Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Per un repertorio delle immagini di Vezzolano (1997)

in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro, Torino, Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

 

In memoria di Paolo Costantini       

 

 

 

“Dimensioni: lunghezza m 6,22; altezza m 1,22. Il ricordato ambone presenta molto interesse. Sopra le colonnine che sostengono i cinque archi sono scolpiti, su pietra calcarea, bassorilievi che, disposti su due fasce sovrapposte, coprono la parete dell’ambone verso l’ingresso della chiesa”. Così Secondo Pia apre la propria ampia scheda di lavoro  (più di tre cartelle) dedicata allo jubé di Vezzolano, redatta dopo il 1904,  che prosegue con una  estesa descrizione del doppio ciclo di figure, con la trascrizione dell’iscrizione dedicatoria e con una lunghissima citazione delle pagine che Adolfo Venturi  dedica a quest’opera  nel terzo volume della sua Storia dell’arte italiana[1]:  “Le figure sono colorate da un segno nero nelle sopracciglia, da un tondo pure nero negli occhi e da una tinta di ciliegia nei pomelli delle guancie, di rosso cinebrino nelle labbra, rosso purpureo nei calzari degli angeli, da un azzurro nel loro manto che pare invetriato e conferisce alla grande scultura l’aspetto di una maiolica smaltata; l’oro illumina le corone e i contorni delle penne degli angeli, il fondo è azzurro nel bassorilievo, verde negli archi”[2]. Si legge come in trasparenza in queste avvolgenti parole di Venturi, e ancor più nella ripresa che ne fa Pia, oltre al fascino per la policromia ricca di queste figure il rammarico di non poterle ancora trasmettere in immagine visibile, fotografica, e lo sforzo di una restituzione in ecfrasi affidata a una cascata cromatica di aggettivi precisamente qualificati. Sono questi gli anni, intorno all’inizio del secolo, in cui le ricerche scientifiche e tecnologiche intorno alla possibilità di riprodurre fotograficamente il colore si fanno più insistenti e mirate sino  a condurre alla messa a punto del procedimento della autocromia da parte dei fratelli Lumière, commercializzato a partire dal 1907 e quasi immediatamente adottato anche da Pia[3].

La redazione di precise schede analitiche dedicate a ciascuna delle opere fotografate è un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione del patrimonio architettonico piemontese, ma è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, la documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico, tradizione sulla quale non ci possiamo qui soffermare ma che varrà la pena un giorno di ricostruire criticamente[4] e che pare essere connotata nei casi più significativi dalla volontà di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, certamente lontano dalle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer) e prossimo invece alle indicazioni di Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture  (1880)  richiamava l’attenzione degli “amateur photographers” verso il compito di delineare accuratamente per mezzo della fotografia “i dettagli delle cattedrali sopra citate” (Lincoln e Wells in Inghilterra; Parigi, Amiens, Chartres, Rheims, Bourges e il transetto di Rouen in Francia) poiché “mentre una fotografia di paesaggio non è altro che un gradevole passatempo, quella di un’antica architettura è un prezioso documento storico; né questa architettura deve essere ripresa solo quando presenta un aspetto pittoresco ma pietra per pietra e scultura per scultura; cogliendo ogni opportunità offerta dai ponteggi per riprenderla più da vicino, orientando l’apparecchio nel modo più opportuno per controllare [la resa delle] sculture, senza il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”[5]. Ritroviamo qui il fascino per la lettura analitica del manufatto consentita dalla ripresa fotografica che già aveva colpito Viollet-Le-Duc[6] ma – soprattutto – cogliamo l’eco di quella mutazione tecnologica e poi sociale che stava trasformando i dilettanti fotografi in protagonisti attivi della cultura, in particolare nell’ambito specifico della conoscenza e valorizzazione del patrimonio artistico ed architettonico. Poiché se è vero che gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il  patrimonio architettonico – specialmente medievale – e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico (insieme alla fotografia sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”) è altrettanto vero che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Sono questi i meriti che il Comitato della Prima Esposizione italiana di Architettura (Torino, 1890) riconosce a Secondo Pia  assegnandogli la medaglia d’oro per la sua già  famosa e “numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”, anche con l’intento di stimolare altri dilettanti (gli amateur di Ruskin, appunto) a seguirne l’esempio: questi “dovrebbero assumere nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”[7]. L’ambiente fotografico piemontese ormai da tempo si era rivelato sensibile a queste istanze e la documentazione ed il rilievo del territorio, consolidati campi di applicazione della fotografia sin dalle origini e, in Italia  – come aveva rilevato Giulio Bollati – strumento di unificazione almeno inventariale, divengono in Piemonte uno dei tracciati del percorso che porta alla definizione ed alla costruzione di una identità territoriale forte, adeguata al mutato ruolo politico della regione, e che si manifesta nel progressivo accrescimento di una documentazione del patrimonio specialmente architettonico[8] che si fa sempre più estesa e minuziosa, sovente precedendo nella scelta dei temi gli stessi studi specialistici.  Nel primo decennio successivo all’Unità quasi tutte le campagne fotografiche[9] ripropongono e confermano le scelte della tradizione  incisoria e litografica, semmai progressivamente distaccandosene nei modi.  Ancora nei  primi anni Settanta quando, con la diffusione degli studi fotografici al di fuori del capoluogo, la documentazione si estende ai centri minori, la logica di rappresentazione non muta: semplicemente se ne  estende l’applicazione per celebrare dopo quelle sabaude le glorie municipali, fatte di  monumenti ma anche di tutte quelle nuove realizzazioni che segnano l’avvento del moderno, dagli asili ai ponti, alle stazioni, ai primi stabilimenti industriali.  Solo coi primi anni Ottanta e ancor più dopo le suggestioni del Borgo Medievale realizzato per l’Esposizione Nazionale Italiana del 1884  a Torino, la logica sottesa alle campagne fotografiche muta sostanzialmente e queste si connotano esplicitamente come campagne di indagine e di documentazione, destinate a produrre e diffondere nuova conoscenza (sono questi gli anni del nascente associazionismo turistico-culturale) e non semplicemente a ribadire, con diversi mezzi, il repertorio delle emergenze monumentali piemontesi.

“Non la conoscevamo – l’amico che mi accompagnava ed io – che da alcune incomplete e vecchie incisioni” ricorda Ettore  Bracco nel 1896 riandando  all’emozione provata “il giorno di una Epifania già lontana” quando appunto gli apparve la chiesa di Vezzolano  “allo svolto di uno di quei ripidi e fangosi sentieri di collina (…)  nelle sue pure e semplici linee, e nella tenera armonia delle sue tinte”[10], a testimonianza di una fortuna e notorietà del monumento ancora recenti. La severa semplicità dell’architettura ed il dolce paesaggio delle colline monferrine in cui questa è immersa non erano fatti per attrarre e soddisfare il gusto goticizzante  dei primi decenni del secolo, tanto che la citazione che ne fa Modesto Paroletti nel secondo volume del suo Viaggio romantico-pittorico è corredata da una illustrazione dello jubé, realizzata   da Francesco Gonin nel 1828, che lo descrive come un elemento completamente passante, che lega piuttosto che separare le due parti di una navata estremamente luminosa, in qualche modo goticizzandolo (Paroletti 1832, tav. IV) tanto da provocare qualche decennio più tardi le dure critiche di Edoardo Arborio Mella,  che contrappone le attenzioni proprie della nascente cultura del rilievo storico-architettonico alla tradizione illustrativa di Gonin.  Nell’intervallo di tempo compreso tra questi due estremi e mostrando un chiaro segno delle trasformazioni culturali in atto sia nella specifica cultura tecnica sia nella fortuna di Vezzolano, si colloca la ricca produzione di Clemente Rovere che dopo una precoce veduta paesaggistica datata 1845, ritorna a Vezzolano nel giugno 1854, forse su suggestione del coevo XXV volume del Dizionario del Casalis[11], per documentare analiticamente, per  rilevare si direbbe, l’insieme e  i dettagli della chiesa e del chiostro, producendo un corpus complessivo di 41 schizzi e disegni (tra i quali una veduta d’insieme dello jubé e tre particolari del fregio che testimoniano un’attenzione per i valori architettonici così come per quelli plastici di questo elemento) che per impegno ed analiticità costituiscono un unicum in tutta la sua produzione[12].

Sono questi gli anni in cui si consolida l’iniziale fortuna critica del monumento, scandita dalla pubblicazione del primo studio di Bosio nel 1859 e da quella di poco successiva delle Notizie di Manuel di San Giovanni (1862) corredate di una puntuale Descrizione della Chiesa di Vezzolano redatta da  Mella che comprende tra le altre una tavola (n.4) dedicata alla “Sezione trasversale avanti al jubé” che mostra l’elemento – qui per la prima volta identificato con terminologia criticamente corretta – inserito nel contesto architettonico della chiesa, quindi senza sottolinearne particolarmente l’apparato scultoreo[13] che costituisce invece il soggetto specifico di una delle tavole disegnate da Pietro Viarengo e litografate da B. Marchisio a corredo del nuovo studio pubblicato da Antonio Bosio nel 1872 dove il “Bassorilievo sul nartece od ambone nell’interno della chiesa”  è considerato, insieme con quello della lunetta del portale, uno degli elementi qualificanti del complesso.

Questi studi danno al complesso  di Vezzolano una prima notorietà  tanto che il fotografo Vittorio Ecclesia, da poco trasferitosi da Torino ad Asti, gli dedica verso il 1879 una serie di otto riprese in grande formato (33x42cm circa) una delle quali è appunto dedicata allo jubé (“Nartece”) e costituisce con la sua ripresa frontale e lievemente rialzata, estesa al pilastro ed alla semicolonna laterali, il modello per buona parte delle riprese successive dello stesso soggetto[14], mentre pochi anni più tardi, nel 1883,  Carlo Nigra si cimenta con una serie di vedute ravvicinate e di dettaglio (MCT, Fondo d’Andrade, n574) che non giungono mai però alla restituzione delle singole figure, come pure si iniziava a fare in quegli anni nell’ambito della documentazione pittorica.

Vezzolano è ormai entrata a far parte a questa data del novero degli edifici piemontesi “aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico”  (Collegio 1887, p.5) presentati in riproduzione fotografica nelle sale del neonato Museo Regionale di Architettura al Borgo Medievale .

La chiesa  costituisce uno dei  soggetti privilegiati delle  “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia già negli anni del suo apprendistato: “A Vezzolano. Prese due pose placca [lastra intera] facciata. Stante gran caldo collodio evapora troppo presto” scrive sul suo diario in data 20 luglio 1882, alle prese con le difficoltà tecniche poste dall’uso della lastra al collodio umido che in quei giorni  alterna ancora alle nuove lastre a secco alla gelatina bromuro d’argento (Falzone del Barbarò, Borio, 1989, p.85) e questo luogo costituirà negli anni uno dei temi da lui più  frequentati  ritornando più volte, almeno fino al 1915, a fotografare particolari di interni ed esterni utilizzando formati e materiali sensibili diversi, con una lettura partecipata, ma anche minuziosa e analitica insieme,  tanto degli elementi scultorei quanto delle architetture, che lungi dall’essere mostrate quali “dettagli fotografici così chiaroscurali, quasi da «racconti gotici» o da fondali melodrammatici” (Falzone del Barbarò, 1989, p.20) sono rilevate nei loro precisi rapporti dimensionali e proporzionali, sovente inserendo in ripresa un riferimento metrico secondo un uso che in quegli anni si andava consolidando specialmente nell’ambito della fotografia archeologica.

Proprio Vezzolano, insieme a Sant’Antonio di Ranverso,  costituisce l’argomento di due raccolte di fotografie pubblicate da Pia nel 1907 (Ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte) e intorno al  1919  (Riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica) contenenti rispettivamente 21 e 36 stampe fotografiche dedicate al complesso, tra le quali si segnala nella raccolta più tarda una veduta  di dettaglio dell’intera fascia in bassorilievo dello jubé (n.12, 8x45cm)[15] realizzata accostando in stampa due distinte riprese. In questi album Pia comprende anche immagini realizzate prima dei restauri del 1896, che costituiscono oggi una preziosa documentazione  delle condizioni della chiesa antecedenti quella data, da integrare con quelle, anonime, pubblicate in Bracco 1896 e  Bosio 1896 (le prime ad essere diffuse tipograficamente), e con le due immagini della navata principale e della navata sinistra, datate 21 luglio 1895, attribuibili ad Ottavio Germano, da mettere in relazione con l’inizio del cantiere di restauro della chiesa ed eseguite in conformità alle raccomandazioni espresse da Camillo Boito in occasione del III Congresso degli ingegneri e architetti di Roma nel 1883[16].

A questa data Vezzolano è parte integrante del circuito artistico piemontese: “Andati per ferrovia fino a Chieri poi per omnibus (due ore) fino a Castelnuovo d’Asti da dove siamo andati con una vettura a detta Abbazia. Abbiamo fatto parecchi lavori in chiesa, nel chiostro e nell’interno e dopo siamo andati a Chivasso passando per Torino che lasciamo definitivamente.” Queste note, datate 3 settembre 1898, non sono tratte dal diario di un turista colto, ma di un altrettanto colto e allora giovanissimo fotografo, Mario Sansoni, operatore degli Alinari, che offre un rendiconto dettagliato della loro prima campagna piemontese[17]. Nella foto Alinari lo jubé occupa completamente l’inquadratura, nitidamente restituito nella sua interezza, senza gli ostacoli visivi determinati dai pilastri laterali, a dimostrazione di quella maestria professionale che contraddistingue la produzione di questa ditta (Alinari, n.15872, SBAS) costituendo di fatto  se non il modello certo il termine di riferimento italiano nella documentazione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico.

Nel primo decennio del nuovo secolo altre immagini di Vezzolano, e dello jubé, verranno realizzate e pubblicate a corredo di studi di diverso impegno e valore, ma riproponendo sostanzialmente i modi della cultura visiva ottocentesca, quando non le stesse fotografie[18], e solo nei primi anni Venti compare una nuova interpretazione fotografica del monumento, dovuta al fotografo torinese Giancarlo Dall’Armi, che gli dedica una cartella della serie “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia” da lui edita e che aveva già visto la pubblicazione nel 1915 dei sei fascicoli dedicati a  Il Barocco Piemontese (palazzo Morozzo della Rocca, palazzo Madama, palazzo Barolo I/II, palazzo Saluzzo Paesana, palazzo Graneri).   Se nelle fotografie torinesi dalla grande maestria di esecuzione  emerge  ancora una impostazione ottocentesca, come bloccata nel tentativo di far corrispondere esattamente l’immagine all’architettura che l’ha generata, le dodici stampe dedicate a Vezzolano dimostrano una diversa e più matura autonomia della tecnica espressiva;  il progetto di documentazione lascia spazio e condivide evidenti intenzioni interpretative, alla ricerca di una autonomia formale dell’immagine, che non trova più solo nel referente, nel soggetto fotografato,  la propria ragione d’essere.  La novità di sguardo di Dall’Armi (almeno per il panorama locale) sarà rilevata immediatamente dalla critica in occasione della Prima esposizione internazionale di Torino del 1923,  sottolineando che: “nobili sono i paesi esposti e di squisita fattura i brani architettonici come: la porta dell’Abbazia di Vezzolano”[19].

Le campagne fotografiche  sembrano diradarsi nei decenni successivi[20] e si devono attendere i tardi anni ‘50 e i primi ‘60 per veder comparire nuove immagini di Vezzolano, quasi sempre realizzate e pubblicate con intenzioni diverse, meno documentarie ed analitiche, più decorative che illustrative, in cui i soggetti rappresentati si frantumano in tasselli minuti e sconnessi[21] mentre si fa più frequente il ricorso alle riprese cinematografiche e poi televisive. Contemporaneamente nuovi studi mettono in discussione la cronologia delle fasi costruttive della chiesa e, quindi, della realizzazione e collocazione dello jubé: l’ipotesi di un adeguamento dimensionale del ciclo scultoreo che avrebbe portato alla riduzione quantitativa delle figure, derivata dalle analisi di Renate Wagner-Rieger 1956 e fatta propria da Bernardi 1962, prende inaspettatamente consistenza visiva in una singolare e fantastica immagine pubblicata a corredo dell’ennesima riedizione (1966) dell’opuscolo di Achille Motta: la fotografia a doppia pagina che illustra “Il Nartece” si presenta curiosamente tagliata a sinistra in corrispondenza della chiave del primo arco mentre per la prima volta nella breve ma densa storia delle riprese fotografiche di questo elemento compare in tutto il suo sviluppo l’arco di destra, la cui estremità è solitamente coperta alla vista da una  semicolonna; conseguentemente si estende anche la “visibilità” delle fasce scolpite e questo nuovo spazio guadagnato alla rappresentazione viene utilizzato e riempito aggiungendo due figure: un (semi)patriarca al registro inferiore (forse materializzazione scultorea di quello dipinto sulla semicolonna) ed un non meglio identificato personaggio su quello superiore, che volge sdegnosamente le spalle, ignaro, alle storie della Vergine. La resa realistica dell’intervento di manipolazione è elevata: il ritocco, certamente eseguito con pazienza e maestria su di una ripresa appositamente progettata ed eseguita per avere un controllo realistico delle distorsioni prospettiche, ha prodotto un risultato che, almeno nella trasposizione tipografica a cui era destinato[22], può considerarsi talmente buono da passare inosservato, se non ad un occhio attento ed esercitato, quale certamente non si poteva presupporre avessero i destinatari della piccola guida turistica. Perché allora tanto sforzo destinato a rimanere invisibile? Perché faticare sul banco di lavoro e in camera oscura a ricostruire archi, apparecchio murario e figure se non si intendeva dimostrare nulla, forse solo suggerire, quasi in codice, con un gesto sommesso e comprensibile a pochi iniziati, quale avrebbe potuto essere l’aspetto di questo eccezionale insieme scultoreo “se…”?  Alla fotografia, strumento principe della oggettività documentaria, prova provata visibilmente della  realtà delle cose, viene affidato il compito di testimoniare non l’esistente ma il possibile: qui l’immagine fotografica non è più l’analogon né l’indice dei moderni semiologi ma certo un’icona dalle speciali caratteristiche, come sarebbe potuta piacere a Viollet-Le-Duc; non il documento irrefutabile ma – insospettabilmente – lo strumento per ristabilire il manufatto in una condizione di compiutezza che potrebbe anche non essere mai esistita in un momento dato.

 

Note

[1]  Venturi  1904,  pp.80-91, con sei fotografie non firmate dedicate a Vezzolano, a cui si deve aggiungere un’immagine del chiostro pubblicata a p.23. La monumentale opera di Venturi costituisce il primo esempio di impiego editoriale su vasta scala dell’apparato fotografico a corredo di un’opera di storiografia artistica generale (Spalletti 1979, p.469) e riflettette compiutamente il pensiero dello studioso  nei confronti della rilevanza, anche metodologica, della fotografia di documentazione d’arte, espresso una prima volta nella prefazione al catalogo della casa fotografica Adolphe Braun del 1887 (Cfr. Spalletti, 1979, p.471) e ribadito ulteriormente nell’intervista rilasciata ad Anton Giulio Bragaglia nel 1912. Nella stessa occasione Venturi anticipa che in occasione di un prossimo congresso di storia dell’arte medievale sarebbe stata promossa una specifica esposizione di “riproduzioni foto-meccaniche applicate alla storia dell’arte” e indetto “un concorso per la carta occorrente a quelle riproduzioni, carta che si desidera migliore di quella americana ora in uso, la quale per la sua lucentezza danneggia gli occhi.” (in Bragaglia, 1912, p.18)

[2]La scheda redatta da Pia attingendo ampiamente al testo di Venturi è pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.94-95. Va qui segnalato come Pia  riprenda senza citarlo  il testo di Bosio 1896, p.5, nel quale i Patriarchi sono descritti “tutti seduti in numero di trentasei”,  senza controllarne la consistenza reale (35) sulle sue stesse riprese fotografiche di dettaglio.  Pur in presenza di un ricchissimo materiale documentario (diari, schede) il problema di una accurata datazione delle immagini di Pia attende ancora una soluzione; si veda ad esempio la ripresa generale dello jubé pubblicata in Falzone del Barbarò, Borio 1989, tav.6 con la data “4 ottobre 1904”  che è stata invece palesemente  realizzata prima dei restauri del 1896. Sulla figura di Secondo Pia cfr. inoltre Tamburini, Falzone del Barbarò 1981 e la scheda biografica redatta  da Cassio 1990, pp.409-410.

[3] A far data dalla loro commercializzazione (1907, cfr. Les frères Lumière 1980, p.11) alcuni fotografi piemontesi particolarmente attivi nel campo della documentazione   delle opere d’arte come il vercellese Pietro Masoero utilizzarono le autocromie per dotarsi di un importante ed innovativo sussidio di studio e di divulgazione (Cavanna 1985). Lo stesso Pia le utilizzerà a partire dal 1909 sia per la documentazione del patrimonio artistico piemontese sia per ricerche personali, producendo in circa vent’anni di attività in questo settore un numero rilevante di immagini a colori (297 secondo le indicazioni fornite in Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.65 e riconfermate in Falzone del Barbarò, 1989 p.56, che inspiegabilmente si riducono a 262 nella “Nota sull’archivio Secondo Pia” compresa in  Falzone del Barbarò, Borio 1989, p.88.  La sola autocromia dedicata a Vezzolano sinora reperita,  relativa al  chiostro e datata 31 agosto 1910, è stata pubblicata in Miraglia 1990, tav.204.

[4]Una specifica vocazione dei fotografi attivi in Piemonte  per le immagini di documentazione e lettura del paesaggio e dell’architettura emergeva già dal corpus di immagini presentate nella mostra del 1977 dedicata ai Fotografi del Piemonte e risulta sostanzialmente riconfermata anche da Miraglia 1990.

[5] La prima edizione di The Seven Lamps venne pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione da cui  è tratta la citazione è stata ripubblicata in Ruskin 1911, p.21-22 e ripresa in Costantini 1986, p.16.

[6]Compila per il suo Dictionnaire la voce “Restauration” in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici:  “La photographie  à conduit naturellement les architectes à être plus scrupuleux encore dans leur respect pour les moindres débris d’une disposition ancienne, à se rendre mieux compte de la structure, et leur fournit un moyen permanent de justifier de  leur opérations. Dans les restaurations, on ne saurait donc trop user de la photographie, car bien souvent on découvre sur une épreuve ce qu’on n’avait pas aperçu sue le monument lui-même.” (Viollet-Le-Duc 1860, pp.33-34) Pochi anni prima, nel 1854, Hector Lefuel, che era succeduto a Louis Visconti nella costruzione del nuovo Louvre, aveva fatto ampiamente ricorso alla documentazione fotografica nell’ambito del nuovo, immenso cantiere (Daniel 1994, p.57), mentre nel 1857 su sollecitazione dei Fratelli Bisson l’école des Ponts et Chaussées istituiva un corso di fotografia, poi attivo fino al 1911 (Frizot 1994, p.208) e a Londra veniva fondata la Architectural Photographic Association.. Negli stessi anni in Italia era Pietro Estense Selvatico  nei suoi Scritti d’arte ad affrontare le questioni poste da l’uso documentario, e didattico, della fotografia di architettura e certo le sue riflessioni ebbero un peso rilevante nella formulazione delle più tarde indicazioni di Boito, suo successore alla Accademia di Venezia.

[7]I Esposizione 1890, p.49. Dieci anni più tardi lo stesso Masoero (1900, p.278 ripreso in  Miraglia 1990, pp. 69-70) recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sulle pagine del “Bullettino” sottolinea che “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica.(…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”

[8]Diverso è il caso della documentazione del patrimonio  pittorico, la cui applicazione era fortemente condizionata dalla impossibilità delle emulsioni al collodio di registrare fedelmente l’intero spettro cromatico. Qui la produzione si fa più incerta e sporadica e ricorre  sovente all’espediente della riproduzione indiretta dell’opera (da incisioni o litografie) sebbene siano da ricordare in questo ambito almeno le stampe fotografiche pubblicate negli album della “Promotrice” di Torino a partire dal 1863 (Reteuna 1991) e l’ampio repertorio di riproduzioni di disegni  italiani raccolto  da Vittorio Besso a partire dal 1868 (Cavanna 1991, p.203). Solo intorno alla metà degli anni Ottanta vedrà la luce una realizzazione più impegnativa e narrativamente articolata quale la ricchissima lettura  fotografica (64 tavole in grande formato) che Pietro Boeri compie nel 1886 degli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo in Vercelli. Più complesso risulta conseguentemente il dibattito relativo alla documentazione delle opere d’arte, per la cui ricostruzione si rimanda a Spalletti 1979, Freitag 1980.

[9]Per una attenta ricostruzione di questi temi  si veda Miraglia 1990. Un esempio precoce di attenzione per il patrimonio minore è data dal fotografo biellese Vittorio Besso tra i cui meriti la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda “quello di usare di questa divina arte (…) anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario).”, citato in Cavanna 1991, p.202.

[10]Bracco 1896, p.457. La descrizione del cammino che porta alla scoperta del monumento è – con accenti diversi – uno dei topoi della letteratura su Vezzolano tra Otto e Novecento, cfr. Cena 1898b, p.270; Porter 1917, p.539. Un altro accenno al percorso di avvicinamento è compreso nelle pagine del diario di Mario Sansoni citate più oltre nel testo.

[11]Casalis 1854, pp.76-79. Un primo cenno al complesso era compreso nella voce “Albugnano”, vol.I, 1833, pp.171-172: “Fra le cappelle che sonovi sul territorio, havvene una rimarchevole per la forma gotica, sotto il nome della Beata Vergine di Vezzolano.”  Nel 1854 invece viene dedicata al complesso una ricca voce tutta rivolta  alla ricostruzione delle vicende storiche “in gran parte comunicate dal sig. avvocato Pier Luigi Menocchio (…) che le estrasse dall’archivio del R. Economato apostolico”, p.79 in nota.

[12]Sertorio Lombardi 1978, II, nn. 2235-2275. Allo jubé sono dedicati tre disegni (nn. 2252-54) datati genericamente “1854” relativi al Basso rilievo dell’ambone, a cui si deve aggiungere  il disegno (n. 2255)  della Figura dell’ambone (vale a dire l’elemento architettonico nel suo insieme) ricavato da uno schizzo (n. 2256) datato “11-6-1854”. Nella produzione di Rovere il solo caso confrontabile con Vezzolano è quello della Sacra di San Michele, a cui sono dedicati però solo diciannove disegni.

[13]Per una autorevole ricostruzione della più antica bibliografia dedicata a Vezzolano, a partire da Giulio Cordero di San Quintino, cfr. Porter 1917, III, pp.539-548. La Descrizione di Mella venne pubblicata in  Manuel 1862, pp.268-272. A questa data Mella segnala ancora la “imbiancatura praticata nell’interno” (p.271) che è documentata nei disegni di Clemente Rovere, cfr. nota 12, antecedente agli interventi del 1865 nel corso dei quali le pareti vennero tinteggiate a fasce alterne, e lamenta lo “stato di abbandono e miseria in cui trovasi questo prezioso monumento (…) Nello stato in cui ancora si trova il riattamento non sarebbe opera di gran conto, massime se l’amor dell’arte trovasse intelligenti e disinteressati [come il Mella stesso] direttori delle opere.” (p.272). Alla Descrizione di Mella farà esplicito riferimento Raffaele Pareto 1864,  ripubblicando anche due tavole   (n.14, pianta e n.4, facciata) per favorirne una corretta lettura e apprezzamento, stante le ridotte dimensioni di quelle comprese in Manuel 1862. Pareto aveva già dedicato all’attività di Mella altri interventi, tutti pubblicate nel “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”,  intitolati  rispettivamente al Duomo di Casale, 9 (1861), a Il nuovo pulpito della cattedrale di Casale, 10 (1862) ed alla Chiesa di S.Andrea in Vercelli, 10 (1862).

Mella sembra essere stato il primo studioso italiano ad utilizzare criticamente il termine jubé, verosimilmente su suggestione di Fernand de Dartein , autore a cui fa riferimento anche Giovanni Cena  1898b, p.271.

[14]Vittorio Ecclesia,  Via San Martino, 19, Asti, Abazia di S. Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti, otto stampe all’albumina virate all’oro 33×42 cm circa, montate su cartoni 50×65 cm circa.   La presenza dell’indirizzo della prima sede astigiana dello studio di Ecclesia  (Cassio 1990, p.379) ci consente di datare queste immagini agli anni 1878-1880,  forse di poco successive alla realizzazione dell’Album artistico della città di Asti – 1878  (cfr. Fotografi del Piemonte 1977, pp.29-30)  che al pari di queste non porta la firma dello studio (Fotografia Alfieri) ma quella del fotografo.  Questa serie faceva parte delle fotografie di Ecclesia comprese  nella sezione “Fotografie Architettoniche” della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 (Esposizione 1884, pp.124-125) e sembra verosimile ritenere che in quella occasione venissero depositate alla Biblioteca Reale di Torino in cui oggi sono conservate.  Un’altra copia della foto di Ecclesia dell’angolo sudorientale del chiostro, di  dimensioni lievemente inferiori,  è compresa nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (Cavanna 1981, tav. 5f).

[15]I due album, conservati alla Biblioteca Reale di Torino,  sono dedicati rispettivamente “A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia” ed  “A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti” e comprendono foto parzialmente  inedite sebbene ampiamente note agli studiosi per essere state presentate a numerose esposizioni e in parte conservate in copia alla Galleria Sabauda fin dal 1891 (cfr. Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, p.30). Seguendo una consuetudine diffusa tra molti fotografi non solo piemontesi Pia aveva anche realizzato fotografie dei “monumenti della sua Asti nativa, raccolti in un magnifico album che, offerto al Re, gli valse la Croce di Savoia.” (Cena 1898a, p.239).

[16]Le due riprese, anonime, conservate nel Fondo d’Andrade dei Musei Civici di Torino (554F, 555F) devono essere  messe in relazione con le lastre alla gelatina bromuro d’argento 24/30, datate 21 luglio 1895 e 7 gennaio 1896, conservate nell’Archivio fotografico della SBAA di Torino e vanno verosimilmente attribuite ad Ottavio Germano, direttore del cantiere di restauro e buon fotografo dilettante, sempre attento ad un uso accorto dell’immagine fotografica in relazione alla documentazione sia dei cantieri di restauro (Cavanna 1981, p.123; Cassio 1990, p.386) sia di quelli di più libera reinterpretazione, come quello del castello di Banchette (Ivrea) da lui ricostruito nel 1884-96.  Le raccomandazioni formulate dalla prima sezione del Congresso del 1883 costituiscono come è noto uno dei momenti cruciali del formarsi di una moderna cultura del restauro in Italia. Per quanto riguarda i temi che più interessano questo saggio  ricordiamo che al punto 6 queste indicavano che “Dovranno eseguirsi, innanzi di por mano ad una opera anche piccola di riparazione o restauro, le fotografie del monumento, poi di mano in mano le fotografie dei principali periodi del lavoro, e finalmente le fotografie del lavoro compiuto (…).” (Boito 1893, p.25).

[17]Mario Sansoni 1987, p.50-51. Le pagine pubblicate si riferiscono al periodo 27 maggio/ 28 ottobre 1898 e riguardano le campagne fotografiche liguri e  piemontesi, durante le quali verranno realizzate nove riprese relative a Vezzolano (F.lli Alinari 1925, pp. 31-35). Sansoni  (1882-1975) ritornerà  ancora a fotografare lo jubé prima del 1941 (in tre parti, Archivio SBAA nn.4359-61) per incarico della   Frick Art Reference Library di New York che gli aveva affidato in esclusiva l’incarico di documentare l’arte europea.

[18]Oltre ai due album di Pia già citati, cfr.nota 15, ricordiamo qui le fotografie dello jubé in Venturi 1904, pp.85-89, quelle di Ecclesia nel catalogo dell’Esposizione Internazionale di Torino del 1911 (Cassio 1990, p.379)  e quelle poste a corredo della prima edizione del volumetto di Achille Motta 1912, dovute ad E. Serra, V. Ecclesia (il “nartece” ante 1880),  a due fotografi  e studiosi “irregolari” come Secondo Pia e Francesco Negri e specialmente al sacerdote F. Origlia, autore non altrimenti noto ma che si rivela qui di buon livello, con accurate immagini di documentazione; la passione per questo genere di fotografia lo accomuna ad un altro sacerdote fotografo attivo negli stessi anni, il vercellese Alessandro Rastelli, che fornisce le immagini per  un volume dedicato a Lucedio edito nel 1914 (Colli, Negri, Rastelli 1914), che vede tra gli autori dei testi anche Francesco Negri.  Singolare e interessante si prospetta a questo punto l’intreccio di relazioni e interessi tra cultura cattolica e fotografia di documentazione del patrimonio artistico ed architettonico nel Piemonte di inizio secolo.

[19]Angeloni 1924, p.40. Queste immagini di Vezzolano non risultano presenti alla Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese  (La Mostra retrospettiva 1926), una delle ultime occasioni espositive del fotografo torinese, che muore nel luglio 1928 (Necrologio 1928).

[20]Si segnalano qui le fotografie di Emilio Gallo pubblicate nel 1930 (T.C.I. 1930, pp.194-195), quelle – anonime – pubblicate nella riedizione ampliata di Motta 1933 e le immagini di Sansoni (ante 1941) e Pedrini (1941) conservate rispettivamente negli archivi fotografici  della SBAA e della SBAS di Torino.

[21]Costituiscono un’eccezione a questa tendenza le immagini pubblicate in Wagner-Rieger  1956, tavv. 42-45 ma specialmente la campagna fotografica realizzata da Augusto Pedrini nel 1961 per Bernardi 1962, che presenta la grande novità di una estesa utilizzazione delle riprese a colori  ma dimostra anche, nella restituzione dei particolari architettonici e scultorei una certa, inconsueta,  approssimazione.

[22]EPT 1966, s.n. Le immagini a corredo sono dovute agli studi Astifoto, Parvalux ed A. Robba, ma allo stato attuale delle ricerche non è possibile attribuire specificamente la fotografia ritoccata dello jubé.

 

 

Bibliografia e fonti

 

Alinari 1925

F.lli Alinari, Piemonte. Catalogo delle fotografie di opere d’arte e vedute. Firenze: Alinari, s.d. (1925)

 

Angeloni 1924

Italo Mario Angeloni, La fotografia artistica alla Prima Esposizione Internazionale, in L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di fotografia, ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, maggio-giugno 1923). Milano-Roma: Bestetti e Tuminelli, 1924

 

Arborio Mella 1869

Edoardo Arborio Mella, Chiesa e badia di Vezzolano presso Albugnano (secolo XI), “L’Arte in Italia”, 1 (1869), pp.39-41; pp. 56-59

 

Berenson 1948

Bernard Berenson, Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva. Firenze: Electa, 1948

 

Bernardi 1962

Marziano Bernardi, a cura di, Tre abbazie del Piemonte. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1962

 

Boito  1893

Camillo Boito, Questioni pratiche di Belle Arti. Milano: Hoepli, 1893

 

Bosio 1872

Antonio Bosio, Storia dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano. Torino: Collegio degli Artigianelli, 1872

 

Bosio 1896

Antonio Bosio, Dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano presso Albugnano: Memorie storich. Asti: Tip. Bona Vincenzo, 1896

 

Bosio 1900

Antonio Bosio, Dell’antica Abbazia e del Santuario di Nostra Signora di Vezzolano presso Albugnano: Memorie storiche. Asti: Scuola Tipografica Michelerio, 1900

 

Bracco  1896

Ettore Bracco,  Luoghi romiti: S. Maria di Vezzolano,  “Emporium”, 4 (1896), n. 24, dicembre, pp. 456-470

 

Bragaglia 1912

Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia. Interviste con Biondi, Venturi, Sartorio, Bonaventura, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n.2, febbraio, pp.17-19

 

Casalis 1854

Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, XXV. Torino: Maspero, 1854

 

Cassio 1990

Claudia Cassio, Biografie, in Miraglia 1990, pp.347-432

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’ architettura, in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, giugno-settembre 1981), a cura di Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp.107-125

               

Cavanna 1985

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, aprile-luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese, in “Antichità ed arte nel Biellese”, atti del convegno (Biella, 14-15 ottobre 1989),  a cura di Cinzia Ottino,“Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S., 44 ( 1990/1991), pp.199-216

 

Cena 1898 a

Giovanni Cena, Piemonte antico, “Arte Sacra”, 1898, disp.30,  pp.270-272

 

Cena 1898 b

Giovanni Cena, Santa Maria di Vezzolano, “Arte Sacra”, 1898, disp.34-35,  pp.239-240

 

Collegio di Architetti 1887

Collegio di Architetti – Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

Colli, Negri, Rastelli  1914

Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il B. Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: G.Pane, 1914 (nuova ediz., a cura di P. Cavanna.  Trino: Circolo Culturale Trinese, 1996)

 

Cordero di San Quintino 1829

Giulio Cordero di San Quintino, Dell’italiana architettura durante la dominazione longobarda. Brescia: Bettoni, 1829

 

Costantini 1986

Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in I dagherrotipi della collezione Ruskin, catalogo della mostra (Venezia, 1986), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Venezia: Arsenale Editrice, 1986, pp.9-20

 

Dall’Armi 1923

Giancarlo Dall’Armi, L’abbazia di Vezzolano, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino: Dall’Armi , s.d. (1923ca), Cartella fotografica: 12 stampe alla gelatina-bromuro d’argento, 24×30

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York –  Montreal: The Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

Dartein 1865-1882

Fernand de Dartein, Étude sur l’architecture lombarde. Paris: Dunod, 1865-1882

 

Ecclesia 1878-1880

Vittorio Ecclesia, Abbazia di S.Maria di Vezzolano presso Albugnano d’Asti. Asti: Vittorio Ecclesia, s.d. (1878-1880), otto stampe fotografiche: albumina, 42x33cm

 

EPT 1966

Ente Provinciale per il Turismo di Asti, a cura di, L’abbazia di Nostra Signora di Vezzolano, testo di Achille Motta. Colle Don Bosco: ISAG, 1966

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione 1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1989

Michele Falzone del Barbarò, Secondo Pia fotografo, in Torino Fotografia 89, catalogo della mostra (Torino ottobre-novembre 1989), a cura di Daniela Palazzoli. Milano: Fabbri Editori, 1989, pp.56-63

 

Falzone del Barbarò, Borio 1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia. Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Fotografi del Piemonte 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, Catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Freitag 1980

Wolfgang M. Freitag, Early Uses of Photography in the History of Art, “Art Journal”, 39 (1979-80), n.2, Winter, pp.117-123

 

Les frères Lumière 1980

Les frères Lumière à l’aurore de la Couleur, catalogo della mostra, (Parigi, giugno-luglio 1980). Lyon: Fondation Nationale de la  Photographie, 1980

 

Frizot 1994

Michel Frizot, dir., Nouvelle histoire de la photographie. Paris: Bordas, 1994

 

Kingsley Porter 1917

Arthur Kingsley Porter, Lombard Architecture. New Haven: Yale University Press, 1917

 

Manuel di San Giovanni 1862

Giuseppe Manuel di San Giovanni, Notizie e documenti riguardanti la Chiesa e Prepositura di S. Maria di Vezzolano nel Monferrato raccolte dal Barone M.d.S.G. ed illustrate dal Conte Edoardo Mella, “Miscellanea di Storia Patria”, I. Torino: Stamperia Reale, 1862

 

Mario Sansoni 1987

Mario Sansoni: Diario di un fotografo, “AFT”, 3 (1987), n.5, giugno, pp.46-53

 

Masoero1900

Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino. Note ed appunti, “Bullettino della Società fotografica italiana”, 12 (1900), n. 4; n. 8, 1900, pp.124-139; 277-291

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Mostra retrospettiva 1926

La mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, “Il Momento”, 24 (1926),  n.128, 2 giugno, p.5; n.132, 5 giugno, p.5

 

Mothes 1884

Oscar Mothes, Die Baukunst des Mittelalters in Italien. Jena: Hermann Costenoble, 1884

 

Motta 1912

Achille Motta, L’Abbazia monumentale di Santa Maria di Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Torino: Pietro Celanza,  1912

 

Motta 1933

Achille Motta, Vezzolano: Memorie storico-religiose, artistiche illustrate. Milano: Tipografia delle Missioni, 1933

 

Pane [1963] 1987

Roberto Pane, Io non vedo con i miei occhi ma attraverso di essi, in “Napoli Nobilissima”, 2 (1962-1963), pp.78-79, ora in Id., Attualità e dialettica del restauro, a cura di Mario Civita. Chieti: Marino Solfanelli Editore, 1987, pp.250-251

 

Pareto 1864

Raffaele Pareto, Facciata della chiesa di S. Maria di Vezzolano in Monferrato, “Giornale dell’Ingegnere – Architetto ed Agronomo”, 12 (1864) , estratto

 

Paroletti 1832

Modesto Paroletti, Viaggio romantico-pittorico delle Provincie Occidentali dell’Antica e Moderna Italia, II. Torino: Felice Festa Litografo, 1832

 

Pia 1907

Secondo Pia, A S.M. la Regina Madre Margherita di Savoia Questi ricordi fotografici di insigni monumenti religiosi del Piemonte offre riverentemente S.P. Torino: Secondo Pia, 1907, album fotografico: 32 stampe all’albumina, 20×25

 

Pia 1919

Secondo Pia, A Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia principe d’Asti promotore di ogni studio ed arte queste sue riproduzioni di antichi monumenti nel Piemonte d’Arte Lombarda e Gotica offre in ossequioso omaggio il dilettante astigiano Presidente della Società Fotografica Subalpina in Torino. Torino: Secondo Pia, s.d. (1919?), Album fotografico: 73 stampe all’albumina, 20×25

 

Renier 1900

Rodolfo Renier, Una leggenda carolingia ed un affresco mortuario in Piemonte, “Emporium”, 12 (1900),  n. 71, pp.377-382

 

Reteuna 1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia”, vol.13, primavera-estate 1991, pp.30-39

 

Ruskin   [1880] 1911

John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture [1880].London, Ward, Lock & Co., 1911

 

Selvatico 1859

Pietro Selvatico Estense, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859

 

Sertorio Lombardi 1978

Cristina Sertorio Lombardi, a cura di, Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Società Reale Mutua Assicurazioni, 1978

 

Spalletti 1979

Ettore Spalletti, Documentazione, critica, editoria, in “Storia dell’arte italiana”, II. Torino: Einaudi, 1979, pp.417-484

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

TCI 1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930

 

Venturi   1904

Adolfo Venturi, L’arte romanica, “Storia dell’arte italiana”, III. Milano: Hoepli, 1904

 

Viollet-Le-Duc 1860

Eugène Viollet-Le-Duc, Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. (1860)

 

Wagner-Rieger 1956

Renate Wagner-Rieger, Die italienische baukunst zu beginn der Gotik. I. Oberitalien. Graz-Köln: Hermann Böhlaus Nachf., 1956

 

 

 

 

Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese (1985)

in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, aprile – luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

 

“lo non ho che un rimpianto, ed è che la fotogra­fia non sia ancora giunta a fermare sulla lastra i colori, per poter presentare queste opere in tutto il fulgore della loro bellezza.”[1] Così si esprimeva Masoero illustrando al pubblico della Società Artistica di Milano la sua confe­renza sulla Scuola pittorica vercellese, già presentata nei primi mesi del 1900 nell’aula della scuola di anatomia della Accademia Albertina di Torino, per la serie di conferenze in­dette dalla Società Fotografica Subalpina[2]. Erano questi gli anni di maggiore impegno per Pietro Masoero, il cui attivismo in campo fotografico veniva riconosciuto ufficialmente dap­prima col conferimento di una “Grande meda­glia d’argento data dal Ministero della Pubbli­ca Istruzione”[3] per le sue speciali benemerenze verso l’arte fotografica, quindi con la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia. Furono questi riconoscimenti a coronare il suo impegno de­cennale di protagonista del dibattito fotografi­co italiano ed a segnare il suo definitivo ricono­scimento a livello nazionale, insieme ad altri, pochi, nomi di fotografi piemontesi: Francesco Negri, Secondo Pia, Vittorio Sella; ciò che forse stupirà chi si occupa di storia della fotografia italiana, poiché il nome di Masoero è a tutt’og­gi, a fronte di quelli appena citati, quello di uno sconosciuto.

L’attività di Masoero, nato ad Alessandria nel 1863, inizia a Vercelli, dove dal 1880 è impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio Ca­stellani. L’apprendistato in questo studio non è senza conseguenze per la sua formazione: Fe­derico Castellani, titolare di due studi ad Ales­sandria e Vercelli, presentando nel 1873 il suo Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, si qualificava qua­le “membro dell’Accademia artistica Raffaello – Socio Onorario dell’Istituto di Belle Arti del­le Marche … “, dimostrando un interesse per il mondo dell’arte che certo non passò inosserva­to al giovane aiuto, così come si deve presumi­bilmente sempre ai Castellani se Masoero ri­sulta, al 1892, con Teresa Castellani (vedova di Luigi, morto nel 1890) Felice Alman, Carlo Mar­setti e Vittorio Sella uno dei pochissimi abbo­nati piemontesi al “Bullettino della Società Fo­tografica Italiana”, allora e per molto tempo ancora il più qualificato organo a stampa del mondo fotografico italiano.[4]

Il 1890 segna il passaggio alla attività in pro­prio. Masoero apre in giugno il suo studio, ma la sua emancipazione risale a qualche tempo prima quando – ancora direttore dello studio Castellani – illustra il numero unico de «La Se­sia» dedicato alla inaugurazione del monumento a Garibaldi. Alcuni anni dopo illustrerà un altro numero unico, dedicato all’ossario di Pa­lestro, fotografando sia i luoghi della battaglia che i progetti dell’ossario e lo stesso architetto Sommaruga.[5] Nascono questi incarichi dal consolidamento della sua fama locale e dai suoi rapporti con l’ambiente vercellese di matrice liberal-progressista, iniziati alcuni anni prima quando, nell’ambito della Associazione Gene­rale degli Operai per mutuo soccorso ed istru­zione, di cui è presidente, entra in contatto con Antonio Borgogna e quindi con Cesare Faccio, cui si deve forse l’incarico a Masoero per la do­cumentazione dell’ossario.

Ancora nel 1898 il n. 4 di “Arte Sacra”, dedicato a Vercelli, conterrà numerose fotografie di Ma­soero, tra cui la Madonna degli aranci di Gau­denzio Ferrari in San Cristoforo e la Madonna della Grazia in San Paolo, immagine che illu­stra un breve testo dallo stesso titolo, siglato P.M., verosimilmente da attribuire a Masoero stesso, che costituisce il primo documento no­to del suo interesse per il patrimonio artistico vercellese. Da sottolineare come si debba ascri­vere alla capacità di Masoero di costruire e consolidare da un lato relazioni sociali qualifi­cate e dall’altro di superare il ruolo di fotogra­fo per dedicarsi alla pubblicistica di divulga­zione culturale, il progressivo e rapido consoli­damento del suo ruolo di documentatore del patrimonio architettonico e artistico vercelle­se che in precedenza era stato svolto da Castel­lani e soprattutto da Pietro Boeri, il quale con l’album fotografico dedicato agli Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella Chiesa di San Cristofo­ro a Vercelli, edito nel 1886, aveva fornito un ec­cellente esempio, mai superato a livello locale, di documentazione e lettura critica di un ciclo pittorico.[6]

Agli impegni locali si affiancano a partire dal 1898 le attività più specificamente connesse al­la professione fotografica che lo vedono impe­gnato sia nel campo della qualificazione pro­fessionale – sua è la prima proposta di istitu­zione di una scuola di fotografia[7] – sia nella ri­flessione teorica sullo specifico fotografico: “La fotografia – si chiede Masoero – è un’arte o no ? .. nel nostro lavoro vi è una parte scientifi­ca ed una artistica … L’arte interviene nella de­terminazione della posa, e la migliore esposi­zione è un’ispirazione … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotogra­fia e non incisione, o pastello o altro”.[8]

A questa lucidità corrisponde un altrettanto chiaro impegno morale: “L’arte fotografica de­ve avere un compito, un mandato: lo studio del­la natura in modo vero, perfetto, sia nell’insieme sia nel particolare. L’arte fotografica deve avere un’ispirazione: di diventare il documento inspiratore e coadiuvatore dell’arte con le sue potenti verità.”[9]

Le riflessioni di carattere teorico sono seguite da interventi più puntuali, in cui l’uso dello strumento fotografico è analizzato nelle sue possibilità e difficoltà tecnico-espressive; così, riflettendo sui problemi della fotografia di do­cumentazione artistica, Masoero affronta il problema delle conseguenze della dilatazione dei supporti positivi per cui la “dilatazione del­la carta non meno nocumento porta alle linee architettoniche di un monumento, facendo pa­rere più larghi o più acuti certi archi in cui un’i­nezia può far perdere assai della loro grazia, così pure un disegno, particolarmente di piani e sezioni, e di quadri.”[10]

Con questi presupposti ci si potrebbe attende­re una specializzazione professionale nel cam­po della documentazione del patrimonio arti­stico ed architettonico, ma ciò non avviene. L’ampliarsi della sua fama è dovuto alle quali­tà di ritrattista, per le quali riceve, a partire dal 1893 alla Esposizione di Ginevra, una messe di premi, ed al suo impegno di organizzatore e di divulgatore a livello nazionale ed internaziona­le che lo vede tra i segretari dei primi due con­gressi fotografici italiani (Torino 1898, Firen­ze 1899), quindi rappresentante con Rodolfo Namias della Società Fotografica Italiana al Congresso di Parigi del luglio 1900 e autore di quel Decalogo del dilettante fotografo, pubbli­cato per la prima volta nel 1900, che divenne immediatamente il suo testo più noto e celebra­to.[11] Non è questa la sede per indagare a fondo le motivazioni che lo portarono invece ad inte­ressarsi, a titolo personale, del patrimonio arti­stico, motivazioni che nascono da una serie complessa di rapporti e riferimenti, costituiti dalla presenza in ambito locale di personaggi quali Camillo Leone e Antonio Borgogna e dal ruolo svolto da quelle singolari figure di foto­grafi piemontesi che sono Francesco Negri e Secondo Pia, con cui Masoero era in contatto, che certo gli furono esempio e termine di riferi­mento per la sua attività di uomo di cultura che usa le possibilità nuove offerte dalla fotografia per realizzare quel processo di promozione cul­turale che era il fine ultimo della sua azione. “Il Pia dona alla storia futura – dice Masoero – quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo la­voro è l’elemento più prezioso per chi studia”.[12] In questo breve giudizio, che è anche una dichiarazione di intenti, si legge con chia­rezza la posizione del fotografo che individua nell’obiettivo della commercializzazione il li­mite culturalmente negativo delle campagne fotografiche dei grandi stabilimenti, a favore di un progetto che si vuole caratterizzare inve­ce quale operazione culturale e strumento di conoscenza. Da qui l’attenzione per la fotogra­fia come mezzo che ci viene suggerita dalla con­ferenza presentata a Parigi al Congresso Foto­grafico Internazionale su L’applicazione della fotografia allo studio dell’arte[13], di cui non ci è pervenuto il testo, che indica fin dal titolo il ruolo strumentale assegnato alla nuova tecni­ca, senza che per questo ne venga misconosciu­to il valore autonomo, che anzi si fonda proprio sul riconoscimento dello specifico codice lin­guistico connesso all’uso coerente delle parti­colari qualità di traduzione.[14] Né si può dimen­ticare che questo progetto si inseriva coerente­mente in quella ampia corrente di opinioni e comportamenti che Ando Gilardi ha definito “socialismo fotografico”, ben sintetizzata nelle parole di Paolo Mantegazza: “… come il Cristo nel Vangelo, che moltiplicava i pani e i pesci per sfamare le moltitudini, essa [la fotografia] moltiplica le opere d’arte e concede anche ai di­seredati della fortuna, il possedere una dome­stica galleria dei quadri più insigni dei sommi artisti”.[15]

L’iperbole retorica del brano può forse scon­certare e risultare oggi per certi versi non com­prensibile e artificiosa, ma offre esattamente la misura del tempo trascorso e la distanza che ci separa dallo spirito di quelle iniziative in cui l’uso delle scoperte e invenzioni più recenti ve­niva posto al servizio di un progetto politico­ culturale preciso.[16]

La fotografia di documentazione quindi non tanto e non solo quale ausilio dello studioso e merce da offrire al turismo colto dell’epoca, ma anche strumento di definizione di varie identità culturali che nelle radici locali cerca­no le basi per un riconoscimento paritetico a li­vello nazionale, e in questo senso il caso vercel­lese mi pare sintomatico, e ancora, ausilio di­dattico, strumento di realizzazione del pro­gramma che abbiamo ricordato.

Questi temi e problemi convergono e si concretizzano nella serie di conferenze tenute da Pie­tro Masoero: Arte e fotografia[17]  ampia e do­cumentata rassegna sulle principali tendenze fotografiche nazionali ed internazionali e La scuola pittorica vercellese, che cercheremo di presentare in modo più dettagliato.

“Le conferenze con proiezioni rappresentano la forma migliore che presentemente si usa nei grandi centri per illustrare l’arte (…) le proiezioni sono indispensabili, imperocché nessuna parola, per quanto viva e colorita essa sia, riuscirà mai, neanche lontanamente, in un tempo lun­ghissimo, quello che la proiezione in un attimo stampa indelebilmente nella mente dell’ascol­tatore”.[18] Il testo della conferenza, di circa ot­tanta pagine compilate a mezza colonna, corre­dato da 78 diapositive (90 in una prima redazio­ne) si suddivide in due parti: la prima, che si apre con una breve descrizione delle vicende storico-politiche del Piemonte e del Vercellese, passa in rassegna quelli che vengono indicati quali precursori della scuola vercellese (Boni­forte Oldoni, Eusebio Ferrari da Pezzana, Mar­tino Spanzotti, Defendente Ferrari, Stefano Scotto) e si conclude con una lunga analisi delle opere di Gaudenzio Ferrari (pp. 20-45) da cui qui importa estrarre e riconoscere le moti­vazioni di fondo, riferibili a tutto il fenomeno, che hanno spinto Masoero a studiare e divulga­re le opere di questi pittori, ben sintetizzate nel brano dedicato alla Madonna degli aranci:  “Basterebbe questa sola opera per dare ad un artista gloria imperitura (…) Eppure quanti la co­noscono? Pochissimi, ed il silente coro della chiesa, che tale tesoro accoglie, rare volte sente interrotta la sua pace claustrale dal bisbiglio di ammirazione dei visitatori; ed il più sovente, questa, non è espressa in italica favella”.[19] Ecco allora la necessità di divulgare, di far co­noscere, come avviene anche per Bernardino Lanino per il quale “una delle cause per cui (…) fu troppo dimenticato è quella che pochissimi suoi lavori sono noti e visitati”.

L’opera del Lanino è presa in esame nella se­conda parte della conferenza che iniziando da una breve disamina della nascita dell’interesse per la scuola pittorica vercellese e del costituir­si di una storiografia specifica, individuati nel­l’opera di Roberto d’Azeglio e degli “studiosi di patrie glorie (che) andarono alla ricerca delle opere dei maestri vercellesi”, prosegue con gli anni della formazione del Sodoma per passare quindi ad analizzare l’opera di Gerolamo Gio­venone e Bernardino Lanino e concludersi con gli anni della decadenza, che Masoero fa coinci­dere con la morte del Lanino stesso, mentre “gli eredi della fama e delle ricchezze delle tre fami­glie (Oldoni, Giovenone, Lanino) che fondarono nutrirono e formarono la scuola, la più bella gloria artistica di tutto il Piemonte, si adagia­rono nella agiatezza e nella facilità connesse ad un bel nome, e non si scossero più”. La produ­zione laniniana viene descritta ed analizzata nel suo svolgimento cronologico e nella sua evoluzione stilistica a partire dagli affreschi del Duomo di Novara, ora collocati ad una data più tarda, di cui presenta la Fuga in Egitto “frammento di vaste composizioni, trasportato nella sacrestia (…) allorché si demolì l’antica chiesa, in cui furono dipinte da questo artista quando ancora sentiva tutta l’influenza del suo maestro Gaudenzio Ferrari”[20], per giungere si­no alla Madonna della Grazia in San Paolo, con­siderata “la tavola più importante del maestro [che] tuttavia è affatto sconosciuta”.

Se escludiamo il ciclo di affreschi novaresi il percorso visivo laniniano suggerito da Masoe­ro è tutto interno alle opere vercellesi (ricordia­mo che la conferenza si tenne anche a Milano) e comprende oltre ai lavori già citati parte degli affreschi del ciclo delle Storie di Santa Cateri­na, a proposito dei quali, correggendo un giudi­zio dell’abate Lanzi che diceva il Lanino “nato come il Ferrari per grandi istorie”, ricorda che “troppo spesso si inspirò alle composizioni del maestro suo e non seppe opporsi alla tendenza dei figli, che badarono piuttosto a fare molto che bene”, lo stendardo della Confraternita di Sant’Anna, l’affresco nel coro della chiesa di San Bernardino “un saggio delle composizioni drammatiche del maestro vercellese”, il Com­pianto sul Cristo morto a San Giuliano, la Depo­sizione dipinta per la chiesa di San Lorenzo e la Madonna col Bambino e Santi, entrambe alla Sabauda, la Madonna del cane del museo Bor­gogna e la Pala Olgiati a San Paolo. Risulta dal­l’elenco l’assenza totale di opere anche molto note come quelle biellesi, all’ epoca già fotogra­fate da Secondo Pia; il dato mi pare interessan­te: esclusa l’ipotesi della non conoscenza, è Ma­soero stesso a ricordare che Lanino “lavorò as­sai in tutta la provincia vercellese, nella Valse­sia e nel Novarese risalendo su per la valle del­l’Olona fino a Saronno”, l’assenza di queste opere sembra connessa alla pratica di volonta­rismo assoluto quindi di difficoltà a documen­tare quei lavori che per la loro ubicazione ren­devano molto onerosa la realizzazione delle ri­prese.

Dall’elenco di opere presentate nel corso della conferenza abbiamo omesso la Madonna con due Sante, già appartenente ai marchesi di Gat­tinara, ora ubicazione ignota, che Masoero as­segna alla maturità del Lanino e che ora viene attribuita a Giuseppe Giovenone il giovane; è questo – insieme all’affresco in San Bernardi­no oggi attribuito al Moncalvo – uno dei non molti casi di attribuzione errata, tra i quali si segnala la Madonna col Bambino e Santi dell’O­spedale Maggiore di Vercelli per la quale la stampa fotografica (n. 14584) dà una attribuzio­ne a Bernardino Lanino, mentre lo stesso Ma­soero, presentandola nel corso della conferen­za, segnalava “la scritta, indubbiamente apocrifa, Bernardino Lanino 1574” e proseguiva: “Porta lo stemma dei Volpi”. Fu attribuita an­che ad Ottaviano Cane, ma più probabilmente è di Cesare Lanino, primo figlio di Bernardino. Conforta la supposizione l’aver i figli di Lanino molto lavorato in Lomellina ed i Volpi erano di quella regione”. Il non aver reperito il negativo corrispondente impedisce per ora di stabilire una datazione della stampa stessa e di verifica­re quindi la successione delle attribuzioni; ma ciò che ne fa un caso interessante è la successi­va osservazione, sempre di Masoero: “Fu, que­sta tavola, anche molto ritoccata e la fotogra­fia, nel riprodurla svelò tutta la parte più re­cente della pittura, che non era ben visibile al­l’occhio umano”. Riemerge qui la cultura speci­fica del fotografo, in grado di usare al meglio le caratteristiche tecniche degli strumenti a sua disposizione, di sfruttare anzi positivamente gli stessi limiti, determinati in questo caso dal­la incapacità delle emulsioni fotografiche di re­gistrare i colori in modo costante ed indifferen­ziato; la scarsa resa tonale della gamma croma­tica propria delle emulsioni ortocromatiche, che pure avevano costituito già un grande pas­so avanti, è qui sfruttata per ricavare il massi­mo di informazione possibile, secondo il ricor­dato principio della fotografia quale “docu­mento inspiratore e coadiuvatore dell’arte”. L’impegno di divulgatore prosegue con la con­ferenza dedicata a Il Rinascimento della pittu­ra in Piemonte, tenuta ad Alba nel 1902[21],  men­tre si estendono i suoi contatti con le più note personalità del mondo della cultura quali Al­fredo d’Andrade, per il quale fotografa alcuni interventi di restauro a Orta ed Arona[22], e Gu­stavo Frizzoni il quale, in occasione del minac­ciato abbattimento del chiostro di Santa Maria delle Grazie a Varallo scrive ad Antonio Massa­ra richiamandosi alla autorevole opinione espressa “dall’egregio fotografo Masoero”[23]. La documentazione del patrimonio architetto­nico, iniziata già sullo scadere del secolo, si concretizza nel 1907 con la realizzazione del vo­lume dedicato alla basilica di Sant’Andrea, per il quale fornisce l’apparato iconografico a cor­redo dei rilievi del Mella, proseguendo poi con le illustrazioni per l’articolo di Guido Maran­goni Il Sant’Andrea di Vercelli, pubblicato in “Rassegna d’Arte” nel corso del 1909[24] e quindi col tredicesimo volume della serie “Italia Monu­mentale” del 1910, in cui ad un breve testo intro­duttivo di Francesco Picco fanno seguito 64 ta­vole fotografiche realizzate dallo Studio Masoero[25].

Il 25 ottobre 1908 si costituisce a Vercelli un Comitato per le celebrazioni del IV centenario della nascita di Lanino; Masoero, che fa parte della Giunta esecutiva, riprende per l’occasio­ne il tema affrontato alcuni anni prima ed ese­gue una documentazione a tappeto, seppure non esaustiva, delle opere della scuola pittori­ca vercellese ed in particolare del Lanino. Anche in questa occasione la competenza professionale ed il costante aggiornamento danno i loro frutti: sebbene manchino dati certi in proposito, alcuni indizi fanno supporre che Ma­soero abbia riprodotto contemporaneamente le opere sia in negativo, utilizzando lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21/27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare con­temporaneamente la duplice esigenza di larga diffusione – erano infatti diapositive da proie­zione – e di restituzione della gamma cromati­ca, realizzando il desiderio espresso nel corso della conferenza del 1901.

Una parte di queste autocromie, per le quali si rimanda all’elenco ragionato, viene utilizzata la sera del 22 settembre 1910, al Politeama Fac­chinetti, per illustrare la conferenza sulla Scuola pittorica vercellese tenuta da Luigi Cesare Faccio, “promossa dal Municipio e dalla locale Società di cultura” in onore dei parteci­panti al XIII Congresso Storico Subalpino che si tiene a Vercelli.[26]

Diversamente da quanto era accaduto nel 1901 e per ovvie ragioni, l’attenzione maggiore è ri­servata al Lanino, cui sono dedicate 103 auto­cromie su 242, comprendendo anche numero­sissime opere non vercellesi: Borgosesia, Casa­le, Tortona, Valduggia ecc.; da notare ancora una volta l’assenza delle opere biellesi mentre è presente – forse grazie agli stretti rapporti esi­stenti tra i due – il ciclo di affreschi nella chie­sa di San Magno a Legnano, reso noto nell’Ago­sto dello stesso anno da Guido Marangoni[27]. L’opera di documentazione legata al ciclo di ce­lebrazioni laniniane chiude la serie delle cam­pagne fotografiche di Pietro Masoero, il cui fondo, ormai noto ed esposto pubblicamente al Borgogna[28], verrà più volte utilizzato da autori quali Weber (1927) Brizio (1935) Jacini (1938). Masoero stesso pubblicherà in forma ridotta nel volume collettivo Vercelli nella storia e nel­l’arte il suo saggio sulla “Scuola vercellese”, corredato da alcune fotografie, modesta con­clusione del suo lungo impegno.[29]

 

 

Laura Berardi, Pierangelo Cavanna,  Elenco ragionato delle fotografie  di Pietro Masoero relative all’ opera di Bernardino Lanino

 

 

L’indagine è stata condotta sui fondi fotografi­ci del Museo Borgogna di Vercelli, fondo Ma­soero (MB/M), in cui sono conservati i negativi su lastra, le autocromie e alcune stampe; sul fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (MCT/R); sul fondo Bickley della Fondazione Sella di Biella (FS/B) e nelle fototeche dell’Isti­tuto di Storia dell’Arte della Facoltà di Lettere dell’Università di Torino (ISA), del Kunsthisto­risches Institut di Firenze e del Gabinetto Fo­tografico Nazionale di Roma. La consultazio­ne ha consentito di rilevare una diffusione a carattere regionale delle immagini relative al­le opere laniniane, mentre l’altro importante ciclo documentario di Masoero, relativo alla basilica di Sant’Andrea di Vercelli, è presente in parte anche presso il Gabinetto Fotografico Nazionale. Per la datazione dei materiali rile­vati, costituiti – salvo diversa indicazione ­da negativi su lastra di 21/27 cm, da stampe al citrato e alla gelatina bromuro d’argento da questi ricavate per contatto e da autocromie Lumière di 9/13 cm, essa va riferita complessi­vamente agli anni 1909-1910.

Non sono state reperite sino ad ora le diaposi­tive da proiezione utilizzate negli anni 1900­-1901 per illustrare le due conferenze Arte e fotografia e La scuola pittorica vercellese, forse perdute.

 

L’elenco, organizzato topograficamente, regi­stra per ogni soggetto la presenza di negativi, positivi e autocromie; il numero che segue questa specifica ne indica la quantità, mentre in parentesi sono registrati i numeri di identi­ficazione apposti da Masoero, generalmente a doppia numerazione per le autocromie. Segue la collocazione: mentre per negativi e diaposi­tivi (autocromie), conservati solo al Museo Borgogna, questa è costituita dal solo riferi­mento interno, provvisorio, in attesa del defi­nitivo riordino del fondo stesso, per i positivi è indicato anche il fondo di provenienza, iden­tificato con le sigle precedentemente indicate. Si è preferito in questa occasione non com­prendere nell’elenco le numerose stampe con­servate nei diversi fondi, presumibilmente di Masoero ma prive di identificazione, in attesa che la ristampa dei negativi originali consenta più puntuali riscontri.

 

Borgosesia, Parrocchiale

Madonna col Bambino e Santi Negativo: gen. 3 (23, s.i.); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (58/70), part. 3 (16/-, 51/72, 60/71) fratturata la 16/-; coll. 85/1.

 

Casale Monferrato, Oratorio del Gesù

Circoncisione e Angelo con carti­glio

Negativo: gen. 2 (39, s.i.), part. 1 (38); coll. 7/85

Autocromia: gen. 1 (15/74), part. 3 (16/75,17/77,18/76); coll. 85/2.

 

Legnano, Chiesa di San Magno

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

 

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 1 (28); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (19/82) frattu­ra angolare; coll. 85/3

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (29); coll. 5/85

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (30); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (12/79) frattu­rata; coll. 85/3

Circoncisione

Negativo: gen. 1 (31); coll. 5/85

Adorazione dei pastori

Negativo: gen. 1 (32); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (8/80) due frat­ture; coll. 85/3

Visitazione

Negativo: gen. 1 (33); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (4/81); coll. 85/3

San Rocco

Negativo: gen. 1 (34); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (45/84) frattu­ra centrale; coll. 85/3

San Sebastiano

Negativo: gen. 1 (35); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (42/85); coll. 85/3

Cristo coi simboli della Passione

Negativo: gen. 1 (36); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (43/87); coll. 85/3

Santo Vescovo

Negativo: gen. 1 (37); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (44/86); coll. 85/3

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (22/83); coll. 85/3

Disputa al tempio

Negativo: gen. 1 (s.i.); coll. 5/85

Autocromia: gen. 1 (23/78) ampia perdita di pigmento colorato; coll. 85/3

 

Mortara, Chiesa di Santa Croce

Adorazione dei Magi, all’epoca conservata presso la chiesa di “Santa Trinitates”

Negativo: gen. 2 (41, s.i.); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.) due copie; coll. MCT/R Se. 21; MB/M n. 41

Autocromia: gen. 1 (13/67), part. 2 (13/68, 15/-); coll. 85/4

 

Novara, Duomo

Ciclo di affreschi con le Storie della Vergine

Fuga in Egitto

Negativo: gen. 2 (35, s.i.); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (20/89); coll. 85/5

Adorazione dei Magi

Negativo: gen. 1 (40); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (11/90); coll. 85/5

Visitazione

Negativo: gen. 1 (42); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (5/92); coll. 85/5

Strage degli innocenti

Negativo: gen. 1 (43); coll. 6/85

Sposalizio della Vergine Negativo: gen. 1 (44); coll. 6/85 Autocromia: gen. 1 (7/91) frattura centrale; coll. 85/5

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (47); coll. 6/85

Autocromia: gen. 1 (1/93) piccola frattura d’angolo; coll. 85/5

 

Occimiano, Parrocchiale

Madonna col Bambino, Sante e devote, ‘Pala di Sant’Orsola”

Negativo: gen. 1 (“=6=N. 26”); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (62/39), part. 7 (63/102, 64/104, 65/40, 66/106, 67/107, 68/41, -/103); coll. 85/6

 

Oleggio, Chiesa dei Santi Pietro e Paolo

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

 

Tortona, Palazzo Vescovile

San Paolo

Negativo: gen. 1 (40); coll. 3/85

 

Positivo: gen. 1 (s.i.); MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (54/100); coll. 85/7

 

Valduggia, Parrocchiale

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (58); coll. 7/85

Polittico

Negativo: gen. 2 (24, s.i.) spezzata la 24, con mascheratura rossa per evidenziare la cornice, part. 1 (24); coll. 7/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (69/94), part. 5 (-/95, 70/96, -/97, -/98, -/99); coll. 85/8

 

Vercelli, Palazzo Arcivescovile

Assunzione della Vergine

Positivo: gen. 1 (14610) in due co­pie; coll. MCT/R Se. 21, MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/55), part. 2 (30/56, -/57) frattura d’angolo la 30/56; coll. 85/10

Madonna col Bambino, Santi e donatore

Positivo: gen. 1 (14589); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/46), part. 1 (-/47); coll. 85/10

Martirio di Santa Margherita (bottega di Giuseppe Giovenone il Giovane).

già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14604); coll. MB/ M

 

Vercelli, Basilica di Sant’Andrea, Sala Capitolare

Angeli musicanti

Autocromia: gen. 1 (35/66) con piccola frattura d’angolo; coll. 85/16

Madonna col Bambino, già con attribuzione a Gaudenzio Ferrari

Autocromia: gen. 1 (-/109); coll. 85/16

 

Vercelli, Chiesa di Sant’Antonio

Crocefissione

Negativo: gen. 1 (92); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (92) in due copie; coll. MCT/R  Se. 21, MB/M

 

Vercelli, Chiesa di Santa Cateri­na, Oratorio

Ciclo di affreschi con le Storie di Santa Caterina

Martirio di Santa Caterina Negativo: gen. 1 (15); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (53/91); coll. 85/15

Conversione di Santa Caterina Autocromia: gen. 1 (-/26); coll. 85/15

Gruppo di figure con Santa Cate­rina, attualmente non visibile

Negativo: gen. 1 (17); coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/37); coll. 85/15

 

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/32, -/33, -/34, -/35, -/36); coll. 85/15

Corona di angeli

Autocromia: part. 2 (-/90, 34/-); coll. 85/15

 

Non appartenente al ciclo

Adorazione del Bambino

Negativo: gen. 1 (16) spaccata; coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (16); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/38); coll. 85/15

 

Vercelli, Chiesa di San Giuliano

Compianto sul Cristo morto

Negativo: gen. 1 (s.i. formato 13 X 18); coll. 1/85

Positivo: gen. 2 (14587 in tre co­pie+ una s.i. in formato 9x 13), part. 1 (s.i. in formato 9x 13); coll. FS/B. MCT/R Se. 21. MB/M, ISA.

Autocromia: gen. 1 (24/-) con frat­tura, part. 5 (25/49, 26/50, 27/51, 28/?8, 29/52) frattura d’angolo al­la 25/49; coll. 85/12

 

Vercelli, Chiesa di San Michele

Sacra Famiglia con Sant’Anna

Negativo: gen. 1 (13); coll. 1/85

Positivo: gen. 1 (s.i.); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (-/64); coll. 85/13

 

Vercelli, Chiesa di San Paolo

Adorazione del Bambino

Autocromia: gen. 1 (9/46); coll. 85/14

Madonna della Grazia

Negativo: part. 11(18, 19, 20, 21, 22, altri s.i.) spaccata la 21; coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (14585); coll. MCT/R Se. 21

Autocromia: gen. 1 (71/42), part. 5 (36/43, 72/44, 73/44, 38/45, 74/45);

coll. 85/14

 

Vercelli, Museo  Borgogna

Madonna col Bambino e i Santi Bernardino e Francesco. “Madon­na del cane”

Positivo: gen. 1 (s.i.) montato su cartone  verde con scritte in oro; coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (?/37), part. 1 (54/38); coll. 85/9

Stendardo della Confraternita di Sant’Anna, all’epoca conservato presso l’istituto di Belle Arti

Positivo: gen. 1 (14591); due copie coll. FS/B, ISA

Autocromia: gen. 1 (-/61); coll. 85/9

Adorazione del Bambino (Mae­stro vercellese, circa 1600), all’e­poca conservata presso Palazzo Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Negativo: gen. 1 (14); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (14); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/65); coll. 85/9

Madonna col Bambino, Santi e angeli musicanti, già con attribu­zione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 3 (52, altre s.i.); coll. 3/85

Autocromia: gen. 1 (-/115) con frattura; coll. 85/9

Annunciazione, all’epoca conser­vata presso l’Istituto di Belle Arti

Negativo: gen. 1 (69); coll. 8/85

Positivo: gen. 1 (69); coll. MB/M

 

Dal ciclo di affreschi con le Sto­rie di Santa Caterina nell’Orato­rio della chiesa omonima, all’epo­ca conservati presso il Museo Leone

Angeli con cartiglio, cinque vele

Autocromia: gen. 5 (-/1, -/2,32/3, -/ 4, 31/5) fratturata la -/4; coll. 85/9

Battesimo di Santa Caterina

Positivo: gen. 1 (14582); due copie coll. FS/B,  ISA

Autocromia: gen. 1 (46/35), part. 2 (48/36, 49/18); coll. 85/9

Santa Caterina presenta i confra­telli alla Madonna

Positivo: gen. 1 (14583); due co­pie; con. MCT/R Se. 21, ISA

Autocromia: part. 2 (47/23?, 51/48); coll. 85/9

Incoronazione di Santa Caterina

Negativo: gen. 1 (9) spezzata; coll. 2/85

Autocromia: gen. 1 (-/24); coll. 85/9

 

Ciclo di affreschi dalla chiesa di San Francesco ora Sant’Agnese (Gerolamo e Pietro Francesco La­nino?), all’epoca conservati pres­so il Museo Leone, già con attri­buzione a Bernardino Lanino

Angeli musicanti, otto vele

Negativo: gen. 8 (1-8) spezzata la1; coll. 4/85

Autocromia: gen. 8 (-17, -/8, -/9, 38/10,41/11, -/12, -/13, 40/14); coll. 85/9

Annunciazione

Negativo: gen. 1 (lO); coll. 4/85

Autocromia: gen. 1 (2/15), part. 1 (3/16) con ampie perdite del pig­mento colorato; coll. 85/9

Fregi

Autocromia: gen. 1 (-/25); coll. 85/ 9

Angelo che sorregge un finto ocu­lo

Autocromia: gen. 1 (-/60?) con lie­ve frattura; coll. 85/9

 

Vercelli, Museo Leone

Adorazione del Bambino (Gerola­mo Giovenone), all’epoca conser­vata presso la chiesa di San Cri­stoforo con attribuzione a Ber­nardino Lanino

Autocromia: gen. 1 (16/62); coll. 85/11

Adorazione del Bambino (bottega di Gerolamo Giovenone), all’epo­ca conservata presso l’Orfanatro­fio con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (12); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/63); coll. 85/

 

Vercelli, Ospedale

Madonna con Bambino e Santi , già con attribuzione a Bernardi­no Lanino

Positivo: gen. 1 (14584); coll. MB/ M

 

Collocazione ignota

Cristo alla colonna, Madonna col Bambino, all’epoca conservata presso Palazzo Gattinara con at­tribuzione a Gaudenzio Ferrari

Negativo: gen. 1 (52); coll. 2/85

Positivo: gen. 1 (52); coll. MB/M

Autocromia: gen. 1 (-/110) con frattura angolare, part. 2 (-/111, -/ 112); coll. 85/00

 

Collocazione ignota

Madonna col Bambino e due San­te (Giuseppe Giovenone il Giova­ne), all’epoca in collezione priva­ta, forse Marchese di Gattinara, con attribuzione a Bernardino Lanino

Positivo: gen. 1 (17162?) in due co­pie; coll. MB/M, FSIB

 

 

Note

 

[1] Pietro Masoero, La scuola pittorica vercellese, 1901. Il testo, manoscritto, inedi­to, che costituisce lo studio più approfondito svolto da Masoero sul tema, mi è stato gentilmente fornito da Pino Marcone, che rin­grazio, a cui si deve anche il pri­mo studio sul fotografo vercelle­se: Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973, da cui sono tratte tutte le indicazioni biogra­fiche non altrimenti indicate.

[2] Marcone, 1973, p. 21.

 

[3] “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), p.  231.

 

[4] “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 4 (1892). Gli altri fotografi piemontesi entrarono in contatto con la S.F.I. solo in occa­sione del Congresso di Torino del 1898.

 

[5] Palestro: inaugurandosi l’ossario pei caduti del 30-31 maggio 1859. Vercelli: Gallardi & Ugo, 1893, Le fotografie vennero tradotte in incisione da A. Colombo, Angerer e Goschl di Vienna e P. Carlevaris.

 

[6] Boeri-Valenzani, Affreschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli, 1886;  con un breve testo introduttivo tratto dalla Vita e opere di Gaudenzio Ferrari pittore, pubblicato a Torino nel 1881 da padre Giuseppe Colombo, con sessantaquattro grandi stampe all’albumina da negativi al collodio. Le foto­grafie che corredano il volume, firmato dai due titolari dello stu­dio, vennero realizzate dal solo Pie­tro Boeri.

 

[7] Nella seduta del 21 ottobre 1898 Masoero presenta per la pri­ma volta la sua proposta di costi­tuzione di una scuola di fotogra­fia, approvata dal Congresso, di­battuta poi, sempre senza succes­so, nel corso dei successivi incon­tri almeno fino al Congresso di Roma del 1911. Solo nel 1909 ven­ne instituita a Torino la prima scuola di fotografia italiana, ma su iniziativa del locale Photo­Club: Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, p. 82.

 

[8] Pietro  Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).

 

[9] Ibid.

 

[10] Pietro  Masoero, La dilatazione dei supporti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 11 (1899), pp.74-78. Il problema tecni­co-metodologico connesso alla realizzazione, conservazione e utilizzazione del materiale foto­grafico documentario sarà af­frontato con grande lucidità e competenza negli anni successivi da Giovanni Santoponte.

 

[11] Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901. Il testo, edito per la prima volta nel­la Breve raccolta pubblicata dal­la Società Fotografica Subalpina quale strenna sociale per il 1900, venne ripreso dal “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167, e ristampa­to alcuni anni orsono nel “Noti­ziario” n. 13, del Museo Naziona­le del Cinema di Torino, 1970.

 

[12] Pietro  Masoero, l’Esposizione fo­tografica di Torino. Note e appunti, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.129-134 . Ricordia­mo che Masoero si era già occu­pato di Secondo Pia in Rassegna del mese – Annotazioni, “Rivista Scientifico-Artistica di Fotografia: Bollettino mensi­le del Circolo Fotografico Lom­bardo” 7 (1898), pp. 132-133,177.

 

[13] Pietro  Masoero, Congresso foto­grafico internazionale di Parigi, prima parte, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 12 (1900), p.429-439. Il Congresso fotografico Internazio­nale si tenne a Parigi dal 23 al 28 luglio 1900 in concomitanza dell’Esposizione Universale. La con­ferenza di Masoero, forse corre­data da 29 diapositive di opere di Gaudenzio Ferrari, programmata in un primo tempo per la sera del 25 venne rimandata al 28 luglio e chiuse i lavori del Congresso.

 

[14] Si veda a questo proposito Ettore Spalletti, La documentazione figurativa dell’opera d’arte, la critica e l’editoria nell’epoca moderna (1750-1930), in “Storia dell’arte italiana”, I**, L’artista e il pubblico. Torino: Einaudi, 1979, pp.417.484, ed in particolare le affermazioni di Adolfo Venturi qui riportate, ricavate dalla Pre­messa al Catalogo dello stabili­mento fotografico Adolphe Braun del 1887, p. 471, riconfermate venti­cinque anni dopo dallo stesso Venturi nell’intervista rilasciata a Bragaglia: “debbo riconoscere che se questa [la storia dell’arte] sorta tra le ultime, si è affermata e ha progredito così rapidamen­te, lo è appunto in grazia della fo­tografia che permette gli studi di comparazione con maggiore faci­lità ed efficacia (…) come il migliore mezzo di riproduzione che di­strugge la ragione d’essere del­l’incisione e della calcografia”, Anton Giulio Bragaglia, L’arte nella fotografia, “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), pp. 17-19, 55-57, 71-73 (p. 18).

 

[15] Paolo Mantegazza, Introduzione, in Carlo Brogi, Il ritratto in fotografia : appunti pratici per chi posa.  Firenze: pei tipi di Salvadore Landi, 1895, p. 12. Mantegazza, fondatore e diretto­re del Museo Antropologico Etno­grafico di Firenze, era il presi­dente della Società Fotografica Italiana. Il brano citato riprende il tema della fotografia quale strumento democratico a lui ca­ro, che costituiva anche il nucleo centrale del discorso inaugurale della Società stessa, tenuto a Fi­renze il 20 Maggio 1889, cfr. Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano: Feltrinelli, 1976, pp. 199-214.

 

[16] Inutile ricordare che il riscat­to sociale compreso in questo progetto aveva limiti grandi e ben definiti che è facile riscontra­re anche nell’operato di Masoero: nonostante i suoi trascorsi di pre­sidente delle associazioni operaie vercellesi e di promotore della Scuola Professionale il suo nome non compare tra i sostenitori de­gli scioperanti del 1906 che lotta­vano per le otto ore lavorative, anzi la sua appartenenza alla As­sociazione Costituzionale Demo­cratica, nelle cui liste fu eletto nel 1909 assumendo poi l’incari­co di assessore alla Pubblica Istruzione, lascia chiaramente in­tendere a quale schieramento fos­se legato.

 

[17] La conferenza venne tenuta una prima volta a Torino nei pri­mi mesi del 1901 quindi ripetuta a Vercelli, Novara e Lodi; era cor­redata da più di 250 diapositive, tra cui erano comprese, e furono molto ammirate, le prime tricro­mie realizzate da Francesco Ne­gri. Le immagini erano il più del­le volte fornite direttamente da­gli autori stessi, come si ricava dal carteggio Masoero-Sella che si riferisce appunto a questa oc­casione: Archivio Sella, San Gero­lamo, Biella: Fondo Vittorio, car­teggio. Il testo della conferenza, non pervenuto, doveva forse cor­rispondere all’articolo dallo stes­so titolo pubblicato sul “Bulletti­no”, cfr. nota 8.

 

[18] Pietro Masoero, Il Rinascimento, 1902. Il testo mi è stato cortese­mente fornito da Pino Marcone. Anche l’attività professionale del­lo studio Masoero è in questi anni segnata da questa particolare at­tività, tanto che le inserzioni pub­blicitarie riportano: “Masoero Cav. Pietro. Studio fotografico. Diapositive da proiezione, per contatto, ridotte da negativi o tratte da positivi”,  Giovanni Santoponte, Annuario della fotografia e delle sue applicazioni.  Roma: Tip. Casa Ed. Italiana, 1909, supplemento, p. 23.

 

[19] Pietro Masoero, La scuola, 1901, p. 33 passim; lo scrupolo di prepa­razione e di ricerca è testimonia­to anche dalla consistenza della bibliografia usata da Masoero che comprende ben 20 titoli. In alcune occasioni è anche riporta­to il giudizio di Gustavo Frizzoni, sebbene suoi testi non siano com­presi in bibliografia, ciò che fa­rebbe supporre una frequentazio­ne diretta già in quegli anni.

 

[20] Per la datazione degli affre­schi novaresi cfr. Giovanna Galante Gar­rone, in Gaudenzio Ferrari e la sua scuola. I cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino,  Accademia Albertina di Belle Arti,  marzo-maggio 1982), a cura di Giovanni Romano. Torino: Accademia Albertina Belle Arti, 1982.

 

[21] Cfr. nota 18.

 

[22] Cristina Mossetti, Interventi di tutela sul patrimonio artistico del novarese, in Alfredo D’Andrade: tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 27 giugno-27 settembre 1981), a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana  Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, p. 342.

 

[23] Cronaca dell’agitazio­ne per la conservazione del convento di santa Maria delle Grazie in Varallo, in Il chiostro di santa Maria delle Grazie in Varallo.  Novara, s.e.,  1905, p. 13.

 

[24] Guido Marangoni, Il Sant’Andrea di Vercelli, “Rassegna d’arte”, 9 (1909), n. 7, pp.122-126; n.  8-9, pp. 154-158; n.  11, pp. 180-186; le tre parti avevano come sottotito­lo rispettivamente “Intorno alle asserite sue origini inglesi,” “Le ipotesi sulle origini francesi” e “Prevalenza dei caratteri naziona­li”.

 

[25] Francesc Picco, Vercelli.  Milano: E. Bonomi, 1910.

 

[26] Atti del XIII Congresso storico subalpino,  “Bollettino Storico Bibliografico Subalpino”, 16 (1911), p. 193.

 

[27] Guido Marangoni, Bernardino Lanino a Legnano, “Rassegna d’arte”, 10 (1910), pp.114-121. Le imma­gini che corredano l’articolo ­senza indicazione dell’autore ­non sembrano essere di Masoero, ma sarà necessario un confronto diretto con le lastre conservate al Museo Borgogna per stabilirlo in modo più preciso.

 

[28] Nella seduta del consiglio di Amministrazione del Museo Bor­gogna del 18 Dicembre 1920 Ma­soero propone che vengano espo­ste periodicamente le “incisioni, disegni e fotografie che numero­se ed importanti sono possedute dal Museo (…) per concorrere all’e­ducazione artistica del popolo” (Archivio del Museo Borgogna, Verbali). Dal necrologio di Masoe­ro, morto il 2 giugno 1934, pub­blicato su “L’Eusebiano” sappia­mo anche che le immagini di Ma­soero erano pubblicamente espo­ste (“le cui diapositive possiamo ammirare nel Museo Borgogna”).

 

[29] Pietro Masoero, La scuola vercel­lese, in Vercelli nella storia e nell’arte: guida artistica illustrata.  Vercelli: Gallardi,  1930,

pp.39-50.