle considerazioni storico critiche, tanto che uno degli assunti fondamentali, quello che distingueva tra dagherrotipia e fotografia in senso proprio era liquidato sommariamente notando che “si trattava, insomma, del principio del negativo e del positivo ancora oggi d’uso corrente” ed anche la dichiarazione che “i veri inventori della fotografia, così come noi oggi la conosciamo (…) furono in realtà Henry Fox Talbot e Hippolyte Bayard”  era quasi celata nel corpo di una semplice didascalia.   Ne risultava uno zibaldone di testi e immagini poco coerenti tra loro sia in termini strutturali che cronologici, tanto da far pensare a un instant book realizzato sull’onda della nascente curiosità per la fotografia storica piuttosto che all’esito di un meditato progetto di ricerca. Il solo merito di quel volume era rappresentato dalla pubblicazione di alcune fonti “a volte di faticosa lettura” (intendendo – credo – di difficile reperibilità), scarsamente utilizzate dai pochi che lo avevano preceduto  (come Federico Arborio Mella[498]) e che solo a partire dagli “Annali” einaudiani dello stesso anno avrebbero avuto in parte maggiore circolazione. La pubblicazione di quei testi, mai contestualizzati, assumeva però una dimensione preponderante e scarsamente giustificata nell’economia generale di un volume riccamente illustrato (trenta pagine su ottanta) che si chiudeva con una breve bibliografia ottocentesca tratta dal Manuale di Gioppi del 1887, ovvero una versione povera di quanto proposto da Gilardi nel 1976, e con un elenco altrettanto striminzito dei “principali fornitori italiani di articoli per fotografi”, desunto dalla stessa fonte ma impropriamente e improbabilmente datato al 1864 sebbene registrasse la presenza di Cappelli e di Dringoli, cioè dei primi produttori italiani di lastre alla gelatina bromuro d’argento.

Nella “Collana di fotografia” diretta da Daniela Palazzoli venne pubblicato nel 1981 il primo dei due  volumi in ottavo della Storia della fotografia di Gernsheim[499], dedicato alle origini,  che si segnalava anche per la particolare cura editoriale posta nella riproduzione dei dagherrotipi, molti dei quali stampati su fondo argento (in un caso anche in quadricromia) per evocare almeno la loro peculiarità percettiva, come già aveva fatto alcuni decenni prima Carlo Mollino. Com’era prevedibile il testo di Gernsheim non offriva esplicite indicazioni metodologiche ma entrava subito in argomento con un breve capitolo dedicato alla “preistoria della fotografia”, posto a capo di una sequenza argomentativa strutturata su base tecnologica (eliografia, dagherrotipia, disegno fotogenico, calotipia), con approfondimenti dedicati ad alcune aree geografiche, compresa l’Italia, affidata alla direttrice della collana, mentre gli apparati contenevano una biografia dell’autore, l’indice dei nomi e una “bibliografia essenziale, non sistematica, per chi volesse approfondire l’argomento”, da cui erano escluse quasi tutte le fonti a stampa citate nelle note ai capitoli. La ricostruzione delle vicende, sovente condotta su fonti inedite, era molto vivace e ricca di dettagli  ma condizionata – come era già stato notato per la sua prima Storia[500] – da una impostazione finalistica e da continui rimandi alle opere conservate nella propria collezione. Il secondo volume, dedicato all’età del collodio,  vide la luce nel 1987, con analoghe caratteristiche editoriali, ma la meritevole intenzione di offrire una “traduzione efficace dell’effetto visivo degli originali” ebbe in quel caso risultati poco soddisfacenti poiché la rinuncia alla stampa in quadricromia a favore di un uniforme color seppia, che avrebbe dovuto evocare “la colorazione media degli originali”, risultava inadatta quanto filologicamente insostenibile.  Operando su di un arco cronologico ristretto e un orizzonte tecnologico definito, l’articolazione del discorso si concedeva una struttura meno rigida del precedente, con capitoli dedicati ai generi che allora si andavano definendo (“d’arte”, istantanea, ritratto, paesaggio e architettura, montagna) così come a certe forme della sua diffusione commerciale, dalle carte de visite alle  stereoscopia, ma forse con entusiasmi non storicamente verificati, quali l’opinione che il procedimento al collodio avrebbe  fatto “finalmente della fotografia un hobby popolare”; affermazione insostenibile e contraddetta del resto dallo stesso autore nel momento in cui riconosceva che “la popolarità del procedimento al collodio non deve far pensare che avesse reso più facile la fotografia che, anzi, era diventata più difficile.” Prescindendo da quelli che a noi paiono dei limiti di interpretazione, il testo presentava la consueta leggibilità accompagnata da grande ricchezza di fonti e di dati, anche di tipo statistico sulla diffusione della professione fotografica, sul costo dei materiali e dei prodotti finiti e sull’uso delle varie tecniche, anche se purtoppo limitati alla sola Gran Bretagna. Nell’edizione italiana il sommario del primo volume prevedeva  – come si è detto – uno specifico contributo dedicato al nostro paese affidato a Palazzoli, che sulla scia di Vitali e poi di Settimelli svolgeva in estrema sintesi le vicende legate alle origini e rimandava per approfondimenti al testo da lei redatto per il catalogo della mostra del 1979. Tale vincolo  obbligava l’autrice a cenni anche interessanti, come il richiamo alla tradizione italiana della camera obscura e alle riflessioni di Francesco Algarotti[501], ma senza riuscire poi a trarne le dovute conseguenze in termini storici e storiografici, così che il testo non risultava essere altro che una sintesi cronologica dei modi della conoscenza italiana delle due magnifiche invenzioni: dalle relazioni personali di Talbot coi “savants Italiens” alla diffusione delle notizie intorno al dagherrotipo, tra stampa periodica e scientifica, sottolineando in particolare l’interesse di Macedonio Melloni per le possibilità insite nel processo di fotoincisione messo a punto da Alfred Donné, in un accenno di interpretazione che pareva  in forte debito con Gilardi. Seguiva una breve disamina della sola produzione vedutistica legata al dagherrotipo (Artaria, la raccolta Ellis) e un cenno alla pratica del ritratto, giudicata “assai standardizzata, finalizzata a conservare le memorie fisionomiche e ad abbellire grazie al ritocco la somiglianza [sic].”[502] Nel secondo volume lo spazio dedicato da Gernsheim alle nostre vicende fu di poco maggiore,  con una accentuazione per la documentazione del patrimonio artistico e architettonico, che riconosceva come una peculiarità della fotografia italiana; forse per questa ragione  l’opera non venne integrata da un capitolo generale sul nostro Paese. Anche in quella occasione, com’era caratteristica di Gernsheim, il punto di vista risultava quanto mai personale e collezionistico, così lo spazio maggiore della sezione italiana era destinato a Robert Macpherson,  un autore da lui studiato a partire dagli anni Cinquanta[503], che considerava “un vero artista (…) le cui fotografie sono descrizioni poetiche e non semplici trascrizioni di uno scenario classico”, mentre all’attività di Alinari, Anderson, Ponti e Sommer erano dedicati solo brevissimi cenni.

Uno spazio maggiore venne riservato loro nella nuova Storia e tecnica della fotografia che Zannier pubblicò nel 1982 con un corredo antologico di testi che consentiva anche ad un pubblico non specializzato di avvicinarsi alle fonti più significative della letteratura fotografica. Come già in Gernsheim, anche in Zannier la questione storiografica non era affrontata esplicitamente,  ma era possibile intuire un’impostazione che anche qui potremmo definire ‘evoluzionistica’: “l’occhio dell’uomo è diventato più versatile mediante la fotografia, come se questa fosse una protesi che alimenta la capacità di osservazione, integrando le carenze della percezione visiva, adeguandola quindi alle esigenze fisiologiche e psicologiche determinate dall’inarrestabile sviluppo tecnologico. (…) La fotografia, come strumento,  si  è realizzata attraverso una estenuante ma ineluttabile gestazione di un’idea (la memoria dello sguardo), che si è radicata nel grembo dell’umanità mentre stava formandosi il linguaggio, di cui si è preso coscienza lentamente, durante l’evoluzione storica.”  Dopo due capitoli dedicati  alla genesi ed ai suoi primi inventori, lo svolgimento proseguiva abbandonando la consueta scansione cronologica a favore di una serie di trattazioni per ambiti tematici (da “Fotografia e scienze” a “Linguaggio e avanguardie”) ciascuno trattato diacronicamente e intessuto di rimandi continui alla situazione italiana e ai suoi protagonisti, sottolineando analogie e differenze, ma non senza alcune disomogeneità che forse potevano essere intese come impliciti giudizi di valore, quali la succinta descrizione della diffusione della dagherrotipia o i brevissimi cenni alla stagione pittorialista, rispetto alla quale si limitava ad accostare  in forma di elenco, le “scene fiamminghe” di Guido Rey e le “scene di efebi” di Von Gloeden.

Accanto a queste fiorirono  altre iniziative che si proponevano, pur in modi e a livelli diversi, quali strumenti per una informazione di base che non fosse circoscritta ai puri aspetti tecnici[504]. Così in quegli anni l’editoria offriva al pubblico italiano anche la traduzione dallo spagnolo della Storia della fotografia[505] di Mauricio Wiesenthal, enologo e fotografo spagnolo, pubblicata nel 1983 e integrata da una sezione italiana curata da Giuseppe Bonini, già redattore de “Il Progresso fotografico”, e – nello stesso anno – la Storia della fotografia[506] edita da Jaca Book con un testo di Giovanni Chiaramonte illustrato da Paola Borgonzoni e Giuliana Panzeri, in coedizione con l’americana Aperture.

L’andamento del volume di Wiesenthal era canonico, con andamento cronologico alternato a brevi capitoli dedicati alle figure notevoli di questa storia, ma con una tale messe di confusioni, imprecisioni ed errori, frutto anche di una traduzione sciatta e di una analoga cura editoriale, da risultare difficilmente accettabile anche per  un pubblico generico,  mentre  la sezione sulla fotografia italiana pur mantenendo un tono discorsivo risultava sufficientemente accurata e aggiornata rispetto allo stato degli studi a quella data, con una buona definizione del contesto che ne vide la prima diffusione, e giudizi non banali su alcuni momenti cruciali delle sue vicende[507], seguite lungo un arco cronologico esteso sino alle Verifiche di Ugo Mulas.  Il volume Jaca Book faceva parte della collana di “Biblioteca di Storia della fotografia” della serie “Punto e Virgola”, già marchio editoriale di Chiaramonte e Ghirri poi assorbito dalla casa milanese, e si presentava come un sussidiario storico dedicato ai giovani e giovanissimi[508]. L’incerta impressione che quello dovesse essere il pubblico dei potenziali lettori, e che l’iniziativa fosse un interessante esempio di sperimentazione storiografica ed editoriale,  era suggerito dall’uso sistematico dell’illustrazione grafica, nella più parte dei casi didascalicamente efficace[509], come dal tono affabulatorio dei testi: un’accoppiata che richiamava irresistibilmente altre imprese divulgative quali  Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie (1960) o le enciclopedie per ragazzi degli stessi anni. Anche la struttura del discorso storico non ne era lontana, sintetizzando in sessanta brevi schede tematiche il lungo percorso culturale che da Brunelleschi giungeva a Willian Eggleston passando per Cristoforo Colombo, Galilei e Vermeer (per non citare che alcuni), a sostegno dell’assunto che “la fotografia (…) è specchio della realtà”. Concezione quantomeno bizzarra per quegli anni e per la responsabilità dell’autore, tra i più colti e interessanti fotografi della sua generazione, ma almeno dotata di grande coerenza interna se consentiva di credere che dalla  campagne fotografiche Alinari usciva “l’immagine più vera dell’Italia del tempo.”

Nel 1984 si pubblicava finalmente, da Einaudi, nella traduzione di Laura Lovisetti Fuà[510], la prima edizione italiana della Storia della fotografia di Beaumont Newhall, condotta sulla quinta edizione ampliata pubblicata negli USA due anni prima. Com’è noto l’autore si proponeva di dar conto “del crescente contributo della fotografia alle arti visive (…)  storia di un mezzo più che di una tecnica, vista attraverso gli occhi di coloro che per anni hanno lottato per conoscerlo, per  capirlo, per adeguarlo alla propria visione.”[511]  Una storia per autori quindi. Da questa impostazione derivava una struttura narrativa, rivista rispetto alla precedente edizione del 1964, organizzata in sedici capitoli svolti lungo un arco cronologico che dal XV-XVI secolo giungeva sino agli ultimi anni Settanta del Novecento procedendo per coppie di opposti, riconducibili per certi versi alla dicotomia documentario/ artistico,  ma senza distinguere – si direbbe -tra generi, tipologie e movimenti veri e propri, così da intitolare ad esempio un capitolo alla “fotografia pittorica”  e un altro alla “visione istantanea”. Pur presentandosi  come una storia generale (nell’originale: The  History, come in Gernsheim) il lavoro di Newhall manteneva quella impostazione “irrimediabilmente etnocentrica” (Boris Kossoy) e autoreferenziale che era già stata sottoposta a dure critiche da parte degli studiosi statunitensi e americani delle generazioni successive; in Italia invece si sottolineava ancora il  “rilevante argomento di interesse del metodo di lavoro di Newhall, poiché consente di valutare le esperienze ‘nazionali’ sullo sfondo o alla luce delle vicende internazionali”, nella convinzione inespressa (ma condivisa dal recensore[512]) che esistesse “una sorta di dominio culturale degli Stati Uniti continuamente ribadito da cinema e letteratura)”  tale da spingere lo studioso “a una progressiva ma sempre più evidente identificazione delle elaborazioni teoriche e sperimentali della fotografia americana con quelle dell’intera produzione internazionale.” Non sappiamo quanto quella interpretazione corrispondesse alle intenzioni di Newhall, ma certamente apparteneva all’orizzonte critico di Paolo Costantini, particolarmente sensibile alla nuova fotografia americana di paesaggio che si andava affermando in quegli anni dopo le prime esperienze del gruppo dei New Topographics[513]. Al di là di questa adesione prospettica e del riconoscimento di quella “più puntuale relazione con il materiale letterario direttamente considerato (testi, articoli, interviste ecc.) che ha differenziato il lavoro di Newhall da parecchie altre storie della fotografia, definendo un ambito disciplinare e un procedimento storiografico più preciso per queste ricerche”, il recensore avanzava alcune riserve sulla “preminenza attribuita alle personalità degli autori e alla scelta e al commento di opere particolarmente emblematiche” utilizzando “tali elementi (…) come gli anelli di uno sviluppo necessario e continuo della fotografia”; alla ricerca di quella “unità di stile in un dato contesto ambientale o in un dato periodo [che] appare infatti piuttosto caratteristica degli intenti precisati dall’autore in questa nuova edizione.” Numerosissimi, in quel volume, erano i nomi di italiani citati nell’indice, dall’Alberti a Zavattini, ma quasi nessun fotografo, non volendo includere nelle categoria, per rispetto delle sue volontà, Anton Giulio Bragaglia. Pochi altri  comparivano nelle pagine relative alla dagherrotipia: Lorenzo Suscipi in relazione al progetto Ellis e i milanesi Alessandro Duroni e Stefano Stampa, non compresi nelle precedenti edizioni e verosimilmente segnalati da Lamberto Vitali, il solo  italiano citato nei ringraziamenti, al quale si doveva anche la conoscenza del lavoro di Giuseppe Primoli, qui accostato visivamente a Paul Martin riprendendo una suggestione critica di Ian Jeffrey, che lo aveva definito “il più prolifico notista dell’era di Stieglitz (…) un irriverente predecessore del fotogiornalismo degli ani ’30.”[514]

La “sorprendente ristrettezza di vedute” delle più note storie della fotografia fondante “su una visione nazionalistica affatto contestabile” venne stigmatizzata da  Alfredo De Paz[515] in uno studio che si proponeva di fornire una lettura storico sociologica della fotografia estesa ben oltre i  “ristretti limiti di un solo paese” in cui parevano rinchiudersi  gli storici della disciplina; una ristrettezza di orizzonti che “potrebbe far sorridere se la posta delle storie della fotografia non risiedesse, precisamente, in un mondo i cui limiti si restringono  senza posa”.[516] “Questo libro – scriveva De Paz – si presenta  soprattutto  come una ricerca di sociologia della cultura, applicata a quella particolare istituzione sociale che è la fotografia, la pratica fotografica considerata per certi aspetti nel suo svolgimento storico (…) e per altri aspetti nella sua essenza istituzionale, strutturale, sociologica particolarmente in rapporto al presente.” Una “sociologia storica della fotografia”[517] quindi, che consentisse anche di rinnovare gli “approcci storici alla fotografia [che] si riassumono essenzialmente in cataloghi articolati, ripetitivi, contraddittori. (…) Ciò dipende tanto dalle difficoltà evocate più sopra[518] che dalla necessità dell’immagine. (…) Si ha così spesso l’impressione, a sfogliare le ‘storie’, che una selezione di belle immagini, spesso importanti nelle svolgimento storico (…) serva a giustificare qualsiasi tesi. Il fatto che la maggior parte delle storie della fotografia riproducano le stesse immagini tranne alcune varianti di rilievo, accentua questo sentimento di povertà del discorso storico.” Non di quello sociologico però, si sarebbe detto,  se con tutta evidenza l’apparato iconografico di quel volume riproponeva pedissequamente il consueto e per molti versi certamente logoro repertorio internazionale.  Per mantenersi coerentemente lontano dall’innegabile e disdicevole nazionalismo di cui sopra,  in questo interessante lavoro l’autore escludeva perciò ogni riferimento alle vicende italiane[519], evidentemente non riconoscendo a queste alcun valore emblematico, neppure – ed era certo un dato singolare per un progetto di “sociologia storica della fotografia” – per quel che riguardava le funzioni e l’uso che del mezzo aveva fatto il regime fascista.  Non ultimo limite di uno studio che si poneva un obiettivo nobile e culturalmente stimolante al quale corrispondevano però ingenuità di ogni tipo e un disequilibrio sostanziale e irrisolto tra analisi sociologica e desiderio di esaustività storico critica.

L’ampliarsi del confronto critico con studiosi di altre discipline e il contestuale approfondimento di studi e ricerche settoriali portarono in quegli anni alla definizione e alla produzione di storie della fotografia che si distaccavano nettamente dagli esempi sino ad ora esaminati per impostazione metodologica e approccio critico, facendo emergere la necessità di mettere in cantiere opere che ad una precisa progettualità curatoriale facessero corrispondere un’articolazione costruttiva per parti o capitoli affidati a singoli specialisti. Il primo compiuto esempio in tal senso fu quello di Jean-Claude Lemagny e André Rouillé che nel 1986 pubblicavano la loro Histoire de la photographie, tradotta due anni dopo in Italia da Sansoni conservandone anche l’impianto tipografico[520]. Essendo “finito il tempo in cui un solo autore poteva scrivere tutta questa storia”[521] il volume conteneva diciotto saggi – affidati a 15 autori di nazionalità e competenze diverse – disposti secondo un andamento cronologico che conteneva e presupponeva anche specifiche ipotesi critiche, arricchite da articolazioni tematiche interne (applicazioni, aree geografiche). L’insieme era completato da due appendici: una cronologia sinottica ed una serie di schede relative ai procedimenti tecnici, esito evidente del consolidarsi a livello internazionale di una più puntuale considerazione dei nessi tra tecnologia e storia delle immagini e – contemporaneamente – della consapevolezza dei problemi conservativi posti dall’insieme delle fotografie storiche, per le quali si stava consolidando l’uso della locuzione “patrimonio fotografico”. La sottile quanto fondamentale distinzione che avrebbe dovuto consentire al lettore di orientarsi tra storia e storiografia  veniva richiamata sin dalle prime righe dell’introduzione: “Il modo stesso di scrivere la storia della fotografia ha ormai una storia. L’innocenza non è più possibile – scriveva ancora Lemagny – e, davanti a tante opere accumulate, si impone la necessità di fare delle scelte, di riprendere in mano la massa brulicante e straripante dei fatti per rimisurarne il lungo scorrere e i profondi sommovimenti. (…) L’appassionante e l’impossibile, quando si affronta la storia della fotografia, è che questa ha a che fare con tutto: tecnica, società, arte, ecc. E per molto tempo lo storico è stato assillato dalla necessità di raccontare tutto ciò che la fotografia aveva ricevuto e dato, i suoi rapporti con la pittura, con la stampa, con la scienza…  Era una storia per mezzo della fotografia. Perché si instauri una storia della fotografia sarà necessaria una riflessione da parte  della fotografia su se stessa.”  “Benché breve – aggiungeva Rouillé[522] – la storia della fotografia è ricca, molteplice, complessa  Ogni pretesa di esaustività, in questa sede, era quindi illusoria. Più di un’impossibile summa enciclopedica, abbiamo proposto approcci nuovi e notevolmente diversi da quelli degli autori che, prima di noi, si sono dedicati allo studio storico della fotografia. (…) Per comprendere la situazione attuale e le trasformazioni in corso della fotografia, la storia è un mezzo insostituibile, ma a patto di considerare in ogni momento il fenomeno ‘fotografia’ nella molteplicità delle sue dimensioni, nella sua  mutevolezza e nelle sue diversità geografiche. È  quello che abbiamo tentato di fare in quest’opera, in parte grazie alla partecipazione di autori diversi, cioè di punti di vista necessariamente vari, con la speranza di rispondere alle attese di una presentazione rinnovata della storia della fotografia e di aprire la strada ad altri modi di pensarla e di scriverla.” A fronte di queste lodevoli intenzioni, nate da una consapevolezza storiografica inedita nel panorama internazionale, gli esiti generarono non poche perplessità e non solo per l’obbligata, insufficiente dimensione concessa ai singoli contributi.  Così Fernando Tempesti fece notare che “se è già possibile scrivere una storia delle storie della fotografia (…) non altrettanto pacifico è a tutt’oggi come si può scrivere una storia della fotografia”, lamentando la “mancanza di un centro, di una chiara, anche se molto articolata, nozione di quello che è di fatto l’oggetto del narrare, cioè proprio la fotografia” [523], senza domandarsi se non fosse proprio quella “mancanza” o, meglio, il suo riconoscimento magari ancora implicito a costituire il pregio maggiore di quel progetto.

Anche nella maggior parte dei saggi contenuti nel volume di Lemagny e Rouillé  si sarebbe cercato invano poco più che un cenno fugace alle vicende italiane, poiché allo scopo di “non subordinare ciascuna delle grandi tappe a un solo criterio”  i diversi contributi consideravano situazioni e figure che risultavano rilevanti vuoi per la loro emblematicità vuoi per la loro specificità; per la capacità metonimica di illuminare altre situazioni analoghe o per la loro singolare irriducibilità. A quella scarsa considerazione generale corrispondeva un’analoga conoscenza effettiva, che non consentiva di comprendere storicamente il senso di alcune esperienze, anche non secondarie. Basti vedere l’opinione di Rouillé sui Fratelli Alinari, che avrebbero finanziato “grazie ai proventi dei ritratti-cartes de visite [sic], le loro attività fotografiche predilette”[524], ciò che costituiva un errore dal punto di vista sia storico che critico, lasciando intendere quasi che la documentazione del patrimonio artistico fosse stata una lodevole passione amatoriale e non il nucleo portante della loro attività imprenditoriale. Altri analoghi fraintendimenti si ritrovavano nel paragrafo dedicato a un movimento specificamente italiano come il futurismo, nel quale si potevano leggere affermazioni che cancellavano d’un solo colpo più di un decennio di studi e ricerche:  “Quando i futuristi si associarono con dei cronofotografi – scriveva Molly Nesbit – non scelsero dei professionisti ma i Bragaglia, che sperimentavano la tecnica per svilupparla, per farne qualcosa di più di una descrizione del movimento. (…) Per quanto breve e limitata, questa unione del 1913 fra l’artista d’avanguardia e il fotografo è storicamente importante. Era la prima volta che essi studiavano lo stesso problema plastico come artisti, su basi comuni e su un piede di parità.”[525] Il solo contributo a noi strettamente pertinente era quello di Angelo Schwarz dedicato all’Italia fascista, che subito prendeva le distanze da coloro (e il riferimento implicito era alle grandi mostre parigine e bolognesi dei primi anni Ottanta) che tendevano a far coincidere la fotografia del periodo con le varie declinazioni moderniste, mentre invece “nella fotografia italiana del Ventennio si trova di tutto e la questione storiografica potrebbe essere quella di dar conto del come il culto nazionalsocialista dello Stato, impastato con pretese socializzanti e con l’esaltazione del modernismo, abbia creato rapporti sovente ambigui con le avanguardie storiche. (…) La rilevante quantità delle immagini fotografiche prodotte in Italia durante il periodo fascista da centinaia di oscuri e meno oscuri fotografi poco aveva a che fare con una estetica così culturalizzata. Ma furono proprio queste immagini più ‘triviali’ che il regime usò ampiamente.”[526]

 

 

Quale storia della fotografia

 

A fronte della disponibilità di queste opere di riferimento generale il decennio vide anche e soprattutto una crescita esponenziale di approfondimenti della situazione italiana, che segnarono il passaggio dal pionierismo degli anni Settanta al tentativo, sebbene ancora immaturo e non sempre riuscito, di fondare metodologicamente la disciplina e di approfondirne temi, ambiti e fonti, affrontando per la prima volta in modo così ampio aspetti tra loro profondamente differenti sia in termini di contenuto sia di scala; lavori che sviluppavano in direzioni diverse e non di rado contrastanti le migliori sintesi allora disponibili, pubblicate nelle due grandi opere einaudiane della “Storia d’Italia” e della “Storia dell’arte italiana”.  Nonostante l’impegno e gli esiti importanti di  quella prima generazione italiana di studiosi non era però ancora possibile dire che fosse “nata nel nostro paese una storia della fotografia sufficientemente articolata e con prospettive corrette di sviluppo”[527], anzi per alcuni a quella crescita quantitativa non corrispondeva affatto un analogo accrescimento qualitativo: “Sono sempre più nauseato – scriveva Bertelli[528] – da quello che si scopre e che si scribacchia sulla fotografia dell’Ottocento. Dattilografe scontente, professoresse di scuola media impazienti degli orari di insegnamento, cronisti falliti, fondatori di circoli di tric trac, tutti quanti scoprono i nonni fotografi, trovano banche, enti, vinai e birrai pronti a pagar monografie, mostre, giri vari. (…) Sono cose che si decanteranno da sé. All’Ottocento italiano corrisponde la fotografia italiana dell’Ottocento. È tutto qui.”

Le ragioni di quella condizione erano state individuate da Quintavalle nella cronica assenza di corsi universitari, a cui non poteva supplire “qualche sparso insegnamento condotto da specialisti di altro ambito che diventano intenditori di fotografia in alcune accademie”[529], quando sarebbe invece stato necessario “porsi il problema della grafica e della sua storia, il tema dell’opera d’arte e delle sue ‘scritture’, cioè delle sue critiche trascrizioni (…). Finché questo non avverrà la storia della fotografia, di quello che conveniamo chiamare fotografia, nel nostro paese resterà terreno chiuso, campo che solo pochissimi potranno, e anche loro con fatica, tentare di arare, ma i frutti saranno sempre scarsi.” Un’ indicazione critica tanto interessante quanto riduttiva, non essendo possibile circoscrivere la questione fotografica solo a quell’ambito, e anche per certi versi ingenerosa nei confronti di chi come Miraglia si era misurato con impegno e capacità in quel senso. Più dirimente e necessaria la successiva indicazione a proposito della questione della “pubblica raccolta dei materiali della fotografia”, rispetto alla quale lo studioso lamentava il tramonto “della possibilità di una collezione generale, unitaria, sufficientemente ampia da dar conto dei principali nodi culturali di oltre un secolo e mezzo di produzione fotografica”, auspicando “la costruzione di un nodo unico o di pochi nodi funzionali a livello nazionale, e collegati, che si occupino della raccolta, della integrazione reciproca e soprattutto dell’analisi, conservazione e organizzazione dei materiali superando le barriere locali.”  Per  Quintavalle era mancata  “una politica, a livello nazionale, di raccolta dei materiali”, compito che il GFN Nazionale non aveva saputo (o voluto) svolgere; la situazione si era poi aggravata  con la “industrializzazione del mercato fotografico e quindi la capitalizzazione – ma anche la dispersione[530] – dei materiali della fotografia, della loro svendita oppure del loro accaparramento da parte dei privati”, che aveva portato alla distruzione irreversibile dei patrimoni degli studi fotografici; “strumento base indispensabile per la ricostruzione della nostra storia della fotografia”  poiché costituivano “il tessuto connettivo dentro il quale, e solo al suo interno, si poteva pensare di spiegare la realtà della fotografia, la sua cultura certamente ‘regionale’ nel nostro paese, le presenze di modelli, di fotografi legati a situazioni diverse”, mentre troppe delle iniziative editoriali ed espositive precedenti erano ancora segnate dalla “rimozione, con l’accento cioè, su poche presenze ed enormi assenze. Nessuno infatti ha il coraggio di dire che il patrimonio delle immagini ottocentesche ancora superstiti è certamente di milioni, forse decine di milioni di pezzi; nessuno ha il coraggio di dire che un singolo ‘artista’ poteva aver prodotto, nella propria esistenza, diverse decine di migliaia di pezzi, lastre e stampe, quindi, e nessuno, fino ad oggi, ha neppure pensato a censire quello che resta, a stabilire la realtà del tessuto della cultura ‘di studio’, della civiltà degli studi. L’ho detto altrove, lo ripeto, si tratta di un’impresa di decenni, una impresa che riserva le massime sorprese perché molti dei fotografi che riteniamo chiave risulteranno essere parte di un tessuto, e usciranno decine di figure-guida diverse, soprattutto si capirà che o si comincia a fare un discorso corretto sugli studi, oppure si cede semplicemente, a pochissimi rivenditori, l’intero nostro patrimonio culturale di oltre un secolo di produzione di icone fotografiche senza avere, come contropartita, altro che qualche magro catalogo, povero di cosciente ricerca e di impegno critico, esaltante figure spesso modeste o modestissime. Ma chi potrà mai, dunque, indagare questa storia degli archivi se questi sono di proprietà privata?” Si trattava insomma di superare anche operativamente  “la contraddizione di fondo della storiografia sulla fotografia, o almeno della sua gran parte (…)  la concezione idealistica che la vicenda fotografica sia costruita per punte, per vette, per figure chiave, per ‘geni’ e che il tessuto, il contesto sia da rimuovere, anzi, che sia, di fatto, rimosso. Dunque chi fa storia della fotografia, o meglio, chi tenta, abbandona il contesto, neppure lo prende in esame e considera questa operazione assurda come l’unica lecita.”[531] Altre riflessioni avevano più specifica valenza critica: ponendo il tema della natura del “tempo degli archivi” Quintavalle introduceva elementi di portata altrettanto rilevante, individuando “un tempo di riproduzione o, se si preferisce, di scrittura”, vale a dire quello della ripresa, ben distinto dal “tempo d’uso [con] una sua specifica durata che è stata programmata al momento stesso della sua organizzazione” e infine “il tempo dell’uso dell’icona che resta quello chiave per la comprensione della questione nel suo insieme. Ed infatti tempo dell’uso dell’immagine non è (…)  tempo stabile ma del tutto mobile in quanto legato alla situazione, al modello storico, dunque un tempo che non si stabilizza in una interpretazione ma che ne propone altre, un tempo che prende in considerazione all’interno dell’archivio fatti magari già posti ai margini (…), dando a questi temi un grande rilievo e spazio e dimensioni differenti, insomma portandoli in primo o primissimo piano e mettendo dietro altri casi un tempo rilevanti. (…) il senso muta non solo al di fuori del contesto prefigurato dei fruitori ma soprattutto quando cambia la cultura, cambia la situazione storica.” Detto altrimenti, quello che oggi  è noto come problema della risemantizzazione.

Non è possibile oggi, e non lo era allora[532], condividere la prospettiva centralista espressa da Quintavalle, sebbene esistessero impellenti ragioni di conservazione e tutela;  quelle stesse che lo avevano portato alla costituzione del CSAC. Dal punto di vista culturale ancor prima che metodologico essa appariva priva di senso, persino dannosa e soprattutto concettualmente impropria rispetto alle manifestazioni storiche della fotografia, in  aperta contraddizione con la stessa necessità da lui espressa di conservare quel “tessuto connettivo” senza il quale sarebbe stato impossibile comprendere le vicende della fotografia in Italia. In quegli  anni, per provarsi a far fronte a quella necessità si sarebbero avviate le prime esperienze e riflessioni sul tema della catalogazione, contribuendo ad accrescere la consapevolezza che i ‘materiali fotografici’ potevano e dovevano essere conservati e studiati (catalogati) certo all’interno di un quadro politico culturale unitario, quindi secondo criteri standardizzati e condivisi, ma conservando sempre, ove possibile, il legame storico, quindi anche territoriale, con la loro storia di produzione e raccolta. Fondamentale era l’appello dello studioso ad abbandonare ogni concezione “di stretta marca idealistica, crociana” per impostare una ricerca rivolta alle storie del “tessuto reale”, per “comprendere la realtà e l’importanza dei singoli studi fotografici dove si hanno e si potranno ancora avere le maggiori scoperte proprio di fotografi di grande ingegno e qualità, certo molto superiori ai pochi amateurs che, comunque, non hanno costruito – né lo potevano – alcuna immagine collettiva, non hanno svolto alcuna funzione nel contesto della cultura di immagine di tutti.” La vis polemica lo portava forse ad affermazioni apodittiche, ma la ricchezza di temi e riflessioni contenute nell’Introduzione alla raccolta di saggi da lui pubblicati nel decennio precedente rendeva questo testo il contributo sino ad allora più organico, argomentato e complesso in merito alle varie problematiche che interessavano e condizionavano la storiografia fotografica in Italia, a partire addirittura dall’inedita questione della “classe sociale, la classe di provenienza, o meglio di inserimento, di appartenenza quindi degli storici della fotografia; capire la loro classe,  capire le loro intenzioni, comprendere la funzione che questi storici svolgono nel sistema equivale a comprendere una buona parte dei modelli cui fanno riferimento e a chiarire la realtà della situazione della nostra storia della fotografia in relazione a quella internazionale.” Nella consapevolezza che “certo, per adesso si tratta di una petizione di principio, di un assunto non dimostrato, ma sarà sempre cosi finché non si tenterà un’analisi.”

L’analisi poi non venne, almeno non in quella occasione, sostituita da un confronto necessariamente impietoso con i contesti di formazione di paesi come gli Stati Uniti che faceva semmai emergere le ragioni per le quali “mancando da noi una couche universitaria, una preparazione filologica appena decente, non sono gli storici a costruire le conoscenze e a formare i giovani ma sono limitati gruppi di amatori che si sono improvvisati nel tempo o galleristi oppure storici e sono soprattutto fotografi che spendono parte del loro tempo, meritoriamente da un certo punto di vista, a fare i manager oppure a costruire brevi saggi sulla fotografia. Sarà anche per questo ma, da noi, la fotografia manca completamente del livello filologico che è lo strumento necessario per una considerazione dei materiali che almeno sappia di che materiali si deve trattare.” Di più, nel lavoro storiografico sino a quel momento prodotto Quintavalle riconosceva un prevalere di inaccettabili (e inefficaci) posizioni idealistiche, sebbene esistesse “nel nostro paese una diversa organizzazione dei modelli storiografici, una narrazione storica che esce dall’ambito del realismo e della sua cultura di marca marxista che vede alcuni protagonisti ben presenti sul versante del dibattito e con attenzioni storiche a volte precise, altre più marginali ma comunque sempre miranti a ricostruire un’altra storia da quella ufficiale ed élitaria di cui si è parlato.”  “Serve – proseguiva Quintavalle – che attraverso la formulazione di un preciso progetto per la storia della fotografia, attraverso un preciso progetto di organizzazione e integrazione della cultura, si giunga ad una formazione di quadri di storici dell’immagine che non separi la fotografia dal contesto ma ritrasformi la funzione dello studioso dell’immagine in storico delle ideologie che stanno a monte delle immagini.” Per questo, analogamente a quanto era consueto per altre discipline, per altre storiografie, ogni lavoro di ricerca sulla fotografia non poteva che “essere fondato su una analisi seria del problema, coordinata da documentazione ineccepibile sul dibattito precedente, la famigerata bibliografia sull’argomento, da una discussione attenta e corretta delle tesi che sono state avanzate da altri sul medesimo problema, e da un materiale di base coordinato con attenzione che possa servire al lettore come strumento per procedere nell’analisi e negli svolgimenti di questa. Senza una operazione di questo tipo, noiosa quanto si vuole ma determinante e necessaria, non avrà certamente senso costruire monografie di alcun genere, opere di insieme o altro. Ma il problema più importante (…) resta quello del tipo, del genere di storia che si vuole e si deve proporre.”

Quale storia allora? E anche, inevitabilmente, come? Una prima indicazione proveniva dalla  necessità di superare il lavoro condotto dal singolo studioso, di allargare e aggiornare culturalmente la sua formazione ponendo il problema della crescita della ricerca “in maniera corretta, cioè in stretto legame, in stretto rapporto con l’organizzazione della conservazione dei materiali, che pure dovrebbe essere il compito precipuo, primario, di ogni operazione”, ciò che implicava più o meno implicitamente il problema dei modelli. E allora il rifiuto, certo, dell’ideologia “post-crociana dei capolavori” per delineare un’altra modalità (ancora senza precisa identità epistemologica sebbene più oltre parlasse di “metodo sociologico”) in grado di organizzare “un discorso più articolato”; ciò che implicava di necessità, tra le altre cose, l’analisi e lo studio delle modalità operative dei fotografi, abbandonando la logica celebrativa della singola immagine per dedicarsi piuttosto a considerare le serie, di cui riconosceva la valenza linguistica e discorsiva con una posizione analoga a quella manifestata da Ian Jeffrey[533]. Stabiliti i limiti dell’approccio idealistico Quintavalle si provava a definire il nodo centrale “della metodologia da impiegare, cioè il problema dell’analisi delle icone secondo metodi che non chiudano (…) le possibilità di ulteriore sviluppo ma che svolgano, semmai, una funzione diretta e contrapposta. Ma per andare oltre su questa strada dobbiamo chiarire che gli assi della lettura delle immagini sono quelli diacronico e sincronico, storico e contemporaneo, della linguistica post-saussuriana; senza questa premessa generale si rischia infatti di non comprendere il peso e il senso reale delle problematiche, non si dice della sola fotografia ma di qualsiasi testo. L’analisi storica delle immagini costringe a una considerazione dell’icona come parte di un sistema, anzi, di una tradizione storica entro la quale l’immagine stessa determina delle fratture, opera delle varianti in genere cariche di senso; l’analisi sincronica delle immagini fissa le varianti di senso entro un contesto contemporaneo e quindi organizza un discorso propriamente strutturale. Bene, le due linee, quella storica e quella sincronica, devono necessariamente e sempre essere collegate se non si vuole correre il rischio di non comprendere il senso di quello che veniamo analizzando. (…) Dunque l’impatto delle due metodologie, delle due linee, è necessario e l’integrazione del doppio metodo determinante per la comprensione del ‘documento’ fotografico’ [534], [infatti] nella storia delle immagini che si cerca di restituire non può esistere una linea cronologica unitaria perché regolarmente le tradizioni dell’icona portano indietro o spostano avanti il nodo dei riferimenti.”[535]

 

 

Prime riflessioni sulla fotografia come fonte per la storia

 

Quel riferimento al ‘documento fotografico’ rimandava di necessità alla questione complessa del ricorso alla fotografia quale fonte per la storia, al dibattito che in quel periodo sottoponeva a verifica la sua stessa legittimità e che qui proveremo a delineare in estrema sintesi. Una importante occasione di confronto si era data nel 1979 a partire dalle sollecitazioni contenute nel testo di Giulio Bollati per gli “Annali” einaudiani, presentati come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia” e ancor più dalle diverse recensioni a quell’opera, che di volta in volta avevano considerato la fotografia  quale “fonte significativa”[536] ovvero “come documento, se vogliamo come fonte storica” [537], sino a ritenere che il ricorso alle fotografie  poteva appagare al più “talune superficiali curiosità” ed era perciò destinato “a restare al margine dei veri problemi della ricerca”[538]. Più pertinenti, anche se culturalmente meno influenti, erano le riflessioni che provenivano dalla ricerca etnoantropologica, nel cui ambito un fotografo come Lello Mazzacane (1975) aveva richiamato  i problemi ideologici sottesi al rapporto fra fotografia e storia e individuato alcune questioni metodologiche centrali,  quali il riconoscimento della fotografia “come documento storico” e i problemi posti dalla “interpretazione del ‘documento fotografico’. ” In particolare per quanto riguarda il primo aspetto aveva chiarito che “ovemai non lo fosse [un documento storico] si dovrebbe chiarire cosa si intenda per documento e non cosa è una fotografia”, avanzando riflessioni che sarebbero state riprese e sviluppate solo dal dibattito storiografico più recente.

A fronte di questo variegato panorama c’era invece chi – come Michele Giordano[539] – riteneva che “ormai nessuno storico, nemmeno il più fedele custode della tradizione politico-diplomatica, sarà disposto a negare alla fotografia un posto, magari in piedi, al raduno delle fonti storiche”, ma suggerendo curiosamente l’opportunità di accostarsi a questa problematica fonte dimenticando “provvisoriamente gli aspetti peculiari della fotografia”, cioè disconoscendo proprio le cruciali questioni interpretative poste da Mazzacane, vale a dire la necessità di riconoscere e comprendere le connotazioni storico culturali delle fonti fotografiche. Forse per questo Giordano riteneva che non si trattasse “più di chiederle che ci procuri delle conoscenze sul passato –  una domanda che onestamente non possiamo rivolgerle – ma si tratta di illuminare l’azione ideologica che essa esercitava sugli uomini del suo tempo”; azione che pure – si direbbe – doveva appartenere al novero delle “conoscenze sul passato”.  I gravi limiti teorici e metodologici di quel “famigerato”[540] testo, ben presto segnalati da altri studiosi, non possono però farci dimenticare che esso costituì a tutti gli effetti il primo contributo specifico sul tema da parte degli “storici professionali” (la definizione è di Tomassini), in anni in cui la discussione risultava ben più serrata e coinvolgente in ambito etnografico. Nel 1983 la rivista “Campo” aveva dedicato un numero monografico al tema, aperto da un intervento di Rino Mele che misurandosi con l’ultimo Roland Barthes de La camera chiara, ma anche con una qualche eco di Jacques Lacan, affermava che “la fotografia ci documenta non ciò che è stato ma la disposizione degli oggetti, il come è stato. Dovremmo allora dire che essa ha la funzione di registrare e non quella di documentare (…) a meno che non limitiamo l’uso della fotografia documentaria a ciò che già si dispone come documento, a ciò che è già immobile in una sua inamovibile messa in posa.”[541]  Anche qui si esprimeva una sorta di diffidenza nei confronti dell’immagine fotografica, di questo “testo-traccia” che “registra soltanto in un momento delimitato la sezione del tempo (…) il micro set della fotografia è una trappola del tempo (…) non documenta che l’uccisione del tempo registrando i limiti spaziali su cui il taglio è avvenuto”, tanto che “il processo fotografico nel tagliare il tempo taglia il rapporto significante-significato”. Conclusione forse curiosa, debitrice di una concezione piuttosto riduttiva sul doppio fronte delle teorie del segno e del concetto storiografico di “documento”, ma certo esito di una meditazione disciplinare complessa a cui contribuì anche Clara Gallini riflettendo su di una nota serie di fotografie spiritiche per giungere alla conclusione – certo più convincente – espressa in chiusura del suo breve saggio: “Non chiediamoci dunque se la nostra fantasma dal volto di biscuit sia ‘vera’ o ‘falsa’: essa [cioè la sua immagine fotografica] è comunque reale, di una realtà che è anzitutto storica e culturale.”[542] Meno consapevole e accorto appariva ancora in quegli anni il livello di elaborazione in ambito storico, come suggeriva questa tautologica definizione di Luigi Goglia[543], per il quale la fotografia  era “tutto ciò che esce impressionato da una camera fotografica e successivamente sviluppato e stampato da un laboratorio”; pertanto se essa “vuole essere considerata dagli studiosi e avere il suo posto sul tavolo degli storici, non va semplicemente guardata (…) essa va letta (…). E la lettura di una fotografia richiede tutta l’attenzione e la serietà con la quale si legge un altro qualsiasi documento, le conoscenze specifiche di questo tipo di documento e un altro elemento ancora terribilmente soggettivo: la sensibilità di recepire dall’immagine quanto più essa può offrire”[544]. Era difficile dissentire, forse, da queste considerazioni al limite dell’ovvio,  così come risultava impossibile concordare con l’opinione ‘radicale’ (e un poco sorprendente) di Giuseppe Papagno, che liberava il discorso da ogni aspetto problematico asserendo che “le fotografie attestano la veridicità delle parole; esse sono una ‘evidente’ base ‘documentaria’ del fenomeno oggetto del discorso. (…)  Lo strumento e il suo prodotto (…) stabiliscono per la prima volta un collegamento ‘diretto’ tra fatto fissato in immagine e tutti i non-testimoni, fondandolo però non sulla ‘fiducia’ verso l’autore ma invece su un sistema di ‘validità’ meccanico.” [545] Una concezione viziata di positivismo verrebbe da dire; qui solo lievemente arricchita da una serie di cautele metodologiche quali il riconoscimento dei codici culturali di rappresentazione e l’analisi delle forme materiali e narrative con cui sono organizzate le immagini, ciò che portava lo storico  a ritenere che “ciò che si presenta a un primo approccio come fonte è già un prodotto ampiamente elaborato”, cioè, diremmo, un documento, sebbene lo studioso non si spingesse a tanto.   A fronte della ribadita necessità di comprendere i processi di elaborazione e codificazione delle fotografie Papagno riconosceva sconsolato che le difficoltà potevano essere superate solo “se si disponesse di un metodo appropriato per la valutazione di tali fonti in tutta l’ampia gamma di interrogativi che esse pongono. Ma che esso esista e sia di facile accesso è ancor oggi da escludere in buona misura. Quindi gli oggetti fotografici (come insiemi) hanno, come fonte, una validità assai precaria e instabile”, attribuendo loro un limite che era invece intrinseco allo sguardo “terribilmente soggettivo” dello storico. Una resa incondizionata insomma e una buona testimonianza di quelle che Luigi Tomassini ha affettuosamente definito “la cautela e la diffidenza degli storici verso il documento fotografico”; elementi che  – forse – potevano aver costituito “un contributo importante, un filtro del tutto necessario sul piano scientifico, rispetto all’ingenuo entusiasmo”[546], ma che risultavano certo sconfortanti nella loro genericità e nell’assenza di ogni richiamo o rimando ad altri ambiti di studio e di riflessione epistemologica -dall’antropologia alla semiologia – impegnati in confronti di ben altro livello.

A quelli guardava invece uno storico dei media come Peppino Ortoleva[547] in un saggio compreso in un lavoro a più mani esplicitamente dedicato alle questioni di metodo della ricerca storica contemporaneista. Dopo aver ribadito che “la fotografia è pressoché inutilizzata, nei fatti se non in teoria, come documento, come fonte storica autonoma”,  lo studioso individuava tra le principali cause di quella diffidenza “il problema della durata”, di quella “atemporalità” che avrebbe messo in discussione “la stessa compatibilità tra la fotografia ed una visione storica del mondo”,  ma anche un più radicale “problema di linguaggio”, di difficoltà di “verbalizzazione del ‘messaggio’ fotografico” e infine l’incapacità di distinguere tra “apparenza e realtà” che nasceva  proprio dalla fatica necessaria per superare criticamente l’immediato fascino referenziale dell’immagine fotografica. Lo storico riconosceva insomma gli impedimenti disciplinari nel fare i conti con le feconde ambiguità della fotografia; non ultima “la presenza, di un elemento di scelta”, fortemente condizionato dal contesto e più in particolare da quell’insieme di regole che Ortoleva racchiudeva nel più ampio concetto di “cultura fotografica”, ripreso da Max Kozloff[548], il cui studio avrebbe dovuto “servire ad integrare tra loro questi diversi aspetti e a fare della fotografia una fonte e insieme un aspetto di una più generale storia della società.”[549] Quel “breve ma importante saggio di carattere metodologico”[550] ebbe una vasta eco nelle riflessioni dei contemporaneisti e in particolare tra gli studiosi vicini alla rete degli istituti per la storia della Resistenza, che in quegli anni fu tra le sedi privilegiate del dibattito sulle nuove fonti; tema affrontato in vari convegni e sulle pagine di “Italia contemporanea”, “Movimento operaio e socialista” (dal 1991 “Ventesimo secolo”) ma anche di  “AFT”, che nel 1986 aveva ospitato l’intervento di uno storico dei secoli “senza fotografia” come Franco Cardini, il quale ribadiva come “sul campo della riflessione propriamente metodologica relativa all’utilizzazione della fotografia nella loro disciplina, gli storici sono tuttora a un livello appena elementare.”[551]

Eppure già Marc Bloch nella sua Apologia della storia (1949) si era chiesto “se per essere storica sia sufficiente che una foto rappresenti un soggetto del passato o sia stata eseguita nel passato”[552], dando per scontata la sua legittimità di fonte. A quel magistero si era riferito uno studioso e fotografo come Corrado Fanti sulle pagine di “Fotologia”, facendo propria la lezione delle “Annales” per dire che “è storica ogni fotografia che risponde a un problema storico”[553], procedendo quindi a individuarne elementi, condizioni e criteri di trattamento critico per richiamare infine  la necessità di  “considerarla soprattutto come fonte della concettualità che ne ha guidata la redazione in una certa maniera (…) Sono le motivazioni che hanno commissionato e guidato la rappresentazione del reale (…) ed il fatto che a quella immagine sia stata giustapposta una didascalia e sia stata impaginata ed utilizzata in un certo modo che, nel quadro culturale dell’evento registrato, offrono spunti per ipotesi di lavoro utili allo storico.”[554] Anche Maria Teresa Sega[555] aveva ribadito “il disinteresse o la diffidenza degli storici nei confronti della fotografia come documento” ma individuandone le ragioni  nei “problemi insiti in una storia della fotografia ancora recente [e connotata come ‘artistica’] e dall’impossibilità di trasferire ad essa categorie interpretative utilizzate per altre fonti (…) (autenticità, veridicità, esattezza)”. Anche per questa studiosa l’immagine fotografica doveva essere considerata essenzialmente come un documento relativo “alla società che la produce e consuma secondo determinati bisogni”, ragione per cui “per lo storico tutte le fotografie sono ‘vere’ e ‘false’ nello stesso tempo. (…) A differenza che per l’attualità, dove può essere  fonte di grossi e dolorosi equivoci, un falso fotografico diventa documento per lo storico (…) poiché permette di documentare proprio le assenze, i silenzi, le distorsioni.”[556] Per quanto riguardava infine la questione fondamentale del “valore epistemologico” dell’istante “rispetto alla complessità del reale”, l’autrice ribadiva che  “come per le altre fonti non la singola immagine, ma un insieme di immagini fotografiche è documento per lo storico”, confermando così una precedente notazione di Fanti per il quale appariva “chiaro come l’operazione filologica capace di far luce nel rapporto fra la realtà e il fotografo, fra il fotografo e la cultura in cui è inserito (…) non possa quasi mai (tranne rare occasioni) applicarsi ad una singola immagine che viene così ad apparire come una frase o brano, pur di senso compiuto, di un più ampio testo costituito dall’intera sequenza, dalla campagna fotografica all’interno della quale si inserisce quella sequenza, e dall’intero archivio di immagini prodotte da quel fotografo.”[557] Da quella serie di interventi emergevano due distinti ordini di problemi e questioni: quella più generale che riguardava  le ragioni della diffidenza degli storici nei confronti della fotografia e quella più specifica, di ordine metodologico, relativa alla appropriata critica di queste fonti e alla loro corretta edizione. A quelle date, ed era uno studioso qualificato come Adolfo Mignemi a riconoscerlo, “la riflessione sulla fotografia come fonte storica è e rimane patrimonio degli storici della fotografia”[558],  sebbene anche e specialmente per suo merito il tema stesse ormai entrando a far parte degli argomenti affrontati dai contemporaneisti che riconoscevano la necessità di confrontarsi con le nuove fonti e i nuovi strumenti di indagine offerti dall’informatica. In occasione di una serie di seminari svoltasi a Rimini e Torino nel 1988-1989 dedicati a  Gli archivi e la memoria del presente, Mignemi aveva delineato l’orizzonte culturale nel quale si era formata l’idea stessa di fotografia, cogliendone i legami con la figurazione prospettica occidentale, qui intesa come  “forma simbolica” secondo la lezione di Erwin Panofsky, e aveva individuato nella “progressiva spettacolarizzazione della politica manifestatasi nella società contemporanea soprattutto dopo il primo conflitto mondiale”[559]  una delle ragioni determinanti per le quali gli storici avrebbero dovuto occuparsi di fotografia.   Oltre a queste considerazioni, certo interessanti ma non inedite, il suo contributo si qualificava per un primo tentativo, poi da lui stesso successivamente sviluppato, di ricavare dalla diplomatica strumenti di analisi applicabili al documento fotografico, contribuendo così alla riflessione intorno a uno dei nodi problematici posti dalla critica delle fonti, quello dell’autorialità,  legato ai modi caratteristici della produzione di questa tipologia di documenti e che implicavano una precisa conoscenza e considerazione di quei processi; quella stessa che gli consentiva di indicare un’altra “questione metodologica di rilevanza fondamentale: il materiale negativo e quello positivo costituiscono elementi documentali con una propria autonomia. Così come (…) autonomia propria ha la fotografia e la sua riproduzione con procedimento poligrafico.” Forse oggi quel concetto di autonomia necessiterebbe di una migliore definizione critica, così come la questione dell’autorialità, ma certo erano quelle le basi su cui si sarebbe poi costruita la più appropriata strumentazione metodologica dei contemporaneisti e non solo.

 

 

Storie italiane 

 

La storiografia dedicata alle vicende italiane ebbe in quel periodo esiti di grande rilevanza; primo risultato maturo delle ricerche e delle iniziative che avevano segnato gli anni appena trascorsi. Sebbene fosse stato pubblicato nel 1981 per ragioni editoriali, deve essere storicamente collocato e criticamente compreso nella temperie di studi e iniziative della fine del decennio precedente il fondamentale saggio di Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), compreso nella “Storia dell’arte italiana” di   Einaudi[560]. Accanto alla rilevanza dell’opera risultava particolarmente significativa la stessa sede di pubblicazione, che costituiva di fatto, per il contesto italiano, una ulteriore legittimazione degli studi fotografici ponendoli accanto a quelli – di tradizione indiscussa – della storiografia artistica.[561]

Il titolo, molto tecnico e quasi impersonale avendo espunto la significativa qualificazione ancora presente nella prima stesura (“Note critiche per una storia…”)[562],  introduceva una interessante serie di variazioni rispetto a quello adottato da Bertelli per il proprio saggio negli “Annali”, che ne costituiva il termine di confronto più immediato e autorevole, indicando con questo anche i differenti scopi e presupposti metodologici: non  più “la fotografia nella storia” ma “storia della fotografia”, come ben spiegava la stessa studiosa in una lettera a Paolo Fossati: “una storia della fotografia per tecniche, specificandone di volta in volta le caratteristiche e i particolari effetti al fine di giustificare le scelte dei vari fotografi anche dal punto di vista estetico. Farei emergere il contributo dei maggiori al divenire della fotografia come espressione, specificandone le origini regionali e facendo seguire, in appendice, un elenco dei fotografi minori che hanno lavorato in questa o quell’altra città.” [563]  Si trattava di accogliere e sviluppare le suggestioni del coordinatore editoriale dell’intero progetto[564], con Giulio Bollati, che sulla scia del successo del volume dedicato a Michetti fotografo  aveva proposto alla studiosa di “tracciare delle indicazioni di studio e di ricerca dagli inizi della fotografia in Italia ai primi del ‘900 [affrontando] i problemi di riproduzione in concorrenza con l’incisione, di documentazione, la fotografia come forma autonoma, via via fino a quei problemi di mercato, diffusione ecc. (…). Si tratta di dare nel contesto di un’opera prevalentemente sulla pittura e scultura i problemi critici che la foto solleva.”[565] Programma più definito di quanto potesse apparire da queste parole ricordando che il tema critico della documentazione, anche fotografica, dell’opera d’arte era già stato affrontato da Ettore Spalletti[566] nel secondo volume della stessa grande opera;  mentre all’illustrazione romantica era dedicato il saggio di Ferdinando Mazzocca[567]  che insieme quelli  di Miraglia e  Gilardi di cui si dirà formava il secondo tomo di Grafica e immagine.

Spalletti, già autore di uno dei testi in catalogo della mostra Alinari del 1977[568], aveva considerato  criticamente il ricorso all’immagine ottico meccanica ponendolo in relazione con la tradizione calcografica,  sottoponendo di volta in volta a verifica le competenze culturali e tecnologiche che avevano consentito di interpretare l’opera attraverso la traduzione operata dall’incisore da parte di quella “aristocrazia intellettuale (…) ritenuta perfettamente in grado di ricostruire la realtà complessa dell’opera presa a modello attraverso una avvertita lettura del linguaggio analogico proprio dell’incisione.” Il passaggio dal concetto di traduzione, proprio delle immagini manuali, a quello di riproduzione, fondato sul preconcetto tipicamente positivistico dell’oggettività dell’immagine fotografica, cioè su di una insufficiente comprensione critica delle implicazioni  tecnologiche e culturali proprie del nuovo mezzo, “portò scarsissimi vantaggi metodologici e anzi ritardò fin quasi ai nostri giorni una seria riflessione sul ruolo svolto dall’operatore fotografico, che non sarà mai considerato un traduttore – come invece era avvenuto per l’incisore – ma soltanto un assistente neutrale di un processo chimico e meccanico di cui egli doveva semplicemente controllare la precisione e l’efficienza.”[569] Di più: “nonostante i suoi limiti e le sue imperfezioni il nuovo mezzo di produzione delle immagini fu capace di alterare irrimediabilmente e in breve tempo quella ‘taratura’  sulla rigorosa sintassi interpretativa della traduzione a stampa che aveva consentito in passato un armonico e mirabile equilibrio fra documentazione figurativa e intelligenza critica. (…) La querelle fra l’infedele interpretazione a stampa e la meccanica fedeltà all’originale della fotografia (…) ebbe dunque come risultato l’alterazione profonda del sistema tradizionale di documentazione figurativa, non sostituito per il momento da altre soluzioni ugualmente valide.” Solo i miglioramenti tecnologici e produttivi dell’ultimo decennio dell’Ottocento consentirono una maggiore diffusione della documentazione fotografica e  un suo utilizzo più sistematico e metodologicamente avvertito da parte degli studiosi, sino al superamento di schemi visivi obsoleti determinato “dal grande rinnovamento dei modi di vedere il fenomeno artistico che fu provocato dal formalismo della critica purovisibilistica e dalla spregiudicatezza intellettuale delle avanguardie storiche. Soltanto in connessione con quegli eventi – proseguiva Spalletti – la fotografia si dimostrerà capace di portare un contributo determinante all’elaborazione di nuovi schemi visivi e intellettuali di percezione dell’opera d’arte e, più in generale, della realtà.”

Potendo per la prima volta estendere lo sguardo all’intero contesto nazionale lungo un arco cronologico esteso dalle origini sino al primo anteguerra, la trattazione adottata da Miraglia si sviluppava per grandi aree tematiche, ciascuna svolta alternando considerazioni di ordine generale (storico, iconografico, tecnico) ad approfondimenti, anche esemplificativi, relativi a singoli autori ed opere. Nel ricco apparato di riproduzioni fuori testo, con andamento parallelo al saggio, ciascuna immagine era finalmente corredata di opportuna didascalia con indicazioni relative ad autore, titolo, data, collezione di provenienza e naturalmente tecnica, anche se proprio su questo aspetto – certo all’epoca fortemente condizionato dalla scarsa disponibilità di studi e modelli autorevoli – oggi possono essere avanzate non poche riserve[570].  Il lungo saggio, che certo avrebbe meritato anche un’edizione autonoma, prendeva  avvio col capitolo dedicato a Fotografia e società nell’Italia preunitaria,  aperto dalla considerazione, anche programmatica,  che “non sono molti anni che in Italia si è definito un preciso interesse nei confronti della fotografia e che si indaga sul peso che essa ha esercitato, o ha potuto esercitare, come veicolo di comunicazione e come espressione nel campo della cultura e dell’arte, nel tentativo di ricostruire una fisionomia storica in chiave critica.” Primo esito di quella attenzione nuova era stato il riconoscimento di “personalità di notevole spicco (…) e tali da poter spesso ambire a posizioni di tutto rispetto nei confronti di quei fotografi, di nazionalità varia, che le storie della fotografia indicano come i protagonisti della vicenda ottocentesca”. Dichiarazione che non solo costituiva una chiara sottolineatura dei limiti della  storiografia internazionale, ma che rappresentava anche, e forse soprattutto, una sostanziale revisione critica delle posizioni espresse a suo tempo da Vitali, dal quale Miraglia prendeva le distanze anche in virtù del fatto che questi sembrava “non attribuire un eccessivo rilievo culturale ed espressivo a nessuno dei professionisti italiani dell’Ottocento”. La disamina procedeva quindi  per raffronti storici con quanto era accaduto nelle altre nazioni in termini di ricezione della novità tecnologica e culturale dell’invenzione della fotografia, condotta in particolare attraverso l’analisi critica della stampa periodica specializzata.  In Italia questa risultava caratterizzata da un sostanziale tecnicismo, essendo “molto rari gli articoli cosiddetti di estetica fotografica o riguardanti l’uso sociale”; ragione per cui “nei primi anni della storia della fotografia è difficile ricostruire il volto della fotografia italiana e dei suoi protagonisti o risalire al giudizio coevo sulla fotografia stessa”. Un problema storiografico fortemente condizionato dalla disponibilità delle fonti, specialmente in conseguenza del “mancato intervento statale alla formazione di raccolte pubbliche. (…) Chi studia le origini della fotografia italiana deve rintracciarne gli elementi sparsi un po’ dovunque (…) spesso facendo leva su rapporti personali di amicizia e senza nessuna certezza circa l’esito delle proprie ricerche. Anche in base alla scarsa quantità di documentazione che le collezioni pubbliche del passato (…) hanno inteso raccogliere e tramandarci, possiamo valutare a pieno il significato storico della tardiva consapevolezza culturale nei confronti della fotografia e della problematica che essa comporta come comunicazione e come espressione.” Una fondamentale riflessione metodologica e storiografica troppo spesso passata sotto silenzio, a cui sarebbe stato necessario aggiungere, quale conseguenza ed esito di quelle stesse dinamiche storiche, una riflessione in merito alla figura e alla dotazione culturale di quegli stessi che in Italia si erano dedicati a compilare ‘storie’ della fotografia;  privi di una formazione specifica, non dico disciplinare ma almeno storica in senso proprio, surrogata nei migliori dei casi da una grande passione e dalla consapevolezza della ineluttabilità del compito.

Miraglia interpretava le vicende fotografiche italiane in riferimento all’ascesa della borghesia, ciò che rendeva ragione non solo delle precoci affermazioni della fotografia nelle aree più industrializzate del paese già in epoca preunitaria, ma anche della particolarità della produzione professionale italiana nell’ambito “del vedutismo e della riproduzione dell’opera d’arte”, di cui la studiosa chiariva sia le relazioni con la tradizione iconografica sia le problematiche specifiche poste da quell’uso documentario.  Addentrandosi nello specifico espressivo di questo genere fotografico ricordava opportunamente che “un problema molto importante (…) è quello connesso al punto di vista della ripresa”, poiché per soddisfare le esigenze del committente o del possibile acquirente “la fotografia deve presentarsi il più possibile fedele all’originale e rispecchiarne insieme lo spirito.” Questioni che interrogavano le capacità tecniche e culturali del fotografo, che trovava nella sempre più vasta manualistica risposte canoniche alle questioni tecniche, mentre apparteneva alla cultura del singolo l’eventuale “capacità critica di lettura nei confronti delle singole personalità dell’arte e dei diversi periodi della sua storia”.  Da verificarsi caso per caso quindi, come hanno ormai dimostrato molti studi dei decenni successivi, considerando adesioni e scarti dalla tradizione iconografica e interrogandosi sugli eventuali, possibili rapporti con studiosi di diversa formazione (da Crescentino Caselli a  Corrado Ricci, da Pietro Toesca a Roberto Longhi), ma – credo – senza poter confondere i ruoli. Si sarebbe potuto aprire qui uno spazio per accennare almeno al tema rilevantissimo del contributo epistemologico e metodologico della fotografia alla stessa definizione in senso moderno delle discipline storico artistiche, ma la questione venne completamente elusa, come già nel saggio di Bertelli per gli “Annali”. Dopo il contributo di Massimo Ferretti al catalogo Alinari il tema era stato ripreso da Spalletti nel saggio sopra citato, ricco di suggestioni e di dati ma poco interessato a verificare sistematicamente l’influenza della fotografia sulla stessa definizione disciplinare della storia dell’arte, forse anzi introducendo una sottile distinzione nel momento in cui ribadiva  l’influenza della fotografia “sulla scienza dell’attribuzione e sulla cultura dei conoscitori.”

Nella seconda parte della trattazione Miraglia spostava  il proprio sguardo dall’ambito documentario a quello estetico indagando i rapporti tra Pittura e fotografia. Punto di partenza era la questione, ancora centrale per la cultura del XIX secolo, della mimesis,  dove il ‘vero naturale’ coincideva ancora “con il vero della prospettiva lineare concepita più che come una rappresentazione simbolica (…) come forma oggettiva e indipendente dello spazio”. Da lì  “la rivalità subito accesa tra pittura e fotografia”, letta criticamente adottando l’ipotesi della “messa in questione dell’iconismo”  elaborata da Filiberto Menna nel 1975[571], accostata alle altre “tendenze della critica d’arte ad applicare, all’indagine estetica, l’approccio strutturalistico e ad adottare nuovi criteri di lettura e di giudizio che istituiscono legami sempre più stretti fra arte e percezione, fra arte e psicologia.”  Adesione importante non solo in sé ma quale segno preciso di un modo e di un metodo che riconosceva la costruzione storiografica come necessario processo critico e non come presunta e illusoria, ordinata ricostruzione cronologica di fatti, com’era stato costume non solo nella produzione italiana sino ad allora. Ne risultava un tracciato ricco di suggestioni e di spunti, come la segnalazione della lampante coincidenza tra le opinioni espresse a poco meno di un secolo di distanza da Francesco Algarotti (1763) e da Eugène Delacroix (1854) a proposito del fascino (sognato o realizzato) esercitato da “un quadro fatto di mano della Natura medesima”[572] o la sottile ma fondamentale distinzione tra le diverse modalità di ricezione della fotografia da parte dei pittori accademici, “attratti dall’apparente oggettività del modello fotografico” e per contro degli impressionisti, “tesa a captare le suggestioni di alcuni specifici della fotografia”, come avevano del resto ben documentato mostre e pubblicazioni sul tema edite nel decennio precedente. In quella ricostruzione risultava centrale il consapevole processo di  ‘liberazione’ dagli schemi prospettici operato dalla pittura che la studiosa estendeva però – con una certa forzatura – anche alla fotografia che “già nel corso dell’Ottocento tende a definirsi come visione alternativa del mondo fenomenico e quindi come espressione”, ponendo in essere un corto circuito critico difficilmente condivisibile se espresso in forma così apodittica[573].  Nel considerare successivamente modalità e tipologie di rapporti che i pittori italiani ebbero con la fotografia si perdevano però le tracce di quelle riflessioni teoriche e  l’attenzione spaziava da Faruffini a Signorini seguendo le tracce dei primi studi di Lamberto Vitali, ma senza dimenticare altri artisti che ricorsero alla fotografia per le sue capacità mimetiche senza ancora riflettere sulle sue specificità linguistiche.  Nella maggior parte dei casi considerati da  Miraglia infatti i pittori avevano guardato “alla fotografia come a un appunto per la memoria (…) una composizione particolare che il pittore interpreta poi in assoluta libertà creativa di linguaggio (…) lontano dai valori fortemente chiaroscurali del suo modello fotografico.” Analisi in buona parte condivisibile e sostanzialmente confermata dai numerosissimi studi dedicati a questi temi che sono stati pubblicati nei decenni successivi[574],  ma che pareva in netta contraddizione con gli assunti prima dichiarati.  Più interessante e feconda la ricostruzione di un percorso e la formulazione, quasi in filigrana però,  dell’ipotesi che considerava l’influenza della messa in scena (da Faruffini a Bernando Celentano, Cabianca, Giulio Aristide Sartorio) nel percorso che avrebbe portato ai tableau vivant di Giuseppe Primoli e, aggiungiamo noi, di Guido Rey, cioè a una delle espressioni più colte della nascente fotografia artistica, sebbene non si potesse concordare con la periodizzazione storica proposta dalla studiosa quando affermava che fu attraverso “il simbolismo e il movimento preraffaellita (…) in questo momento di trapasso e di crisi (…) [che] fotografia e arte (…) appaiono strettamente vincolate da una medesima problematica espressiva (…) prima di separarsi definitivamente per seguire strade affatto divergenti.”  Se abbiamo ben compreso ci pare anzi l’opposto: in quegli anni a cavallo tra XIX e XX secolo era la fotografia che sentiva ancora, e per l’ultima volta in modo così drammatico, la necessità di guardare alla pittura, nelle sue espressioni più desuete, prima di conquistare quell’autonomia linguistica ed espressiva che l’avrebbe fatta partecipe dei turbolenti destini delle avanguardie storiche. Erano questi i temi del capitolo dedicato a Pittoricismo e fotografia pittorica (1857-1911), vale a dire alla ricostruzione del dibattito e all’analisi di quegli autori e di quelle opere che hanno segnato la riflessione intorno alle “possibilità estetiche della fotografia”, con una definizione dell’arco cronologico che ne individuava l’inizio in quel 1857 in cui  Rejlander espose a Manchester The Two Ways of Life, sebbene poco prima nel testo fosse citata la serie di dagherrotipi di John J.E. Mayall The Lord’s Prayer  (1845) e altre sue analoghe immagini presentate all’esposizione di Londra del 1851 e segnalate a suo tempo da Gernsheim. Opere che per questo avrebbero dovuto costituire il termine a quo per la nascita di quel fenomeno che lo studioso aveva più opportunamente definito “art photography” e non “pittoricismo”, e sempre che non si volessero considerare in senso ‘artistico’ alcune nature morte di Daguerre del 1837-1839 o gli scorci di giardino di Talbot e Bayard, tutti palesemente realizzati avendo come riferimento la produzione pittorica coeva. Ciò a dire che ci si poteva aspettare, al 1979-1981, una maggiore accuratezza nella definizione dei termini del problema e non l’adozione, forse inconsapevole, proprio del modello interpretativo  pittorialista; quello che aveva riunito in una sola linea genealogica nobilitante la catena di autori che muovendo da Hill e dalla Cameron giungeva sino alla contemporaneità di Alvin Langdon Coburn o di  George Seeley passando per “Camera Work”. La difficoltà di tenere insieme fenomeni e autori tanto cronologicamente e culturalmente lontani, si accompagnava a giudizi ancora fortemente critici, imputando a questa “vera e propria malattia infettiva (…) il contagio”[575]  della presunta purezza di quei primi, mitici autori, ma senza poi descrivere i modi e le ragioni di questo “lungo periodo di oscurantismo che la fotografia europea visse dagli anni ’50 agli anni ’80-90” (ma ben oltre per la scena italiana), né tantomeno motivando sufficientemente le opinioni espresse.  Un’incertezza che attraversava tutto il capitolo sino ai suoi esiti finali, quando alla riconosciuta necessità di una revisione almeno parziale “di questo particolare momento della cultura fotografica” faceva da immediato riscontro la ripresa dei concetti già espressi da Lamberto Vitali a proposito di un allontanamento “dalla purezza delle origini (…) attraverso una via chiaramente viziata nei suoi presupposti, cioè mimando la pittura, [ma] è anche vero che essa fornì la prima occasione per una riflessione più partecipe e attiva sui processi fotografici, sui segni che li caratterizzano e sul loro porsi come altro rispetto al reale.”

Più convincente risultava l’interpretazione della mancata ricezione e adesione della cultura fotografica italiana a quella tendenza, le cui cause Miraglia individuava nei problemi politici che portarono alla nascita dello stato italiano e soprattutto nella “tardiva affermazione della borghesia come classe politica al potere”,  che nello specifico prese forma nelle nascenti Società fotografiche, nelle Esposizioni nazionali e nei primi Congressi. Furono quelli i luoghi e le occasioni di confronto e di dibattito che culminarono nella grande mostra torinese del 1902 e nella conseguente nascita de “La Fotografia Artistica”[576]; una stagione di cui la studiosa segnalava   alcuni autori considerati espressione di differenti modalità di adesione agli stilemi della ‘fotografia pittorica’,  come Nunes Vais, Von Gloeden e Filippo Rocci, a cui qualche anno dopo avrebbe dedicato uno studio monografico[577]. Da questa articolata esposizione derivavano le considerazioni critiche poste in chiusura, che identificavano quella che era ancora definita “crisi espressiva del medium fotografico”, intesa quale “riflesso di una crisi ben più profonda di tutte le espressioni figurative, che (…) si muovono nell’ambito di una sperimentazione espressiva che allontanandosi dal verismo ottocentesco, prepara l’arte moderna. In questo momento (…) che vede sgretolarsi il mito ottocentesco della fedeltà al dato naturalistico, si verifica, fra pittura e fotografia, uno straordinario avvicinamento, mai verificatosi in maniera così stringente, se non forse ai nostri giorni, nel lungo percorso dei rapporti arte-fotografia.” Posizione critica ben definita, che le consentiva di delineare un preciso tracciato storiografico segnato da una costante considerazione del mutare dei linguaggi espressivi la cui efficacia, a nostro parere, sarebbe stata accresciuta da una più puntuale periodizzazione e analisi storico critica, tale da distinguere e non congiungere in un lungo ‘momento’ tendenze e poetiche tanto distanti quanto il movimento preraffaellita e il futurismo, che non potevano certo essere accostati solo sulla base della comune presa di distanza dalle diverse forme del ‘verismo’, essendo con tutta evidenza determinante almeno un altro elemento: quello della direzione presa.

La storia della fotografia, ora ne siamo più consapevoli,  è però fatta anche di pratiche ordinarie,  quotidiane, che Miraglia distingueva e affrontava nel capitolo dedicato al Professionismo, dove prendeva in considerazione in particolare gli ambiti della fotografia di documentazione del patrimonio storico artistico ed architettonico a partire dall’età del collodio, quando l’effettiva riproducibilità per la prima volta impose la fotografia come “medium alternativo nel campo della produzione e riproduzione dell’immagine”, ponendola in forte competizione con la stampa calcografica.  La rilevanza del fenomeno, per la cui interpretazione confermava i riferimenti alla Freund e a Bourdieu ma senza dimenticare Spalletti, era individuata nel suo essere “espressione di tutto un sistema di valori e della visione del mondo da parte di un intero gruppo” sociale come nell’incidenza che quell’attività ebbe nella formazione diffusa di un gusto fotografico; poiché “il professionista che fornisce i propri prodotti alla società è egli stesso infatti un membro di quella società, ne interpreta le esigenze e le ideologie dopo averle assorbite, sottolineando implicitamente, con la produzione delle proprie opere, il rapporto di reciproca relazione che lo lega alla società stessa.” Paradigmatica in tal senso, e ampiamente trattata, era la vicenda Alinari, a cui  seguivano pagine dedicate ai Brogi e ai principali studi fotografici delle maggiori città italiane: da Roma, dove descriveva il mai sopito conflitto tra Calcografia e GFN, a Venezia, Napoli e Palermo; da Torino alla Milano di Luigi Sacchi e poi di Giuseppe Beltrami, assimilato sbrigativamente al torinese Mario Gabinio, accreditato a sua volta di un “occhio da Atget italiano” per quelle sue “riprese quasi surrealiste di una città in cui l’elemento umano è quasi assente”, condividendo la lettura critica proposta dal suo primo esegeta[578]. La ricostruzione di Miraglia non dimenticava neppure un centro minore ma più che rilevante per la storia italiana come Biella, sede di quella che la studiosa individua come una vera e propria ‘scuola’, formata da quell’insieme di autori legati da strette relazioni parentali, sociali e professionali che da Giuseppe Venanzio Sella procedeva sino al figlio Vittorio, a Vittorio Besso, Guido Rey e al più giovane Emilio Gallo, tutti accomunati da un profondo interesse per la fotografia di montagna. Dato incontrovertibile che oggi non risulta però più sufficiente a definire un gruppo né tantomeno una ‘scuola’, essendo semmai il minimo comun denominatore di gran parte dei fotografi amateur piemontesi ancora ben dentro il primo Novecento; per non dire dell’insopprimibile distinzione di poetica che separava Sella figlio da Rey. Ricca di indicazioni era invece l’analisi della complessa personalità di Giuseppe Venanzio Sella e del ruolo da lui svolto nella formazione di una specifica cultura italiana negli anni intorno all’Unità (le due edizioni del suo Plico del fotografo si collocavano al 1856 e al 1863) ma anche per i primi contatti indiretti con le sperimentazioni di Talbot, di cui possedeva tre esemplari che pure, palesemente, non potevano essere stati “fatti da lui nel 1839” come pretendeva il figlio Vittorio, seguito in questo dalla stessa studiosa, invece incerta sulla corretta indicazione dei corrispondenti e mediatori[579].  Secondo la categorizzazione introdotta a suo tempo da Vitali, e qui esplicitamente richiamata,  ai professionisti non potevano che fare da contraltare gli ‘irregolari’, qui intesi come fenomeno proprio dell’industrializzazione fotografica, dei quali Miraglia sottolineava opportunamente la rilevanza del ruolo (per quanto inconsapevole) svolto nella rivoluzione linguistica del mezzo; conseguenza dello sganciamento “dalle esigenze di mercato implicite nella pratica del professionismo” e della comparsa di “modi alternativi, tutti ugualmente validi, perché possibili, di leggere il dato naturale.”[580] Da queste premesse chiarificatrici e ancor valide non vennero però tratte tutte le conseguenze che ci si potevano attendere, poiché se da un lato ribadiva con Benjamin che fu “questo approccio ingenuo e non intenzionale” a sottolineare “in maniera stringente quelli che sono i meccanismi ottici della camera” poi sosteneva che fu solo “il dilettante colto (…) a  contribuire al divenire della fotografia (…), che ha impresso un nuovo corso alla storia della stessa.” Furono insomma solo gli “uomini di cultura, legati per consuetudine di amicizia e di comunità d’intenti ai protagonisti della vicenda artistica dell’Ottocento”, considerati addirittura “espressione dell’avanguardia”, a raccogliere e far fruttare quelle suggestioni implicite, accostando tra loro autori tanto dissimili quanto Giuseppe Primoli e Francesco Paolo Michetti ma anche Federico Faruffini, la più improbabile di quelle presenze se non altro per ragioni generazionali, essendo morto nel 1869. Quella contraddizione storiografica pareva potersi risolvere introducendo una ulteriore distinzione: “Nell’ambito ottocentesco della fotografia amatoriale – scriveva Miraglia – i risultati estetici sono piuttosto sporadici. Dovuti più alla felicità del caso che non a una precisa volontà espressiva dell’operatore” poiché “l’ ‘inconscio ottico’, ossia la casualità dei meccanismi fotografici e l’ingenuità nell’uso della camera non sono mai stati mezzi legittimi di creazione.”[581] “Nell’ ‘irregolare’ invece, la coerenza dello stile, la casistica delle immagini esteticamente riuscite e riferibili all’unità di un’ispirazione costante, ci permettono di individuare, insieme a un’innegabile vocazione fotografica, la precisa consapevolezza di una fotografia che andava definendosi come veicolo di una nuova visione del mondo.” Pur posto in questi termini, per altro discutibili, il problema interpretativo restava sostanzialmente irrisolto: non solo perché non si provava neppure a definire o illustrare in termini storico critici quei risultati estetici che avrebbero dovuto servire da parametro di valutazione, ma anche perché, poco oltre, la studiosa esprimeva un punto di vista ben diverso, riconoscendo che “la lastra alla gelatino bromuro d’argento [rappresentò]  l’inizio di un’ampia e articolata sperimentazione con la camera da parte di centinaia di migliaia di dilettanti (…) Questi irregolari della fotografia [forse da distinguersi da quelli precedentemente considerati?] che solo molto più tardi vennero riconosciuti come i veri precursori della fotografia moderna.”

Come ha notato ancora recentemente Antonella Russo, quell’importante lavoro di Miraglia “divenne testo di riferimento per la storiografia della fotografia italiana ottocentesca” [582] e ciò specialmente perché si offriva come modello metodologico, mostrando per la prima volta concretamente come dovesse e potesse essere affrontato lo studio della storia della fotografia, superando le precedenti impostazioni aneddotiche o puramente cronologiche per indicare – pur con i limiti che abbiamo indicato, certo meglio riconoscibili a distanza di tempo – quale fosse il livello di complessità posto dalla comprensione delle vicende della fotografia (anche italiana) e quali dovessero essere gli strumenti e le strategie di analisi critica da mettere in atto per affrontarla; quali gli indispensabili problemi e strumenti metodologici da definire e adottare, necessari per costruire un’attrezzata comprensione storico critica, culturale e sociale delle vicende connesse alla produzione, ricezione e uso di questa particolare tipologia di documenti/ monumenti. Ciò che costituiva la vera novità, per il povero e nascente ambito della storiografia fotografica italiana, ciò che poteva essere considerato e magari preso a modello nel testo di Miraglia era soprattutto il metodo, la ricercata sistematicità di molti confronti come il rispetto canonico delle forme (e delle regole) della verificabilità dei dati presentati dalla ricerca storica, attuati  mediante i consolidati strumenti delle citazioni, delle note e degli apparati.

Di tutto questo non si trovava quasi traccia nel secondo, ampio saggio dedicato alla fotografia compreso in quello stesso tomo della “Storia dell’Arte”, che l’intelligenza del curatore Federico Zeri aveva affidato a Ando Gilardi, accostando a un compiuto esempio di applicazione del metodo storico un testo virulento e programmaticamente asistematico, grandguignolesco e –  per quel contesto, ovvio – quasi sovversivo, seppure einaudianamente più moderato nei toni di quanto l’autore ci avesse abituati dalle pagine di “Photo 13” (1970-1974)[583] e della sua Storia sociale della fotografia (1976). Il suo Creatività e informazione fotografica  apriva con considerazioni sullo stato dell’arte non dissimili da quelle espresse da Miraglia,  ma spostando l’accento sulle lacune dei processi formativi: “Non si fa torto al lettore supponendo che gli siano sconosciuti alcuni dati fondamentali della storia delle origini della fotografia in generale – scriveva Gilardi – e che sono logicamente indispensabili per una miglior comprensione delle vicende della fotografia italiana. La storia della fotografia, e in particolare quella che riguarda l’evoluzione dei suoi mezzi e procedimenti tecnici, rimane fino a oggi al di fuori della cultura artistica, anche se di buon livello: la maggior parte dei trattati di storia dell’arte non se ne occupano o se lo fanno le assegnano poco spazio e quasi sempre dedicandolo alla citazione di pochi nomi di fotografi famosi. Eppure una conoscenza sia pur minima dei processi fotografici è, a nostro parere, necessaria perché nel fare fotografia, il mezzo ha un’importanza fondamentale non solo in rapporto alle qualità del prodotto, ma altresì agli usi del medesimo, al suo apprezzamento artistico proclamato ed effettivo: due punti di vista, per la fotografia, ben distinti. Questa influenza dei caratteri del mezzo su quelli del prodotto non è strettamente peculiare alla fotografia: avvenne la medesima cosa, sia pure in forma più blanda, con tutti i mezzi impiegati in circa sei secoli per fabbricare immagini in serie, mezzi chiamati genericamente  ‘matrici’. La matrice potrebbe essere definita come un’immagine prolifica perché ne genera molte altre, chiamate stampe o copie. In rapporto a un altro tipo d’immagine che per restare in metafora chiameremo sterile, piuttosto di unica (e al suono di questa parola ormai d’istinto pensiamo a un pregio oggettivo), la fertilità della matrice appare e apparve quasi sempre scandalosa alle virtù dell’apprezzamento estetico. E lo scandalo è tanto maggiore quanto più grande la fertilità della matrice: la sua produttività.”[584] Una chiamata in causa che era anche una dichiarazione programmatica, che riprendeva (e non poteva essere altrimenti) l’impostazione teorica della Storia sociale, in cui la fotografia era definita come “l’ultimo procedimento per fare figure”, cioè l’ultima “immagine prolifica” in ordine di tempo, individuando in questa moltiplicabilità (anche) il marchio d’infamia originario del suo riconoscimento artistico così come la ragione del suo trionfo in termini di consumo di massa, e quindi di comunicazione. Erano i due poli identificati dal titolo, che lasciavano intendere una gerarchia di attenzioni richiamata in una delle pagine più esplicite in cui Gilardi scriveva che “il fulmineo diffondersi della fotografia non ha nemmeno lasciato molto tempo agli artisti (…) per meditare e prepararsi a quel radicale rinnovamento dell’arte che si è realizzato nello stesso periodo; e questo potrebbe essere inteso anche in termini di nazionalità. Più chiaramente: la fotografia si diffonde in Italia, sia pure all’interno di quel periodo di cent’anni o poco più, in modi e tempi diversi da quelli, ad esempio, americani. Affermare che l’arte moderna e contemporanea si possa analizzare anche da questo punto di vista può sembrare stravagante, ma forse solo per il momento: l’aggiornamento è solo questione di tempo. Se si ammette l’ipotesi affermata, respingendo l’etichetta di stravaganza; se si supera cioè definitivamente ogni ‘complesso di superiorità’ dell’arte che non ha bisogno di matrici feconde, una ricerca storica sulla fotografia italiana – come di ogni altro paese, ovviamente – assumerebbe un’importanza assai maggiore di quella che normalmente le si concede. In questo saggio tenteremo, nel limite della sua brevità, di arricchire quell’ipotesi. Possibilmente con elementi nuovi e che si trovano a monte di quelli che da qualche tempo vengono presi in esame tutte le volte, ormai numerose, che si affronta la questione dei rapporti fra la fotografia e l’arte in quanto ‘contaminazione’ formale, ovvero sfruttamento dei materiali della prima da parte della seconda. O addirittura in termini di ‘combattimento’ fra le due immagini, intendendolo come gara dimostrativa delle migliori capacità espressive. E questo sarebbe davvero un punto di vista stravagante.”[585]

La chiave interpretativa era individuata nella peculiare “produttività”, intesa in senso industriale, della fotografia, nella convinzione che “la storia delle immagini prolifiche (…) ubbidisce, sotto sotto, più a regole economiche che estetiche, anche se in genere si parla più di meriti artistici che produttivistici del mezzo”; prova ne sia che “è l’antica industria tipografica che impiantando nuovi reparti di fotoincisione ricava i più grandi vantaggi dall’invenzione della fotografia [utilizzando] quella unica copia che da sola è sufficiente per ricavarne l’impronta foto incisa, moltiplicabile praticamente all’infinito (…) per i materiali, gli utensili, i procedimenti con cui si fabbrica, quella fotografica è un’arte industriale per la quale la manualità, come intervento più o meno determinante nella fabbricazione, costituisce una imperfezione del procedimento, non un contributo qualificante.”[586]

La considerazione della fotografia come “arte industriale” in senso proprio comportava per Gilardi, più esplicitamente che in altri, la ridefinizione della sua cultura nel corso del XIX secolo e una stringente considerazione della téchne, non solo perchéle forme e i generi dell’immagine ottica-meccanica dipendono dai meccanismi in modo stretto”, ma anche  nella convinzione che “se affermiamo che tra la fotografia italiana e quella di altri paesi vi è la stessa distanza, o se si vuole il medesimo ritardo, che si può verificare fra i rispettivi modi di produzione industriale, o almeno: che può essersi verificato per un certo periodo, non enunciamo affatto un concetto paradossale. Al contrario, riutilizziamo un concetto corrente della cultura fotografica (…) nel periodo che va dall’invenzione di Daguerre, Herschel, Talbot, alla prima guerra mondiale”,  essendo che “dell’arte industriale quella fotografica pretende di essere il nocciolo, il simbolo migliore.” La novità della posizione era di grande rilevanza e non tanto per l’evidente modello interpretativo di derivazione marxiana – comune e diffuso tra gli storici dell’industrializzazione e già richiamato da Giulio Bollati nel suo saggio per gli “Annali” einaudiani[587] – quanto per la sua applicazione allo studio della fotografia e, ancor più, per il fatto stesso di proporre e utilizzare un modello interpretativo specifico, allontanandosi così dalle prime narrazioni storiografiche che potremmo definire ‘archeologiche’, destinate a portare alla luce i reperti e i resti di quella storia ma senza tentarne poi un’interpretazione che non fosse in termini di primati e derivazioni. La contrapposizione tra industrializzazione e manualità (artigianale e forse artistica) aveva per Gilardi ulteriori implicazioni se la si poneva in parallelo con quella tra fotografia ‘diretta’ (e quindi per definizione vera) e fotografia ‘artistica’, specie nell’accezione pittorialista, per definizione manipolata. Far accettare all’universo degli amatori fotografi il “dogma” che identificava “fotografia del vero” e “vera fotografia” era risultato conveniente “in ogni senso: economico, politico, propagandistico; non solo per chi ha prodotto informazione visiva ma anche per le industrie fotografiche, di apparecchi come di materiali sensibili”, perché a un uso limitato e non standardizzato di prodotti, tipico della fotografia artistica, si contrapponevano i materiali e le tecniche della fotografia ‘pura’ che erano “come tutti sanno, totalmente omologate, anzi! l’immagine risulta tanto più ‘genuina’ in quanto frutto di una omologazione universale del procedimento fotografico. Il quale (…) può essere offerto dall’industria come un servizio reso a un pubblico che è diventato sempre più numeroso.”

Quella critica politica riconosceva la fotografia come prodotto di una cultura industriale in cui l’artistico si rivelava come ideologia e falsa coscienza e costituiva il “mito che, fin dal principio, è stato edificato per promuovere il procedimento, [la] sfrenata rettorica che circonda la fotografia fino dai primi decenni e intende gratificare, più ancora delle immagini, le virtù quasi ‘soprannaturali’ del mezzo che le ‘crea’ ”. Dati questi presupposti non poteva stupire l’assenza di qualsivoglia considerazione delle opere di “maestri più o meno illustri” e il richiamo a una ancora inedita categoria di fotografi: gli “anonimi della fotografia: i fotografi ambulanti, o peripatetici, o esterni, o itineranti, come diversamente si chiamavano.” Un universo di presenze incommensurabilmente distante dagli ‘irregolari’  amati da Lamberto Vitali e da Jean Adhémar come dai “naif” segnalati da Zannier.

L’attenzione era rivolta semmai ad ambiti e momenti che meglio di altri fossero in grado di esprimere e rivelare le logiche profonde della fotografia come pratica sociale ed economica, accennando a temi poco frequentati (anche dopo) quali la fotografia missionaria, che Gilardi considerava una parte essenziale della fotografia ottocentesca di viaggio e di esplorazione, o la fotografia industriale, vale a dire quella “di promozione dell’industria e dei suoi prodotti. Insomma, per usare il termine meno gratificante: la fotografia pubblicitaria”, a cui sola (o quasi) riconosceva il valore di fotografia artistica. Accanto a questi, riproponeva temi per lui più consueti come la fotografia segnaletica, già trattata in Wanted (1978), o la critica politica della fotografia amatoriale italiana di inizio Novecento, che “era diventata il rifugio estremo di un’idea dell’arte tanto più sublime quanto più utile a dimenticare gli affanni del mondo [e] così come si era rifiutata di accorgersi della [prima] guerra mondiale, si rifiutò di accorgersi del fascismo”, promuovendo “una vera e propria ‘mistica’ dell’immagine fotografica”, di cui Gilardi individuava la prima e massima espressione ne “La Fotografia artistica” ed anche nei più tardi annuari di “Luci ed Ombre”, a cui pure riconosceva il merito di aver riallacciato “le fila di un certo internazionalismo pubblicando brevi relazioni sui ‘movimenti fotografici’ in Australia come nel Canada, negli Stati Uniti come nella sconfitta Germania.”[588] Altrettanto rilevanti, inediti e scarsamente considerati in studi successivi i puntuali richiami ad alcuni problemi tecnologici e alle loro ricadute ‘documentarie’, come il rapporto (occulto) tra sensibilità cromatica delle emulsioni e ‘fedeltà’ riproduttiva dei dipinti, inteso da Gilardi come una testimonianza di quel “passaggio non discontinuo (…) fra la riproduzione totalmente manuale dell’arte e quella fotografica”; o la  riflessione sulla rilevanza linguistica e culturale della pratica dell’ingrandimento, che aveva soppiantato la pratica della stampa a contatto da negativi poi considerati di grande o grandissimo formato, rivoluzionandone i criteri compositivi e gli usi in maniera altrettanto profonda della commercializzazione di quelle emulsioni alla gelatina che costituirono l’avvio della massificazione della fotografia e determinarono, nel corso di qualche decennio, la miniaturizzazione dei formati e il necessario ricorso all’ingranditore.

Come è facile comprendere anche da questa breve sintesi, i temi affrontati da Gilardi, pur declinati localmente, avevano rilevanza più generale e questo suo lavoro si proponeva ancora  come una storia più sociale che italiana, sebbene comparissero qua e là i nomi di Alinari e Brogi, Edoardo Di Sambuy, Secondo Pia e soprattutto Anton Giulio Bragaglia, considerato una delle poche, vere glorie della nostra fotografia anche per la sua produzione di scrittore e critico, sebbene poi gli fosse rimproverato di non aver compreso la novità, e condannato anzi “la sconcezza della sua realisticità brutale e la pazzia dell’istantanea”[589],  allineandosi così al giudizio dei molti che sostenevano il valore estetico della fotografia più meditata e tecnicamente sofisticata, magari manualmente reinterpretata. Battaglia destinata al più clamoroso insuccesso poiché “al fianco della ripresa sempre più facile mobilitavasi la nascente industria degli apparecchi e dei materiali sensibili.” A voler essere ancora più precisi, e nonostante la collocazione in una sede così prestigiosa e storiograficamente definita, come già nel 1976 non era proprio di una storia che si trattava e questo sia per ragioni redazionali (dettagli scelti “senza ordine cronologico, ma con il criterio di una più scorrevole argomentazione”, dichiarava l’autore) sia per più profonde convinzioni critiche, poiché i fenomeni analizzati “compressi in un ciclo breve, non solo nel tempo, ma altresì nello spazio, val meglio osservarli in una certa contemporaneità.” Opinione rispettabile che non avrebbe però dovuto avere come macroscopica conseguenza la rinuncia ad ogni verificabilità dei dati e delle fonti; il deserto delle citazioni e dei rimandi, l’assenza di una pur minima bibliografia, cioè di tutti quegli strumenti che consentono la condivisione e la crescita di ogni cultura disciplinare. Nonostante questi limiti non secondari il saggio di Gilardi, certo meno influente sulle generazioni successive del contributo di Miraglia, aveva una sua necessità che non ha perduto nel tempo; per quei suoi rimandi alla realtà socio economica dei dati di produzione, per quei suggerimenti analitici che derivavano da una conoscenza tecnica e professionale che pochi studiosi  avevano allora (e ancor meno hanno oggi) e che nessuno era in grado di coniugare efficacemente, vitalisticamente quasi coi grandi tracciati della ricostruzione storica.

 

 

A proposito di cultura fotografica

 

In questo processo di progressivo consolidamento della storiografia italiana un ruolo fondamentale venne svolto dalle nuove riviste di cultura fotografica[590]; un fenomeno inedito per l’Italia che offrì stimoli e occasioni per la pubblicazione di analisi e approfondimenti monografici, mentre cresceva l’interesse per le fonti archivistiche (archivi  e fondi fotografici) e bibliografiche; per le parole della e intorno alla fotografia e alle fotografie, per la ricostruzione delle culture che avevano intersecato e incrociato quella fotografica. Dava corpo al consolidarsi di quella attenzione un importante volume curato nel 1985 da Italo Zannier e Paolo Costantini (così in copertina), che sotto il titolo di Cultura fotografica in Italia 1839-1949 raccoglieva e ampliava, sistematizzandola, la ben più circoscritta raccolta di testi a corredo degli “Annali” einaudiani[591] o quelli di differente natura raccolti ne Gli scrittori e la fotografia  di Diego Mormorio[592], la prima antologia dedicata al tema a livello internazionale. Le ragioni storiografiche che stavano a monte del progetto erano individuate da Costantini nella necessità di offrire strumenti in grado di corrispondere e servire a una consapevolezza nuova, derivata dal fare storia proprio della scuola francese delle “Annales”: “La moltiplicazione del nostro atteggiamento nei confronti dell’oggetto comporta necessariamente anche un mutamento del contesto figurale in cui esso si trova costretto. Un unico punto di vista risulta perciò insoddisfacente (e persino pericoloso e sviante) per esplicitare tutta la complessità dell’opera, i suoi molteplici rapporti e in definitiva il suo valore relativo.”[593] Più nello specifico l’autore riconosceva che “l’essenzialità di tutto l’apparato delle fonti scritte per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia non sembra invece essere ancora stata pienamente avvertita. La maggior parte dei trattati, dei manuali, delle storie, delle notizie e articoli, di appunti, epistolari, diari, biografie, di documenti e inventari relativi alle vicende e ai personaggi della storia della fotografia, rimane variamente dispersa tra gli scaffali di qualche biblioteca, spesso privata, i fondi di remoti archivi, i cataloghi delle librerie antiquarie e le bancarelle di improbabili mercanti di fotografia, in attesa di essere riscoperta, collazionata nel suo insieme, analizzata nelle sue correlazioni e posta a confronto con  la contemporanea produzione di immagini. (…) Riconosciuto in tal modo l’ ‘intrinseco valore storico’ [della documentazione, secondo la formulazione di Julius von Schlosser] una storia delle fotografia e della trattatistica fotografica (…) non sembrerebbe allora meno legittima e rilevante delle tradizionali narrazioni sui principali fotografi.” Per queste ragioni, e rinunciando esplicitamente “a moltiplicare gli esempi e a esplicitarne ogni volta l’intricata serie di relazioni” i curatori scelsero di presentare “una campionatura piuttosto significativa (…) una raccolta (chiaramente limitata e parziale: una antologia, appunto)” del primo secolo di letteratura fotografica italiana; tale da “servire da stimolo per una nuova lettura di testi e esperienze della storia della fotografia in Italia, piuttosto che offrire una sintesi forzatamente conclusiva.”

Il volume, aperto dai testi dei due curatori, era organizzato in sei capitoli dedicati alla presentazione diacronica di questioni considerate nodali per le vicende della fotografia (le prime indagini, la manualistica, le applicazioni documentarie, i regolamenti e le istituzioni, l’estetica) con la sola significativa eccezione del primo, che affrontava sincronicamente quella che fu la diffusione aurorale della notizia. Tra i temi selezionati non compariva però la storiografia, essendo i due soli testi a questa riferibili, il Ritorno all’antica fotografia di Vitali (1936b) e I primi fotografi romani di Negro (1942) collocati nella sezione intitolata all’estetica. Certo l’esito di un doppio vincolo storico, determinato da una produzione effettivamente scarsa nel periodo  cronologico considerato, come si è visto anche nelle pagine precedenti, ma anche di una certa quale disattenzione dei curatori per i pochi testi comunque disponibili e di livello non certo inferiore a molti di quelli lì pubblicati relativi ad altri aspetti. Un’assenza sorprendente allora, che sembrava corrispondere alle stesse riflessioni poste in premessa da Costantini, che lamentava come “l’essenzialità di tutto l’apparato di fonti scritte per una corretta fondazione disciplinare della storia della fotografia non sembra essere stata ancora pienamente avvertita [e] una storia della storiografia e della trattatistica fotografica (…) non sembrerebbe allora meno legittima e rilevante delle tradizionali narrazioni sui principali fotografi.”[594]  L’articolazione tematica determinava a sua volta una narrazione, una possibile storia della fotografia di cui di volta in volta si fornivano, magari implicitamente, alcuni elementi connotativi, qualificanti. Si consideri ad esempio il riconoscimento del rapporto  stretto e ineludibile che connetteva  “la sua natura di medium ‘meccanico’ (…) all’evoluzione tecnologica, in sintonia con quella culturale, con reciproci stimoli”[595], ciò che dava ragione del fatto che “il ‘problema tecnico’ (…) fu l’oggetto principale della pubblicistica relativa alla fotografia, fino agli ultimi decenni del secolo scorso [XIX], quando era sembrato di aver ridotto veramente ‘alla portata di tutti’ questa tecnica che ora ambiva a diventare arte, proprio nel momento in cui stava massificandosi”[596]. Un  fenomeno che a sua volta portò alla moltiplicazione di manuali e periodici destinati al sempre più vasto pubblico dei dilettanti, “questi proto-fotoamatori, perlopiù ‘nobili e benestanti’ [che] alimentarono gli studi, anche scientifici, sulla fotografia, proprio per la loro particolare estrazione culturale e sociale, che consentì loro anche molte trasgressioni alle regole dell’artigianato quotidiano, che altrimenti rischiava di fossilizzarsi in stereotipi banali e tecniche stantie.”[597] La rivendicazione di un nuovo statuto autoriale, tra gli esiti culturali più significativi di quella stagione, determinò anche un inedito e forte interesse per una estetica della fotografia, alla “ricerca di un carattere linguistico specifico, una letteratura fotografica che tendeva ad analizzare anche la sua storia, in termini non soltanto di riassunto dei vari ritrovati tecnici (…); gli studi di storia della fotografia (…) vennero seguiti particolarmente proprio negli anni in cui più intensa fu l’indagine sul linguaggio, quasi cercando nella storia le sue motivazioni.”[598]

La “Rivista di storia e critica della fotografia”

Sino alla fine del decennio precedente la pubblicistica periodica aveva offerto solo sparsi esempi di saggistica storica, così che costituì un’impresa più che coraggiosa e una novità sorprendente la pubblicazione del primo numero della “Rivista di storia e critica della fotografia” (“RSCF”) nell’ottobre del 1980; la seconda testata europea specificamente dedicata a questi temi, “diretta dall’entusiasta Angelo Schwarz”[599] ed edita a Ivrea da Priuli & Verlucca.  Il direttore proveniva da “Il Diaframma Fotografia Italiana”, di cui era stato capo redattore dall’ottobre 1974 alla sua chiusura nel febbraio 1979, e per quel periodico aveva curato anche alcuni inserti monografici di taglio storico, “ma con un certo timore reverenziale verso un accademico fare storia”[600]. Fu proprio da quell’esperienza che nacquero “le premesse dirette della nascita della ‘Rivista’ (…), nell’insufficienza dell’attività giornalistica (nelle riviste di fotografia) per la costituzione di un sapere storico senza il quale la stessa attività critica, o anche soltanto informativa, mi appare assai aleatoria.”[601] Affermazione forse un poco ingenerosa nel merito, considerando i contributi sparsi ma certo non secondari di Racanicchi e Zannnier, per non dire di Gilardi e Settimelli, ma per altri versi interessante perché ribadiva  a più di un secolo di distanza  le opinioni espresse dai primi manualisti italiani  come  G.V. Sella a proposito della necessità ineludibile di conoscere la storia per comprenderne gli esiti culturali[602]. Quello era il contesto nel quale prese forma l’intenzione di realizzare la “Rivista”, diretta da un giornalista critico teatrale e cinematografico che aveva una concezione articolata e complessa delle vicende storicamente  connesse alla fotografia, e che si dichiarava insoddisfatto della storiografia di settore quanto della scarsa considerazione che gli storici più accreditati riservavano alla fotografia[603]. Nella Nota per il lettore che apriva il primo numero si esplicitavano le linee programmatiche: “Ciò che recita questa testata, Rivista di storia e critica della fotografia, non è un’affermazione, ma l’indicazione di una prospettiva, di un’ipotesi di lavoro. (…) Contrariamente a quello che molti credono, o si possa credere, l’arcipelago fotografia non ha isole privilegiate. (…) una ipotesi di lavoro che non intende rinchiudere i problemi posti dalla produzione, uso e consumo delle immagini fotografiche nel ristretto campicello della specificità,  al contrario propone (cercando di offrire degli esempi concreti) di sottoporre le fotografie al setaccio di griglie diverse, dalla psicologia della percezione all’economia, dalla teoria dell’informazione alle scienze sociali, dalla tecnologia alla storia dell’arte, tanto per fare alcuni esempi. Sulla base di premesse del genere costruire una rivista non è facile e solo con il tempo si riuscirà ad arrivare a una scrittura non elitaria, a una omogeneità redazionale non di maniera, impersonale (che è quello che assolutamente vogliamo evitare). Intraprendere un cammino e anche accettare rischi nuovi, cercare e trovare interlocutori.”  Programma impegnativo e nobile, soprattutto inedito in quella forma per il contesto italiano e non solo dove le riviste di settore, rivolte a un pubblico prevalentemente fotoamatoriale, avevano pubblicato negli anni solo rari interventi di tipo storico, prevalentemente descrittivi,  mentre qui si proponevano approfondimenti analitici che connotavano ogni singolo numero monografico, con una attenzione equamente suddivisa tra temi legati alle situazioni di conflitto – dalla guerra al colonialismo – e questioni teoriche e storico critiche (sulla natura della fotografia; fotografia e ideologia latente; il tempo e le cose) offrendo in traduzione italiana contributi di autori importanti (Fontcuberta, Kossoy, Mandery, Von Waldthausen tra gli altri). Penso in particolare alla traduzione con testo a fronte del saggio di Rudolf Arnheim, On the Nature of Photography, tratto (ma senza indicare i necessari riferimenti bibliografici) dal primo numero di “Critical Inquiry”, nel quale si proponeva in abbozzo anche una possibile periodizzazione della storia della fotografia, articolata in due fasi: “il periodo iniziale durante il quale, per così dire, trascendeva la momentanea presenza degli oggetti ritratti a causa della durata dell’esposizione e dell’ingombrante attrezzatura; e la seconda fase, che ha sfruttato la possibilità tecnica di catturare il movimento in una frazione di tempo.”[604] Lo spunto non venne ulteriormente sviluppato da Arnheim né da altri interventi successivi, semmai più orientati (come del resto prometteva l’editoriale del primo numero) alla fenomenologia e psicologia della percezione, vale a dire agli svariati aspetti della comunicazione per immagini, con una predilezione per i rapporti tra fotografia e testo nella stampa periodica, sia storica che contemporanea.

La “Rivista” non ospitò testi specificamente dedicati a questioni storiografiche, che emergevano implicitamente dalla scelta e dalla strutturazione stessa di alcuni temi di indagine come dalla presentazione degli esiti di ricerca, ovvero costituivano brevi riflessioni comprese in saggi di ordine più circoscritto e specifico. Si vedano a questo proposito i paragrafi introduttivi del testo di Boris Kossoy dedicato a Hercule Florence  nel quale, in una prospettiva che allora si sarebbe detta terzomondista, richiamava la necessità di “una revisione e una discussione a proposito dei tradizionali approcci verso i modelli ‘classici’ della storia della fotografia. Chiaramente ciò sarà possibile solo nella misura in cui verranno alla luce nuovi contributi al tema, ampliando così la bibliografia storiografica esistente che, nella sua notevole proporzione, ha come scenario esclusivo gli episodi avvenuti nei grandi centri europei e statunitensi. La bibliografia esistente sulla storia della fotografia risente a tutt’oggi di una [mancata] discussione a livello del metodo, molto più che di una maggiore divulgazione della produzione storiografica realizzata in altri spazi. Soltanto in quest’ottica gli studiosi del campo potrebbero percepire meglio la traiettoria reale che la fotografia ha seguito durante il XIX secolo, con la massima attenzione nell’accogliere le nuove ‘rivelazioni’, per gli avvenimenti anteriori, pregni ormai di valori istituzionalizzali e consacrati dal sistema come veritieri e importanti.”[605]

Anche i contributi originali prodotti dal direttore e dai membri della redazione offrivano interessanti esempi di applicazione storiografica piuttosto che riflessioni squisitamente metodologiche. Basti considerare a questo proposito gli articoli pubblicati nel primo numero, dedicato a La guerra rappresentata[606] nel quale la produzione riguardante il primo conflitto mondiale venne analizzata nella molteplice prospettiva della “produzione, uso e consumo delle immagini fotografiche”,  con un implicito rimando ad alcune recenti riflessioni di Carlo Bertelli, poste in esergo al primo saggio, sebbene in forma imprecisa e – soprattutto -senza citarne l’autore[607]. Quel numero monografico, che di fatto inaugurava per l’Italia un filone di studi e iniziative particolarmente fecondo, si proponeva meritoriamente di analizzare le immagini della Grande Guerra da vari punti di vista, fornendo letture certo ancora imprecise[608] ma innovative, di fenomeni quali l’estetizzazione ideologica delle fotografie pubblicate sui giornali illustrati e nei fascicoli a dispense, i meccanismi di funzionamento della censura militare o la definizione antropologica e le funzioni degli anonimi autori delle migliaia di immagini che circolavano, giungendo alla conclusione – importante – che le fotografie come fonte per (fare) la storia dovevano essere considerate “nella loro estensione ‘quantitativa’, più che per la loro dimensione ‘qualitativa’.”[609]

Dopo gli incidenti di percorso del numero relativo al colonialismo[610], per la confezione di quello dedicato alla conquista italiana di “un posto al sole”[611] la direzione della rivista preferì rivolgersi a un gruppo di studiosi esterni e storici di professione, affidando a Giuseppe Papagno[612] il compito di definire i termini storiografici dell’utilizzo della fotografia come fonte per la storia (del colonialismo e non solo), mentre i saggi seguenti fornivano interessanti analisi dell’ideologia veicolata dalle varie forme illustrative di matrice fotografica: dalle cartoline alla stampa periodica, ribadendo ancora una volta che “basterebbe il dato quantitativo a far riflettere sull’importanza della fotografia in rapporto alla guerra: riflessione di cui non si trova quasi traccia nelle storie della fotografia interessate alla produzione dei grandi fotografi piuttosto che alle forme sociali di produzione, circolazione e consumo delle immagini”[613]. Una lacuna grave, specie considerando – come aveva indicato Jacques Le Goff[614] – che proprio l’analisi quantitativa poteva costituire uno strumento fondamentale per la costruzione di una storia delle mentalità, a cui partecipava di diritto anche l’impiego della fotografia nell’indagine etno-antropologica[615].  Nonostante la prevista cadenza quadrimestrale dall’ottobre 1980 al dicembre 1984 vennero pubblicati solo sei numeri, molti dei quali monografici[616], con testi prevalentemente in italiano e abstract in inglese, mentre le poche e brevi recensioni erano bilingue. Pur contando su 500/600 abbonamenti e sulla vendita diretta in una quarantina di librerie del centro nord Italia e sebbene la redazione lavorasse a titolo gratuito, così come gratuite erano le collaborazioni esterne, l’impresa risultò ben presto troppo onerosa per la casa editrice  e di difficoltà forse superiore alle poche forze redazionali. Così già il terzo numero non rispettò la cadenza di pubblicazione né si davano ai lettori garanzie che ciò non potesse accadere in futuro perché – nelle parole della redazione – “non siamo disposti a tralasciare  lo sforzo di offrire una serie di testi al meglio delle nostre capacità solo per arrivare puntuali all’appuntamento. (…) Perché questa storia particolare è ancora nel suo farsi: sempre che per storia della fotografia non sia da intendersi l’ormai solita scoperta, giorno dopo giorno, di un nuovo autore, l’esercizio delle attribuzioni di questa o quella fotografia, di una storia dell’immagine chiusa in sé stessa. Di poi, in Italia non siamo certo favoriti nella frequentazione dei fondi fotografici. E mancano pure, nel nostro Paese, i ricercatori di questa storia della fotografia e quei pochi che ci sono di lavoro sono oberati quand’anche collaborino, o meno, a questo periodico. Quello che quindi diciamo ai lettori è che se qualche ritardo, più o meno lungo, in futuro ci sarà, è perché vogliamo offrirvi un prodotto per mezzo del quale sia possibile far uscire la fotografia dal ghetto in cui, salvo rare eccezioni, è rinchiusa a metà tra la moda culturale e l’antiquariato.”[617]

Nel dicembre 1984, allo scadere di quella importante esperienza, la Nota per il lettore che apriva il sesto e ultimo numero dichiarava con la consueta chiarezza le difficoltà: “Fare una «rivista di storia e critica della fotografia» senza poter pagare redattori, collaboratori e corrispondenti, facendo leva sul  volontariato, è una impresa quasi disperata. Tutto diventa lento e ne  sanno qualcosa i nostri lettori. Comunque non demordiamo (…) Ecco cosi, con un rituale ritardo, rispetto alle scadenze che ci eravamo date, un nuovo numero della rivista dei più densi  tra quelli fino ad ora pubblicati. Uno solo dei saggi che seguono potrebbe qualificare qualsiasi rivista di fotografia e uno qualunque dei saggi qui proposti giustifica l’acquisto di questa rivista  (almeno cosi crediamo e così speriamo). Qualcuno magari ci potrà rimproverare di non concedere ai nostri lettori alcuna svagatezza: non abbiamo difficoltà a riconoscere l’eventuale rilievo. A ciascuno il suo. Da quattro anni, con questa testata, ci siamo fatti carico, forse sopravvalutando le nostre forze e le nostre cognizioni, della preoccupazione «che quando la fotografia entra in campo – come scrive Paolo Fossati – si parli sul serio, coerentemente di fotografia e sia chiaro su quali binari ci si muove, che cosa nasconde operare fotograficamente e che cosa può aiutare a capire». Non soltanto: ci siamo fatti carico di promuovere, con degli esempi nostri per deboli che siano, una storia della fotografia non più dilettantesca né più antiquariale. Ciò scritto, non vogliamo rivendicare primogeniture, non vogliamo spiegare quale debba essere la critica fotografica, non vogliamo indicare chi storico della fotografia è e chi non è; quelle che offriamo sono una sorta di sperimentazioni sul campo e ciò che chiediamo sono confronti, possibilmente rilievi con esemplificazioni circostanziate e dichiariamo che non ci piacciono, comunque, anonimi tiri a mitraglia.” L’ultima notazione doveva riferirsi a un commento di A.C. Quintavalle che l’anno precedente, nell’Introduzione alla sua raccolta di saggi[618] aveva affermato senza mezzi termini  che nel nostro paese “non esiste una rivista seria di storia della fotografia”, liquidando così senza appello questo esperimento tanto interessante quanto generoso.  La stessa Nota, pur richiamando difficoltà scientifiche e gestionali, non faceva però alcun cenno all’imminente  chiusura, nonostante tutto ancora non prevista né ipotizzata se a quella data erano in progetto ben tre nuovi numeri. La testimonianza offerta dal direttore alcuni anni più tardi  segnalava semmai un altro ordine di criticità a proposito della adeguatezza stessa del  “medium cartaceo per una rivista di storia. (…) Man mano che sviluppavo la mia riflessione – scriveva Schwarz – rilevavo tutti i limiti che poneva e pone una rivista di storia tradizionale: limiti nella elaborazione della ricerca storica stessa; limiti nella comunicazione dei risultati della ricerca; limiti nell’utilizzazione della ricerca. La linearità della scrittura e dei media librari e paralibrari è un ostacolo difficilmente superabile nei confronti di un universo complesso e quantitativamente esteso come quello delle immagini fotografiche.” [619] Nobile interpretazione di una vicenda dai risvolti molto più prosaici ma soprattutto formulazione di un’ipotesi certamente innovativa, che prospettava l’utilizzo dell’ipertesto su supporto informatico, prefigurando per certi versi il web 2.0  e i modi della Public History.  I ripetuti e (forse) non retorici richiami all’azione volontaristica e a una formazione inadeguata al compito  (“sopravvalutando le nostre forze e le nostre cognizioni”; “con degli esempi nostri per deboli che siano”) restituivano le incertezze e le giuste preoccupazioni  – non così comuni purtroppo – per quella condizione ancora inevitabilmente autodidattica che allora e ancora per lungo tempo sarebbe stata largamente condivisa dalla maggior parte degli studiosi italiani, a partire dallo stesso Schwarz che riconosceva come la sua formazione non fosse di storico (“tutt’al più sono stato un consumatore di testi di storia”),  per estendersi ai principali redattori, all’epoca insegnanti di scuola superiore o impiegati, che dopo la chiusura della “Rivista” non ebbero più modo di misurarsi con la storiografia o la critica fotografica. In quel quadro problematico andava intesa anche l’alternanza di numeri monografici e miscellanei, costituendo questi ultimi non solo un’occasione per offrire contributi considerati di un certo interesse ma anche, più pragmaticamente, un modo per garantire una ragionevole periodicità. Risulta infatti evidente che alcuni degli argomenti (Gioacchino Altobelli, “Camera Work”, Hercule Florence, Germaine Krull) rientravano perfettamente in quella “storia dell’immagine chiusa in se stessa” a cui intendeva opporsi il progetto culturale della “Rivista”, né fornivano impostazioni storico critiche tali da costituire un possibile modello storiografico alternativo, con la sola eccezione del saggio di Fontcuberta dedicato al “contenuto ideologico” del tardo pittorialismo di José Ortiz-Echagüe[620]. Nonostante i limiti del periodico, del resto ben presenti allo stesso Direttore, tra i quali, non ultima, una certa disinvoltura nel trattamento delle fonti e dei testi, la “Rivista” dimostrò, magari non nel merito ma fornendo un esempio possibile, che la fotografia poteva e doveva essere studiata facendo ricorso a tutti quegli  strumenti e modelli analitici e storiografici che costituivano  moneta corrente in ambiti più prossimi come il cinema o la storia dell’arte e per queste ragioni va considerata una realizzazione di rilevante importanza per la cultura fotografica italiana.

 

“Fotologia”

Commemorando Paolo Costantini a poco più di un anno dalla scomparsa[621], Italo Zannier ne ricordava i primi incontri sintetizzando le vicende che avrebbero portato alla pubblicazione di “Fotologia”: nella nuova testata, pubblicata  nel giugno 1984 dalle Edizioni Belborgo di Ravenna, erano  infatti confluiti i testi messi a punto per  “Fotografis, rivista di storia e cronaca della fotografia” (con un sottotitolo che conteneva un evidente rimando polemico all’impresa di Schwarz), l’organo dell’omonima galleria bolognese diretta da Alfredo Nesi e sul cui primo ed unico numero venne pubblicato il primo saggio di Costantini, all’epoca ancora studente[622]. Di quella “che non è una rivista”, come affermava perentoriamente Zannier nell’editoriale del numero due, ma un “Quaderno” (per i primi due numeri) e che sarebbe poi diventata una raccolta di  “Studi di storia della fotografia” (a partire dal numero 3/ 1985, con la nuova gestione Alinari) vennero pubblicati  24 numeri in diciannove volumi, essendo doppi quelli a partire dal 14/15,  datato primavera estate 1992, tutti in grande formato (in 4° dal n.2, che assunse la veste grafica e la strutturazione definitive) con riproduzioni in b/n e a colori di buona qualità, testi in italiano o in inglese e una ricca rassegna bibliografica.

Il primo numero, pur non ospitando esplicite note programmatiche (sostituite da una dedica alla memoria di Antonio Arcari, da poco scomparso), presentava già l’articolazione tematica a cui il periodico si sarebbe attenuto lungo tutto l’arco della sua non breve (almeno per il panorama italiano) vita: indagini storico critiche si alternavano a succinti portfolio di autori sia storici che contemporanei, offrendo spazio anche a interventi di ordine teorico e metodologico, ai quali in quella prima uscita  venne accostata l’utile riproposizione di tre interviste fatte da Zannier a Pierpaolo Pasolini, Leonardo Sinisgalli e Gio Ponti,  originariamente pubblicate nella rivista “Fotografia” negli anni 1959-1960[623].

Le ragioni del progetto vennero esplicitate nel successivo numero del 1985, richiamando la necessità di offrire “un contenitore aperto a studi e ricerche scientifiche soprattutto sulla storia della fotografia italiana, anche in connessione con altre discipline (…), un nuovo punto di riferimento per il dibattito sulla cultura fotografica in Italia; un luogo di incontro, al di là di ogni settarismo (…) una nuova occasione di scambio e di dibattito, per l’integrazione e il perfezionamento di queste ricerche, superando provincialismi e personalismi, non tanto in senso moralistico, ma per un lavoro più finalizzato e quindi proficuo.” Tale prospettiva era necessaria in un contesto in cui “regna il caos (nell’editoria, nelle esposizioni, nella scuola…); l’entusiasmo, la voglia di dire, di fare, di mostrare, di pubblicare dopo lo choc (e le polemiche) dovuti alle sia pure discutibili iniziative collegate alle megamostre e ai convegni di Venezia, Firenze e Modena del 1979, non hanno trovato certamente in questi anni una struttura culturale che potesse utilmente raccogliere e coordinare queste attività, spesso troppo enfatiche e dispersive, in un progetto generale di ricerca e di studio, a partire dal settore storico-filologico (…) che possa finalmente coinvolgere e mettere in contatto tutti gli studiosi di questo settore, che sono ormai parecchi e bravi, ma isolati, e offrire (…)  con i suoi ‘quaderni’ (…) il suo spazio concreto, senza discriminazioni che non siano quelle riferite alla qualità del lavoro, specie ai giovani, alcuni dei quali, dentro e fuori dall’Università, stanno affrontando con rigore scientifico l’affascinante settore di studi sulla storia e l’archeologia della fotografia, che in Italia ha anche il fascino della novità.”[624]

Analizzando i ventiquattro numeri pubblicati nel ventennio 1984-2003 (ma con una periodicità sempre più incerta a partire già del 1992[625]) si trova ampia conferma al proposito di dare spazio a “studi e ricerche (…) sulla storia della fotografia italiana”, in particolare sui protagonisti della fotografia del XIX secolo, con schede e saggi di maggior impegno e approfondimento[626], ma anche per quegli autori della scena torinese di primo Novecento, da Guido Rey a Riccardo Peretti Griva[627], che avevano fornito un contributo importante alla nostre vicende nazionali.  I legami con l’editore si manifestavano invece nella costante presenza di pagine dedicate alle nuove acquisizioni e all’attività di Alinari ed anche, in modo più indiretto, ospitando saggi che anticipavano ricerche in corso[628] quando non riproponevano materiali già editi per mostre e cataloghi, con modalità che traducevano in modo sin troppo estensivo l’intenzione manifestata dal presidente Claudio de Polo nell’ Editoriale del 1985. Poco spazio restava, per quanto riguardava la sezione storica di questi “Studi”, per le questioni squisitamente storiografiche cosi come per argomenti connessi quali la conservazione e il restauro o la descrizione di archivi e fondi istituzionali, sui quali si sarebbe invece orientata la rivista dell’Archivio Fotografico Toscano, mentre va ricordata la pubblicazione a partire dal 1989 di alcune pagine e degli indici del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, a cui nel n.12/1990 venne dedicato un breve saggio tratto dalla tesi in corso di Elvira Puorto[629].

Nell’ambito delle ricerche dedicate alla fotografia ottocentesca era però possibile riconoscere un filone privilegiato di studi, a cui non doveva essere estranea la forte connotazione produttiva degli Alinari ma da porre in relazione con la formazione e con il contesto universitario del gruppo redazionale[630]. Mi riferisco all’interesse per la fotografia di ‘documentazione’ della città, a cui Costantini dedicò importanti interventi relativi a temi  veneziani[631], derivati o connessi alle ricerche svolte per la propria tesi di laurea, come a quella d’architettura, analizzata nello specifico di singoli progetti o problemi, dalle tecniche di ripresa agli ambiti di applicazione[632], sempre intesi e letti in relazione al più ampio quadro culturale dell’epoca, restituito attraverso le posizioni di alcune figure paradigmatiche: da Pietro Estense Selvatico[633] a Corrado Ricci[634], Bernard Berenson e Aby Warburg[635]. A questi altri temi si affiancavano, altre occasioni di riflessione fondate su di un confronto serrato, analitico con materiali d’archivio, sia documentali che propriamente fotografici,  consentendo così di offrire agli studiosi inediti corpora di immagini e importanti occasioni di riflessione critica e metodologica. Non mancavano però interventi di ben diverso tenore,  che costituiscono oggi una testimonianza preziosa, un parametro di descrizione e di misura di quale fosse il livello delle conoscenze  e degli studi di storia della fotografia in quegli anni: basti ricordare l’affermazione di un collezionista e studioso molto attivo sulla scena italiana come Michele Falzone del Barbarò che in un breve saggio dedicato ad Alphonse Bernoud affermava che le immagini da lui presentate permettevano “di scoprire un genere fotografico: quello del paesaggio del tutto sconosciuto, almeno sin’ora, nei fotografi italiani delle origini.”[636]  Ciò che qui importa non è di provarsi a contestare quell’affermazione, palesemente infondata, ma appuntare la nostra attenzione sul fatto che potesse trovare ospitalità in una delle poche sedi qualificate allora disponibili in Italia, a testimonianza di quale fosse ancora – a un decennio dalle grandi iniziative del 1977-1979 – la condizione di grave incertezza e approssimazione di una cultura fotografica che si mostrava scarsamente dotata di strumenti e conoscenze storico critiche. Sarà stato forse per questi limiti che molti dei contributi più strutturati, e non fosse che per questo più interessanti, provenivano da vari ambiti che avevano relazioni strette con la fotografia e le sue pratiche. Penso alla lettura antropologica offerta da Francesco Faeta[637] dell’opera di un autore come Wilhelm von Gloeden, già allora tra i più studiati[638], che allontanandosi dai più ovvi riferimenti all’iconografia pittorica ne interpretava l’opera alla luce dei “rapporti intercorrenti tra aristocratici e popolo” e in particolare considerava la tematica “dell’immagine delle classi subalterne, così come scaturisce dall’elaborazione colta”  come “espediente di socializzazione [nel contesto di una] economia politica del desiderio”, così che il percorso di Von Gloeden poteva essere sintetizzato nel passaggio “da un’ottica puntigliosamente verista (…) attraverso passaggi successivi, alla logica del desiderio.”

In altri casi potevano essere gli esiti di un progetto di catalogazione a fornire l’occasione per riflessioni di ordine metodologico e storico critico, affrontando il tema  nodale della riedizione di matrici d’epoca, indagando i problemi teorici insiti nel recupero del “fascino di una pratica fotografica quale momento di cultura tecnico-scientifica non disgiunta da una manualità che avvicinava il fotografo alla tradizione lunga dell’artigiano (…) alla ricerca di una consonanza che consenta di indovinare il gesto del fotografo, di spiarne i passi che hanno portato al risultato finale, la relazione non mediata con l’emergere dell’immagine.”[639] Riflettendo sui termini e sul significato di un’operazione che altri avrebbero poi affrontato riducendo l’approccio filologico alla risoluzione di aspetti eminentemente tecnici[640],  si cercava di definire lo statuto di quelle immagini ricavate da una matrice autentica[641] ma secondo una “storia di produzione” non prevista né (inevitabilmente) gestita dall’autore e pertanto dotata di una notevole dose di arbitrarietà. Ricorrendo ai modelli teorici forniti da Nelson Goodman e dalla semiologia si riconosceva così la doppia esistenza dell’immagine fotografica, allografica/autografica in misura inversamente proporzionale alla concorrenza dell’autore. Per queste ragioni le stampe eseguite ex novo da antichi negativi non potevano essere – per mancanza di intenzione – né falsi né contraffazioni, ma non potevano essere neppure intesi come riproduzioni o duplicazioni; semmai occasioni per “una interpretazione dell’immagine, un intervento (…) operato sulla sua originaria disponibilità”[642], da non confondersi quindi (se non pericolosamente, appunto) con alcuna pretesa riproposizione ‘filologica’.

Ulteriori contributi di rilievo provenivano da incontri di studio, come il convegno di Cerisy-la-Salle del 1988 dedicato a Les Multiples Inventions de la Photographie[643], a cui aveva partecipato Zannier, nel corso del quale A.D. Coleman era intervenuto a proposito di Rationalism and the Lens, considerando l’influenza della lente sulla cultura occidentale e così proseguendo una riflessione avviata nel 1985. I due contributi dello studioso statunitense, Minestra di lenticchie: una meditazione sulla cultura della lente[644] e La lente: appunti di storia culturale[645], vennero poi ospitati nei numeri 12/ 1990 e 14-15/ 1992 di “Fotologia” pur senza indicarne né la sede originaria né la data di pubblicazione; per una cultura ancora subalterna come quella nostrana questi erano considerati aspetti di scarso rilievo, dei quali anzi neppure ci si rendeva conto; soddisfatti di poter accedere in comoda traduzione italiana a testi che inducevano alla riflessione, che mostravano quanto fosse necessario assumere il paradigma della complessità se ci si voleva provare a comprendere un sapere complesso come quello legato alla fotografia. Con Coleman si affacciava in embrione quel concetto  di storia culturale che tanta fortuna avrebbe avuto da noi ben più tardi; quell’idea che un elemento apparentemente tecnologico come la lente potesse invece essere più proficuamente inteso come un esempio di “tecnologia di definizione”, in grado di esprimere legami metaforici o concreti tra diversi ambiti: dalla scienza alla letteratura[646].

 

“AFT” 

Il 4 maggio 1985 venne presentato il primo numero di “AFT” semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano[647], il servizio istituito dal Comune di Prato e cofinanziato dalla Regione Toscana, nato nel 1980 per iniziativa di Arnaldo Salvestrini, Fernando Tempesti e Luigi Tomassini, tra i membri del comitato scientifico della mostra Alinari 1977[648], i quali ne avevano già illustrato una prima bozza costitutiva al convegno di Modena del 1979 “sullo slancio di mostre e di iniziative che si erano concluse con risultati più o meno soddisfacenti”, come scrisse Tempesti nell’editoriale.  Pur non potendo analizzare nel merito la ricca vicenda di “AFT”, va qui almeno richiamata la singolarità, e l’eccezionalità, di una iniziativa che si sviluppava all’interno di un servizio pubblico, discostandosi così – per logiche editoriali e propositive – dalle altre iniziative consimili ma nate da sforzi quasi individuali (come “RSCF”) o legate all’Università ma di fatto sotto la regia di una firma commerciale (come “Fotologia”). Scopo del periodico era quello di “proseguire e affiancare il programma dell’Archivio dal quale prende il nome” attraverso il duplice strumento dell’immagine e della parola, vale a dire “ privilegiando la presentazione, senza dogmatismi e chiusure, di quei fondi che fanno già parte dell’Archivio”, ma anche “puntando a una problematizzazione, non astrusa ma incalzante, di quella che è la complessa tematica che lentamente si viene delineando intorno alla fotografia. In queste prospettive, tanto modeste che rasentano l’ambizione, questo primo numero della rivista si propone come un avvio, come un punto d’inizio e un invito al più sommesso livello.” La composizione del sommario prevedeva “una tripartizione grosso modo così articolata: una prima parte dedicata all’archiviazione, con tutto ciò che essa comporta (…); una seconda parte dedicata alla storia della fotografia in senso lato; una terza parte dedicata più in generale ai problemi del dibattito sulla fotografia e del lavoro culturale sulla fotografia.”[649] Vale a dire catalogazione e conservazione; soprattutto quest’ultima. Temi di storia e storiografia della fotografia, specialmente in relazione con aree di studio quali la storia sociale e la storia dell’arte o l’antropologia, che si ponevano quali posizioni (e i filtri, anche) da cui considerare le fotografie e -forse – la fotografia. Una parte altrettanto rilevante e in molte occasioni prevalente sino a connotare monograficamente un numero era dedicata a fondi o materiali dell’Archivio, presentati nel loro contesto di produzione piuttosto che studiati dallo specifico punto di vista fotografico, con un lavoro storico critico che privilegiava gli insiemi archivistici piuttosto che le singole opere o gli autori.

A quel profilo corrispondeva un altro elemento fortemente connotativo che distingueva nettamente “AFT” da ogni altra simile esperienza:  la distonia – in molte pagine radicale e quasi straniante – tra testi e immagini, costituendo le seconde non l’argomento del discorso dei primi ma un percorso indipendente di presentazione del Fondo considerato in quel determinato numero, mentre per i testi di diverso argomento semplicemente non era previsto nella più parte dei casi alcun corredo di immagini, ciò che si configurava come una scelta certo legittima ma piuttosto discutibile per un luogo in cui si intendeva riflettere intorno alla fotografia[650].

Dal n. 9/ 1989,  a segnare la crescita del numero di studiosi e dell’interesse del pubblico per la “storia della fotografia e i problemi connessi” alla testata venne aggiunto il sottotitolo di “Rivista di Storia e Fotografia”,  a indicare una prospettiva di metodo orientata al confronto pluridisciplinare, poi esplicitata nell’editoriale del numero 19 (giugno 1994): “L’attenzione per la fotografia da parte di “AFT” (…)  si colloca in quel territorio non privo di ambiguità e di incertezze, ma stimolante per i problemi che pone, dove l’interesse per la fotografia in senso stretto convive con l’interesse per le discipline con le quali la fotografia entra in contatto e collabora in ragione dei contenuti che esprime. Tra queste, prima su tutte la storia (…) Le ambiguità e le incertezze alle quali precedentemente si alludeva non riguardano ovviamente l’individuazione del territorio, che anzi è chiara, ma il modo di discuterlo e di farne tema; e questo per oggettive difficoltà a cogliere la sottile linea che discrimina e distingue la fotografia dalle discipline contigue, rendendola nella sua specificità di contenuti e di metodo. Può succedere che a proposito di fotografia e storia o fotografia e antropologia o altro ci troviamo a registrare come molto si parli di storia o di antropologia, poco di fotografia.”[651] Dichiarazione di apprezzabile problematicità ma espressa in modo non sufficientemente definito, poiché la linea sottile non poteva certo essere quella che distingueva in sé, poniamo, la fotografia dall’antropologia (ciò che pare semplice anche ai più esperti), ma semmai quella dell’uso e delle relazioni con e tra i vari ambiti. Né pareva che quella difficoltà a parlare di fotografia potesse essere giustificata, come si faceva nella stessa occasione, riconoscendo “analoghi equivoci e incertezze (…)  anche a proposito della storia della fotografia dove, a motivo di una non ancora ben individuata e definita identità dell’oggetto e del metodo, le fotografie sembra facciano spesso da illustrazione a un più generale discorso sulle tecniche, sulla diffusione del mezzo e sulla pratica fotografica. Riferita ad ‘AFT’, e all’Archivio,  la scelta appena esposta ha un suo motivo che deriva dal convincimento che alla fotografia spetti, oltre il momento tecnico e formale, una specifica funzione di conoscenza che si configura come modo di entrare in contatto con il reale che ci circonda e ci riguarda. Il problema, e conseguentemente l’obiettivo, è di saper cogliere la specificità nella forma di questo contatto, alternativo o complementare al discorso (…).”[652]  La riflessione intorno a questi temi cruciali venne ripresa nell’editoriale del successivo n. 21  (1995) affrontando il problema del contesto e dei materiali, “intendendo con questi le fonti bibliografiche, qualsiasi altra testimonianza e, naturalmente, le fotografie”.  Un tema che si andava “sempre più imponendo all’attenzione degli storici della fotografia; e di tutti quegli studiosi che della fotografia si occupano e se ne servono nei rispettivi ambiti di ricerca. Tutto questo a testimonianza del crescente interesse per la fotografia come documento, ma anche della riconosciuta necessità di una consapevolezza metodologica sempre più lucida e analitica. Di contro alla tendenza ‘volgare’ di vedere nella fotografia essenzialmente una ‘illustrazione’ buona a far da ‘contorno’ a qualcosa di scritto oggi sono sempre più numerosi gli studiosi e non solo gli storici che mettono la fotografia al centro di una loro ricerca, come si dice, a tutto campo: ricerca che va di pari passo con quella di una rigorosa metodologia di studio. In questo senso si può incominciare a dire che, pur con qualche lentezza, l’approccio filologico-esegetico, tradizionalmente riservato ai testi letterari, ai documenti d’archivio e ai monumenti della storia dell’arte, si va applicando anche alla fotografia.”[653]  Tracce di quelle incertezze, di quelle oscillazioni metodologiche emergevano dai vari numeri  come un fenomeno carsico; così a un uso  delle fotografie come occasione e strumento ma non come elemento sostanziale di etnostoria[654] si alternavano su quelle pagine interventi di grande lucidità interpretativa, quali l’analisi comparata delle fotografie realizzate da Paul Scheuermeier, condotta da Giovanni Contini con i metodi della storia orale, a partire anche dalla considerazione – fondamentale e solo apparentemente scontata – che l’analisi non poteva (e non può) che derivare dalle “immagini e dalle informazioni che già avevo interiorizzato prima di vederle, e che avevo ricavato dalla mia personale esperienza”[655].

Lo sguardo lungo condotto sull’insieme delle annate di “AFT”[656] fa però emergere un numero considerevole di casi in cui l’argomento delle fotografie pubblicate costituiva poco più che un pretesto per la pubblicazione di ricerche che di quelle stesse immagini tenevano poco o nulla conto [657], sino al paradosso (tutto editoriale) di corredare con fotografie un saggio che esplicitamente, metodologicamente direi, si proponeva di analizzare il funzionamento narrativo di un testo volutamente privo di illustrazioni[658]. Certo questi che ora paiono elementi quanto meno di disequilibrio derivavano dalla volontà di valorizzare i materiali costituenti i numerosi fondi acquisiti in originale o in copia dall’Archivio Fotografico Toscano, ma ciò di cui si percepiva e pativa la mancanza era proprio la messa a disposizione di strumenti metodologici per la loro comprensione e il loro trattamento storiografico: mi riferisco ai casi per me emblematici dei numeri 9/1989 e 36/ 2002 dedicati alle fotografie di due famiglie borghesi, realizzate rispettivamente da Michele Cappelli e da Anna Müller Paoli. Ciascun insieme, a sé preso,  costituiva un ottimo esempio di costruzione su scala temporale dell’immagine di un nucleo familiare realizzata al proprio interno, anzi, da uno solo dei suoi membri,  ma non  poteva essere questa la sola ragione che ne giustificasse la pubblicazione. Come le immagini di Cappelli nulla avevano a che vedere con il suo ruolo di pioniere dell’industria fotografica italiana così quelle della famiglia Paoli non potevano essere sbrigativamente (e generosamente) considerate un “raro e prezioso esempio (…) di home made communication [659], lasciando poi tutto lo spazio redazionale alle ricche interviste e memorie che ricostruivano la vita di quella famiglia pratese. Rispetto a quello che fu uno degli ambiti di maggior interesse e di più consueta indagine, quello dei fondi e degli album di famiglia, la posizione espressa dai contributi pubblicati nel corso di più di un ventennio da “AFT” sembrava non essere né coerente né aggiornata rispetto alle ben  più avanzate posizioni espresse in certi editoriali programmatici. Era sin troppo ovvio che non potevano essere le varie vicende familiari a rappresentare il nucleo di interesse degli studiosi al di fuori dell’ambito locale, costituendo semmai ciascuna di queste una delle possibili e concrete variazioni sul tema del rapporto tra famiglia e fotografia; variabili socialmente (e magari nuclearmente) connotate di un fenomeno che poteva essere indagato solo affrontando un’analisi comparativa che consentisse di individuare eventuali ricorrenze e mutazioni rispetto alle distinte tipologie di cui le stesse annate della rivista fornivano così ampia esemplificazione. Era questo un grave limite di molti interventi di argomento genericamente etnografico ospitati da “AFT”: quello di individuare e poi ancorare – sebbene  non fosse poca cosa – ciascun nucleo di immagini al contesto e alla sua storia di produzione, ma considerandolo poi quasi come una monade, senza allargare lo sguardo intorno alle migliaia di altre immagini analoghe e tipologicamente fungibili; senza provarsi cioè a indagare le ragioni di certe costanti rappresentative, anzi riconducendole, e riducendole anche ogni volta a un loro ristretto particulare. Altro elemento di forte contraddizione e quasi di equivoco, del resto perfettamente corrispondente alle condizioni sopra descritte, fu la scarsa considerazione critica per le valenze e le modalità narrative degli album in cui quelle erano comprese, dai quali venivano estrapolate per la pubblicazione singole immagini, selezionate secondo criteri mai esplicitati e quindi arbitrari, negando così la funzione fondamentale dello stesso oggetto per il quale si manifestava interesse[660]. Notevoli indicazioni e spunti di riflessione si potevano ritrovare invece nei contributi che nel corso degli anni vennero dedicati al rapporto tra guerra e fotografia, nel quale possiamo comprendere,  con una certa strumentale arbitrarietà, anche i testi dedicati a temi coloniali[661] (già considerati a suo tempo anche dalla “RSCF”), a cui accostare in un progressivo allargamento del cerchio, quelli relativi al postcolonialismo africano[662] e alla contemporaneità, in quello sforzo collettivo di “verificare l’impatto della fotografia nella società” esemplificato da Tomassini in un ampio contributo dedicato alla diffusione della fotografia pornografica in Francia e in Italia comparso sul secondo numero di “AFT”[663] e proseguito poi, oltre che indagando i rapporti già segnalati tra guerra e fotografia, con una serie di interventi relativi alla Società Fotografica Italiana[664] e agli Alinari[665]; occasione ulteriore per constatare come purtroppo “gli studi più approfonditi sono stati compiuti sul versante della storia dell’arte, del rapporto della fotografia con la storia dell’arte, mentre meno sviluppati sono gli studi sull’impatto più generale sulla cultura, sui modi di vedere e percepire”[666]. Un limite che era espressione e conseguenza della breve e ancora incerta storia italiana di questa disciplina.

 Il bilancio dell’esperienza di questi periodici, pur nei limiti e contraddizioni che si è cercato di rilevare (che erano quelli della cultura italiana coeva intorno alla fotografia) non può che dirsi largamente positivo sia per la funzione di stimolo svolta nel confronto dello sviluppo degli studi in Italia, sia per  i suggerimenti o gli orientamenti metodologici forniti. Pur nelle palesi diversità di approccio e, ancor più, nella differente coerenza di impostazione che ha caratterizzato ciascuna di quelle iniziative, l’indicazione che le accomunava tutte riguardava il riconoscimento della fondamentale necessità di  uscire dagli ambiti angusti dello specifico per considerare la fotografia e la sua storia in relazione ai vari contesti, quindi alle diverse culture – non solo  disciplinari – in cui essa di volta in volta si era o era stata collocata. Una indicazione questa che andava messa in relazione se non proprio fatta derivare dalle posizioni espresse da Giulio Bollati giusto in apertura degli “Annali” einaudiani del 1979, poiché quei  periodici si proponevano  di andare oltre quella  “zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”[667] Era cioè indispensabile che quelll’effetto si tramutasse in riflessione metodologica e poi storiografica, vuoi proponendosi  di “scrivere non di storia della fotografia, e nemmeno di storia attraverso la fotografia, ma di storia e fotografia” (“AFT”)  vuoi privilegiando “studi e ricerche scientifiche soprattutto sulla storia della fotografia italiana, anche in connessione con altre discipline” (“Fotologia”), vale a dire sottoponendo “le fotografie al setaccio di griglie diverse, dalla psicologia della percezione all’economia, dalla teoria dell’informazione alle scienze sociali, dalla tecnologia alla storia dell’arte, tanto per fare alcuni esempi.” (“RSCF”).

 

 

La fotografia e le arti: studi sul Novecento

 

La serie di mostre del 1979 aveva fornito un quadro sintetico delle conoscenze relative al  primo secolo di fotografia italiana, ulteriormente approfondite nel saggio redatto da Marina Miraglia per la “Storia dell’Arte” einaudiana. Restava invece in gran parte da conoscere e approfondire il Novecento, in particolare l’arco compreso tra le due guerre mondiali, rispetto al quale i contributi del decennio precedente e i saggi di Bertelli e Bollati avevano fornito solo alcune prime indicazioni e suggestioni, per quanto utili e feconde. Poco altro risultava allora disponibile[668]: i primi studi di Giovanni Lista sui rapporti tra futurismo e fotografia; le monografie dedicate ad autori impegnati ben oltre lo specifico fotografico (Boggeri, Grignani, Veronesi); la riscoperta di Giuseppe Pagano fotografo e non ultimi, di minor peso ma di ben maggiore diffusione, i supplementi de “Il Diaframma -Fotografia italiana” dedicati ad alcune figure centrali del nostro modernismo. Nel nuovo decennio presero corpo una serie di progetti espositivi che si proponevano di indagare alcuni degli elementi cruciali della scena artistica e culturale italiana dei primi decenni del XX secolo (il Futurismo, gli anni Venti, gli anni Trenta) e che divennero  occasioni per collocare e studiare contesti nei quali ruoli, funzioni e presenza della fotografia erano ormai incommensurabilmente distanti da quelli espressi dalla cultura ottocentesca e oltre, fino alle prime manifestazioni del pittorialismo.

Forse per la prima volta in Italia, la fotografia venne ospitata all’interno di una grande mostra monografica d’arte in occasione dell’esposizione dedicata alla Metafisica, aperta alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel maggio-agosto 1980, per la cura di Renato Barilli e Franco Solmi.  L’intervento di Zannier, curatore della sezione, si  limitava però più prudentemente e correttamente a parlare di “fotografia in Italia negli anni Venti”[669] invece di analizzare possibili nessi e relazioni col movimento rappresentato da De Chirico e Carrà; anzi riconosceva in apertura che “la nostra produzione fotografica rivela, quasi un test proiettivo, il provincialismo, la confusione ideologica, il sottosviluppo culturale del nostro territorio, specialmente nel periodo tra le due guerre, quando senza vie d’uscita, siamo penetrati nell’oscuro imbuto del fascismo”, mentre “negli anni che hanno preceduto il primo conflitto mondiale vi furono episodi di rilievo nella storia della nostra fotografia, sia nel settore giornalistico (Luigi Barzini, Luca Comerio …) che in quello sperimentale (il ‘fotodinamismo’ dei fratelli Bragaglia); ma non vennero considerati con sufficiente attenzione e convinzione.” “Neppure il ‘secondo futurismo’ – proseguiva lo studioso – promosse una seria ricerca sul segno fotografico e si dovette attendere sino al 1930”  la redazione del Manifesto di Marinetti e Tato poiché, infine, “nessuna alternativa [era] possibile all’artigianato e al pittoricismo (…) perché la fotografia, quando non è fascista (…) è borghese, stereotipata, convenzionale.” Riprendendo una lettura del fenomeno già avanzata da Giuseppe Turroni[670],  Zannier considerava il mondo fotoamatoriale rinchiuso su se stesso e non solo: “culturalmente reazionari, i fotografi rimangono invischiati nel miele del romanticismo di maniera e si soffermano in inutili diatribe.” Da quel desolante panorama si salvavano solo alcuni (Achille Bologna, Cesare Giulio, Stefano Bricarelli, Alfredo Ornano, Mario Bellavista e pochi altri) senza provarsi poi a  comprendere dove si fosse formata la loro diversa cultura visiva se molti di questi – come i torinesi -erano legati a una rivista come “Il Corriere Fotografico”, che poco prima era stato tacciato (non senza una qualche ragione) di promuovere una “fotografia che sfiora costantemente il kitsch ed ha come modello Fontanesi, Segantini, Corot, Turner [sic], piuttosto che De Chirico o Morandi.” Secondo Zannier solo alcune figure di proto-reporter come Adolfo Porry-Pastorel e qualche rappresentante del nascente fotogiornalismo, nonostante la ferrea censura fascista, indicavano allora direzioni nuove della pratica fotografica, mentre uno spazio innovativo – come aveva già indicato Antonio Boggeri nel 1929 – era offerto dall’utilizzazione delle fotografie nella grafica e nella pubblicità, sottraendole “all’edonismo del ‘fotografo-artista’ ”, ma anche qui “il regime accolse benevolmente il geometrismo dei fotografi modernisti” poiché di fatto “non esisteva una fotografia clandestina”; ciò che ancora oggi pare essere un dato indubitabile.  Un testo più politico che storico critico, che solo a grandi linee si soffermava ad analizzare le modalità espressive, a comprendere influenze e derivazioni per provare a dare conto di atteggiamenti e (mancati) ruoli sociali. Una condanna senza appello che certificava una distanza incommensurabile della fotografia italiana dalla cultura visiva internazionale, magari dalla cultura tout court, confermando forse involontariamente un secolare pregiudizio.

Di taglio più compiutamente critico l’intervento di Claudio Marra che apriva con due lunghe citazioni parallele di De Chirico e Proust per riflettere su cosa “può esserci di comune tra la poetica della metafisica e la poetica della fotografia nel suo complesso”[671], secondo una prospettiva “culturologica” qui preferita al “confronto tra metafisica e fotografia, la strada fiscalissima della ricerca di punti di contatto e di vicinanze, esclusivamente espressivo-formali. (…) Tale strada si dimostra però subito impraticabile, se non altro perché come indiscutibilmente ci fanno capire gli autori presenti in mostra, la ricerca di quegli anni, in Italia, seguiva tutt’altre direzioni. In più imboccando tale strada di confronti formali, si rischierebbe subito di incappare nel classico errore di chi  piega le ragioni di un settore debole (la fotografia) a quello di un settore forte (la pittura).”[672]