Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Vedere barocco (2020)

Vedere barocco

 

“Una cosa finalmente piacemi ancora si avvertisca, 

ed è proprietà essere naturale de' raggi, come egli è di tutti i fluidi, 

il mutar continuamente e successivamente figura 

nell’allontanarsi che fanno del luogo onde si partono, 

tendendo sempre ad annullare gli angoli, e le acutezze della loro figura, 

e così ad accostarsi continuamente 

vieppiù al tondo, vale a dire al conico, o al cilindrico” 

Bernardo Antonio Vittone, 1760

 

 

 

 

“La fotografia – scriveva  André Bazin nel 1945 – portando a compimento il barocco, ha liberato le arti visive dalla loro ossessione per la somiglianza”[1], ma oggi potremmo dire che di quella stessa ossessione anche la fotografia si sia liberata,  ovvero,  per dire meglio, che l’abbia trasformata in una condizione più complessa della semplice relazione di analogia, dove l’accezione convenzionale di copia o riproduzione, l’intenzione documentaria infine ha progressivamente assunto un significato diverso, più interpretativo e narrativo, senza mai rinunciare però alla necessità ontologica del rapporto col referente. Generalizzando ciò che in altro contesto ebbe a scrivere Minor White potremmo dire che “La sottile linea elastica tra realtà e fotografia è stata tesa inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno abbandonato il mondo delle apparenze perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’apparecchio, la sua autenticità. (…) La trasformazione del materiale originario in realtà fotografica è stata applicata in modo mirato; la stampa è stata manipolata per influenzare l’asserzione; (…) Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente”[2].

Questo progressivo mutare di intenzioni nel rapporto tra soggetto fotografante e oggetto fotografato risulta particolarmente evidente se consideriamo l’ambito della fotografia di architettura, qui esemplificato seguendo le alterne vicende della fortuna fotografica di alcuni  edifici barocchi piemontesi.

Un viaggiatore attento come  Jérôme de la Lande, giunto a  Torino nel corso del suo “Voyage en Italie” del 1765-1766, aveva espresso (pur con qualche riserva) una sincera ammirazione per le architetture guariniane  come  la Cappella della Sindone –  considerata “la più bella chiesa di Torino” nonostante quella sua cupola “di costruzione  assolutamente singolare, si potrebbe quasi dire stravagante[3] –   o Palazzo Carignano, “un grande edificio la cui  facciata, sebbene di mattoni, ha un aspetto gradevole e maestoso”[4]. Quando però la fotografia si aprì al racconto delle architetture e degli spazi urbani,  l’opinione dei colti (cioè dei primi acquirenti di quelle stesse fotografie) viveva ancora delle feroci considerazioni di matrice neoclassica che avevano bollato il Barocco come “corruzione (…) di ogni ragionevole architettura”[5],  prolungando una sfortuna critica che si sarebbe mantenuta ben salda oltre l’inizio del Novecento, specialmente in Italia dove il recupero operato in area germanica, da Gurlitt  a Wölfflin, da Schmarsow a Riegel, tardava a dare i propri frutti[6].

 

Fotografare monumenti

 

Le più precoci tracce di un’attenzione, per quanto incerta, per le manifestazioni dell’architettura barocca in Piemonte si ritrovano nelle pagine di alcune guide o nella veduta al dagherrotipo (invertita) del lato nordoccidentale della Piazzetta Reale a Torino, realizzata da Enrico Federico Jest l’11 ottobre 1839,  a pochi giorni di distanza dalla prima e più nota ripresa della chiesa della Gran Madre di Dio (8 di ottobre),  con le cupole di San Lorenzo e della Sindone che inevitabilmente emergono dalla cortina edilizia[7]. Come scriveva Felice Romani, che ebbe l’opportunità di assistere a quelle prime “prove di questo mirabile dramma della fisica moderna (…) Al debole lume di una candela noi spiammo a traverso del vetro (…) e in meno di due minuti la superficie metallica, poc’anzi nuda ai nostri occhi cominciò a improntarsi di visibili forme (…) la cupola di San Lorenzo sorgeva colla sua rotonda, coi suoi compartimenti, colle sue finestre (…) e l’estremità della piazza del Castello, dall’angolo di Doragrossa fino a quello che mette al palazzo reale, appariva con tutte le sue proporzioni, con tutte le sue case (…).”[8]   Non dissimile l’inquadratura di una successiva ripresa di Giuseppe Venanzio Sella (fig.1), realizzata su lastra all’albumina nel luglio del 1853, contemporaneamente al lato nordorientale scorciato sulla facciata juvarriana di Palazzo Madama: due riprese che facevano (quasi) panorama e si inserivano in una serie che comprendeva anche Piazza San Carlo, il Castello del Valentino e quello di Racconigi[9].


1 – Giuseppe Venanzio Sella, Torino: Palazzo Reale e Palazzo Madama, luglio 1853, in: Ormezzano 1923, p. 134.

 

Un  significativo insieme di ambienti ed edifici ‘barocchi’, certo, ma qui scelti per il loro valore simbolico e dinastico, non per le loro specifiche (sebbene eterogenee) valenze architettoniche. Ancora più labili testimonianze si ritrovano nel piccolo nucleo di dagherrotipi realizzati da Frederick Crowley con John Ruskin nel corso della loro tappa torinese dell’estate del 1858, che oltre ad alcune vedute di  Strada Doragrossa (ora via Garibaldi), estensione barocca del decumano maximo, comprendevano un’ulteriore veduta della Piazzetta Reale con le cupole guariniane di San Lorenzo e della Sindone in secondo piano, mentre di Palazzo Madama venne preferito l’assetto medievale[10]. Analoga fu la scelta adottata per la rappresentazione di questo edificio nelle tavole delle Excursions Daguerriennes[11], distinguendo nettamente lo “Château” medievale (fig. 2) dall’addizione juvarriana di “Palazzo Madama”; una soluzione che ritroviamo in un’altra ripresa del 1853 ancora di Sella e in quella sostanzialmente coeva di Ludovico Tuminello[12], allora esule a Torino, mentre Francesco Maria Chiapella illustrava le residenze sabaude di Venaria Reale e di Stupinigi[13]. A chiudere questo primo catalogo visuale di architetture barocche si sarebbero aggiunte di lì a poco Villa della Regina e Palazzo Carignano, compresi da Henri Le Lieure nel proprio Turin Ancien et Moderne del 1867 (fig. 3).

 

2 – Vogel (incisore), Château delle Torri à Turin, 1842, incisione da dagherrotipo, in: Lerebours 1842, f. 108

 

 

3 – Henri Le Lieure, Palais Madame, 1867, in: Falzone del Barbarò 1987, t. V

 

A considerare il trattamento che questi autori riservarono a quegli edifici si conferma l’intenzione di restituirne il valore politico e urbanistico di emergenze monumentali, indifferenti alla specifica connotazione ‘stilistica’. Così ancora nel corso della campagna promossa dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1878, ma realizzata quattro anni più tardi da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per incarico della Regia Commissione conservatrice provinciale dei monumenti, si sarebbero privilegiate le testimonianze romane e specialmente medievali, citando della lunga stagione barocca la sola basilica di Superga, sede delle Tombe Reali di Casa Savoia, con un’ampia veduta generale. Un ulteriore caso di fotografia di monumenti, non di architetture.  

Solo un’isolata ripresa dello scalone di Palazzo Madama realizzata dal fiorentino Giacomo Brogi verso il 1875 rivelava una prima specifica attenzione per il tema.  Lo stesso Secondo Pia, il più importante amateur piemontese del periodo, meglio noto come autore della prima fotografia della Sindone nel 1898,  escluse con sistematico impegno le architetture barocche dalla sua meticolosa, pionieristica indagine fotografica del patrimonio storico piemontese condotta tra Otto e Novecento[14], e ancora il programma di riprese torinesi degli Alinari, effettuate sul finire del secolo (Sansoni [1898] 1987), avrebbe riconfermato l’attenzione per i soli interventi juvarriani: da Palazzo Madama a Stupinigi, mentre la successiva campagna di Brogi, pur restituendo il prospetto occidentale del palazzo lo qualificava come “costruito verso la fine dei XIII secolo”[15], certificandone così  l’invisibilità culturale (fig. 4).

 

4 – Edizioni Brogi, 3713, Torino: Palazzo Madama: costruzione del secolo XIII cadente, 1920 ca.

 

Anche a scala nazionale, non considerando sporadiche realizzazioni quali La Provincia di Terra d’Otranto di Pietro Barbieri del 1889,  che comprendeva i maggiori esempi di barocco leccese, il primo solido indizio di una inversione di tendenza si ebbe solo nel 1912 con la pubblicazione  di Architettura barocca in Italia di Corrado Ricci[16], un vero e proprio atlante con più di 300 fotografie realizzate dai maggiori studi italiani (Alinari, Anderson, Gargiolli-GFN, Moscioni). Dagli  stessi studi fotografici provenivano anche le immagini a corredo di Roma Barocca, primo titolo della “Collezione Italia” diretta da Antonio Muñoz (1919), con ben 355 illustrazioni in cui comparivano quasi per la prima volta[17]  immagini zenitali, utilizzate però non tanto per leggere le articolazioni spaziali (Alinari: San Carlino; Anderson: Cappella Paolina in S. Maria Maggiore) quanto per restituire gli apparati decorativi di volte e soffitti[18], mentre in termini più generali prevaleva,  in entrambe le opere, l’attenzione per la figurabilità urbana di quegli edifici, escludendo le più conturbanti sperimentazioni architettoniche condotte sull’articolazione degli spazi interni.

 

Fotografare architetture

 

Per quel che riguarda il Piemonte[19] fu la grande Esposizione In­ternazionale dell’In­dustria e del Lavo­ro che si svolse a Torino nel 1911 per celebrare il cinquan­tenario dell’U­nità a consolidare l’attenzione per le architetture barocche nel contesto del più ampio dibattito per la definizione di uno ‘stile nazionale’, assumendo qui più sottili valenze di orgogliosa rivendicazione di un’identità culturale sostitutiva dell’ormai superato modello neogotico di matrice sabauda, quello  che aveva portato alla realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino nel 1884. In quello stesso 1911 però, nel volume dedicato all’ex capitale del Regno di Sardegna, un importante storico dell’arte come Pietro Toesca, all’epoca primo titolare della cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna a Torino, condannava senza appello le opere di Guarini, “ch’ebbe in sorte d’innalzare alcuni dei più importanti edifici della città e di imporre ad essa, nei luoghi più frequentati, le linee uggiose ideate dalla sua stracca fantasia. (…) l’aspetto sgradevole delle sue fabbriche è aumentato dal cattivo modo di muratura (…) [che] è quasi ripugnante alla vista.”[20] Verdetto inappellabile, di marca settecentesca, che non poteva che contribuire  a mantener vivo quel pregiudizio che  (nonostante  le precoci attenzioni di Stendhal[21])  aveva indotto Jacob Burckhardt ([1855] 1952) a  lasciare ai margini del suo viaggio italiano Torino e l’intero Piemonte; quello che ancora nel 1931 avrebbe consentito a Brinckmann di affermare che “Il Piemonte, collocato alle porte d’Italia, fa ancora parte delle aree sconosciute del paese più conosciuto nella storia dell’arte.”[22].

Lo studioso tedesco aveva iniziato a frequentare questi luoghi[23]   nell’estate del 1914 in preparazione del saggio dedicato all’architettura del Sei e Settecento (Brinckmann 1919); testo che un gesuita antimodernista come Carlo Bricarelli avrebbe recensito sulle pagine del “Bollettino  della  Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, riconoscendo come “dallo studio dei monumenti barocchi di Torino e d’una parte del Piemonte, fatto sul luogo in persona, [l’autore] trae un prezioso accento di novità all’opera sua e argomenti non ispregevoli in conferma del suo modo di concepire lo stile barocco [e] grazie a questa giustezza di criterio il Piemonte viene a prendere nella storia dell’ architettura moderna, e precisamente dei secoli XVII e XVIII, la posizione che gli spetta, di primaria importanza addirittura.”[24]

 

5 – Giancarlo dall’Armi, 40 Torino – Palazzo Carignano – Guarini, 1915 ca..

 

Tra le fotografie pubblicate in quel volume comparivano anche due riprese[25] di Gian Carlo dall’Armi (fig. 5), uno dei più importanti e colti professionisti attivi a Torino nei primi decenni del Novecento[26], che aveva da poco edito i primi fascicoli della sua “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”; una serie avviata nell’anno dell’entrata in guerra e per questo quasi immediatamente interrotta. Il piano dell’opera, che prevedeva trenta cartelle monografiche con brevi introduzioni storico critiche affidate ad architetti e studiosi, si ridusse alla  pubblicazione dei soli primi fascicoli de Il Barocco Piemontese[27], ciascuno contenente una serie di stampe fotografiche, che costituivano l’esito di una scelta rigorosa, frutto di numerose varianti di ripresa progressivamente ravvicinate[28], caratterizzate da una composizione nitida e ordinata, sorretta da una magistrale sensibilità agli esiti della luce sulle superfici murarie, con rare eccezioni di scorci zenitali, come per la volta dello scalone di Palazzo Barolo (fig. 6); una soluzione di cui si sarebbe ricordato Augusto Pedrini mezzo secolo dopo nel fotografare la Scala delle Forbici di Palazzo Reale[29].

In quello stesso 1915 Giovanni Chevalley dedicava a  Benedetto Alfieri una sua conferenza alla Società degli ingegneri ed architetti di Torino[30], mentre  di poco successivo fu il primo studio su Bernardo Antonio Vittone (Olivero 1920), illustrato da numerose fotografie di professionisti e amatori torinesi, tra le quali si segnalano per la qualità degli esiti ancora quelle di Dall’Armi – che nella sua prima  serie aveva offerto solo esempi di architetture civili – dedicate alle volte della vittoniana chiesa di Santa Maria di Piazza[31], e quelle  di Giuseppe Ferazzino, il solo in quegli anni a tentare una veduta zenitale delle volte della Chiesa dei Santi Bernardino e Rocco a Chieri[32].  Nella generalità dei casi le altre riprese non presentavano novità di rilievo, tanto che le fotografie di Pedrini del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi[33] poco si discostavano dalle riprese Alinari del primo anteguerra[34],  senza arrischiare prospettive più ardite, senza veramente accettare il dialogo con le architetture fotografate.

 

6 – Giancarlo dall’Armi, 462 bis Torino – Palazzo Barolo –

Baroncelli – Fregi dello scalone, 1915 ante

 

Di quel rinnovato clima culturale che consentiva di guardare “alla architettura barocca (…)  in un senso prettamente storico, senza alcuna allusione dispregiativa” ovvero – come scriveva ancora Carlo Bricarelli (1921) – di “ricuperare i diritti civili”  di quello “stile” nonostante gli anatemi di Benedetto Croce[35],  fu testimonianza l’importante Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese che si tenne nel 1926 nelle sale del palazzo della Promotrice delle Belle Arti al Valentino. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e dallo stesso Chevalley[36],  presentava nella Sala X alcuni rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Dall’Armi e di Pedrini, impegnato in quegli anni a fornire il corredo fotografico degli studi che Augusto Telluccini dedicava all’opera di Filippo Juvarra (fig. 7).

 

7 – Augusto Pedrini, Torino – Palazzo Madama: atrio, 1926 ante, in: Telluccini 1926,  t.52

 

Lo studioso tributava “un meritato elogio [a Pedrini] che, con grande disinteresse e con grande amore e studio, mi ha coadiuvato eseguendo con vero senso d’arte le riproduzioni fotografiche usate per illustrare l’opera”[37].   Come già si è notato, a queste date il fotografo si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano verticale principale per conservare il parallelismo delle linee; anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse centrale ad un’altezza mediana: le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate. La fotografia era  ancora intesa come schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini i dinamici volumi barocchi, ridotti al più ragione­vole spazio bidimensionale di una forma geometrica piana (cerchio, ellisse, poligoni inscritti e circoscritti): quasi una normalizzazione tranquillizzante che rifiutava ogni deformazione esplicitamente anamorfica, espressionista.

A testimoniare un più generale mutamento del gusto fu una pubblicazione a larghissima diffusione come il primo volume della collana “Attraverso l’Italia” che nel 1930 il Touring Club dedicava  al Piemonte. La prima tavola fuori testo (fig. 8) , colorata in stampa, raffigurava l’interno di San Lorenzo e ne celebrava “l’ardita, originalissima cupola, la bizzarria dell’architettura che esclude ogni linea retta, la ricchezza e il buon gusto della decorazione, l’armonia delle luci e dei colori [che] ne fanno un capolavoro di grazia e di eleganza.”[38]  Accantonate e forse dimenticate le sprezzanti opinioni di Toesca, anche la nascente cultura di massa era pronta a celebrare queste realizzazioni riconoscendone il ruolo determinante nella definizione culturale del barocco sabaudo e del patrimonio architettonico nazionale.

 

8 – Autore non identificato, Torino: interno della Real chiesa di San Lorenzo, 1930, in: Touring Club Italiano 1930, All.1.

 

 

Vedere il barocco

 

Sviluppando le prime ricerche avviate nell’immediato anteguerra,   nel 1931 Albert Erich Brinckmann  pubblicava in soli 300 esemplari il Theatrum novum Pedemonti, unanimemente considerato il caposaldo della scoperta del  barocco piemontese, sebbene con una impostazione all’epoca molto discussa[39]. Uno studio che qui importa considerare specialmente per le scelte metodologiche e di poetica che guidarono la realizzazione e la composizione dell’apparato fotografico, sinteticamente ricordate dall’autore nell’introduzione al volume: “La comprensione  di una parte della storia dell’arte di quest’area culturale non è possibile senza un preliminare lavoro tecnico-giornalistico. In primis  le mie fotografie degli edifici, fotografie che ho raccolto nel corso di cinque viaggi in treno e in auto, da solo e spesso con difficoltà (…). Ciò che si può trovare presso gli studi fotografici commerciali è trascurabile. Non volevo illustrare ma semmai  chiarire un edificio. Oltre a una preparazione tecnica specifica, ciò comporta un  modo e una capacità di vedere particolari. Mi sono deciso a  realizzare numerose  riprese scorciate, e ravvicinate,  perché corrispondono all’immagine visiva e all’intenzione rappresentativa dell’architetto barocco. Con questo lavoro creativo mi auguro  di aver accresciuto la percezione visuale storico-artistica dei concetti spaziali e volumetrici del Barocco. (…) Come ho evitato quel genere di  abbellimento tipico  dei libri popolari di paesaggio, così mi sono anche guardato dall’adottare  quello stile ditirambico che seduce in modo ingannevole. (…) Il fotografo torinese Pedrini ha spesso esaudito richieste ambiziose.”[40]

9 – Albert Erich Brinckmann, Chieri – chiesa dei Santi Bernardino e Rocco: la cupola, 1928-1930,

courtesy Fondazione Torino Musei

 

La presenza di questo bravo professionista costituiva ormai una costante nell’apparato documentario dei primi studi sulle architetture barocche piemontesi, sebbene in questo caso contenesse oltre a quelle realizzate in proprio dallo studioso tedesco anche fotografie di autori diversi (e non dichiarati) quali Alinari, Dall’Armi[41] e Guido Cometto, risultando quindi più eterogeneo di quanto non ci si potesse attendere leggendo la prefazione. Così fotografie di impostazione più convenzionale e descrittiva[42] si alternano ad altre, dovute allo studioso,  nelle quali è ben riconoscibile l’adesione di Brinckmann ai dettami della “nuova visione” modernista, specialmente evidente nelle riprese scorciate del sistema voltato di San Bernardino a Chieri (fig. 9), poi reimpaginato editorialmente con un ardito taglio verticale rispetto all’originaria ripresa in formato quadrato[43]; in quelle di Santa Chiara a Bra o della torinese chiesa del Carmine ma anche in alcune riprese zenitali delle cupole di San Lorenzo a Torino, poi non utilizzate per la pubblicazione[44]. Scelte che influenzeranno non poco le successive riprese di un professionista locale come Paolo Beccaria, che adotterà un’esplicita composizione in diagonale per restituire la Scala delle Forbici di Palazzo Reale a Torino, verso il 1936 (fig. 10); uno scatto che va collocato nel novero della campagna fotografica commissionata da Vittorio Viale in preparazione della prima grande mostra del 1937 dedicata al barocco piemontese[45], purtroppo povera di fotografie del patrimonio architettonico, che pure “rappresentava il cuore concettuale della mostra”[46]. Non si può escludere che tale condizione dipendesse dalla  buona documentazione già disponibile nell’archivio fotografico dei Musei Civici, da poco istituito per volontà dello stesso Viale, ma resta il fatto che le rare  riprese architettoniche risultarono piuttosto convenzionali, con la sola, notevole eccezione di quella appena citata.

 

10 – Paolo Beccaria, Torino – Palazzo Reale: Scala delle forbici, 1935 ca.

 

Suggestioni di visione modernista si ritrovano anche nelle coeve riprese torinesi di Mario Gabinio, quasi un’indagine tipologica che lo faceva ritornare più volte sullo stesso soggetto, chiese e palazzi barocchi, porte e portali[47], alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta. Qui oltre al taglio dell’inquadratura grande attenzione era data ai valori luminosi dello spazio rappresentato, sovente ripreso in condizione di luce particolari, con ombre dense dalle quali emergono gli elementi strutturali, le sculture che a volte li animano e le decorazioni plastiche, come nelle  riprese dello scalone di Palazzo Graneri[48]; segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico che richiama quelle di Gio Ponti comprese nel suo Discorso sull’arte fotografica, pubblicato su “Domus” nel maggio del 1932, nel quale riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”[49]. Diverse intenzioni e modalità connotavano invece  altre sue riprese, come quella fortemente scorciata dell’invaso della cupola della Sindone (fig. 11), realizzata intorno al 1928[50]: qui riconosciamo l’intenzione di  definire un valore autonomo dell’immagine,  immediatamente debitrice delle suggestioni della “nuova visione”, tra costruttivismo e Bauhaus – note in Italia specialmente per la mediazione di Antonio Boggeri e delle riviste di architettura – che imponevano “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[51].

 

11 – Mario Gabinio, Torino – Duomo: cappella della SS. Sindone, 1928 ca.

 

 

Nel 1941 l’architetto Mario Passanti, già allievo e collaboratore di Giovanni Chevalley,  pubblicava sulla rivista “Torino” un saggio dedicato alla Real cappella della S. Sindone in Torino, corredato da un’interessante serie di fotografie di Riccardo Moncalvo (fig. 12) nella quale si riconoscono sia la cultura modernista del fotografo, che negli anni precedenti aveva già fornito prove interessanti misurandosi con alcune architetture contemporanee, sia l’adesione alle accorte indicazioni di regia dell’architetto, ben riconoscibili nel confronto tra restituzione grafica e fotografica di alcuni elementi quali il tamburo, o nell’insistere sui dettagli dell’articolazione degli archi, alle quali si aggiungevano inedite (e ancora dopo inconsuete) riprese scorciate dall’alto.

12 – Mario Passanti, Riccardo Moncalvo [fotografie], Real cappella della S. Sindone, in: Passanti 1941,  pp. 6-7

 

 

Negli anni della seconda Guerra Mondiale la sola documentazione disponibile relativa a queste architetture è quella conservata negli archivi fotografici dell’Ufficio Protezione Antiaerea –  UPA,  dei Vigili del Fuoco e delle testate giornalistiche locali[52]. Una  raccolta  e un racconto di ingegnose opere provvisionali e distruzioni. Fu per celebrare il restauro del Palazzo dell’Università di Torino, parzialmente distrutto dai bombardamenti del luglio 1943, che Anna Maria Brizio dedicò a L’architettura barocca in Piemonte la propria prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico il 13 dicembre 1952. In quella occasione  ricordava come la venuta di Guarini e Juvarra  avesse prodotto “Ogni volta (…) correnti nuove di idee e di gusto, e una discendenza di seguaci, che riprendendo spunti del loro stile l’andavano interpretando e modificando secondo il proprio ingegno personale e i gusti e le tendenze della cultura locale. Far la storia di tali riflessi e reazioni è il capitolo più propriamente piemontese della storia dell’architettura rinascimentale e barocca in Piemonte” [53]. A quella storia apparteneva la monografia dedicata da Nino Carboneri (1954) a Francesco Gallo, ancora con fotografie di Augusto Pedrini, il quale riconfermava la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale. Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, secondo uno schema applicato senza variazioni, che prevedeva di porsi sotto la cupola per inquadrarne  la metà posteriore raccordata alle volte del presbiterio  e del transetto. Era nel riprendere una cappella laterale dei Santi Pietro e Paolo a Mondovì Breo (fig. 13) che il fotografo osava di più, memore forse degli insegnamenti di Brinckmann, avvicinandosi alla parete destra per puntare l’obiettivo verso l’alto e comprimere così all’interno dell’inquadratura la vela e il catino absidale, mentre nella chiesa dell’Annunziata a Busca (ivi, t.51) forzava lo scorcio per descrivere la relazione plastica tra cupola e volte, come nella chiesa della SS. Trinità a Fossano (ivi, t.66).

 

13 – Augusto Pedrini, Mondovì Breo, chiesa dei Santi Pietro e Paolo, volta di una cappella laterale, 1953, in: Carboneri 1954,  t.30

 

 

In quegli anni la vera novità in termini di lettura critica sub specie fotografica fu però rappresentata dalle fotografie realizzate da Paolo Portoghesi per il proprio volume dedicato a Guarino Guarini[54], nel quale leggeva magistralmente le ardite soluzioni strutturali della chiesa di San Lorenzo (t. 14) e contemporaneamente restituiva con evidenza plastica il confronto con l’architettura juvarriana, scegliendo di riprendere l’esterno della cupola con una inquadratura chiusa a destra dalle modanature  del basamento di Palazzo Madama (fig. 14), sovvertendo così una consuetudine rappresentativa che almeno da Giancarlo dall’Armi in poi (1920 ca) prevedeva di riprendere l’esterno dell’edificio collocandosi nel fornice dell’arcata occidentale del portico del Palazzo delle Regie Segreterie di Stato.

 

14 -Paolo Portoghesi, Torino – chiesa di San Lorenzo: esterno, 1955 ca, in: Portoghesi 1956, t. 11

 

Nella seconda grande mostra che Vittorio Viale[55] dedicò al barocco piemontese[56], nel 1963, fu “il medium espositivo della fotografia a offrire la più seducente chiave di accostamento all’architettura e ad aprire la strada a una visione collettiva dell’esperienza piemontese. A differenza degli altri ambiti della mostra, in più stretta relazione con l’arte di corte,  l’architettura si offriva naturalmente anche alla scala della città e del territorio.”[57] Più di mille riprese (trecento delle quali in mostra nella sezione al piano nobile di Palazzo Madama, stampate in grande formato da Vittore De Regibus),  vennero realizzate per l’occasione da Pedrini percorrendo  con Nino Carboneri, curatore della sezione,  “l’intero Piemonte per visitare, studiare e far fotografare il più gran numero possibile di monumenti barocchi”, ma ricorrendo anche al proprio consolidato repertorio antecedente[58]. Anche in quell’occasione si confermava quella misurata impostazione che aveva caratterizzato l’operato ormai quarantennale di questo fotografo, che preferiva assimilare l’immagine al piano  della percezione, senza forzature nella scelta dell’ottica, o del punto di vista. Solo nel confronto con le opere di Vittone si trovava costretto ad osare di più, come nella bella invenzione per le volte di San Luigi a Corteranzo ( ivi, t.138a), nelle quali è più evidente l’adesione alle richieste di Viale che gli aveva raccomandato di “effettuare le riprese dalle stesse angolazioni che aveva proposto Brinckmann”[59], mostrando di comprendere bene come dovesse essere l’architettura a indirizzare la ripresa, a suggerirne i  modi.

Oltre agli autori[60] impegnati tra il 1958 e il 1964 nella realizzazione delle monografie curate da Marziano Bernardi per la “Biblioteca d’Arte” dell’Istituto bancario San Paolo di Torino, che introducevano la novità dei “fotocolori eseguiti in luogo”, altri furono in quegli anni i fotografi, come Aldo Moisio,  che si misurarono con edifici barocchi su commissione dell’allora Soprintendenza ai Monumenti, realizzando riprese tecnicamente ineccepibili ma con impostazioni canoniche, di buon impianto ottocentesco. Più aggiornata appariva la serie di fotografie degli interni della chiesa di San Lorenzo realizzate da Mario Serra per un saggio di Giuseppe Michele Crepaldi (1963), soffermandosi sapientemente sulla lettura degli aspetti strutturali (come già Portoghesi) e sul dialogo tra le due cupole dell’aula e del presbiterio (fig. 15), che la ripresa zenitale centrata sull’arco assimilava in termini di forma e dimensioni, restituendo così un’immagine tanto falsata quanto comunemente accettata di questi volumi architettonici; una soluzione già adottata da Gabinio intorno al 1930 e successivamente riproposta con minime varianti da autori diversi –  da Daniele Regis a Pino dell’Aquila[61] – e che per certi versi conferma le riserve espresse da alcuni esponenti della cultura architettonica novecentesca a proposito della capacità di restituzione proprie della fotografia.

 

15 – Mario Serra, Torino – chiesa di San Lorenzo:  cupole del

     presbiterio e dell’aula, 1963 ante,  in: Crepaldi 1963, t. 9.

 

“Risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, ha scritto Bruno Zevi in un passo famoso datato 1948, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale. Le vedute fotografiche rendono bene l’effetto della scatola muraria (…) Ma se il carattere precipuo dell’architettura è lo spazio interno e se il suo valore deriva dal vivere successivamente tutti i suoi stadi spaziali, è evidente che né una né cento fotografie potranno esaurire la rappresentazione di un edificio, e ciò per le stesse ragioni per cui né una né cento prospettive disegnate potrebbero farlo”[62]. Pur partendo da presupposti diversi giungeva a conclusioni non dissimili anche Eugenio Battisti, che nella sua fascinosa lettura iconologica della Cappella della Sindone notava quanto la sua costruzione fosse “tanto basata su questi sottili rapporti psicologici che nessuna fotografia riesce mai a suggerirne il clima luminoso. Sprofondando nel buio, il fedele è salito alla massima luce; ma in questa luce l’ombra resta compresente e minacciosa. (…) Il nero dei marmi insistentemente ripresentato in sagome nervose, crea un efficace contrappunto di raggi del sole, che risultano spezzati a raggiera. (…) Questa è la ragione per cui nelle fotografie, dove la muratura diventa grigia e si evitano le zone di luce, l’edificio non solo risulta appiattito ma privo di dinamismo.”[63]

Certo sulla scia del grande successo della mostra di due anni prima, nel 1965 comparve nella collana dell’Automobile Club Italiano, Torino Barocca con fotografie di Aldo Ballo tecnicamente ineccepibili ma prive di elementi innovativi,  ma il frutto più rilevante di quella stagione  fu il volume di Andreina Griseri intitolato alle Metamorfosi del barocco (1967), che per quanto riguarda le architetture piemontesi si avvaleva di un apparato fotografico che diremmo di produzione eccentrica, nel quale trovavano scarsa rappresentanza i più noti professionisti locali, che certo non diedero in quell’occasione gran prova di sé[64], mentre ampio spazio era riservato a un piccolo gruppo di compagni di strada di generazioni diverse, a loro volta in parte legati da relazioni anche personali come Mario Passanti (ma in realtà alcune fotografie erano di Riccardo Moncalvo[65]), Roberto Gabetti ed Emilio Giay[66], ma soprattutto  Giorgio Avigdor, a sua volta  allievo di Carlo Mollino e collaboratore di Gabetti,  all’epoca semmai noto per le sue fotografie di moda, a cui venne affidata la maggior parte della documentazione architettonica piemontese, riservandogli l’onore dell’immagine di copertina: l’erma dello scalone di Palazzo Madama, forse il più persistente ‘luogo comune’ della storia di questo particolare genere di fotografia (figg. 16-19). Specie nelle foto di Avigdor è evidente la regia di una storica dell’arte come Griseri, che privilegiava l’analisi di dettaglio del particolare decorativo piuttosto che le articolazioni spaziali degli edifici considerati, che erano invece il fulcro dell’attenzione delle fotografie degli architetti, che mostravano però un tono generale di rapidi appunti visivi: pensate più per riflettere che per comunicare.

 

 

Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud.

 

16 – Giancarlo dall’Armi, 1915 ante

17 –  Augusto  Pedrini, 1925-1926,  in: Brinckmann 1931 t. 271

18 – Paolo Beccaria, 1930 ca, in: Viale 1963, t. 97

19 – Giorgio Avigdor, in: Griseri 1967

 

Le iniziative espositive ed editoriali degli anni Sessanta favorirono certo la divulgazione del tema, ripreso nel decennio successivo in occasione di alcune campagne fotografiche commissionate dal Touring Club Italiano, tra i cui esiti più singolari ricordiamo la serie di riprese dello scalone di Palazzo Madama realizzate da Gianni Berengo Gardin nel 1973[67] nelle quali l’autore si provava a scardinarne le consuete modalità di lettura adottando un’inquadratura orizzontale ma conservando il consueto punto di vista dal pianerottolo intermedio. Già fatto proprio da Dall’Armi nella sua vista generale da sud dello scalone di Palazzo Madama (n. 488), esso si inseriva in una linea iconografica di lunga durata: la sua determinazione, che  risaliva  a un primo schizzo di Filippo Juvarra[68], venne   successivamente adottata  in un disegno a penna e inchiostro acquerellato di Giovanni Migliara, 1834 ca.,  e confermata ancora da Carlo Bossoli[69]  circa vent’anni più tardi, introducendo una strabiliante dilatazione dello spazio, assimilabile solo alle più recenti immagini digitali ottenute con obiettivi grandangolari a correzione prospettica.  Un punto di vista che sarebbe divenuto canonico, riproposto con minime varianti da Augusto Pedrini nel 1925-1926[70]  e confermato solo pochi anni più tardi da Paolo Beccaria[71], così che le diverse riprese si  distinguono tra loro solo per la diversa apertura angolare e per il relativo decentramento rispetto all’asse costituito dalla balaustra con l’erma, restituendo ogni volta in modi sottilmente distinti le relazioni spaziali tra piani orizzontali e rampe (figg. 16-19). Alla committenza del TCI vanno riferite anche le riprese un poco più tarde di Toni Nicolini (1978), che a San Lorenzo interpretava alcuni elementi strutturali come le colonne delle cappelle radiali sino a trasformarle in minacciose presenze espressioniste che quasi cancellano lo spazio architettonico, e le due serie  che Roberto Schezen dedicava all’invaso delle cupole della Sindone e di San Lorenzo, forzando le prospettive scorciate dal basso, per la prima, e facendo emergere suggestioni zoomorfe e quasi apotropaiche per l’altra, riproponendo (crediamo inconsapevolmente) la formula adottata per la copertina di Brayda et al., 1963.

 

Vedere barocco

 

Fu Carlo Bertelli (1984) a riconoscere esplicitamente, a certificare quasi, la possibilità di intendere La fotografia come critica visiva dell’architettura in un importante scritto pubblicato su “Rassegna” nel numero curato da Gabriele Basilico.  Da storico dell’arte da sempre attento alla storia e alle pratiche delle fotografia, Bertelli riconosceva l’autonomia interpretativa (e non descrittiva) di  “questa razionalità nuova che scompone l’unità apparente [e] riconduce ogni elemento allo stesso grado di leggibilità [che]  costituisce un discorso a sé. Se la fotografia d’insieme è una metafora (associativa e simultanea, astorica) del monumento reale, l’insieme dei dettagli ne costituisce una metonimia (sintagmatica e sequenziale, storica) (…) la nostra consapevolezza del rapporto di tempo fra la presa fotografica e la realtà ci costringe ad ammettere una circolazione all’interno dell’edificio”[72]. Di più: “É impossibile cogliere un’architettura nella sua complessità in un colpo solo. L’architettura è fatta di dettagli, frammenti, invenzioni. E l’idea che ne è all’origine può essere colta in un frammento, in un dettaglio”[73].

Quella consapevolezza, quelle modalità di lettura avevano già da tempo trovato una loro misura, una loro efficacia ermeneutica nelle magistrali interpretazioni fotografiche offerte da Paolo Portoghesi a partire dalla monografia dedicata a Vittone (Portoghesi 1966; fig. 20), proseguendo nella propria personale verifica delle possibilità critiche della fotografia avviata esattamente dieci anni prima con il volume dedicato a Guarini[74], redatto quando era ancora studente.  “L’importanza che le immagini fotografiche possono avere  per lo studio del linguaggio architettonico  – affermava  lo studioso nella Nota alle illustrazioni che apre l’Introduzione visiva a Vittone – sia dal punto di vista documentario che dal punto di vista critico, ci ha spinto a creare un archivio di circa cinquemila negativi, riguardanti le opere di Bernardo Vittone, solo parzialmente utilizzati in questa monografia. Nel raccogliere il materiale si è fatto uso di tutti i mezzi tecnici più progrediti, riprendendo gli stessi soggetti con una gamma di obiettivi che fornisce angoli visuali dai 15° ai 180°. Il valore che Vittone dà alle cupole come elemento risolutivo dell’organismo ha reso necessario offrire insieme a immagini parziali riprese con l’asse dell’obiettivo orizzontale, immagini ad asse verticale che coprono il campo visivo dell’osservatore quando rivolge lo sguardo verso l’alto.  Le proporzioni degli spazi interni molto sviluppati in altezza hanno consigliato inoltre l’uso di obiettivi grandangolari. In particolare le immagini di forma circolare riprese coll’obiettivo Nikkor fish-eye (180°) riassumendo in un solo fotogramma l’intero organismo, come una planimetria ma con informazioni assai più numerose e pertinenti, hanno permesso di condensare in poche pagine una ampia rassegna delle idee architettoniche di Vittone. Queste immagini non corrispondono alla visione dell’occhio umano ma a questa si approssimano per eccesso di informazione, quanto, per difetto, si approssimano ad esse le immagini rilevate da un obiettivo normale.”[75]

Nello stesso anno comparve un altro volume a sua firma, esplicitamente costruito per “determinare nel lettore un rapporto critico attivo”: Roma barocca si presenta come “una sequenza di immagini che aspira anzitutto alla continuità del racconto (…) una sintesi visiva che volta per volta chiarisse un ‘pensiero architettonico’, un contributo al chiarimento dei problemi e allo sviluppo dei temi del barocco.”[76] Le sguardie della bellissima edizione curata da Carlo Bestetti sono illustrate da due riprese con obiettivo fish eye, dove quella dell’invaso di San Carlino vale come  omaggio ‘citazionista’  alla vista zenitale della cupola di Sant’Ivo pubblicata dal Borromini stesso nel suo Opus architectonicum (1725).

 

20 – Paolo Portoghesi, Santuario del Vallinotto;  San Luigi a Corteranzo, in Portoghesi 1966a, tt.11-12.

 

Nella testimonianza di Giorgio Stockel, allora giovane architetto coinvolto nell’impaginazione del volume, “Portoghesi, pur non escludendo l’uso della Linhof Technica per le fotografie d’insieme, scopriva nella SuperWide [Hasselblad] il nuovo strumento con il quale esprimere un nuovo linguaggio (…), vedeva l’architettura barocca come un corpo di donna da indagare, scoprire, accarezzare impudicamente in tutte le sue parti, per rendere visibili anche quelle invisibili: si comportava quasi come il fotografo di moda del film Blowup di Michelangelo Antonioni.”[77] Il confronto con la complessa composizione barocca  produsse un repertorio di immagini di grande qualità e interesse, dovute prevalentemente a Portoghesi e a Eugenio Monti, che ben rispondevano allo scopo di definirne strutturalmente le componenti visive. A ciò si aggiunga un’impaginazione innovativa e molto efficace, concepita per consentire al lettore di “scivolare senza disturbi all’interno delle immagini, libero apparentemente di pensare”[78], che credo debba più di una suggestione ad un libro apparentemente lontano come New York di William Klein, pubblicato nel 1956.  Anche per il successivo Francecsco Borromini[79] Portoghesi predispose una efficacissima serie di riprese e una coerente impaginazione delle  fotografie allo scopo di analizzare e restituire  l’architettura, intesa “come sistema di comunicazione autonomo” cui applicare schemi grafici di “interpretazione spaziale”. La sequenza risultante era costituita da riprese di dettaglio alternate a vedute fortemente scorciate, zenitali o quasi nadirali, con l’intento di comprendere tutta  la trabeazione  all’interno del fotogramma, di farla essere visualmente e non solo architettonicamente cornice. Immagine e cornice allora, assimilando così la ripresa fotografica alla proiezione planimetrica, ma dichiarando nel contempo l’insopprimibile, esuberante necessità di fagocitare lo spazio, che è uno dei comportamenti compulsivi imposti dalle architetture barocche. Inesauribili, imprendibili, irriducibili alla piramide prospettica, esse inducono a loro volta ad una barocca moltiplicazione delle fughe, degli scorci, delle deformazioni proiettive conseguenti.  Col pretesto di identificare e quasi inventariare il sistema di segni con cui si costruisce il linguaggio architettonico, queste immagini riescono a trattenere e trasmettere l’eccitazione indotta nell’occhio dell’osservatore, a testimoniare un’esperienza quindi. Qui il divario dai canoni descrittivi antecedenti è enorme, incommensurabile anzi. Segna tutta la distanza tra l’intenzione documentaria di tradizione ottocentesca, cui prevalentemente si assoggettavano gli operatori professionali, e la feconda interpretazione critica richiesta e qui concessa allo studioso che si fa fotografo, come accadeva anche negli studi di poco successivi di Christian Norberg-Schulz[80], autore di numerose delle fotografie lì pubblicate e già presente con proprie immagini in altri volumi di Portoghesi, come  lui impegnato  nella doppia  traduzione delle architetture in  parole e immagini.

Qui si direbbe che fosse l’interpretazione architettonica a provocare la fotografia,  a sollecitare e imporre una risposta non convenzionale; una ripresa ‘barocca’  dove i modi della restituzione aderivano all’oggetto fotografato. Immagini come strumenti e veicoli di conoscenza, consapevoli della necessità di “trovare nelle rappresentazioni stesse la misura e il criterio della loro verità (…); le rappresentazioni sono perciò non imitazioni ma organi della realtà, nel senso che soltanto attraverso esse qualcosa diviene un oggetto da noi compreso e per noi reale”[81]. È per questo  che “una fotografia Alinari  – come sosteneva Rudolf  Wittkower –  è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani” [82].  È per le stesse ragioni che “una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca – come riconobbe Luigi Ghirri –  perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua”[83].   Il problema che si pone è allora quello di individuare soluzioni narrative adeguate, adatte alla restituzione di spazi dinamici come quelli barocchi,  provandosi a realizzare quella apparente contraddizione in termini che possiamo chiamare ‘fotografia barocca’, nella quale temi e modi della rappre­sentazione aderiscono tra loro in un continuo dialogo e sfida; dove la regolarità ottico-geometrica del sistema prospettico rivela a sua volta la propria natura di prodotto cultu­rale, passibile di esplorazioni individual­mente differenti ma sempre legittime e culturalmente moti­vate, vive. Solo apparentemente bizzarre,  momentaneamente irriconoscibili e incommensurabili rispetto al nostro consolidato modo di vedere, quasi fossero prodotti di un’ottica non geometrica. Però – lo ricordava Ernst Gombrich – “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[84]. Adattando al nostro dire un’antica notazione di Manfredo Tafuri potremmo allora parlare di “innaturalità” fotografica a proposito di queste riprese che – pur obbedendo alle stesse leggi – non rincorrono il canone della verosimiglianza: “Il problema è sempre quello di negare ogni oggettività alla categoria dello spazio (…) anche lo spazio è (…) ‘relativo’: relativo, più precisamente, a un’esperienza soggettiva di rielaborazione”[85]. Precisazione ricca di conseguenze quando l’intento di restituzione critica muove dalla mimesi fenomenologica dell’effetto percettivo verso il riconoscimento delle potenzialità tecnologiche di trascrizione critica proprie del mezzo (qui tutt’altro che inconsapevoli), in una riflessione ampia sulle possibilità e le implicazioni metodologiche pertinenti allo specifico fotografico che apparteneva in quegli anni anche a Paolo Monti, impegnato in un serrato confronto col patrimonio architettonico e urbanistico italiano, seppure con  accenti diversi:  “Per quanto mi concerne – dichiarava in un’intervista ad Angelo Schwarz del 1978 – io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[86].

A questo ventaglio ampio di pratiche di ermeneutica visuale, ma con una intenzionalità più propriamente fotografica, vanno accostate altre serie di lavori  di diversa ampiezza condotte nei decenni successivi, quali le fotografie realizzate da Mimmo Jodice nel 1999 nel corso di una campagna fotografica commissionata dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte,  quelle del progetto condotto  da Giorgio Jano  tra 1983 e 2006[87], che nelle prime fasi vide la collaborazione di Domenico Prola e di Enrico Peyrot e le successive riprese realizzate da Pino dell’Aquila a corredo di una serie di volumi curati da Giuseppe Dardanello.

Le fotografie di Jodice pubblicate in quella occasione, per la gran parte dedicate ad interni museali, avevano il preciso scopo di “mettere le cose di traverso rispetto alla logica del vedere”[88] ovvero – come notava Giovanni Romano – di spiare la realtà circostante “con attenzione allertata”, rivelando “indizi equivoci che cadono a grappoli nel fuoco del mirino, anzi precipitano con un effetto di risucchio”, come già accadeva in precedenti lavori dell’autore napoletano quali Mediterraneo (1995) ed Eden (1998).

Commentando la  ricognizione delle Architetture barocche in Piemonte realizzata da Giorgio Jano, Henry Millon (2002) riconobbe invece che quelle “immagini affascinanti (…) hanno aggiunto un nuovo aspetto alla nostra metodologia analitica.” Accanto al desiderio di comprendere e rendere omaggio alle “soluzioni formali, plastiche e spaziali di grande e libera fantasia (…)  delle decine di chiese barocche sparse nei piccoli centri della provincia piemontese”[89], si poneva infatti, forte e via via preponderante, l’intenzione di verificare i limiti tecnologici e critici del mezzo e del metodo fotografico, affrontando “un grande sforzo tecnico e culturale [che ha] imposto la sperimentazione prima e l’adozione poi di una grande varietà di materiali, attrezzature e procedure inedite o insolite, attinte (…) dal ricchissimo, diversificato e desueto patrimonio tecnico che la fotografia ha, lungo la sua relativamente breve storia, accumulato”[90]. Ne risultò una prima serie di  immagini che “piuttosto che obiettive sarebbe meglio dirle totalizzanti (…) perché hanno una carica esplorativa dirompente. (…) Non restituiscono una percezione, la suscitano. E non rispondono alla scoperta sequenziale degli spazi interni, perché sono fatte per il sincronico. Producono insiemi mai visti, ‘impossibili’”[91].   A considerarle ora si comprende meglio come nello sviluppo di quella ricerca abbia assunto sempre maggiore rilievo l’intenzione di sondare i limiti dell’apparato, con un agire che richiama la figura di quello che Vilém Flusser ha identificato come perfetto fotografo: colui che “se guarda il mondo attraverso la macchina fotografica, non lo fa perché è interessato al mondo, ma perché è alla ricerca di virtualità del programma non ancora scoperte, che lo rendono capace di produrre nuove informazioni”[92]. Per questa sola ma determinante ragione da quell’indagine fotografica è esclusa ogni relazione non solo con l’intorno ma anche con l’attuale, col tempo quindi.

 

21 – Giorgio Jano, Chierichiesa dei Santi Bernardino e Rocco: interno, 2006.

 

A Jano non  interessa il vissuto, non la materia né il suo mutare o resistere al trascorrere tempo. Quasi non interessa neppure quello della ripresa: non quella luce di quel particolare momento del giorno, dell’anno; solo quella necessaria a rivelare le architetture per riportarle sulla superficie sensibile della pellicola. Nonostante le immagini appaiano così inconsuete, l’intenzione esplicita del fotografo non è quella di destare meraviglia né di restituire una qualche esperienza personale, ma di mostrare gli esiti dell’applicazione sistematica di un metodo che prevede l’adozione di un ventaglio ristretto di soluzioni, per quanto arrischiate.  Le sue riprese sono l’esito di un posizionamento tutto ottico geometrico; il risultato reiterato e reiterabile di una applicazione che esclude la soggettività della composizione a favore della sistematicità del ‘rilevamento’.  Il ricorso ad apparecchi di grande formato ed ottiche con  amplissime aperture angolari ha una prima conseguenza fondamentale: nessuna confusione tra visione e immagine, tra sguardo e fotografia. Osservando le riprese di Jano non possiamo mai, neppure per un momento fingere di credere che è ‘come se’ fossimo in presenza delle architetture che ne costituiscono il soggetto. La loro analogia con la cosa risiede nella loro natura di traccia, non con la nostra plausibile esperienza di quell’edificio. Basti pensare a come di fronte a uno spazio tridimensionale, per quanto semplice, il nostro agire non possa che essere una ricognizione, richieda un movimento, implichi una durata. Siamo dentro lo spazio, e invece davanti alla fotografia.  Queste restituzioni anamorfiche rappresentano un dato di grande fascinazione visiva che rischia forse di alterare alcuni aspetti identificativi del singolo edificio (fig. 21) ma  fa emergere con chiarezza esemplare  le   relazioni sintattiche tra i diversi elementi strutturali e architettonici, senza rinunciare a quella coerenza di dettaglio nella resa della materia e della sua risposta alla luce che nessun disegno potrà mai restituire con la stessa ambigua ricchezza. Qui l’immagine fotografica si approssima all’astrazione grafica, proiettiva, conservando però intatto il proprio carico di referenzialità. Ancor più complesse le questioni poste dalle riprese panoramiche realizzate con fotocamera rotante motorizzata per il formato 12.5x25cm dotata di obbiettivo Schneider Super-Angulon XL 47 mm: queste fotografie più che mai intrattabili, impossibili a cogliersi in un solo sguardo, mostrano più che sensibili differenze di esito e di efficacia a seconda dell’andamento dei volumi a cui si applicano. Le forme concave vengono restituite con effetto straniante, dovuto allo sviluppo imposto alla forma dell’invaso, mentre mostrano tutte le loro potenzialità quando l’apparecchio è collocato in corrispondenza di snodi significativi dell’organismo architettonico o di spazi solitamente percepibili solo sequenzialmente,  poiché eliminano ogni soluzione di continuità, com’è per il  bellissimo effetto di flusso generato dallo scalone guariniano di Palazzo Carignano[93].  Fotografia  come  reinvenzione dell’architettura.

Nella solida consuetudine con la lettura e la restituzione fotografica del patrimonio artistico e architettonico italiano i lavori che Pino dell’Aquila ha dedicato alle architetture barocche piemontesi non si propongono tanto di sondare i limiti della strumentazione fotografica quanto di sfruttarne appieno le potenzialità per la realizzazione di un progetto che è propriamente conoscitivo, che – per questa ragione – conserva un’aderenza forte, diremmo una fedeltà al soggetto fotografato che non viene mai meno neppure nell’uso delle ottiche grandangolari, sempre funzionali all’interpretazione architettonica, non alla verifica dell’apparato come invece accade in Jano.  In questa intenzionalità conoscitiva vanno compresi anche il ricorso all’uso del colore e la consuetudine di ritornare più volte, anche a breve distanza di tempo, a confrontarsi con lo stesso soggetto, di precisarne la restituzione fotografica adottando un diverso (e magari di poco) punto di vista, ricorrendo a ottiche di differenti caratteristiche e soprattutto con una consapevolezza critica inevitabilmente accresciuta, mediata ed esplicitata dalle precedenti riprese.

Non possiamo escludere che queste radicali differenze dipendano anche dalla formazione dei due autori: laureato in matematica il primo, e particolarmente attratto dai problemi di geometria proiettiva,  in architettura il secondo, orientato alla comprensione e alla restituzione critica del costruito, sebbene poi entrambi pongano in atto strategie e strumenti di ripresa destinati – seppure in modi diversi – a dilatare la restituzione (più  percettiva che fotografica) di questi volumi interni.  Dell’Aquila si confronta con le architetture piemontesi sei-settecentesche a partire almeno dalla metà degli anni Novanta del Novecento[94], ma in modo più sistematico ed esplicitamente interpretativo a partire dai primi anni 2000, ricorrendo nella restituzione dei sistemi voltati alle riprese zenitali (centrate o eccentriche quando le cupole sono multiple, come in San Lorenzo a Torino) che costituiscono ormai quasi un canone virtuosistico e sempre molto efficace.  A volte invece si consente di giocare d’effetto, come nella ripresa del salone di Stupinigi dove la coincidenza dell’asse di ripresa col grande lampadario settecentesco evoca quasi una visione caleidoscopica; nell’accentuazione delle suggestioni zoomorfe dei costoloni della volta di San Lorenzo, o ancora sottolineando gli elementi geometrizzanti, come accade per lo scalone di Palazzo Graneri (2001).  Come ha sottolineato Giovanni Romano, “per surrogare le reticenze di Bellotto abbiamo fatto ricorso a un altro sguardo d’eccezione, competente e sensibile, quello del fotografo Pino dell’Aquila, che va considerato, nella sua specialità professionale, un autentico critico della grande architettura torinese. Il confronto con le indagini di Dardanello rivela una leggera sfasatura di visione che rende ancor più stimolante la lettura del volume: lo storico descrive animatamente l’esperienza personale di chi si avventura negli spazi architettonici torinesi seguendo i percorsi di invito proposti dagli architetti, cadendo volutamente in tutte le trappole predisposte; il fotografo forza all’estremo il punto di vista, l’ampiezza del campo visivo, la profondità di penetrazione ed estrae dagli ambienti accortamente spiati quell’ultimo resto di follia, ancora non interamente bruciato, che risale alle origini scenografiche di tante invenzioni architettoniche. I due modi di far critica convergono sulla stessa verità, soprattutto quando si tratta di Juvarra, e non si poteva desiderare conferma migliore sull’esattezza dei giudizi” [95].   Proprio nella restituzione fotografica dello scalone juvarriano di Palazzo Madama la serie di riprese ipergrandangolari si sviluppa adottando punti di vista corrispondenti alle articolazioni spaziali (l’atrio, il pianerottolo intermedio), restituendo così in progressione la percezione dei volumi architettonici ai diversi livelli, dilatandoli in senso sia verticale che orizzontale.  Altre interessanti applicazioni di queste ottiche si riscontrano nelle fotografie di Palazzo Carignano (1999-2006) sia per quanto riguarda gli esterni, con una forte accentuazione delle sinuosità della facciata guariniana, sia nella restituzione di una rampa dello scalone in cui l’ampio angolo di campo consente di mostrare le relazioni spaziali con l’atrio senza eccedere in improprie deformazioni prospettiche e solo sacrificando in parte la resa corretta dell’inclinazione e della curvatura.

Con l’avvento del digitale il confronto con gli spazi barocchi muta procedure e strumenti, passando dall’utilizzo analogico di ottiche supergrandangolari e obiettivi decentrabili all’elaborazione digitale di sequenze spaziali di immagini (fig. 22), assemblate in post produzione (stitching) utilizzando algoritmi proiettivi che consentono di restituire in modo percettivamente unitario e ‘corretto’ spazi e volumi non riducibili ai limiti di una singola inquadratura.

 

22 – Pino dell’Aquila, Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud, 2010

 

Com’è evidente, si tratta di  fotomontaggi che nulla hanno a che vedere con la tradizione modernista né con alcuna poetica dello straniamento, ma tendono anzi a restituire uno spazio percettivo, escludendo ogni deformazione ottico geometrica come ogni contrasto espressionistico (o di vincolo tecnologico derivante dalla latitudine di posa delle emulsioni) nei rapporti luce/ ombra. Potendo realizzare più riprese, ciascuna perfettamente corrispondente alle condizioni della porzione fotografata, poi assemblate digitalmente,  nell’immagine finale tutto è perfettamente equilibrato in termini di restituzione prospettica e di luminosità, applicando un procedimento concettualmente analogo a quello adottato nel 1851 da Édouard Baldus per restituire convenientemente la galleria settentrionale del chiostro di Saint-Trophime ad Arles, quando ricorse al montaggio di una serie di dieci negativi di carta, ciascuno correttamente esposto per una specifica porzione del soggetto[96].

Immagini fatte di immagini; fotografie fatte di fotografie. Una manipolazione produttiva (e lo dimostra bene l’esempio di Baldus)   ben presente da sempre anche nelle pratiche fotografiche che siamo soliti collocare nella solida tradizione documentaria della rappresentazione ‘oggettiva’ della realtà. Penso non tanto e non solo agli accostamenti multipli necessari  per formare panorami e fotopiani,  ma alla consuetudine di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle prime riprese ottocentesche facendo ricorso a una specifica collezione di negativi di nuvole  o alle silhouette sapientemente poste in secondo piano da un autore di riconosciuta maestria descrittiva come Vittorio Sella. Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso però. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà. È quanto ritroviamo anche in questi assemblaggi digitali,  in queste fotografie ‘frattali’, ciascuna formata da un numero  teoricamente infinito di riprese[97], dove  il quadro generale risultante potrebbe continuare ad essere nutrito di immagini a scala sempre più grande, ciascuna a sua volta pensata e realizzata per fornire un massimo di informazione;  perfettamente congiunte in un insieme ‘realistico’ e massimamente virtuale che pretende modalità di osservazione e lettura diverse dal consueto; che consente e quasi impone un’esplorazione in profondità, oltre l’apparenza della superficie, mostrando tutta l’inattualità, l’inadeguatezza della loro restituzione statica su supporto cartaceo: pagina di libro o foglio stampato che sia. Sono immagini fatte per l’interattività dello schermo: un cannocchiale non più metaforico che può offrirci una “inaspettata immagine dell’obietto rappresentato” [98].

 

 

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Note

[1] «La photographie, en achevant le baroque a libéré les arts plastiques de leur obsession de la ressemblance », Bazin [1945] 1973, p. 6. L’adozione sin dal titolo del mio breve saggio del termine “barocco” non va ovviamente intesa quale scelta critica di campo in un dibattito che ha visto fronti fieramente contrapposti, e specie in Italia; semmai una connotazione convenzionale ed empirica, che consenta di riferirsi a una serie di architetture piemontesi realizzate tra XVII e XVIII secolo senza richiedere  troppi distinguo.

[2] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point : its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality  was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For technical data,  the camera was faithfully used.”, White [1950] 2000, p. 17, traduzione di chi scrive.

[3] «la plus belle Eglise de Turin»,«d’une construction absolument singulière, on peut même dire extravagante», La Lande 1769, pp. 78-79, traduzione di chi scrive.

[4]«un grand edifice dont la façade, quoique de briques, à un aspect agréable et majestueux»,  Ivi, p. 141, traduzione e corsivo di chi scrive.

[5]  «corruption (…) de toute l’architecture raisonnable», Quatremère de Quincy 1832, ad vocem “Guarini”, pp.687-698 ; diversa la considerazione per “Ivara (Philippe)” [Juvarra] (ivi,  pp. 30-32) che considerava  “lontanissimo dalla bizzarria della scuola che l’avea preceduto” , traduzione di chi scrive.

[6] Gurlitt 1887 e Schmarsow 1897  non sono mai stati pubblicati in Italia e analoga sorte hanno avuto le  trascrizioni delle lezioni tenute da Riegel tra il 1898 e il 1902 (Burda, Dvořák 1908),  mentre la traduzione italiana della tesi di abilitazione di Wölfflin (1888)  comparve solo nel 1928, pubblicata a Firenze da Vallecchi. Su questi temi si vedano i diversi contributi raccolti in  Bacchi, Barroero 2017. A testimonianza delle alterne vicende della comprensione di queste architetture ricordiamo che ancora per Martin Shaw Briggs “Palazzo Carignano (…) sfortunatamente mostra la maggior parte dei capricci e dei punti deboli del periodo [e] l’interesse principale [della cappella della S. Sindone e della chiesa di San Lorenzo] risiede nello straordinario, complicato e assurdo modo in cui sono coperte a cupola.”, Briggs 1913, pp. 98-99, traduzione di chi scrive.

[7] La preziosissima lastra dagherrotipica, oggi purtroppo in condizioni di scarsissima leggibilità, è  conservata nell’Archivio fotografico della Fondazione Sella di Biella.

[8] Romani 1839.

[9] Le lastre originali e le relative stampe sono conservate a Biella presso l’Archivio fotografico della Fondazione Sella, Fondo Giuseppe Venanzio Sella, cfr. Cavanna 2019.

[10] Jacobson 2015.

[11] De la Garenne 1842.

[12] La diffusa mancanza di interesse per le architetture barocche è ben testimoniata anche da una stereoscopia di Giorgio Sommer del 1863-1867 che mostra scorciata e quasi illeggibile la facciata di Palazzo Madama (Cavanna, Lisino 2011, p. 22).

[13] Cfr. Miraglia 1990, rispettivamente alle tt.3, 59, 53, 60,61.

[14] Falzone del Barbarò, Borio 1989. Per ragioni sinora non note il biellese Vittorio Besso realizzò prima del 1881 una serie di fotografie del santuario di Vicoforte, presso Mondovì (cfr. Besso 1881, pp. 27-28), proprio negli stessi anni in cui il soggetto venne fotografato anche dal monregalese Giuseppe Viglietti, Album fotografico della città di Mondovì e del santuario di Vico, 1878, cfr. Avigdor, Cassio, Maggio Serra 1977, p. 44.

[15] Catalogo (…)  Brogi  1926, p. 74.

[16] Ricci  1912; libro di grande successo, pubblicato nello stesso anno a Londra da Heinemann, quindi riedito nel 1922 a Torino dalla Itala Ars, e ancora nel 1928 a Stoccarda da Julius Hoffmann.

[17] Un precoce esempio di lettura architettonica di un sistema voltato condotto mediante riprese zenitali si ritrova nella campagna documentaria condotta da Pietro Masoero sulla basilica di Sant’Andrea a Vercelli a partire dal 1890 circa, cfr. Cavanna  1986.

[18] La fototeca di Muñoz è confluita negli anni Cinquanta del Novecento in quella di Federico Zeri ed è ora conservata nella Fondazione omonima. http://www.fondazionezeri.unibo.it/it/pubblicazioni/call-for-papers/articoli-2012/il-fondo-fotografico-di-antonio-munoz [22-11-2019]. Si veda ora Calanna  2018.

[19] Costituisce un riferimento bibliografico imprescindibile per la ricostruzione dell’intrecciarsi di studi e occasioni espositive Di Macco, Dardanello 2019, che raccoglie gli atti della giornata di studi promossa nel 2016 dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo di Torino.

[20] Toesca 1911, pp. 64 passim . La presentazione critica proseguiva analizzando “L’incubo deforme delle linee degli archi coi quali Guarini volle sostituire la cupola, e della luce violenta”  della chiesa di San Lorenzo, mentre la concezione della Cappella della Sindone, è considerata “povera e puerile nei concetti.” Radicalmente diversa la valutazione delle architetture juvarriane perché “ad osservare quelle linee ragionevoli [di Superga] ferme, sicure, si sente di essere in presenza di un poderoso intelletto d’artista, quanto diverso dalla mente sfibrata e convulsa del Guarini!”. La scelta di Vittorio Viale di destinare Palazzo Carignano a sede principale della Mostra del Barocco piemontese del 1937, avrebbe plasticamente segnato il superamento e si direbbe la presa di distanza dalle posizioni espresse da  Toesca.

[21] “A Torino ci sono cinque o sei chiese che non bisogna perdere, soprattutto quella con la cupola insolita.”, Stendhal [1817] 1987,  p. 56.

[22]  „Piemont, an der Schwelle Italiens liegend, auch jetzt zu den unbekannten Gegenden des kunstgeschichtlich bekanntesten Landes.“,  Brinckmann 1931, p. 7, traduzione di chi scrive.La situazione rimase sostanzialmente immutata nei decenni successivi, anche in conseguenza del contesto bellico, tanto che riferendosi ai viaggi condotti col marito nel secondo dopoguerra, Margot Wittkower  ricordava che “Piedmont (…) was an almost undiscovered territory. Nobody stopped in Turin, nobody went into the country around there, and it has the most marvellous houses, churches, cathedrals, whatnot”, rievocando poi un gustoso aneddoto a proposito della loro scoperta di una “delightful small church (…) by an architect nobody had ever heard of, by the name of Vittone” (Barnett 1994, p. 319), scordando per l’occasione l’antecedente degli studi di Olivero e Brinkmann. Si veda anche quanto ricordato da Joseph Connors  2003, p. XVI.

[23] “Tutti quanti da me fotografati, imperterrito sotto il sole rovente delle vostre estati”, citato in L. P. 1937.

[24] Bricarelli 1921, che richiamandosi ancora a Brinckmann ricordava come “A tale aristocrazia dell’ arte vengono annoverate la cappella della S. Sindone e la chiesa di S. Lorenzo in Torino, minutamente descritte entrambe e studiate dal Brinckmann; due pietre miliarie nel cammino percorso dall’architettura moderna, anzi quasi colonne d’Ercole, estremi confini oltre i quali vien meno il terreno dell’arte, incomincia quello della pura scienza costruttiva, della matematica.” I fascicoli postbellici del “Bollettino” costituiscono una fonte determinante per descrivere e comprendere il mutato atteggiamento critico nei confronti della produzione barocca.

[25] Due vedute generali di Palazzo Carignano e Palazzo Madama (Brinckmann 1919, p. 126); altri soggetti torinesi come l’interno di San Lorenzo o l’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano erano invece firmati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo. Queste riprese non sembrano far parte della serie oggi conservata nel fondo omonimo della Fototeca dei Musei Civici di Torino,  commissionata all’Istituto in preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione celebrativa del 1911 a Roma e in parte utilizzate in Toesca 1911; serie che non comprendeva alcun edificio barocco.

[26] Cfr. Reteuna 1998; Manzo 2000; Bergaglio 2011.

[27] Dall’Armi 1915, sei cartelle fotografiche, vendute in abbonamento a L. 10 cadauna,  contenenti ciascuna 12 stampe fotografiche alla gelatina bromuro d’argento nel formato 21×27 cm, dedicate rispettivamente al Palazzo Morozzo della Rocca (poi della Borsa, demolito in seguito ai danni subiti nel corso delle incursioni aeree del 1942 – 1943), Palazzo Madama, Palazzo Barolo (I, II), Palazzo Saluzzo Paesana e Palazzo Graneri.

[28] Si confronti la n. 484, relativa alle volte dell’atrio di Palazzo Madama con la sua omologa  conservata nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della città di Torino (ASCTO – DAL R0310138).

[29] Cfr. Viale 1963, t. 103.

[30] Di poco antecedente era stato il suo studio dedicato alle ville piemontesi del Settecento (Chevalley  1912); considerando anche gli studi antecedenti di Camillo Boggio (1896) pare di poter dire che – almeno a Torino, già sede di alcuni interventi neobarocchi (Gianasso 2018) –  la rivalutazione critica del barocco avvenne in ambito storico architettonico ben prima che storico artistico.

[31] ASCTO R0310210-R0310521; quella  serie di riprese ebbe un discreto successo e venne in parte utilizzata ancora in  Brinckmann 1931.

[32] La stampa, conservata presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD,  Fondo Ministero della Pubblica Istruzione – MPI, n. 310378, proveniente dall’Archivio fotografico dell’allora Regia Soprintendenza di Torino, venne pubblicata in Olivero 1920, p. 10.  Sui Ferazzino si veda Morgantini 2011.

[33] Pubblicate in Telluccini 1926 e in Brinckmann 1931 ma riutilizzate ancora nel 1963 anche per realizzare il cartoncino d’invito alla mostra.

[34] Cfr. Alinari 1913, n. 15733, Stupinigi – Salone centrale: l’interno.

[35] Si veda il testo della conferenza tenuta al Politecnico di Zurigo il 2 febbraio 1925, poi ampiamente ripresa in Croce 1929.

[36] Società Promotrice delle Belle Arti 1926. Nel 1922 si era tenuta a Firenze la prima grande Mostra della pittura italiana del  Sei e Settecento (Ojetti 1922).

[37] Telluccini 1926, p.3. Pochi anni più tardi lo studioso, insieme ad Arturo Midana e Lorenzo Rovere avrebbe curato la sezione piemontese della mostra veneziana Il Settecento italiano (Barbantini 1929).

[38] Touring Club Italiano 1930, t.1, corsivo di chi scrive.

[39] “Si cercherebbe invano nel libro del prof. Brinckmann una traccia storica che inquadri ed illumini il ricco materiale documentario”, scriveva Giulio Carlo Argan [1932], 1970, p. 315; come si è detto Brinckmann aveva già precedentemente visitato il Piemonte studiandone le architetture del XVII e XVIII secolo (Brinckmann 1919).

[40] „Der Aufschluss eines Teiles dieses Kulturgebietes für  die Kunstgeschichte ist ohne technisch-publizistische Arbeit nicht möglich. So stehen voran die eigenen Fotoaufnahmen der Bauwerke,  die ich auf fünf reisen mit Bahn und Auto allein und oft mühsam zusammenbrachte (…) Was dem Fotohandel entnommen werden konnte, ist verschwindend gering.  Denn ich wollte nicht abbilden, sondern ein Bauwerk klar machen. Außer eingehenden technischen Vorbereitungen gehört dazu eine besondere Sehart und Sehkraft. Ich habe den Mut gehabt, wohlüberlegte Schrag – und Verkürzung aufnahmen in größerer Zahl zu machen, denn sie entsprechen dem optischen Sehbild wie dem Darstellungswillen des Barockarchitekten. Mit dieser nach schöpferischen Arbeit hoffe ich, allgemein das kunsthistorische Sehen barocker Raum – und Körpervorstellungen  entwickelt zu haben. (…) Wie ich bei den Aufnahmen jegliche Art von Schönfärberei in der Art beliebter Landschaftsbücher vermied,  so habe  ich mich auch vor einem dithyrambischen Stil gehütet, der betrügerisch besticht. (…) Der Turiner Fotograf Pedrini hat oft anspruchsvolle Wünsche erfüllt.” Brinckmann 1931, pp. 7-8, traduzione di chi scrive.

[41] Si devono a Dall’Armi la ripresa della facciata di Palazzo Carignano, 1915 ca, t. 253,  qui tagliata di tutta la porzione destra e in parte ritoccata (cfr. FFTM, Fondo Brinckmann 253.4),  e la veduta scorciata della volta della chiesa di Santa Maria di Piazza, già pubblicata in Olivero 1920, p. 25 e qui reimpaginata in verticale escludendo le fasce laterali della lastra originaria, cfr. ASCTO, Fondo Dall’Armi DAL R0310521. L’apparato iconografico del volume richiederebbe un’analisi puntuale che non è possibile svolgere in questa occasione, ma va almeno segnalata l’assenza – apparentemente immotivata – di riprese dell’invaso della cupola della Sindone, forse non accessibile in quei mesi per le cerimonie connesse all’ostensione del “Sacro Lino” (3-24 maggio 1931), ma certamente presenti nei repertori di diversi fotografi quali Gabinio o Pedrini, per non dire di Alinari.

[42] L’assenza di indicazioni di responsabilità in calce alle immagini ne rende difficoltosa l’attribuzione in tutti quei casi in cui essa non sia precisamente assegnata al recto o al verso delle stampe originali conservate nel Fondo Brinckmann della FFTM. Anche il timbro a inchiostro “Professor/ A.E. Brinckmann” al verso della stampa n. 171 è qualificabile solo come timbro di collezione, essendo la ripresa riferibile a Pedrini, datata 1924, analogamente a quanto accade per la n. 171.2, che porta al verso il timbro a inchiostro “Foto: Bildarchiv Rh. Museum, Köln” e la scritta a matita “phot. Brinckmann/ Stupinigi/ 93252”.

[43] Cfr. FFTM – Fondo Brinckmann, 67.2. La qualità linguistica e l’efficacia descrittiva delle fotografie dello studioso tedesco venne confermata anche da Laszlo Moholy-Nagy  1947, p. 117, che pubblicando una sua fotografia del transetto della basilica dei Santi Alessandro e Teodoro a Ottobeuren, così commentava: “This is a composite view produced by assembled perspectives in depth and height. The photograph recreates the movement of the eyes as they wander from the benches upward to the ceiling.”

[44] Si vedano in Brinckmann 1931 rispettivamente le tavv. 67, 34 e 195.

[45] Ricordo che in  quegli stessi mesi Beccaria era impegnato a riprodurre il corpus di disegni juvarriani (Rovere, Viale, Brinckmann 1937). Purtroppo, come è noto, di quella mostra non si pubblicò il catalogo “che pur avevo già redatto” (Viale 1963, I, p.1). Sulla genesi e sul significato di quel progetto si veda ora Abram 2019, da cui si ricava che nel corso della campagna fotografica commissionata da Viale tra 1936 e 1937 vennero realizzate circa 1345 riprese. Gli esiti del programma di ricerca, catalogazione e digitalizzazione del fondo di lastre Beccaria sono stati presentati nel corso dell’incontro del 16 dicembre 2019 promosso dall’Accademia delle Scienze di Torino intitolato a  Il progetto lastre fotografiche. Torino 1937. Mostra del Barocco piemontese. Una storia che riemerge, curato dal Centro Conservazione Restauro La Venaria Reale e dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, con interventi di Sara Abram, Francesca Bocasso, Ambra d’Aleo e Federica Panero (La campagna fotografica della Mostra del Barocco 1937. Dietro le quinte di una “magnifica attrezzatura culturale”), che ha individuato in Paolo Beccaria l’autore delle riprese.

[46] Abram 2019, p. 25.

[47] Non si può escludere che la scelta del tema derivasse dai suoi giovanili contatti con Riccardo Brayda, che nel 1888 aveva pubblicato Porte piemontesi dal XV al XIX secolo, con immagini di  Alberto Charvet.  La collaborazione tra i due risaliva al precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.

L’argomento venne poi ripreso da Pedrini 1955.

[48] FFTM, Fondo Gabinio, nn. B43/45, B43/48.

[49] Ponti 1932, pp. 285-286, corsivi dell’autore.

[50] Cavanna, Costantini 1996, t.94.

[51] Boggeri 1929.

[52] Roccia, Vaccarino 1995.

[53] Brizio 1953, p. 25.

[54] Portoghesi 1956, con 64 fotografie realizzate dall’autore, una di  Riccardo Moncalvo (t. 19)  e una di Alinari (t. 21).

[55] Viale 1963. In quello stesso anno, che segna l’avvio definitivo degli studi locali sul barocco piemontese, venne pubblicato anche il volume di Mario Passanti, con fotografie di Riccardo Moncalvo, generalmente modeste, tranne alcune sorprendentemente arrischiate della scala ellittica di Palazzo Carignano e del particolare della volta della Sindone, molto scorciata e quasi espressionista: inservibile come documentazione, realizzate circa un ventennio prima per Passanti 1941. A queste si richiamerà Roberto Gabetti circa vent’anni più tardi, nelle vesti di fotografo, ancora tutte da studiare, lasciandosi attrarre dall’elemento fantastico e quasi immateriale della cupola, accogliendo tutte le suggestioni di una forte illuminazione filtrata dalle vetrate (cfr. Griseri  1967, t. 119); si veda anche infra p. 30.

[56] La mostra si collocava in un periodo di rinnovata fortuna critica del barocco in genere (Argan, Battisti, Mellon, Portoghesi, Zevi) e di quello piemontese in particolare, anche grazie ai volumi strenna pubblicati dall’Istituto Bancario San Paolo di Torino, curati da Marziano Bernardi, mentre  di poco successiva sarebbe stata la pubblicazione di Griseri 1967. 

[57] Dardanello 2019, p. 63. Divergenti furono invece le opinioni dei critici contemporanei sulla qualità e l’efficacia di questa sezione. Così se per Giovanni Testori (1963) essa era “infinitamente bella”, per Bruno Zevi (1963) “il pubblico posto di fronte a una monotona e interminabile serie di pannelli fotografici impara poco e si stanca presto poiché non si è fatto alcun tentativo per rendergli accessibile la comprensione degli impianti spaziali e degli organismi struttivi (…). Le considerazioni del Carboneri non trovano alcuna visualizzazione”, confermando così la sua sostanziale diffidenza nei confronti delle possibilità della fotografia; cfr. infra.

[58] Il confronto col catalogo della mostra (Viale 1963), consente  di riconoscere alcune riprese antecedenti, quali ad esempio quella relativa allo scalone meridionale di Palazzo Madama (t. 97), certamente anteriore al 1934 o quella dell’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano (t.45, n.50), di cui si conosce copia conservata presso l’Archivio del TCI datata 1957. Altrettanto interessante il confronto tra alcune riprese originali e le versioni pubblicate in catalogo (e forse presenti in mostra) dopo essere state sottoposte a un esteso e raffinato ritocco, come nel caso del Salotto cinese di Stupinigi (t.14), da cui scompare la passatoia, e soprattutto della veduta di scorcio della facciata di Palazzo Carignano (t. 36b), da cui sono fatti scomparire i passanti e le rare auto parcheggiate.

[59] Dardanello 2019, p. 63.

[60] I crediti non riportano mai l’indicazione degli autori delle singole riprese, che dovranno però essere identificati tra quelli citati in un successivo volume della serie (Cavallari Murat 1969): Mario Carrieri, Arthur Frehmer, Schmölz-Huth (Karl Hugo Schmölz e Walde Huth), Arcade, Eugenio Salvi ovvero – per il bianco e nero – Paolo Beccaria, ancora Carrieri, Piero Chomon e Odette Perino, Pedrini, Ferruccio e Giustino Rampazzi, Mario Serra.

[61] Si vedano rispettivamente l’atlante fotografico compreso in Passanti 1990, pp. 195-228  e il corredo fotografico in Dardanello et al., 2006.

[62] Zevi [1948] 1970, pp.46-47. Analoghe perplessità vennero espresse in quello stesso periodo da Ernesto Nathan Rogers: “Fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi.” (Rogers 1955) Anche per Frank Lloyd Wright:  “Se si vuole cogliere il carattere essenziale di un edificio organico non si deve ricorrere alla macchina fotografica, perché esso è integralmente fatto di esperienza. (…) La profondità sfida il piatto occhio fotografico.”, Wright 1963, p.144. A ben  considerare  queste osservazioni critiche  appaiono piuttosto ingenue, quasi ancora fondate sulla pretesa originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con/ sovrapporsi a l’esperienza del soggetto. Analogo atteggiamento sembra di cogliere in uno studioso molto raffinato come Geoffrey Batchen quando scrive che “the photograph does not really prompt you to remember people the way you might otherwise remember them – the way they moved, the manner of their speech, the sound of their voice, that lift of the eyebrow when they made a joke, their smell, the rasp of their skin on yours, the emotions they stirred. (Can you ever really know someone from a photograph?)”, Batchen  2004 che riprendeva  e sviluppava temi già affrontati in Id., 1997) e ancora in Id. 2002, pp.56-80.

[63] Battisti 1960, pp.274-275, 279, n.2.  Sembrano rispondere positivamente a queste preoccupazioni le riprese in controluce realizzate da Giorgio Jano nel 1993 (Jano 2007, p. 173), che restituiscono visivamente l’impressione che “la struttura muraria [possa] dissolversi nell’effetto scenografico di un’aureola.”, Battisti 1960, p. 274.

[64] Si veda l’imbarazzante ripresa a luce artificiale dello scalone del Collegio dei Nobili realizzata dallo  Studio Rampazzi (Griseri 1967, t. 118) con un confuso sovrapporsi di ombre, quasi da incubo.  Ancora sotto la firma Rampazzi venne pubblicata (ivi, t. 213) la ripresa del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi realizzata però da Augusto Pedrini nel 1924.

[65] Si deve certamente a Moncalvo la ripresa a tav. 122, realizzata per Passanti 1941, mentre sono verosimilmente opera dell’architetto le fotografie di altre opere guariniane utilizzate per Passanti 1963.

[66] Credo che  l’autore della ripresa della facciata della chiesa del Corpus Domini sia da identificare con l’architetto Emilio Giay, all’epoca assistente presso l’Istituto di Caratteri distributivi degli edifici della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, con Mario Federico Roggero Direttore e Gabetti professore incaricato.

[67] Touring Club Italiano, Milano, Archivio fotografico – TCIAF, A12334, A12337, A12338.

[68] Pubblicato in Telluccini 1928, p. 86.

[69]  Carlo Bossoli, Re Vittorio Emanuele II, Cavour, i ministri e la corte scendono lo scalone di Palazzo Madama dopo l’inaugurazione della V legislatura subalpina, 1853, tempera su carta, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; alle stesse collezioni appartiene anche il disegno di Migliara.

[70] Cfr.  Telluccini 1928, t. 51; Brinckmann 1931, t.271.

[71] Si veda la lastra conservata nella  FFTM, Storiche GAM 0008, ancora riutilizzata in Viale 1963, t.97.

[72] Bertelli 1984, p. 7.

[73] “It is impossible to see architecture in its full complexity at once. Architecture is made up of detail, fragments, fabrications. And the very idea behind it can be captured in a fragment, in a detail”,  Hejduck  1980, traduzione di chi scrive, corsivo dell’autore.

[74] Portoghesi 1956, con interessanti fotografie dell’autore. A ulteriore conferma della sfortuna critica di certi temi, segnaliamo quanto  l’autore ebbe a ricordare anni dopo: “quando, nel 1955, raccoglievo il materiale per il mio studio, avevo constatato la assoluta assenza di fotografie della cupola della S.S. Sindone da tutti i trattati dedicati alla Storia dell’Arte e dell’Architettura.”, Portoghesi 1970, p.9.

[75] Portoghesi 1966a, p. 32. Quel confronto tra visione oculare e ottica richiama il concetto di “inconscio ottico” formulato da Walter Benjamin nel 1931 e reso noto in Italia dall’edizione Einaudi del 1966.

[76] Portoghesi 1966 b, p.n.n.

[77] Da una lettera di Giorgio Stockel a chi scrive, datata 25 settembre 2006.  Anche Michel Tournier  1990, p. 9 riconosceva che “con l’architettura barocca, ecco che la curva invade l’edificio. (…) Ora, notiamolo bene: la linea curva è quella del corpo vivente, e in particolare del corpo umano.”

[78] “Le immagini fotografiche così impaginate restituiscono quasi una architettura in movimento, quasi fossero la sequenza di una serie di quei colpi d’occhio che tanta parte hanno nel nostro modo di vedere gli insiemi. A ciò si accompagnava una consapevole scelta del sistema di “stampa in rotocalco quale l’unica tecnologia che a quel tempo fosse in grado di fornire dei neri pieni capaci di restituire la ‘carnosità’ e la ‘sensualità’ delle soluzioni architettoniche.”, Portoghesi 1966 b, p.n.n.

[79] Portoghesi 1967, con immagini dell’autore e di  Eugenio Monti, Paolo Monti, Oscar Savio  e Giorgio Stockel che mi ha ricordato come l’altro progettato volume dedicato all’architetto ticinese, con Bruno Zevi, “mai vide la luce per i tipi di Einaudi per lo scontro insanabile e mai sanato tra Zevi e Portoghesi  consumato in un convegno avvenuto all’Accademia San Luca di Roma.”, vale a dire quello del 1967 dedicato proprio a Borromini.

[80] Norberg-Schulz  1971.   Tra gli autori del corredo fotografico non era citato l’amico Portoghesi, cui pure si doveva la bella ripresa dell’invaso di Sant’Ivo alla Sapienza, fotografato dall’alto con i tre lobi anteriori della pianta visivamente inscritti nell’oculo della lanterna (t.152), già pubblicata in Portoghesi 1967, p.89.

[81] Goodman 1988, pp. 71-72.

[82] Citato in Bertelli 1984, p.7.

[83] Citato in Celati 1989, p.n.n.

[84] Gombrich 1985, p.246.

[85] Tafuri 1978, pp.83- 85.

[86] Citato in Cavanna 2016, p. 56. Sfumato per ragioni economiche il progetto dedicato a Gian Lorenzo Bernini,  l’interesse per le opere della stagione barocca si era sostanziato in Monti prevalentemente nell’attenzione per alcune realizzazioni romane come la Fontana di Trevi e gli angeli di Ponte Sant’Angelo, nelle quali – secondo Antonio Arcari – si potevano riconoscere “le stesse motivazioni che si arricchiscono e si sostanziano con la sua attenzione per la vitalità della materia (…) e con le sue tendenze all’informale e all’astratto”, Arcari 1983.

[87] Prola, Jano, Peyrot 1988; Jano 2007.

[88] Mimmo Jodice, citato in G. Romano, Sguardi sul Piemonte: Lo sguardo dell’uomo ombra (Mimmo Jodice) in Romano 1999, pp. 17-18; dallo stesso testo sono tratte le due successive citazioni.

[89] Domenico Prola, 120 chiese del periodo barocco in Piemonte, in Prola et al. 1988, pp. 17-25 (17).

[90] Giorgio Jano, Nota sulla Fotografia, Ivi, pp. 37-38.

[91] André Corboz, Architetture zenitali, Ivi, pp. pp. 12-13, corsivo di chi scrive.

[92] Flusser 1987, p. 35.

[93] Jano 2007 p. 201.

[94] Griseri et al. 1995. Ancora in  Comoli, Palmucci 2000 realizzava un Percorso per immagini (pp. 146-167), molto ordinate e “classiche” (come ebbe a dire Griseri a proposito di Augusto  Pedrini), con molti dettagli e qualche zenitale per le cupole (Santa Chiara a Mondovì Piazza, p. 160; Santuario di Vicoforte, p. 163; Santa Croce e San Bernardino a Cavallermaggiore, p. 165), ma senza forzature ‘espressioniste’.

[95] Giovanni Romano, Presentazione, in Dardanello 2001, pp. 11-12 (12).

[96] Daniel 1994, pp.21-22, t. 1.

[97] Per una applicazione estensiva, rigorosa e altrettanto problematica di questa metodica di restituzione delle architetture si veda il pluridecennale lavoro di Markus Brunetti (2016), http://www.markus-brunetti.de/ (23 07 2020).

[98] Tesauro 1670, p. 166.