Di bianchi e di ombre  (2007)

in Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale della montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Duca degli Abruzzi – CAI Torino, 2007, pp. 10-29

 

“noi moderni

siamo stufi

delle panoramiche”

Italo Mario Angeloni, 1934

 

“Senza l’intervento energico di mia madre (…) a 12 anni mi sarei fatto fotografo”[1]  ricordava Cesare Giulio nel 1934, imbastendo la sua propria mitografia per le pagine di “Galleria”, allora la sola rivista fotografica italiana di respiro internazionale. Così non fu: divenne impiegato contabile, e invece di fare il fotografo fece fotografie.

Anche la scelta dell’età indicata non pare casuale. Per lui, nato nel 1890, corrispondeva all’imponente evento torinese dell’Esposizione di Arte Decorativa e Moderna, dove la fondamentale sezione fotografica offriva la più ampia occasione di confronto con gli autori più affermati del pittorialismo internazionale.  Inverosimile credere che quella mostra potesse interessare un ragazzino, e del resto Giulio non ne fa cenno, ma questa corrispondenza  a posteriori appare significativa.

Le sue prime prove datate risalgono al 1911, intorno ai vent’anni quindi, e sono le tipiche immagini dei fotoamatori torinesi amanti della montagna: vedute alpine e gruppi, molti gruppi. Com’era stato anche per la generazione precedente: quella di Mario Gabinio.[2]  Non solo quelli però: tra le sue primissime[3] riprese anche un Sentiero brinato che sembra essere ben più di una pura evocazione dell’analogo soggetto di Demachy pubblicato nel 1906[4]; un vero e proprio esercizio di stile, una precoce verifica delle proprie capacità condotta misurandosi con un tema e un trattamento stilistico allora considerati come raffinati  modelli.

Nulla sappiamo della sua formazione, nulla che ci sia rimasto della sua biblioteca (se mai è esistita), ma non doveva essere difficile costruirsi una cultura fotografica,  necessariamente autodidatta, nella Torino degli anni de “La Fotografia Artistica” e della piena maturità del gruppo di autori che si riuniva sotto l’egida della Società Fotografica Subalpina, le cui esposizioni costituivano un importante occasione di diffusione del gusto pittorialista. Proprio al magistero riconosciuto di uno degli esponenti più in vista della SFS, Cesare Schiaparelli, sembra aver guardato Giulio nelle sue prime prove come Pecore al pascolo, 1922, in cui anche l’impaginazione centinata dell’immagine richiama i modelli pittorici da quello utilizzati, mentre negli anni successivi si tratterà piuttosto di prestiti reciproci, a testimonianza della comune appartenenza a una scena fotografica allora molto solida e connotata.[5]

I fogli dei primi album di Giulio, accuratamente composti e impaginati, a volte da lui decorati con certa ingenua maestria, confermano la consuetudine della fotografia diaristica, l’abitudine di tutto un gruppo di amici che “ad ogni ora, quasi ad ogni mutar di paesaggio, facevano scattare, obbligandoci a posare per il gruppo, sul sentiero, innanzi a casolari, sulle vette, sul prato, ovunque insomma.”[6] Ancora quasi vittima delle circostanze si direbbe, ma alcuni indizi lasciano intendere come le sue intenzioni potessero già allora, forse ancora confusamente essere un poco diverse, oltre le apparenze e le poche testimonianze rimaste: penso all’uso di più formati (dal 4,5×6 al 9×12) ma soprattutto all’accuratezza compositiva di certe immagini di quegli anni.

Le fotografie del primo anteguerra sono esplicitamente debitrici del repertorio offerto dalle riviste italiane dell’epoca, aggiungendo tra i riferimenti oltre a Schiaparelli anche il nome di Andrea Tarchetti[7], alle cui Scene di vita e di lavoro sembrano avvicinarlo non solo i modi compositivi e di trattamento, ma anche una più generale, non occasionale attenzione per quel mondo popolare, rurale e alpino, cui la cultura fotografica piemontese aveva dedicato una certa attenzione almeno a partire dalla pubblicazione, nel 1890[8], del volume di Vittorio Sella e Domenico Vallino.  La resa del soggetto appare in quei primi anni ancora in bilico tra la convenzionalità retorica del ritratto della Zia Paolina, 1911, e la potenza realistica della giovane valligiana ripresa in interni (Tipi: Valle dell’Orco, 1914). Entrambe le figure emergono dal nero del fondo, ma con esiti e significati differenti: se nella prima questo cancella ogni connotazione di luogo e di tempo, nella seconda identifica l’incombente condizione di vita della ragazza. Nelle opere di poco successive, forse meno sentite, l’iniziale attenzione per il mondo popolare, tra etnografia ingenua e attrazione per il pittoresco, progressivamente si stemperava avvicinandosi al bozzettismo dichiaratamente  ‘artistico’ di Peretti Griva e di Bricarelli[9], stilisticamente marcato dall’uso di obiettivi a fuoco morbido (Costume, 1919), dove l’uso del flou rappresentava la più immediata strategia di distanziamento dalla ripudiata  referenzialità documentaria.

Ancor meno sappiamo della biografia di un uomo che ha lasciato quasi solo tracce fotografiche della sua esistenza, ma l’analisi cronologica della sua accurata, ma non sempre ordinata sequenza di numerazione dei negativi mostra una significativa soluzione di continuità: le prime serie, già molto lacunose sino al secondo migliaio per ragioni non note, si interrompono all’equinozio di primavera del 1915 per riprendere solo nel  1919[10], dopo un lungo silenzio di immagini. Degli anni della grande guerra, di un suo eventuale coinvolgimento, di una sua reazione affidata alle immagini nulla ci rimane.

Con la ripresa postbellica la sua intenzione si fece più esplicita. Non bastandogli più quella “stomachevole collezione [di] scipite fotografie che riproducevano il paesaggio soltanto”, si propose infatti di realizzare “qualcosa di più alpino, di più commovente al cuore dello scalatore, quando non solo narrasse ma che piuttosto cantasse.” (Giulio 1934, p. 7). È di quell’anno la realizzazione di un album dedicato al Monte Rutor, organizzato come un vero e proprio racconto fotografico: quasi tutti paesaggi di dettaglio, corredati di brevi testi ‘poetici’ siglati da un non meglio identificato G.R. Tra le molte spicca un’immagine della cascata, terribile e incombente sulle minuscole figure di due alpinisti in controluce: “Formazione Cascata Rutor con negativo n° 1546 e personaggi n° 1544” recita l’iscrizione sulla busta del negativo, confermando l’impressione netta che si tratti di un fotomontaggio;  per accrescere l’efficacia narrativa dell’immagine Giulio aveva aggiunto le due sagome, adottando una pratica che era stata già di Vittorio Sella[11]. Superato di netto ogni vincolo documentaristico l’autore si concedeva all’invenzione e usava ogni mezzo per costruire il proprio racconto per immagini, come gli accadde più volte di fare nei decenni successivi, come aveva già fatto in una delle sue prime prove (Alpe Cruvin, 1912), imbastendo la regia di una fulminante e ironica commedia in un solo atto e in una sola scena, poi accuratamente montata su supporti diversamente colorati per sottolinearne l’intento esplicitamente artistico.

Tra i soggetti obbligati di quegli anni il paesaggio, non ancora quello alpino e invernale però, poco adatto alle sperimentazioni cromatiche e materiche dei viraggi, delle colorazioni, delle stampe ai pigmenti con cui si doveva misurare chi volesse mettere a punto i propri strumenti espressivi nel confronto coi modelli più noti e celebrati. Molte le riprese in controluce, tutte costruite sul contrasto nettissimo ed efficace tra la pura bidimensionalità del nero del soggetto principale, solo identificabile dal profilo, e la massa cangiante delle amate nuvole, quelle che costituirono i suoi “primi tentativi estetici” , il suo “tema favorito.  (…) La nube, ora leggera, vaporosa, ora cavalcante attraverso i cieli in un maestoso cumulo, aralda di tempesta, è sempre stata a me cara come ai sognatori romantici di un tempo” (Giulio 1934, p. 7), quasi vivente di vita propria, pronta a migrare da immagine a immagine (Le belle fotografie di Torino, 1928; Minaccia di nubi, 1928).

Sono quei primi paesaggi (1913-1915 ca) a essere virati in toni antinaturalistici, forzati e teatrali sebbene ancora propriamente fotografici  (Quattro paesaggi in controluce, 1913 ca; La valle della Dora Baltea nei pressi di Ussell, 1914), mentre le più marcate manipolazioni proprie delle stampe in ozobromia (Annecy, 1927; La Dora Baltea, 1927-1928; Villaggio alpino, 1928; Lago Maggiore – S. Caterina del Sasso, 1929 ca); condotte a volte sino alle coloriture a pastello di dubbio esito, datano alla fine degli anni Venti, sorprendentemente coeve delle prime e già molto apprezzate immagini di sci, espressivamente così distanti: tutte affidate ai virtuosismi della grafia e della modulazione monocroma. Ciò che accomunava questi opposti esiti, quelle che a noi appaiono poco comprensibili oscillazioni del gusto era forse la convinzione che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero”, come aveva scritto già nel 1898 Enrico Thovez e come sostenevano gli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921. Le loro divergenti direzioni espressive, tra ispirazione pittorialista e sintesi modernista, proseguirono ben dentro quel decennio, a documentare una fase della cultura fotografica – non solo italiana – che troppe volte una storiografia  approssimativa ci ha restituito come un procedere lineare e quasi deterministico. Giulio praticò le manipolazioni fotochimiche sino al 1929 circa, quando  lasciarono definitivamente il posto al lavoro sull’inquadratura, sovente condotto in fase di stampa, di riconsiderazione critica del negativo: taglio su taglio (Val Gimont: sciatori, 1925-1926; Dormillouse presso Colle Chabaud, 1931-1932). Ciò su cui interveniva non era più il continuum spazio-temporale del mondo, ma una porzione d’immagine, ponendo in essere una riscrittura, una revisione del testo iconico che allontanava l’esito fotografico dalla sua natura di traccia, favorendone l’efficacia comunicativa di icona. Non per  questo era scisso il legame con la contingenza originaria, che la fotografia manteneva inevitabilmente e (qui) volutamente in ogni suo frammento, affinché “il piccolo quadrato della positiva [potesse esprimere] quanto non solo aveva visto ma quanto aveva sentito” l’autore (Giulio 1934, p. 7).  “Entro questo rettangolino – proseguiva – io scopro interamente il quadro con somma facilità e con tutti i suoi essenziali elementi, sicché quando scatto io vedo già innanzi agli occhi il negativo. Io non so se questo sentire è di tutti! Intuire, conoscere già il risultato del negativo, nell’inquadratura, nella posa, come stampa e infine come prova finale ingrandita. Mai forse, posso dire, di avere scattato a caso, senza sapere ciò che volevo cogliere dal soggetto che mi interessava.” (Giulio 1934, p. 9)

La legittimità della rielaborazione anche compositiva del negativo, certo la più importante eredità culturale della stagione pittorialista, veniva riconosciuta ed esaltata in quegli anni anche dai critici italiani più avveduti: “il fotografo artista può sempre trovar modo, coll’ingrandimento, di operare un sapiente lavoro di analisi e di scelta, il quale (…) può approdare a vere e proprie scoperte. O, meglio, riscoperte. Ecco un esercizio, un senso, tipicamente – perché insostituibilmente – fotografici. Ecco una sintesi di secondo grado, sulla lastra che approfondisce di infinite prospettive linee, ombre e piani, al modo che gli armonici di una nota le prestabiliscono intorno un ronzio metafisico, cui l’orecchio del musicista soltanto sa carpire l’armonia contemporanea del basso d’accompagnamento, o la cadenza successiva della melodia.” (Pellice 1932, p. XI)

Era il 1920 quando Giulio, ormai alla soglia dei trent’anni, ebbe occasione di partecipare alla sua prima esposizione quale membro della Società Unione Giovani Escursionisti; un evento in tono minore, certo, ma forse non senza conseguenze se alcune stampe di quegli anni riportano la scritta “vietata la riproduzione”; se il negativo n.3262 risulta “ceduto a Brunner”, cioè ad uno dei massimi editori di cartoline. Ben più rilevante fu la partecipazione, con ben cinque opere, alla “Prima esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia” che si tenne sempre a Torino nel 1923[12], e il diploma di medaglia d’argento che ricevette.  Credo però che l’elemento per lui più significativo – ben più che il confronto inconcepibile con alcuni esponenti delle avanguardie europee presenti in quell’occasione, come Rodchenko o Drtikol – sia stato il riconoscersi per la prima volta parte di una ben definita scena artistica se non ancora di un vero e proprio gruppo.  Pochi anni dopo la novità della sua presenza, già autorevole,  sarebbe stata prontamente segnalata da Italo Mario Angeloni, che nella recensione alla  mostra sociale 1925 della SFS parlava di Giulio come di  “uno dei migliori fotografi delle profonde visioni alpine”, autore di  “alcune superbe istantanee rapite alle altitudini supreme” (Angeloni 1925), una delle quali (Armonie invernali)  venne pubblicata sulle pagine del “Corriere Fotografico”.  La partecipazione, nel dicembre dello stesso anno, al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale, promosso dal Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e dalla Società Fotografica Subalpina, gli frutterà inoltre la pubblicazione sul successivo annuario di Luci ed Ombre. “Nel bel quadro invernale Le Alpi del Prà di Cesare Giulio – scrisse Guido Lorenzo Brezzo in quell’occasione – i morbidi toni e le delicate trasparenze s’accordano per esprimerne il senso fondamentale: l’incubo dell’ombra che discende. Fissate la grande massa grigia, e vi parrà di vederla calare e allargarsi, invadere il piano e sommergerlo, e sentirete entrarvi nelle carni qualcosa come l’orrore della tenebra e il brivido del gelo.” (Brezzo 1926, p. 15) A  questa fobica lettura si sarebbe affiancata l’interpretazione di Angeloni che parlava invece di  “frigidi raccoglimenti che placano nella visione il nostro spasimo cittadino” (Angeloni 1927), dimostrando entrambi, sebbene implicitamente, l’assoluta irrilevanza del dato referenziale e il prevalere di un’intenzione, autoriale e poi critica, potenzialmente simbolica, che avrebbe ben presto portato al riconoscimento dell’autonomia del significante, della forma. “è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925b, p. 68)

Quasi un manifesto di queste posizioni estetiche fu La scia, presentata al Circolo degli Artisti nel maggio 1927 alla seconda mostra del Fotogruppo Alpino.  Questa “pittoresca visione di neve soffice segnata da un arabesco tracciato da un audace sciatore, puntino nero nella bianca immensità” (Zanzi 1927), questa “fulminea sensazione di velocità” (Bernardi 1927, p. 17) già riprodotta sulle pagine di Luci ed Ombre (1927, p. VII), venne poi pubblicata in Modern Photography, il prestigioso annuario della rivista londinese “The Studio” del 1931, vera summa della fotografia modernista, accanto a immagini di Florence Henri, André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli[13], costituendo per Giulio la vera consacrazione internazionale.

Piero Ghiglione, gran viaggiatore e alpinista[14], ne fece uso per illustrare il proprio volume dedicato a Lo sci e la tecnica moderna (1928) affrontando in quell’occasione una questione che certo accomunava le due pratiche e a cui Giulio non doveva essere insensibile: “Il vero stile. È stile il principiare le curve proseguendo con altre. (…) è vera arte, in malvagia neve o dirupato pendio, cogliere l’attimo opportuno per disegnare  curve prestigiose: il provetto, che vuol far dello stile, trova sempre la soluzione adatta ed estetica dei più difficili problemi.” (Ghiglione 1928, p. 257). Quasi una descrizione letterale di un’intera famiglia di immagini di Giulio e non solo, ma ciò che più preme sottolineare sono le conseguenze di un dato apparentemente secondario: la differente titolazione di queste fotografie.  La scia venne pubblicata col titolo didascalico e puramente referenziale di Presso la Punta Gimont  (t.10), coerente col diverso contesto e uso. Questa sola mutazione ne determinava la trasformazione radicale dello statuto; da opera tornava ad essere documento, da icona disponibile per una lettura simbolica si riduceva nuovamente a traccia, senza nulla mutare delle proprie apparenze formali. Risulta chiaro allora come la perdita di rilevanza del referente a favore della interpretazione autoriale fosse indotta  proprio dalla variazione del titolo, elemento fondante – per la sua funzione connotativa –  della costituzione dell’opera, come avrebbe riconosciuto Mario Bellavista nel diciottesimo dei suoi Concetti per fotografi moderni: “Il titolo fa parte dell’immagine. Anzitutto perché costituisce un’interpretazione dell’immagine fotografica; in secondo luogo perché facilita la lettura e quindi la comprensione dell’immagine da parte dell’osservatore.”[15]  Anche per questa fotografia il confronto col provino conferma l’adozione di un sapientissimo taglio in fase di stampa, una reinterpretazione della ripresa originale in cui l’autore aveva riconosciuto “qualche buon effetto di luce e caratteristiche di modernità per quanto spontanee” (Giulio 1934, p. 7), dove aveva ritrovato “la semplicità del motivo [che considerava] sempre il maggior valore dell’opera.” (Giulio 1936, p.3)

Un’altra delle sue più note immagini di quegli anni, Audax, 1928, è invece frutto di un taglio (da Fra rupi e ghiacci – Monte Bianco, 1928) e di un fotomontaggio (dal neg.  3793), integrati da sapienti interventi manuali a tempera e pastello. Di queste virtuosistiche manipolazioni che ne contraddicevano l’aspetto di magistrale istantanea, non  parvero accorgersi i generosi commentatori coevi che parlavano di  “an impressive rendering of snow and sunshine” (Mortimer 1928, p. 24), di “spettacolo troppo vasto e invincibile dell’orizzonte senza confini. [Dove] le sue figure dominano vittoriose la scena.” (Boggeri 1929 b, p. 15)   Ancora alcuni anni più tardi si sarebbe parlato a proposito di un suo lavoro (Linee, 1930)  come di “un buon esempio di una verità ormai largamente intesa nel mondo fotografico più attento: essere cioè assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta come questa con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.” (Rossi 1933, p. XV)  Del resto lui stesso avrebbe dichiarato di detestare “l’artificio come illusione”, intendendo con questo riferirsi – credo – non tanto alla legittimità delle manipolazioni, praticate lungo tutta la sua carriera, ma al loro scopo e finalità: la sua invenzione era realistica, non fantastica, destinata a rafforzare l’effetto di realtà, magari spettacolarizzandola. Come aveva ben detto Brezzo “Guardando il superbo Audax di Cesare Giulio, mi viene in mente che invece di indire, come si fa per amore di novità ad ogni costo, concorsi fotografici a soggetto essenzialmente moderno, assai meglio sarebbe richiedere trattazioni essenzialmente personali di soggetti ordinari. Sarebbe facile allora distinguere i vuoti cervelli balzani dai veri artisti. Ma per questo bisognerebbe ricordare che in arte ciò che importa non è il nuovo, che del resto sarà vecchio fra una settimana, ma la personalità.” (Brezzo 1929, p. 778) Questa distinzione risulta importante per comprendere la cultura fotografica torinese e italiana di quegli anni, per collocare correttamente la presenza di Giulio, il suo raffinato minimalismo. Non possiamo dire che sia stato un modernista, categoria allora sospetta e quasi rifiutata, quasi quanto quella denigratoria e generica di astrattista se non addirittura di futurista[16], nonostante la presenza torinese di Fillia[17]. Egli fu piuttosto uno dei massimi esponenti, con Bricarelli e Baravalle almeno, di quella importante fase di transizione e di maturazione che per pura necessità classificatoria potremmo provvisoriamente chiamare secondo pittorialismo e che costituì il necessario antecedente e tramite con le ricerche formaliste del secondo dopoguerra[18]. Significativa in tal senso mi pare l’elezione di Giulio nel 1927 a membro del Consiglio direttivo del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, ricostituito sulla base della riconosciuta “opportunità ed anzi la necessità di dare al movimento fotografico artistico un preciso indirizzo, seguendo l’azione dei gruppi pictorialists inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti”[19], identificabili in “quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta”[20], sebbene poi ciò si traducesse nell’assenza di un confronto, nel rifiuto quasi  dei precetti e dei modelli proposti dalle più avanzate esperienze europee.

Il suo impegno militante si esprimeva in quegli anni anche come membro e attivo organizzatore del Fotogruppo Alpino, di cui sarà Presidente dopo Adolfo Hess (1929), mentre si avviavano le sue prime esperienze internazionali con la partecipazione nel 1928  al Salon di Parigi. Questa attività  ebbe nell’anno successivo  uno sviluppo esponenziale[21]: Boston, Edimburgo, Goteborg, Parigi, Elboeuf, Saragozza, Barcellona e Londra, al cui Salone ottenne il quinto premio assoluto. “Le scene alpine e di nevi di Giulio Cesare – scrisse un anonimo recensore in quell’occasione[22] – appartengono alle cose migliori del genere esposte finora in questo paese. La loro finezza e la delicatezza delle ombre sulle nevi, e l’inclusione delle figure, sono meritevoli di alta considerazione”. Che la fotografia italiana, torinese in particolare, fosse in quegli anni sottoposta a un processo di aggiornamento orientato dal ‘gusto europeo’ venne riconosciuto pur con giudizi diversi da numerosi osservatori che ne comprendevano “la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva” (Rossi 1933, p. XIV), ma anche “il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso.” (Angeloni 1933, p. 252), svelando contemporaneamente il conflitto critico tra chi si nutriva, magari superficialmente, delle suggestioni delle nuove poetiche europee e i sospettosi esponenti della tradizione pittorialista.

Qui, ancora una volta, l’opera di Giulio si rivela paradigmatica.  La sua economia di mezzi, la riduzione dei segni e dei toni costituivano l’aggiornamento piuttosto che il superamento del pittorialismo imperante, esito della scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni, non ultima la grafica giapponese.[23] L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fank[24].  La sua cultura fotografica era quella dei Salon, di Luci ed Ombre. Ai suoi livelli più alti, certo, ma anche con tutti i limiti che la caratterizzavano; una specie di autarchia culturale che le limitazioni imposte dal regime fascista non sembrano sufficienti a giustificare; una sostanziale prudenza espressiva, lontana ad esempio dai rischi delle ultime prove di  Gabinio[25], mediate dalla conoscenza delle immagini diffuse dalle riviste di architettura come “La Casa Bella” e  “Domus”, che furono il vero strumento di aggiornamento visuale della cultura fotografica nostrana.  Quella di Giulio era una  cultura che rifiutava le proposte ‘futuriste’ – pur adottandone non raramente le soluzioni formali – così come rifiutava la macchina e tutto l’universo della produzione industriale che già allora caratterizzavano monoliticamente Torino[26].

Questa che noi leggiamo come una contraddizione interna, questa tensione irrisolta tra tradizione e innovazione narrativa e linguistica, era la condizione comune a gran parte della fotografia italiana tra le due guerre (Stefano Bricarelli, Giulio Parisio o il più giovane Riccardo Moncalvo  tra gli altri). Degli autori come dei critici loro compagni di strada.  Oggi – scriveva “Il Corriere Fotografico” nel 1933 – la veduta fotografica si prende in ogni senso: dall’alto, dal basso, dritta, inclinata […] oggi tutto vuol essere semplice […] l’esagerazione di una parte del soggetto può concorrere alla messa in valore od all’equilibrio delle altre parti […] Nel nuovo anno la Rivista sarà larga di ospitalità alle moderne manifestazioni dell’arte fotografica italiana e straniera senza un sistematico quanto ingiustificato ostracismo, ma pur senza una deplorevole e non meno esiziale indulgenza. In arte c’è chi tutto riceve dall’esterno, riservandosi, al massimo, la libertà di una visione propria, più o meno geniale, del soggetto; altri invece rivendica e si arroga il diritto di nulla accettare di quanto pretende essere segnato dal marchio dell’arte, ma di modificare nel senso della sua impressione il freddo decalco che l’occhio di cristallo, la lente, ha raccolto. La prima è percezione, apercezione la seconda, quella rivela e testimonia, questa traduce ed esprime.” (De Albroit, 1933) Che i due piani potessero sovrapporsi sino a coincidere pare non fosse neppure concepibile, tanto che nello stesso testo, mentre si sottolineavano le forti qualità compositive di una fotografia di Giulio, date dalla “visione dall’alto di cinque Barche a riposo  che si staccano bianche sul fondo nero delle acque”, non si sapeva  rinunciare alla facile analogia narrativa della chiusa: “par che attendano, dopo breve sosta, l’usata fatica.”

Questo era il contesto in cui si esprimeva ed era accolto Cesare Giulio, autore di un’opera (Armonia bianca Candori, 1934) modernamente interpretata come “un cielo senza cielo: cielo silenzioso di neve immacolata e intatta, con abeti sottili e ombre diafane d’abeti per nuvole” (Brezzo 1934, p.  XIV), ma anche come la restituzione di uno scenario “donde romantici atteggiamenti di conifere levano un ritmo di melanconia.” (Angeloni 1934). Le riserve antimoderniste erano esplicitamente espresse dall’editoriale di Luci ed Ombre del 1934, che scetticamente enumerava i caratteri del nuovo: “Modernità di cifra, vale a dire quella scheletricità geometrica di linea[27] congiunta spesso ad uniformità di superfici luminose, che, sorta dalla natura del soggetto macchina, viene spesso usata per assimilare a quello qualsiasi altra specie di soggetto. (…) modernità di prospettiva e di taglio, ché il taglio non è se non una prospettiva artificiale. Le aberrazioni in questo campo sono senza numero né misura. I futuristi le giustificano appellandosi, legittimamente fino a un certo punto, alla nuova esperienza della navigazione aerea[28], ma dimenticando che, anche quando ogni cittadino che si rispetta possederà un proprio aeroplano, rimarrà pur sempre l’importuno senso della gravità ad avvertirci che tutte le prospettive che s’allontanano dalla perpendicolare sono anormali, e che per non  essere assurde debbono trovare una ragione fisica od estetica.” (Brezzo 1934, pp. XI- XIV)

In questo ambiente certo non particolarmente stimolante Giulio riuscì però a realizzare opere di grande rilevanza e interesse, nuove e compiute, adottando nei confronti dei suoi prediletti soggetti alpini strategie diverse, una varietà di toni che muoveva dalla celebrazione del virtuosismo de La scia, 1927 o Audax, 1928, al divertissement ironico di Topolino sciatore, 1932; dal fascino delle riprese in panning (Sciatori provetti, 1938) che sarebbe stato poi di Gasperl, Mollino e Moncalvo[29],  all’astrazione del gesto elegante di Kristiania, 1931, dove il progressivo lavoro di sottrazione condotto in ripresa e poi sul negativo si traduce in esiti puramente e modernamente fotografici, sino all’estremo limite della scomparsa della figura in controluce:  “in modo che la sbuffata della neve originata dal telemark o dal cristiania strappato, resti come un vapore nel raggio del sole.” (Giulio 1936, p. 4) Solo comune denominatore la levità delle forme e dei gesti: nel mondo di Cesare Giulio non c’è dramma né fatica; anche i paesaggi vivono sospesi in un tempo di commossa contemplazione. Il fotografo scava intorno al tema, si muove per affinamenti progressivi sino a lasciare fuori campo il soggetto comunemente inteso, il corpo, l’albero, mentre altri elementi apparentemente secondari conquistano la scena. Penso alle ombre, a quelle tracce che furono il segno distintivo di un’intera generazione di fotografi e che qui progressivamente si trasformano in pura rappresentazione materica di una superficie, sebbene non rinunciando ad una interpretazione metaforica (Progresso, 1936); sono realizzazioni concrete per quanto involontarie di quel “dramma degli oggetti”, di quel “dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi” che aveva invocato il Manifesto della Fotografia Futurista.  Allo stesso ambito, certo nutrito da più ampi riferimenti internazionali, vanno poi condotte opere come  Palestra bianca[30], 1936, e Formiche[31], 1937, che proprio nell’efficace novità del punto di vista, delle possibilità compositive offerte dalla nuova visione scorciata dall’alto trovavano le ragioni della loro realizzazione e del loro immediato successo.

Questa diversità di approcci e di soluzioni narrative e stilistiche la ritroviamo anche negli altri temi e soggetti che il ricco archivio di Giulio ci offre, consentendoci di affrontare un altro dei nodi critici significativi di questa vicenda espressiva, come di quella stagione culturale. Mi riferisco alla fitta  rete di rimandi, suggestioni e prestiti che lega l’opera di Giulio a quella di altri autori coevi, non solo torinesi. Già in altre occasioni[32] mi è accaduto di suggerire  quasi la figura di un ‘autore collettivo’,  a indicare la rilevanza del fenomeno. Le infinite variazioni sul tema della grafia delle tracce, delle modulazioni del bianco costituiscono il comune denominatore di molta della produzione  – non solo italiana, a dire il vero – del periodo tra le due guerre mondiali, con esiti portati al limite della citazione  reciproca, quasi del plagio. Opere che nascevano dalla convinzione che il paesaggio potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da rielaborare per  scrollarsi di dosso il gravame della referenzialità; fotografie che negli esiti migliori la critica coeva riconosceva come estranee al genere, al di là delle apparenze.[33] Per questi autori lo scenario alpino non era semplicemente una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di più: un soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza quale ovvia conseguenza di antiche passioni e frequentazioni. Ma non era il solo; né il confronto si riduceva ai modi di trattamento del soggetto. Anche altri elementi dell’opera, come il titolo, erano messi in gioco e collettivamente ripresi, in un flusso continuo di scambi tra autori e opere che si tradusse nell’elaborazione collettiva del linguaggio della modernità fotografica italiana, quello che sarebbe stato illustrato e certificato quasi dall’annuario di Domus del 1943[34].

Già alcuni esercizi di stile di Giulio della fine degli anni Venti, quali i grappoli d’uva, tra  le rare nature morte da lui tentate, sono assimilabili alle analoghe prove coeve di Bologna e Gabinio e certo numerose furono per le occasioni di incrociare i propri passi con quelli del più anziano e appartato collega,  almeno in occasione di importanti eventi pubblici quali le cerimonie per la beatificazione di Don Bosco o per l’ostensione della Sindone del 1931, che entrambi fotografarono, o durante il lungo e complesso cantiere della ricostruzione di Via Roma. Sebbene non sia documentata alcuna conoscenza diretta, nonostante la comune appartenenza al CAI, alcune opere restano a testimoniare un dialogo: penso ad esempio alla ripresa delle acque del Po alla diga a valle del ponte Vittorio a Torino (1928) realizzata da Giulio  nel 1928, di cui non è nota alcuna stampa, in strettissima relazione  con Po che Gabinio espose a Torino, alla I Esposizione fotografica sociale dell’ALA del 1935, con Giulio membro della giuria di accettazione.[35]  Ben più stretti e documentati furono i rapporti con Stefano Bricarelli, con cui condivise la partecipazione a diversi Salon e Mostre come l’appartenenza al Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e al Fotogruppo Alpino. Questa consuetudine lasciò tracce evidenti sia in alcune prove degli inizi di Giulio come Costume del 1919, o nella più tarda San Fruttuoso, 1932, e in genere nei paesaggi non alpini, mentre la freccia dei debiti cambiava direzione nelle elaborazioni bianco su bianco, come le Tracce o i Ricordi di Sestrière di Bricarelli[36].

Il luogo, ideale e materiale a un tempo di questi confronti era certo la biblioteca del Club Alpino Italiano, ricchissima di volumi illustrati dedicati alla montagna e allo sci, ma specialmente gli uffici del “Corriere Fotografico”,  sede anche del Gruppo Piemontese, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.” La dispersione di questo preziosissimo materiale può consentirci solo di immaginare la varietà e la ricchezza delle fonti disponibili, in piccola parte ricostruibili come corpus a partire dai fondi e dalle donazioni fatte alla Biblioteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino da alcuni dei protagonisti di quella stagione come Italo Bertoglio e Carlo Matis[37]. Tutta la ricca vita associativa torinese era però occasione di scambi e  confronti.   Un altro dei suoi interlocutori era Mario Bellavista, fotografo, critico militante, consulente tecnico dell’ALA e rappresentante della società Gevaert, con cui era in contatto almeno dalla fine degli anni Venti[38] anche per la comune partecipazione a mostre, a partire da quella di Monza del 1927. Al “dramma delle ombre” che costituiva il tema di una delle sue immagini più note ed efficaci, Imbarco, pubblicata in Luci ed Ombre del 1933 (t. XX) possiamo allora legittimamente accostare Genova. La partenza del “Città di Livorno”  di Giulio, che è del 1932, cioè verosimilmente coeva, mentre altre suggestioni nascono dall’analisi delle pubblicazioni dell’epoca. Si confronti Elettricità/ Nubi  del 1936 con Alta tensione di Bruno Stefani (1931-1932),  un autore cui lo accomunano anche certi modi di resa dei paesaggi italiani e l’insistita ricerca sul tema dei fiori e (ancora) delle ombre[39]: è quanto accade in Fiori di campo e Dalia , entrambe del 1932, certamente da porre in relazione col concorso fotografico dedicato alla “Fotografia di un fiore” indetto nel giugno di quell’anno  da “Natura”, con cui collaboravano sia Giulio che Stefani,  con la casa di prodotti fotografici Tensi[40].

Altri esempi potrebbero succedersi, innumerevoli. Dalle più immediate consonanze col lavoro dei Fratelli Pedrotti e di molti torinesi come Carlo Matis, Piero Oneglio, Ettore Santi[41], alle non occasionali reminiscenze che si ritrovano in Federico Vender e in Giuseppe Cavalli, di cui Giulio non anticipa solo l’adozione sistematica e coerente del tono alto, ma anche l’attenzione per certi soggetti specifici, come i panni stesi al sole, occasione di verificare contemporaneamente la tenuta della composizione e la rapidità dell’istantanea.[42]

Un sentire comune, una virtuale comunità di fotografi estesa ben oltre la stretta appartenenza ai gruppi e poi ai circoli, indifferente forse anche alle conoscenze dirette, personali, di cui ancora troppo poco sappiamo.  Un’attività che si nutriva di reciproci prestiti,  sollecitata dalle suggestioni di ciascuno, dalla volontà – e dal piacere, credo – di sottoporre a verifica i problemi posti dagli altri, di sondarne l’efficacia espressiva delle soluzioni sino a farle proprie, in modi non troppo diversi dall’oggi.

Mi chiedo infine quali fossero i rapporti di Giulio con lo schivo Ferruccio Leiss: Torino, Milano e poi Venezia. Non sappiamo se ci fu mai l’occasione di un incontro, di una riflessione condivisa, di una stimata amicizia nata dalle numerose partecipazioni comuni alle mostre del periodo 1930-1936.  Nel 1935 però, a Vipiteno, misurandosi con temi per lui lontani e inconsueti come gli interni e le luci artificiali Giulio realizzò una serie di riprese da cui trasse Arabeschi, palese rielaborazione della notissima immagine di Leiss pubblicata in Luci ed Ombre del 1933 (t. IV). Il titolo attribuitogli da Leiss, Pioggia d’ombre, ricalcava a sua volta quello di un’immagine di Giulio pubblicata sullo stesso annuario solo due anni prima (t. XI) e presentata al VII International Kerst Salon di Anversa del 1933, cui prese parte lo stesso fotografo (da poco) veneziano. Questa stessa fotografia venne scelta nel 1946, anno della morte di Giulio, da Mario Finazzi, che per la collana “Immagini” da lui diretta per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo,  pubblicava  Montagne, “dedicato ai poeti, agli alpinisti, ed a coloro che – come i primi e i secondi -travalicano la realtà per attingere al sogno”[43].

Una continua intersezione di tracce, ancora tutte da seguire.

 

Note

[1] Giulio 1934, che così proseguiva: “Avevo allora concluso con un mio compagno di scuola un colossale baratto, a base di figurine Liebig e francobolli con una certa scatoletta di cartone contenente nientemeno che un completo armamentario fotografico.”

[2] Gabinio 1996.

[3] La n. 49 del suo archivio negativi, numerato con progressione cronologica quasi sempre coerente. Per la formazione e la consistenza del fondo fotografico rimando al testo in catalogo di Emanuele de Rege, che voglio qui ringraziare per la sua costante disponibilità e per il confronto continuo e attento sulle questioni relative alla corretta comprensione dell’opera di Giulio.

[4] Demachy, Puyo 1906,  f.t. Il volume era certamente noto a Torino dove era in vendita da Lattes, una delle più importanti librerie editrici dell’epoca.

[5] Penso a La zia Paolina di Giulio, 1911 ca, che appartiene alla stessa tradizione iconografica del più tardo Ritratto di vecchia di Schiaparelli, 1930 ca, cfr. Chiorino 2003, p. 52. Lo stesso Schiaparelli utilizzò immagini di Giulio a corredo della propria conferenza tenuta nel salone della Società Patriottica e degli Artisti di Milano, il 15 giugno 1928; cfr. Schiaparelli 1928, p. 292.

[6] Giulio 1934, p. 7.

[7] Tarchetti  1990. Dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie vennero pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” e in parte diffuse in cartolina, mentre dal 1909 al 1912 ne comparvero dodici ne “La Fotografia Artistica”. Tra le Scene comuni ai due autori, e quasi coeve, anche quelle dedicate alla trebbiatura del grano. Segnalo che parte della sua produzione fotografica è consultabile all’indirizzo https://caisidoc.cai.it/risultati-della-ricerca/advancedsearch  (09 12 2022).

[8] Sella, Vallino1890; Cavanna 1995.

[9] Si confronti ad esempio Costume, 1919 di Giulio con Processione a Oulx  di Bricarelli, del 1912 (Bricarelli  2005, p. 45)

[10] Nello specifico, alcune inspiegabili incongruenze di numerazione non consentono una maggiore precisione: i nn. 1492-1500 portano la data del settembre 1918, ma i nn. 1394-1398 sono datati maggio 1919.

[11] Cfr. Sella 1982;  Paesaggi verticali 2006.

[12] L’arte della fotografia 1924, p.35.

[13] Aurora Umbrarum Victrix di Bricarelli (t.22) e La spiaggia di Achille Bologna (t.76), mentre La scia  di Giulio venne pubblicata alla t.81. Nessun italiano era stato accolto nella fondamentale raccolta antologica del numero 16 di “Arts et Metiers Graphiques”, Photographie, 1930, dedicato alla fotografia; gli inglesi di “The Studio” si dimostravano in questo meno selettivi,  più sensibili anche alla produzione amatoriale di livello alto. Questi volumi erano noti in Italia almeno attraverso le segnalazioni e recensioni che comparvero in alcuni periodici, sebbene non fotografici. “La Casa Bella”, 4 (1931) n.10, ottobre, pp. 58-59, riportava parte del testo introduttivo di Philippe Soupault al secondo numero dell’annuario francese, dove l’autore si premurava di “sottolineare con maggior forza che una fotografia è prima di tutto un ‘documento’ e che bisogna considerarla tale (…) I fotografi ormai devono scordare l’arte per orientare la loro attività in una direzione che si dimostrerà infinitamente più feconda.” (citato in Paoli 1998, p.106 nota 27). Sulle stesse pagine Edoardo Persico avrebbe successivamente recensito i due annuari di “The Studio” (1931, n.11:, p.  54; 1932, n.10, pp. 58-59) traendone l’occasione per riflettere sullo statuto della fotografia “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole” (1931, p. 54), mentre per l’anonimo collega di “Domus”, 4 (1931), n. 47, p. 67, si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici.” Numerose segnalazioni comparvero anche su “Natura”, che aveva tra i propri collaboratori Antonio Boggeri, allora alle dipendenze della  Alfieri & Lacroix (Monguzzi 1981, p. 2), che editava il periodico. Nello stesso numero dell’ottobre 1932 ad esempio si susseguirono un redazionale di presentazione di Photographie (pp. 58-59)  e una interessante recensione di Modern Photography (pp. 78-79), da attribuirsi forse a Luigi Poli, direttore responsabile della rivista e  curatore del supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia”. Il breve testo dedicato al nuovo annuario di Photographie dopo averne rilevato “la presentazione tipografica di rara eleganza e di spiccata modernità”  prendeva le distanze dal saggio di apertura, firmato da André Bacler, il quale delineava “l’evoluzione più recente della fotografia, volendo dimostrare come dopo un periodo di confuse ricerche e di stravaganti effetti essa sia per ritornare alla sua vera funzione di indagine tecnica e documentazione scientifica. Con questa conclusione non s’accordano però i cento e più esempi fotografici riportati dal volume, così diversi l’uno dall’altro da smentire agevolmente l’affermazione che la fotografia sia anzitutto un mestiere. C’è in alcuni, anzi nei migliori, una così fervida fantasia, in altri ancora, sempre ammirevoli, una così delicata ispirazione  poetica da giustificare, al di là di ogni sottigliezza verbale, il nome di arte.” Anche a proposito di Modern Photography si sottolineava con qualche perplessità l’opinione espressa nella prefazione “che la fotografia va oggi considerata soprattutto come documento, qualunque sia la forma e il mezzo scelto per esprimersi. La macchina fotografica è quindi, secondo l’autore, sempre e soltanto uno strumento sia pure governato dall’intelligenza e dal gusto di chi lo usa, e cade in errore chi voglia assegnarle qualità metafisiche o poetiche, le quali saranno sempre privilegio dell’artista. Quanto alla personalità, deduciamo da tali premesse, s’immagina che un fotografo possa imprimerla alle sue prese attraverso la scelta del soggetto, al modo di vederlo, di presentarlo, di farlo suo.” La cultura italiana dell’epoca, anche la più avveduta, pareva non essere ancora in grado di accogliere l’autonomia estetica e poetica della fotografia pura e diretta, prodotto dalla nuova ‘oggettività’ modernista, vincolata da un idealismo tra l’ottocentesco e il crociano.

[14] Alpinisti 2002, p. 46, scheda di Roberto Mantovani.

[15] Bellavista 1934, p. 11. Anche per altri commentatori Giulio era “tra i rari compositori che si impongono il valore del titolo come forza collaboratrice della forma. (…) Ecco qui in questo Sul limite dell’ombra l’artista ha segnato il dramma eterno della luce.” (Angeloni 1939).

[16] “Cesare Giulio ne I piccioni di San Marco serve alla moda facendo della prospettiva futurista, ma non lo condanno; anzi, tutt’altro, molto lo lodo, non perché abbia fatto una cosa alla moda, ma semplicemente perché ha fatto una cosa bella, che la mancanza di spazio m’impedisce d’analizzare come meriterebbe.”, Brezzo 1930, p. 777. Lo stesso critico, nel testo di apertura di Luci ed Ombre dell’anno successivo e  facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, dichiarava che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista.” (Brezzo 1931) Lo sforzo di omologazione era strenuo e non conosceva ostacoli:  “l’astrattismo di Bricarelli, alla Tav. 17 [di Luci ed Ombre: Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse… Qui se il pericolo non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice 1932, p. XVI). Nello stesso annuario del 1930 comparve un’immagine di Bricarelli con la Basilica di san Marco ripresa dall’alto, ed anche Federico Vender si sarebbe prodotto in una veduta dall’alto di Piazza San Marco a Venezia, 1936, cfr. Menapace 2003.

[17] Fillia (Luigi Colombo) avvicinatosi alla fotografia per il tramite di Maggiorino Gramaglia (Lista 2001, p. 266) non fu però tra i promotori né tra i partecipanti  alla Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista che si tenne a Torino nel 1931, nel cui catalogo del resto non si faceva cenno al Manifesto redatto da Marinetti e Tato l’anno precedente, da lui invece pubblicato nel suo Il futurismo: Ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento futurista italiano. Milano: Sonzogno, 1932, con l’aggiunta di un suo testo dedicato alla fotografia,  non segnalato in Lista 2001.

[18] Cfr. Miraglia 2001, p. 18; Bianco su bianco 2005.

[19] Il corriere fotografico, 24 (1927), n. 3, marzo.

[20] Bernardi 1928, pp.641- 642. Come è noto lo stesso concetto venne ripreso alcuni anni più tardi da  Mario Bellavista in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro Concetti per fotografi moderni invitava infatti a “Fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.”, Bellavista 1934, p. 10.

[21] Ancora maggiore risulterà nel decennio successivo quando, sotto l’egida della Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura, che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana) Giulio parteciperà a più di sessanta esposizioni: 10 salon (32 opere) nel 1930-31; 9 salon (20 opere) nel 1931-32; 8 salon (24 opere) nel 1932-33; 3 Salon (15 opere) nel 1933-34;  2 Salon (8 opere) nel 1934-35; 8 Salon (26 opere) nel 1935-36; 9 Salon (17 opere) nel 1936-37; 15 Salon (31 opere) nel 1937-38. Cfr. “Pagine fotografiche ALA”, settembre 1938, p. 57, che rimanda a sua volta a “The American Annual of Photography”. Boston: Tennant and Ward, 1938.

[22] “Amateur Photographer” 1929.

[23] “Gli Abeti in inverno del Giulio, un bianco-nero finissimo, un pezzo di paese che, vero com’è, pare, tanto è bello e fantastico, un perfetto disegno di qualche maestro giapponese” aveva scritto  Emilio Zanzi nella  “Gazzetta del Popolo” dell’ 8 maggio 1927, recensendo “Montagne – La II mostra del Fotogruppo Alpino” (Zanzi 1927). A proposito di un’opera di Riccardo Moncalvo altri avrebbero detto che “disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette.”, Angeloni, 1934a, p. 591.

[24]Le stelle 2004, p. 127. Analoghe soluzioni, pur con campi ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Gyger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, pp. 100 passim. Questa genealogia del bianco che poneva in relazione diretta il Bergfilm tedesco con le sperimentazioni dei fotografi italiani era già stata individuata e nettamente tracciata da Nico Ferrini, che sulle pagine di “Natura” aveva accostato a Kristiania di Giulio proprio alcuni fotogrammi dei film di Arnold Fank. (Ferrini 1932) Anche la manualistica italiana dedicata allo sci contemplava la pubblicazione di intere pagine di fotogrammi da filmati tecnici (cfr. Ghiglione 1928), ma ciò che ricercava era la chiarezza didascalica della sequenza dei gesti  e dei comportamenti, non l’efficacia comunicativa della resa espressionista (ben più che futurista) dell’ebbrezza bianca.

[25] Gabinio 1996.

[26] In parte diverso il caso di Bricarelli, che nel novembre del 1926 aveva fondato “Motor Italia” con un piccolo gruppo di soci. La destinazione funzionale di molte delle proprie immagini  lo spingeva ad  abbandonare ogni intenzione semplicemente “artistica”, a rinunciare all’autonomia salonistica  delle singole opere preferendo agire per serie. Avendo in mente la carta stampata,  metteva in pratica un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva non dimenticava però la necessità di realizzare immagini formalmente risolte, quindi anche comunicativamente efficaci; si veda Bricarelli 2005.

[27] L’anno successivo concetti analoghi vennero espressi da Alberto Savinio che avrebbe parlato, a proposito della nuova fotografia di soggetti ridotti a uno “schemati­smo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’ alto.” (Savinio 1935)

[28] Il riferimento polemico è al Commento di Antonio Boggeri che apriva l’annuario del 1929: “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove”, Boggeri 1929a.

[29] Gasperl 1939, prefazione di Gianni Alberini, con 77 fotografie originali e una tavola fuori testo di Carlo Mollino 1950, con 212 disegni originali dell’autore e 200 fotografie; Moncalvo 1976 tav.  XXIII.

[30] Di quest’ultima  – trovandosi nell’identica condizione – si sarebbe certamente ricordato Riccardo Moncalvo per il suo Grafismo nevoso, 1947, ma anche altre sue opere come Ritmo di larici, dello stesso anno, derivano immediatamente dalle più note fotografie di Giulio, certo uno dei punti di riferimento per il più giovane figlio d’arte, che aveva precocemente dimostrato una analoga sensibilità di trattamento dei soggetti alpini (Nella tormenta – Verso il Breithorn, 1937), cfr. Moncalvo 1976, tavv. LXXV, LXXXII, XCIII.

[31] Quale ennesima testimonianza della fittissima rete di suggestioni e scambi segnalo come il titolo fosse ricalcato su quello scelto da Bricarelli (Formiche della neve) per una sua immagine pubblicata in Luci ed Ombre del 1924 (tav. XL).

[32] Bianco su bianco  2005.

[33] Per Marziano Bernardi (1927, p. 11), “Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle.”

[34] Fotografia  1943; Paoli 1998.  Per ragioni critiche poco comprensibili, Peretti Griva era qui il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Cesare Giulio risultava assente, sebbene la fotografia a tono alto, di cui era stato certo l’esponente più qualificato nel periodo tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (tav. 39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[34] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53).  Non escluderei invece che  Roiter  potesse aver meditato proprio su Giulio, di cui ebbe modo di vedere alcune opere (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) nella piccola sezione postuma che gli venne dedicata nel 1949  all’interno della Sezione fotografica della “Mostra internazionale Scambi Occidente” organizzata dalla Società Fotografica Subalpina e dal Gruppo Fotografi FIAT, cui partecipò lo stesso Roiter con due opere (Allegretto con brio, Spasimi 210-211), insieme a  Paolo Monti (Inverno ad Anzola, Trasparenze 175-176), cfr. Scambi Occidente 1949. 

[35] Cfr. Gabinio 1996,  tav.190. Entrambi gli autori si erano già misurati, intorno al 1930, col soggetto della diga Michelotti sul Po.

[36] Per Tracce si veda Luci ed Ombre, 1932, tav. XXV. La pagina di album che contiene le diverse prove dei Ricordi di Sestrière dimostra quanto fosse rilevante in quegli anni l’influenza di Giulio, cfr. Bricarelli  2005, p. 86.

[37] Una prima ricostruzione di questo corpus è costituita dagli apparati messi a punto da Veronica Lisino, che ringrazio per l’acribia con cui ha condotto le ricerche bibliografiche e la dedizione con cui ha partecipato al lavoro redazionale.

[38] “Dune di neve/ senza il colle/ da rifare (inviata a Bellavista)”, recita la scritta al verso della stampa n. 5192, del 1930.

[39] Alta tensione fu pubblicata in Luci ed Ombre, 1932, tav. X.

[40] L’esito del concorso, pubblicato nel numero di maggio del 1933, vedeva al primo posto Italo Bertoglio, con un’immagine  che svela la forte influenza dei toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham, che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931; al secondo posto si collocò Stefani, mentre di Giulio,  non citato, non è nota la partecipazione effettiva.

[41] Per un confronto analitico con le opere di questi autori si rimanda a Bianco su bianco 2005.

[42] Si confronti ad esempio Chioggia canale [della] Vena  di Giulio, del 1929, con le più tarde Armonia di Vender e Per la via di Cavalli, entrambe del 1948, in Bianco su bianco 2005, pp. 114-115.

[43] Cfr. Finazzi 1946. Di Giulio vennero pubblicate – ad aprire il fascicolo – Scendendo dal M. te Bianco, Sciatori, Sommità, Solennità, Pioggia d’ombre, Palestra Bianca. Gli altri autori selezionati furono Antonio Piccardi (alpinista, primo sindaco di Dalmine dopo la Liberazione), Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e lo stesso Finazzi.

 

 

 

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Come la stampa fotografica internazionale giudica Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),   n. 4, aprile, pp. 253-254, tratto da “American Photography”, 23 (1930), n. 3, marzo. Boston: American Photographic Publishing Company

 

Amsterdam 1938

Vierde Internationale Focus Fotosalon, catalogo della mostra (Amsterdam, 1938). Amsterdam: Focus, 1938

 

Amsterdam 1939

Vijfde Internationale Focus Fotosalon, catalogo della mostra (Amsterdam, 1939). Amsterdam: Focus, 1939

 

Amsterdam 1947

Zevende Nationale Salon van Fotografische Kunst: de herdenking van het 25-jarig bestaan, catalogo della mostra (Amsterdam, 1947). [S.l., s.n.], 1947

 

Andreis 1937

Luigi Andreis, Gli artisti italiani al V Salone Internazionale di Torino,  “Galleria”, 5 (1937), n. 5, maggio, pp. 10-11

 

Andreis 1938

Luigi Andreis, Un commento di Luigi Andreis alle tavole di questo numero,  “Galleria”, 6 (1938), n. 1, gennaio, pp. 10-11

 

Angeloni 1923

Italo Mario Angeloni, La Fotografia Artistica alla Prima Esposizione Internazionale Torino – Maggio-Giugno 1923, in L’arte nella fotografia 1923, pp.39-50

 

Angeloni 1925a

Italo Mario angeloni, Commenti e documenti estetici del Primo Salon Italiano. Gli amici d’oltralpe e d’oltre mare, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 11, novembre, pp. 179-181

 

Angeloni 1925b

Italo Mario angeloni, La Mostra sociale 1925 alla “Società Fotografica Subalpina” – Recenti manifestazioni dell’attività fotografica in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 67-68

 

Angeloni 1926

Italo Mario Angeloni, Arte Consolatrice. Contemplando “Luci ed Ombre” 1926, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 11, novembre, pp. 241-243

 

Angeloni 1928

Italo Mario Angeloni, Volti e aspetti del mondo al II° Salon Italiano di Fotografia, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 11, novembre, pp.  719-721

 

Angeloni 1933a

Italo Mario Angeloni, Nell’imminenza del IV “Salon” torinese, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 4, aprile, pp. 189-190

 

Angeloni 1933b

Italo Mario Angeloni, La partecipazione dei dilettanti italiani al “IV Salone Internazionale” di Torino, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 5, maggio, pp. 251-255

 

Angeloni 1934

Italo Mario Angeloni, “Luci ed Ombre” 1934,  “Il Corriere Fotografico”, 31 (1934), n. 11, novembre, pp. 591-592

 

Angeloni 1939

Italo Mario Angeloni, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 36 (1939), n. 12, dicembre, p. 270

 

Annuario 1926

Annuario  1926. Torino: CAI, 1926

 

Antwerpen 1934

Catalogus Van Het 7. Internationaal Kerstsalon, ingericht door de Fotografische Kring Iris, catalogo della mostra (Anversa, 1933-1934). Antwerpen: Borgerhout, 1934

 

L’arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia: Prima Esposizione Internazionale di Fotografia, Ottica e Cinematografia, catalogo della mostra (Torino 1923. Roma: Bestetti & Tuminelli

 

Audisio, Cavanna 2003

Aldo Audisio, P. Cavanna, a cura di, L’Archivio fotografico del Museo Nazionale della Montagna. Novara: De Agostini, 2003

 

Barcelona 1929

Catalogo de las obras expuestas en el Primer Salon Internacional de Fotografia: Barcelona 1929, catalogo della mostra (Barcellona, 1929). Barcelona: Delta, 1929

 

Bellavista 1934-1936

Mario Bellavista,Tre concetti per fotografi moderni,  “Galleria”, gennaio 1934 – novembre 1936

 

Berlin 1941

Ausstellung Italienische Fotografische Kunst: Verastaltet von der Unione Societa Italiane Art Fotografica in Rom …, catalogo della mostra (Berlino,1941). Berlin: O. Meusel, 1941

 

Bernardi 1927  

Marziano bernardi, Commento, in Luci ed Ombre 1927 , pp. IX-IXX

 

Bernardi 1928a

Marziano Bernardi, Fotografi artisti, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio: 2-3, tratto da “La Stampa”, 62 (1928),  21 gennaio

 

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, , pp. 641-643

 

Bernardi 1928c

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre 1928, pp. XI-XVI

 

Bianco su Bianco 2005

Bianco su bianco. Percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari , 2005

 

Biennale 1939

  1. Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Torino, 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

Birmingham 1931

Birmingham Photographic Society: 40th Annual Exhibition, catalogo della mostr (Birmingham, 1931). Birmingham: Stanford & Mann, 1931

 

Boggeri  1929a

Antonio Boggeri, Commento,  in Luci ed Ombre 1929, pp. 14-16

 

Boggeri  1929b

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 8, agosto, pp. 557- 564

 

Boggeri 1930

Antonio Boggeri, Caratteri della moderna estetica fotografica, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 8, agosto, p. 546,  tratto da “Natura”, 3 (1930), n. 7, luglio

 

Boggeri 1932

Antonio Boggeri, La fotografia alla Fiera di Milano,  “Natura”, 5 (1932),  n. 5 maggio, pp. 43-48

 

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi. Milano: Hoepli, 1935

 

Bombay 1935

  1. Indian Salon Of Photographic Art (First International) promoted by Camera Pictorialists of Bombay, catalogo della mostra (Bombay, 1935). Bombay: The Times of India Press, 1935

Bombay 1939

Third Indian International Salon, catalogo della mostra (Bombay, 1939). Bombay: The Times of India, 1939

 

Boston 1935

Catalog of the Fourth International Salon, catalogo della mostra (Boston, 1935). [Boston?, s.n.], 1935

 

Brezzo  1926a

Guido Lorenzo Brezzo, Commenti al Primo Salon Italiano. II. Paesisti di tutto il mondo, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 1, gennaio, pp. 4-7

 

Brezzo 1926b

Guido Lorenzo Brezzo, La fotografia di montagna alla Prima Esposizione del Fotogruppo Alpino, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926),  n. 5, maggio, pp. 105-107

 

Brezzo 1926c

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre 1926, pp. 11-19

 

Brezzo 1927  

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp.  201-204

 

Brezzo 1928

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1928, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 11, novembre, pp. 717-719

 

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929,  “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 11, novembre, pp. 777-780

 

Brezzo 1930a

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre 1930”  “Il Corriere Fotografico”,  27 (1930),  n. 11, novembre, pp. 774-778

 

Brezzo 1930b

Guido Lorenzo Brezzo, Il “III Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale” , “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 12, dicembre, pp. 843-846

 

Brezzo  1931a

Guido Lorenzo  Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre 1931, pp. XI-XV

 

Brezzo  1931b

Guido Lorenzo  Brezzo, La Mostra Fotografica Internazionale alla Fiera di Milano, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931),  n. 5, maggio, pp. 307-309

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1924

s.b. [Stefano Bricarelli], Il fotografo in montagna. Gli sports invernali, “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 1, gennaio, pp. 5-6

 

Bricarelli  2005

Stefano Bricarelli: fotografie, catalogo della mostra (Torino,  2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005

 

Budapest 1936

  1. Nemzetközi Művészi Fényképkiállitás, catalogo della mostra (Budapest, 1936). Budapest: Hungaria Nyomda, 1936

 

Cai 1922-1948

Rivista mensile del Club Alpino Italiano. Torino, 1922-1948

 

Cai 1930

Quarta Esposizione di Fotografia di Montagna del Fotogruppo Alpino, catalogo della mostra (Torino, 1930). Torino:  Arti Grafiche Italiane, 1930

 

Cai 1932

  1. Esposizione Fotografia di Montagna al Circolo degli Artisti, catalogo della mostra (Torino, 1932). Torino: Foa, 1932

Cai 1934

  1. Esposizione Fotografia di Montagna al Circolo degli Artisti, catalogo della mostra (Torino, 1934). [S.l., s.n.], 1934

Cai 1940

  1. Esposizione di Fotografia Alpina, catalogo della mostra (Torino, 1940).Torino, S.P.E., 1940

Capetown 1936

Cape of Good Hope International Salon of Photography 1936, catalogo della mostra (CapeTown, 1936). [CapeTown?, s.n.], 1936

 

Casale 1930

Prima Esposizione Regionale di Fotografia di Montagna indetta dal Fotogruppo Alpino, catalogo della mostra (Casale Monferrato, 1930). Casale Monferrato: Tarditi, 1930

 

Casale 1942

I  Mostra di Fotografia Artistica … , catalogo della mostra (Casale Monferrato, 1942). [S.l., s.n.], 1942

 

Cavanna 1995

P. Cavanna, Gli Album di un alpinista. La montagna abitata di Domenico Vallino, “ALP”, 11 (1995), n. 122, pp. 124-127

Cavanna 2003

P. Cavanna, Mostrare paesaggi, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003, pp. 40-116

Charleroi 1934

Catalogue du I Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Charleroi, 1934). Charleroi: R. Denuit, 1934

 

Chicago 1933

The International Salon of Photography in the Graphic Arts Building, catalogo della mostra (Chicago, 1933). [Chicago?: Chicago Camera Club], 1933

 

Chicago 1937

Eighth Chicago International Salon of Photography, catalogo della mostra (Chicago, 1937). [Chicago?: Chicago Camera Club], 1937

 

Chiorino

Gian Paolo Chiorino, a cura di, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista, Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003

 

Concorso 1925

I Concorso trimestrale del “Corriere Fotografico” – “Paesaggi d’inverno” , “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 3, marzo

 

Concorso 1927  

Il I° Concorso trimestrale 1927 del “Corriere Fotografico” “Neve e brina”, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p.  88

 

Concorso Annuale 1929

Il Concorso Annuale 1929 del “Corriere Fotografico”, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 2, febbraio, p. 33

 

Concorso Annuale 1930

Il Concorso Annuale 1929 del “Corriere Fotografico”, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 2, febbraio, p. 33

 

Cornoldi 1950

Antonio Cornoldi, a cura di, 60 canti della montagna. Roma: Edizioni Dalmatia di Luciano Morpurgo, 1950

 

Corriere Fotografico 1924-1934

“Il Corriere Fotografico”, Torino,Tipografia Lorenzo Rattero, 1924-1934

 

Corso 1935

Corso Superiore di Cultura Fotografica: 29 novembre 1934-XII/15 giugno 1935-XII, promosso dalla Società Fotografica Subalpina. [S.l., s.n.], 1935

 

Costantini, Zannier, 1987

Paolo Costantini, Italo Zannier, Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923-1934. Firenze: Alinari, 1987

 

De Albroit 1930a

Comirias  de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 1, gennaio, p. 9

 

De Albroit 1930b

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 8, agosto, p. 555

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, La XX Esposizione Sociale d’Arte alla Società Fotografica Subalpina, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 5, maggio, pp. 257-258

 

De Albroit 1933

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 1, gennaio, p. 33

 

Debrecen 1939

  1. Nemzetközi Művészi Fényképkiállitás Debrecen, catalogo della mostra (Debrecen, 1939). [Debrecen?, s.n.] 1939

Debrecen 1940

Négy Nemzet Kiállítása 1940: Olaszország Jugoslávia Svájc es Magyarország … , catalogo della mostra (Debrecen, Sopron, Budapest, Zurigo, 1940) [Debrecen?, s.n.], 1940

 

Demachy, Puyo 1906

Robert Demachy, Constant Puyo, Les procedés d’art en photographie. Paris: Photo-Club de Paris, 1906

 

Douai 1929

Catalogue des oeuvres exposées au Salon International d’Art Photographique, organisé par la Société photographique du nord de la France, Douai, catalogo della mostra (Douai, 1929). Douai: Laivre, 1929

 

Dublin 1931

Irish Salon of Photography: catalogue of the Third Salon, catalogo della mostra (Dublino, 1931). Dublin: Corrigan and Wilson, 1931

 

Elbeuf 1929

Catalogue des oevres exposées au Salon International d’Art Photographique organisé par le Cercle photographique elbeuvien, catalogo della mostra ( Elbeuf, 1929). Elbeuf: Allain, 1929

 

Ferrini 1932

Nico Ferrini, La vittoria dello sci, “Natura”, 5 (1932),  n. 1, gennaio, pp. 57-60

 

Fillia 1932

Fillia, Il Futurismo: ideologie, realizzazioni e polemiche del Movimento futurista italiano. Milano: Sonzogno, 1932

 

Finazzi 1946

Mario Finazzi, a cura di, Montagne, “Immagini”, 3. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1946

 

Firenze 1934

  1. Mostra Nazionale di Strumenti Ottici: Catalogo della mostra fotografica, catalogo della mostra (Firenze, 1934). Firenze: Tipocalcografia Classica, 1934

Foto Annuario 1936

Foto Annuario Italiano A.L.A. Torino:  Associazione Fotografica Italiana, 1936

 

Foto Annuario 1937

Foto Annuario Italiano A.L.A. Torino:  Associazione Fotografica Italiana, 1937

 

Fotografia 1943

Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, a cura di Ermanno F. Scopinich. Milano: Editoriale Domus, 1943

 

Fusco, Laeng 1952

Enzo Fusco, Gualtiero Laeng, Sci e sport della neve. Brescia: La Scuola, 1952

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio: dal paesaggio alla forma: fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino:  Allemandi, 1996

 

Gasperl 1939

Leo[ne] Gasperl, Scuola di sci: discesismo. Milano: Hoepli, 1939

 

Genève 1939

  1. Exposition Italienne d’Art Photographique (“Associazione Fotografica Italiana”, Turin): organisé par la Société Genevoise de Photographie, catalogo della mostra (Ginevra,1939). Genève: A. Excoffier, 1939

Ghiglione 1928

Piero Ghiglione, Lo sci e la tecnica moderna, Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1928

 

Giordano 1930

Giuseppe  Giordano, Un diffusore a sacco per luce-lampo, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 10-12

 

Giulio 1934

Cesare Giulio, Fotografie alpine, “Galleria”, 2 (1934),  n. 6, giugno, pp. 7-9

 

Giulio 1936

Cesare Giulio, Fotografia e sci,  “Galleria”, 4 (1936), n. 3, marzo, pp. 3-4

 

Göteborg 1929

Internationella fotografiutställningen i Göteborg, catalogo della mostra (Göteborg, 1929). [Göteborg?, s.n.] 1929

 

Gruppo  Fotografico 1926

Gruppo Fotografico Alpino, in “Rivista mensile del CAI”, 45 (1926),  pp.  15, 31

 

Gruppo Piemontese 1927  

La ricostituzione del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” , “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, pp. 49-50

 

Gruppo Piemontese 1928

Prima Mostra d’Arte Fotografica del “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica” e Mostre personali di Leonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams, catalogo della mostra (Torino, 1928). Torino:  Tipografia Lorenzo Rattero, 1928

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London 1931

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1931, catalogo della mostra (Londra, 1931). [London?, s.n.], 1931

 

London 1932

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1932, catalogo della mostra (Londra, 1932). [London?, s.n.], 1932

 

London 1935

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1935, catalogo della mostra (Londra, 1935). [London?, s.n.], 1935

 

London 1936

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1936, catalogo della mostra (Londra, 1936). [London?, s.n.], 1936

 

London 1937

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1937, catalogo della mostra (Londra, 1937). [London?, s.n.], 1937

 

London 1938

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1938, catalogo della mostra (Londra, 1938). [London?, s.n.], 1938

 

London 1939

Catalogue of the International Exhibition of the London Salon of Photography 1939, catalogo della mostra (Londra, 1939). [London?, s.n.], 1939

 

Luci ed Ombre 1923

Luci ed Ombre. Raccolta annuale di fotografie artistiche italiane. Torino:  Edizioni d’arte E. Celanza, 1923

 

Luci ed Ombre 1923-1934

Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana. Torino:  Il Corriere Fotografico, 1923-1934

 

Luzern 1932

I  Internationale Ausstellung für Künstlerische Photographie, catalogo della mostra (Lucerna, 1932). Luzern: C. J. Bucher, 1932

 

Maggini 1934

Renzo Maggini, II Mostra di strumenti ottici ed Esposizione Nazionale di Fotografia,  “Galleria”, 2 (1934),  n. 6, giugno, pp. 18-19

 

Meano 1930

Cesare  Meano, Commento, in Luci ed Ombre 1930, pp. XIII-XV

 

Melbourne 1931

Catalogue of an Exhibition of International Camera Pictures, catalogo della mostra (Melbourne, 1931). [Melbourne?, s.n.], 1931

 

Milano 1931

Catalogo Mostra Fotografica Internazionale: 12. Fiera di Milano, catalogo della mostra (Milano, 1931). Milano: Azimonti, 1931

 

Milano 1936

Guida alla Mostra di Fotografia d’Arte, catalogo della mostra (Milano,1936). [Milano?, s.n.], 1936

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopelfulmonster, 2001

 

Modern Photography 1931

Modern Photography: The Studio Annual.  London: The Studio, 1931

 

Mollino 1950

Carlo Mollino, Introduzione al discesismo: tecnica e stili, agonismo, discesa e slalom, storia, didattica, equipaggiamento. Roma: Casa Ed. Mediterranea, 1950

 

Moncalvo 1976

La fotografia di Riccardo Moncalvo. Torino:  Tipografia Torinese Editrice, 1976

 

Mondo Fotografico 1929

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 5, maggio, pp. 342, 243 tratto da “Natura”, 2 (1929),  n. 5, maggio

 

Mondo Fotografico 1930a

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 9, settembre, pp. 649-650

 

Mondo Fotografico  1930b

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 11, novembre, pp. 797-798

 

Mondo Fotografico 1932a

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 6, giugno, pp. 326-328

 

Mondo Fotografico 1932b

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 8, agosto, pp. 439-450

 

Mondo Fotografico 1932c

Nel Mondo Fotografico, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 12, dicembre, pp. 661-662

 

Monguzzi 1981

Bruno Monguzzi, Lo Studio Boggeri 1933-1981. Milano: Electa, 1981

 

Monte  Carlo 1937

Premier Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Monte Carlo, 1937).

Monte Carlo: Imprimerie Monegasque, 1937

 

Monza 1927  

L’arte della fotografia alla Terza Mostra Internazionale delle Arti Decorative, catalogo della mostra (Monza 1927. Milano: Edizione A. Rizzoli, 1927

 

Mostra Annuale 1933

  1. Y., La XXI Mostra annuale della Società Fotografica Subalpina, “Il Corriere Fotografico”, 30 (1933), n. 5, maggio, p. 256

Mulhouse 1938

Catalogue des oeuvres exposées au Salon International d’Art Photographique organisé par le Photo-Club “Amical” – Mulhouse avec la collaboration du “Photo-Club de Mulhouse” a l’occasion de la 37. Session de l’Union National des Sociétés Photographiques de France, catalogo della mostra (Mulhouse, 1938). Mulhouse:  J. Iltegen, 1938

 

München 1939

Internationale Fotografisćhe Ausstellung (IFA) und Bundesausstellung des Reichsbundes Deutscher Amateur-Fotografen (RDAF), catalogo della mostra (München, 1939). Berlin:  Ala Anzeigen-Aktiengesellschaft, 1939

 

Notiziario Cai 1939-1941

“Notiziario  CAI”,  10-12 (1939-1941). Torino: CAI, 1939-1941

 

Notizie 1934

Notizie,   “Galleria”, 2 (1934),  n. 4, aprile, p. 13

 

Ottawa 1936

Third Canadian International Salon of Photographic Art, catalogo della mostra (Ottawa, 1936). Ottawa: The National Gallery of Canada, 1936

 

Paesaggi Verticali  2006

Paesaggi verticali. La fotografia di Vittorio Sella 1879-1943, catalogo della mostra (Torino, 2006), a cura di Lodovico Sella. Torino:  GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2006

 

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini. Fotografia e raccolte fotografiche, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, VIII: 1998, pp.99-128

 

Paris 1928

XXIII  Salon International d’Art Photographique de Paris, Société Française de Photographie. Paris: catalogo della mostra (Parigi, 1928). Paris: Braun & Cie, 1928

 

Paris 1929a

Catalogue des oeuvres exposées au Vingtquatrieme Salon International d’Art Photographique, organisé par la Société Française de Photographie et le Photo-club de Paris, catalogo della mostra (Parigi, 1929). Paris: J. Engelman, 1929

 

Paris 1929b

  1. Salon International d’Art Photographique de Paris, catalogo della mostra (Parigi, 1929). Paris: Braun & Cie , 1929

Paris 1930a

XXV Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi 1930. Paris: J. Engelman, 1930

 

Paris 1930b

XXV Salon International d’Art Photographique de Paris, catalogo della mostra (Parigi 1930. Paris: Braun & Cie1930

 

Paris 1931

XXVI Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1931). Paris: J. Engelman, 1931

 

Paris 1932

XXVII Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1932). Paris: J. Engelman, 1932

 

Paris 1935

  1. Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1935). Paris: J. Engelman

Paris 1937

XXXII Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1937). Paris: J. Engelman, 1937

 

Paris 1938

  1. Salon International d’Art Photographique, catalogo della mostra (Parigi, 1938). Paris: J. Engelman, 1938

Pavia 1926

  1. P. [Ugo Pavia], Il “Salon” Fotografico di Torino. Gli espositori stranieri, “La Stampa”, 60 (1926), n. 9, 10 gennaio, p. 5

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre 1932, pp. VII-XVIII

 

Photograms 1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor.London, Iliffe & Sons, 1928

 

Photographie 1930

Photographie, “Arts et métiers Graphiques”, 1930, n. 15 (ristampa in facsimile Neuchâtel, Imprimerie Paul Attinger, 1980)

 

Piemonte 1930

Piemonte,  “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pittsburg 1936

The Foreign Invitational Salon sponsored by the Photographic Society of America, catalogo della mostra (Pittsburgh, 1936). Pittsburg: Photographic  Society of America, 1936

 

Pittsburgh 1937

  1. Annual Pittsburgh Salon of Photographic Art, catalogo della mostra (Pittsburgh, 1937). [S.l., s.n.], 1937

Praj 1950

[Guido?] Praj, a cura di, Luci e Ombre. Torino:  s.n., [1950  ca]

 

Primo Salon Italiano 1925a

Primo Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, catalogo della mostra (Torino 1925-1926. Torino:  Celanza & C., 1925

 

Primo Salon Italiano 1925b

Il Primo Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 3, marzo, p. 33

 

Primo Salon Italiano 1925c

I Salons (sic) d’arte fotografica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925),  n. 4, aprile, pp. 52-54

 

Ravelli 2001

Il Laboratorio dell’alpinismo. Francesco Ravelli e la fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Giuseppe Garimoldi, Alessandra Ravelli. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2001

 

Ravenna 1939

  1. Mostra Annuale di Fotografia Artistica, catalogo della mostra (Ravenna, 1939). Ravenna: Arti Grafiche, 1939

Redazionale 1928

Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

 

Rochester 1931

Third Rochester International Salon of Photography, catalogo della mostra (Rochester, 1931). [Rochester?, s.n.] , 1931

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre 1933 , pp. IX-XVIII

 

San Diego 1931

Catalogue of the First Annual International Salon of Photography, catalogo della mostra (San Diego, 1931). [S.l., s.n.], 1931

 

San Diego 1932

Catalogue of the Second Annual International Salon of Photography, catalogo della mostra (San Diego, 1932). San Diego: Frye & Smith, 1932

 

Sansoni 1932

Gino E. Sansoni, La I Mostra di Arte Fotografica del Paesaggio e dei Monumenti di Aosta e Provincia, in “Aosta”, 4 (1932),  nn. 9-12, pp. 515-530

 

Savinio 1935

Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia,  “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935), n. 7 luglio, pp. 128-134

 

Scambi Occidente 1949

Mostra Internazionale Scambi Occidente: 10-26 settembre 1946: sezione fotografica, a cura della Società Fotografica Subalpina e del Gruppo Fotografi Fiat, catalogo della mostra (Torino, 1949). Torino:  [s.n.], 1949

 

Schiaparelli 1928

Cesare Schiaparelli, La Fotografia nelle sue varie estrinsecazioni artistiche. Conferenza, “Il Progresso Fotografico”, 25 (1928), n. 9, settembre, pp. 289-298

 

Schiaparelli 1930

Cesare Schiaparelli, Il III° Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930),  n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Schmithals 1926

Hans Schmithals, Les Alpes. Zürich: Fretz Frères, 1926

 

Sella 1982

Vittorio Sella. Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, 1982), a cura di Claudio Fontana. Torino-Ivrea, Museo Nazionale della Montagna – Priuli & Verlucca Editori, 1982

 

Sella, Vallino 1890

Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983)

 

Sfs 1931

Società Fotografica Subalpina, Esposizione Sociale Annuale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1931). Torino:  La salute, 1931

 

Sfs 1932

Società Fotografica Subalpina, 20. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica indetta dalla Società Fotografica Subalpina, catalogo della mostra (Torino, 1932). [Torino?, s.n.], 1932

 

Sfs 1933

Società Fotografica Subalpina, 21. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1933). [Torino?, s.n.], 1933

 

Sfs 1935

Società Fotografica Subalpina, 23. Esposizione Sociale d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1935). Torino: Tipografia Artigianelli, 1935

 

Sfs 1936

Società Fotografica Subalpina, 24. Esposizione Sociale, catalogo della mostra (Torino, 1936). Torino: Tipografia Artigianelli, 1936

 

Ski & Sci 1991

Ski & Sci. Storia mito e tradizione, catalogo della mostra (Torino, 1991), a cura di Aldo Audisio. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 1991

 

Sopron 1936

Katalógusa: Gyüjteményes Kiállításanak, catalogo della mostra (Sopron, 1936). Sopron: Rottig-Romwalter Nyomda, 1936

 

Stelle  2004

Le “stelle” parlano al vostro cuore. La fotografia nel cinema delle montagne, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Stockholm 1930

Internationell fotografiutställning i Skånska Gruvan å Skansen: Stockholm, catalogo della mostra (Stoccolma, 1930). Stockholm: Nordisk Rotogravyr, 1930

 

Tarchetti 1990

Andrea Tarchetti, notaio. Fotografie 1904-1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli, 1990

 

Terzo Corso 1935

  1. Corso Superiore di Cultura Fotografica: 19 dicembre 1935-XIV/30 maggio 1936-XIV, promosso dalla Società Fotografica Subalpina. [S.l., s.n.], 1935

 Torino 1928a

Il Secondo “Salon” Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 3, marzo, p. 130

 

Torino 1928b

Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1928). Torino:  Tipografia Lorenzo Rattero, 1928

 

Torino 1930

Terzo “Salon” Italiano d’Arte Fotografica Internazionale, catalogo della mostra (Torino, 1930-1931). [S.l.,s.n]

 

Torino 1933

Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti, catalogo della mostra (Torino, 1933). Torino:  Soc. Ind. Graf. Fedetto e C. , 1933

 

Torino 1937a

Quinto Salone Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti, catalogo della mostra (Torino,) 1937. Torino:  Ajani & Canale, 1937

 

Torino 1937b

VI (sic) Salone Internazionale di Fotografia Artistica fra Dilettanti.Torino 1937,  “Torino”, 17 (1937), n. 5, maggio, pp. 37-38

 

Torino 1941

I Mostra Intersociale Italiana d’Arte Fotografica, catalogo della mostra (Torino, 1941). Torino:  Satet, 1941

 

Toronto 1931

Catalogue Scottish paintings, water colours and sculpture, British paintings, water colours …: Canadian National Exhibition Toronto, catalogo della mostra (Toronto, 1931). Toronto: T. H. Best Printing, 1931

 

Trondhjem 1930

  1. Internationale Fotografiutstilling i Norge: Trondelagsutstillingen, hall E, Trondhjem, catalogo della mostra (Trondhjem, 1930). [S.l.]: Trondhjems Kamera Klub, 1930

Turroni 1959

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano: Schwarz Editore, 1959

 

Vender

Federico Vender. Gli esordi: 1930-1937, catalogo della mostra (Arco – Trento, 2003), a cura di Floriano Menapace, Italo Zannier. Arco – Trento:  Comune di Arco, Provincia Autonoma di Trento, 2003

 

Wilno 1930

Czwarty Miȩdzynarodowy Salon Fotografiki w Polsce, catalogo della mostra (Vilnius, 1930). Wilno, [s.n.], 1930

 

Zagbreb 1937

Katalog 5. Medunarodna Izložba Umjetničke Fotografije, catalogo della mostra (Zagabria, 1937). Zagreb: Tipografija D. D., 1937

 

Zannier 1979

Italo Zannier, a cura di, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zanzi 1927  

Emilio Zanzi, Montagne – La II mostra del fotogruppo alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 5, maggio, p. 87, tratto da “La Gazzetta del Popolo”, n. LXXIX, 8 maggio

 

Zanzi 1928

Emilio Zanzi, Fotografi di tutto il mondo a Torino, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928),  n. 10, ottobre, pp. 643-647

 

Zaragoza 1930

  1. Salón Internacional de Fotografía de Zaragoza, catalogo della mostra (Saragozza, 1930). [Zaragoza, s.n.], 1930

 

Genealogie del bianco (2005)

in Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

La realtà è solo materia grezza

per la creazione dell’immagine

che vive autonoma,

esprimendosi tutta in sé stessa,

in estreme sintesi formali.”

Paolo Monti, 1957

 

 

“Ho avuto un attimo di speranza quando, giorni fa, incidevo su una lastra di vetro affumicata – scriveva Paul Klee nel 1905 – Dunque il mezzo non è più la linea nera, bensì quella bianca. (…) Dipingere col bianco corrisponde al modo di dipingere della natura.” E ancora, nel dicembre 1910: “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica.”(Klee 1990, p.181)

Dal confronto con la scrittura della luce, nella rimeditazione dell’antica pratica del cliché-verre (già di Corot e Fontanesi, tra gli altri) il pittore trovava la forza necessaria per avanzare in quella che lui stesso chiamava (in italiano) la  “Terra incognita” di quel nuovo “genere di forma rigorosamente astratto.”

La scoperta del negativo come modo di percezione delle apparenze del mondo, la scoperta delle fotografie come ombre bianche, luminose, consentiva di riconoscere il segno come pura manifestazione di energia, autonoma, slegata da ogni intenzione descrittiva. Il nero del segno rivelato come luce proprio dal processo fotografico, dal meccanismo intrinseco della sua riproducibilità, della sua natura di matrice. In questo eccesso accecante di tenebra risiedeva la possibilità dell’astrazione, dell’allontanamento dalla figura in favore di quella “sensibilità pura” che poi sarà di Malevič: “Il bianco Suprematismo non conosce più il concetto di materia, ancora in auge presso l’uomo medio. Le sue forme sono fenomeni che si ordinano in base a nuovi rapporti emotivi.” (Malevič 1922, p. 203)

Lo “zero delle forme” proprio del credo suprematista sembra trasmettere la propria eco lontana al  processo di mutamento che allora si avviava  nella cultura fotografica, in particolare in quell’ambito che si è soliti definire della fotografia artistica, a partire dagli anni del primo dopoguerra, quelli che vedono un progressivo (e timido, in Italia) allontanamento dagli stilemi pittorialisti in favore di una corrispondente apertura alle suggestioni, se non proprio alle provocazioni moderniste.

Non potendo operare contro la natura referenziale di traccia della fotografia, non potendo rinnegare la sua necessità documentaria, molti autori sembravano dunque volgersi verso qualcosa che potremmo definire uno “zero del significato”,  riducendo il peso narrativo del contenuto referenziale a favore di una crescita dell’autonomia del significante, della forma.

Come puntualmente rilevava Italo Mario Angeloni, uno dei più autorevoli critici militanti dell’universo fotografico italiano tra le due guerre, nelle immagini che iniziano a comparire sulle pagine degli annuari e delle riviste italiane intorno al 1920 “C’è un studiata cura di sopprimere quanto formava il bagaglio inutile della vecchia fotografia aneddotica. (…) è un nuovo mondo che si traduce in sintesi più intime e complesse; si comincia a sentire che in arte contano gli elementi essenziali, che alla nostra anima moderna bastano pochi ma decisi lineamenti per produrre in essa la gioia etica ed estetica della visione.” (Angeloni 1925, p. 68)

“Sintesi” è la parola chiave, il concetto rivelatore utilizzato pochi anni dopo anche da Marziano Bernardi, autorevole critico d’arte del quotidiano “La Stampa”, che nel suo commento al secondo Salon fotografico tenutosi a Torino nel 1928 riconosceva come nella critica fotografica “Ormai (…) s’usa un linguaggio per nulla diverso da quello pittorico: e si accenna a valori, toni, rapporti, a piani, volumi, cromatismo. (…) Ma v’è di più. Ed è il singolare e significativo uniformarsi della fotografia (specie la fotografia dei giovani) a quella tendenza verso la sintesi, l’unità, la semplificazione, la linearità, la regola, onde – dall’architettura alla pittura, dalla decorazione alla scultura e direi quasi alla poesia – sembra oggi improntarsi l’arte tutta quanta.”[1]  Cosa poi s’intendesse quale perfetta “realizzazione sintetista” ci è svelato da un testo di poco successivo, ancora di Angeloni, in cui l’immagine di un paesaggio invernale veniva restituita come “esigua ed infinita parola di bianco e di ombre che ti conduce verso il raccoglimento del sogno.” (Angeloni 1926, p.  243).

Accanto alla “sintesi”: il sogno.

Che è un altro modo per dire sentimento e – sovente – sentimentalismo, in una contraddizione apparente ma forse solo nostra, allora superata dalla comune possibilità di trasformare “la realtà in visione idealizzata”, scegliendo di comporre immagini fortemente  antiprospettiche, prive d’orizzonte e punti di fuga, in palese contrapposizione coi presupposti stessi della tradizionale visione ottica occidentale; allo scopo di ridurre il peso della referenzialità in favore del   riconoscimento del loro puro valore di immagine.

In questo contesto si può comprendere come la scelta del soggetto giocasse un ruolo importante, determinante, inducendo al confronto con porzioni di mondo che consentissero di misurare le proprie capacità espressive.

Ne sono prova le sollecitazioni che spingevano a considerare “il contributo della microfotografia alle arti decorative”, in cui si lasciava intravvedere la possibilità per “gli artigiani di tutte le specialità [di] trovare nel materiale messo a loro disposizione (…) quantità di nuove ispirazioni.” (Il contributo, 1929) o le analoghe riflessioni ospitate sulla rivista “Natura”, che nel 1929 pubblicava un importante articolo dedicato alla Fotografia moderna, poi pubblicato “se pure con certe riserve” anche sulle pagine del “Corriere Fotografico”. (Boggeri 1929a, 1929b)

È oggi sufficiente uno sguardo d’insieme, sintetico e quantitativo alla produzione di quegli anni per constatare, per comprendere quale fosse il soggetto privilegiato di queste prove, di queste un poco ingenue sperimentazioni che non saprei definire altro che discorsive, se non proprio linguistiche: gli autori dell’allora “giovane fotografia” guardavano al bianco del mondo alpino (anche in virtù di un diffuso intreccio di passioni) per  raccogliere la sfida di un confronto che nasceva dal bisogno, se non dalla volontà di far coincidere materia e colore, di ridurre ogni distanza tra forma e contenuto, sino alla rivelazione fascinosa del segno di puro valore espressivo, sebbene  – qui, sempre – velato da uno sguardo ancora crepuscolare.

Vengono alla mente le ben altrimenti consapevoli riflessioni di Alfred Stieglitz, la sua necessità ad un certo punto del proprio percorso di dare forma al progetto che si sarebbe tradotto in Music: a sequence of ten cloud photographs n.8, del 1922: “Volevo fotografare le nubi per scoprire cosa avevo imparato di fotografia in quarant’anni. Attraverso le nubi mettere per iscritto la mia filosofia della vita – mostrare che le mie fotografie non erano dovute alla qualità del soggetto  – le nubi erano a disposizione di chiunque, liberamente – nessuna tassa da pagare finora. (…) Il mio scopo è di fare fotografie che sembrino tali sempre più, al punto che non saranno viste, a meno che uno abbia occhi e guardi – e pure nessuno che le abbia viste una volta, le dimenticherà mai. Spero che questo sia chiaro.” (Stieglitz 1923)

Sarebbe ingenuo, di più, antistorico attendersi la stessa consapevolezza negli autori italiani dei primi decenni del Novecento, lo stesso livello di riflessione critica in una realtà come la nostra in cui lo spazio della ricerca era limitato e ridotto alle pratiche amatoriali, in cui la fotografia era  “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è – nelle parole di Guido Rey – il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini.” (Rey 1925, p.  6)

Entro questi limiti ben definiti, anche se non netti, è comunque possibile seguire le tracce di più percorsi, a volte nettamente individuati, individuali, altre talmente sovrapposti da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che è collettivo, che elabora infinite variazioni sul tema, che si muove incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica. Un autore che si dedica alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  possa funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosce l’estraneità al genere del “paesaggio.”

Quello spazio bianco su cui condurre le prove, non era una pagina bianca disponibile a nuove scritture, era di  più: soggetto evanescente e quasi immateriale, individuato con naturalezza nello scenario alpino, luogo di antiche frequentazioni e passioni condivise per quelle generazioni. Un intreccio tra alpinismo e fotografia che legava le due pratiche sin quasi dalle origini, aperto da sempre alle suggestioni fantastiche.

Lo sguardo che scopriva le montagne aveva trovato le proprie origini in quel romantico sentire cresciuto dalle radici intrecciate del sublime settecentesco e  del nuovo riconoscimento tutto positivo della fattualità degli elementi naturali (le rocce, le nuvole, i ghiacci), in una oscillazione feconda e mai risolta tra fascino del pittoresco ed analiticità documentaria, quasi cartografica; quella stessa che incantava John Ruskin e buona parte poi della cultura ottocentesca; quella che spingeva i più grandi autori a misurarsi con l’impervio compito – quasi insormontabile – della fotografia di montagna, non solo delle montagne, ancora sulla soglia dell’età del collodio, subito dopo il 1850. Non per caso il lavoro  che destò maggior sensazione all’Esposizione universale di Parigi del 1855 era stato la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco, lunghezza totale due metri, realizzata  da Friedrich von Martens, con la “riproduzione immensamente esatta dei complicati dettagli offerti dai grandi rilievi della catena alpina, e in particolare dei loro ghiacciai”. Il pubblico dei visitatori era stato attratto anche dalle vedute dell’Oberland bernese  realizzate dai Fratelli Bisson, titolari di uno dei più eleganti studi parigini del Secondo Impero, che alcuni anni dopo, intorno al 1860,  saliranno – anzi sarà solo il “giovane” Auguste-Rosalie a farlo –  sul  Monte Bianco per realizzare quelle che sono forse le più importanti e note riprese di montagna della fotografia europea delle origini, poi raccolte in due album di Souvenir, uno dei quali, realizzato poco dopo la cessione della Savoia alla Francia, fu dedicato « A Sa Majesté Victor Emmanuel II Roi d’Italie ». (Infinitamente, 2004)

Già l’interesse di Bisson comportava esplicite preoccupazioni estetiche, come testimonia il coinvolgimento del pittore Gabriel Loppé  nella nuova spedizione del 1861,  e come mostrano le affascinanti immagini dedicate ai ghiacciai. Esse costituiscono l’adattamento fotografico di  un’ostinata variazione sul tema che si svilupperà mutando ogni volta il punto di vista, scegliendo le distanze più adatte al racconto:  dalla maestà geografica della veduta quasi panoramica, al fascino fantastico delle forme in cui avvolgere le figurine dei membri della spedizione. Marionette in uno scenario di fiaba che ha perso per strada ogni semplice intenzione descrittiva. Il soggetto era certo dei più affascinanti, e dei più redditizi anche, come dimostra il suo ricorrere nei cataloghi di numerosi fotografi ottocenteschi,  confermando – ci pare – la sua aderenza, la sua disponibilità all’immaginario, quella stessa che doveva aver condizionato la ripresa che Giorgio Sommer dedicò a Chamounix, Mer de Glace in una data non meglio precisata (Infinitamente, 2004, pp. 52-53), ma non troppo lontana dalla metà degli anni Sessanta del XIX secolo,   offrendo un’interpretazione nuova, che nella scelta del piano ravvicinato si discostava nettamente dai modelli prevalenti, e  – forse memore dell’interpretazione di Byron –  quasi immergendo l’apparecchio nel corpo del ghiacciaio, attratto magneticamente da quelle onde immense, eternamente bloccate dal gelo ancor prima che dalla fotografia, pietrificate e bianche, da cui sembra emergere il dorso di favolosi cetacei: l’apparizione magica della balena di Giona se non ancora di Pinocchio (1880).

È qui, nel concedersi al fantastico che la fotografia si allontanava, ancora inconsapevolmente, da quella missione documentaria che la cultura ottocentesca le aveva affidato. Non più “ancella piena di umiltà, come la stampa e la stenografia”, non più “il segretario e il taccuino di chiunque abbia bisogno di un’assoluta esattezza materiale”, come pretendeva Baudelaire,  ma la scoperta, e la rivendicazione poi, che la fotografia potesse essere strumento e tramite di un dialogo con la natura che doveva andare oltre la pura descrizione: “Il me semble – scriveva Victor Hugo –  que les choses-là sont plus que du paysage. C’est la nature entrevue à des certaines moments mystérieux où tout semble rêver, j’ai presque dit penser (…).”[2]

In questo mutato scenario prendeva forma una possibilità nuova. Da qui iniziava a definirsi lo spazio per il racconto del fotografo, per la fotografia come strumento generatore di immagini e non di semplici (se mai lo sono) documenti. Da qui si avviava la possibilità stessa dell’espressione della soggettività sub specie fotografica, pur continuando consapevolmente ad affidarsi all’ apparente trasparenza documentaria del mezzo, ogni volta mettendo in scena lo spettacolo della verosimiglianza, in costante, fecondo equilibrio tra invenzione narrativa ed insopprimibile analiticità descrittiva.

Lo scopo ambizioso era di ottenere la “documentazione dell’inesistente”[3], conquistando una  coraggiosa equidistanza tra la sublime fotografia alpina che fu di Vittorio Sella e degli altri grandi fotografi del XIX secolo e le più invasive manipolazioni pittorialiste, da cui comunque alcuni dei nuovi autori furono in certa misura tentati.

In questo percorso di rivendicazione un ruolo determinante ebbero, come si è detto,  la scelta del soggetto e delle condizioni di ripresa, la riduzione degli elementi denotativi, l’azzeramento della scena costituito dal bianco su bianco delle masse nevose su cui disporre i segni neri e sintetici di qualche tronco o ramo, di qualche traccia di sci. Qui riconosciamo il progressivo volgersi dell’attenzione dai dettagli del paesaggio al paesaggio di dettaglio; la capacità di vedere e descrivere un universo conchiuso, autonomo. Non una sineddoche:  paesaggi d’invenzione. Reinventati dallo sguardo che li scopre e li mostra, nuovi, per la prima volta; poiché ciò che veniva mostrato non era la trasposizione fotografica del luogo ma la raffigurazione del rapporto che con esso intratteneva l’autore. Una fotografia di fatto “soggettiva”, sebbene ancora lontana dalla consapevolezza critica che al termine sarà data da Otto Steinert nel secondo dopoguerra (Subjective, 1984).

Il primo passo era stato compiuto dal movimento pittorialista,  in tutte le sue differenti declinazioni. Basti pensare all’allontanamento programmatico dalla realtà fattuale che lo caratterizzava a  livello internazionale e di cui costituivano indizi rivelatori non solo elementi apparentemente secondari come il trattamento finale, la presentazione dell’opera, ma specialmente la manipolazione delle apparenze analogiche di ogni fotografia, la tensione alla perdita di ogni vincolo di meccanica referenzialità.

Mentre si moltiplicavano le scene arcadiche e crepuscolari, però, guerra e fotografia si alleavano per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo. Non solo – come ha riconosciuto Diego Leoni elaborando un pensiero di Merleau Ponty – si ampliava e si ridefiniva la “appropriazione del campo di percezione entro il quale l’oggetto del contendere si sarebbe definito visivamente e politicamente” (Leoni 2001, p.  8), ma alla rappresentazione prospettica terrestre di tradizione rinascimentale si affiancava, sostituendosi in parte, una visione zenitale e planimetrica, in cui l’immagine fotografica si approssimava all’astrazione cartografica conservando intero il proprio carico di referenzialità[4].

Per questa sola ragione la ripresa aerea ha contribuito a formare in modo nuovo l’esperienza comune del paesaggio e più in generale dello spazio, già toccata dalle modificazioni indotte dalle grandi invenzioni ed elaborazioni teoriche dei decenni a cavallo tra Otto e Novecento. Come ha riconosciuto Gertrude Stein riflettendo sull’opera di Picasso “il Novecento è un secolo che vede la terra come non l’ha mai veduta nessuno[5], la terra quindi ha uno splendore che non ha mai avuto. Nel Novecento tutto si distrugge e niente continua, il Novecento quindi ha uno splendore tutto suo. (…) Ha la singolare qualità di una terra che nessuno ha mai veduto, di cose distrutte come non sono mai state distrutte.” (Stein 1938, p.  86-87)

Lo statuto di queste fotografie era, ancora una volta, ambiguo e ciò ha determinato conseguenze importanti sul loro impatto estetico[6]: certo esse costituivano – secondo la bella definizione di Giovanni Battista Trener, tra le figure più rilevanti del pionierismo dell’aerofotografia italiana –  la registrazione delle “impronte della guerra”[7], consentendo di raffigurare qualcosa di altrimenti invisibile come il campo di battaglia[8], ma la loro assoluta capacità di restituzione ottico geometrica ne riduceva anche drasticamente il campo di riconoscibilità al di fuori dell’analisi specialistica: l’esito supremo dell’applicazione strategica dell’oggettività fotografica conduceva all’astrazione.

Negando ogni confronto comune e il conforto che nasce dall’esperienza diretta, il terribile Paesaggio di rumori di guerra (per riprendere il bel titolo di un piccolo disegno di Depero, del 1915) di queste immagini si trasformava in figura astratta e imponeva suggestioni nuove, fondamentali per la ridefinizione del linguaggio visivo e fotografico ben oltre gli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.

è appena il caso di richiamare qui l’interesse o la vera e propria passione per le riprese aree di due architetti fotografi come Giuseppe Pagano e Carlo Mollino, o ricordare che Lazlo Moholy-Nagy ricorse alla “Fotografia aerea di una piazza” per la sceneggiatura tipofotografica di Dinamica della grande città, stesa nel 1921-22 con Carl Koch[9]. Più pertinente alla cultura fotografica italiana  era stata la riflessione che Antonio  Boggeri svolse nel  1929 a proposito del concetto di “fotografia moderna” sulle pagine della rivista milanese “Natura”, lucidamente sviluppata nel Commento all’annuario Luci ed Ombre dello stesso anno. “Circa il modo di fotografare, crediamo dover risalire alla fotografia aerea per spiegare la rivoluzione avvenuta repentinamente nella scelta del così detto punto di vista. Senza dubbio le prime fotografie prese dall’aeroplano rivelarono prospettive meravigliosamente nuove” (Boggeri 1929a) “in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”. (Boggeri 1929b)

Questa notazione destinata a diffondere  in Italia il verbo del modernismo fotografico, della “fotografia pura o integrale”, segnava anche il punto di svolta di un percorso collettivo di ricerca[10] sorretto da istanze non sempre chiaramente espresse se non – più spesso –   ingenuamente formulate. Solo la rilevanza del fenomeno, solo la verifica della sua incidenza, della “evidente affinità di tendenze e di metodi” che già Boggeri riconosceva anche a livello internazionale, ci consentono oggi di ritrovare in quelle opere un senso e un valore  che vanno oltre le semplicistiche dichiarazioni di poetica, oltre le coeve letture critiche di tono crepuscolare.

Solo Mario Gabinio non ne fu toccato, ma in ragione della sua sostanziale marginalità rispetto alla rete degli amateur photographers torinesi. Lo scarto radicale e stupefacente che impose al proprio guardare all’avvio degli anni Trenta, ribaltando il realismo analitico della sua formazione ottocentesca in una nuova visione perfettamente aggiornata, senza pagare alcun dazio alla maniera pittorialista, ma rielaborando semmai suggestioni del divisionismo[11],  restò sostanzialmente ignorato sebbene molte delle opere pubblicate sulle riviste di quegli anni avessero più di un’analogia con esemplari della sua produzione anche significativamente antecedenti.[12]

I nomi che circolavano erano quelli degli esponenti del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica, vale a dire Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, dal 1923 direttori e proprietari del “Corriere Fotografico” e di un altro piccolo gruppo di autori, prevalentemente provenienti dall’Italia settentrionale, dal Piemonte al Trentino, che determinavano con le loro opere il tono medio della produzione italiana tra le due guerre, segnata dallo scarto drammatico tra cultura “salonistica” e scenario politico e civile, distacco che procederà, pur con ragioni successivamente diverse sin quasi agli anni del secondo dopoguerra.

Sebbene incominciassero ad affacciarsi, già intorno alla metà degli anni Venti, accenni ad un “nuovo mondo” seppur non ancora ad una “nuova visione”, lo stesso linguaggio critico si abbandonava ancora all’esaltazione della “poesia delle soffici luminosità”, del “temperamento raccolto e sognante” di Francesco Agosti come del romanticismo di Peretti Griva, celebrando la “religiosa passione espressiva” delle immagini di Carlo Baravalle, in cui i “segni del travaglio meccanico” erano ormai scomparsi. Il piemontese Angeloni notava che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[13] Questi richiami non dovevano certo dispiacere a quegli autori, specialmente ai torinesi che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino del CAI, nel maggio 1927, e addirittura, nel gennaio dell’anno successivo dell’intera  Prima Mostra d’arte fotografica del Gruppo Piemontese per la fotografia artistica.[14]

Fu questa la più ricca stagione delle mostre e dei Salon torinesi e della notorietà internazionale dei membri del gruppo: Photograms of the Year 1929 (Photograms 1928) aveva pubblicato un’immagine di Bricarelli[15] e Audax di Giulio (t. XXV), che Gian Luigi Brezzo aveva già giudicato “superbo” presentandolo sulle pagine dell’annuario di Luci ed Ombre per il 1929 (Brezzo, 1929 p.  778).

Cesare Giulio,  autore di “abbacinati paesaggi di neve”[16] quasi sempre  privi di sviluppo prospettico, modellati per superfici pure, segnate da impronte e scie che si trasformano volentieri in texture, era certo stato tra i primi e più coerenti nell’adottare le formule della nuova fotografia, autore di immagini in cui la tendenza alla costruzione della pura forma, astratta, era confermata anche da certi suoi titoli (Trasparenze, ante 1932) analoghi a quelli di autori a lui prossimi come Carlo Baravalle (Sinfonia della neve, 1927)[17].

L’appartenenza di queste fotografie al genere del paesaggio, inteso come “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura.” (Bernardi 1927, p.  10) era – come si è detto –  messa in discussione: “non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (ivi, p.  11).

Sono fotografie che danno “pittoricamente l’impressione del silenzio e della solitudine”, che offrono  “null’altro che una fulminea sensazione di velocità”, nella definizione di Marziano Bernardi de La scia di Cesare Giulio, giudicata “efficacissima per la trovata dei due solchi che diagonalmente tagliano il ripido nevaio.” (ivi  p.  17). La stessa immagine, forse la più nota ed emblematica di tutta questa stagione[18], venne pubblicata come “study in space and movement (…) a skier whose trail through the snow describes a beautiful curving line”, nell’annuario del 1931[19] della rivista londinese “The Studio” (tav. 81), una vera summa della fotografia modernista con immagini di Herbert Bayer, Francis Bruguiere, Florence Henri, Germane Krull, Man Ray e Tina Modotti  tra gli altri, oltre agli italiani Achille Bologna e Stefano Bricarelli.

Questa economia di mezzi, questa riduzione ai minimi termini dei segni e dei toni, l’assenza di manipolazioni in ripresa e in stampa pur nella ricerca ostinata dell’artisticità dell’immagine rappresentavano, più che il superamento, una soluzione alternativa al pittorialismo ancora  imperante, la scelta di altri modelli di riferimento, di altre suggestioni quali la grafica giapponese, esplicitamente richiamata a commento di un’opera di Riccardo Moncalvo presentata in Luci ed Ombre del 1934[20]. L’eliminazione del volume prospettico in favore dell’esaltazione della superficie, l’adozione del tono alto inducevano a fondare il proprio bagaglio espressivo sulle pure potenzialità delle modulazioni tonali, intrecciando il proprio con altri percorsi coevi sebbene distanti: basti qui ricordare i toni alti delle fotografie di fiori di Imogene Cunningham che proprio il “Corriere Fotografico” aveva pubblicato nel 1931 e, ancora, l’opera di  Moholy-Nagy, che aveva utilizzato sequenze di sciatori e scie tratte dal testo Wunder des Schneeschuhs di Arnold Fanck[21], il regista che nel bellissimo libro fotografico dedicato al suo Der weisse rausch /L’ebbrezza bianca, 1931, aveva riproposto con un montaggio efficacissimo e denso circa 2000 fotogrammi ricavati dalle riprese di Richard Angst, montati in sequenze di grande efficacia dinamica cui vennero assegnati titoli quali “Ski- Impressionismus” o “Ski-Expressionismus”. (Le stelle 2004, p.  127)

A conferma di “quanto potentemente [avessero] influito i modi del cinematografo sulla fotografia moderna”  (Pellice 1932, p.  XIV) basti verificare come le campiture di neve delle piste fossero state trasformate in spazi da comporre coreo-graficamente, da attraversare con silhouette sempre meno riconoscibili,  più veloci,  portate sino all’estremo limite della scomparsa della figura: restavano solo le nuvole bianche sollevate dallo sci “wenn der Schnee stäubt” (quando la neve è polverosa). Le ombre in movimento, le tracce e le forme che modulano il bianco erano quelle che ritroviamo in molta fotografia modernista, al limite della citazione, quasi del plagio.

Gli esempi sono numerosissimi[22], in particolare nella produzione di Giuseppe Ghedina (Cortina d’Ampezzo) e dei Fratelli Pedrotti (Trento e Bolzano), attivi anche nel campo del cinema di montagna sin dal 1932 quando Aldo filmò la Prima ascensione direttissima della Paganella. Già Floriano Menapace (2001 p.  53) aveva indicato come  “la vera fonte estetica dei Pedrotti fossero il cinema  e i ritratti fotografici degli attori”, con riferimenti espliciti a Fanck e Luis Trenker, mentre meno convincente appare  il richiamo alle influenze  futuriste (ma di un futurismo ormai semplice “cultura della modernità”) “dopo aver conosciuto Depero e il suo impegno entusiasta per l’avanguardia” di cui ha parlato Giovanni Lista (2001 p.  193), riconoscendo nei “solchi lasciati dagli sci e dalle slitte sui campi di neve, la volontà di una resa astratta capace di trascendere il riferimento ai dati della realtà esteriore e (…) una connotazione calligrafica che traduce i temi formali tipicamente futuristi dei tracciati d’energia e delle linee in movimento continuo.” (ivi  p.  202) Lettura affascinante, ma non convincente. Si potrebbe forse suggerire un percorso diverso, ricordando ad esempio come Enrico Pedrotti, di formazione tardo pittorialista, avesse pubblicato su “Galleria” nel 1934, in un numero in cui comparivano  anche immagini di Erich Angenend, autore vicino alle poetiche della Nuova Oggettività e per lungo tempo punto di riferimento di molta fotografia italiana.[23]

Quando, allo scadere del regime fascista, nel 1943 venne pubblicata Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia per la cura di Ermanno F. Scopinich in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, lo scenario appariva ormai in profonda trasformazione e  Peretti Griva, storico autore di “paesaggi trascendentali” caparbiamente pittorialisti, stampati al bromolio trasferto,  era il solo rappresentante del gruppo di torinesi vicini al “Corriere Fotografico”.  Risultava assente anche un autore internazionalmente noto come Cesare Giulio, sebbene la fotografia a tono alto, eredità diretta delle prove dei decenni tra le due guerre, fosse rappresentata da un altro torinese come Enrico Giorello (p.39), e dai trentini Enrico e Aldo Pedrotti (tavv.56, 80), cui Giuseppe Turroni avrebbe riconosciuto di aver fornito “la grammatica d’esordio di Fulvio Roiter”[24] [quando] rielabora i moduli astratti (…) i toni sono cioè sempre candidi  [e]  la sintesi calligrafica è ancora il suo campo sperimentale.” (Turroni 1959, pp. 17, 53)

Il Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti si presentava – nella lettura di Zannier (1981 p.  14) come  “una bianca superficie, interrotta soltanto da due esili segni verticali (due pioppelle), che scandiscono lo spazio dell’immagine, di una estrema purezza grafica, inconsueta allora”, sebbene fosse una prova di tono piuttosto narrativo, lontana dalle tensioni astratte presenti nelle opere dei migliori autori del decennio precedente.  Fotografia uscì a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di Luci ed Ombre (1934), che ne costituiva di fatto il precedente editoriale (ma non ideologico) e rappresentò un ulteriore tentativo, non compiutamente risolto, di far procedere il dibattito che avrebbe dovuto consacrare la svolta modernista, timidamente avviato dopo il 1923 dal “Corriere Fotografico”, poi proseguito e affinato sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, nonché col contributo fondamentale di Gio Ponti,  Edoardo Persico e dell’editore Gianni Mazzocchi.

Federico Vender, presente con quattro immagini, era in quegli anni uno degli autori più rappresentativi e considerati del panorama italiano e internazionale almeno dal 1934. Il suo sguardo orientato alla trasfigurazione in senso idealistico della realtà in immagine, era caratterizzato dal ricorso programmatico al tono alto, derivato da Cesare Giulio e dai fratelli Pedrotti ma qui, come in Giuseppe Cavalli, liberato ormai dalla necessità del soggetto e caricato consapevolmente di senso e intenzione, esito della “necessità di allontanare la fotografia che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria”[25]. Era dalla considerazione critica di questa sequenza di opere e autori che sarebbe derivata, ormai alla soglia degli anni Sessanta, la possibilità di riconoscere “la costante più vera della nostra fotografia, pur in mezzo a tante contraddizioni e ripieghi: la verità della forma.” (Turroni 1959, p.  17)

La condizione nuova in cui viveva il paese, uscito da poco più di un decennio dalla guerra civile, il punto di vista collocato in una fase di profondi cambiamenti non potevano però non portare, contestualmente, a formulare un severo  giudizio etico: “Nell’immediato dopoguerra la stabilizzazione conformista non accenna minimamente a frangersi in vista di uno sbocco libero, di una finalità narrativa. (…) Questo voluto narcisismo era necessario ai fini di un ulteriore approfondimento del linguaggio? No. Si trattava in sostanza di indifferenza, di pigrizia morale” (ivi, p.  24) giustificabile solo pensando al lungo “periodo di rassegnazione” trascorso.

Erano anni in cui il confronto ideologico all’interno della più viva scena fotografica italiana, incerta tra eredità fotoamatoriale e nuove spinte all’impegno professionale, si manifestava anche attraverso la costituzione di numerosi circoli fotografici militanti: dopo una gestazione quinquennale (e una guerra di mezzo) nel 1947 venne pubblicato su uno dei primi numeri della rivista “Ferrania” il manifesto di palese derivazione crociana de La Bussola, fondata da Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Mario Finazzi, cui si aggiunsero Ferruccio Leiss, Luigi Veronesi ed altri in seguito, mentre sul finire dello stesso anno si costituì La Gondola, per iniziativa di Paolo Monti. Ancora per iniziativa di Cavalli veniva fondata nel 1953 l’Associazione Fotografica MISA,  emanazione ‘giovanile’ de La Bussola, che nella sua prima mostra,  a Roma nel 1954, presentò opere di Piergiorgio Branzi, Mario Giacomelli, Francesco Giovannini, Giuseppe Möder ed altri, affiancati da autori più ‘anziani’ come Cavalli e Vincenzo Balocchi.

Di poco successiva fu l’istituzione del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, costituito nel 1955 a Spilimbergo da Italo Zannier, Fulvio Roiter, Gianni Borghesan, Toni Del Tin, Carlo Bevilacqua, Aldo Beltrame (poi anche Gianni Berengo Gardin), gruppo che si professava di stretta osservanza neorealista, sebbene nella sua produzione si riconoscessero influenze diverse, che avrebbero portato Franco Russoli a parlare per loro di “realismo lirico”[26], individuando la presenza di elementi che implicavano un richiamo alla fotografia soggettiva, quindi ad ambiti di ricerca prossimi ad un autore apparentemente lontano come Paolo Monti.

Per ben vent’anni, luogo privilegiato di confronto e di scambio, di divulgazione consapevole della nuova cultura fotografica italiana fu la rivista “Ferrania”, fondata in quello stesso 1947 che si rivela essere stato un anno chiave per la nuova fotografia nostrana, quale strumento promozionale della più importante industria italiana di prodotti fotografici. Nelle parole di Italo Zannier, che nel 1956 vi pubblicava il suo primo saggio, dedicato ad una lettura neorealista di Giacomelli in contrapposizione all’idealismo del maestro Cavalli, la rivista era “una cronaca colta, che offriva il più attendibile panorama di una cultura visiva nel  passaggio dal residuo pittorialismo al modernismo (…) sino allo sperimentalismo (…) e inoltre il neorealismo sociologico (…) magari privilegiando quello più dolce e lirico dei veneziani Roiter, Del Tin, Bonzuan.” (Zannier 2004, p. 114).

Le opere pubblicate sulle sue pagine ci consentono di ricostruire le intricate vicende di una stagione conflittuale, segnata dalla contrapposizione “tra fotografia d’«arte» e fotografia «vera»”, tra le diverse declinazioni del realismo e la fedeltà “all’assioma fondamentale che in arte il soggetto non ha nessuna importanza”.[27]

Questa doppia posizione si traduceva visivamente nel radicale contrasto tonale tra l’ high key, proprio dei formalisti dichiarati, sovente ridotto a formula stilistica progressivamente esangue, assunto quale elemento significante dell’idealismo artistico, e le “ricorrenze tonali di un nero profondo” (Camisa 1958, p.  105) che contraddistinguevano la nuova fotografia impegnata nel dialogo col vero, per quanto trasfigurato.

Chi in quegli anni si assumeva il compito di riflettere sulle tendenze della fotografia italiana,  ancora una volta non poteva fare a meno di utilizzare un lessico, di richiamare definizioni critiche derivate dal più vasto mondo della cultura artistica, ora consapevolmente accolte.

“Esistono dei termini, delle ‘definizioni’ della forma espressione, validi indipendentemente dalla loro derivazione pittorica – affermava Alfredo Camisa – Anche se non perfettamente propri, alcuni di essi aderiscono al nostro pensiero: e non sta a noi crearne di nuovi. Espressionismo è uno di questi termini. Espressionismo indica rivolta contro ogni residuo naturalistico, espressione di qualche cosa che è dentro di noi: non la traduzione di un brano di natura (…) ma la visione interna fuori da ogni relazione (…) fondata su uno stato d’animo. La forma può apparire sconvolta, lacerata…” (Camisa 1958, p.  106)

La difficoltà di procedere oltre, di giungere a distinzioni nette tra le diverse tendenze e atteggiamenti emergeva però immediatamente: “la definizione stessa che ne abbiamo tentato – riconosceva Camisa –  indica comunque come il ‘passaggio’ dall’espressionismo ad altre forme espressive sia difficilmente individuabile: non sarebbe ad esempio concepibile una fotografia realista ed ambientale che fosse solamente tale e non espressionista”, tracciando così un percorso  che da Monti e Giacomelli si ampliava sino a toccare Berengo Gardin, Branzi, Möder, Zannier e lo stesso Camisa. Questa prima distinzione non era però ancora sufficiente a descrivere l’intero arco della produzione postbellica, cui andava aggiunta la “fotografia lirica-realista, in pieno splendore nel decennio 1945-1955”.  Nella sua “delicatezza di toni, nella ricercatezza e nella compiutezza formale” era facile riconoscere “la derivazione da quella tendenza lirica pura dei nostri maggiori maestri dell’anteguerra. (…)  Una tendenza di grandi orizzonti, di semplice comprensione e di facile presa, anche se , spesso, al limite del manierismo e di un puro compiacimento formale”, in cui venivano fatte rientrare le opere di Bevilacqua, Giovannini, Roiter “ed alcune immagini di Bonzuan.” (Camisa 1958, p.  107)

Riconosciamo qui quella difficoltà o incertezza interpretativa, quella stessa impossibilità feconda di applicare troppo rigide classificazioni che ritroviamo in un’altra lettura delle opere di Mario Giacomelli, i cui paesaggi erano giudicati  “espressionisti eppure placati in una pura scansione ritmica (…) di un significato lirico ispirato.” (Turroni 1959, p.  65)

Dal luglio 1957 aveva fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Piero Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum ed un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali.” (Colombo 1958)

Il notevole spettro di interessi e l’apertura di un redattore come Donzelli erano testimoniati dalla pubblicazione degli Esperimenti di fotografia astratta di Franco Grignani, presentati da Gillo Dorfles (settembre 1958) come delle formalizzazioni di Edward Weston (1886-1957), cui venne reso omaggio a poca distanza dalla morte, mentre su quelle pagine Zannier proponeva i suoi “aforismi e fotografie” di architettura, dimostrando un’attenzione per la cultura visiva statunitense, da Ezra Stoller a Minor White, che andava ben oltre l’impegno realista del suo Gruppo Friulano.

Quando, nell’ottobre del 1959 alla Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni si tenne l’ennesima “Prima Rassegna della Fotografia Italiana”, offrendo un panorama estremamente articolato e ricco di oltre cinquecento fotografie dei  migliori autori, il compito non tanto di recensire l’evento quanto “di trarne un insegnamento” venne affidato ancora a Camisa, ma il bilancio che ne fece non fu certo positivo.

Era ancora ben presente infatti l’anacronistico permanere e prevalere del dilettantismo, quello stesso stigmatizzato da Turroni, qui più precisamente individuato e definito nella “mancanza di consapevolezza critica nell’impiego del mezzo fotografico e [nella] conoscenza delle funzioni del [suo] linguaggio.” (Camisa 1959, p.  76).

“Fra i dilettanti presenti a Sesto (…) mostrano particolari lacune (…) Giacomelli e Gardin [presente con Il trenino della Val Gardena], che pure sono fra i migliori dilettanti nostri; entrambi, e in particolare il secondo, difettano per la disparità delle immagini selezionate e dello stile. Per un difetto, cioè, tipico del dilettantesimo fotografico…” (ivi, p.  77)

Era il punto di snodo. L’avvio di una nuova stagione della fotografia italiana.

Note

 

[1] Bernardi 1928, pp.  641- 642. Lo stesso concetto sarà ripreso ancora alcuni anni più tardi in quello che è unanimemente considerato uno dei testi chiave dell’estetica fotografica modernista italiana: nel primo dei suoi quarantaquattro “Concetti per fotografi moderni” Mario Bellavista invitava infatti a “fare la sintesi e non l’analisi dei soggetti da riprodurre. È più intelligente, più abile, più moderno.” (Bellavista 1934, p.  10)

[2] Lettera a Louis Boulanger-Cauterets, citata in Sorbé 1993 , p.  69.

[3] La splendida formula si deve a Emanuele Sella che, rispondendo nel 1922 al quesito rivolto ai lettori del periodico “Il Fotografo” affermava: “La fotografia? È la documentazione dell’inesistente.”, cfr. “Il Fotografo”, 4 (1922),  n.3, p.10. Non esistono per ora elementi certi che consentano di identificare l’autore della definizione con l’omonimo membro della famiglia Sella, economista e poeta, poi Rettore dell’Università di Genova, su cui cfr.il numero monografico Emanuele Sella (1879-1946),  “Rivista Biellese”, 1 (1947),  n.5, settembre-ottobre cortesemente segnalatomi da Aldo Sola, che ringrazio. Due fotografie di E. Sella, di Torino,  Nouvelle lune, e Sérenité marine, vennero pubblicate nel numero di maggio giugno 1915 de “La Fotografia Artistica”. Anche Gio Ponti, nel suo  Discorso sull’arte fotografica, 1932, riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio“.  (Ponti 1932, pp. 285-286).

[4] Confermando una programmatica distanza dalle contingenze storiche, il periodico “La Fotografia Artistica” riprendeva – 12 (1915, n. 2,  febbraio, pp.  25-26; marzo, pp. 37-38) lo studio dedicato alla Topofotografia aerea dal capitano Cesare Tardivo, già pubblicato sulla “Rivista d’Artiglieria e Genio”, 3 (1913), in cui si descrivevano le diverse applicazioni senza però fare alcun cenno alla guerra incombente.

[5] Nello stesso secolo ci sarà un altro punto nodale in cui – nuovamente – la terra sarà veduta “come non l’ha mai veduta nessuno”: vista dalla luna in una notte del 1969 e raccontata da Luigi Ghirri 1978, p.  11-12.

[6] Che questo ordine di preoccupazioni non fosse estraneo alle riflessioni dei Comandi Militari è ben documentato  dalle Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo nel 1918, che imponevano per la individuazione del punto di vista da cui realizzare i panorami di non  tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cit. in Zandonati 2000, p.  16. Ciò dimostra la relazione comunque stretta tra la cultura dei fotografi militari e quella fotoamatoriale: se non si fossero presupposte connessioni, non sarebbe stata necessaria tale raccomandazione.

[7] Leoni, Marchesoni, Rastelli 2001, p.  42.

[8] Sull’impossibilità reale di riconoscere e definire lo spazio del proprio agire al fronte è sufficiente rimandare qui alle bellissime pagine del Giornale di guerra e di prigionia  redatto da C. E. Gadda dall’agosto 1915 al dicembre 1919 e pubblicate per cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1992.

[9] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.  126.

[10] “Sulle riviste di quegli anni l’idillio regna sovrano. Colpisce un amore uguale in tutti, quello di una determinata espressione formale. A occhi non smaliziati, non «iniziati», le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.” (Turroni 1959, p.  36)

[11] Tronchi in controluce, del 1936 riprende temi e problemi di rappresentazione affrontati alcuni decenni prima da  Vittore Grubicy de Dragon.

[12] Mi riferisco ad esempio al suo Paesaggio invernale, 1915-1920, che presenta molte analogie con le Fantasie di ghiaccio di Piero Oneglio pubblicata sul “Corriere Fotografico” nel dicembre del 1924. Il motivo delle ombre di tronchi sulla neve ritorna anche in un’immagine di Stefano Bricarelli per  “Motor Italia”, 11 (1932) marzo, p.  45 a corredo dell’articolo L’Eden degli sciatori nelle nostre Alpi, ma anche in Photograms of the Year, 1940 (tav. LI),  in una fotografia dell’americano Gustav Anderson.

[13] Angeloni 1926, p.  242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini.” (Bernardi 1927, p.  10)

[14] Oltre a Maggi, soggetto anche di un ritratto di Ottaviano Ecclesia, i curatori della mostra, aperta il 21 gennaio 1928 al Circolo della Stampa di Torino,  erano, i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”). Oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe. In occasione dell’esposizione del Fotogruppo Alpino nel maggio 1927, nella sala del Gruppo Piemontese erano presenti opere di Agosti, Baravalle, Bologna, Bricarelli, Placido Eydallin, Giulio, Oneglio, Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Hess e Reviglio.

[15] Gondole, t. X. Lo stesso Bricarelli aveva redatto un breve profilo della fotografia italiana per Photograms of the Year del 1923 che conteneva ben cinque opere di autori italiani.

[16] Così li definirà Achille Bologna, 1935; va qui ricordato il suo Spiaggia  che nell’uso della texture rimanda ancora a Giulio.

[17] Il richiamo alle forme musicali, oltre all’esempio di Stieglitz, verosimilmente ignoto in Italia, era esplicitamente avanzato da numerosi autori: “Io sono solito ad associare una visione fotografica a una sensazione musicale, la quale, a guisa di pietra di paragone, può darsi mi dia una norma per stabilire l’intensità dell’emozione avuta.” (Peretti Griva 1934, p.  17)

[18] Come conferma uno degli album conservati presso l’Archivio Fotografico del Museo Nazionale della Montagna di Torino, questa immagine notissima costituiva l’esito del taglio in stampa di una più ampia ripresa (n.3795).

[19]Le due più importanti riviste italiane di architettura dedicarono recensioni a questo annuario, pur con valutazioni profondamente diverse: per il redattore di “Domus” si trattava  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  – 4 (1931),  n.47, p.67 –  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume costituiva l’occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.”, 4 (1931),  n.47, novembre, p.54. Nel marzo dello  stesso anno si apriva a Torino la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, a breve distanza dalla redazione del manifesto La fotografia futurista, di Marinetti e Tato, pubblicato nell’aprile del 1930 in occasione del Primo Concorso Fotografico Nazionale di Roma. All’edizione torinese, ricca di ben 170 opere di 22 autori diversi ma poco più che segnalata da due brevi note di cronaca cittadina comparse sui quotidiani locali, non partecipò nessuno dei fotografi vicini al Gruppo Piemontese, ma fu certamente visitata da alcuni di essi: Carlo Matis, ad esempio, possedeva una copia del catalogo.

[20] “Riccardo Moncalvo disegna con sottile malia giapponese un arazzo di brine e di vette”, scriveva Angeloni a proposito di Inverno presentando l’annuario di quell’anno (Angeloni 1934, p.  591)

[21] Moholy-Nagy (1925) 1987, p.   116. è appena il caso di ricordare che Fanck fu l’inventore del Bergfilm, del cinema di montagna,  la cui vera terra d’elezione fu stata la Germania, efficace narratore di questo “idealismo eroico” che contemplava sempre il confronto simbolico tra l’uomo protagonista e le vette, gran costruttore di trame drammatiche, maestro di Luis Trenker e poi di Leni Riefenstahl. Analoghe soluzioni, pur con campi sufficientemente ampi e quasi panoramici, furono adottate da Emanuel Giger circa negli stessi anni, cfr. Audisio, Cavanna 2003, p. 100 passim.

[22] Penso in particolare a certe immagini del torinese Alberto Rossi, di cui Mollino pubblicò un Ritratto di Marlene Dietrich (1949, p.  295) o alle opere di Ettore Santi, di Clavières, datate 1930, perfettamente assimilabili alle foto di scena di Fank.

[23] I rimandi non dovevano però essere a senso unico: si confronti ad esempio  Levico: lago gelato, 1956 (Menapace 1981, p. 121) dei Pedrotti con Gelo astratto, di Angenend,  “Ferrania”,  13 (1959),  n.1, gennaio, p.4.

[24] Immagini dei Fratelli Pedrotti vennero pubblicate anche da Carlo Mollino (1949, p. 365) insieme a due fotografie di Riccardo Moncalvo (Nella tormenta  e Sotto zero, tavv. 362-363, entrambe del 1937, qui datate 1946).

[25] Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

[26] Zannier 1997, p. 11. Alla luce di questa interpretazione è interessante leggere un’immagine come Finestra a Claut, 1953, di Zannier che offre suggestioni ben lontane dal realismo, e che fa venire alla mente le parole di Minor White: “L’elastica linea tra realtà e fotografia è stata tirata inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno lasciato il mondo delle apparenze; perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’obiettivo, la sua autenticità. (…) Mentre vengono fotografate rocce, il soggetto della sequenza non sono le rocce; mentre sembrano apparire simboli, essi sono indicatori di senso. Il significato appare nello spazio tra le immagini, nel sentimento che suscitano nell’osservatore. (…) Le fotografie possono essere lette senza riserve. L’accidentale è stato messo da parte. La trasformazione della materia originale in realtà fotografica è stata intenzionale; la stampa è stata manipolata per influenzare l’affermazione; ed era stato previsto che appena l’oggetto si fosse rivelato, il Sé dell’osservatore si sarebbe manifestato. Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente.”, (Minor White 1991, pp. 10-12).

[27]  Dal Manifesto del Gruppo “La Bussola”, pubblicato in “Ferrania”, 1947, ora in  Zannier, Weber, 1997.

 

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Mario Gabinio, vita attraverso le immagini (1996)

in Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di Pierangelo Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996, pp. 7- 35

 

 

“Prime prove con macchina da L.10 su carta albuminata, 1889? .

La ricostruzione dell’attività di Mario Gabinio si apre con questa sua nota autografa apposta in calce ad un piccolo gruppo di immagini realizzate in Valle di Aosta, al Gran San Bernardo, raccolte in uno dei tanti album che l’autore realizzerà nei decenni successivi.  Essa racchiude, come quasi sempre accade  in questa vicenda, informazioni dettagliate, precise, sulle quali sembra possibile costruire ipotesi biografiche e critiche non arbitrarie, e dubbi, incertezze difficili da districare. Di lui rimane l’opera, conservata quasi  integralmente nel Fondo omonimo della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, ma scarse testimonianze documentali o indirette della sua biografia, rari e contraddittori elementi paratestuali che siano in grado di suggerire o indirizzare la decifrazione del lavoro di questo fotografo che, alla sua morte, ha attraversato l’esatta metà della breve storia della fotografia riflettendone i mutamenti continui ma conservando anche, intatta, una coerenza di fondo, una presa di posizione precisa per quanto sommessa, che costituisce per noi una scelta di campo, una implicita dichiarazione d’intenti a favore della “documentazione artistica”.

Le prime testimonianze coeve disponibili parlano di Gabinio quasi solo in relazione alla sua ‘curiosa’ figura di escursionista-fotografo, accentuandone i lati pittoreschi e forse un poco esibizionisti[1], e per averne un ritratto meno angusto si deve attendere il ricordo redatto dal nipote Ivan Alessio nel 1939[2], certo più ampio ed articolato, il solo  a fornire -seppure in modo incompleto- un piccolo ritratto di quella che definisce “caratteristica e simpatica figura di artista e di cultore appassionato e tenace della fotografia (…) Fotografo non per interesse ma per passione (…) Alla ricerca continua del ‘meglio’ eseguiva molte fotografie per un solo soggetto (…) Ed erano lunghe soste sotto il sole od al freddo; erano studi lunghissimi per ottenere negli interni di chiese, e di palazzi monumentali, il voluto ed a volte difficilissimo effetto, per superarsi e vincere le difficoltà di ambiente che rendevano a volte difficile, quasi impossibile l’eseguire la riproduzione quale lui la voleva, nobilitante le bellezze e i pregi e nascondente o quanto meno attenuante i difetti e le disarmonie. Erano studi che continuavano nella solitudine della sua casa, nella camera oscura per provare e riprovare le varie carte fotografiche, i vari ‘bagni’ e i vari viraggi. Erano somme ingenti spese per ottenere dei contrasti su carte speciali, per ottenere gli effetti che il suo occhio di artista aveva visto al vero. (…) Malgrado il suo alto sentimento artistico e grandi capacità era modesto come la vita che conduceva; arguto assai sapeva con una buona battuta accattivarsi le simpatie di (sic) persone e allontanarle magari dall’inquadratura della fotografia che non le richiedeva. È scomparso con lui, se non un fotografo di eccezione, certo un appassionato ed originalissimo cultore di quest’arte.”

Questa testimonianza affettuosa e sottotono conserva, preziosa, le sole labili tracce di un atteggiamento nei confronti della pratica fotografica che è nostro compito ricostruire in forma compiuta analizzandola criticamente, cercandone le ragioni  nelle vicende coeve, nelle culture fotografiche che ne hanno accompagnato il suo svolgimento.

Si tratta allora di intraprendere un lavoro interpretativo che si proponga di superare la distanza che ci separa (in termini di tempo, di cultura) dal corpus di testi figurativi che costituisce l’opera di Gabinio, mettendo in atto una interpretazione cosciente del suo proprio “intendere intenzionale”, che “segue un certo progetto, deriva da una certa  precomprensione, da un qualche necessario pregiudizio” (Volli, 1994, p.40).  Si tratterà insomma di riconoscere i “tre tipi di intenzioni” definiti da Umberto Eco (1990, pp.22-25)  nella rassegnata consapevolezza di una irrimediabile povertà di elementi in grado di testimoniare l’intentio auctoris, costretti a  mettere  in atto una operazione di riconoscimento  delle caratteristiche dell’opera, di ciò che essa comunica (intentio operis) attraverso la formulazione di una serie di congetture e la definizione di tattiche interpretative ed ipotesi critiche che determinano il nostro “atto di lettura [da intendersi come] una transazione difficile fra la competenza del lettore (la competenza del mondo condivisa dal lettore) e il tipo di competenza che un dato testo postula per essere letto in maniera economica.”[3]

Lo strumento, il percorso, a cui siamo ricorsi in prima approssimazione è quello dell’analisi cronologica, scelta certo arbitraria e forse poco aderente al discorso di Gabinio se pensiamo che i suoi esempi di strutturazione del testo (gli album) hanno criteri di aggregazione che sono -piuttosto- tematici ma, appunto, una delle nostre congetture, dei nostri pre-giudizi, è la modificazione del lavoro fotografico di Gabinio in modo parzialmente lineare, traducibile  in cronologia, e la sua aderenza, in forme ogni volta diverse, allo spirito del proprio tempo.

 

 

Non conosciamo le ragioni precise o  le eventuali influenze che portarono Gabinio ad occuparsi di fotografia o -meglio- ad acquistare la prima macchina fotografica, ma certo negli anni in cui questo accade, intorno al 1890, l’evento non riveste più alcun carattere di eccezionalità per un giovane della piccola borghesia urbana, ormai dotato di una sua risicata disponibilità economica imposta dagli eventi.[4] Con le semplificazioni della tecnica fotografica che caratterizzano l’ultimo decennio del XIX secolo la fotografia entra  nella sua prima fase di grande diffusione fotoamatoriale, e si inaugura un periodo della sua breve storia ricco di contraddizioni e fermenti, durante il quale la fotografia si accompagna sovente ad altri fenomeni sociali propri dell’epoca, in particolare alle diverse forme di associazionismo turistico in cui, superato il meccanismo della cooptazione secondo criteri di  censo tipico dei club d’élite ottocenteschi, l’aggregazione si fonda sulla condivisione di un programma, supera i confini di classe, e costituisce in molti casi un elemento di forte integrazione sociale.[5]

Esempio tipico di questa connotazione nuova delle strutture  associative è la torinese Unione Escursionisti (U.E.T.), fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, ambedue impiegati delle Ferrovie dello Stato con la passione per la montagna, con lo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”[6] Il successo è tale che al 1898 -quando L’U.E.T. si presenta con una propria sezione nel padiglione della Didattica alla Esposizione Nazionale di Torino, il socio Ercole Bonardi illustrandone brevemente le vicende sul giornale dell’Esposizione può affermare orgogliosamente che “ormai fra gli Escursionisti c’è gente di tutte le condizioni, dal piccolo negoziante all’impiegato, al professionista, al Consigliere comunale, al Deputato”. [7]

Gabinio ne entra a far parte nel 1894 e durante alcune escursioni alpine realizza le sue prime fotografie di un certo interesse, segno ormai di una buona padronanza del mezzo come dimostra il Panorama in tre parti dalla vetta del Rocciamelone realizzato nel luglio di quell’anno forse seguendo le suggestioni di immagini analoghe viste alla “Esposizione Fotografica Alpina” che si era tenuta l’anno precedente nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, di Torino, dove sei dei ventotto autori  presenti esponevano appunto panorami.[8] Allo stesso 1894 risale anche una serie di fotografie affatto diversa: le 21 lastre relative alla “Regia Scuola Normale Femminile di Ginnastica in Torino” frequentata dalla sorella Ida; sono il primo esempio compiuto di serie organica di immagini nella produzione di Gabinio, verosimilmente realizzate su commissione per illustrare tutti gli aspetti della scuola,  dalle divise delle allieve, agli esercizi ginnici all’istruzione didattica.[9]

Questa realizzazione costituisce però un semplice intermezzo nella produzione di quegli anni: Gabinio è ancora -per quanto ci è dato di sapere- un fotografo occasionale, attivo per brevi periodi, sempre in estate e prevalentemente  in occasione di gite in montagna; in questo periodo l’attività  fotografica è sempre motivata dall’escursione e non viceversa, come risulta dalla stessa scelta dei soggetti: il paesaggio e la veduta sono ancora scarsamente presenti e l’attenzione è rivolta al rito sociale,  all’esperienza di gruppo della gita, con notazioni tra il celebrativo e l’ironico nella documentata conquista di cime sin troppo accessibili.  Solo durante le ascensioni realizza le prime, vere vedute alpine; qui la montagna è presentata quale entità geografica pura, spoglia di presenze umane, forzando la veduta al panorama in un tentativo di estrema oggettivizzazione. Questa alternanza è ben documentata nelle prime immagini pubblicate da Gabinio nella  Guida Reynaudi dedicata a Ceresole Reale, edita nel 1896[10], certo una opportunità importante che gli viene offerta, il primo riconoscimento dell’interesse del suo lavoro ed uno stimolo a proseguire in modo meno occasionale, maturando il proprio interesse per una attività condivisa con altri membri dell’Unione Escursionisti, quali Treves e Belli, le cui opere sono nel frattempo presentate all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895.[11]

Testimoniano questo nuovo impegno sia l’adozione di un formato maggiore (18 x 24) sia le sperimentazioni condotte  in fase di ripresa (ripetizione in diurna e notturna, utilizzazione del lampo di magnesio) ed in fase di stampa, mediante il ricorso a carte ed a viraggi differenti (A25/44), alla ricerca di una propria forma espressiva che si risolverà infine in un sostanziale rifiuto delle manipolazioni proprie della fotografia pittorica, per un’immagine che si presenti con un “aspetto armonico ed artistico” ma in grado di “dare tutti i dettagli”, così come viene teorizzata ad esempio  da Jules Brocherel[12] e proposta -almeno in quegli anni- da un nume tutelare come Sella;  una fotografia insomma che riesca a coniugare artisticità della composizione e ricchezza di informazione, qualità estetica e valore documentario, ricorrendo coscientemente a tutti gli elementi tecnici, e quindi linguistici, che ne costituiscono lo specifico. Al modello costituito dal fotografo biellese Gabinio fa esplicito riferimento in alcune immagini dei primi anni del secolo;  in particolare il confronto assume le caratteristiche di una vera e propria citazione nel caso  dell’immagine  di Pian della Mussa , nelle Valli di Lanzo (B123/1/30) visto da ovest con tre escursionisti di spalle in primo piano, datata 17 luglio 1900, che riprende esplicitamente Il Monte Rosa dal Monte Moro di Sella, datata 1895, presente nella collezione Gabinio[13]. La presenza di figure in primo piano è un motivo iconografico che ritorna più volte nella sua produzione, specialmente nella variante che prevede le figure in atteggiamento esplicitamente ostensivo, disposte in pose precise, realizzate con l’apparecchio di grande formato, nelle quali  il gesto esplicito dell’indice puntato,  del braccio teso,  non pare rivolto ai compagni presenti, non appartiene al  tempo della ripresa ma a quello della sua osservazione futura, è una comunicazione posticipata, un espediente narrativo, particolarmente evidente nelle vedute di ampio respiro (B122/2/42) e nei panorami.

Se i compagni di escursione sono sovente presenti nelle fotografie di montagna non altrettanto si può dire per le persone che in quelle valli vivono, riprese sempre in rigide pose e sovente ridotte al rango di “tipi”, con uno sguardo che oscilla tra il lombrosiano ed il pittoresco, condiviso con l’amico Reynaudi, lontanissimo in questo caso dall’esempio proposto da Sella e Vallino con l’album Monte Rosa e Gressoney, 1890,  in cui l’attenzione per “la fisionomia pastorale, la semplicità di costumi, la foggia particolare di vestire (…) l’esclusività dell’elemento locale nelle famiglie, la fisionomia propria di questa popolazione” si traducono in “quadretti graziosissimi”, riconoscendo e ritrovando nelle vicende dei luoghi che si sarebbero aperti di li a poco al turismo una contraddizione che doveva essere in primo luogo loro, di cittadini, di estranei, di rappresentanti di quella imprenditoria illuminata che possedeva gli strumenti per comprendere e subire il fascino di una cultura altra, ma insieme anche la forza e la determinazione economica e politica per porre concretamente in atto quel progresso che l’avrebbe cancellata. L’atteggiamento di Gabinio riflette una minore  coscienza  di questa distanza, che pare piuttosto appartenere ai soggetti fotografati (A18/56), una curiosità senza dramma e senza pietas, piuttosto orientata verso la fotografia di genere (B125/49).[14]

Sembra di leggere qui  una traccia di quella  ritrosia che si intuisce dalla scarna biografia del fotografo, quel tenersi al margine che impedisce un confronto schietto con l’altro, con l’estraneo, il diverso, un atteggiamento che invece non ritroviamo quando col soggetto fotografato intercorrono rapporti di amicizia o di parentela, come accade nei numerosi gruppi realizzati in occasione delle gite dell’Unione Escursionisti (B123/2/35, B123/2/36, B123/2/64, A25/8)  ed in alcuni bellissimi ritratti che appartengono alla sua prima produzione, noti soltanto attraverso le lastre: si tratta di immagini di singoli o coppie (coniugi, sorelle o amiche) fotografati in esterni davanti ad un rozzo telo disteso al muro, nella migliore tradizione della fotografia ambulante e domiciliare, o di prove di ripresa effettuate nello spazio angusto del balconcino della casa di Corso San Martino, con la modella avvolta in un lungo mantello,  poggiata in precario equilibrio su di uno sgabello che consentisse migliore spazio all’inquadratura, ma anche affettuose riprese della sorella Ida mentre allatta il primo figlio, i gruppi di famiglia ed i ritratti della madre, alcuni dei quali conservati in album, di cui già aveva sottolineato il valore Giorgio Avigdor (1981), esempi tutti della qualità fotografica che il ritratto ottocentesco raggiunge tanto più quanto si allontana dalla pratica codificata, e presto sclerotizzata, della ripresa di studio,  come mostrano anche le opere di due altri dilettanti piemontesi delle generazioni precedenti Gabinio, quali Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Negri.

Ma i risultati più interessanti si ritrovano in immagini quali  il doppio ritratto di  C.Canavese e C. Varesi, 1900c.  (A23/23) in cui le figure rigidamente in posa, staccate l’una dall’altra, sembrano per sempre immobili, trasformate in caratteri, nei due tipi distinti del pedone e del velocipedista, pur mantenendo invariata la loro individualità, sottolineata dal titolo che ne riporta esplicitamente i nomi, ed ancora in quello di G.E Canale, 1900c.  (A23/26) in cui la figura del doppio rimanda invece al confronto tra i modi della rappresentazione, fotografica e pittorica, suggerendo un ambito di riflessione che non coinvolge tanto la questione della fotografia come arte  ma piuttosto quella del realismo e della possibilità delle due tecniche (dei due linguaggi) di affrontare il tema della verosimiglianza fisionomica, indagando contestualmente lo scarto tra produzione e riproduzione, accessibile solo a partire dalle possibilità metalinguistiche della fotografia.

Meno rilevanti quantitativamente ma altrettanto significative sono le immagini in cui la presenza umana  diviene elemento di lettura e di articolazione dello spazio restituito fotograficamente, come nelle vedute animate di alcune vie e piazze di Torino viste attraverso le quinte dei portici urbani, secondo  una soluzione ripresa da modelli riferibili al vedutismo  ottocentesco [15] che ritroviamo anche nella fotografia del Santuario di Santa Maria in Doblazio a Pont Canavese, 1907? (A36/50) in cui compare per la prima volta in Gabinio l’uso della disposizione scalare delle figure in relazione ai segni emergenti della scena, in un gioco di rimandi, un dialogo tra ‘emergenze’  a scale diverse tra le quali è destinato a muoversi lo sguardo dell’osservatore, attratto da un evento puramente visivo, in cui il dato di cronaca è bandito ed il soggetto è propriamente il tempo sospeso della fotografia, di quella fotografia, che concatena arbitrariamente e rende leggibili accadimenti altrimenti autonomi (A15/65, B90/5).

 

Un uso meno palesemente orchestrato, più diretto, della presenza umana lo ritroviamo in alcune delle immagini di quello che è certamente il lavoro di Gabinio all’epoca più noto, realizzato nei primi mesi del 1900 e presentato, sotto l’egida dell’Unione Escursionisti, alla I Esposizione Internazionale promossa dalla Società Fotografica Subalpina che si tiene dall’11 febbraio al 19 marzo nei locali della Società Promotrice di Belle Arti,  in via della Zecca 25[16] . Per l’occasione il Comune di Torino  bandisce un concorso dedicato alla “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente” (Brayda, 1900) che Gabinio si aggiudica con la serie dedicata a Torino che scompare (A14/ –), realizzata non “appena bandito il concorso del Municipio, vale a dire nella prima quindicina di gennaio p.p. in condizioni d’ambiente e di luce difficilissime.(…) Con quel senso artistico che lo distingue [Gabinio] ha saputo fissare un centinaio di impressioni curiose, tipiche, interessantissime, rivelando certi angoli ignorati della nostra Torino che, poco ancora, non avremmo conosciuto più” (Fiori, 1900, p.4). Il lavoro, costituito da un centinaio di riprese su lastra 9×12 dalle quali vengono ricavate 84 stampe, prende forma ed è realizzato in pochi giorni, segno di una raggiunta padronanza tecnica e di una maturità espressiva che deriva da precedenti esperienze, sulle quali occorrerà ritornare.  Per la scelta  dei soggetti, l’esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituisce una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana, piuttosto propensa alle realizzazioni di tono celebrativo[17]. Le vedute dei canali nella zona del Balôn si alternano ai tetri cortili delle case a ballatoio di via Porta Palatina, vuoti di presenze, alle vedute urbane della “città quadrata”, riprese in tagli verticali che sottolineano lo spazio angusto di “quella parte della città che si stende tra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città -nelle parole di  Edmondo De Amicis- invecchia improvvisamente di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s’intrica, si fa povera e malinconica. (…) Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia di cielo, che s’aprono in portoni bassi e cavernosi, da cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz’uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione”[18];  la scena è più ariosa ma le condizioni generali non certo migliori nelle altre zone documentate, i cosiddetti “orti delle Benne” nella zona delle Basse di Dora, le case delle lavandaie al Borgo Rubatto, sulla sponda destra del Po, ed il ghetto di Borgo San Salvario;  qui la presenza umana all’interno dell’immagine è accettata piuttosto che cercata, quale ulteriore elemento di connotazione del luogo. Sono fotografie che è giusto definire dirette, senza compiacimenti o cadute nel pittoresco, prive di nostalgia; immagini che si propongono quali puri documenti di una condizione urbana in via di auspicata trasformazione, per opera  di quel “piccone demolitore” che compare nel titolo di una veduta di via Genova (A14/101, attuale via San Francesco d’Assisi), lo stesso a cui farà riferimento Pietro Gribaudi nel 1908 analizzando quella fase del rinnovamento urbano torinese (Comoli Mandracci, 1983, p. 215). La consonanza tra la lettura che ne offre Gabinio e l’opinione diffusa negli ambienti culturali torinesi è ben documentata, oltre che dalla assegnazione del premio di duecento lire da parte del Comune di Torino, anche dalla accoglienza favorevole che la stampa locale riserva a questo lavoro rilevandone l’importanza “come ricordo di luoghi cari che più non rivedremo e come studio di monumenti e linee architettoniche” (Fadilla, 1900) poiché “interessanti e belle per ora, queste fotografie saranno preziose più tardi, quando le cose fotografate saranno cancellate dalla memoria”[19]. Ma il riconoscimento più importante viene certamente da Riccardo Brayda che sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” pubblica in due puntate l’articolo Torino che scompare. (Da fotografie del signor M.Gabinio), che costituisce una analisi dettagliata dell’opera e l’occasione per una riflessione sulle perdite provocate da una politica urbanistica poco attenta al patrimonio architettonico: “Fra queste fotografie non mancano i quadretti assai originali, come taluni che riproducono i canali e le modeste abitazioni che in essi si rispecchiano (…) Questi soggetti ricordano un motivo che i torinesi hanno veduto riprodotto parecchie volte nelle passate Esposizioni di Belle Arti: “l’Adigetto di Verona”. A chi non conosce quella remota regione di Torino, pare impossibile che possano trovarsi colà tanti soggetti pittorici, i quali dovrebbero invogliare molti artisti del pennello a riprodurli. Colpite con assai buon gusto sono certe scene del Mercato degli stracci in quel sobborgo, e pittoresche le riproduzioni dei modesti casolari che si trovano tuttora nelle regioni di San Salvario e nel Lungo Po, edifizi dei quali non è lontana la demolizione. Il Gabinio, compreso nell’importanza del suo concorso, non volle soltanto limitare il suo studio alla riproduzione di motivi pittorici; ma con molta cura, e superando non poche difficoltà tecniche, ci lascia memoria di antiche costruzioni e di particolari architettonici, i quali, malgrado abbiano carattere storico ed artistico, dovranno sparire per causa degli sventramenti e degli allargamenti di alcune vie di Torino. Degne di nota sono le riproduzioni degli avanzi del Cisternone della Cittadella [fotografato nel 1896-97], della casa del Vescovo [fotografata nel dicembre del 1898], e, tra le costruzioni medioevali, quella di via Sant’Agostino (…). Fra  le costruzioni del settecento, è notevole una minuscola cappella accanto al vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, opera d’arte non priva di merito artistico, ma che fu lasciata in completo abbandono, e che presto, per la comodità della circolazione, dovrà essere abbattuta. Alcune fotografie riproducono molto chiaramente i particolari del cortile del palazzo (…) situato in quella parte di via Genova che è compresa tra la ex-piazzetta di S. Martiniano e la chiesa di S. Francesco, è assai modesto nella sua architettura esterna, ma è dotato all’interno di un cortile originale, che rivela quella grandiosità solenne che si osserva e si ammira nelle fabbriche del settecento e che difficilmente riescono ad ottenere i moderni architetti. Originali sono gli archi poligonali invece che in curva, sovrastanti allo spazio tra le colonne binate del piano terreno, grandiose le logge del piano superiore, che fortunatamente ci furono conservate intatte. (…) Ho parlato volontieri di questo edifizio, come altra volta ebbi a descrivere il distrutto palazzo Gibellini, pure in via Genova, perché troppo soventi ho udito ripetere che a Torino non c’è nulla da vedere”[20]. L’aderenza del testo al progetto fotografico di Gabinio non mostra semplicemente una consonanza di sentire ma  ci permette di riconoscere in questo tracce più che evidenti della presenza fattiva di Brayda, un risultato visibile, concreto, di quell’opera di “inarrivabile volgarizzatore dei fasti piemontesi” (Barraja, 1912) che l’ingegnere conduce da alcuni anni anche nell’ambito dell’Unione Escursionisti, con la quale collabora a partire dal 1898, guidando gli associati in  quelle gite artistiche che costituivano uno degli scopi del sodalizio,  in un ruolo che era stato sostenuto precedentemente dall’architetto Gottardo Gussoni e dal professore Ercole Bonardi. Le mete corrispondono puntualmente agli interessi di Brayda e toccano molti  dei luoghi canonici della riscoperta del medioevo piemontese, da Avigliana a Vezzolano, da Asti a Verres, da Bussoleno e Susa a Villarbasse, alla torinese Casa del Vescovo, tutti puntualmente ripresi da Gabinio con una attenzione specifica per i valori documentali ed architettonici, in immagini in cui non prevale mai -come accade nelle coeve fotografie di montagna- il semplice ricordo della gita, la foto di gruppo con l’architettura a fare da sfondo.[21] La presenza di Brayda  risulta determinante per la formazione del fotografo, ed in particolare per la maturazione di quell’interesse per le architetture storiche che si svilupperà  pienamente nel corso degli anni Venti, ma la sua egemonia all’interno dell’associazione solleva forti perplessità, manifestate pubblicamente con una lettera aperta del presidente Fiori, pubblicata sul numero di maggio 1902 del bollettino sociale “L’Escursionista”, in cui -dopo gli apprezzamenti di rito- viene evidenziato il rischio che le troppe gite artistiche snaturino la fisionomia originaria dell’Unione: “Per qualcuno cessammo proprio completamente d’essere escursionisti [diventando] un’associazione di artisti; ed è appunto questo concetto che crediamo sia poco opportuno (…) [noi siamo] amici dei monumenti (dico amici e non studiosi)”[22]. Se la rete di relazioni istituite all’interno di questo sodalizio -in particolare le presenze di Ceradini e Gussoni oltre a Brayda- risulta un elemento fondamentale per la formazione di Gabinio non va però dimenticata l’importanza del panorama fotografico torinese coevo, ricco di figure rilevanti e particolarmente attive proprio nell’ambito della documentazione ingegneristica e del patrimonio artistico ed architettonico, primo fra tutti Secondo Pia che proprio pochi anni prima, nel 1890,  riceve una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi” [23] in occasione della Esposizione Italiana di Architettura di Torino diventando di fatto un modello per il giovane Gabinio,  allora agli esordi, e certo la sua emozione dovette essere forte quando, al banchetto conclusivo  dell’Esposizione del 1900  Edoardo di Sambuy, – di fronte a Pia ed ai rappresentanti più noti della Società Fotografica Subalpina di cui è presidente – elogia le fotografie di Gabinio “da esse traendo occasione per lanciare l’idea della fondazione di un archivio fotografico”.[24] Il tema della raccolta fotografica documentaria, che attraversa tutta la fotografia ottocentesca, diviene di particolare interesse negli anni a cavallo dei due secoli e costituisce oggetto di riflessioni ed esperienze diverse in ambito internazionale e italiano. Nel 1892 era stato istituito a Roma, per iniziativa dell’ingegnere Giovanni B. Gargiolli quello che diventerà il Gabinetto Fotografico Nazionale, iniziativa legata a filo doppio al nascente problema della tutela, come viene esplicitamente dichiarato nel contestatissimo Regio Decreto del 1893 relativo all’obbligo da parte dei fotografi di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche “per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”. Lo stesso Congresso Internazionale di Fotografia che si tiene a Parigi nel 1900 (23-28 luglio) affronta il tema, specialmente per iniziativa di G. Moreau ed Alfred Liégard, contribuendo a meglio definire culturalmente e metodologicamente i termini della questione, poi ripresi in Italia da Corrado Ricci e Pietro Toesca in due interventi del 1904, da confrontare con le riflessioni coeve di Giovanni Santoponte, il quale affrontando la questione dal punto di vista dello specifico fotografico esplicita la differenza tra  museo fotografico, da intendersi quale raccolta eterogenea di immagini, e archivio, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti  riferentesi ad una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”.[25] Anche l’Unione Escursionisti partecipa di questo clima e nei primi mesi del 1901 il nuovo presidente Anselmo Giusta propone l’istituzione di un museo  presso la sede sociale individuando nella fotografia, da buon dilettante, “il mezzo più semplice, più spiccio e maggiormente alla portata dei soci per illustrare quanto si riscontra in fatto di monumenti, chiese, cappelle, castelli torri, ecc.ecc. sia antiche che moderne;  ed è quello che abbiamo scelto di preferenza, senza escludere di proposito gli altri. (…) Oltre alla fotografia dell’insieme si dovrà aver cura di riprodurre anche i particolari delle costruzioni e  delle decorazioni, gli interni degli edifici, i loro arredi ecc.” (Giusta, 1901) Si associano qui, come in decine di altri casi simili, l’ansia catalografica e la fiducia, tutta positivista, ottocentesca, nella fotografia come schermo trasparente, come strumento principe per la riappropriazione sistematica della realtà, semplicemente ridotta ad immagine, impronta reale del vero,   ma si riconosce anche,  qui come nelle riflessioni di Brocherel e Masoero, nell’opera di Pia, l’ansia di una parte del mondo fotografico di costruire e vedere riconosciuto un proprio ruolo, una propria funzione sociale e culturale che altri, nello stesso ambito e negli stessi anni, perseguono attraverso il confronto ingenuo e sovente superficiale con le retroguardie del mondo dell’Arte.

In questo clima si colloca la ricca serie di fotografie di architetture storiche piemontesi, prevalentemente  medievali, realizzata da Gabinio a partire dal 1897-1898, in cui la composizione risulta articolata e complessa, tesa ad indagare il rapporto tra lo  spazio urbano dei piccoli centri  e la presenza incombente, il segno forte di un elemento come la Sacra di San Michele  (A42/32, A37/96) o la coerenza compatta del tessuto edilizio di un centro storico, restituita nei suoi aspetti di fascinazione spaziale e architettonica mediante l’uso del grande formato, che consente l’emergere del dettaglio ed il suo apprezzamento (A21/9); ed ancora l’interesse per la città in trasformazione, in cui la documentazione si traduce in  composizioni di più ampio respiro, formalmente dotate di una propria autonomia che deriva da una sapiente distribuzione degli elementi di attenzione tra i diversi piani, come accade nella  veduta del Ponte in ferro [ponte Maria Teresa] al primo inizio dei lavori/ pel nuovo ponte, 1903 (A22/16). Ma il suo interesse non si limita al patrimonio storico; se l’influenza della cultura storicistica torinese è determinante essa comunque non esaurisce l’orizzonte di interessi di Gabinio che anzi si cimenta con le architetture effimere dei padiglioni della Esposizione Nazionale Italiana di Torino del 1898, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album) realizzato forse su sollecitazione dell’amico  Mario Ceradini, in cui mostra di aver raggiunto ormai una padronanza tecnica ed espressiva assolute, producendo immagini in grado di competere vittoriosamente con quelle realizzate da Remo Lovazzano, fotografo ufficiale della manifestazione.[26] Appartiene allo stesso periodo anche la bella serie sui “Periodi di costruzione di un gasometro della Soc.ta’ It.na [Società Italiana Gas] – Torino” a Borgo Dora, 1898,(A17/13, 14) realizzata -crediamo- a partire da una committenza legata alla sua frequentazione nello stesso anno del corso di Meccanica presso le Scuole Tecniche Operaie San Carlo[27] e l’interessante documentazione del cantiere di ampliamento della Conceria Fiorio a Torino su progetto di Pietro Fenoglio, tra i primi esempi di applicazione del cemento armato in una architettura industriale.[28]

 

La montagna resta però, in questi anni, il tema maggiormente frequentato ed il soggetto utilizzato per condurre le Prove su carte diverse poi raccolte nell’Album n.25. Molte di queste immagini tendono alla oggettivazione del soggetto, isolato dall’inquadratura e descritto in sé, nelle sue componenti orografiche e geologiche,  senza relazioni che ne suggeriscano la collocazione geografica; la cima o il panorama alpino come assoluto o come pretesto – in contraddizione solo apparente- per la confezione di composizioni gradevoli, graziose, sovente a profilo centinato, che guardano in particolare alla produzione pittorica del paesaggismo piemontese di primo Novecento, ad Angelo Morbelli per indicare un nome.[29] Più frequenti sono però le immagini in cui risulta leggibile, coinvolta, la presenza del fotografo alpinista, la sua esperienza del luogo, la sua percezione dell’oggetto fotografato: in alcune ciò che prevale è il senso della distanza, la separazione tra punto di osservazione e oggetto dello sguardo, tra veduta e fotografia (A39/41) mentre altre, all’opposto,  sono giocate sul senso di prossimità, di accessibilità del sito, e allora la ripresa si sviluppa senza soluzione di continuità dal primo piano all’orizzonte, rimanda al percorso necessario da compiere per raggiungere la vetta (B123/1/37). Il fotografo mostra di essere nel paesaggio specialmente nelle vedute di bassa valle (A1/130, A1/132) che raccontano di spazi densi, in cui l’elemento naturale quasi sommerge i segni dell’antropizzazione, la strada, le baite; spazi letti come sistemi complessi e privi di gerarchie, restituiti in modo efficacemente preciso, analitico, sovente inseriti in un vero e proprio resoconto per immagini che descrive l’intero percorso dalla pianura alle vette, con quell’alternarsi mirato di inquadrature orizzontali e verticali che abbiamo visto utilizzato anche in Torino che scompare.

Le precise intenzioni descrittive, analitiche, si accompagnano qui alle prime evidenti preoccupazioni formali, compositive e tonali, che risentono in parte dei modelli coevi della fotografia artistica, come accade per la Cascatella sotto la Sacra di S. Michele, del 1899 (CN/4), riquadrata in stampa ad accentuarne le proporzioni verticali ed il calligrafismo, o in alcuni paesaggi più tardi (1905-1910) venati di un romanticismo mai lezioso, dove l’atto del guardare è retoricamente sottolineato dalla presenza di quinte poste in primo piano a delimitare la scena (A15/41); né finestra né specchio ma palese rappresentazione. Ciò che invece segna la distanza da quei modelli è l’assenza di flou e di manipolazioni in fase di stampa,  la ricchezza di dettaglio consentita dalla copia a contatto su carte ad annerimento diretto, per le quali anche i viraggi assumono una semplice funzione conservativa e di stabilizzazione del tono.

Il distacco risulta ancora più netto nella serie realizzata intorno al 1900 “Al Valentino – presso il ponte in ferro” (A22/1), in cui di un gruppo di alberi ripresi in controluce netto viene restituito il puro grafismo dell’intreccio dei rami, una massa intricata di segni contro il chiarore del cielo; immagini di cui è difficile trovare l’analogo nella produzione dei fotografi coevi, specialmente piemontesi. Qui la fotografia abbandona esplicitamente ogni intenzione di riproduzione per non documentare altro che se stessa e la fascinazione da cui è nata.  Questa serie costituisce il presupposto necessario per comprendere la successiva maturazione delle ricerche di Gabinio relative al tema del paesaggio, che si manifesta compiutamente intorno alla  prima metà degli anni Dieci, quando si allontana, per ragioni non note, dal gruppo dell’Unione Escursionisti, guadagnando l’indipendenza, la libertà di operare al di là di esigenze più o meno esplicite espresse o imposte  dall’appartenenza ad un gruppo. Si veda la Cascata secca (A41/21) del 1914, dove  la padronanza tecnica ed espressiva  di un linguaggio fotografico di derivazione ottocentesca gli consente di produrre un’immagine di grandissima qualità,  che supera di fatto ogni questione relativa alla fotografia pittorica; questa resta sullo sfondo, una suggestione forse non eliminabile per chi opera all’inizio del secolo con una formazione da autodidatta, ed emerge soltanto in alcuni elementi, nel modo di inquadrare certi soggetti, come nel  Paesaggio invernale al Frais (A42/7), 1910c., da confrontare con A Snow Track di Will A. Cady, presentata a Torino all’Esposizione del 1902, [30] o nella volontà esplicita di comporre il “quadretto” tipicamente grazioso ma senza osare poi il salto pittorialista ed anzi ibridando quella matrice con interventi strettamente connessi alle possibilità analitiche proprie del mezzo fotografico, confidando quindi tutto nel suo specifico: e sono le riprese scandite diacronicamente conservando meticolosamente immutato il punto di vista, dalla notte al giorno, dall’estate all’inverno. Uno strumento d’indagine, “un’opera fotografica, forse tecnicamente perfetta, o per qualche motivo speciale interessante, e che pur trovasi agli antipodi dell’opera d’arte”, per riprendere le distinzioni introdotte da Edoardo Di Sambuy per la  presentazione della manifestazione torinese, “evento cruciale per le vicende della cultura fotografica del nostro paese” (Costantini, 1994, p.95) che Gabinio visita il giorno 25 maggio sotto la guida dell’onnipresente Brayda, lasciando però nella sua opera tracce relativamente modeste. Quali possono essere le ragioni, le resistenze forse, che fanno sì che un dilettante attivo a Torino in questi anni non risulti segnato, profondamente, da questi celebrati modelli? Possiamo provare a definire il problema cercando di leggere le intenzioni dell’autore non solo attraverso l’opera ma anche utilizzando il filtro di alcuni dati, o indizi, legati alla sua biografia: il primo elemento da rilevare è la sua marginalità rispetto al mondo fotografico torinese, espresso in quegli anni da quella Società Fotografica Subalpina che nella preparazione della mostra del 1902 si rivolge a “pochi, ma valentissimi cultori”  ed ancora nel 1933 si riconoscerà “nata aristocratica”; [31] ed inoltre la formazione di Gabinio, l’ambito da cui proviene, ed al quale è ancora legato -quello dell’associazionismo alpinistico- non ha pretese di “modernità” e per quanto riguarda la fotografia si propone altri intendimenti e quindi si esprime con linguaggi differenti; riconosce i propri valori nei “dettagli” propugnati da Jules Brocherel e nelle dichiarazioni di Pietro Masoero a proposito dell’ “arte fotografica [che] deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”, [32] riconoscendo nel suo specifico quella modernità di linguaggio che altri cercavano altrove. Sarà per queste ragioni che il suo modo di fotografare non viene apprezzato dai critici dell’epoca così che, quando partecipa all’esposizione di fotografia organizzata dall’Unione Escursionisti nel 1906, il notista de “La Fotografia Artistica” lo segnala solo in quanto organizzatore della manifestazione, senza citare alcuna delle sue opere.[33] È  questa modesta occasione la sola esposizione a cui Gabinio partecipa prima degli anni Trenta né risulta che sia mai stato coinvolto in altre particolari realizzazioni collettive, quali le diverse iniziative legate agli aiuti per i terremotati di Reggio Calabria e Messina nel 1908.[34]

A  Torino si susseguono in questo lasso di tempo l’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata nel 1907 da “La Fotografia Artistica”, con la partecipazione di 391 autori provenienti da 16 paesi diversi, in particolare Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania, e quindi la Mostra Fotografica organizzata in occasione  dell’Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro, promossa nel 1911 nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario dell’Unità d’Italia, che vede 250 espositori con circa 2000 opere suddivise nelle due sezioni di “Fotografia artistica, industriale, illustrativa” e “Applicazioni della fotografia”, a cui va aggiunta l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino Italiano e curata da Guido Rey.[35] Le occasioni per un confronto, anche pubblico,  e per un relativo aggiornamento sono quindi accessibili, al di là della presenza torinese di un periodico autorevole come “La Fotografia Artistica” (Costantini, 1990), ma l’attività di Gabinio in questo periodo risulta -per ragioni non note- quantitativamente ridotta seppure di grande qualità, condotta in assoluta autonomia e quasi -si direbbe- in isolamento, in una condizione di autoemarginazione da qualsivoglia sodalizio fotografico.

 

Gli anni della Grande Guerra, per Torino anni di crescita industriale e demografica e di forti conflitti sociali, sono un lungo periodo di silenzio per  un personaggio ormai non più giovane (nel 1921 compie cinquant’anni) e forse sconcertato dai mutamenti in atto, che alla cronaca non ha dedicato mai -almeno fotograficamente- alcuna attenzione, neppure più avanti nel tempo, durante la collaborazione con la Rassegna Municipale “Torino”, che utilizza la fotografia quale strumento di isolamento e difesa, una protezione sicura che libera dalla necessità di avere contatti col mondo.

Il 1923 è un anno di svolta. In un quadro politico segnato dall’ascesa al governo di Mussolini, nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, la Camera di Commercio Torinese promuove la “Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia”, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  per onorare il terzo  centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615). Esempio complesso di esposizione fotografica, strutturalmente distante dai Salon che seguiranno per l’articolazione della materia, che prevede sezioni relative a tutti i settori di applicazione della fotografia, la manifestazione riscuote un grande successo di pubblico, segnato da più di 200.000 visitatori in due mesi. “Nonostante lo stato d’animo in cui vivono ancora molti nella crisi restauratrice, che involge problemi di spirito e di materia” alla sezione di fotografia artistica partecipano 227 autori internazionali con ben 3920 opere, tra le quali destano particolare attenzione quelle del cecoslovacco Frantisek Drtikol, nelle quali si rileva “uno stridore di contrasti, un urto fra l’acquiescenza alle forme consuete e la ribellione al passato, che impongono uno studio”.[36] Ma il 1923 è anche l’anno della pubblicazione del primo numero di Luci ed Ombre, annuario del “Corriere Fotografico”, da poco trasferitosi per proprietà e redazione a Torino per opera di Carlo Baravalle, Achille Bologna e Stefano Bricarelli, i fondatori del “Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica”, che assumerà per oltre un decennio “un ruolo catalizzatore della ricerca fotografica in Italia”.[37]

Anche per Gabinio questo sembra essere il momento della ripresa, segnato da una novità importante: l’apposizione alle stampe, quasi sempre al verso,  della data esatta di realizzazione e in alcuni casi del titolo, ancora di tipo descrittivo, semplice elemento di identificazione documentale del soggetto. Sono, questi, sintomi  di un rinnovato e diverso interesse per il lavoro fotografico ed elementi importanti  per ricostruire datazione e modalità di lavoro per la prima volta in modo accurato e diretto. [38]A partire dal giugno 1922  le cadenze di ripresa diventano molto ravvicinate, anche 3-4 giorni di seguito, e quantitativamente consistenti, mentre i soggetti oscillano in un ventaglio ampio di temi torinesi, tra paesaggi fluviali  e prime architetture, ancora senza un chiaro progetto apparente. All’anno successivo va invece fatto risalire l’inizio di un’altra consistente serie, quella dedicata alle “Fioriture”, che proseguirà senza sostanziali modificazioni di senso negli anni successivi, certo su sollecitazione diretta degli esempi proposti dalle riviste, in particolare dal “Corriere Fotografico” che dedica più di un concorso tra i propri abbonati a questo tema, ospitandone poi i risultati migliori sulle proprie pagine. [39] È  certo un tema tra i più consueti e stereotipati, al quale Gabinio riesce però ad applicare un trattamento meno oleografico, non solo per il ricorso consueto alla stampa a contatto da lastra di grande formato ma anche per la specifica modalità di composizione, con le chioma fiorite a riempire l’inquadratura sino a saturazione (B96/88) oppure, all’inverso, costruendo l’immagine su percorsi di lettura dinamici,  guidati da un pullulare di segni che si intersecano secondo opposte direzioni (B96/79). Sostanzialmente differenti e distanti dagli esempi proposti dalle riviste sono poi alcune stampe del 1923 (P5/1) nelle quali il segno forte dell’albero o del ramo fiorito viene sostituito da una trama di elementi apparentemente minori, ciascuno privo di intrinseca rilevanza figurale, propri dei micropaesaggi marginali, in cui scompare la relazione consueta tra figura e sfondo e l’immagine vive propriamente delle sole relazioni interne definite dal fotografo.[40]

L’articolazione del tema diviene particolarmente complessa nella serie del 1924-1926 realizzata al parco del Valentino e intitolata “Il castello medievale, ingresso pustierla a nord-o”: sono circa venti stampe su carte diverse, corrispondenti a quasi altrettante riprese, in cui gli alberi e le architetture, sino a quel momento indagati separatamente, interagiscono tra loro per il tramite della luce, che incomincia a mostrarsi quale elemento narrativo autonomo. Il risultato finale (B52/118), molto più tardi pubblicato anonimo sulla rivista “Torino”, è il frutto di una ricerca ostinata e lunga, fondata sullo studio delle varianti minime di definizione della scena, condotta in momenti e stagioni diverse mantenendo costante l’inquadratura. La questione della definizione spaziale propria del paesaggio è indagata in Parco Michelotti sotto la neve, 1930c (P37/10), secondo  una impostazione che possiamo definire paradossalmente antifotografica: le divergenti linee di fuga dei viale e l’assenza di un centro precisamente individuato producono una ambiguità percettiva che rende irriconoscibili le tracce della costruzione prospettica propria dell’ottica fotografica, generando contemporaneamente un raddoppiamento speculare della figura secondo una formula  che ritroviamo in altre sue immagini di soggetti diversi realizzate nello stesso periodo (B71/14, B103/23). [41]

 

I primi anni Venti segnano anche l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico e le trasformazioni urbane di Torino, già indagato con Torino che scompare del 1900 e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, qui ora affrontato con sguardo più ampio e nuova sistematicità, mentre sparisce  di fatto quello che era stato fino al quel momento il tema principale della sua produzione fotografica, la montagna.

Tra i primi soggetti il Borgo Medievale al parco del Valentino, spazio effimero realizzato in occasione della Esposizione Generale Italiana del 1884 divenuto testimonianza consolidata della cultura architettonica storicista e del nascente restauro architettonico, che Gabinio indaga come microcosmo urbano reale, nei suoi rapporti spaziali e nelle sue architetture più vere del vero, senza cedimenti al pretesto decorativo o sottolineature della sua possibile funzione di loisir. È la stessa intenzione documentaria, di registrazione del dato reale che si ritrova nelle altre serie: quella dedicata ai monumenti che ornano piazze e giardini torinesi, dei quali ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, e quelle altrettanto ricche  dedicate alle chiese ed ai palazzi barocchi, alle vedute urbane, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.  Le campagne fotografiche sono condotte con ritmi molto intensi, anche 15 lastre al giorno, percorrendo la città per aree omogenee o limitrofe, combinando esaustività della documentazione ed economia degli spostamenti, seguendo cioè percorsi che sembrano determinati non tanto da una committenza precisa quanto da un progetto individuale, al quale non sembrano però essere estranei i precisi interessi e la rete di relazioni del nipote Ugo Alessio, che in questi anni frequenta l’Accademia Albertina diplomandosi professore di Disegno Architettonico nel 1925.[42] A molti di questi edifici vengono  dedicate serie costituite da numerose immagini, come accade per la chiesa dei Santi Martiri o per il Duomo, di cui -oltre alle importantissime riprese della navata principale realizzate prima della cancellazione totale della decorazione- il fotografo indaga l’architettura e la presenza urbana, con inquadrature singolari e sapienti, a volte tanto poco ortodosse quanto efficaci (B75/64), segnate da un accorto uso dei rapporti tra luce ed ombra per presentare l’articolazione dei volumi minori del fianco destro (P21/17) oppure ancora ricorrendo alle affascinanti riprese zenitali (B75/129), fino ai notturni dal campanile e della facciata, questi datati al maggio 1930 in occasione della ostensione della Santa Sindone,  nei quali ancora una volta si riconferma l’interesse del fotografo non tanto per la cronaca dell’evento quanto per le modifiche ambientali che questo induce (le transenne, le tracce del  flusso di movimento della folla).[43] L’interesse per l’architettura e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, quindi anche per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, risulta chiaro nelle opere dedicate al cortile a portico e loggiato del palazzo dell’Università torinese, nelle quali al rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa (ripetizione dello stesso punto di vista in punti corrispondenti sui due piani, perfettamente allineati secondo un asse verticale) si affiancano immagini più affascinate dal gioco chiaroscurale consentito dagli stessi elementi architettonici, tema su cui lavorerà a lungo ottenendo risultati soddisfacenti, come per Austerità (RA/80) presentata all’Esposizione di Fotografia di Stoccolma nel gennaio 1934 e per Università  (RA/79) esposta a Bruxelles nel 1935 nell’ambito del XIV Salon organizzato dalla Association Belge de Photographie et Cinematographie, esempi di quel possibile connubio tra documentazione (architettonica) e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento. “La fotografia architettonica non può essere fotografia artistica -afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal  Photographic Society di Londra,  nel 1925- essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”, affermazioni pesanti queste, alle quali tenta di far fronte J.R.H. Weaver quando afferma che “nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[44]

In questo periodo la posizione di Gabinio così come ci appare dalla lettura delle sue opere si mantiene in bilico tra le due posizioni ed è semmai orientata verso una concezione della fotografia quale riproduzione della realtà esterna, documento tanto più oggettivo quanto più tecnicamente corretto e magistralmente realizzato, con un orgoglio del fare che guarda alla tradizione dell’artigiano piuttosto che  all’artista, al mestiere del fotografo se non alla professione. “Rimettere in collezione” afferma l’iscrizione  apposta la verso di una stampa del 1925, suggerendo  la presenza di un repertorio prodotto con destinazione commerciale, al quale fanno pensare anche altri indizi sparsi quali i numeri d’ordine o le indicazioni di classificazione presenti in alcune stampe dello stesso periodo e le prime tracce di pagamenti ottenuti da committenti occasionali, incontrati forse durante le peregrinazioni fotografiche per le vie della città. Il lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, già affrontato da Alberto Charvet nel 1888 ancora in relazione con Brayda[45], qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento posto a sottolineare la posizione del punto di fuga.

Appartengono allo stesso periodo anche le fotografie dei piccoli caffè ed alberghi del vecchio centro, non i caffè ‘storici’ della tradizione torinese ma quelli che allora animavano le strade dell’antica città quadrata e contribuivano a definirne l’identità ambientale. Anche qui non è opportuno parlare semplicisticamente di nostalgia, è necessario invece riconoscere un’intenzione ed un sentimento più complessi, condivisi da una larga ed eterogenea porzione della scena culturale torinese della seconda metà del decennio. Le vedute urbane si muovono tra le strade anguste del nucleo antico (B103/4) e le sponde del Po, con il ponte ad articolare il dialogo tra la città e la collina con le sue presenze architettoniche (B77/122, B91/9) mentre la parte più aulica della città viene quasi trascurata. Sono gli stessi soggetti che si ritrovano nell’esposizione di “Vedute di Torino” promossa nel 1926 dalla “Società di Belle Arti A. Fontanesi”, a cui partecipano tutti gli esponenti del fronte figurativo torinese insieme ad architetti come Annibale Rigotti, Alberto Sartoris, membro della Commissione Ordinatrice, ed al giovane Aldo Morbelli, ancora studente,  con una serie di schizzi architettonici di temi e soggetti che si ritrovano nel lavoro che Gabinio compie negli stessi anni, noto anche ad un altro degli artisti presenti in mostra, l’incisore Francesco Mennyey, al quale il fotografo cede alcune vedute realizzate negli anni  immediatamente precedenti.[46] Sono i temi consueti della Torino antimodernista (“Noi moderni per i quali ogni arte è buona” dice Ceradini nel 1925)  contro i quali si scaglia Fillia nella recensione alla mostra: “[Nessuno] ha interpretato gli elementi che caratterizzano oggi la città (…) capitale dell’industria, ricchissima di forze plastiche moderne (…) Sembra che il pittore sia un essere insensibile, fuori del tempo, legato alla tradizione borghese della città, senza contatti con la vita (…) Una Torino quasi gozzaniana, dunque, in utrilliane elegie” (citato in Dragone, 1976, p.112), la stessa che si ritrova due anni più tardi nella serie dedicata alla “Vecchia Torino” da Marcello Boglione[47], ancora una volta ripercorrendo i luoghi,  intersecando i passi di Gabinio.

Una più accorta e impegnativa attenzione per le architetture storiche, ed una ulteriore occasione di confronto e di riflessione per Gabinio, è costituita sul medesimo scorcio dell’anno 1926 dalla “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tiene a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e Giovanni Chevalley sotto la presidenza di Carlo Nigra, la mostra presenta “un complesso di materiali di eccezionale interesse e non sempre facili da riunire e ordinare (…) gran copia di disegni di antichi architetti piemontesi e disegni e fotografie di cospicui edifizi della regione subalpina dal romanico all’800”[48] tra cui una importantissima retrospettiva dell’opera di Secondo Pia. Le architetture che Gabinio fotografa in questi anni,  e le scarse annotazioni presenti al verso di alcune stampe confermano una attività professionale non altrimenti documentata e smentita dallo stesso ricordo di coloro che lo conoscevano (Alessio, 1939, p.34) e la presenza di precise committenze per ora ignote. Conclusa la documentazione del patrimonio storico architettonico urbano si dedica alle architetture religiose della collina ma soprattutto alle nuove realizzazione, infrastrutturali o simboliche che tentano di porre un argine alle tensioni sociali determinate dalla crescente disoccupazione  connettendole  alle celebrazioni per il decennale della vittoria (il ponte Vittorio Emanuele III ora Balbis al Pilonetto (B92/86 E SEGG), su progetto di Giuseppe Pagano e il Faro della Vittoria al Colle della Maddalena)  ed agli altri  importanti cantieri aperti in città alla fine del decennio quali il ponte Principi di Piemonte in zona Sassi, ancora di Pagano (B92/27 E SEGG),  e  la demolizione di parte dell’antico Arsenale, per i quali organizza documentazioni minuziose e concettualmente innovative che seguono ogni fase dei lavori alternando vedute di insieme e dettagli costruttivi, introducendo per la prima volta l’elemento dinamico nel proprio lavoro (P16/15-18).

Il consolidamento dell’attività professionale sembra dargli sicurezze nuove e nel 1928 Gabinio partecipa individualmente per la prima volta ad un concorso, quello dedicato a “Le belle fotografie di Torino”, promosso dal “Corriere Fotografico” tra i propri abbonati, vincendo uno dei premi minori con la veduta Dal campanile del Duomo verso piazza Castello,  che sarà successivamente pubblicata nel numero unico dedicato a Le Esposizioni e i festeggiamenti di Torino nel 1928 (Commissione Propaganda, 1928, p.11) ma soprattutto gli frutta i primi contatti con la redazione della rivista municipale “Torino” (Avigdor, 1981, p.170) con cui collaborerà fino alla morte, pur senza mai ottenere di poter firmare le proprie immagini.

L’Amministrazione Comunale torinese è in questi anni particolarmente attenta ai temi della fotografia sia come settore di formazione professionale sia come strumento di documentazione e propaganda della propria attività. Per iniziativa di Alfredo Laezza, segretario della Società Fotografica Subalpina,  nel 1929 viene istituita dalla Città di Torino la Scuola di Avviamento Fotografico G. Pacchiotti “a beneficio di coloro che intendono dedicarsi all’arte ed al commercio fotografico” introducendo per la prima volta nel programma dei corsi anche l’insegnamento di Storia dell’Arte[49], mentre risale al 1931 l’istituzione della Fototeca Municipale allo scopo di “seguire e fissare nella documentazione fotografica lo sviluppo urbanistico in genere e sotto l’aspetto estetico dell’edilizia in ispecie (…) sia ancora per seguire l’andamento e lo sviluppo di opere pubbliche eseguite dal Comune o dei lavori edilizi privati (…) analogamente a quanto viene praticato dai grandi comuni del Regno. [Specialmente] con l’occasione dell’imminenza dei lavori di risanamento dei quartieri adiacenti via Roma e dell’esecuzione di altre numerose ed importanti opere di pubblico interesse (…) è opportuno deliberare subito la formazione della raccolta delle fotografie interessanti la vita cittadina”.[50]

 

È  in questa prospettiva che va collocata l’importante documentazione fotografica realizzata da Gabinio nei primi anni Trenta, seguendo il cantiere di Via Roma nuova ma documentando anche singole realizzazioni architettoniche su commissione diretta delle società proprietarie (Società Reale Mutua Assicurazioni, Istituto San Paolo)  o di architetti come Armando Melis e Alberto  Ressa. È specialmente il tessuto urbano interessato dai lavori per il primo tratto (1931-1933) ad attirare l’attenzione di Gabinio, nuovamente intento ad indagare le mutazioni, il passaggio dall’antico al nuovo, dalla tradizione al moderno, gli spazi di questa città “deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi” come diceva Benjamin nello stesso 1931 analizzando Atget[51]. L’enorme cantiere è seguito passo passo con la preoccupazione -in lui consueta- di fornire una informazione esaustiva.   Le vedute d’insieme delle prime demolizioni si alternano alla documentazione delle preesistenze per lasciare quindi spazio agli scavi, in particolare quelli per la “metropolitana”, osservati con una sapienza di sguardo che coniuga felicemente documento e ricerca compositiva; una fotografia diretta, pura, che produce immagini eleganti e raffinate dalle quali traspare il fascino ambiguo esercitato da queste architetture nuove, quasi posticce, scenografiche (B71/44), meno interessanti dei padiglioni provvisori costruiti in piazza San Carlo (B103/21, 23).

Le fasi di realizzazione del secondo tratto (1935-1937) sono documentate in modo meno esaustivo. Gabinio è ormai ammalato ma -crediamo- in questi anni è più  interessato alla esplorazione del linguaggio  fotografico. La fotografia  pura si affianca alle manipolazioni che gli consentono di proporre una propria visione di Via Roma nuova adottando la tecnica del fotomontaggio (B68/30), assolutamente eccezionale per lui, in cui per un semplice gioco di ribaltamento, di rispecchiamento della figura, la prefigurazione della nuova strada assume quei caratteri di regolarità e decoro che il progetto prevedeva pur conservando miracolosamente intatte le proprie architetture. Qui la città viene reinventata o mostrata nella lacerazione delle sue ferite che le danno “quell’aspetto di Dunkerque” che nemmeno le demolizioni dell’ultima guerra le avrebbero inflitto (Gabetti, Olmo, 1976, p.28); come già accadeva per le immagini di montagna è al panorama che viene affidato il compito di restituire in modo esauriente, massimamente oggettivo, il quadro della situazione (B71/140-143).

Il lavoro più interessante prodotto in questi anni è però quello legato alla documentazione dei due importanti cantieri promossi dalla Reale Mutua Assicurazioni, la sede centrale in via Corte d’Appello (1932)  e la “torre littoria” (1933-34), compresa nella ricostruzione dell’isolato di San Emanuele, entrambi eseguiti su commissione della Società in concomitanza con altri professionisti torinesi quali Pedrini e Ottolenghi[52], ciò che conferma ulteriormente la relativa notorietà professionale raggiunta da Gabinio in quegli anni. Il dato per noi più interessante è però fornito dalle stesse fotografie, che denunciano esplicitamente il fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontato con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana (A31/64) che solo in rari casi si traduce troppo esplicitamente nella  ricerca retorica e ingenua dei Contrasti (CN/51). Qui la cultura fotografica che emerge non è di certo quella dei Salon torinesi o di Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorata ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che Gabinio conosce certamente per il tramite del nipote Ugo Alessio, che ospita dopo una prima, importante, recensione del volume Photographie prodotto dalla rivista parigina “Arts et métiers graphiques”, pubblicata nell’aprile del 1932, nel maggio dello stesso anno l’importante  Discorso sull’arte fotografica  del direttore Gio Ponti, il quale riconosce alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”.[53] L’affermazione di questa autonomia è poi sostenuta e illustrata nella rubrica di fotografia che compare saltuariamente nei numeri successivi almeno fino ai primi mesi del 1933;  in perfetto accordo con la linea espressa dalla rivista, la selezione di fotografie industriali o di oggetti, di “cose”, non si rivolge tanto alla produzione europea di matrice costruttivista e razionalista quanto piuttosto alla sua declinazione statunitense, posta sotto l’influenza di Charles Sheeler e  conservando traccia del fascino che l’America aveva esercitato alcuni anni prima su Erich Mendelsohn.  Quanto autorevole fosse per Gabinio l’esempio costituito dalle fotografie pubblicate sulle pagine di queste riviste lo dimostrano alcune immagini della serie dedicata al palazzo dell’Opera Pia San Paolo di Torino (1934), in particolare quelle dedicate alla scala elicoidale, in cui sempre più chiaramente assistiamo alla riappropriazione da parte del fotografo del puro dato documentario, sul quale opera per variazioni tanto lievi quanto significative (B69/49), costruendo una realtà esplicitamente fotografica.[54]

 

Nuove visioni di Torino titola Gabinio nel 1931 una veduta di piazza Castello ripresa dalla cupola della chiesa della SS. Trinità (P13/5)  e definisce con questo solo titolo gli anni della sua svolta. È una sintetica dichiarazione di intenti. L’immagine non si discosta di molto dalle numerose altre sue fatte a partire dalla metà degli anni Venti; l’inquadratura è ancora ortodossa, perfettamente allineata all’orizzonte, ma le luci si fanno taglienti e ciò introduce  un’inquietudine nuova, inattesa, che dà senso al titolo: ciò che muta è l’intenzione dello sguardo se non ancora -ma per poco- la sua strutturazione in immagine. È per noi  il segnale dell’avvenuta conoscenza e dell’accettazione di una nuova concezione dell’immagine che si sta formando e diffondendo in quegli anni e della quale la “nuova visione” costituisce la parola d’ordine, il motto internazionale, che trova nell’esposizione Film und Foto di Stoccarda nel 1929 la propria celebrazione, diffuso in Italia da interventi quali  L’ora presente della fotografia di Wilhelm Kastner, pubblicato ne “Il Corriere Fotografico” dello stesso anno (Zannier, 1993, p.38) e ripreso nel 1931 da un altro torinese, Piero Boccardi, che presenta alla Mostra di Fotografia Futurista una  sua Visione torinese.[55] Se escludiamo alcuni panorami della città dal Monte dei Cappuccini, realizzati per incarico della Fototeca Municipale nei quali il tema ancora una volta è, al di la delle apparenze, la Torino che scompare, opere come Dall’alto, 1933, (RA/83) incarnano consapevolmente gli indirizzi dell’estetica  nuova: “L’importante è il come un oggetto viene considerato -afferma ancora Kastner- in quale posizione si trova rispetto all’apparecchio, da qual punto di vista lo si percepisce”,  al quale fa eco Antonio Boggeri sulle pagine di Luci ed Ombre dello stesso anno quando riconosce tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della nuova fotografia “la scelta del soggetto, la sua illuminazione e il punto di vista dal quale colpirlo” (citato in Luci ed Ombre, 1987,p.110), entrambi intenti a divulgare gli insegnamenti di Lazlo Moholy-Nagy.[56]

I suggerimenti e le suggestioni che gli provengono dalla cultura architettonica sono certo determinanti per il rinnovamento del suo linguaggio fotografico ma a questi deve essere accostato il preciso impegno scolastico che Gabinio assume verosimilmente in relazione alle necessità di aggiornamento che gli derivano dai suoi incarichi professionali. Nonostante abbia alle spalle una carriera quarantennale, sempre vissuta modestamente ai margini della comunità fotografica ma tutt’altro che povera di riconoscimenti, egli si iscrive nel 1928 ai Corsi promossi dalla Sezione Fotografica dell’Unione Escursionisti ALA (“Ad Liberas Alpes”, da non confondere con la più antica Unione Escursionisti Torinesi) che nel secondo semestre del 1933, per iniziativa di circa sessanta membri darà vita alla Associazione Fotografica ALA (“Ad Lucis Artem”, aderente all’Istituto Fascista di Cultura,  che si trasformerà successivamente in AFI, Associazione Fotografica Italiana). Tra i vari  scopi l’Associazione   si prefigge di “guidare i Soci attraverso lo studio pratico della fotografia promuovendo manifestazioni culturali (…) esperimenti e dimostrazioni (…); promuovere mostre personali e collettive (…); creare gradatamente il più grande numero possibile di elementi idonei a presentare opere d’arte fotografica alle esposizioni nazionali e, principalmente, a quelle estere dove sempre più dovrà affermarsi l’arte fotografica italiana.” (citato in Avigdor, 1981, p.165) secondo un programma che risente palesemente delle direttive imposte dal regime fascista, qui ben rappresentate dalla figura di Mario Bellavista, consulente tecnico dell’associazione e rappresentante della società Gevaert. A dimostrazione dei consistenti appoggi di cui gode, la stessa Associazione pubblicherà a partire dal settembre 1934 il periodico “Pagine Fotografiche ALA”, stampato in migliaia di copie e distribuito gratuitamente.

Il II Corso, di perfezionamento, che vede tra i docenti oltre a Bellavista anche Alfredo Laezza, Oreste Castagneri e Domenico Riccardo Peretti-Griva, cioè una buona rappresentanza di esponenti della tradizione con alcune aperture “moderniste”,  si conclude nel 1933 con una premiazione da cui Gabinio risulta escluso pur figurando tra gli iscritti, né pare che si debba all’iscrizione all’ALA la sua partecipazione alla “I Mostra di Arte Fotografica del paesaggio e dei monumenti di Aosta e Provincia” del 1932, organizzata da Jules Brocherel e suddivisa in cinque sezioni, (archeologia, arte, folklore, scienza, turismo) che vede tra gli espositori anche Italo Bertoglio, Achille Bologna, Cesare Giulio e Mario Prandi mentre della Giuria fanno parte Cesare Schiaparelli, Emilio Zanzi e Antonio Valli. Gabinio, che partecipa a quattro sezioni risultando  primo classificato in quella dedicata all’archeologia, sceglie di presentare in questa occasione ancora immagini di taglio tradizionale, sia ingrandimenti da lastre realizzate a cavallo del secolo sia riprese nuove, datate al 1931 e 1932 ma compositivamente assimilabili ai canoni ottocenteschi (CN/22) e non a caso premiate e pubblicate. Le caratteristiche delle sue fotografie ricche di dettagli tornano ad essere apprezzate in questi anni di incerto abbandono del gusto pittorialista e Gino Sansoni recensendo la mostra arriva a contrapporre Gabinio “ottimo fotografo molto nitido e preciso, nemico di ogni ricercatezza” al “pizzico di leziosità” di Bologna e in genere di tutti quei fotografi che “per la meticolosa raffinatezza e ricercatezza dell’esecuzione, con l’abuso del ritocco, con l’esagerata sfocatura [si sono] un poco discostati dalla natura forte ed a volte aspra, dei soggetti  prescelti quali sono in maggior parte quelli offerti dalle Alpi aostane”[57], offrendo un esempio di felice sintesi tra estetica fotografica e retorica della razza.

Il successo ottenuto lo spinge certo a dedicarsi con sempre maggior impegno alla ricerca fotografica ed il suo linguaggio subisce proprio in questi anni una trasformazione radicale, ben riconoscibile sia nei lavori professionali sia nelle sperimentazioni personali sebbene -come vedremo- sussistano  una insicurezza di fondo ed un desiderio di  omologazione che gli impediscono di presentare pubblicamente le prove più avanzate, nella consapevolezza della distanza esistente tra queste ed il panorama offerto dalla produzione amatoriale ma anche nella volontà ostinata di voler entrare a far parte, ad ogni costo, della comunità dei fotografi da Salon.

Dopo la grande Esposizione del 1923 Torino vede un susseguirsi quasi ininterrotto di occasioni espositive, prevalentemente nate dalla collaborazione tra il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e la Società Fotografica Subalpina.

Nel dicembre 1925 apre il “Primo salon italiano d’arte fotografica internazionale” con la partecipazione di 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalano Bragaglia, Sella e Wulz mentre il panorama straniero spazia da Drtikol a Mortensen, a Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo che sconcerta il critico de “La Stampa” Ugo Pavia, il quale dopo l’ennesima riproposizione del luogo comune delle fotografie che “possono essere scambiate per veri quadri” rileva la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  “questi artisti-fotografi futuristi, anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori” mentre giudica negativamente la partecipazione francese (“il materiale inviato è di scarso interesse artistico”) ciò che parrebbe una prima presa di distanza dal gusto pittorialista se non fosse per l’apprezzamento manifestato per l’opera di Léonard Misonne.[58]

Il 1928 vede un pullulare di manifestazioni che si affiancano alla “Esposizione per il IV Centenario di Emanuele Filiberto e X anniversario della Vittoria” dove il padiglione della “Comunità dei fotografi” è progettato da Gigi Chessa[59], ma la ricchezza delle proposte risulta solo di ordine quantitativo ed il panorama proposto riconferma univocamente la tendenza pittorialista, negando le aperture che avevano caratterizzato il “I Salon”.

Per incontrare proposte diverse si deve attendere il 1930, quando al “Terzo Salon Italiano d’arte fotografica Internazionale”, vengono esposte -pur in un panorama quantitativamente ridotto rispetto alle edizioni precedenti- alcune opere che indicano direzioni nuove di ricerca come Uova, una natura morta di Achille Bologna, Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli e L’onda dell’americano K. Nakamura, un efficace studio di forme derivato dal movimento delle acque, che propone un atteggiamento inedito per il panorama torinese e sul quale Gabinio ha certamente riflettuto, profondamente diverso da quanto teorizzato poco tempo prima da Cesare Schiaparelli, per il quale “l’uomo, il fotografo che va in giro per diletto, si ferma più volentieri presso l’acqua morta. Perché? Perché la vista delle cose immote riposa l’anima e il corpo. E noi, dopo le diuturne e grandi e piccole battaglie della vita, cerchiamo il riposo. E poi è così suggestiva l’acqua che si ferma a dormire all’ombra delle piante nei silenziosi recessi! (…)  Da questo mistico sposalizio della forma della pianta colla superficie dell’acqua ferma, nasce in noi quel senso di intenerimento, di distensione dei nervi, di calma dello spirito che dà la vista delle cose solitarie, immobili e silenti, come l’audizione di un notturno o di una sinfonia in tono minore” (Schiaparelli, 1928, p.293). È  il contrasto tra la quiete piccolo borghese e l’inquietudine dei tempi nuovi, che produce, anche in ambito fotografico, il suo piccolo fuoco d’artificio con la “Mostra sperimentale di fotografia Futurista” che si tiene a Torino nel 1931 dopo la prima, ridotta,  edizione romana dell’anno precedente: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”. La presentazione di Giuseppe Enrie, fotografo torinese che nello stesso anno realizza una nuova ripresa della Sindone,  inquadra bene le spinte contraddittorie e le realizzazioni sovente ingenue che si ritrovano in questa tendenza alla quale molti (Bertieri, Castagneri, Enrie e lo stesso Parisio) sembrano aver aderito in modo episodico, ormai distante dalle tendenze rivoluzionarie espresse del primo futurismo e dalla prime fotodinamiche di Anton Giulio Bragaglia, ma il Manifesto della Fotografia Futurista  che Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) lanciano in questa  occasione contiene comunque una serie di suggestioni affascinanti e ricche, che certo hanno contribuito al formarsi in Italia di una nuova concezione della visione: “Il dramma degli oggetti (…) Il dramma delle ombre (…) isolate dagli oggetti stessi. La spettralizzazione di alcune parti del corpo umano (…). La fusione di prospettive (…). La fusione di visioni dal basso in alto con visioni dall’alto in basso (…) Le drammatiche sproporzioni (…). Le amorose o violente compenetrazioni (…)” (citato in Fillia, 1932, p.101)  costituiscono altrettante nuove, e dirompenti, “possibilità fotografiche” contro le quali si scaglia Guido Lorenzo Brezzo nel testo di apertura dell’annuario del “Corriere Fotografico”  dello stesso 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica. Stabilito che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).” (citato in Luci ed Ombre, 1987, pp.134-135)

Ulteriori segnali di rinnovamento provengono dalle opere presentate al “Quarto Salon Internazionale di Fotografia Artistica fra dilettanti” che si tiene sempre a Torino nel maggio-giugno 1933, con presenze interessanti come Ferruccio Leiss, Fosco Maraini, Alfredo Ornano e Bruno Stefani, oltre ai cecoslovacchi Jan Lauschmann e Jiri Jenicek. Per Italo Mario Angeloni, che la recensisce sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” “c’è in questa Mostra il tormento del moderno, la ricerca della originalità qualche volta spinta fino all’eccesso” (Angeloni, 1933, p.252) ma anche, almeno per i migliori espositori italiani, la preoccupazione per  un problema: “quello della semplificazione”.  Pare essere questo il concetto chiave intorno a cui ruotano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni; già Marziano Bernardi nel 1927 aveva parlato di “conquista di stile” e di “concetto semplificatore” riconoscendo una rinnovata attenzione per le questioni compositive, mentre due anni più tardi,  sempre sulle pagine di Luci ed Ombre, Antonio Boggeri ne riprendeva i temi riconoscendo tra i “caratteri fondamentali e distintivi” della “fotografia pura, o integrale” proprio la messa al bando di  “ogni concessione al gusto popolare [e la] aristocratica semplicità dello stile”.[60] Sono termini (e forse concetti) che si prestano  a sottili slittamenti di senso, ciascuno dei quali connota -e distingue in parte- le diverse posizioni. Così l’editoriale del primo numero dell’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, pubblicato a Torino nel luglio del 1933, definisce la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire” e Luigi Andreis, poco oltre  descrive “la moderna fotografia, schietta, serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale” rivelando infine l’ideologia nazional-popolare sottesa, che si traduce in  richiamo esplicito alle direttive di Mussolini espresse nel discorso di inaugurazione della Mostra d’arte del Novecento Italiano nel 1926 -ciò che sembra inserire rimandi ad un’estetica diversa e lontana da quella a cui si ispirava ad esempio Boggeri- la necessità di “inquadramento sindacale delle forze artistiche ed intellettuali” allo scopo di “creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.”[61]

 

La trasformazione del linguaggio fotografico di Gabinio nel corso degli anni Trenta risente e riflette queste diverse influenze, in qualche modo assumendole e conciliandole contraddittoriamente nella propria opera.

Già si è detto del ruolo, importante, della cultura delle riviste di architettura ma nelle sue fotografie troviamo anche riferimenti e rimandi espliciti ad opere presentate alle mostre torinesi. Un primo esempio palese è La macchina da caffè (B106/54), insieme autoritratto e registrazione analitica del fascino moderno del metallo cromato della macchina, che costituisce una citazione quasi letterale de La tazza di caffè che Giulio Parisio presenta alla “Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista” del 1931, visitata da  Gabinio forse in compagnia di Oreste Castagneri, presente con tre opere e suo docente alla Scuola Fotografica ALA, ma anche l’altra coppia di autoritratti, più tarda,  (B103/27, B106/75) pur richiamandosi alle distorsioni anamorfiche di Louis Ducos du Hauron  e di Léon Gimpel, vive dello spirito ‘sperimentale’ della fotografia futurista.  Meno semplice risulta ricostruire la sequenza di rimandi che lo porta a realizzare la fotografia dei Due lattonieri su di una scala (B102/101) dove  i riferimenti evidenti vanno cercati  ben oltre i confini torinesi e italiani, e sono Moholy-Nagy (Navigazione, 1926-27) e soprattutto Rodcenko (Sulla grande scala, 1927)  anche se -come rilevava Andreina Griseri in tutt’altro contesto- anche noi possiamo dire che semplicemente “poteva aver captato un esempio eccitante, un’idea decisiva, sul filo della concentrazione (…). Dire «poteva aver estratto» toglie ogni legame di necessità all’ispirazione, ogni derivazione precisa da fonti: era il legame che unisce chi appartiene ad una cultura complessivamente unitaria, parla il medesimo linguaggio artistico, e lavora verso direzioni non contrastanti.” (Griseri, Gabetti, 1973, p.66)

Queste realizzazioni convivono con altre di impianto meno radicalmente innovativo ma ormai saldamente ancorate al moderno, quel recupero della fotografia pura che per Gabinio è solo consapevolezza nuova di una forma espressiva mai abbandonata. I due ritratti della  Ragazza col gatto  (B111/19) e dell’Uomo al mercato (P38/19) sono esempi riusciti di quel processo di semplificazione riconosciuto come elemento sostanziale della nuova fotografia, mentre dai contemporanei ritratti del compagno delle ultime  escursioni (B120/107, B106/50)  trapela una attenzione, una cultura d’immagine che tiene conto delle più autorevoli esperienze della scena pittorica torinese, senza per questo porsi alcun obiettivo di imitazione o di rifacimento.

È una varietà di atteggiamenti e di soluzioni che si ritrova anche nelle immagini dedicate alle acque,  tema a lui caro fin dalle prime fotografie di cascate alpine realizzate sul finire del secolo. Basta confrontare il fascino melanconico della Veduta della città dal Po (RA/47), sapientemente sottolineato da un appropriato viraggio, con la bella serie -realizzata nello stesso sito- dei gorghi alla diga Michelotti (B92/44-50) dove l’indagine assume la forma della variazione sul tema del contrasto tra la fissità della struttura metallica e  le forme continuamente cangianti dell’acqua, quelle stesse che  ritroviamo ancora in Po,  1935 (RA/76), rappresentazione di quell’”acqua catramosa, rapida in improvvisi luccichii”  che avrebbe descritto Giovanni Arpino molti anni dopo.

L’attivissima Associazione Fotografica ALA ha tra i propri scopi quello di “contribuire fattivamente all’ascesa culturale e organizzativa dell’amatore fotografo italiano che dovrà fascisticamente riuscire, in brevi anni, a conquistare quel posto che gli spetta nel campo delle competizioni artistiche internazionali”[62] e l’adesione consente a Gabinio di partecipare fin dal 1934 alle esposizioni di Sopron in Ungheria, Stoccolma e Vienna[63] con una decina di opere che rappresentano un panorama esauriente del suo nuovo corso, dalla riproposizione in senso luministico di soggetti già affrontati nel decennio precedente come Austerità (RA/80), alle immagini caratterizzate dalla ‘modernità’ del punto di vista come Dall’alto (RA/82) sino al tema per lui nuovo della natura morta, specialmente di frutta e verdure riprese al mercato, genere che gode di grande fortuna nella produzione pittorica di questi anni ma qui affrontato sulla scia di Achille Bologna, che realizza immagini con identico trattamento del soggetto: non composizioni in studio ma “oggetti trovati” e rielaborati fotograficamente in fase di ripresa e soprattutto di stampa. Il soggetto viene progressivamente isolato, reinquadrato mediante maschere in carta leggera, ricavate da fogli di quaderno, che consentono anche rotazioni dell’asse compositivo, per “forzare lo sguardo all’arresto” (Marbot, 1989, p.151)  ed esaltare il motivo, sottolineato ancora dagli ultimi e definitivi interventi legati alla scelta della carta ed ai viraggi di intonazione cromatica, alla ricerca di un preziosismo anche materico della stampa finale (RA/30) che costituisce per Gabinio una concessione tarda al pittorialismo.

La partecipazione prosegue nel 1935 (Bruxelles, Londra, Johannesburg, Ottawa, Parigi) ma le opere presentate testimoniano l’emergere dell’attenzione per soggetti diversi: dalla sontuosità quasi barocca delle Uve e delle Pesche si passa alle “cose più modeste e comuni” di cui parlava Boggeri nel 1929, “interpretate con desiderio di penetrarne la segreta personalità, la solitaria poesia” (citato in Luci ed Ombre, 1987, p.111). Sono le Maioliche (RA/21) e i Piatti (RA/19) presentati alla “Prima esposizione fotografica sociale ALA”, inaugurata il 15 marzo 1935 nei locali del Salone della “Stampa” alla presenza del Vice Segretario Federale Ing. Cavallari Murat, accompagnato da Alfredo Laezza, Cesare Schiaparelli ed Edoardo Rubino. L’insieme delle  189 opere di 41 autori diversi è caratterizzato dall’eclettismo delle tendenze e dal sincretismo delle opere: “C’era una infinita gamma di personalità che colpiva enormemente anche come problema psicologico. Molte delle opere esposte destavano una ben viva curiosità di conoscere personalmente l’artista, per ricercare in esso l’anima dell’autore” afferma Peretti-Griva nella breve presentazione al catalogo prima di passare in rassegna le immagini più significative, senza peraltro riferirsi esplicitamente ai singoli autori. “Ecco [di Gabinio] gli umili  piatti in fila, che attendono l’umile acquisitore dall’umile mensa, che stanno a individualizzare col linguaggio, talora terribile, delle cose inanimate, tutta una vicenda sociale”[64]. Già Avigdor ha fatto a suo tempo notare come Peretti-Griva sia “molto lontano dal cogliere la novità dell’operazione”, questo taglio diagonale della composizione che si richiama senza indecisioni alla nuova fotografia, ma la questione appare più complessa, e certo la nostra valutazione va fondata, per quanto possibile, sulla considerazione e sulla comprensione dello sguardo coevo, sulla compresenza di tendenze e interpretazioni che possono apparire contraddittorie e tenendo conto anche della concezione, nostra, di un moderno a tutto tondo che costituisce uno dei miti,  quindi  una delle mitologie del secondo Novecento.

“Quanto più la crisi dell’attuale ordinamento sociale dilaga -dice Benjamin nel 1931- e quanto più i suoi singoli momenti si oppongono rigidamente secondo una morta contraddittorietà, tanto più la creatività -che nella sua sostanza più profonda è una variante, figlia della contraddizione e dell’imitazione- diventa un feticcio, la cui fisionomia vive soltanto in virtù dei cambiamenti dell’illuminazione, determinato dalla moda. Il mondo è bello: questo è il suo motto. Questo motto smaschera l’atteggiamento di una fotografia che è capace di montare dentro la totalità del cosmo un qualunque barattolo di conserve, ma non è in grado di afferrare nessuno dei contesti umani in cui essa si presenta e che così, anche quando affronta i soggetti più gratuiti, è più una prefigurazione della loro vendibilità che della loro conoscenza” (Benjamin, 1966, p.75). L’attacco portato alla fotografia pubblicitaria così come alla “Nuova Oggettività” ed a Renger-Patzsch in particolare, noto anche in Italia almeno per la sua partecipazione alla “Mostra internazionale della fotografia” di Milano del 1933,  riporta in primo piano la questione della relazione forma-contenuto o meglio le possibilità e intenzioni, di produzione e lettura critica, delle immagini in termini narrativi o puramente compositivi. Peretti-Griva, non riconoscendo la novità della forma e sottolineando il significato del contenuto, attribuisce a quell’immagine il valore di una “fotografia costruttiva”, avvicinandosi forse maggiormente, più di quanto noi non si sia in grado di fare, alle intenzioni di Gabinio, che nel 1932 aveva intitolato Umiltà un’altra fotografia di stoviglie (RA/20).[65]

Il problema della comprensione critica della sua produzione ultima è reso più complesso, meno facilmente risolubile, dall’analisi di altre serie fotografiche coeve, più esplicitamente derivate da una ricerca formale aggiornata sulle più avanzate esperienze europee degli anni Venti e mai proposte in esposizioni o concorsi ma da lui stesso raccolte in una cartella di “Saggi scelti” che porta la data del 23 aprile 1936. Sono, insieme a quelle già segnalate, fotografie tutte costruite su forti elementi di geometrizzazione del soggetto, ottenuti vuoi per astrazione di un dettaglio, come il particolare del portale della nuova sede della Cassa di Risparmio di Torino (B65/9), a partire dal quale realizza un puro esercizio stereometrico, un’analisi dei rapporti tra luce e volume in cui la materia perde la propria rilevanza e le relazioni contestuali sono annullate, vuoi giocando sulle relazioni grafiche tra linee del soggetto e margini dell’inquadratura, come nelle riprese dello scalone della chiesa della Gran Madre di Dio (B76/166, 169), che richiamano, forse attraverso la mediazione di Bologna e Bertoglio ma qui in modo più graficamente preciso, una delle serie più note di Rodcenko, realizzata nel 1930.[66] Accanto a queste, e nello stesso ambito di influenza tra costruttivismo e nascente fotografia pubblicitaria, vanno poi collocate fotografie come Lavori per la posa di cavi, 1930c. (B106/4) e le Reti metalliche, 1935c. (B106/52), così come il gioco di riflessi e rimandi iconici della Vetrina, 1930c. (B84/7), raro esempio di attenzione per i segni della cultura urbana letta nella sovrapposizione delle sue tracce, nella costruzione dell’immagine per compresenza di segni che deriva  dalla tecnica del collage e del fotomontaggio.

I segni più evidenti di una riflessione avanzata sulla fotografia, le reali “nuove visioni” prodotte da Gabinio, si ritrovano nel gruppo di immagini che hanno esplicitamente per tema la luce, progressivamente riconosciuta quale esplicito fondamento costitutivo del linguaggio fotografico. Le prime prove risalgono alla metà degli anni Venti e già indicano un passaggio significativo da una concezione della luce quale  segno simbolico, come nell’Interno della chiesa dei Santi Martiri (B77/11), alla luce come valore autonomo, segno autoreferenziale che ritroviamo nell’astrazione del ritmo luminoso ricavato dal buio di una casa a ballatoio (B83/24) e nelle due vedute dal Lungo Po (B91/64, 65) nelle quali, contrariamente a quanto accade per i più consueti notturni, la traccia luminosa dei lampioni sull’acqua si trasforma in puro elemento di modulazione della superficie fotografica, liberato da ogni contingenza, posto a confronto con un segno di luce tracciato dal fotografo di fronte all’obiettivo; una dichiarazione palese, nel corpo dell’opera, dell’autonomia dell’immagine fotografica. La ricerca prosegue con la ricca serie realizzata nell’atrio ottocentesco di palazzo Carignano il giorno di Natale del 1932 (RA/87, 88). Qui i raggi luminosi trasformano percettivamente lo spazio modificandone la figurabilità, si sovrappongono al disegno degli elementi architettonici facendone emergere alcuni e relegandone  altri in masse appena distinte, segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico, condotta analizzando le sottili variazioni introdotte dal modificarsi di uno solo dei due termini del discorso, la luce appunto, mentre la scena architettonica rimane sostanzialmente immutata e trattata secondo i più rigorosi canoni previsti dal “genere”: nessun punto di vista inconsueto, nessun taglio forzato, affinché tutta l’attenzione possa essere concentrata sulle modulazioni luminose.[67]

Questa ricerca prosegue ancorandosi liberamente a precise occasioni di committenza come in Sera sullo stadio, 1933-35 (RA/92),  o nella serie sul sottopasso al Lingotto, 1933 (B80/25, B80/36), nella quale cade ogni distinzione tra documentazione e sperimentazione formale, questa applicandosi a quella nella produzione di pura fotografia.   La raggiunta consapevolezza della propria padronanza linguistica è evidente nei diversi passaggi che conducono dalla ripresa alla stampa finale della veduta di Via Pietro Micca vista in controluce dall’alto, del 1933 (RA/84) che rimanda senza incertezze a opere quali  Unheimliche Strasse I  di Umbo (1928) e Kleiner Platz in Alt-Berlin di Raoul Hausmann (1931). L’originaria ripresa dall’alto di Palazzo Madama  viene tagliata per eliminare la striscia di cielo ed accrescere il peso delle masse nere, incombenti, dei palazzi così da accentuare l’isolamento della piccola figura in primo piano, presenza umana priva di fisionomia riconoscibile, ai margini della moderna città delle macchine.

E’ un esempio compiuto di quella fotografia contro cui si scaglia Alberto Savinio dalle pagine della “Stampa”: “Cominciò il diabolico settentrione a dare un’anima alla fotografia, un cervello, un cuore, e nacque la fotografia ‘pensosa’. Si scrissero libri interi di sole fotografie, i ‘soggetti’ si ridussero a uno schematismo edificante, tra i quali dominò la strada solitaria e i suoi selci visti dall’alto. L’ombra portata conobbe i maggiori successi.”[68]

1 Giro di giostra/ Zeppelin, del 1934 (B106/21) costituisce il risultato più compiuto e complesso delle ricerche di Gabinio sul tema della luce, che qui si fa generatrice di un volume, di un solido di rotazione tutto virtuale, ricollegandosi idealmente alle prime prove degli anni Venti ma  con una ricchezza di intuizioni che richiama alla mente le esperienze, più fredde, condotte in ambito Bauhaus nel corso di Walter Peterhans o i notturni di Hilde Hubbuch. È questa un’opera che appartiene di diritto alla “nuova cultura della luce” di cui parla Moholy-Nagy: “Questo secolo appartiene alla luce. La fotografia è il primo mezzo per dare forma tangibile alla luce, anche se in una forma trasposta e -forse proprio per questo- quasi astratta.” (citato in La fotografia al Bauhaus, 1993, p.117)

 

 

Lo scarto tra queste ricerche, avanzate e segrete, e la produzione inviata ai Salon si fa stridente, il divario enorme. Nel 1936, se si esclude la partecipazione all’esposizione che si tiene alla City Art Gallery di Durban con Carezze di sole, la sua attività sembra dedicata esclusivamente  alla produzione professionale per conto della rivista “Torino” e solo l’anno successivo riprende la partecipazione ai Salon (Torino, Metz,  Parigi, Chicago) presentando le consuete nature morte di frutta e di oggetti.[69]

La sua morte, avvenuta il 19 aprile del 1938 per complicanze prodotte dalla nefrite cronica di cui soffriva da tempo, passa inosservata nel mondo della fotografia torinese e Gabinio viene ricordato solo dal necrologio pubblicato dal Club Alpino Italiano mentre le sue immagini continuano ad essere sporadicamente utilizzate, anonime, dalla rivista “Torino”.

 

 

L’oblio in cui giace la sua figura cade parzialmente nel 1974 in conseguenza della mostra Torino anni ‘20: documentazione fotografica da materiali di Mario Gabinio promossa dalla Fondazione Agnelli e curata da  Giorgio Avigdor ed Enrico Nori a partire da una segnalazione di Andreina Griseri, e dalla successiva pubblicazione del volume omonimo con scritti di Aldo Passoni ed E. Nori. La definizione del titolo e gli stessi commenti -tra il nostalgico ed il rancoroso- raccolti sul registro dei visitatori danno l’esatta misura del senso dell’operazione: il tema è Torino, la fotografia è una finestra trasparente e magica, aperta su di uno spazio antico, passato, col quale si può entrare in comunicazione solo attraverso lo strumento della nostalgia. Di Gabinio quasi nessuna traccia, se non le varie e fantasiose considerazioni aneddotiche fornite da Nori alle quali pone un argine il bel testo di Aldo Passoni che individua alcuni elementi chiave del suo atteggiamento (“Gabinio, che non ha il gusto della critica”) rilevando anche le connessioni con certa produzione figurativa coeva, da Boglione a Mennyey, a certe periferie di Umberto Boccioni e di Italo Cremona, la Torino disabitata, colta sulla soglia di radicali trasformazioni, che faceva pensare ad Atget, che altri invece interpretano come una “città che muore e che avrà la sua necropoli nelle fosse scoperte di via Roma” (Carluccio, 1974, p.9) in un saggio suggestivo ma fondato su di una coincidenza equivoca, quella tra l’opera di Gabinio e le immagini presenti in mostra, accortamente scelte e scenograficamente presentate per parlare in un certo modo di una certa Torino, non del fotografo. Lo ha ben compreso allora Paolo Fossati, che registra l’impossibilità di far coincidere il sentimento di Gabinio con l’angoscia della scomparsa cogliendo “un attimo di stupore che va ben oltre la nostalgia per un ‘vecchio’ ordine distrutto (…). Sicché la tesi che ora si accredita nel libro è fatta per non convincerci, un immobilismo di fondo, culturale e morale, di Gabinio di fronte alla città in sviluppo” (Fossati, 1975). È questa l’occasione anche per riconoscere e sottolineare -nelle parole di Andreina Griseri- il ruolo fondamentale svolto dai fotografi nel documentare la storia della città, letta da Gabinio “come una natura morta di oggetti (…) fedele ad un realismo di presenze sempre rapportate a un ambiente teso, spesso disabitato o quasi (…) [indagato] con un segno che rinuncia per fortuna nostra ad ogni inflessione dialettale, approdando ad un paradigma angoscioso.” (Griseri, 1974)

All’esperienza della mostra del 1974 si ricollega esplicitamente -mutandone però radicalmente l’impostazione-  la monografia scritta da Giorgio Avigdor alcuni anni più tardi (1981)  fondata anche sulla conoscenza diretta di documenti di prima mano, oggi purtroppo in larga parte non disponibili.

La competenza dell’autore, studioso di storia della fotografia e fotografo egli stesso, consente per la prima volta di delineare la complessità della figura di Gabinio collocandola nella necessaria trama di relazioni con le culture fotografiche del suo tempo, presentando  un primo corpus di immagini che rende evidente la complessità della sua opera e le profonde trasformazioni del suo linguaggio fotografico, pur nella consapevolezza che “certamente c’è molto altro da scoprire, da conoscere e quindi da dire…”.

 

Abbiamo raccolto l’invito.

 

Note

 

[1] “Va su per le ripide costiere con una sua gabbietta a fotografie (…) ha qualcosa in sé dello scoiattolo di montagna” (Piasco, 1896, p.83). “Per immaginarselo bisogna pensare ad un frammento di roccia miracolosamente staccato dal massiccio materno e divenuto parte vivente di quella gigantesca famiglia di culmini. Della natura primitiva trasformata in essere umano, non è rimasta che una figura vigorosamente delineata, con lineamenti disarmonici, che tuttavia non fanno impressione sgradevole, una rozzezza non priva di grazia (…) La sua poesia però è tutta nella macchina, compagna fedele delle grandi ascensioni”, (M.B. [ Mario Borani?], 1904, citato in Avigdor, 1981, p.29).

L’apparecchio a cui si fa riferimento potrebbe essere  la Simplex-Roll Camera di Krügerer, compresa nel lascito Marcellino Alessio del 1968; una detective-box in legno, reflex biottica (ma priva di obiettivo da ripresa), per pellicola in rullo nel formato 120 (1890 post), che costituisce un adattamento della precedente Simplex-Magazine del 1889, con magazzino portalastre. La matricola dell’apparecchio di Gabinio, il solo a noi pervenuto, porta il n.2427.   Nel  Fondo è conservato anche l’ingranditore ICA per il formato 9×12, a messa a fuoco automatica, matricola n.76997, dotato di obiettivo ICA Novar Anastigmatic 1:6,8, f =  13,5 cm, matricola n.669397, che Gabinio acquista forse dopo il  1930, anno in cui -con la morte della madre- si ritrova solo nell’appartamento di via Avogadro, 9.

 

[2] “Ogni volta che qualcosa di Torino “moriva” l’ultimo conforto (così egli soleva dire) gli veniva da lui portato (…).Seguiva con attenzione ogni mutamento edilizio ed urbanistico: il vecchio raffrontava poi al nuovo e di ogni risanamento sapeva cogliere il lato artistico e quello pratico insieme” (Alessio, 1939, p.37).  Questo articolo  deve essere messo in relazione col tentativo, condotto dai fratelli  Ugo ed Ivan Alessio  di vendere al Comune di Torino  le lastre ricevute in eredità dallo zio.  La proposta viene prima fatta alla Fratelli Alinari, che suggerisce di rivolgersi al Comune di Torino, e quindi  alla sezione torinese del CAI sottolineando opportunamente ogni volta i possibili motivi di interesse per ciascun destinatario, ma entrambi declinano. Dopo un primo rifiuto (7 giugno 1939) ed una lunga trattativa relativa alla valutazione economica, il podestà di Torino delibera l’acquisto dell’eredità Gabinio in data 17 giugno 1940, cfr. i documenti relativi in Avigdor, 1981, pp.174-179. Il perfezionamento dell’acquisto potrebbe non essere estraneo al ruolo svolto da Ivan Alessio, dipendente dell’Ufficio Tecnico Municipale ma soprattutto Comandante della Centuria Sportiva delle Camicie Nere della I Legione (Alessio, 1936).

 

[3]Eco, 1990, p.110. L’utilizzo semplificato e strumentale che qui viene fatto delle categorie analitiche definite da Eco presuppone ovviamente una accettazione della definizione generale di testo quale “trama comunicativa”, a prescindere dalle specificità dell’ambito  della comunicazione visiva ed in particolare dai problemi posti dalla interpretazione semantica e semiotica della fotografia.

 

[4]Al 1889, data delle prime immagini realizzate citate in apertura, Gabinio ha 18 anni  e  da due è entrato a far parte della Amministrazione delle Ferrovie dello Stato prima di poter terminare gli studi, in conseguenza della morte del padre, già funzionario delle ferrovie, avvenuta nel 1887. Le condizioni della famiglia, certo non floride, non sono comunque tali da impedire alla sorella Ida (1872-1931) di diplomarsi maestra di ginnastica ed al fratello Ernesto (1875-1944) di laurearsi in farmacia.

 

[5]Cfr. Maiullari, 1988; Banti, Meriggi, 1991; Per una analisi della principale e più nota di queste associazioni di massa, il Touring Club Italiano cfr. Ottaviano, 1986;  per i rapporti intensissimi tra TCI e fotografia cfr. Zannier, 1991.

 

[6]”L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Sono soci dell’Unione Escursionisti Torinesi  negli anni immediatamente successivi la fondazione architetti come Mario Ceradini ,  Gottardo Gussoni (direttore del periodico dell’associazione del primo numero, 1899, al 1907),  Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione è poi sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine dell’ “Escursionista” si  incontrano anche i nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

 

[7]Bonardi, 1898, p.232. L’interesse di Bonardi per la fotografia è discusso in Costantini, 1990, p.72 passim.

 

[8]Cfr. Rivoir, 1992, p.18, p.130. Il primo panorama alpino realizzato da Gabinio con mezzi ancora inadeguati è quello della valle del Gran San Bernardo (A17/85) datato 1889. Per una storia generale del panorama come genere cfr. Bordini, 1984. In particolare le connessioni tra montagna e panorama sono già ben presenti in De Saussure, 1776 (ibidem, p.31-32 e nota 7 p.40);  per le prime realizzazioni fotografiche cfr. Garimoldi, 1995, pp.15-18.

 

[9]Quindici di queste immagini, tratte dall’album di proprietà della “Società Ginnastica” che non ci è stato consentito di consultare in questa occasione, sono state pubblicate in Gilodi, 1978, pp.IX-XX. La serie completa di 21 lastre in formato 13x 18 è conservata nel Fondo Gabinio (Sc.182/Ri) mentre 12 stampe a contatto sono comprese nell’album  Ritratti =Gruppi =/ Ginnastica =/ 16. Sul tema dell’educazione fisica femminile a Torino nell’Ottocento cfr. Giuntini, 1995 da cui si ricava (p.426) tra l’altro che Ubaldo Valbusa, membro dell’Unione Escursionisti ed uno dei più assidui compagni di Gabinio, pubblica Ginnastica da camera, massaggio e nuoto. Torino: Lattes, 1910. Di  Valbusa va ricordata anche l’attività di fotografo alpino, cfr. Rivoir, 1992, p.126, p.134-135.

 

[10]Reynaudi, 1896. La collaborazione tra Gabinio e Reynaudi nasce certamente nell’ambito dell’Unione Escursionisti, della quale fa parte anche l’architetto Ceradini, che proprio  per queste guide disegnerà le copertine, presentate alla I Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna  di Torino nel 1902,   e realizzerà alcune tavole nel testo. Diamo di seguito l’elenco cronologico delle collaborazioni di Gabinio alle  guide Reynaudi, indicando tra parentesi il numero di immagini pubblicate nelle prime edizioni di ciascuna, rilevando però che  nelle edizioni successive molte di queste fotografie vengono ripubblicate anonime e con un diverso ordine di presentazione:  1896 (sei); 1903 (trentasette); 1905 (dieci); 1906 (una); 1910 (sei).

 

[11]Alla Esposizione partecipano tra gli altri Guido Rey, Giulio Roussette, Vittorio Sella, Luigi Primoli, Giovanni Varale di Biella   “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese, cfr. “La Gazzetta del Popolo della Domenica”, 1895. La partecipazione di Peliti a questa Esposizione non era sinora stata segnalata, cfr. Federico Peliti, 1993, p.19 passim.

 

[12]Brocherel, 1898,  dedica un intero paragrafo del capitolo XV al tema de “La fotografia sulle Alpi”, in cui accanto ad una serie di indicazioni tecniche si ritrovano attacchi sprezzanti al costume della nascente fotografia di massa ed una serie di prescrizioni  relative a “La veduta [che] deve riescire d’un aspetto armonico ed artistico e dare tutti i dettagli rilevanti”. Da segnalare inoltre l’invito -proprio della più avanzata cultura fotografica dell’epoca- a far si che “il dilettante cerchi sempre che il suo lavoro riesca di qualche utilità [sottolineatura nostra] alle scienze, e lo si può senza scemare la soddisfazione che si ripromette dalle sue non poche fatiche. La geologia, la glaciologia, la topografia, i bradisismi ed i fenomeni tellurici in genere abbisognano della fotografia.”, p.292.

 

[13]Compresa nell’album Autori diversi/ Vedute alpine, etc./ 1a parte/ 26 (A26/4); il passo del Monte Moro costituisce uno dei più noti  e celebrati punti panoramici  dell’arco alpino occidentale, cfr. Garimoldi, 1995, p.25. Gabinio possiede complessivamente quattordici  fotografie di Sella; di un’altra, non reperita, si ha traccia nell’unica  lettera inviata da Sella a Gabinio: “Biella 20 Ott. 98/ Eg.o  Collega/ Le mando le tre copie della/ fotografia n.1685 [Grivola, Grivoletta e ghiacciaio del Trajo, 1894]  e Le sono grato/ di spedirmi L.4.50 per cartolina-vaglia./ Con  saluti  cordiali/ suo dev.mo/ V. Sella”, (Fondazione Sella, Biella, Fondo Vittorio, Copialettere dal 3-5-1897 al 31-12-1898, p.50, n.421), verosimilmente da mettere in relazione con l’ascensione che Gabinio compie nello stesso periodo, documentata da una ricca serie di stampe.

Lo schema compositivo che prevede la collocazione in primo piano di una o più figure di fronte al panorama, di derivazione  romantica, è tipico della fotografia a cavallo dei due secoli (Sella, Rey, Lamy, Gabinio ed altri) e corrisponde ad una fase in cui l’esperienza del panorama non è più eccezionale senza essere ancora divenuta pratica massificata dal turismo.

Nella collezione Gabinio sono presenti , insieme a due riproduzioni da Vittorio Besso, anche 475 stampe originali di Anonimo e di Mario Balloira, V.Baretta, A.Basso, Avv. G. Belli, Giovanni Bollani, Bossola, Brogi, Bugelli, Giovanni Caracciolo, Avv. Carbone, Mario Ceradini, E.Chirali, Luigi Costa, Bobbio Crau, Giovanni Cravero, E.Curione, O.Debernardi, Ducretet, Giovanni Elia, L.Elia, O.Elia, Giuseppe Enrie, Giuseppe Facciotti, V.Ferrari,  Federico Filippi, Funch, Luigi Galleani, C.Galli, C.Giacchino, O.Giudice, Anselmo Giusta, Cesare Grosso, F.Guidetti, Gottardo Gussoni, Adolfo Hess,  Paolo Kind, Cesare Lucca, R.Marchetti, A.Mennyey, Luigi Minetti (Studio SLIFT), Felice Mondini, Agide Noelli, Peluffo, Angelo Perotti , Secondo Pia, Teresio Piasco, Benedetto Porro, Carlo Reynaudi, H.Rinck, Michelangelo Scavia, Vittorio Sella, Diana e Bianca Stella, Giuseppe Tavella, Tonelli, Emanuele Elia Treves, Trionfi, Ubaldo Valbusa, Wehrli (ed.), Ernesto Zoppis. E’ interessante notare che Gabinio possedeva anche un piccolo gruppo di lastre di autori diversi (Fondo Gabinio, lastre, scatola 58/Gs). Per le notizie relative ad alcuni di questi fotografi si rimanda al puntuale apparato di schede in  Miraglia, 1990, ad vocem.

 

[14]Questa immagine si inserisce perfettamente nel genere delle “Scene di vita e di lavoro” che tanto successo aveva nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo, “Il Progresso Fotografico” in particolare in cui vennero pubblicate sotto questo titolo immagini di autori tra loro diversissimi quali Von Gloeden e Tarchetti, cfr. Cavanna, 1990; Miraglia, 1990, p.75 passim.

 

[15]Si confronti ad esempio la  fotografia di Piazza Solferino, datata 1927, (B41/1)   con la veduta di Piazza S. Gioanni  litografata da D. Festa da un  disegno di Enrico Gonin del 1835, verosimilmente nota a Gabinio almeno dal 1902 , quando cura con Luigi Galleani la proiezioni delle diapositive a corredo della conferenza di Alberto Viriglio dedicata ad Una escursione attorno ed a traverso alla vecchia Torino, tenuta il 17 aprile al Politeama Gerbino per iniziativa dell’Unione Escursionisti e comunque pubblicata nel 1923 in un album tipografico di grande diffusione (Rossi, 1923, s.n.). Rare sono queste immagini nel Fondo Gabinio della Galleria Civica mentre  una serie significativa è stata pubblicata in Avigdor, 1981, tavv. 62-65.

 

[16]Sezione IV del IV Concorso,  cfr. “L’Escursionista”, 2 (1900), n.2, 23 febbraio. L’Unione Escursionisti espone “nella categoria dei paesaggi e gruppi gran parte del materiale che era raccolto nella sede a ricordo di tutte le escursioni compiute” accanto a lavori di maggior impegno quali la serie di Gabinio e la riproduzione degli affreschi della sala del castello della Manta, realizzata da Gottardo Gussoni. Una immagine del padiglione dell’Unione Escursionisti è pubblicata in Avigdor, 1981, tav. VI, ma con datazione al 1898.

 

[17] Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville ed oltre alla ben nota produzione di Vittorio Besso, che non assume però esplicitamente la forma dell’album dedicato alla città in cui opera (Biella) numerose sono a partire dagli anni ‘70 dell’800 le produzioni documentarie commissionate dalle diverse municipalità, da committenti o sottoscrittori privati ma più sovente realizzate dagli stessi fotografi a scopo promozionale, cfr. Cavanna, 1992. La novità d’impostazione del lavoro di Gabinio, la sua qualità di “documentazione artistica”, è stata rilevata anche da Marina Miraglia (1990, pp.72-73; tavv. 163-166) sebbene a partire da immagini che appartengono ad una fase molto più tarda della sua produzione, riferibile piuttosto ai primi anni Trenta. Solo in questo contesto sono condivisibili le osservazioni relative alla capacità di Gabinio di leggere la “complessità e continuità dell’aggregato urbano” , mentre non pare verificabile l’ipotesi che egli abbia  puntato “il proprio obiettivo sulla classe dei lavoratori, riprendendone a distanza ravvicinata volti, espressioni, gesti e sorrisi. Sembra quasi che egli abbia colto (…) soprattutto la forza diversa del proletariato”

Colgo l’occasione per segnalare che anche la fotografia di Carlo Nigra Torino, fontana nella piazza del Borgo Medioevale, (tav.138) datata dubitativamente 1884?, va più correttamente collocata almeno al 1928, anno in cui la copia della fontana del melograno del castello di Issogne, realizzata per l’Esposizione romana del 1911, venne collocata nella piazza del Borgo.

 

[18]Edmondo De Amicis, La città, 1880, citato in Comoli Mandracci, 1983, p.209.

 

[19]Ferrari, 1900. Nel testo è contenuta anche una interessante “classificazione”: “Questa grande famiglia -dice Ferrari- come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”.

Nell’ambito dell’Esposizione la Sezione III, dedicata alle “Riproduzioni di monumenti, dipinti ed oggetti d’arte antica e moderna” comprende lavori di Ernesto Forma, Alberto Grosso, Charvet e Tamagnone di Torino oltre a Pietro Santini di Pinerolo, ma non risultano presenti Secondo Pia, Vittorio Ecclesia, due tra i principali operatori piemontesi del settore. Nella Sezione IV, dedicata un poco confusamente ad “Interni, vedute, paesaggi” si segnalano Guido Accotto, Annibale Cominetti ed appunto Gabinio, al quale Pietro Masoero dedica una lusinghiera segnalazione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana”: “Un’altra esposizione collettiva è quella dell’Unione escursionisti di Torino, interessante nel complesso. È l’illustrazione dell’escursione in tutte le forme, e fra fotografie di poca importanza tecnica ve ne sono alcune molto buone. Tra queste le riproduzioni interessantissime di Mario Gabinio Torino che scompare.” (Masoero, 1900, p.282). Lo stesso Masoero, uno dei personaggi più interessanti della fotografia   italiana tra i due secoli, sarà la guida artistica dell’Unione Escursionisti nel corso della gita a Vercelli e Palestro del 1912, cfr. “L’Escursionista”, 14 (1912), n.6, maggio.  L’opera e la figura di Masoero sono state in parte presentate e discusse in Cavanna, 1985; Id. 1986; Costantini, 1990, p.22 passim.

 

[20]Brayda, 1900. Limitatamente alle sole architetture medievali Gabinio ripercorre lo stesso cammino tracciato da Secondo Pia negli anni immediatamente precedenti (1894-1896), ma risulta assente nel catalogo delle riprese di questo fotografo (Borio, Falzone del Barbarò, 1989, pp.130-132) il palazzo dei conti Ponte di Scarnafigi e Lombriasco in via Genova, al quale Brayda dedica così grande attenzione, ciò che sembra indicare per l’ingegnere qualcosa di più che il ruolo di semplice ispiratore nella genesi di Torino che scompare.

Le vicende legate alla demolizione della Casa del Vescovo (1900)  e l’intervento di poco precedente (1897) relativo agli affreschi di Sant’Antonio di Ranverso sono testimonianza precisa dei dissapori tra Riccardo Brayda ed Alfredo d’Andrade, originati certo da rivalità personali e professionali che datano dagli anni di formazione del progetto per il Borgo Medievale (1882-1884) ma soprattutto legati a due diverse concezioni della politica di tutela  e restauro del patrimonio storico torinese. Cfr. Bertea, 1914; Alfredo d’Andrade, 1981; Viglino Davico, 1984; Donato, 1993.

Nella pubblicazione della seconda serie di immagini sul numero del 1 aprile 1900, il redattore conferma il giudizio positivo sul senso da assegnare a questa campagna di documentazione: “Ci pare opera buona ed utile il registrare così, per via di documenti che potranno servire ai futuri storici dell’arte o della topografia torinese, alcune fra le cose più interessanti sia dal punto di vista estetico, sia da quello di una semplice curiosità: tanto più che siamo sicuri di porre non pochi fra i nostri lettori torinesi in grado di scoprire nella loro città bellezze pittoriche, le quali a moltissimi sono perfettamente ignote”.

Ancora nel 1934, in occasione dei lavori relativi alla realizzazione di via Roma nuova, la rassegna municipale “Torino” pubblica una rubrica fotografica intitolata La città che scompare nella quale peraltro non sono comprese immagini di Gabinio.

 

[21]Nello stesso periodo anche la Società Fotografica Subalpina organizza gite con identiche mete, sempre guidata da Brayda, ma non risulta che le due associazioni organizzassero iniziative comuni. Anche Francesco Negri, nel  1901, ripeterà la propria conferenza sul Santuario di Crea sia per  l’Unione Escursionisti sia per la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, cfr. Mattirolo, 1925, p.13, n.1.   Il connubio tra l’attivissimo Brayda e l’Unione è precocemente celebrato da Edoardo Barraja nell’articolo Alla scoperta del Piemonte ( il cui titolo è ripreso da una conferenza tenuta da Ercole Bonardi al Circolo Centrale di Torino) pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 1 gennaio 1899, (Barraja, 1899) corredato da una fotografia della casa del Vescovo  realizzata da Gabinio,  la cui collaborazione al periodico data dal 1898 al 1902 per il tramite di Brayda e Treves.

 

[22]Fiori, 1902, p.3. Con un articolo dallo stesso titolo, Gli amici dei monumenti, pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo della Domenica” del 23 febbraio 1902 Edoardo Barraja aveva presentato  la serata di proiezioni che si doveva tenere il successivo giorno 28 al Teatro Vittorio Emanuele per iniziativa dell’Unione Escursionisti e collega l’attività di questa associazione al più vasto fenomeno della rinnovata attenzione per l’arte (“la sua funzione nella società appare sempre più potente quale strumento di rigenerazione civile”) mostrando in particolare apprezzamento per l’attenzione portata al patrimonio artistico ed architettonico minore, ai cui problemi legali di tutela aveva dedicato sua tesi di laurea in Giurisprudenza, discussa nel 1901 (Gilibert Volterrani, Gilibert, 1977, p.10): “È pregiudizio purtroppo ancora largamente diffuso all’epoca presente -ha scritto e con ogni ragione Luca Beltrami- che il patrimonio artistico e storico del nostro paese possa compendiarsi tutto nei principali monumenti e nelle sole opere d’arte più salienti (…) ma tutto il resto delle memorie, le quali pur essendo meno appariscenti, sono gli elementi che compongono la vaga ed indefinita espressione di quell’ambiente artistico che avvolge i nostri monumenti e li completa, e ci conduce ad una vera comprensione dell’arte” (Barraja, 1902, G164P).  Appare qui una concezione del patrimonio artistico certamente più proficua di quella che sarà alla base della prima legge italiana di tutela (L.185 del 12-6-1902) da applicarsi ai soli “monumenti, agli immobili ed agli oggetti mobili che abbiano pregio d’antichità o d’arte”.

Nel rinnovato interesse per il patrimonio storico che si manifesta in questo periodo (“Solo in questi anni, e diremmo, in questi ultimi mesi, è venuto per buona sorte un salutare movimento contro la distruzione inconsiderata dei monumenti antichi (…) meno male però per la nostra città! La prosa del presente non è ancora riuscita a distrurre del tutto la poesia del passato”, Anonimo, 1902) va collocata verosimilmente l’iniziativa  per l’erezione di un monumento a Filippo Juvarra, proposta da Brayda e sostenuta dall’Unione Escursionisti, a cui aderiscono  il sindaco di Torino Severino Casana, Alfredo d’Andrade, Camillo Boito, Carlo Ceppi, Giacomo Salvadori di Wiesenhof, Stefano Molli, Melchiorre Pulciano,  Camillo Boggio, Pietro Spurgazzi, Mario Gabinio ed altri. Tale iniziativa si concretizzerà nella posa di una lapide commemorativa a Superga nel 1903.

 

[23]Citato in Cavanna, 1981, p.109. Questo giudizio positivo sarà ribadito da Masoero nella recensione delle immagini di Pia presentate all’Esposizione Fotografica di Torino del 1900: “Il Pia dona alla storia futura quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia” (citato in Cavanna, 1985, p.151). Questa celebrazione del ruolo del dilettante rimanda alle opinioni espresse da Brocherel nel 1898, cfr. nota  12.

 

[24]Al banchetto erano presenti oltre ad Eduardo di Sambuy anche Luigi Cantù, Guido Rey, Ercole Bonardi,  Felice Alman, Vigliardi-Paravia, Alessandro Pasta, Benedetto Porro, Achille Berry, Oreste Pasquarelli, Efisio Manno, Secondo Pia, Pio Foà, Gerardo Molfese, Annibale Cominetti, Oreste Bertieri, Adolfo Guallini, Giovanni Assale e Luigi Pellerano. “Finito il banchetto, dietro invito del presidente i commensali si recarono ad inaugurare la nuova sede della Società Fotografica Subalpina, in via Maria Vittoria 25″(Anonimo, 1900/ G159P, Anonimo, 1900/ G156P).

 

[25] Giovanni Santoponte, “Per un museo italiano di fotografie documentarie”, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48, citato in Cavanna, 1991, p.42.  Per la ricostruzione del dibattito italiano sugli stessi temi, a partire dagli interventi pubblicati ne “La Fotografia Artistica” cfr. Costantini, 1990, pp.58-72.

 

[26]Per Lovazzano cfr. Miraglia, 1990, tavv.147-150. L’Album di Gabinio intitolato Esposizione/ 1898 contiene anche alcune immagini fatte dal pallone frenato di Godard collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie simile viene realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli aveva vietato di fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898 ”, n.14, p.105. Forse in occasione della concomitante Esposizione di Arte Sacra Gabinio fotografa una copia del trittico con “L’Annunciazione” di Van Der Weyden (B101/19).

Mario Ceradini partecipa al concorso per il manifesto del “Cinquantenario dello Statuto/ Esposizione generale Italiana/ Torino/ Aprile 1898 Ottobre”, presentato col motto “Biancabella” e quindi realizza per l’Esposizione il chiosco della ditta Sangemini, entrambi fotografati da Gabinio (B110/6, A17/21). Per Ceradini cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.120-121, scheda a cura di Airis Rossana Masiero, in cui la presenza dell’architetto all’Esposizione non viene però segnalata.

Il trattamento riservato alla fotografia nella stessa Esposizione viene aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà (…) non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero (…) Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate (…) Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria.”, Brogi, 1898, pp.252-254.

 

[27] Avigdor, 1981, p.155, cita anche il primo premio in Meccanica ricevuto da Gabinio a conclusione del Corso, documentato da una medaglia conservata nella collezione Marcellino Alessio ma non ricordato in Serra, 1898 nelle sue “Memorie” raccolte in occasione del cinquantenario di fondazione delle Scuole, il cui obiettivo -simile a molte altre istituzioni consimili- era di “Educare le menti degli operai al bello ed al vero”. La primitiva denominazione di “Società di Tecnico Insegnamento” muta nel 1856 acquisendo la denominazione corrente e popolare legata all’ex-convento di San Carlo in cui le Scuole erano ospitate. Tra le presenze significative vanno segnalate quelle di Angelo Reycend, Pier Celestino Gilardi e Tancredi Pozzi, amministratori rispettivamente dal 1885, dal 1888 e dal 1892 mentre Cesare Reduzzi faceva parte del corpo insegnante; di quest’ultimo Gabinio fotograferà il Busto in bronzo della Signora Bonardi nel 1903 (A30/2-5).

 

[28] Album 23 nn.67-72, album 17 n.26. Il riferimento all’impresa costruttrice Viretti contenuto nel titolo di quest’ultima immagine fa supporre che questa ditta ne fosse il committente, forse per il tramite dell’architetto Gottardo Gussoni, collaboratore di Fenoglio dopo il 1895,  cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.148-149, scheda a cura di Airis Rossana Masiero. Per Fenoglio cfr. Nelva, Signorelli, 1979; Politecnico di Torino, 1995.

 

[29] Per Morbelli cfr. Anzani, Maggia, 1995. Il confronto che qui si suggerisce, ad esempio tra il Morbelli di Alta montagna, 1912 ed alcune immagini di Gabinio non pretende ovviamente di fondare relazioni dirette ma più semplicemente di dare conto di un clima culturale comune all’interno del quale si collocano le due esperienze, senza che sia per ora possibile definire i reciproci debiti, che andrebbero comunque verificati caso per caso.  L’individuazione di  relazioni evidenti tra le produzioni della fotografia e le “ricerche pittoriche in corso” a Torino nei primi anni del secolo è stata proposta ad esempio da Maria Mimita Lamberti (1996, p.16) in particolare a proposito della Ofelia di Felice Carena, esposta alla Biennale di Venezia del 1912.

 

[30]Pubblicata in Costantini, 1994, p.152, n.101.

 

[31] “Nata aristocratica la fotografia piemontese, pare ancor oggi segnata di quel nobile sigillo (…) ed è stata la quarta culla che ammirò il mondo in Torino, dove i destini vollero nascesse prima il Risorgimento, e poi l’automobile e la moda e la fotografia. Quante attività fotografiche ha già disseminato nel mondo la città nostra? Qui le prime conferenze, le prime proiezioni, il primo Istituto di educazione proiettiva, le prime battaglie per l’autocromia, per la fotografia artistica; qui i primi passi e certo le più aristocratiche creazioni della cinematografia”, Angeloni, 1933, p.189. Questo delirio retorico autocelebrativo costituisce un buon esempio del clima culturale dominante a Torino in quegli anni.  La marginalità in cui si collocavano i dilettanti fotografi dell’Unione Escursionisti è rivelata nella relazione anonima sulla Seconda Esposizione Sociale che si tiene nei mesi di marzo ed aprile del 1914: “Subito si nota nelle prove esposte (…) la grande preponderanza d’ingrandimenti e la mancanza assoluta di lavori al carbone, di gomme bicromatate e di altri processi foto-meccanici. Va considerato però che se tale lacuna sarebbe certamente sentita in una mostra fotografica che abbia prevalente carattere artistico e classico, diventa pressoché trascurabile nella modesta accolta di opere delle nostre esposizioni.”, De Marchi, 1914, p.4.

 

[32]Citato in  Cavanna, 1985, p.150.  Queste posizioni lo portarono ad esempio a criticare “l’esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, sebbene poi apprezzasse nella stessa occasione le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli, cfr. Costantini, 1994, p.99 passim.

 

[33]”La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, p.204;

 

[34] La notizia di un viaggio di Gabinio a Messina viene riportata per la prima volta da Enrico Nori (Passoni, Nori, 1974, s.n.) corredata da una serie di  informazioni non altrimenti documentate e di valutazioni infondate (la “dimestichezza con Galileo Ferraris”; “Dopo i cinquanta anni Gabinio comincia a fotografare solo Torino”; “Negli anni che restano [cioè gli anni Trenta] scatta ancora qualche fotografia: ma è solo tecnica, mestiere, abitudine e sopravvivenza”)  e viene quindi  ripresa da Avigdor, 1981, p.155, il  quale connette esplicitamente il viaggio alla documentazione del terremoto del dicembre 1908, seguito in questo da Miraglia, 1990, p.385, sulla base di quattro lastre poi passate al Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari di Firenze, forse corredate di una indicazione di attribuzione della quale oggi non rimane traccia.  La verifica condotta sulle copie moderne tratte da quelle lastre, gentilmente fornite da Giorgio Avigdor, non consente di formulare alcuna ipotesi attributiva poiché queste fotografie non si discostano  in nulla dalla corrente produzione coeva relativa all’evento. Va però fatto notare che nelle circa 12.000 stampe originali e nelle circa 4500 lastre che costituiscono il Fondo Gabinio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino non compare alcuna traccia non solo di immagini relative al terremoto ma neppure ad un viaggio in Calabria e Sicilia.

A sostegno dei terremotati e per iniziativa della Società Fotografica Subalpina la rivista torinese “La Fotografia Artistica” pubblica  nel gennaio 1909 il numero unico Pro Sicilia e Calabria, contenente 80 illustrazioni dovute a Felice Masino, Secondo Pia, Frank Perret di Napoli, Stabilimento Brogi, Luca Comerio, Generale Cerri, Giovanni Assale, Giovanni Alifredi, Arturo Ambrosio, L. Martinez di Catania, Modò di Acireale e Maraffa Abate di Palermo. Una simile iniziativa viene presa anche dalla Società Fotografica Italiana che “sotto l’alto patronato di S.M. il Re” mette in cantiere una monografia su Calabria e Sicilia che sarà posta in vendita a L.5.  Di intento più celebrativo sembra essere invece l’album Resurrecturae edito a Milano da Biagio Giarmoleo e conservato alla Biblioteca Civica di Torino, forse da mettere in relazione con la realizzazione  a Messina dell’Ospedale Piemonte, offerto alla città dal “Comitato piemontese in pro delle popolazioni colpite dal terremoto”, realizzato nel 1911 su progetto di Riccardo Brayda e Pietro Fenoglio. (Viglino Davico, 1984, p.51). L’edificio venne visitato da una comitiva dell’Unione Escursionisti in occasione della gita nel Mediterraneo compiuta nel giugno del 1910.

 

[35]Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica, 1907; Brand, 1911; Garimoldi, 1995, p.109.

 

[36]Angeloni, 1924, p.46. In particolare il riferimento è all’opera Movimento di Drtikol, pubblicata anche nel catalogo dell’esposizione, a cui partecipa tra gli altri anche Alexander Rodcenko con il Ritratto del poeta Assico  ed un altro Ritratto non identificato (nn. 102, 103). L’insieme delle immagini presenti riflette l’eterogeneità delle tendenze della fotografia dei primi anni Venti, ancora segnate da influenze pittorialiste, specialmente forti in ambito torinese come non manca di rilevare Namias, escluso dalla Giuria,  sulle pagine de “Il Progresso Fotografico”, luglio 1923, p.220: “In questa Esposizione, pur così riuscita, è mancato al Comitato il volere o il potere di sottrarsi alle influenze locali”. Al termine della manifestazione il Consigliere Giuseppe Ratti, ideatore dell’iniziativa, propone che le eccedenze di bilancio siano destinate “alla costituzione di un primo fondo per la creazione di una scuola professionale di fotografia ed ottica sotto l’alto patronato della Camera [di Commercio] stessa”,   intitolandola al conte Teofilo Rossi di Montelera, ma questa iniziativa prenderà corpo solo molti anni più tardi, nel 1935, cfr. infra nota 49.

 

[37]Per la ricostruzione della vicenda e del ruolo svolto dalla rivista e dall’annuario il riferimento è Luci ed Ombre, 1987. La rivista venne fondata a Piacenza nel 1904 da Angelo Guido Dell’Acqua (deceduto a Genova nel 1932); in seguito alla morte di  Alberto Dell’Acqua  la rivista passa al gruppo torinese nel 1922.  Il titolo dell’annuario riprende la definizione che Sem Benelli aveva dato dell’Esposizione Internazionale di Fotografia del 1923, detta “della luce e dell’ombra” (Prolo, 1976, p.215) e richiama quello di una rivista di esoterismo che si pubblicava a Roma circa negli stessi anni (1923-1927): “Luce e ombra. Rivista mensile illustrata di Scienze Spiritualistiche”.

 

[38] La schedatura analitica prevede che si definisca come “data” quella di realizzazione del fototipo (positivo, negativo, diapositiva) oggetto di scheda, registrando in nota le eventuali differenze tra data di esecuzione della ripresa e data di esecuzione della stampa. Stabilito questo irrinunciabile principio, perfettamente consono al trattamento di tutte quelle immagini su cui non compare una annotazione autografa relativa all’esecuzione, i problemi si pongono -paradossalmente- proprio nel momento in cui ci si trova di fronte ad una informazione dettagliata e precisa fornita dall’autore stesso: la data apposta al verso.  Alcune verifiche incrociate hanno consentito di individuare casi diversi: 1) data di ripresa e di stampa coincidono. 2) la data indica per certo l’esecuzione della stampa. 3) data di ripresa e data di stampa sono diverse ma molto prossime nel tempo, nell’ordine di due/tre giorni. Questa verifica consente di attribuire con certezza la data autografa all’esecuzione della stampa analizzata ma di ottenere anche -per le considerazioni appena fatte- una ricostruzione più che attendibile del calendario delle riprese.

Dall’analisi si ricava che Gabinio in questo periodo dedica alla fotografia anche giornate non festive, ciò che lascia supporre l’interruzione o la  conclusione del suo rapporto di lavoro con l’Amministrazione delle Ferrovie, apparentemente non verificabile attraverso i documenti conservati presso l’Archivio Storico delle Ferrovie di Torino.

 

[39] Il gioco insistito di relazioni  tra il primo piano di rami (fioriti)  e lo sfondo di  paesaggio tenuto fuori fuoco che  rimanda nella struttura compositiva e nel trattamento a numerose immagini di Gabinio dello stesso periodo,  si ritrova ad esempio in Fiori di melo di Enrico Unterveger, primo premio al II Concorso Trimestrale del 1926 (Praj, 1950, s.n.) ma anche in Nube di primavera di Mario Balloira, commerciante torinese di articoli fotografici ed amico di Gabinio, pubblicata in La Società Fotografica Subalpina nel 1927, p.2  Altri confronti possibili si possono fare tra il Panorama di Torino dall’approdo fluviale di Sassi (A44/56) ed il Tramonto sul Po presso Sassi (CM/35), entrambe del 1922,  con  alcune delle immagini presenti negli annuari del “Corriere Fotografico” quali Crepuscolo di Cesare Schiaparelli, 1926, o Tramonto di Antonio Fasoli, 1927, ora ripubblicate in Luci ed Ombre, 1987, s.n. Tutte registrano il tentativo fatto da Gabinio in quegli anni di aggiornare una prima volta il proprio linguaggio, adeguandolo ai  sicuri modelli certificati dalla pubblicistica fotografica e dai Salon.

Una seconda serie di immagini di fiori, isolati singolarmente, risale invece agli anni 1933-34 e rimanda ad esempi precisi della fotografia in ambito Bauhaus, la cui conoscenza era mediata in Italia, ad esempio, dalle immagini di soggetto simile pubblicate nella rivista “Domus”. Particolarmente interessante è il confronto tra il Fiore di passiflora di Gabinio, 1933, e la fotografia di identico soggetto di Joost Schmidt, datata 1928c, ora in Bauhaus Fotografie, p.47, tav.50.

 

[40]Una attenzione simile per i paesaggi marginali, inconsueta per l’epoca, si ritroverà in una serie di fotografie di Raoul Hausmann dei primi anni Trenta come Grano presso Schönenberg, 1931, Senza titolo, 1927-31 e Acqua di torba, 1931 (Raoul Hausmann, 1994, p.130).

 

[41] La singolarità e novità di questa immagine sono verificabili nel confronto con la stampa al bromolio di identico soggetto realizzata da Domenico Riccardo Peretti-Griva e pubblicata in “Torino” Rassegna Municipale, 8 (1929), n.4, aprile, p.176.

 

[42] Per Ugo Alessio cfr. Gli architetti dell’Accademia, 1996, pp.200-206, scheda a cura di Airis Rossana Masiero e Elena Dellapiana. La commissione esaminatrice  con la quale Alessio si diploma nell’ottobre del 1925 con il progetto per una cappella, era composta da Eugenio Ballatore di Rosana, Giulio Casanova che controfirma il progetto Alessio, Agide Noelli,  Cesare Bertea e Mario Ceradini, questi ultimi buoni conoscenti e amici di lunga data di Mario Gabinio. Tra le collaborazioni professionali di Alessio interessa ricordare qui quella con Carlo Brayda, che rimanda ancora una volta ad una trama di relazioni che trova le proprie origini nell’Unione Escursionisti. Gabinio riproduce più volte disegni e progetti del nipote, a partire dal saggio di diploma del 1925 sino alle tavole di progetto per il Teatro Civico di Vercelli e l’Istituto Tecnico Industriale Q. Sella di Biella, realizzati in collaborazione con l’ing. L. Gariboldi (Fondo Gabinio, lastre, sc. 311/Pl).

 

[43]Nell’ampia produzione superstite la sola immagine di folla urbana presente compare in una fotografia di piazza Palazzo di Città ripresa dall’alto il 12 settembre 1925 in occasione di un evento non identificato. (P22/9).

 

[44]Weaver, 1925, p.36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confusi, del resto propri della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

 

[45]Brayda, 1888. La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Brayda, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, 1990, pp.371-372. Il tema “porte e portoni” è stato ripreso in anni più vicini a noi da Augusto Pedrini, 1955, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura, alla quale si accompagna una ricca produzione editoriale sugli stessi temi, con presentazioni di Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi, e la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri ed Architetti di Torino”. Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

 

[46] I rapporti tra Gabinio e l’architetto sono  documentati dalla riproduzione fotografica della tavola generale del progetto di laurea di Morbelli, Veduta assonometrica di un quartiere operajo/ presso la FIAT-Lingotto a Torino/ 1928,  presente nel Fondo (B101/31). Anche le relazioni con alcuni esponenti della famiglia Mennyey sono documentate da stampe presenti nel Fondo: due fotografie di paesaggi liguri sono infatti attribuite da Gabinio ad A.Mennyey mentre le stampe di Via Bertola, 1924 (B114/15), Albergo Fucina, 1926 (B83/16) e Chiesa dei Santi Simone e Giuda a Borgo Dora, 1927c(B77/146) risultano “consegnate”, secondo quanto si ricava dalle indicazioni al verso, a [Francesco?] Mennyey, che all’Esposizione del 1926 presenta l’acquaforte Il Borgo Dora. Per Mennyey, alle cui incisioni già aveva fatto riferimento Aldo Passoni a proposito di Gabinio (Passoni, Nori, 1974, s.n),  cfr. Francesco Mennyey, 1975; L’incisione del Novecento, 1985, p.62.

Le relazioni di Gabinio con l’ambiente artistico torinese sono ulteriormente confermate dalle fotografie di quattro copriteiere ricamate di Maria Rigotti Calvi, datate tra il 1920 ed il 1926 (Rigotti, 1980, p.268) realizzate forse in preparazione della mostra ginevrina del 1927 “Expositions d’Artistes Italiens Contemporains”.

Va segnalata qui anche la straordinaria coincidenza di temi, soggetti e luoghi che avvicina la serie di fotografie che Gabinio dedica ai cortili di case a ballatoio nell’area interessata dalla ricostruzione di via Roma, realizzata nel 1930-31 (B83/19-21), a litografie ed acqueforti di  Ettore de Fornaris quali Vecchio cortile (1936-1937) e  Slums (1938-39), nelle quali anche il punto di vista fortemente scorciato dal basso rivela un preciso rimando ai modi della ripresa fotografica, cfr. 6 incisori a “La Stampa”,  1939, p.7; Il tema era già stato affrontato da De Fornaris, ma con diverso trattamento, in Vecchio cortile, ante 1932, cfr. Incisori contemporanei, 1932, tav.XI. La sua figura di artista e mecenate è stata affettuosamente presentata da Rosanna  Maggio Serra (1986, pp.11-17).

 

[47] Il fascino degli spazi e dell’ambiente della “Vecchia Torino” coinvolge anche Marcello Boglione che al tema dedica  sia l’omonima cartella di incisioni, realizzata nel 1928 con Ercole Dogliani, sia le più tarde vedute di Via Barbaroux e di Via Sant’Agostino, esposte nel 1938 alla personale alla Galleria  Martina a Torino, mostra che Ettore Zanzi definisce, nella sua recensione, “specialmente interessante per gli studiosi della storia urbanistica torinese: sono infatti numerose le tavole che documentano con esattezza obiettiva e, tuttavia, con genialità interpretativa, non pochi aspetti della nostra città vecchia e stanca, edifizi che stanno per essere demoliti, strade e vicoli che subiranno presto o tardi radicali trasformazioni.” (citato in Marcello Boglione, 1994, p.143) riproponendo valutazioni sostanzialmente identiche a quelle con cui era stato accolto Torino che scompare nel 1900. Gabinio conosce certamente alcune opere di  Boglione, e in particolare nella sua Veduta della torre littoria in costruzione da Piazza Castello (P14/12) riprende esplicitamente il disegno di identico soggetto pubblicato in “Torino”, 14 (1934), n.1, gennaio, p.43.

 

[48] Nella Sala VII sono ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli e “tutta una parete della sala è occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”. Nella Sala X sono presenti rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Giancarlo Dall’Armi ed Augusto Pedrini; nella Sala XI progetti di Bonsignore, Talucchi, Locarni, Ferri ed altri ed infine nella Sala XII progetti di Vittorio Melano, Angelo Reycend, Stefano Molli e Carlo Ceppi, cfr. La Mostra retrospettiva, 1926.

 

[49] Società  Fotografica Subalpina, 1949. Sulle prime scuole di fotografia istituite a Torino cfr. Costantini, 1990, p.142, n.229. La scuola professionale Teofilo Rossi di Montelera, già auspicata da Giuseppe Ratti nel 1923 viene istituita solo nel 1935 per iniziativa del Consorzio per l’Istruzione Tecnica. Riconoscendo la necessità di fornire una formazione a largo raggio il programma della scuola viene impostato per giungere alla “formazione del ‘fotografo totalitario’”,  dotato di cultura generale e di cultura professionale. A tale scopo accanto agli insegnamenti tecnici, tecnologici e merceologici sono attivati i corsi di Storia dell’Arte, Storia delle Tecniche Fotografiche, Estetica Fotografica e Storia dell’Arte Fotografica, cfr. Bellavista, 1935, p.189.

 

[50]Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par.35, Verbale n.4 del 24-1-1931. Questa attenzione per la documentazione fotografica potrebbe anche essere stata suggerita da Vittorio Viale, dal 1930   direttore del Museo Civico in cui istituisce un primo nucleo di Archivio Fotografico, dotato di un fondo spese di circa ottomila lire annue, che propone di trasformare in “Archivio fotografico dei monumenti degli oggetti d’arte del Piemonte”, in apparente  concorrenza col corrispondente archivio della Regia Soprintendenza. La proposta, presentata al “I Congresso piemontese di Archeologia e Belle Arti” che si tiene a Cavallermaggiore nell’agosto del 1932, intende anche ovviare alla dispersione del materiale fotografico di interesse documentario conseguente alla chiusura degli studi professionali per cessazione dell’attività, (Viale, 1932) prefigurando in un qualche modo proprio la vicenda Gabinio che vedrà ancora protagonista Viale sul finire del decennio.

Quando, dopo alterne vicende (Avigdor, 1981, pp. 174-179) il Comune di Torino decide di accettare la proposta di acquisto avanzata da  Ugo ed Ivan Alessio dopo la morte di Gabinio, la motivazione è individuata “in relazione essenzialmente all’interesse connesso alla conoscenza dello stato di fatto in cui si trovavano l’edilizia cittadina e parecchi servizi municipali, fra l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, da cui risultano evidenti le trasformazioni verificatesi sotto l’impulso innovatore del Regime.“, Archivio Storico della Città di Torino, Deliberazioni Podestarili, par. 40, verbale n.28 del 17-6-1940, corsivo nostro. La perizia relativa al valore delle 497 scatole di lastre, stimato in 9.500 lire, venne affidata a Viale, il quale ne opera una prima selezione, trattenendo per l’Archivio Fotografico dei Musei Civici solo quelle “di carattere artistico o archeologico”, corrispondenti a 1087 lastre e restituendo le altre -oggi non più reperibili- alla Divisione VIII Amministrazione Patrimonio e Lavori Pubblici, Archivio dei Musei Civici, cat. IX, cl.6, pr.425 del 18 ottobre 1941.

 

[51]Benjamin, 1966, p.71, che riconosce anche Atget quale padre della “nuova fotografia”.  In un contesto diverso questa relazione è sottolineata anche nella recensione del volume di Camille Recht dedicato ad Atget pubblicata da “La Casa Bella”, nel 1931: “Non si tratta, infatti, di novantasei fotografie pittoresche; ma di altrettanti studi eseguiti sulla scorta di un’intelligenza acutissima; e quasi di un fine determinato, che è certo la rappresentazione dello spirito del proprio tempo. (…) Atget è il fondatore di un”arte” della fotografia come sarà intesa parecchi anni dopo, in America ed in Germania, sotto la spinta della tecnica cinematografica” (C.G., 1931).

 

[52] Le stampe di Gabinio relative ai due cantieri sono conservate anche nell’archivio storico della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino, insieme a quelle di Stella, Pedrini, Ottolenghi,  dell’ing. Pantanelli e di Luigi Costa, fotografo con studio in Corso Regina Margherita 102 a Torino, che firma con Gabinio anche l’album Nuovo Palazzo/ della Società’ Reale/ Mutua Assic.ni/ Torino/ Foto di M.Gabinio/ e L.Costa. Alcune di queste immagini vennero pubblicate in Architetture di Armando Melis, 1936, p.38;

 

[53]Ponti, 1932, pp. 285-286, corsivo dell’autore.  Se “Domus” dedica ampio spazio alla pubblicazione di immagini è su “Casa Bella” che compaiono in quegli anni le segnalazioni e recensioni  più attente di volumi dedicati alla nuova fotografia; si confrontino ad esempio le recensioni di Modern Photography, numero speciale del trimestrale “The Studio”, pubblicato nel 1931, che contiene due importanti saggi di G.H. Saxon Mills e di C. Leeston Smith e fotografie di autori quali Bayer, Bruguiére, Henry, Beaton e altri, tra i quali gli italiani Bologna, Bricarelli e Giulio: per il redattore di “Domus” si tratta  semplicemente di “una delle solite raccolte di saggi fotografici”  (4 (1931), n.47, p.67),  mentre per l’estensore della nota pubblicata su “Casa Bella” (Giuseppe Pagano?) l’analisi del volume è occasione per riflettere sullo stato della fotografia,  “passata da uno stato puramente documentario ad un altro che ricerca nelle possibilità espressive un accordo con i dati estetici più diversi: composizioni ed allusioni che traggono lo spunto dalla realtà per trasferire in un’altra sfera il loro valore. Surrealismo, se si vuole.” (4 (1931),  n.47, novembre 1931, p.54). All’Editoriale Domus di Giulio Mazzocchi si deve in questi anni la pubblicazione oltre che di “La Casa Bella” e “Domus” anche di “Fotografia”, edita dal 1932 ancora sotto la direzione di Gio Ponti.

 

[54]La fotografia di Gabinio, pubblicata in “L’Architettura Italiana”, 29 (1934), n.3, marzo, p.95, ricorda le foto di Thèrese Bonney di una scala di Robert Mallet-Stevens, a proposito delle quali Ponti  parla di “seduzione fotografica”  (“Domus”, 2 (1929), n.2, febbraio, p.38) e richiama in particolare quelle eseguite dalla Studio Cartoni per la palazzina al Lungotevere Arnaldo da Brescia di Giuseppe Capponi, pubblicate in “Domus”, 4 (1931), n.37, gennaio, p.23.

 

[55]Cfr. Mostra sperimentale, 1931. Il concetto di “nuova visione” formulato da Moholy-Nagy e sviluppato in ambito Bauhaus relativamente alla fotografia (La fotografia al Bauhaus, 1993) diventerà il titolo della prima edizione americana del suo volume Von material zu architektur, Bauhausbücher 14, edito nel 1928 da Albert Lagen a Monaco (The New Vision: from Material to Architecture New York: Brewer, Warren & Putnam, 1930) ed in questa forma avrà particolare fortuna critica, pur non riferendosi in nulla, come è noto, alla fotografia.

 

[56]Antonio Boggeri  ha occasione di conoscere le opere delle avanguardie fotografiche europee per il tramite delle riviste messe a disposizione da Marco Luigi  Poli, che alla Alfieri & Lacroix di Milano, dove entrambi lavorano, cura il supplemento illustrato de “Il Popolo d’Italia” (Monguzzi, 1981, p.2).

 

[57]Sansoni, 1932, in cui sono pubblicate anche tre immagini di Gabinio: Lyskamm (4500) e suo ghiacciaio al chiaro di luna, L’alba sul ghiacciaio del Trajo e Aosta – Le Porte Praetorie. È interessante rilevare l’operazione condotta in questa occasione da Gabinio che stampa su carta per ingrandimento alla gelatina bromuro d’argento lastre realizzate circa trent’anni prima destinate alla stampa a contatto su carte ad annerimento diretto. I risultati, tecnicamente discutibili, indicano non tanto la necessità di adeguarsi alla scomparsa dal mercato delle carte alla celloidina ed al citrato quanto piuttosto un desiderio di adattamento al gusto corrente, alla modernità dell’ingrandimento consentito dalle carte al bromuro. Alcune perplessità sul lavoro di Achille Bologna erano già state espresse da Cesare Schiaparelli nella recensione alla sua personale torinese del 1930 (Schiaparelli, 1930).

 

[58] Pavia, 1926. Il rimando improprio al cubismo ed al futurismo  (“Si rallegrino i futuristi: la teoria del ‘volume’ e quella della ‘sintesi’ è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo”) indica bene quale fosse il giudizio -e la distanza- che separava la cultura tradizionale dalle esperienze più aperte verso i valori del moderno, gli  stessi che avevano fatto si che lo stesso Felice Casorati venisse gratificato, nel 1919, dell’epiteto di “futurista” (Dragone, 1978, p.194)

 

[59] Sarà con questa architettura effimera che Edoardo Persico commemorerà l’artista sulle pagine di “Casabella” a pochi giorni dalla morte, nel numero di maggio 1935.

Nel corso del 1928, oltre a numerose altre minori, si tengono a Torino: gennaio – febbraio, “Prima mostra del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica” accanto alle personali di Léonard Misonne, José Ortiz-Echagüe e Marcus Adams; giugno, “Prima mostra provinciale d’arte fotografica dell’O.N.D.” promossa dalla Società Fotografica Subalpina; settembre,  “ III Mostra nazionale e I Esposizione internazionale di fotografia di montagna” organizzata dal Club Alpino Italiano; ottobre: “Secondo Salon italiano d’arte fotografica internazionale” oltre naturalmente alla I Esposizione dei Maestri d’Arte professionisti Fotografi nell’ambito dell’Esposizione Celebrativa.

 

[60] I “Commenti” di M.Bernardi (1928) ed A.Boggeri (1929) sono stati ripubblicati in Luci ed Ombre, 1987, pp.100-101 e pp.110-111.

 

[61]Andreis, 1933, p.10. Andreis con Mario  Bellavista, Cesare Giulio, Giuseppe Borghi, Luigi Costa (collaboratore di Gabinio per le riprese alla “torre littoria”), Carlo Emanuele Rossi ed Ernesto Sacchetto sono i  membri della redazione di “Pagine Fotografiche ALA”, con direttore Giuseppe Portigliatti. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.121) Questo intrecciarsi di presenze non solo rende ragione dell’attenzione con cui “Galleria” segue le vicende ALA ma mostra bene quanto fosse oligarchico il gruppo “dirigente” della fotografia torinese negli anni del fascismo.  La stessa rivista ospita i Concetti per fotografi moderni, con cui Mario Bellavista si propone di definire una tipologia della fotografia fascista. Bellavista, interessante fotografo, è uno  dei personaggi più influenti della fotografia italiana del Ventennio: oltre a tenere corsi per numerose associazioni a Milano ed a Torino è direttore a Milano  del Laboratorio di Resinotipia di Namias, Direttore della Scuola ALA a Torino, direttore dell’Ufficio Tecnico Gevaert e  per la stessa Società realizza nel 1934-35 il “Corso radiofonico elementare di fotografia” che viene pubblicato in sunto anche sulle pagine di “Galleria” e della “Rivista Fotografica Italiana”.

 

[62] “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.1, febbraio, p.5. Il problema dell’aggiornamento e della crescita culturale dei fotografi induce le diverse associazioni sia a mettere a disposizione dei soci una ricca serie di periodici (37 titoli tra italiani e stranieri, presso la sede ALA) sia a promuovere corsi di grande interesse, come quello prodotto dalla Società Fotografica Subalpina nel 1934 che prevedeva, tra gli altri, interventi di Bellavista, Dalla dagherrotipia ai raggi infrarossi; Erizzo, Il Novecento in fotografia e in cinematografia; Bertoglio, Surrealismo e fotografia; Bologna, Tendenze fotografiche internazionali;  Movilia, Funzione politica e sociale della fotografia. Anche la ALA promuove “riunioni culturali” seguite da dimostrazioni pratiche, tra le quali segnaliamo quelle dedicate a La fotografia dell’infrarosso nella pratica e La fotografia notturna, entrambe tenute da Gabinio in collaborazione rispettivamente con Mario Balloira e Smeraldo Smeraldi. Questo impegno didattico sostenuto in età avanzata spezza temporaneamente la sua tradizionale riservatezza ma stupisce anche per i  temi trattati: tra le stampe del Fondo Gabinio sono presenti attualmente solo tre fotografie all’infrarosso (B53/59-61).

Nel 1936 la denominazione muta da “Associazione Culturale Fotografica ALA” a “Associazione Fotografica Italiana A.L.A” mentre l’anno successivo si riduce definitivamente ad “Associazione Fotografica Italiana” (AFI).  La nuova denominazione riflette una crescita ed un livello di influenza che superano l’orizzonte torinese creando forti polemiche con la Società Fotografica Subalpina. In questo contesto va collocata l’assenza dell’AFI dall’Unione Società Italiane Arte Fotografica (USIAF), con sede a Roma presso l’Associazione Fotografica Romana Dilettanti e ovviamente aderente all’Istituto Fascista di Cultura , la cui costituzione era stata però promossa proprio dalla Società Fotografica Subalpina, a cui spetta anche l’organizzazione del primo Congresso USIAF, che si tiene a Torino nel 1937. Alla Società torinese si deve anche l’organizzazione dell’assemblea costitutiva della FIAF (Federazione Italiana  Associazioni Fotografiche) che si tiene a Torino il 19 dicembre 1948. (Appendino, Ghigo, Lombardo, 1973, p.8 passim).

 

[63] Nel 1934 Gabinio partecipa alle seguenti esposizioni: “Internationell Fotografiutstallning” alla Liljevalchis Konsthall di Stoccolma con le opere Austerità, n.272, Carezze di sole, n.273, Pesche, n.274, Uva, n.275 (poi a Boston e Ottawa), Refezione al cantiere, n.276, Dall’alto, n.277; “Prima mostra internazionale fra le Società YMCA” (Young Men’s Christian Association) a Torino, con  Mezzogiorno ovvero Refezione al cantiere, n.202; “III Nemzetkozi Muveszi Fenykepkiallitas” di Sopron (Ungheria) con l’opera Carezze di sole; “III Internationale Photo-austellung” di Vienna con Umiltà, n.192, Carezze di sole, n.193, Pesche, n.194.

Le nature morte di Gabinio vanno confrontate con le corrispondenti di Achille Bologna ora pubblicate in Fotografia luce della modernità, 1991, pp.122,12,127, datate 1935c.

Nello stesso 1934 Federico Sacco pubblica il volume dedicato a Le Alpi che contiene, tra le altre, 38 fotografie di montagna di Gabinio. A partire da questo dato è stato ipotizzato (Avigdor, 1981, p.155) un ruolo fondamentale svolto dal geologo nella formazione culturale di Gabinio, a partire da una collaborazione databile al 1890. In realtà la collaborazione data a partire dal 1925 e si concretizza nell’utilizzazione di immagini provenienti dall’ampio repertorio di Gabinio relativo alla montagna.

 

[64]Domenico Riccardo Peretti-Griva, La nostra prima rassegna, in Prima esposizione fotografica, 1935, s.n. A suggerire altre e possibili tangenze e riferimenti troviamo in  catalogo Aringhe di Giulio Galimberti, che rimanda anche compositivamente a Le sardine di Emmanuel  Sougez, del 1932.  Una ulteriore selezione di immagini presenti in mostra (“la fotografia classica ottocentesca era accoppiata alle più audaci composizioni pubblicitarie”)  viene pubblicata anche dalla “Rivista Fotografica Italiana”, 20 (1935),  n.3, marzo, con fotografie di Martino Brondi, Giovanni Calleri, Vincenzo Balocchi, Enrico Giorello, Enrico Aonzo, Gualtiero Castagnola, Mario Castino e Mario Gabinio (Piatti). Anche il redattore del “Corriere Fotografico” rileva che “Il torinese Mario Gabinio si fa notare per diverse belle nature morte e per una bella scena sul Po”  (citato in “Pagine Fotografiche ALA”, 2 (1935), n.4, aprile, p.38). Le opere presentate alla mostra sono: Piatti, n.112, Maioliche, n.113, Cipolline, n.115, Festa, n.116, Po, n.117, Valnontey, n.118. Nello stesso anno Gabinio partecipa anche al “XIV Salon International de Photographie” di Bruxelles con Università, n.352, Alluminio, n.353; “Fourth South African Salon of Photography” di Johannesburg: Carezze di sole, poi alla City Art Gallery di Durban, nel 1936; Mostra della Royal Photographic Society of Great Britain di Londra: Maioliche, n.86; “Second Canadian International Salon of Photographic Art” di Ottawa: Uva, n.63 (mentre Refezione al cantiere viene restituita); “XXX  Salon  international d’art photographique” di Parigi: Maioliche, n.166, Po, n.167,  Piatti, n.168;

 

[65] La rigida strutturazione compositiva di Piatti appare piuttosto come un’eccezione nella produzione di Gabinio di questi anni; in opere come Miscellanea (RA/23) o Maioliche (RA/21) come nella già citata Umiltà la forma appare piuttosto trovata che cercata, mai enfatizzata o insistita, e l’attenzione sembra piuttosto rivolta al “motivo” dell’accumulazione di oggetti, acutamente analizzato in Marbot, 1989, pp.154-155.

 

[66] Per La scala, 1930, di  Rodcenko cfr. Karginov, 1977, tav.182 e la variante di ripresa in Khan-Magomedev, 1986, p.247. Il gioco delle ombre portate sulla scalinata è il soggetto di Gradinata del tempio, 1930, di Achille Bologna e di Parigi, la Madeleine, 1932 , di Italo Bertoglio, entrambe pubblicate in Luci ed Ombre (1987, s.n.).

 

[67] Due immagini di questa serie vennero inviate a numerosi Salon internazionali con un titolo, “Carezza/e di sole”, che riprende esplicitamente quello di un’opera di Carlo Baravalle pubblicata in Luci ed Ombre, del 1927 (L’ultima carezza del sole), ancora una volta a suggerire non solo la condivisione di un gusto “crepuscolare” ma anche la caparbia capacità di assimilazione di Gabinio.

Le ninfee presenti nella citata immagine di Baravalle sono un altro dei temi con cui si confrontano numerosi fotografi in questi anni, attirati dalla mescolanza di richiami e suggestioni che questo contiene e, insieme,  dalle possibilità di ricerca formale che offre. Neppure Gabinio si sottrae a questa prova ma in Ninfee dopo la pioggia, 1933, (RA/1) riesce comunque a realizzare un’opera dotata di personalità propria, riconoscibile nel mantenimento di alcuni elementi caratteristici quali la perfetta leggibilità del dettaglio, la connotazione tridimensionale dello spazio pur in assenza della linea dell’orizzonte, ottenuta con la presenza di elementi minimi, che suggeriscono un punto di fuga (assente nelle opere di altri fotografi, forse sulla scia di Monet) e nell’ancorare la figura al luogo, che si ricava dalle scritte al verso, perché l’immagine sia -contemporaneamente- documento e forma.

 

[68] Savinio, 1935. L’articolo prende le mosse da una irridente condanna di Cézanne per estenderla a tutto l’ambito della ricerca fotografica contemporanea, a quel  “cézannismo fotografico [che] fu la vendetta burlona di Cézanne, il morto”, non senza aver prima esaltato il valore della scoperta della fotografia ed averne tracciato per sintetici tratti le influenze sulla produzione artistica tra Otto e Novecento, dalla letteratura alla musica. Sulla scia dell’antica condanna baudelairiana alla fotografia, “microscopio per tutti”, viene negato il “mistero dello sguardo”.

 

[69] Nel 1937 Gabinio partecipa al “XXXII Salon international d’art photographique” di Parigi con Moscato bianco e nero; “Salon international de 1937” di Metz, organizzato in occasione del trentaseiesimo convegno dell’Unione nazionale delle Società Fotografiche Francesi: Uva zibibbo e mele, n.269, Pesche reali, n.270; “V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti” di Torino: Uva nera e dorata, n.230, Mezzanotte alle Porte Palatine, n.231. Le fotografie Maioliche, Ferro zincato, Partita a carte e Persi moi [Pesche mature], inviate al Salon di Chicago, non vennero accettate.

 

 

 

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Alberto Savinio, Fasti e nefasti della fotografia, “La Stampa”, 69 (1935), 6 luglio, p. 3, ora in Id., Torre di guardia ,  a cura di Leonardo Sciascia.  Palermo: Sellerio, 1977, pp. 131-142

 

Schiaparelli 1924

Cesare  Schiaparelli, La scuola piemontese di fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico”, 21 (1924), n. 4, aprile, pp. 52-53

 

Schiaparelli 1930

Cesare  Schiaparelli, Salon Italiano d’Arte Fotografica Internazionale,  “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 10, ottobre, pp. 697-698

 

Secondo Pia 1989

Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo nazionale del Cinema, ottobre-novembre 1989), a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò.  Torino:  Allemandi, 1989

 

6 incisori 1939

6 incisori a “La Stampa”, brochure della mostra (Torino, Salone de La Stampa, aprile 1939), a cura di Marziano Bernardi. Torino: La Stampa, 1939

 

Serra 1898

Gian Giacomo Serra, Le Scuole Tecniche Operaie San Carlo in Torino.  Torino: Tip. Cassone, 1898

 

VI Mostra Biennale 1939

VI Mostra Biennale Internazionale di Fotografia Artistica (Torino, Circolo degli artisti,  maggio-giugno 1939). Torino: Stamperia Artistica Nazionale, 1939

 

VII Esposizione Annuale 1941

VII Esposizione Annuale Sociale di Fotografia Artistica AFI, (Torino, maggio 1941).  Torino:  Satet, 1941

 

Società  Fotografica Subalpina 1949

Società  Fotografica Subalpina, Catalogo della mostra del cinquantenario,  “Vita Fotografica”, 5 (1949), n. 9, aprile

 

Storiografia 1990

Storiografia francese ed italiana a confronto sul fenomeno associativo durante XVIII e XIX secolo,  atti delle Giornate di studio (Torino, Fondazione Luigi Einaudi , 6 e 7 maggio 1988),  a cura di Maria Teresa Maiullari. Torino : Fondazione Luigi Einaudi, 1990

 

Thovez 1898

Enrico Thovez, Fotografia pittorica, “L’Esposizione Nazionale del 1898”. Torino, 1898, pp. 219-222

 

Torino 1902 1994

Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino settembre 1994 gennaio 1995),  a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano:  Fabbri, 1994

 

Torino 1920-1936 1976

Torino 1920-1936. Società e cultura tra sviluppo e capitalismo.  Torino:  Edizioni Progetto, 1976

 

Torino che scompare 1929

Torino che scompare: l’Arsenale,  “Torino”, 9 (1929), n. 2, febbraio, pp. 91-93

 

Viale 1932

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte, in I  congresso Piemontese di Archeologia e Belle Arti, atti del convegno, (Cavallermaggiore, agosto 1932).  Torino:  Anfossi, 1932, pp. 158-161

 

Viglino Davico 1984

Micaela Viglino Davico, Benedetto Riccardo Brayda: una riproposta ottocentesca del medioevo.  Torino:  Centro Studi Piemontesi, 1984

 

Volli 1994

Ugo Volli, Il libro della comunicazione: idee, strumenti, modelli.  Milano: Il Saggiatore, 1994

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36

 

Zannier 1991

Italo  Zannier, Cento anni di fotografia Touring, in Fotografi del Touring Club Italiano, a cura di Elisabetta Porro.  Milano:  TCI,  1991, pp. 6-27

 

Zannier 1993

Italo  Zannier, Leggere la fotografia. Le riviste specializzate in Italia (1863-1990).  Roma:  Nuova Italia Scientifica, 1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La coda dell’occhio: Paolo Monti e la fotografia in Italia (2022)

Sommario

 

“Intenzioni fotografiche”   
Percorsi di formazione                                                     

Gli anni de La Gondola                                                                              

Le prime personali         

                                                            

Piccolo mondo antico                                                                 

“Fotografia inutile?”                 

                                                

“Non documento ma invenzione visiva”                            

Muri, Manifesti, Materie                                                          

Fotogrammi e chimigrammi                                                     

“Ritratti/ Artisti”                                                                          

A proposito di pubblicità     

                                                  

“Un certo Monti”                                                                          

Fotografare l’architettura contemporanea                        

La scultura                                                                                       

La pittura                                                                                          

I grandi architetti classici             

                                             

Storie,  luoghi, territori                                                                              

I censimenti emiliani           

                                                     

Note
Fonti archivistiche
Fonti bibliografiche

 

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“Intenzioni fotografiche”

 

Sulle pagine di un suo piccolo quaderno Paolo Monti registrava nel 1948 le proprie Intenzioni fotografiche[1], traendole in parte dall’edizione americana di “Popular Photography”; un chiaro indizio del ricercato, sistematico ampliamento dei suoi orizzonti culturali   e contemporaneamente della possibilità di accedere all’editoria straniera nella Venezia postbellica, quasi certamente per merito dei fratelli  Pambakian[2]. Le prime note riguardavano effetti di mosso e sfocato, cioè problemi espressivi e di linguaggio che molto avrebbe amato e approfondito nei decenni successivi. A  questi primi temi faceva seguito una serie di “soggetti fermi” da fotografarsi “con cavalletto e piccolissimi diaframmi”, tra i quali “vecchie porte e serrature (…) acciottolati (…) cortecce di vecchi alberi (…) grandi massi del Riale,” dei quali studiare il “peso architettonico delle varie forme – Ricordare le foto di Ansel Adams”. Seguivano poi indicazioni varie per la realizzazione di ritratti “con occhi completamente aperti e mossi” e “torsioni violente del viso”, che si direbbero poi non perseguite. E ancora: “gocce d’acqua su un cristallo” di volta in volta orizzontale o verticale e varie combinazioni di “sovraimpressioni” e “fotogrammi ottenuti per proiezione”.  Un elenco che mostra quanto le sue “intenzioni” fossero in quegli anni tanto eterogenee quanto sostanzialmente formali, anche per quanto riguardava  il confronto, importante, con la città di Venezia, da fotografare “a pelo dell’acqua (…) effetto di massa liquida omogenea mossa – con definizione del fondo (San Giorgio – Salute ecc.)”. Intenzioni  che avrebbe dovuto attendere almeno un lustro e un mutamento radicale di prospettiva per essere poste in atto. Almeno in questa preziosa fonte sopravvissuta (ma non possiamo sapere se vi fossero altri documenti analoghi, poi dispersi) non troviamo alcun cenno a una qualche possibile intenzione documentaria o narrativa della fotografia, così come il suo archivio risulta sostanzialmente vuoto di immagini che in un qualche modo – anche marginale – abbiano registrato i segni, gli eventi (o le loro tracce) del Ventennio fascista: quasi una rimozione se non proprio un’epurazione[3]. Del resto le pur ricche note biografiche fornite in più occasioni da Enrico Rizzi[4], che gli fu molto vicino e al quale si deve – con Giancesare Rainaldi – la costituzione dell’Istituto di Fotografia Paolo Monti, non offrono alcun elemento utile in tal senso.  Lo stesso dicasi per gli anni della Seconda Guerra Mondiale, trascorsi sempre in qualità di dirigente presso una società del gruppo Montecatini (nel quale era entrato nel 1936) nello stabilimento di Porto Marghera. Forse non in una raffineria, come si è detto altre volte, poiché il solo impianto di questo genere  era  di proprietà AGIP (già DICSA sino al 1934), ma più verosimilmente nella Società Veneta Fertilizzanti e Prodotti Chimici, ciò che renderebbe più comprensibile il successivo passaggio al ruolo di vice direttore del Consorzio Agrario Provinciale di Venezia nel 1945, proprio nei mesi (aprile, giugno, luglio) dei primi grandi scioperi di quel polo industriale.  Quali che fossero le ragioni di quel repentino distacco, il passaggio a Venezia si rivelò determinante in termini biografici, esistenziali. Il  1948 fu certo un anno per più versi cruciale sia  per la fondazione del circolo fotografico de  La Gondola (che segnava per Monti  il passaggio dal dilettantismo familiare, privato, alla pratica sociale del fotoamatorismo, certificata dalla prima pubblicazione di una sua fotografia su “Ferrania”[5],), sia per l’offerta culturale veneziana che in occasione della  XXIV edizione della Biennale d’Arte proponeva due mostre importanti come la retrospettiva di Picasso, presentata da Renato Guttuso  e quella dedicata alla Collezione Guggenheim, curata da Giulio Carlo Argan, nella quale erano esposte tra le altre  opere di Arshile Gorky, Mark Rothko e Jackson Pollock[6], mentre l’anno precedente a Milano, nella Sala delle Cariatidi,  si era tenuta la mostra Arte astratta e concreta[7], promossa  dagli artisti milanesi del gruppo Altana, che Monti potrebbe aver visto.

L’interesse per la fotografia pare si fosse manifestato per la prima volta in Monti ventenne[8] o ventiduenne (era nato a Novara nel 1908), a Venezia, “durante la notte del Redentore”[9], quando scattò le sue prime fotografie con una vecchia 3A Folding Pocket Kodak del padre Romeo, appassionato amateur. Venezia come destino verrebbe da dire facendo un poco di cattiva letteratura, ma il luogo della formazione fu per certo Milano, dove si laureò in Economia e Commercio all’Università Bocconi nel 1930 e rimase sino al 1934. In quel periodo  avrebbe quindi potuto vedere  la Mostra internazionale della fotografia curata da Antonio Boggeri e Luigi Poli per la V Triennale che si tenne nel maggio dell’anno precedente[10], la prima milanese, in cui accanto a fotografi stranieri provenienti da nove stati europei (Man Ray, Renger Patzsch,  Bayer, Maar e  Krull tra gli altri) esponevano quarantatre italiani tra i quali Balocchi, Bologna, Bertoglio, Leiss,  Peressutti e  Stefani[11].

Può quindi essere considerata  attendibile (pur con un qualche scarto cronologico) la testimonianza dello stesso Monti (1957) che collocava nel febbraio del 1934 la propria scoperta del fascino del formato quadrato e della fotografia modernista, vincendo anzi nel 1935 un premio al concorso indetto dalla società Ferrania, cui partecipò con alcune immagini scattate con una Rolleiflex da poco acquistata[12]. Se così è, devono essere retrodatate le sue prime fotografie note, dedicate proprio a Milano (tav. 003), realizzate ancora con la vecchia folding del padre e fatte sviluppare e stampare da Erberto Ruedi[13] o da G(iuseppe?) Mapelli. Solo l’ambiente veneziano avrebbe  poi offerto possibilità diverse: Silvia Paoli[14] ha ricordato una cartolina inviata a Mina Opizzi, legata a Monti dall’affettuosa amicizia di una vita, nella quale il fotografo scriveva di aver iniziato a stampare “il 31 maggio 1950”, smentendo così quanto avrebbe affermato nel corso di un’intervista concessa ad  Angelo Schwarz[15], nella quale assegnava quell’inizio al 1946, lamentando  anzi che allora “le conseguenze della guerra erano ancora pesanti e solo l’anno successivo furono disponibili materiali fotografici”[16]. In realtà sui portanegativi dei primi anni veneziani  compare più volte l’iscrizione “Foto Record/ San Marco 172 – Venezia / per Dott. Monti”, ciò che dimostra almeno che  la fase di  sviluppo era affidata al negozio dei fratelli Pambakian. Nel ricordo di Manfredo Manfroi “per stampare le centinaia di immagini che andava febbrilmente raccogliendo [Monti] si rivolse dapprima al laboratorio dei fratelli Mattiazzo, ma con risultati non soddisfacenti; la stampa era necessariamente di livello standard e non traduceva i ‘toni’ che Monti desiderava. La fortuita conoscenza dei Pambakian e degli altri di Fotorecord cambiò radicalmente le cose; per le stampe Monti si affidò a Bolognini[17] di cui aveva apprezzato la grande preparazione  e poi anche a Ferruccio Leiss”[18]. Nonostante la stima e l’ammirazione provata per questo “uomo solitario”, la sensibilità espressiva di Monti non poteva però corrispondere con quella di  questo maestro delle gradazioni intermedie: “Sono per natura, e forse per necessità psicologica spinto nella stampa fotografica a forti  contrasti dove il nero ha la sua parte, direi di rabbia. Leiss aveva capito, e quando gli diedi un negativo da stampare , malgrado le mie preghiere, mise tutto nei grigi, una musica di grigi. «Così va bene» mi disse gentilmente consegnandomi sorridendo la stampa. Aveva ragione, naturalmente, ma io non ne tenni conto e continuai con i miei neri, perché quello era il tono del mio vedere Venezia”[19]. Un nero che si poteva ritrovare però anche  in qualche notturno profondo nel libro di Leiss  dedicato alla sua città[20],  che nonostante le dichiarate differenze  doveva aver offerto a Monti non poche suggestioni.  In quella pubblicazione comparivano inoltre  alcuni  dei temi che avremmo ritrovato nella sua produzione: i riflessi dei palazzi sull’acqua,  le ombre portate che dialogano con la materia dei muri, le vere da pozzo[21], senza dimenticare che tra i suoi appunti di lavoro  ritroviamo anche le formule del rivelatore che  Leiss usava per i suoi “toni neri/ puri intensi”[22].  Accanto e più di Leiss sarebbero state però certe fotografie di Daniel Masclet a rivelare a Monti “per la prima volta, la bellezza del nero in una stampa fotografica”[23], poi confermata – anche come segno distintivo di un aggiornamento internazionale del gusto – dalle fotografie pubblicate sulle pagine degli annuari internazionali, specie statunitensi, oltre che da quelle raccolte da Steinert nelle prime due mostre della Subjektive Fotografie.  Alcune delle sue più precoci fotografie erano già caratterizzate da una composizione prospettica palesemente modernista (segno evidente di un aggiornamento non occasionale a quelle date[24], mentre quelle dell’amata Ossola (tav.004), come di altre località italiane, ormai ricavate dal 6×6, risultano molto accuratamente composte secondo le diverse  geometrie consentite e suggerite da quel formato,  ma – per certi versi – di più tradizionale impianto: quasi un ritorno all’ordine. Certo che il ricorso contemporaneo a due apparecchi  diversi sembra contraddire la considerazione retrospettiva di Monti a proposito del fatto che in quegli anni “il tempo della fotografia non [fosse] ancora venuto”[25].  Anche le fotografie riferibili con buona approssimazione a quel periodo sembrano contraddirlo: basti considerare le prime sfocature e Riflessi (tav. 005) o il gioco sottile dei Petali su fotografia (tav. 006),  che risalgono circa agli stessi anni, per comprendere come non ci fosse spazio alcuno per suggestioni tardo pittorialiste, affidandosi semmai alle specificità del mostrare fotograficamente, ciò  che suggerisce più di un legame con quanto andavano facendo  in quegli anni autori come Emmanuel Sougez (Fleurs et ombres chinoises, 1935ca),  Cesare Giulio (Dalia, 1932) e – a Milano – il coetaneo Franco Grignani (Fotogramma, flu [sic] oscillante (fiore), 1932)(tav. 008)[26].  Potremmo anche intendere questi esempi come testimonianza di tangenze occasionali, colte ex post dalla lettura critica, ma l’analogia tra la sfocatura (di ombre) di fiori di Monti (tav. 007),   e l’immagine di Grignani è talmente impressionante e puntuale, pur nella diversità delle tecniche adottate, da poter essere intesa almeno come segno della sua adesione a quel sentire nuovo che si andava appena diffondendo; senza dimenticare poi che proprio le sfocature sarebbero state per lui il tema ricorrente di una vita, assegnandogli addirittura lo statuto di “garanzia di autenticità”[27].  Non che tali fenomeni fossero del tutto assenti in certa produzione precedente:  basti pensare ad Aurora Umbrarum Victrix, 1930, di Stefano Bricarelli, o alla Pioggia d’ombre, 1933, di  Ferruccio Leiss e quindi di Giulio, o ancora  al loro utilizzo più aneddotico, con declinazioni  ‘romantiche’ da parte di Mario Bellavista (Tramonto, 1930)[28]; in ciascuno di quei casi però il riflesso e l’ombra non costituivano che una componente ‘astratta’ della scena e non – come accadeva in Monti – il tema principale della composizione, come mostra bene una fotografia quale Venezia, 1945-1950 (tav. 009 ): una piccola stampa ancora di formato cartolina, quindi realizzata con la folding paterna;  un’immagine molto potente e complessa dove l’ombra portata di un edificio sulla facciata di fronte costituisce la campitura  centrale e l’elemento principale della composizione; una fotografia che pur nella riconoscibilità dei suoi rimandi referenziali si rivela compiutamente astratta.

 

Percorsi di formazione

Il solo testo riferibile a quel periodo oggi conservato nella sua biblioteca personale, supponendo che ci sia giunta integra[29], è il manuale di Walther Heering, Le Rolleiflex: son principe, ses usages, ses avantages (1934), del quale Monti possedeva la seconda edizione, di tre anni successiva; il suo ‘primo’ libro fotografico forse.  Altro non troviamo. Nulla che ci possa orientare meglio nella comprensione di quegli anni formativi almeno sino all’Annuario Domus del 1943, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che è un bel segno di attenzione per la cultura fotografica italiana più contraddittoriamente in cerca di modernità. Considerando l’antologia di immagini lì pubblicate sembrano però poche quelle che avrebbero potuto interessarlo, delle quali  noi crediamo di trovare qualche traccia nelle sue fotografie (tav. 010). E sono Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti per i primi toni alti (tav. 011);  Solitudine di Giuseppe Vannucci Zauli per Donna di Pellestrina (tav. 012), ma soprattutto Casa a Ischia di Giuseppe Pagano[30], forse il richiamo più pertinente e più riconoscibile nelle fotografie delle architetture minori lagunari della fine degli anni Quaranta (tavv. 013, 014) e nella serie dedicata a Procida nei primi anni Settanta (tav. 215). Scelte eterogenee in quanto a poetica e soluzioni narrative, orientate ancora in direzioni diverse e magari divergenti. Sono testimonianze di un percorso di messa a punto dei propri mezzi espressivi che doveva essere particolarmente sensibile alle Considerazioni di Ermanno F. Scopinich[31] che aprivano l’Annuario, nelle quali auspicava che il  fotografo lasciasse “che la fotografia crei, sfrutti tutti i suoi mezzi ottici e chimici nella ricerca di nuove espressioni della forma e del colore”, accompagnate però dalla constatazione amara che “il fotografo italiano [e la sottolineatura era determinante] si dedica malvolentieri alla ricerca tecnica, sente ancora troppo poco la necessità della preparazione in questo campo.” Erano i temi intorno ai quali si dibatteva in quegli anni sotto l’egida dell’estetica crociana. Così  Alex Franchini-Stappo e Giuseppe Vannucci-Zauli in quello stesso 1943 ricordavano che “si tratta di stabilire se esistono  valori estetici in fotografia e quali siano. (…) in ogni vera fotografia deve essere l’illuminazione che parla, che esprime in primo luogo: l’oggetto fotografato un semplice sostegno materiale (scelto con riferimento al tempo) che permette alla luce di concretarsi in forme diverse che saranno la creazione del gusto e della fantasia dell’artista”[32]. La risultante “unità estetica” era data dal convergere di quegli elementi (illuminazione, momento, resa – intesa come “unità di stile”) che “non potrebbero esistere l’uno separato dall’altro, [e che] sono intimamente connessi l’uno con l’altro”.  A questi concetti si rifaceva  anche Il bello fotografico, 1945, firmato dal solo Vannucci Zauli, nel quale si  affrontava la questione del “documentario fotografico”, quello in cui “l’espressione dell’immagine non è legata a questi valori”, chiedendosi poi “se vi può essere il documentario artistico ed in cosa si distingue dal bello fotografico”, per giungere a questa conclusione: “Si dovrà perciò opporre al documentario non la fotografia artistica bensì la ‘fotografia’. Un’immagine potrà considerarsi fotografia (…) quando la tecnica usata, qualunque essa sia, ed il soggetto, si risolvono apprezzabilmente nei tre valori specifici nei quali viene a concentrarsi, se l’opera è riuscita, la sintesi: soggetto (l’artista), oggetto (fotografato), che è l’essenza del’arte. Nella fotografia documentaria invece, se un certo valore artistico vi è, esso non può essere che quello proprio della situazione che documenta”[33].

Come si è detto nella biblioteca di Monti non ci sono  (non c’erano ?) né l’Introduzione per una esteticaOtto fotografi italiani d’oggi, una raccolta che prefigurava gli orientamenti del gruppo fotografico La Bussola e che comprendeva  fotografie di alcuni dei suoi  futuri membri come Balocchi, Cavalli, Vender, Leiss e Mario Finazzi che ne fu il curatore. Ci sono invece le prime (e uniche) tre cartelle della collana “Immagini”, diretta ancora da Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, dedicate rispettivamente a  Giuseppe Cavalli, a Federico Vender e al tema delle Montagne,  con immagini di tono alto di Cesare Giulio, Antonio Piccardi, Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e Finazzi stesso[34]. Quasi un manifesto di quella fotografia chiara, luminosa, in tono alto[35], segnata da una grande attenzione per la geometria della composizione, che sarebbe stata la sigla stilistica dei “bussolanti” e che rispondeva pienamente alla poetica espressa nell’Introduzione per una estetica, per la quale, infine,  “l’oggetto fotografico deve essere un semplice sostegno materiale, un pretesto per creare una forma fotografica”[36], così anticipando le dichiarazioni programmatiche del Manifesto de La Bussola[37]. Erano quelle posizioni, quella  vera e propria genealogia[38] che sembrano perimetrare l’operare di Monti in quegli anni di direzione incerta, tra esercizi formali quasi calligrafici e interpretazioni delle architetture della Laguna, con immagini già in perfetto equilibrio tra geometrizzazioni di solidi volumi e fascinazioni della materia delle superfici che poco avevano in comune con la produzione di Cavalli e Vender. Fu  semmai Ferruccio Leiss a costituire  un riferimento, se non proprio un modello, anche se lo stesso Monti ricordava di aver visto “le sue prime fotografie nel 1948 quando a Venezia stava per nascere il gruppo La Gondola”[39], quindi in un momento seppur di poco successivo[40]  e quasi conclusivo di quella fase ricca di stimoli e suggestioni che furono i primissimi anni del secondo dopoguerra, quando  “dopo un anno di residenza a Milano, tornai a Venezia nel 1945 e incominciai a interessarmi della fotografia”[41].   Nell’interpretazione di Paolo Morello, “a Venezia, tra il 1948 e il 1949, Monti è rimasto a baloccarsi con vedutine da dilettante (…) [ma] è qui che comincia ad organizzare in modo nuovo lo spazio del fotogramma, a ricomporre i segni della città attraverso geometrie del tutto intellettuali.(…) È questa scoperta, all’inizio, della geometria come chiave di una decifrazione allegorica, come traccia visibile di un universo spaesante, a condurlo fuori dalle secche dell’impressionismo amatoriale”[42].

Sono gli anni che portarono alla costituzione del Circolo fotografico La Gondola e alla redazione di quelle  Intenzioni fotografiche che costituivano un primo schema di ricerca, quasi didascalico, fotoamatoriale, già  orientato però verso la  fotografia come specifica modalità espressiva: fotografia sulla fotografia quindi. Non sarà un caso allora che tra i suoi libri fosse presente anche Vision in motion di Lazlo Moholy-Nagy, pubblicato postumo giusto nel 1947[43]; un  libro bellissimo e pieno di suggestioni che dovette essere determinante per la sua formazione e per indirizzare molte delle sue scelte successive, dalla fotografia di architettura ai fotogrammi. Soprattutto direi che per Monti poteva essere importante quanto emergeva da tutto il volume, vale  dire la necessità di dotarsi di un metodo nella conduzione delle proprie ricerche, dalle sperimentazioni con gli sfocati, i mossi, il colore sino alle più tarde campagne documentarie sui centri storici. Le indicazioni dovettero però essere anche più immediate se proprio nelle Intenzioni comparivano spunti di ricerca che rimandavano direttamente al libro di Moholy-Nagy  (“negativo usato come positivo – fotogrammi ottenuti per proiezione”), nel quale era presente anche Billboard, 1941, di Frank Levstik: un manifesto corroso, trasformato in materia, pubblicato a piena pagina[44].

Riferimenti bibliografici e appunti personali di quel periodo rimandano a una ricerca formalista per larga parte contraddetta da altri  lavori coevi, tra fotografia umanista alla francese e neorealismo nostrano; segno evidente di quello che non possiamo non riconoscere come un periodo di (dis)orientamento, aperto a direzioni contrastanti. Ipotizzando che le date siano corrette, nella produzione di quegli anni convivevano infatti  i toni alti  di una fotografia come Controluce n. 13, 1948-1948, (tav. 015), che pare influenzata da Gino Bolognini più che dai formalismi de La Bussola, ai quali potremmo semmai riferire Conchiglia, 1948-1949 (tav. 016)[45], con le atmosfere rarefatte, dove gli “aspetti del reale si mutano quasi in immagini fantastiche”[46] di Ghetto nuovo, 1950 (tav. 017) e di Venezia: lo spazio notturno. Luna Park sul campo di Ghetto novo, 1951 (tav. 018), che richiamano alcune prove di Luigi Comencini o di Giuseppe Vannucci Zauli pubblicate nell’Annuario del 1943[47] e sembrano esemplificare proprio quello che Stappo e Zauli chiamavano il “Momento” (già quasi “decisivo”) ovvero quella “determinata fase del divenire del soggetto trattato [dove] lo Sviluppo nel Tempo  di esso viene considerato in funzione estetica”[48]. Appare invece incommensurabile la distanza con  le rivelazioni di Occhio quadrato, 1941, di Alberto Lattuada (incredibilmente, forse ideologicamente assente dall’antologia del 1943)  che pure usava il formato 6×6.  Troppo lontane, o forse solo incerte le posizioni di  Monti da quelle espresse dal futuro regista, che nella Prefazione chiariva come quello fosse  “il necessario momento di tornare ad esporsi in posizioni indifese, di abbandonare, sia pure per breve tempo, il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile, di rompere il guscio che fa da custodia a un preteso determinato modernismo e rinnovare il flusso d’amore che muove gli uomini verso l’unità” [49].  E ribadiva in chiusura: “Mi domando se sia il caso di ripetere che la fotografia è documento, è l’istantanea rivelazione della vita, è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale”.

Gli anni a cavallo del 1950 furono per  Monti  “l’inevitabile periodo delle domande e degli incerti tentativi”[50], delle oscillazioni del gusto quindi,  se possiamo immaginare che Trasparenze vivesse delle stesse suggestioni di Controluce n. 13 (un titolo tipicamente fotoamatoriale) o che in Livigno (tav. 019) avesse rimeditato le suggestioni offerte da Sul limite dell’ombra di Cesare Giulio  (tav. 020), l’autore a cui era stata dedicata una piccola sezione postuma (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) alla Prima Mostra Internazionale Scambi Occidente che si tenne a Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, dal 10 al 26 settembre 1949, alla quale Monti partecipò a titolo personale proprio con Trasparenze (n. 176) e Inverno ad Anzola  (n. 175), già presentata (n. 141) a giugno alla Prima Mostra Nazionale organizzata dalla FIAF nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[51]. Altri soggetti avevano caratteri più descrittivi, prossimi al modello TCI incarnato in quegli anni  da  un autore prolifico come Bruno Stefani; mi riferisco a Alpe di Siusi, della quale possiamo vedere il foglio di provini (tav. 021), una fotografia che forse non per caso  venne premiata a un concorso ENIT-Ferrania[52]. Al Giuseppe Cavalli di Gioco di grigi, 1948, rimandava esplicitamente (e citava quasi letteralmente) una delle Forme conservate in archivio, mentre altre prove della stessa serie (tav. 022) o Composizione con foglie e conchiglia,  1945-1950 (tav. 023) erano esercizi tonali tutti giocati su di una calligrafica composizione di forme che non rinunciava però a restituire la materia delle cose, delle superfici toccate dalla luce, mettendo in gioco quindi anche un primo conquistato virtuosismo tecnico nello sviluppo e nella stampa dopo la stagione delle collaborazioni (a volte insoddisfacenti) con gli amici fotografi veneziani; prove che sembrano tener conto dei lavori di  Emmanuel Sougez, tra i fondatori di Le Rectangle e poi del Groupe des XV, due dei sodalizi francesi più influenti sullo scenario italiano di quegli anni[53].  Altri riferimenti ancora si possono individuare in fotografie quali Il carrettino (tav. 024) , Giochi sulla neve o Zero gradi, 1951 (tav. 025)[54],  che  si affidavano alla consueta grammatica dei toni alti ma con un trattamento del soggetto e una sintassi che sembrano costituire una riflessione ulteriore sul postpittorialismo modernista di Cesare Giulio. Ma per Monti ( e sorprendentemente per noi) quelle fotografie avevano un significato metaforico: “Credi forse che un mondo più pulito non mi piacerebbe? Le uniche mie fotografie pulite sono quelle di neve e a queste va la mia simpatia”[55], scriveva a Ferruccio Ferroni nel 1954  e poi ancora , pochi mesi dopo:  “Ho poi stampato una lunga serie di negative di foto invernali che giaceva da almeno due anni negli archivi. Viste ora mi piacciono molto, sono ormai decantate e l’occasione dalle quali sono nate è talmente lontana che nessuna delle creazioni di allora è ancora viva, così che il loro valore attuale non può subire influenze personali”[56].

Su di un fronte che diremmo esteticamente opposto si collocavano Le astrazioni involontarie, 1950 ca, (tav. 026)[57] che non si direbbero tanto mediate dal movimento della Subjektive Fotografie quanto legate a suggestioni che provenivano direttamente dalle avanguardie storiche, mentre il titolo richiamava (se non rimandava) a quelle che negli stessi anni erano definite “astrazioni della natura”[58] da un autore come Minor White, che Monti avrebbe potuto considerare con un certo interesse. Immagini particolarmente felici e certo innovative per il panorama nostrano di quegli anni, che guardavano a  Man Ray [59] e –  credo – ancora più esplicitamente a Moholy-Nagy[60], ma che qui interessano ancor più per quel titolo (insistito, adottato più volte) che sembra sottolineare la (ontologica) contraddizione in termini della fotografia cosiddetta ‘astratta[61]’, ma anche  indicare un preciso programma di ricerca, un atteggiamento (fotografico) verso il mondo  se non proprio una poetica, che era quella dell’immagine ricercata e trovata, più di rado costruita in studio, com’era Composizione con metro metallico, 1949[62] (tav. 027), che si provava a coniugare geometria e materia delle superfici: una questione  che diremmo centrale per la ricerca di Monti in quel periodo.

Anche nella serie dedicata a Meme (alias Maria, Mariel, Maris, Muriel, Ingrid, Sonja ma anche Cinderella: un vero e proprio harem immaginario), insomma alla nipote Maria Elvira Cocquio, figlia di Carlo e di Augusta Binotti, sorella di Maria moglie di Monti, avviata quando era ancora bambina (nel 1944), negli anni della guerra, come una speranza, e proseguita sino ai primi anni Sessanta, le suggestioni, le prove, le soluzioni muovevano in direzioni diverse (e non sempre compiutamente controllate[63]), oscillando tra le riprese quasi da album ricordo delle prime prove e l’assunzione di una precisa funzione di modella da parte della ragazza (che compare quindi anche in fotografie non propriamente di ritratto, cfr. Uragano, Almanacco 1956),  specie a partire dai primi anni veneziani del fotografo, quando molti dei ritratti (termine da intendersi qui in una accezione molto ampia)  erano ambientati nella soffitta della casa ai Santi Apostoli (tavv. 028, 029), che fu anche il  luogo privilegiato dell’apparizione  ‘metafisica’ di una Venere in soffitta, 1950 ca, (tav. 031) che va letta in continuità con alcune riprese di Meme. L’insieme delle fotografie della nipote, distribuite lungo quasi un ventennio, “fatte anno per anno dai sei ai ventiquattro anni”[64], presentano una vasta e  variegata gamma di situazioni ed espressioni (tav. 030), ma in quelle del periodo adolescenziale si possono individuare almeno due serie anche psicologicamente distinte, ciascuna segnata da una precisa scelta tonale: nella prima – con ampi spazi concessi a un erotismo forte per quanto trattenuto – le immagini sono solari, chiare quando non addirittura in tono alto, e si presentano esplicitamente come ritratti non immemori del primo Weston pittorialista, mentre le seconde sono scure, inquietanti (ricordano le prove migliori di Maurice Tabard e di André Boiffard, tav. 034), con la figura vista attraverso un vetro deformante, irriconoscibile nella sua identità di persona (tav. 032) I titoli confermano a loro volta questa intenzione onirica e perturbante di ispirazione surrealista richiamando una  2a apparizione in un vetro del ‘700[65], ma anche offrendo un esplicito Omaggio ad E. A. Poe, 1950 (tav.033)[66]. Nessuna di queste suggestioni sarà però presente (o anche solo suggerita) nella prima occasione importante di pubblicazione di alcune immagini della serie, il portfolio sulle pagine di “Camera” dell’ottobre 1956, rispetto al quale in un primo tempo Monti aveva espresso alcune perplessità, poiché avrebbe preferito “essere presentato (…) come avvenne per Roiter con una scelta di fotografie varie dal ritratto al paesaggio, con particolari di natura, alberi ed altro e con qualche scena italiana che lei vide. Il fatto è che ad eccezione dei ritratti di Mariel io non so come lei ha valutato la mia opera di fotografo e questo mi mette in un certo imbarazzo anche per la serie dei ritratti  essendo io sensibilissimo a queste situazioni di incertezza. Non vorrei passare per il fotografo di un solo soggetto o meglio di una sola ragazza!!”[67] La pubblicazione su di una rivista così prestigiosa era “cosa talmente rara ed importante” e la scaletta del numero così interessante che Monti si prese qualche giorno di vacanza nella casa di Anzola d’Ossola, paese d’origine della famiglia, per scrivere l’articolo: “lunedì le spedisco le foto e lo scritto a Lucerna, massimo martedì perché dovrei stampare ancora due piccole foto della ragazza di molti anni fa che sono le prime della serie, quando ero un semplice schiaccia bottoni.”  Le immagini vennero così corredate da un ampio testo dell’autore e da un commento di Romeo Martinez,   che parlava di  “poétique du souvenir”, ricordando come  “le variazioni nel tempo su di un unico soggetto qual è  la serie dei ritratti di Mariel costituiscono un atto fotografico la cui realizzazione testimonia concetti visivi e segue da vicino l’evoluzione di un fotografo che teniamo in grande considerazione”[68].  Era proprio il testo di Monti a sottolineare il senso di indagine concettuale sul trascorrere del tempo di quel suo lavoro, richiamando la rivoluzione culturale determinata dalla fotografia in questo sforzo immane (e inane) di “dominarne il corso o almeno di rallentarne la marcia”.  Escludendo e quasi allontanando perentoriamente da sé ogni coinvolgimento (auto)biografico Monti presentava quel suo lavoro su (con) Mariel come “un’affettuosa testimonianza di quei momenti di ineffabile attesa; [lo] studio fotobiografico di un volto femminile e dei suoi aspetti nel tempo. Un po’ come un paesaggio di cui si fossero fotografate le variazioni stagionali in momenti e con luci diverse”[69]. Così posta, la vicenda biografica ridotta quasi a pura registrazione sembrava riguardare la modella e non lo sguardo voyeuristico del fotografo zio, che ne usava almeno per mettere alla prova le proprie capacità, espresse in diverse tonalità narrative. Una rimozione che Berto Morucchio pareva aver ben compreso quando riconosceva che l’oggetto della ripresa costituiva una “rivelazione – per via fantastica – del soggetto stesso” [70], cioè dell’autore.  Una rivelazione che Giuseppe Turroni  avrebbe colto nel momento in cui vedeva quei ritratti come “percossi da uno spirito corrosivo”, suggerendo infine che  “Monti scopre Venezia e Meme non è che un volto di questo tenero mistero”[71].  Un’interpretazione intrigante ma velata da una qualche omissione nel momento in cui non riconosceva il legame affettivo, parentale tra i due.  Una lettura che per molti versi risultava più semplicistica e superficiale di quella offerta solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”, quanto aveva riconosciuto che “Venezia è stata una tappa, una vita per Monti (…). Tentò, mi pare, un connubio tra impressionismo e astrattismo. Ne sortì, più tardi, una Venezia chiusa nella sua dolcezza dolente, nella sua mesta teatralità (Venezia è teatro, nelle strade nei gatti e nei volti biondi delle donne), quasi spenta, ristretta a un decadentismo che non era crepuscolare, non era romantico, non era quello della «morte» di Mann, non era, tanto meno, ‘italianisant’. Qualcosa, in Monti, aveva funzionato segretamente. La marcata tristezza ‘autunnale’ di Cardarelli aveva dato buoni frutti.” E qui tornano alla mente – quasi un ritratto per analogia – le parole che Portoghesi[72] dedicò alla venezianità di  Carlo Scarpa a pochi mesi dalla morte: “Venezia era per Scarpa un modo di guardare e di usare, un modo di connettere le cose tra loro in funzione di valori di luce, di tessitura, di colore, coglibili solo da un occhio abituato ad osservare (e osservando misurare) acqua, vetro e insieme pietre e mattoni esposti a una atmosfera inclemente che non consente alla materia di nascondere la sua struttura ma continuamente la costringe a scoprire, consumandosi, le proprie qualità più segrete.”  “Il mio destino di fotografo  – ebbe a dichiarare Monti – deriva dal fatto di essere venuto a lavorare a Venezia” e di aver compreso che la città non era ancora stata “vista in modo nuovo, in modo più che nuovo, in un modo intimo, in quello che ha di migliore”, perché gli autori che si erano misurati con quella città “non avevano visto certe cose”[73] che lui vedeva.  Forse però non di ‘cose’ si trattava, ma semmai di modi perché già nella Venezia dei primi anni Quaranta non solo Leiss aveva guardato alle presenze meno monumentali e – in ambito specificamente architettonico – Egle Trincanato aveva riportato per prima l’attenzione sulla Venezia minore[74], ma soprattutto Francesco Pasinetti[75] l’aveva raccontata ormai anche con la fotografia, rivolgendosi ad “alcuni aspetti, ignorati dai più, degli angoli più modesti e della vita popolare”, ampiamente illustrati nella monografia che il Touring Club dedicava a Venezia e la sua laguna giusto nel 1947, “in questa inquieta alba di pace che stiamo vivendo, tra il dolore delle passate  sventure e le trepide speranze di rinascita”[76]. Non solo la città però, come indicavano Laguna di Torcello (tav. 002)  e le successive Venezia, muro con bolzone, 1950 ca (tav. 014) e Pellestrina, 1950 ca (tav. 013), più direttamente orientate a una lettura per masse dell’architettura vernacolare delle isole, così come accadeva per le più tarde Porta murata  e Architettura lagunare, pubblicate su “Ferrania” nel 1955, mentre in Venezia, 1950 ca  e in Pellestrina. Laguna di Venezia. Muro di casa di pescatori, 1950 ca (tav. 035 )  si rivelava già matura quell’attenzione per la matericità delle superfici murarie che sarebbe stata  oggetto di importanti lavori successivi come Muro veneziano: disegno su un manifesto distrutto, 1950ca  o Muro con scritte, 1950 ca (tav. 036), dove risultano più marcate le suggestioni pittoriche provenienti dalle coeve ricerche informali, senza dimenticare i primi graffiti di Brassaï [77]. Di tutt’altra tonalità emotiva e conseguente trattamento stilistico una fotografia degli stessi anni come Reti e barche, 1948-1949  (tav. 037), che si potrebbe intendere come una prova tardo pittorialista giocata tutta sui toni alti, o la più veristica Chiatta (tav. 038), dove le nebbie lagunari che rendevano evanescenti figura e paesaggio costituivano pur sempre un dato di realtà. Dirompente, a loro confronto, e certo inattesa una prova come Venezia, 1950 ca (tav. 039[78];  uno spazio sventrato, un passaggio continuo esterno, interno e ancora esterno formato da una serie di inquadrature concatenate, racchiuse dalla materia sbrecciata dei muri, restituita per forti contrasti tonali, che deve certamente essere posta in relazione con Muro a Treviso, del 1947 (tav. 041); immagini  che – con poche altre[79] (tavv. 042, 043) – sembravano almeno fare i conti con le memorie della guerra. Per Monti, così come per la gran parte dei suoi compagni di strada, la tragedia che avevano appena attraversato non aveva lasciato tracce visibili nelle loro fotografie: si lavorava al presente e sul presente, non di rado estranei alla contingenza storica.

Se torniamo ad aggirarci per la sua biblioteca vediamo che al momento della fondazione de La Gondola i suoi acquisti, le sue letture erano quasi esclusivamente di manualistica tecnica e di genere,  orientate nei più diversi settori: dalla fotografia naturalistica  a quella pubblicitaria e di architettura[80]. L’aggiornamento culturale pare fosse demandato alla consultazione degli annuari che ereditavano la gloriosa tradizione di “Arts et Métiers Graphiques”, come Photographie 1947, che conteneva una fotografia di Brassaï (tav. 58) che potrebbe averlo interessato;  il ginevrino  Photo 49,  per certi versi il corrispettivo svizzero dell’Annuario di Domus del 1943, ma anche il  Photo Almanach Prisma 1948, più prossimo alla manualistica fotoamatoriale. A questi può essere accostato Photography and the art of seeing, che offriva numerosi esempi di fotografia modernista (Man Ray, Brassaï, Kertész, Laure Albin-Guillot, Sougez, Schall, Pierre Boucher) e prefigurava per certi versi quello che sarà identificato come  il “momento decisivo” alla Cartier-Bresson: “Né dobbiamo trascurare il fatto che il successo dell’operatore dipende in gran parte dall’aver scattato nel momento culminante della scena. Non si tratta però di un caso fortuito, ma di una capacità artistica che è il risultato di uno sforzo sintetico” [81]. Qualcosa  che nulla però avrebbe avuto a che vedere con la fotografia di Paolo Monti, che anzi ricordava semmai di essere stato a suo tempo molto attratto dalla “grande ondata del realismo assoluto, del neo-oggettivismo tedesco (…) un tipo di fotografia molto esatta, molto precisa, molto secca; un po’ la fotografia tremendamente a fuoco, incisa fino all’ultimo come quella di Weston”[82]. Alla manualistica, seppure d’autore[83], si affiancava in quegli anni una scelta eterogenea di titoli che spaziavano dalla fotografia umanista di Izis [84] a quella animalier di Ylla[85]; da La France de Profil di Claude Roy e Paul Strand, a Subjektive Fotografie di Otto  Steinert[86], che scavava nella più stretta contemporaneità, esattamente come faceva – sempre nel 1952 –  il numero monografico di  “Art d’aujourd’hui” dedicato alla fotografia. L’intento del  curatore  Paul Etienne [Paul Sarisson][87] era “di presentare […] in una Rivista per la difesa dell’arte non oggettiva, un’immagine che vorrebbe essere originale e che rispecchi fedelmente le possibilità attuali della fotografia al di fuori di certe ‘ricette’, come le sovrimpressioni o i fotogrammi, che pretendono di esprimere la soggettività con mezzi un po’ troppo facili[88],  ponendosi quindi in contrasto con una parte non secondaria di ricerche espressive della Subjektive, sebbene poi in quelle pagine trovassero ospitalità anche un muro di Masclet[89], movimenti di luce di Steinert, un oggetto ‘astratto’ di Bourdin e soprattutto la copertina di Denis Brihat a cui Monti deve aver guardato con un certo interesse. Di certo importante per la sua formazione fu il confronto con i lavori di Daniel Masclet, che dopo una prima stagione tardo pittorialista si era avvicinato alla poetica di Weston e poi progressivamente alla fotografia soggettiva. Masclet  compariva anche in un prezioso volume che attualmente brilla per la sua assenza dalla biblioteca di Monti, Il messaggio dalla camera oscura, scritto da  Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato a  Torino nei primi giorni del 1950. Frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi e costituì la prima vera sintesi storiografica prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti, sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo.  Come già in Film und Foto[90] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. “Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo” dichiarava Mollino, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sulla verifica stringente dei rapporti tra la fotografia e la cultura visiva in generale, e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[91], si mostrava sprezzante (ma “senza polemica”) nei confronti della produzione di quei fotografi che  imitavano in ritardo proprio quelle soluzioni tecniche ed espressive che gli stessi primi utilizzatori avevano da tempo abbandonato: “ Solarizzazioni alla Man Ray, chiarità di toni […] cominciano ora a imperversare” [92] scriveva, così che nessuna immagine dei bussolanti (che pure costituivano la ‘novità’ della fotografia italiana di quegli anni) fu compresa nel repertorio.

Tra i titoli dei primissimi anni Cinquanta posseduti da Monti spiccano per la loro eccentricità di argomento due testi di grande e diversa importanza  come Apologia della storia, 1950, di  Marc Bloch e  La scoperta del bambino, 1951, di Maria Montessori, ultima edizione di un testo pubblicato  per la prima volta nel 1909. Il saggio di Bloch, un  classico della riflessione storiografica  del Novecento,  costituisce per noi un indicatore prezioso dell’interesse non sporadico né superficiale di Paolo Monti per la storia e la storiografia, in una accezione che non è difficile riferire alla scuola delle “Annales” e più direttamente a Lucien Fevbre. Basti a questo scopo leggere quanto diceva a proposito delle fotografie che “possono essere documenti” nel corso dell’intervista concessa ad Angelo Schwarz nel 1978,  precisando immediatamente che “quando diciamo che la fotografia è documento il più delle volte crediamo di dire qualcosa di preciso [ma] c’è molta ambiguità in queste descrizioni (o definizioni?) (…)  Il documento allora, è la registrazione importante di una cosa a  cui noi siamo ancora interessati”, e poco oltre – quasi a voler chiarire ulteriormente  – richiamava il proprio interesse, la fascinazione esercitata dalla “bellezza di certe pietre come quella d’Istria che resiste attraverso i secoli, ma ci dice che gli uomini ci hanno camminato sopra e magari tanto l’hanno toccata con le mani che vi hanno lasciato i segni. E le scritte sui muri, la qualità di quei muri, le parti rovinate.”[93] Considerazioni riprese in uno scritto dell’anno successivo[94] che conteneva un’importante riflessione sullo statuto dell’immagine fotografica: “Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza (…) siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.” Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli. Un ‘documento’ nel quale la restituzione analogica del referente è inestricabilmente segnata da connotazioni sociali, storiche, culturali e non per ultimo tecnologiche, che concorrono a dare forma alla rappresentazione del reale, assegnando un senso più ricco e complesso al contenuto stesso[95].  La fotografia, una fotografia nutrita di suggestioni formali e materiche si rivelava essere lo strumento, quasi  un metodo storiografico per la comprensione delle culture di un territorio come quello che si rivelerà nelle grandi campagne documentarie della fine degli anni Sessanta, complice  (e regista) Andrea Emiliani, che a proposito  di Monti, parlava di “un grande disegno storiografico” [96] che avrebbe illuminato l’opera del fotografo nella seconda parte della sua vita. La presenza,  inattesa, de La scoperta del bambino potrebbe invece essere legata a un qualche tragico (e a noi ignoto) fatto biografico di Monti[97] se consideriamo che sono dello stesso anno La morte è una bambina (tavv. 047, 048), realizzata nel piccolo cimitero di Anzola d’Ossola, e  la serie comunemente nota come Angelo a Venezia (tav. 049)[98]. Immagini esplicitamente dolenti e tragiche quali non si ritrovano altrove nel lavoro del fotografo e consentono almeno di formulare l’ipotesi  che fossero originate da drammi esistenziali, rendendo meno convincente – per quanto legittima –  la lettura che le riconduceva alla  interpretazione montiana di Venezia come “figlia del terrore di gente in fuga disperata per la salvezza”[99].

Nel 1952  Monti aveva acquistato – come si è visto –  la prima antologia di Subjektive Fotografie, che proponeva certo riferimenti e modelli che furono importanti per orientare la sua produzione successiva, ma può essere interessante notare qui che molti dei presupposti di quel ‘movimento’  si ritrovavano già esplicitati in Perché fotografo. Come fotografo, 1948, di Mario Bellavista, Capo ufficio pubblicità e stampa in Montecatini negli stessi anni in cui vi lavorava Monti, che gli era quasi coetaneo[100]. Il libro (non presente nella biblioteca di Monti) era stato scritto nel 1947 (cioè l’anno de La Bussola) ma raccoglieva e sistematizzava riflessioni e proposte anticipate da lungo tempo sulle pagine di “Galleria” (Concetti per fotografi moderni, 1934-1936). Nel ricostruire la sua vicenda ‘artistica’ Bellavista indicava quali fossero i Nuovi orientamenti. Dal pittorico al fotografico, dai passaggi obbligati agli schemi liberi che potevano suonare ancora validi nel 1947-1948: “Libertà assoluta del soggetto (…) Libertà assoluta nella maniera di ritrarre il soggetto (…) Libertà assoluta nell’interpretazione personale (utilizzazione di qualsiasi mezzo, perfino delle manchevolezze tecniche negli strumenti e nel materiale fotografico, per conseguire l’effetto estetico più idoneo a rappresentare la sensibilità personale (…); Sintetismo (tendenza a esprimere con immagini di pochi segni nell’intento di conferire una nuova e maggiore potenza espressionistica al soggetto (…); Apologia del moto quale nuova bellezza (…); Surrealismo (…); Il soggetto in funzione realizzativa di visioni elaborate dallo spirito (…); Sincerità intenzionale (…); Contribuire a formare un nuovo volto alla fotografia (… ) favorire tutto ciò che consentisse alla fotografia di assumere caratteristiche proprie chiare, definitive, inconfondibili.”  Certo c’era di tutto e di più, comprese vaghe e generiche suggestioni dai diversi ismi delle avanguardie di inizio secolo, ma quel richiamo insistito alla “libertà assoluta”  era una indicazione importante e certo orientata a sollecitare la soggettività del fotografo, specie se confrontata col dogmatismo del Manifesto de La Bussola. Fotogrammi e solarizzazioni si accompagnavano in quegli anni alle indagini intorno alle possibilità espressive di quelle che nelle sue Intenzioni fotografiche  aveva chiamato  “istantanee lente”[101],  alcune delle quali – formalmente prossime a certe prove coeve di Franco Grignani[102] – sarebbe state utilizzate come copertine per “Domus” diretta da Gio Ponti[103] . Come avrebbe chiarito lo stesso Monti in un breve testo coevo[104], “è appena il caso di dire che parlando di natura morta non ci limitiamo al suo significato pittorico, ma intendiamo anche ogni genere di composizione ove entrino elementi siano o no tradizionali per giungere sino alla completa assenza di ‘oggetti ‘reali’, cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”. Un pensiero chiaro, una riflessione che all’epoca non riusciva a trovare interlocutori adeguati, viziata da disarmanti semplicismi dilettantistici[105] o apertamente polemici[106], mentre veniva riconosciuta (anche nei suoi esiti materiali, nelle opere) da un critico attento come  Berto Morucchio, che definiva “la sua evoluzione estetica (…)  come una dialettica, tormentata ma definita, dal naturalismo all’espressionismo, con vissute parentesi non oggettive (manifeste soprattutto nei fotogrammi e nelle esperienze espressive ‘sul particolare’)”[107].

Questa dialettica è ben riconoscibile nelle opere pubblicate o esposte in quell’arco di tempo[108], ancora prevalentemente orientate alle diverse accezioni del figurativo, con rare presenze di fotografia ‘sperimentale’[109], sebbene – come sempre in Monti – il confine fosse volutamente labile,  con le diverse “Astrazioni involontarie”, ritrovate e reinventate, a fare da cerniera, senza poter escludere che quella scelta prudente fosse anche la manifestazione di un segno – come dire – di sfiducia nelle possibilità di comprensione e accoglimento del mondo amatoriale, che certo guardava a lui ma al quale altrettanto lui si rivolgeva, trovando semmai più adeguato spazio sulle copertine di “Domus”. Monti lavorava caparbiamente  sulla fotografia con la fotografia, ma nelle occasioni pubbliche, compreso il suo affacciarsi sulla scena internazionale, pareva affidarsi a più rassicuranti soggetti. Non è dato per ora conoscere nel dettaglio  quali fossero quei quaranta “lavori anche professionali” spediti alla George Eastman House di Rochester nel 1957 su invito di Minor White, che dovevano comprendere però un vasto campionario della sua produzione, “dal ritratto ai fotogrammi passando per il paesaggio e le scene di vita italiana”[110] . È invece certo che delle tre opere selezionate  per la mostra del decennale curata da Beaumont Newhall nel 1959, due appartenevano al genere del  ritratto e vennero collocate nella sezione intitolata “Equivalents” (con esplicito richiamo a Stieglitz) che era definita dal curatore sulla base della potenzialità della fotografia di essere letta metaforicamente,  come un simbolo che può avere la capacità di “attivare un flusso di coscienza”[111].

Considerando la sua produzione di quegli anni, segnati dal passaggio al professionismo di cui diremo, e soprattutto pensando all’insieme delle opere presentate in pubblico, risulta tanto necessario quanto difficile porsi il problema delle influenze dirette e indirette, che appaiono altrettanto complesse e variegate. Certo l’esempio de La Bussola, non tanto in termini formali (se non sporadicamente) quanto di rivendicazione del valore autonomo della fotografia; poi i modelli internazionali, in un arco tanto ampio da comprendere i tedeschi di Fotoform e i francesi del Groupe des XV,  che per Monti rappresentavano “due tendenze che si possono ritenere esemplari della fotografia europea”[112], mentre sembra essere stata meno immediata e diretta l’influenza statunitense nonostante l’ammirazione per “la monumentale opera fotografica di Weston”[113]. Quindi, inevitabilmente,  le suggestioni e le poetiche espresse  dalle ricerche pittoriche più avanzate degli anni Cinquanta, cui non era difficile accostarsi a Venezia[114] come a Milano (senza dimenticare un canale di diffusione quale le riviste d’arte[115]). A ben considerare però si direbbe che per Monti questa gran messe di suggestioni visuali e culturali – specialmente europee, va sottolineato – sia servita soprattutto come occasione di riflessione e di analisi intorno a quei  problemi di interpretazione e restituzione visuale dei dati di realtà che gli erano propri. Da questo punto di vista risulta quindi piuttosto sterile e velleitario proporre accostamenti e filiazioni dirette, come pure è stato ampiamente fatto, per riconoscere invece una solida appartenenza a un contesto ampio di ricerche espressive, nelle quali Monti si collocava in maniera culturalmente e criticamente consapevole, non priva di un certo scetticismo di fondo, ben oltre le immediate (e magari superficiali) apparenze formali. Anche i possibili, inevitabili riferimenti a Man Ray (che considerava “uno dei fondatori della fotografia moderna”[116]) e ancor più a Moholy-Nagy  sono da intendersi in termini di modelli del fare, quasi metodologici, di apertura e coinvolgimento in molte se non in tutte le possibilità espressive praticabili con la fotografia (compresi gli sfocati, i movimenti di macchina), convinto che “le opere venivano prima delle teorie”[117]. Che dire poi del rapido e progressivo definirsi di una scelta orientata verso i toni bassi se non che questa oltre che corrispondere a un suo particolare sentire, e sentire del mondo, si era ormai affermata come lo stilema, il marchio inconfondibile della fotografia internazionale di quel periodo, celebrata e diffusa dalla maggior parte degli annuari fotografici internazionali che Monti possedeva in gran numero.

 

Gli anni de La Gondola

Gli anni della ricostruzione postbellica in Italia mostravano anche in ambito fotografico una vivace ripresa di iniziative variamente legate a forme associative[118] che si distinguevano per intenzioni e modi da quelle che avevano caratterizzato il ventennio precedente, seppure muovendosi in direzioni diverse e magari divergenti. Così tra 1947 e 1948 si collocarono la costituzione de La Bussola e poi de La Gondola, che nelle loro modalità aggregative sembravano guardare a modelli stranieri e specialmente francesi, ma anche al nostrano  Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che nell’inverno del 1921 era nato a Torino in seno alla Società Fotografica Subalpina con l’esplicita intenzione di essere “un fattore nuovo nella fotografia pittorialista in Italia, e suscettibile di esercitare una felice influenza sul suo sviluppo”[119],  riunendo gli autori del primo moderato modernismo, da Baravalle, Bologna, Bricarelli a Cesare Giulio e Francesco Agosti.  Certo sulla scia di quel primo sodalizio ma con aspirazioni culturalmente più modeste fu ancora a Torino, nella sede della Società Fotografica Subalpina, che nel dicembre del 1948 si riunirono le associazioni fotografiche che diedero vita alla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche – FIAF, a cui La Gondola avrebbe aderito quasi subito mentre La Bussola se ne sarebbe mantenuta lontana. Nel giro di poco più di un anno i due fronti contrapposti della “fotografia d’arte” e dei fotoamatori si erano ormai precisamente delineati.

Com’è ampiamente noto, fu dalle frequentazioni del negozio Foto Record dei fratelli armeni  Pambakian, che nacque per Monti l’occasione di conoscere Gino Bolognini e dare vita al  venezianissimo circolo de La Gondola[120], che al momento della sua costituzione comprendeva anche Alfredo ‘Giorgio’ Bresciani e Luciano Scattola. Di quel ristretto consesso piccolo borghese Monti venne nominato, di più, fu  riconosciuto come Presidente, nonostante fosse a tutti gli effetti un neofita, specie dal punto di vista tecnico; una scelta da attribuirsi verosimilmente alla sua solida formazione culturale.  Un sodalizio che condivideva “l’intenzione di dar vita a un nuovo circolo fotografico così come viene comunemente inteso”[121], ma rifuggendo quell’estetismo crociano ” cioè il soggetto non conta niente è il modo come lo si presenta che ha importanza, che aveva caratterizzato la Bussola stessa. Era venuto il momento di parlare con la fotografia anche ispirandosi ai paesaggi pittorici, tirandone fuori il sentimento drammatico, ed alla struttura urbana di Venezia: i muri, il colloquio tra le acque e le pietre che le corrodono, gli spazi attraverso le strettoie si prestavano a questo modo nuovo di vedere”[122]. Un circolo senza Manifesto quindi, ma con idee piuttosto chiare sia in termini di poetica che di politica culturale per la promozione della fotografia ovvero, come ebbe a scrivere Zannier a distanza di quasi un ventennio[123], “la Gondola è stato forse l’unico Circolo italiano a proporre con chiarezza un’avanguardia nostrana, da allineare accanto a quella europea, che per altro ha avuto il merito di farci conoscere attraverso alcune indimenticabili rassegne ospitate a Venezia.”  Se in termini di riconoscimento del valore estetico dell’immagine fotografica il confronto e – per una certa parte il modello – era costituito da Giuseppe Cavalli e dalla Bussola, in termini più ampiamente culturali l’esempio da seguire era certamente quello del Circolo Fotografico Milanese[124], poi dell’Unione Fotografica. Diverso l’intento della neonata FIAF, che aveva semmai tra i propri obiettivi quello di far conoscere la fotografia italiana in campo internazionale, come indicava la Prima Mostra Nazionale di Fotografia Artistica organizzata proprio nelle sale del Circolo Fotografico Milanese  nel giugno del 1949[125]. Anche i bussolanti avevano organizzato una serie di “mostre di ottimi francesi tedeschi italiani cinesi”[126] nel ridotto del Piccolo Teatro di Milano, ma il gruppo de La Gondola pareva avere una progettualità più strutturata, più precisamente orientata alla crescita culturale della fotografia italiana attraverso la conoscenza diretta delle opere più interessanti del panorama internazionale, specialmente europeo.  In questa volontà di progetto non doveva essere secondaria la funzione di Venezia, non tanto per le sue attrattive d’ambiente quanto per il modello costituito dalla Biennale d’Arte (1895) e dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, avviata per la prima volta nel 1932, ponendosi perciò tra il Festival Internazionale di Musica Contemporanea (dal 1930) e il Festival Internazionale del Teatro di Prosa (1934), mentre nei primi anni del dopoguerra (1948-1951)  si avviavano le attività veneziane di Peggy Guggenheim. Venezia città delle arti contemporanee. In quel contesto, e pur muovendosi in sedicesimo date le condizioni culturali ed economiche, sorgevano anche iniziative legate alla fotografia, come la Mostra Internazionale d’Arte Fotografica che si tenne nei padiglioni della Biennale ai Giardini, dal 14 agosto al 10 settembre 1947, in concomitanza con la Mostra internazionale della tecnica cinematografica. Una grande raccolta di immagini selezionate dai rispettivi circoli di appartenenza che suscitò più di qualche perplessità negli osservatori più attenti. “Una percentuale alquanto vasta di fotografie artisticamente e tecnicamente non valide” nel giudizio di Giuseppe Cavalli, che pure segnalava The Critic di Weegee, ma senza indicarne l’autore[127], mentre Alfredo Ornano[128] ammetteva di aver “provato un vero dispiacere percorrendo le sale (…): in locali così bene illuminati che in ogni angolo la fotografia vi si mostra in tutte le sue più delicate mezze tinte, si è radunato tutto il vecchiume d’Italia, tutte le fotografie che da 15 anni vediamo in esposizioni sociali e nazionali. E l’internazionalità è molto discutibile (…)”. Sola eccezione il gruppo di venticinque fotografie del gruppo de La Bussola, “le uniche in cornice e sottovetro”, precisava Cavalli.

Certo memori di quel precedente, la prima iniziativa pubblica de La Gondola, fu l’organizzazione nel 1951 della Mostra Fotografica Nazionale Retrospettiva 1940-1950[129],  alla quale sarebbe immediatamente seguita nella stessa Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian La prima mostra del paesaggio veneziano e lagunare[130].  Scopo della mostra retrospettiva – scriveva Monti nella presentazione – era di  “far conoscere a una larga cerchia di pubblico una severa e larga selezione di fotografie italiane dell’ultimo decennio, iniziando con questa un programma di periodiche manifestazioni che, riallacciandosi alle ultime degli anni precedenti la guerra, sia quasi di prologo alle mostre future”[131]. Si trattava insomma di “fermarsi a fare il punto della situazione e per non incorrere in giudizi affrettati, esaminare non tanto gli ultimi apporti dei vari autori quanto lo svolgersi nel tempo delle diverse tendenze [offrendo] in una rapida sintesi un’idea abbastanza precisa dell’attuale fotografia italiana. Diciamo ‘attuale’ e non ‘moderna’ perché molte opere risentono ancora di influssi che risalgono a molti, troppi anni or sono e per fotografia moderna noi intendiamo invece quella che è solo ‘fotografia’, mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative e tanto meno di imitarle nell’esteriorità del mezzo tecnico.”   Per quelle ragioni “più che premiare lavori singoli la giuria avrebbe voluto premiare interi complessi di opere [come poi avverrà a Castelfranco e altrove negli anni successivi] perché la personalità di un fotografo è data dal complesso del suo lavoro piuttosto che da opere isolate.  (…) In questa breve presentazione di proposito non abbiamo mai parlato di “fotografia artistica” e ci auguriamo che questa infelice espressione sia bandita ovunque si parli o si scriva di fotografia. Sulla questione se la fotografia sia arte o no, si è consumato fin troppo inchiostro – e sorte analoga ebbe più tardi il cinema – né noi vogliamo sciuparne altro”. La questione poetica al centro di quell’ impegnativo programma riguardava la rivendicazione della fotografia come “mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative”[132], vale a dire qualcosa di sottilmente diverso dai proclami de La Bussola  (“Noi crediamo alla fotografia come arte”)  e dalle posizioni di  Vannucci Zauli e Scopinich, e semmai prossimo a quelle avanzate  già a fine Ottocento da un fotografo come Pietro Masoero[133], segnando così una specie di ritardo sulle più avanzate posizioni critiche e sulle iniziative  di respiro europeo che caratterizzavano  in quegli anni il Circolo Fotografico Milanese e poi l’Unione Fotografica[134]. Considerando questo testo, oltre a notare l’accorto uso delle aggettivazioni (“una severa e larga selezione”)  bisogna prestare la dovuta attenzione alle intenzioni dichiarate dal titolo:  a pochissimi anni dalla fondazione dei due più noti circoli italiani e dalla nascita della FIAF  l’intento era unificante;  il tentativo era quello di fornire una rassegna critica dell’ultimo decennio, segnato per la gran parte dalla guerra e dalle sue conseguenze; voleva inoltre dire assumersi il rischio di fare i primi conti con la fotografia negli ultimi anni del fascismo. Evitare di far  tabula rasa delle esperienze del periodo bellico costituiva la condizione anche politicamente necessaria per proporre quella prima mostra come l’anello di congiunzione con le previste iniziative future, a partire dalla Mostra della fotografia italiana del 1952 e sino alle Biennali del 1957-1965, che furono l’occasione per far conoscere al pubblico italiano un  panorama ampio e variegato,  per molti versi mainstream, nel quale vennero mantenute sotto tono le esperienze europee legate alla fotografia astratta e concreta, più esplicitamente soggettiva.  I contatti e i confronti fattivi con la produzione fotografica internazionale si erano avviati per La Gondola con la I Mostra scambio “Le Club Photographique de Paris 30×40[135], a cui fece seguito nel 1955, sempre a Ca’ Giustinian, quella più opportunamente chiamata II Mostra Internazionale di Fotografia[136], che presentava “opere di famosi «cameramen » di Francia, d’America, d’Olanda e di Germania”[137], come Daniel Masclet, Otto Steinert e Martien Coppens. Tra gli scopi dichiarati vi era quello di “portare la fotografia alla Biennale Internazionale di Venezia”, ma la sua conduzione  venne aspramente criticata sulle pagine di “Ferrania” da Berto Morucchio, che stigmatizzava certe presunte “sofisticazioni della prefazione” (di Giorgio Giacobbi) e il ricorso a  “concetti frusti e mal articolati come questi, di autonomia e di individualità dell’arte [che]  è meglio tralasciare se non sono vissuti profondamente nella loro evoluzione storica”[138], ma soprattutto condannava la decisione di aver ristretto la partecipazione  italiana ai soli membri de La Gondola, “secondo la bonomia familiare che governa un club”. Una scelta che doveva però suonare come una rivendicazione se non come una piccola vendetta, datosi che i membri del gruppo veneziano erano stati esclusi sino a quel momento dalle più prestigiose occasioni internazionali.

Nella prima metà degli anni Cinquanta la fotografia italiana aveva goduto di  una buona circolazione internazionale, a partire dalla prima edizione (1952) di Fotografie als Uitdrukkingsmiddel, curata da Martien Coppens allo Stedeliijk Van Abbe Museum di Eindhoven, che in un prestigioso contesto  autoriale (Ansel Adams, Edward Weston, Fotoform, Magnum, gli svedesi del gruppo De Unga, tra gli altri) ospitava i fotografi de La Bussola e quelli dell’Unione Fotografica, compreso Roiter, addirittura  riservando la copertina del catalogo a Sul tetto di Federico Vender. Un panorama  qualitativamente diverso da quello  offerto dalla mostra londinese dello stesso anno organizzata dalla Royal Photographic Society (5-29 novembre) a cui pure parteciparono  “i tre maggiori enti che rappresentano oggi la fotografia italiana” , vale a dire la Bussola, l’Unione Fotografica e  la FIAF “che comprende quasi tutti i circoli d’Italia”. Purtroppo la presenza di circa cento lavori  ‘salonistici’ determinò un forte sbilanciamento dell’insieme, condizionandone negativamente la ricezione da parte del pubblico e dei critici britannici, più che perplessi dall’omogeneità e dalla scarsa qualità complessiva dei lavori presentati.  “Una serie di fotografie tutte di tonalità molto chiara, fissate su una parete bianca, diventa[no] una cosa strana assai all’occhio britannico” ricordava Harold Lewis  sollecitato in proposito dai membri dell’Unione Fotografica, che sentirono la necessità di prendere pubblicamente posizione in un articolo a firma collettiva pubblicato su “Ferrania”[139]. Anche nella Mostra della fotografia italiana che si tenne nel  maggio 1953 alla George Eastman House di  Rochester,  promossa dalla rivista “Fotografia” e curata da Beaumont Newhall[140], gli  autori presenti erano prevalentemente legati alla redazione della rivista milanese, così che l’iniziativa passò piuttosto in sordina nonostante la prestigiosa sede.  Non dissimile infine la compagine italiana nella quasi contemporanea  Post-War European Photography curata da Edward Steichen al MoMA (da 26 maggio al 23 agosto), con settantanove fotografi da undici paesi[141] e le presenze italiane  equamente suddivise tra i membri dell’Unione Fotografica e della Bussola, vale a dire molti degli autori  (Piero Di Blasi, Cavalli, Davide Clari, Donzelli, Vender e Veronesi) accolti da Steinert in Subjektive Fotografie 1, del 1951,  ancora una volta escludendo gli autori de La Gondola. La fotografia italiana fu poi l’argomento del numero monografico di “Camera” dell’aprile del 1956, per la cura di Romeo Martinez, che nei mesi successivi avrebbe pubblicato lavori di Paolo Monti[142] e di Mario de Biasi[143]. I testi introduttivi furono affidati a Fulvio Roiter[144] (del quale la rivista aveva ospitato immagini dal viaggio in Sicilia nel gennaio del 1954) e a Italo Zannier, entrambi concordando sul fatto che “l’arte fotografica italiana (…) è espressa quasi esclusivamente dalle opere dei fotografi dilettanti”[145],  ciò che aveva nociuto non poco al suo affermarsi. La selezione degli autori[146] era stata però piuttosto generica e inadatta a  fornire un quadro veramente significativo della produzione italiana sia in termini generazionali che di scelte espressive, ma l’occasione fu certamente importante, anche se il bilancio tracciato dai due autori era insoddisfacente. “A rigor di termini – scriveva Roiter –  dovremmo parlare solo di dilettantismo, perché è la sola forma di attività fotografica che, in questo paese, abbia  stimolato un ideale, definito una tradizione e incoraggiato una pratica i cui effetti sono tutt’altro che trascurabili. È strano, fuori dall’Italia il meglio della produzione fotografica viene dai grandi del mestiere che vivono di fotografia e per la fotografia.” Ciò detto e riconosciuto, i limiti determinati da tale situazione erano evidenti  poiché anche le “ intenzioni più meritevoli finiscono per insabbiarsi se viene a mancare  un sostegno indispensabile: l’energia che determina ogni piena realizzazione. (…) Non siamo contrari a questa forma di attività, né ai circoli fotografici; ci auguriamo solamente l’avvento in questo paese di un vero, onesto e proficuo esercizio professionale.” Quelle considerazioni (sarebbe troppo definirle analisi) suscitarono la risentita reazione di uno dei grandi esponenti della vecchia guardia come Stefano Bricarelli che dalle pagine del “Corriere Fotografico”, stigmatizzò la trasparente celebrazione autobiografica fatta da Roiter di quei “giovani dotati di ricca sensibilità e coraggio che si sono sganciati da queste istituzioni [i circoli] per affrontare, con successo, e da soli, una carriera così piena di rischi e difficoltà come quella del freelance fotografo”, convinto che “da questi semenzai esce anche la  più parte dei fotografi professionisti”.  Anche per “il suo degno epigono, Italo Zannier” non mancarono le critiche,  specie per l’aver considerato “Cavallli, Veronesi, Finazzi, Balocchi ecc.”  rappresentanti della ‘vecchia generazione’. Se così era – chiosava Bricarelli – “noi apparteniamo addirittura ai ‘primitivi’, e ci possiamo ormai considerare «au-dessus de la mêlée»[147] e quindi in grado di esprimere un parere spassionato che sarebbe il seguente. È  un vero peccato che un’occasione così favorevole per valorizzare la fotografia italiana – quale un Numero speciale ad essa consacrato da una Rivista dell’autorità di “Camera” – sia stata sprecata, non con le fotografie, che, la Dio mercé, un loro linguaggio positivo e persuasivo lo hanno conservato; ma con gli scritti che si direbbero fatti apposta per convincere, in quattro lingue, gli stranieri – già così propensi e pronti a sottovalutarci – che, dietro agli autori delle suddette opere, in fatto di fotografia in Italia nulla esiste o poco meno di nulla. (…) Diano retta a noi; continuino a produrre della bella fotografia e lascino l’impiccio e la responsabilità di scriverne a chi è in grado di farlo.” La tesi sostenuta da Bricarelli nel 1956 sarebbe stata condivisa e meglio articolata da Monti in occasione del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando (contro l’ironia  “facilissima” di Gilardi)  aveva sostenuto che “ l’unica salvezza della fotografia italiana è questo continuo passaggio di amatori al professionismo fin quando non ci saranno delle vere scuole che alleveranno dei veri fotografi [perché ] in mancanza di scuole fotografiche che siano veramente scuole fotografiche io mi domando che cosa sarebbe oggi la classe dei professionisti se non avesse avuto il continuo rincalzo di certi amatori. (…) Quanti sono gli amatori che hanno dato un certo lustro alla professione? Sono moltissimi”[148]. Ed era  certo lui la figura eponima di quelle vicende, il responsabile delle “rottura con un certo edonismo fotografico, nello stesso tempo è il suo passaggio al professionismo che ha   scosso le inibizioni di numerosi amatori dotati ma incapaci di passare il Rubicone. L’impresa di Monti ha significato per la nostra generazione l’emancipazione e la rivalorizzazione di un mestiere che era considerato socialmente ed economicamente inferiore.” (…) [ Monti]  resta comunque l’esempio di chi è riuscito a conservare la propria integrità a tutti i livelli della sua produzione, vale a dire che è riuscito a difendere in ogni momento la propria personalità di fotografo.”[149]  Fu ancora la Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian a ospitare la III Mostra Internazionale di Fotografia[150] organizzata dal Circolo La Gondola dal 24 giugno al 15 luglio 1956, con poche partecipazioni internazionali (solo Brett Weston, Erich Angenendt, Helmut Lederer, Toni Schneiders, André Thévenet, George Viollon e la Guilfond School of Art aderirono all’invito) e una discreta presenza italiana[151],  che escludeva però oltre al  nucleo storico dei  bussolanti (con l’eccezione di un atipico come Veronesi) anche i milanesi dell’Unione Fotografica, semmai attirando nella propria orbita alcuni giovani della MISA, quasi a voler certificare la fine del predominio di Cavalli[152]. Sulle pagine di “Ferrania” Zannier[153] ne offrì un’interessante recensione critica, segnalando in particolare “il numero eccessivo delle opere di taluni e sproporzionata in rapporto agli stranieri la partecipazione degli italiani, con una scelta non sempre giustificata[154]. Si notava l’assenza di nomi che in una selezione nazionale non avrebbero potuto mancare, mentre alcuni dei presenti mal figuravano in una Mostra cosi importante, di carattere internazionale.” Oltre i  giudizi espressi sui vari autori, più interessanti risultavano alcune osservazioni relative agli sviluppi futuri di quella “manifestazione (…) che certamente nei prossimi anni troverà una più valida giustificazione”, augurandosi che “ l’Ente Veneziano [la Biennale] non si limiti ad accordare all’Esposizione la meravigliosa sala di Palazzo Giustinian, ma partecipi soprattutto con il suo credito (e la sua carta intestata è forse sufficiente) (…)  al fine di concedere un panorama compiuto e selezionato della fotografia internazionale. Il suo interessamento donerebbe senza dubbio a Venezia la più bella mostra di fotografia del mondo.”  Se consideriamo poi la chiusa, solo apparentemente cronachistica, che “il giorno dell’inaugurazione, la sala dell’esposizione accoglieva molti nomi noti della fotografia nazionale ed internazionale: ospite di onore il direttore di una grande rivista svizzera [Romeo Martinez, in realtà redattore capo] che è parso essere per alcune ore il centro d’attenzione dei fotografi”, possiamo meglio comprendere come ormai il gioco fosse più che avviato e i presupposti per il varo delle Biennali di fotografia compiutamente definiti, resi poi subito concreti  con l’organizzazione della  I Mostra Internazionale Biennale di Fotografia[155] che si tenne nei mesi di aprile e maggio 1957 (negli anni dispari, per non sovrapporsi alle Biennali d’arte) a Ca’ Giustinian e al Museo Correr, organizzata da Martinez, Monti e Luigi Crocenzi[156]. La novità era rappresentata non tanto dalla sezione dedicata alla Fotografia europea,  con  partecipazioni esclusivamente a invito, ma da quelle riservate ai fotografi di Vogue e della Magnum[157], poiché scopo dichiarato era “fare di Venezia finalmente l’appuntamento mondiale dell’opera fotografica con il suo pubblico [per] mostrare (…)  che l’immagine fotografica non è solo un’operazione meccanica, ma anzi è il risultato di un arte molto sottile.”[158]  Una prospettiva e un obiettivo ribaditi da Monti che nelle pagine introduttive al catalogo si augurava che quella prima Biennale potesse “diventare il banco di prova per un giudizio critico molto aggiornato sulle  tendenze della fotografia attuale e sui risultati raggiunti. (…) Voglio esemplificare queste due principali tendenze della fotografia attuale in due nomi di grande prestigio: Otto Steinert e Henri Cartier-Bresson, per rappresentare polemicamente le due posizioni estreme del fotografo di fronte alla realtà”[159].  Era il  compimento di un progetto culturale già pienamente delineato nel 1952, quando Monti  nel presentare la Mostra della fotografia italiana  aveva  richiamato la necessità di “vedere, vedere e studiare le fotografie dei migliori fotografi del mondo in grandi Mostre internazionali a invito, possibilmente periodiche”[160], ma anche di “portare il nostro modesto contributo all’affermazione della fotografia italiana, finora quasi totalmente ignorata come arte figurativa nelle manifestazioni ufficiali”. Più interessante, e per certi versi inedita e sorprendente,  la speranza che la mostra  “fosse occasione, per la critica italiana, di un vasto studio sulla fotografia di reportage: essa ci porta una testimonianza della condizione umana nei più lontani paesi ed anche di quelli che noi crediamo di conoscere perché in essi viviamo.”  Una presa di posizione che diremmo programmatica essendo quel genere particolarmente inviso all’universo salonistico, nel cui ambito ci si lamentava che “la bella fotografia, che prima era in gran parte opera di dilettanti (…) è passata in forte proporzione nelle mani dei professionisti e specialmente dei foto-reporters”[161], mentre per molti versi il confronto con la realtà costituiva il fronte etico ed estetico della nuova fotografia italiana[162]. Non che mancassero riferimenti al reportage in precedenti testi di Monti, ma si trattava per lo più di riflessioni a margine ovvero di giudizi fortemente critici, specie nei confronti del “reportage giornalistico di tipo americano che, al di fuori dell’uso contingente cui è destinato, non può essere accettato senza qualche riserva anche nei suoi rappresentanti migliori, come Cartier-Bresson…”[163]. Ora invece in quelle immagini riconosceva “il fascino delle cose vere, delle cose viste, vissute, patite. La realtà e la vita ci vengono incontro perentorie, ci chiedono la nostra partecipazione, il nostro amore o il nostro sdegno, sempre la nostra comprensione di uomini. Tale è la suggestione di queste immagini che subito dobbiamo difendere il nostro desiderio di verità ed opporre la critica al sentimento: una domanda ci tormenta: “Cosa ha potuto vedere il fotografo e cosa non ha potuto? Fin dove è imparziale la sua verità?[164] Il problema cessa di essere tecnico ed estetico per diventare morale, sociale e politico perché è, infine, un problema di libertà (…) [ Cartier-Bresson] di fronte alla realtà attende che essa gli si riveli per darcene, secondo la sua definizione, «il momento decisivo», quello  che riassume un dramma umano, un aspetto sociale, persino una situazione politica”, mentre i reporter della Magnum appaiono “tutti riuniti nello sforzo di darci la più memorabile documentazione della nostra epoca.” Opinione condivisa da Zannier, per il quale “i reporters dell’agenzia «Magnum» [erano] venti artisti-fotografi di tutto il mondo destinati a scrivere la nostra storia più intima e fuggevole”, così che “se qualcuno sin’ora aveva dei dubbi sulle possibilità autonome e complete del linguaggio fotografico, nel visitare questa rassegna certamente è portato a rettificare le sue convinzioni”[165].  Quell’attenzione per il reportage rappresentava un altro segnale dell’affermarsi del fronte realista,  presentato a Spilimbergo nel 1957, giusto a dieci anni di distanza dai formalismi del Manifesto de La Bussola,  in una esposizione dedicata a 26 fotografi italiani[166] che di fatto concluse l’esperienza del Gruppo Friulano per una nuova fotografia.  A testimoniare le contraddizioni di quel momento il catalogo della mostra era introdotto da considerazioni critiche tanto autorevoli quanto di divergenti. Così all’entusiasmo di Bezzola che “la fotografia italiana – nella sua parte migliore s’intende – ha da tempo lasciato dietro di sé le battaglie per l’acquisizione delle varie esperienze tecniche ed estetiche; superata la pesante ipoteca delle arti figurative, superato il rischio del formalismo e del calligrafismo, essa va studiando i modi entro cui attuare una propria autonomia spirituale, affrancandosi da ogni dipendenza. (…) Oggi la nostra fotografia sta riscoprendo l’Italia e gli italiani”, si contrapponeva il disincanto di Monti:  “La presa di possesso di una certa realtà italiana sembra essere la principale preoccupazione di molti tra i migliori nostri giovani fotografi, e per realtà intendiamo anche alcune particolari situazioni sociali che particolarmente nel Sud d’Italia si presentano in aspetti molto allettanti come ‘occasione’ fotografica.  Non è un caso che il Mezzogiorno sia così spesso il soggetto di molte recenti fotografie, osservazione ché può ampliarsi nel constatare come le maggiori simpatie dei nostri fotografi vadano agli aspetti più mediterranei del nostro vivere. (…) Dovremo parlare di una acuta nostalgia per una civiltà remota ma tuttora viva che potremmo definire la civiltà dell’ulivo e del gregge? Un’altra evasione dunque della vita attuale, una fuga lontano dal fumo delle ciminiere? È  troppo presto per affermarlo, ma occorre pur dire che questa corsa verso il Sud può essere del tutto giustificata solo se servirà anche a farsi la mano per narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine.”[167] Insomma – chiosava Turroni – “una nuova morale fotografica è in atto; si  ricerca la verità in ogni settore della realizzazione artistica: dal réportage (influenzato dalla lezione nord-americana), all’astrattismo  e alla corrente lirica che, pur avendo dato in passato i migliori risultati (dico, storicamente attendibili) non s’è ancora esaurita e  può riservarci sorprese per il futuro, proprio dal fondo di quella provincia che, se sfrondata dall’abulia e dal conformismo, saprà sempre offrire nuove forze, verginità di intenti, freschezza di  risultati poetici, pregnanza di costrutti realistici.” Quel richiamo culturale  alla ‘provincia’ pareva un tentativo di mediazione con la produzione salonistica contro la quale si poneva coerentemente Zannier, che parlava di “gabbia d’argento che ha racchiuso i molti raccoglitori di etichette di partecipazione a mostre, di medaglie e diplomi (…). Certamente molti pregiudizi e dilettantismi sono scomparsi (…)  si è compreso che la funzione dell’immagine fotografica non trovava limite in sé stessa, nel rettangolo di carta emulsionata, ma la sua funzione –  specifica, vitale, necessaria – è di ‘comunicare’ con il grosso pubblico, di riproporre a quanti più uomini possibile, ciò che il fotografo aveva descritto visivamente in una inconfutabile rappresentazione della ‘realtà’. Ma gli ‘artisti fotografi’  troppo spesso disdegnano e rigettano uno dei mezzi più potenti a loro disposizione, il rotocalco, preferendo che la conoscenza delle proprie realizzazioni resti limitata nel loro stesso ambiente. Addirittura termini come «réportage»,  «fotoréporter», «documentarismo», ecc., vengono usati in senso del tutto dispregiativo e limitativo di un mestiere che si ritiene adatto e necessario solamente a tenere «aggiornato» il lettore. Ma quale altra funzione è da attribuirsi alla fotografia se non quella di «documentare», di «aggiornare»; perché temere o ignorare il vero significato di questi termini? «Documentare» non significa certo riprodurre «oggettivamente»; nessuna «obbiettività» è possibile se è l’uomo, con i suoi  mutevoli sentimenti, artefice dell’immagine. Se questo sarà poeta non potrà esprimersi fuori dalla poesia; come dimenticare sé stessi, la propria sensibilità e cultura? Così «aggiornare» non significa forse proporre la situazione, l’episodio, che il pubblico vuole conoscere, attraverso la propria personalità, la propria interpretazione? Perché negare quindi al réportage quella poesia di cui almeno potenzialmente può godere e ritenerlo succubo dei fatti, della cronaca più esterna e superficiale?”  Lucidissime considerazioni alle quali non corrispondeva però la selezione dei ventisei fotografi presentati in quell’occasione che comprendeva pochi reporter in senso proprio (De Biasi, Roiter, Berengo Gardin, Patellani), ma invece molti autori variamente ascrivibili al fronte ‘realista’ e quindi almeno potenzialmente prossimi alla funzione documentaria e civile del reportage, accanto a fotografi di diversa tradizione come Cavalli, Vender e Veronesi, mostrando così una concezione quantomeno incerta ed estensiva della definizione di quel genere. La questione è per più versi interessante e credo che per essere opportunamente compresa richieda una necessaria verifica terminologica storicamente collocata, poiché l’accezione allora utilizzata doveva avere un campo semantico più ampio e dai confini meno netti di quanto si intenda oggi se è vero che Monti qualificava come reportage alcuni  suoi lavori come quello “sulle città greche dell’Asia minore”, realizzato nel corso del  viaggio in Turchia con Martinez nel 1962, che noi collocheremmo più facilmente tra le fotografie di architettura o del patrimonio storico, ed  anche quello di “artisti nei loro studi”, ma non la serie milanese delle “domeniche degli altri”,  aggiungendo inoltre che “io dei reportage non ne ho mai fatti, ho fatto solo dei reportage su degli artisti, sui loro lavori, ma sono reportage un po’ diversi già combinati con loro eccetera”[168]Quindi non pare fossero sufficienti né  il soggetto né i modi dell’organizzazione strutturale del discorso a definire un lavoro come ‘reportage’, semmai una certa omogeneità tematica, mantenendosi così lontano dal “giornalista nuova formula” delineato da Federico Patellani nel 1943[169] come dai fotodocumentari di Zavattini e Aristarco e dalle foto storie  di Crocenzi,   per limitarsi infine “al racconto per immagini, e non importa se con una o più foto”[170]. A scorrere gli interventi italiani di quegli anni[171] si direbbe che la discussione intorno al valore e alla funzione del reportage fotografico non fosse altro che l’ennesima riproposizione sotto mentite spoglie dell’annosa questione del valore artistico della fotografia, qui centrato sul nuovo e quasi pervasivo genere, del quale Monti era particolarmente interessato a indagare gli aspetti problematici. Così riflettendo sul “facile senso universale di questa esposizione così tipicamente americana” che fu The Family of Man[172] riconosceva che “mentre ci dà una prova esemplare della forza documentaria ed emotiva della fotografia di reportage, ce ne indica i limiti insuperabili”, essendo necessario e urgente “indagare quali sono le vere, autentiche e autonome possibilità espressive e documentarie del reportage, sia in una teorica situazione di ideale e totale libertà di pubblicazione, che nelle varie situazioni politiche e sociali. Definire la posizione del reporter nel mondo attuale, i suoi rapporti con l’attività dell’editore, del redattore dei testi che accompagneranno le sue foto; necessità che il reporter intervenga nella impaginazione, cioè nella lettura successiva delle sue immagini, ecc. Problemi che non sono tecnici ma di fondo perché condizionano tutta l’attività del reporter quindi la sua validità e la sua efficacia come ‘testimone del nostro tempo’”[173], seguendo in questo i dettami fondativi dell’agenzia Magnum.  Per Monti quelle riserve riguardavano  le stesse “ambiguità della fotografia”  richiamate nel suo intervento a Sesto San Giovanni degli stessi mesi, quando riconobbe che “la fotografia ci dà soltanto l’oggi (…)  ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni, siano essi storici, sociali ecc., ci dà la fase presente, ci dà quello che è avvenuto ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente, non ci da mai quello che c’era prima”[174], ovvero, come avrebbe icasticamente notato in una serie di appunti degli anni successivi, “la foto può dare solo lo spessore della superficie”, considerando perciò “l’istantanea come menzogna e deformazione della realtà”[175]. Un buon esempio del pessimismo della ragione del nostro.

La successiva edizione della Biennale, ormai senza il CCF – Centro per la Cultura nella Fotografia di Crocenzi, fu segnata dalla presenza sempre più determinante di Martinez come curatore; ruolo  che si consolidò nelle successive edizioni, sino al 1965[176],  confermando l’obiettivo di “mostrare, in sintesi, gli aspetti e le funzioni della fotografia contemporanea, adottando una formula che escluda ogni competizione, lasciando questo compito alle migliaia di mostre legate o meno a dei concorsi, che riempiono il calendario fotografico mondiale. Così pure, per ora, non intende interferire nel campo dei dilettanti”[177]. Se la prima edizione intendeva offrire “un giudizio critico molto aggiornato sulle tendenze della fotografia attuale”[178], nelle edizioni successive l’attenzione per la fotografia “soggettiva” si ridusse sin quasi a esaurirsi,  mentre si confermava quella per la fotografia come mestiere. Quindi la moda (ancora “Vogue” nel  1959) e soprattutto il reportage (i fotografi di “Life” compresa la Bourke-White e i ‘realisti’ giapponesi nel 1959; la personale di  Robert Capa e una sezione dedicata al fotogiornalismo italiano nel 1961, ma anche l’archivio Publifoto nel 1963). A questi si aggiunse una particolare  attenzione, certo determinata da spinte industriali e commerciali, per il colore nella fotografia: “Life” nel 1959;  Ernst Haas , Arik Nepo e Magia del colore, dedicata alle tendenze della fotografia a colori in Germania, nel 1961[179], un’antologica nel 1963; La fotografia e la diffusione della cultura. Medio Evo Vivo, costituita da 300 fotografia a colori realizzate da Jacques Bauer e dedicate ai “tesori dell’arte Romanica e Gotica e in Francia”[180] e Applicazioni e funzionalità della fotografia, con le personali di  Paul Huf, John Bulmer, Horst Baumann e Franco Scheichenbauer nel 1965. Si distinguevano da questo panorama piuttosto compatto le personali di Man Ray e Albert Renger-Patzsch nell’edizione del 1961 e quelle di André Kertesz (ancora negli USA a quella data) e Arnold Newman (1963), accanto alla presentazione dei  Grandi Maestri di questo Secolo,  tra i quali va sottolineata l’inclusione  di due ‘pittorialisti’ come Alvin Langdon Coburn e Hugo Erfurth,  ma anche la clamorosa assenza di Alfred Stieglitz, Walker Evans[181] e Robert Frank[182]. Il notevole eclettismo di quelle scelte pareva corrispondere solo in parte alle intenzioni espresse da Monti nel testo introduttivo al catalogo[183]: “A questo servono le esposizioni di fotografia: selezionare per conoscere, giudicare e conservare il meglio”, avendo “la periodica necessità di fare confronti e di fissare qualche punto di riferimento, altrimenti l’invadente marea delle immagini destinate al consumo immediato ci impedirebbe di ‘vedere’ quello che merita di essere ricordato”, in un contesto come quello della nascente “civiltà dell’immagine destinata a sostituirsi quasi interamente e presto alla millenaria civiltà della parola.” Le produzioni della Biennale non erano però originali poiché la maggior parte delle mostre proveniva dalle diverse edizioni  della  Photokina di Colonia,  e quella carenza di elaborazione autonoma fu in parte  all’origine delle riserve espresse da Guido Bezzola[184], che  a proposito dell’edizione del  1959 parlava di “un insieme certamente interessante, ma non forse abbastanza organico per giustificare un titolo della risonanza di quello della Biennale di Venezia. (…) Secondo noi la Biennale è troppo esclusiva e astratta. Certamente è utile mostrare le opere di cui abbiamo parlato sopra, ma è nostro dovere rammentare a tutti che esiste anche una fotografia italiana” . Giudizio ben ponderato ma forse viziato dal suo proprio punto di vista di direttore di “Ferrania”, una pubblicazione che certo non poteva competere in termini di prestigio e notorietà internazionale con “Camera”. Soprattutto Bezzola non coglieva il senso generale di quel progetto, che non aveva mai inteso offrirsi come rassegna, anzi intendeva andare oltre le “questioni estetiche, (…) piuttosto insisteremo in qualche caso sulla utilizzazione delle fotografie che ne risultano condizionate nel loro crearsi. Non terremo conto delle varie sezioni della mostra – proseguiva Monti – perché molte considerazioni sono comuni ad autori di sezioni diverse” sebbene poi  (secondo il costume corrente) si dedicasse anche lui a giudizi puntuali ma sempre collocandoli in un contesto critico ampio. Era forse l’inevitabile consuetudine che gli derivava dal frequente ruolo di giurato avuto in molte, forse troppe, rassegne italiane di quegli anni,  a partire dalla presentazione della doppia personale di Carlo Bevilacqua e Fulvio Roiter al Circolo Artistico Friulano di Udine nel 1952, nella quale formulava un principio poi ribadito e sviluppato in occasioni successive, con un esplicito giudizio critico sui vari dirigismi: “Sulle riviste fotografiche si discute spesso del soggetto in fotografia e sulla pretesa necessità di abbandonarne alcuni a favore di altri. Secondo quei retori esisterebbero soggetti moderni e soggetti vecchi e superati, mentre una sola cosa può essere detta e cioè che qualsiasi soggetto è buono se l’opera è valida per virtù di stile”, distinguendo tra fotografia come “narrazione” [Bevilacqua] e come “immagine” [Roiter] per riconoscere infine a ciascuno di loro “una sicura intuizione delle possibilità del mezzo fotografico e il rispetto dei suoi limiti, entro i quali essi realizzano pienamente le proprie visioni”[185]. “La prima qualità che si pretende da un fotografo [è] di essere essenzialmente un visivo, cioè un uomo che vede dove tutti si limitano soltanto a guardare, e che costringe a vedere” , avrebbe poi ribadito nella presentazione di una successiva mostra in cui accanto a Roiter e Aldo Nascimben presentava i propri lavori[186].

 

 

Le prime personali

 Il  1952 fu l’ anno della sua prima personale, a Roma (e chissà perché non a Venezia o a Milano), corredata da una presentazione (il suo primo scritto edito)  che costituiva un chiara indicazione di poetica: “Nulla mi sembra più inutile di tante polemiche su cosa si deve o non si deve fotografare. Si può fotografare tutto, e con la più ampia libertà di intenti e di tecnica. (…) Tutto il mondo visibile mi attrae quasi senza alcuna gerarchia di valori, e non certo per farne un confuso inventario ma per tentare di scoprire, delle molte cose viste, un aspetto nuovo ed essenziale, quasi un segreto che volta a volta sarà umano, plastico o anche soltanto decorativo. Fotografare vuol dire creare delle immagini che staccate dalla realtà dalla quale trassero origine, mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova, conclusa nei limiti della inquadratura. E in questi limiti dell’immagine è indifferente che si rappresenti un volto sofferente, una radice corrosa o un fantastico riflesso d’acqua. (…)  Mi si potrà obiettare che alla varietà delle fotografie esposte si accompagna un certo grado di incoerenza formale: accetto la critica quale prezzo della mia libertà, non senza far rilevare però che per me è essenziale l’architettura interna della fotografia, e non il suo tono dominante, o la natura del soggetto”[187]. Difficile dire di più (o meglio) per illustrare e motivare le ragioni di una produzione ancora piuttosto  eclettica per  scelta di temi e per trattamento. La ragione non risiedeva però soltanto in quella rivendicata libertà espressiva e nella conseguente ‘liberazione’ da vincoli stilistici troppo rigidi, ma soprattutto dall’aver compreso che l’efficacia di ciascuna immagine  risiedesse nelle qualità della sua propria logica interna. Se quelli erano i termini,  allora si possono comprendere meglio, in modo più evidente e chiaro le fotografie della serie dei Muri e dei Legni (nella quale comprendere anche il lavoro condotto su di un Tronco bruciato, tav. 066, che ha suggestioni più scultoree però),  avviate negli anni immediatamente precedenti e proseguite per almeno un decennio, riconoscendo che “il carattere comune di questi lavori è il tentativo di raggiungere uno stile unitario anche attraverso quelle operazioni di  camera oscura che ad alcuni puristi della fotografia sembrano inammissibili manomissioni del negativo. A questo proposito dirò solo che io non sono un purista, ma unicamente un fotografo che accetta i limiti di questo entusiasmante mestiere”[188]. Quindi aggiungeva, in una lettera all’amico Ferroni dello stesso anno,  che “i momenti più emozionanti sono quelli della camera oscura. Lì, in quella luce da acquario, nel silenzio rotto solo dal contasecondi, è il vero nostro regno, dove nasce l’immagine creata. lo non credo, contro il parere di illustri come Cavalli e Cartier-Bresson, che la fotografia sia già tutta compiuta nel negativo. La fotografia è in noi, il negativo ci serve solo a disegnarla in fretta, col prodigioso concorso della chimica e dell’ottica”[189]. E già prima, in una lettera a Mario de Biasi in cui si complimentava per le attenzioni che gli aveva riservato Cavalli[190], scriveva di avere “delle foto che sono state macinate dentro per molto tempo e poi fatte finalmente ma non stampate. Dopo altri mesi, ecco che la stampa modifica ancora una volta l’idea primitiva. Ma quel che conta è poi il risultato finale. È per questo che tutte le discussioni sui soggetti e sui metodi di fotografare e sui famosi processi interpretativi (stupida espressione!) mi annoiano e mi irritano. Contano le opere sul tavolo, lucide e sode, e che da sole devono parlare e convincere.” Poi, a conferma, in una successiva lettera a Ferroni:  “Io talvolta stampo delle prese dopo un anno e oltre e dopo averli revisionati [i negativi] una decina di volte sotto l’ingranditore senza stamparli intanto penso e studio come dovrà essere la stampa, dove aumentare i neri, dove distruggere i particolari inutili per arrivare ad una sintesi dell’oggetto. Ed è qui che entra in campo la personalità diversa di ciascuno di noi, perché dove uno conserverebbe un tono, l’altro ne distrugge venti e dove uno ammorbidisce, l’altro contrasta”[191]. Poiché infine, “la stampa fotografica, immagine oggettiva ‘soggettivata’, è quindi una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà. Se ammettiamo, il che è innegabile, che con il suo ritaglio dello spazio, la sua messa in ordine delle forme, la sua resa dei valori tonali, la fotografia è molto diversa dalla realtà che l’ha generata ma di cui è comunque l’immagine, si capisce meglio cosa voglia dire astrarre”[192].  “Una riproduzione – rifletteva Monti – non può mai essere qualcosa di amorfo, c’è sempre una scelta. Le modalità attraverso le quali riprodurre una forma non sono così semplici da spiegare e tante volte bisogna stare attenti a non sostituire la forma,  diciamo così, della realtà con una nuova forma, invece di interpretarla. Per quanto mi concerne io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[193].  Significativo era qui il consapevole arrendersi all’evidenza del primo e fondante valore documentario della fotografia, che è quello relativo al rapporto  col soggetto messo in forma, ma anche la precisa coscienza di una strategia interpretativa che scomponeva l’atto fotografico nelle due fasi distinte della ripresa e della stampa, fasi che corrispondevano anche, con tutta evidenza, ad un mutare del rapporto stesso: se nella prima questo si instaurava col reale, nella seconda esso non poteva che darsi con la sua immagine; era mediato dall’atto fotografico primario e si inscriveva compiutamente nella autonoma elaborazione del fotografo, che “attraverso tecniche precise [offriva] una interpretazione, se non mentale, se non intellettuale, almeno tecnica”[194].

Cosa Monti potesse intendere con quella sua necessità di ricorrere alla fotografia per la messa in forma del mondo, quale potesse essere per lui il significato di quell’operazione, lo rivela la citazione (parziale) da un testo di Paul Claudel sulla metafisica della Creazione che nella sua forma più compiuta  recita: “Allora comprenderemo  il significato profondo di queste parole: caso, necessità, movimento, sviluppo, unità, diversità (…) poiché la materia non può sottrarsi al nulla che muovendo verso una forma”[195], come accadeva ad esempio nella stampa dal titolo un poco provinciale di Cubismo, pubblicata nel numero due del 1953 de “Il Progresso Fotografico” (tav. 067[196].  Quella drammatica possibilità venne poi identificata da Umberto Eco[197] come quella “intenzione formativa” che,  sulla scia di Luigi Pareyson (un percorso cattolico si potrebbe dire),  rappresentava l’elemento determinante per la definizione dell’opera.  Così posto il problema,  risulta evidente che il dato fondante non era rappresentato dal riconoscimento della  quidditas della cosa fotografata (muro, corteccia, manifesto o figura che fosse) ma dal processo di restituzione  operato dal fotografo;  vale a dire, generalizzando, dalla consapevolezza dell’atto fotografico quale operazione di astrazione di quella porzione di reale dal suo contesto, cioè nella sua trasformazione in soggetto e in opera come nuovo elemento di realtà, come realtà nuova non preesistente. A maggior ragione dovevano intendersi come oggetti nuovi quei lavori  che non erano in alcun modo ‘astrazioni’ ma semmai prelievi, rilevamenti di impronte come i fotogrammi;  una pratica lunga quanto la storia stessa della fotografia, già ampiamente ripresa dalle avanguardie storiche europee poi rinnovata e celebrata nel secondo dopoguerra anche in una serie di  iniziative espositive del MoMA di New York[198] . Tutte operazioni e pratiche che in quegli anni di feroce confronto col fronte realista erano fortemente, ideologicamente osteggiate,  tanto che nel presentare la Mostra della fotografia italiana a Firenze del 1953 Monti avrebbe ironicamente polemizzato con gli esponenti  dell’Unione Fotografica scrivendo:  “Ad alcuni insospettiti amici milanesi diremo che in questa mostra non ci sono solarizzazioni (…). C’è un solo fotogramma, dello scrivente, e speriamo che ci sia perdonato”[199].

La sua seconda personale venne allestita nel luglio del 1953 presso la Bottega “Il Ponte” di Venezia, a cura della Sezione Fotografica del Centro Studi Arte Contemporanea[200].  Nella presentazione Berto Morucchio  ne  riconosceva “il gusto sofisticato (…). Ecco nascere il suo mondo, con il suo alfabeto: racchiuso in un contrasto violento di luce e ombra, scarno di tristezza esaltata, da primitivo. Anche dove predomina la sollecitazione intellettuale sa essere umano, di un’umanità paradossale (…) così sa frenare il vecchio patetismo con l’intervento di una buona dose di scetticismo mentale che fa parte delle sue qualità oggettive. È una forza nuova della fotografia italiana”[201].  Qualche  mese più tardi Monti espose a  Lendinara[202] una serie di lavori (tra i quali il Ritratto di Fulvio [Roiter], tav. 068) introdotti dal testo redatto per la personale romana di due anni prima[203]; tra i più sensibili visitatori  vi fu Ferruccio Ferroni,  che subito ne scrisse  a Roiter: “Ho visto a Lendinara la mostra personale di Monti: un complesso di opere bellissimo e nuovo. Monti sa trascinarci nel suo mondo con irreprensibile genialità, mondo di allucinazione, che non sai se vivi nella realtà o nel sogno e, per uno strano gioco di prospettive, credi di aggirarti in piena coscienza fra le cose reali, ed invece proprio allora queste ti sfumano nell’irreale.”[204] E ancora, a Parmiani, “Mi sembra che sia una cosa magnifica, col suo mondo allucinato ed inquieto. Sotto la scorza di intellettualismo che un po’ traspare dai suoi lavori, si celano motivi lirici di bellezza incomparabile. Per me Monti è il poeta della inquietudine, in questo mondo in cui più nessuno sa vedere al di là di sé  stesso”[205]. Le ragioni di quel sentire erano esplicitate in una lettera dello stesso Monti a  Ferroni:  “Ma in segreto ti dirò – scriveva –  che molte mie fotografie io finisco per odiarle perché mi rimandano l’immagine stilizzata e quindi ben più evidente, di un mondo che io detesto nelle persone e nelle cose: direi che molte mie fotografie sono una reazione e una protesta e vorrei che arrivassero ad essere un insulto. Forse queste non sono le condizioni migliori per fare dell’arte, ma me ne frego proprio perché queste cose sono quelle che debbo fare, almeno per ora. (…) Chi guarda le mie foto non ha vie di mezzo: prendere o lasciare (…).  Molti non le possono vedere, ma ormai quando sono in giurie questi egregi signori non hanno il coraggio di scartarmi e devono digerire i miei rospi. Prosit!”[206] Inevitabile allora riconoscere quel disagio inquieto come la più radicata costante della sua espressione più personale e intima, per questo assente nei lavori professionali, ma anche una forte coazione a ripetere, una volontà di sfida quasi, se consideriamo che nel periodo 1952-1967 Monti prese parte a circa quattordici  mostre  personali e sessanta collettive[207], con opere che intendevano “partecipare [delle]  molteplici e divergenti esperienze attuali e anche proporre il semplice risultato di puri esperimenti tecnici che forse troveranno più tardi compiuta espressione”[208]. Il dato quantitativo[209]  indica in maniera netta la parcellizzazione, meglio la polverizzazione di quelle iniziative di livello eterogeneo e discontinuo, com’era nella buona tradizione del tanto vituperato salonismo fotoamatoriale, nella convinzione però che fossero “le uniche manifestazioni che possano indurre il pubblico, e specialmente i giovani, a farsi un’idea abbastanza precisa dei mezzi espressivi affidati oggi alla fotografia”[210].

Erano quelli gli anni in cui ogni borgo per quanto piccolo, ogni città per quanto grande ospitava o promuoveva  una Rassegna o una Mostra, certamente Nazionale e possibilmente Artistica,  a cui Monti – che pure stava affrontando l’impegnativo passaggio al professionismo – cercava di non mancare,  dimostrando una bulimia partecipativa non indifferente, non di rado gratificata dall’assegnazione del primo premio. Così a Spilimbergo nel 1954 per il Ritratto del pittore Gianni Dova, attribuito da una giuria composta da Elio Bartolini, Fulvio Roiter, Giannni Borghesan, Carlo Bevilacqua, Novella Cantarutti e Italo Zannier[211];  quasi una dichiarazione d’intenti  se consideriamo che i membri comprendevano alcune delle figure che di lì a poco avrebbero partecipato all’avventura del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia.  Certamente estranea a quel mondo, a quella compagnia di giro quasi, era Fiamma Vigo, che dirigeva la fiorentina Galleria Numero con Alberto Sartoris e che nel 1955  offrì a Monti una personale quale esito della selezione operata da una giuria costituita da Renzo Pavanello, “il più gran competente fiorentino in materia fotografica, il Dottor Baccioni e il signor  [Giovanni] Poggiali (tutti e due fotografi), il critico d’arte Alfredo Righi”[212], segretario dello  Studio Italiano di Storia dell’Arte diretto da Ragghianti e critico del “Nuovo Corriere” fiorentino, oltre alla stessa Vigo; un’iniziativa alla quale presero parte nomi estranei  al consueto e pur ampio panorama amatoriale nazionale.

 

Piccolo mondo antico

Nell’anno successivo alla fondazione de La Gondola Monti partecipò a titolo personale a due importanti mostre italiane che si tennero a  Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, e a Milano nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[213], che costituiva al momento la sede del più avanzato confronto critico intorno alla nuova cultura fotografica, specie per merito del gruppo di giovani riuniti intorno a  Pietro Donzelli che nei mesi successivi avrebbe proposto  mostre di Henriette Grindat, Chargesheimer e Fotoform. Come ha notato Zannier[214], fu proprio la mostra di Chargesheimer nell’estate del 1950 a decretare lo strappo che portò alla fondazione dell’Unione Fotografica nel dicembre di quell’anno, ma che ci fosse aria di fronda lo mostravano già  le recensioni dello stesso  Donzelli sulle pagine di “Ferrania”, molto critiche e pungenti nei confronti di  alcuni autori presentati  al CFM: la Hoepfner e la Heinrich ad esempio, ma anche gli autori de La Bussola, con l’eccezione di Veronesi.

Monti guardava con grande interesse a quegli autori e a quelle iniziative, riconoscendo, nel 1955, che “L’Unione Fotografica di Milano, appena costituitasi (1951), con una grande mostra fotografica  proponeva allo studio dei fotografi italiani le migliori opere europee, mai viste negli originali”. Il riferimento era alla Mostra della fotografia europea che si era tenuta a Brera, da pochi mesi riaperta dopo i disastri della guerra, nell’ aprile 1951[215], “al fine di dare un panorama abbastanza ampio della fotografia europea e del carattere di questi movimenti rinnovatori” [216], rappresentati da  significative presenze  internazionali quali  Bill Brandy, Bert Hardy, Boubat, Angenend, Hammarskiold, Maraini, Pim van Os, Ronis e Lorelle, Ortiz Echague, Fotoform e La Bussola, “oltre a una ventina di fotografi italiani”. Così Donzelli, che rivendicava il fatto che “tutte le tendenze e gli ismi sono stati esposti”[217] e che un’intera parete fosse stata dedicata “alle opere degli astrattisti e dei surrealisti. Opere non facili da comprendere per chi non ha, oltre una buona cultura, una naturale predilezioni per questi modi di espressione artistica [che con] il verismo ed il neorealismo (…) sono gli ismi meno accetti dalle giurie”, ancora orientate al gusto salonistico e tardo pittorialista. Nel luglio di quello stesso anno si apriva a Venezia, a Ca’ Giustinian, la Mostra fotografica nazionale retrospettiva 1940-1950, da intendersi quale primo momento di un più articolato e coerente percorso di messa in prospettiva storica della produzione nostrana, che quale tappa successiva prevedeva la Mostra della fotografia italiana che si tenne nella stessa sede nel maggio del 1952, presentando solo opere di autori de La Gondola e dell’Unione Fotografica (con l’esclusione quindi di quelli de La Bussola) [218]. Poiché “nessuna città come Venezia, ricca di rassegne d’arte di fama e importanza mondiale, ci sembra adatta a questo compito”, era inoltre indispensabile operare affinché Venezia potesse “diventare il più grande centro d’incontro dell’arte fotografica mondiale (…). Se non mancheranno iniziativa e coraggio il prossimo anno questa speranza può diventare realtà” [219].

Ancora a Ca’ Giustinian si tenne nel 1953 l’ecumenica V Mostra nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, organizzata sempre da La Gondola, con opere di 123 autori selezionati su 210 proposti. “Successo questo senza precedenti nel campo delle mostre nazionali italiane e che testimonia il crescente interesse per la fotografia in Italia, confermato anche dalla continua costituzione di nuovi Circoli fotografici (…). A questo proposito aggiungo che il Circolo Fotografico «La Gondola» non avrebbe avuto alcuna difficoltà a formare una giuria composta unicamente di propri soci, ma è sembrato più opportuno chiedere la collaborazione di due fotografi estranei al circolo a maggior garanzia per tutti di sereno ed obbiettivo giudizio, esigenza necessaria in qualsiasi mostra e quindi tanto maggiore in questa, che deve considerarsi la più completa rassegna annuale della fotografia italiana. (…) Per molti segni si può affermare che la fotografia in Italia desta un crescente interesse: ovunque si vendono come non mai libri di tecnica fotografica, riviste estere, annuari e libri di sole fotografie, pubblicazioni tutte nelle quali è assente purtroppo l’editoria italiana e persino nel campo dei volumi illustrati di interesse turistico. Le mostre nazionali sono in continuo aumento ed è solo da temere che il numero vada a scapito della qualità, si fondano anche nei centri minori nuovi Circoli, si tengono corsi elementari di tecnica fotografica. Anche l’attività all’estero, per opera della F.I.A.F., non è più limitata all’iniziativa di qualche isolato, ma prende rilievo da importanti manifestazioni collettive. Manca ancora – proseguiva Monti – l’interesse della critica d’arte e della stampa periodica che sembra ignorare la fotografia come arte, ma modificare queste condizioni attuali è compito soprattutto dei fotografi e delle loro associazioni. Mi sia permesso ora fare alcune brevissime osservazioni personali sulla fotografia italiana come mi è apparsa da oltre 2.000 opere recenti, esaminate in tre diverse giurie. La tecnica è quasi ovunque in evidente progresso anche nel senso che si ammette finalmente che una fotografia non deve essere altro che fotografia, cioè mezzo autonomo di espressione che non tollera sleali manomissioni. Un progresso più lento si può invece osservare nell’abbandono di quei modi espressivi che erroneamente si dicono «superati» e che fanno parte di una tradizione che si richiamava a modelli pittorici di nessun valore d’arte. Si vorrebbe poi vedere in molte buone fotografie una fantasia più risentita, direi più rischiosa e in molte altre un gusto più sorvegliato dell’inquadratura, una esattezza più raffinata e anche una più sicura intelligenza delle possibilità grafiche della fotografia. È  però indubbio che la fotografia italiana sta cercando le sue nuove strade, quelle dell’arte e della poesia, ed è mia convinzione che in questa ricerca la cultura sarà di grande aiuto, non la cultura libresca ma quella diventata vita e quindi mezzo di profonda comprensione e di continua scoperta del mondo e degli uomini. Nulla si addice meglio alla fotografia delle parole di Goethe a conclusione del suo saggio sull’occhio umano: «Non si vede che quello che si sa»”[220].

Una più selettiva Mostra della fotografia italiana (e la reiterazione del titolo è significativa) ebbe luogo a Firenze alla Galleria della Vigna Nuova, con trenta autori di diverso orientamento e appartenenza[221], che nelle intenzioni dei promotori doveva mostrare “quel che di meglio è stato possibile raccogliere nel campo recente della fotografia italiana d’arte[222], rispettando ed accentuando, beninteso, tutte le tecniche e tutte le tendenze, sempre che i valori estetici fossero vivi e presenti”[223]. Da qui  la selezione quantitativamente ridotta ritenuta indispensabile per consentire l’esposizione in una galleria d’arte, nella convinzione che “tutto debba essere tentato per portare la fotografia a contatto con gli ambienti artistici più qualificati a giudicarla alla stessa stregua e con la stessa severità delle altre arti figurative, cosa che all’estero si fa ormai da tempo”. Invece “in Italia sembra che la fotografia sia fatta esclusivamente per i fotografi, unica setta autorizzata a parlarne con competenza. E quanto profonda essa sia, molti articoli di riviste fotografiche stanno a testimoniarlo, tanto che verrebbe voglia di cavarne un’agile antologia che potrebbe avere una sua edizione nei classici del ridere”[224]. Si trattava di un’ulteriore conferma dell’esistenza di due fronti nettamente distinti e duramente contrapposti che vedevano collocarsi da un lato l’élite intellettuale (e fotografica, a prescindere dagli orientamenti personali) degli autori de La Bussola, della Gondola e dell’Unione Fotografica e dall’altro il persistente fotoamatorismo salonistico rappresentato dai circoli associati alla FIAF, sostenuto da riviste quali “Il Corriere Fotografico”. Qui venne ospitata una dura, acrimoniosa recensione critica della mostra fiorentina, esplicita sin dal titolo: La montagna e il topolino. “Noi (…) abbiamo trovato una bella piccola mostra, forse un tantino più curata delle solite, ma niente di più. (…) Insomma il torto è stato di aver voluto far tremare la montagna, e la montagna ha partorito un topo, lindo e grazioso fin che si vuole, ma sempre topo. (…) Particolarmente discutibili son i lavori presentati dai tre giudici [Cavalli, Francesco Giovannini, Monti], uno per ciascuno, tenuti ovviamente dagli autori per altrettanti do di petto. (…) Paolo Monti, che pure è uno dei nostri otto o dieci più valenti amatori e di cui abbiamo ammirato tanti pezzi magistrali, ha ceduto anche lui all’imperativo del ‘nuovo’ per forza, e ciò gli è costato una autentica stecca. Ha combinato – lo avreste mai creduto – un ‘Fotogramma’, cioè uno di quei vecchi giochetti, talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. (…) Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri”[225]. Insomma, niente che per Maurizio Nèvola potesse corrispondere al progresso riconosciuto da Monti, alla convinzione che “mentre qualche fama rapidamente declina, sorgono nomi nuovi di giovani e anziani che, più che promettere, affermano la loro personalità”[226], ed erano Roiter, Donzelli, Branzi.

Ulteriori occasioni di analisi, confronto e bilancio delle condizioni e  prospettive della fotografia italiana  vennero proposte da Monti in due articoli degli anni immediatamente successivi: quello dedicato a La Gondola, del 1954[227], e specialmente quello relativo al panorama più recente, del 1955. Nel primo, quasi prendendo a pretesto le caratteristiche del gruppo,  rifletteva col consueto scetticismo sulle possibilità della fotografia come “linguaggio universale”, e fatta salva la “conquista[ta] autonomia di questo linguaggio espressivo” ne rivendicava “la completa libertà di espressione”, considerandola elemento necessario soprattutto per l’attività di un club, poiché “in questo campo di sterminate esperienze, più che le enunciazioni teoriche valgono le opere singole nei loro concreti valori”, esprimendo così forti riserve culturali sui dirigismi de La Bussola. “Non mancano – proseguiva Monti – i continui inviti rivoltici nell’intento di farci accettare alcune posizioni particolari e mentre da destra ci sollecitano a fotografare bottiglie di latte proibendoci qualsiasi accenno narrativo, da sinistra si vorrebbe che i nostri obiettivi fossero giorno e notte puntati sull’uomo, questo innocente bersaglio di troppe indagini più o meno legittime e accettabili.” Si trattava insomma di rivendicare ancora una volta la propria libertà espressiva al di fuori di ogni imposizione anche minimamente e falsamente ideologica. Non che intendesse disconoscere (storicamente, criticamente) i meriti del gruppo riunito intorno a Giuseppe Cavalli, come del resto chiariva bene giusto in apertura del secondo articolo in questione[228], poiché “il merito di quel Gruppo sta proprio in questo: di aver diffuso una coscienza artistica che oggi fra i migliori è retaggio comune (…). Le critiche al preteso formalismo de La Bussola vennero naturalmente da coloro che confondono la verità dell’arte con la empirica bellezza della natura e il dramma della condizione umana con la sbracata retorica del verismo.”  Si trattava perciò di raccogliere “più che i modi espressivi, la lezione estetica” di quei lavori, come fecero appunto i membri della Gondola, che si diedero però – e qui la differenza era programmatica – al “continuo studio dei massimi fotografi stranieri, specialmente europei”, seguendo in questo piuttosto i modi dell’Unione Fotografica, anche se – proseguiva Monti – il loro era “più uno scopo di cultura (…) che non quello di una presenza costantemente attiva come produzione fotografica dei singoli”, esprimendo così anche un giudizio critico sulle opere degli autori di quel sodalizio.  Dopo una sintetica rassegna dei nomi a suo giudizio più significativi così concludeva, coerentemente: “Qualche critico ha creduto di vedere in questo fluido succedersi di movimenti una situazione piuttosto confusa della fotografia italiana. Ma qui saremmo tentati di scrivere un elogio della confusione perché tutto ciò che è vivo si accompagna naturalmente a un certo grado di disordine. E la fotografia italiana è certamente ben viva.” Un parere radicalmente opposto a quello espresso da  Pietro Donzelli[229] in un testo amaro e sconfortato, nel quale  parlava di “quella malata di noia e mancante di personalità che è la fotografia italiana” , scagliandosi contro “l’insolito fervore di mostre che si susseguono con confortante ritmo, incentivo di attività per i fotografi allettati da premi, anche cospicui, in denaro.” La critica proseguiva puntuale e impietosa lamentando l’ignoranza e il disinteresse di molti fotoamatori (rappresentati dalla FIAF) per la scena internazionale, da cui faceva derivare “la mancanza totale di opere degne come ritratti e paesaggio, espressioni chiave di una personalità.” E inoltre, a proposito di mostre e giurie,  “se i nostri amatori dimostrano poca fantasia la colpa è da attribuirsi anche alle giurie delle mostre e all’impreparazione della critica.[230] (…) A proposito delle giurie ricordiamo un fotografo che, per esperienza, quando deve preparare i lavori per una mostra li sceglie in funzione della giuria che dovrà esaminarli. Conosce i suoi polli perché ne segue da tempo l’attività e ne conosce i gusti. (…) È convinzione di alcuni critici [leggi Monti] che le giurie debbano comprendere anche letterati, pittori ecc. Non siamo dello stesso parere perché conosciamo l’opinione che questi generalmente hanno della fotografia, [ma] la fotografia, ormai riconosciuta come fatto artistico, deve avere una critica specializzata, precisa, documentata e costruttiva perché determinante ne sarà l’influenza nei confronti dell’evoluzione. (…) A giudizio dei nostri critici anche il neorealismo non è arte (…) perché lo ritengono uno strumento di propaganda al servizio di determinati partiti. (…) Se si è succubi di tali preconcetti non si deve quindi scrivere che l’arte non ha limitazioni per esprimersi. (…) Non possiamo affermare che la nostra fotografia sia in crisi perché nei confronti di altri paesi, che denunciano veramente una stasi creativa, non abbiamo ancora percorso il cammino da essi  compiuto nei confronti dell’evoluzione.”  La riflessione sullo stato della fotografia italiana venne ripresa da Donzelli in un contributo dell’anno successivo[231] – piuttosto pretestuoso e incerto nelle posizioni – nel quale si scagliava contro gli opposti manierismi dell’ high key  e della fotografia ‘sperimentale’ e la sostanziale mancanza di personalità e idee. Soprattutto però metteva in discussione l’eredità de La Bussola e il valore della “presunta scuola veneziana” attaccando duramente Monti,  pur senza mai nominarlo, per la sua avversione alla “sbracata retorica del verismo” [232].  Ciò detto (e forse non sorprendentemente) molte loro opinioni quasi coincidevano sia a proposito della validità dei principi del Manifesto del 1947 che delle due correnti della fotografia mondiale orientate secondo i poli opposti di The Family e Subjektive[233], minoritaria questa per la scena italiana secondo  Donzelli, che pure non comprendeva la retorica propagandistica della mostra di Steichen.  Anche per Tranquillo Casiraghi[234] “ancora non pochi sono gli autori di ottime opere che hanno il solo torto di essere fermi entro gli schemi di una fotografia di maniera”, mentre Alfredo Camisa parlava di “statico basso livello della massa della nostra produzione fotografica”[235]  presentata alle mostre e pubblicata sulle riviste di settore. Sebbene si trattasse di una tempesta in un bicchier d’acqua nell’ininfluente mondo della fotografia “d’arte”, ciò che quelle considerazioni lasciavano intravvedere era il maturarsi di un contrasto per più versi insanabile, pubblicamente giocato in punta di penna che si manifestava però in modo virulento nello spazio privato e protetto degli scambi epistolari.

Il 25 agosto del 1956 si inaugurava a Pescara la  I Mostra Internazionale di Fotografia Artistica, con  la presenza di quindici stranieri e venti italiani tra i quali molti autori della Bussola e della Misa. La novità risiedeva essenzialmente nelle modalità organizzative che prevedevano la chiamata per invito e quindi l’assenza di una giuria, sebbene poi emergessero anche in questo caso alcuni limiti strutturali, puntualmente evidenziati da Giuseppe Cavalli[236], per il quale “le Mostre ad invito devono (…) superare due ostacoli contro i quali non basta volere. Il primo si presenta ai promotori ed è la difficoltà di invitare tutti quelli che se lo meritano (…). Il secondo, anch’esso difficile, riguarda invece gli artisti, i quali, in questo genere di Mostre, fanno spesso constatare che non hanno mandato le loro opere migliori. (…) A cominciare da quelli della «Bussola», parecchi dei quali (non dico tutti: Veronesi e Giacomelli, per citarne due, sono saldamente omogenei ed efficaci) accanto a fotografie pregevoli ne espongono di evidente minor impegno.”  La disamina proseguiva nominalmente riconoscendo infine che, con l’eccezione di Steinert, “questo maestro di statura europea”[237], gli stranieri  apparivano “ in complesso qualitativamente inferiori, sia pur di poco, agli italiani”, che a loro volta “si sono battuti bene. Non dico capolavori, merce sempre più rara dappertutto, ma opere belle ce n’erano parecchie.” Un quadro quasi idilliaco e pacificato si direbbe, dal quale emergevano però indizi di tensioni diverse e non risolte, come mostra il commento riservato a Ferroni, che gli appariva “impegnato alla ricerca di una nuova cifra, [in] un periodo di incertezza. Ricerca disagevole, forse perché vien perseguita più subendo la suggestione di questo o quel «credo» che ascoltando con semplicità il sentimento proprio”, mentre Parmiani non solo “sembra che abbia osservato con simpatia i tedeschi”,  ma “richiama i surrealismi  cari ad alcuni fotografi germanici, meno cari alla nostra sensibilità latina. (…) In tono minore Paolo Monti; non entusiasmano molto le due foto naturalistiche, genere difficile, ove la magica resa della materia, che contribuisce a creare la suggestione di questi piccoli mondi misteriosi,  può essere raggiunta solo attraverso il dominio perfetto della tecnica (non è facile dimenticare, per es., certi risultati strepitosi del Weston). Bello, invece, il ritratto della vecchia seduta, anche se fa ricordare con insistenza l’altro, dello stesso autore, molto simile per costruzione e forse più efficace, di un prete”[238].   Più interessante il retroscena offerto dalla testimonianza di Giacomelli, il quale informava Camisa che  “Monti con Parmiani [erano] già a Pescara da diversi giorni in attesa della Mostra. Mi è stato riferito da alcuni amici di Pescara che il dott. Monti si è lasciato sfuggire alcune parole poco simpatiche e che il dott. Novaro, il quale ospita loro, va ripetendo con insistenza. Quando verrai a Senigallia ti racconterò tutto. In sostanza posso dirti per ora che ce l’hanno con noi due e faranno in modo che all’infuori di Branzi (questo non riesco a capirlo) finiremo per non figurare più alle mostre perché piano piano ci castreranno completamente.”[239]  Una questioncella sulla quale proprio Branzi avrebbe ironizzato anni dopo chiedendo all’amico Camisa “se Monti ha rifatto pace con quelli di Pescara, se quelli di Pescara hanno rilitigato con Monti, se è stato interpellato il Cavalli, se Finazzi abbia per caso strizzato sardonicamente gli occhi?”[240]. Di fatto un rivolgimento totale rispetto alla sintonia manifestata solo pochissimi mesi prima in occasione della II Mostra Nazionale di Fotografia promossa dall’Università popolare di Castelfranco Veneto (19 marzo – 3 aprile 1955) dove Giacomelli[241]  aveva ottenuto  il suo primo riconoscimento personale “per avere espresso in un complesso di opere un’alta manifestazione artistica della fotografia”. Ancora  molti anni dopo Monti avrebbe ancora ricordato la gioia e l’emozione provate per quella vera e propria “apparizione (….) perché di colpo la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato”[242], sebbene la sua opera fosse passata quasi inosservata ad un commentatore come Berto Morucchio, che in un quadro complessivamente poco soddisfacente (“dove è la voce nuova, il nuovo talento dai lineamenti ben spiccati?”)  lo segnalava semplicemente come un autore che “rivive con una sua sensibilità la lezione di Cavalli”[243]. Il legame di stima e rispetto che  legava Giacomelli a Monti era confermato in una lettera del primo a Camisa dell’aprile 1956 nella quale ricordava la propria partecipazione “alla Mostra Internazionale di Venezia (…). Mi sarebbe dispiaciuto immensamente se avessi dovuto assentarmi a tale manifestazione, anche per il sig. Monti il quale, mi ha sempre compreso dandomi le più belle soddisfazioni”. Poi  aggiungeva: “Di al sig. Monti di non volermene, perché io ho molta fiducia in lui, e lui già sa che a me piace andare d’accordo con tutti: è così bello! Se hai modo salutami tanto il dott. Monti e il dott. Morucchio”[244] . Qualche mese più tardi Giacomelli si sarebbe  però lamentato con lo stesso destinatario “dei cattivi apprezzamenti che il sig. Monti fa su di me. Ho sempre avuto fiducia in lui. L’ho sempre difeso. (…) Immagino che qualche suo pupazzo gli abbia riferito quanto a lui più gli giovava per vedermi disprezzato. (…) Vorrei dire al Sig. Monti che, se non sa dove attaccarsi, si attacchi al tram e non a me”[245]. Nel ricordo di Alfredo Camisa[246] “in giuria c’era Paolo Monti, che poi mi chiamò (…) Andai all’inaugurazione della mostra (non ero al corrente di certi rituali) e fu allora che scopersi che si era sparsa la voce che io non esistevo, che l’autore fosse un vassallo di Monti che prestava il suo nome per presentare opere di Monti stesso. Il mondo fotografico italiano si stava svegliando; fino ad allora, infatti, aveva dormito sotto le ali di Cavalli, ma si svegliò subito male, pieno di invidie e maldicenze.” “In cielo sfrecciavano due comete: quella un po’ stanca di Cavalli e quella inquieta di Monti – avrebbe ricordato Branzi[247] –  e noi giovani eravamo risucchiati dall’una o dall’altra coda. Di fatto interpretarono il ruolo di due sommi ‘pifferai’ caratterizzati da opposti accordi. Cavalli aveva una visione crociana dell’espressione artistica, una mentalità ed una cultura raffinate, ma anche un po’ contorte, da meridionale qual era. Monti, al contrario, in costante inquieta fibrillazione caratteriale, aveva una forte componente di espressionismo nordico e le sue immagini erano scarne, tendenti all’astratto e in qualche caso all’informale, con toni contrastati e fondi. Si muoveva in una dimensione culturale che potremmo definire calvinista, comunque più europea di quella forse un po’ provinciale di Cavalli.”

Lo scontro tra ‘montiani’ e ‘bussolanti’, con Cavalli ormai in posizione minoritaria rispetto all’emergere della figura di Monti e   in profonda crisi per le burrascose vicende della Misa, tra cui le dimissioni di Ferroni nel 1954[248],  andava progressivamente crescendo, come testimonia il passo di una lettera di Ferroni a Roiter del marzo 1955 a proposito della recente mostra di Castelfranco Veneto, nella quale aveva visto emergere  “la parola nuova che ci aspettavamo e che tanto fa pensare il Cavalli. La parola nuova di chi intende la fotografia liberamente, come mezzo di espressione del proprio mondo, libero ed alieno dalle astruse forme e dai toni più o meno alti”[249]. Il clima di quei mesi, le tensioni tra i diversi protagonisti di quelle scaramucce sono ben restituiti in una lettera di Monti a Ferroni del marzo 1955 nella quale scriveva: “L’ultima tua lettera dove leggo che praticamente sei stato messo all’ostracismo dai vari membri del Misa mi ha veramente nauseato: mai avrei pensato che Cavalli potesse giungere a tanta bassezza e se mi capiterà l’occasione vorrò parlarne e dargli una lezione come si merita. Ma anche quei quattro vigliacchetti del Misa mi fanno pena e se li incontrerò a Castelfranco il 19, alla inaugurazione della mostra, dirò loro che non basta essere buoni fotografi per essere considerati uomini e specialmente uomini onesti”[250]. Nei giorni della rivoluzione ungherese e della repressione sovietica (23 ottobre – 11 novembre 1956)  la disfida  assunse precise  connotazioni politiche; così in occasione della III  Mostra Internazionale di Fotografia Artistica di Ancona che si svolse in quello stesso novembre, Cavalli scriveva a Camisa[251]: “Perdonami se, per spiegarti le nostre idee, mi sono dovuto dilungare tanto, ma è bene che voi giovani da poco entrati nella Bussola sappiate quali sono i principi che hanno permesso al nostro Gruppo di esercitare tanta influenza sulla fotografia italiana. Si cerca oggi, anche con attacchi personali, di porre fine a questa influenza; ma la stessa guerra che viene fatta alla Bussola sta a dimostrare che siamo culturalmente vivi ed operanti; se fossimo morti perché dovrebbero prendersi la pena di combatterci? Passiamo dunque a Pedro Armendariz, pardon Martinez[252]. Tu ci hai fatto sapere che a Milano Monti se lo è lavorato per bene. Io posso dirti che dopo esserselo lavorato lo ha passato nelle mani di Parmiani il quale tra pranzi, cene e gite in macchina lo ha persuaso infine ad andare con lui ad una specie di riunione in Ancona. Tutto era stato accuratamente preparato. Da Pescara erano arrivati Novaro e Simoncelli i quali passando da Fermo avevano prelevato Crocenzi ed altri quattro o cinque comunisti[253] del CCF; da Milano era atteso Monti, da Bologna come ti dicevo giunse Parmiani con Martinez. Monti non si fece vedere. Il gruppo (al quale nel pomeriggio si aggiunse Ferroni) aveva in programma la ‘critica’ della mostra di Ancona; si recarono lì, infatti, e ad alta voce dissero peste e corna delle opere esposte a cominciare da quelle premiate (…)  conclusero tutti che la mostra era «da bruciare». Dopo di che andarono a pranzo e Crocenzi espose il suo progetto di fare un manifesto «realista» ecc.  A questo punto devo dirti che da qualche tempo il comportamento di Crocenzi mi lasciava molto perplesso; so che c’è stata una riunione a Cesena con lui, Monti, Parmiani e tutta la cricca la quale lo ha persuaso a mettersi in posizione a noi contraria; so da buona fonte, inoltre, che il CCF è stato dalla polizia schedato fra le organizzazioni comuniste (…)”[254].  E Giuseppe Möder in aggiunta: “La mostra in complesso può andare, sebbene più della metà delle opere sarebbe da togliere di mezzo. Mi ha detto Giacomelli che domenica scorsa sono calati come lupi famelici i vari Novaro, Simoncelli, Monti, Parmiani e hanno detto un sacco di male delle opere esposte. Novaro, che non ha avuto alcuna opera accettata, era il più furibondo. Andava dicendo che bisognava bruciare tutto. Con loro hanno portato il direttore di “Camera” e tu puoi immaginare che razza di terremoto. Hanno detto male di te, di me e di tutti. A me queste cose mi fanno ridere perché provo tanta pena per quella gente che invece di pensare a lavorare va facendo la donna di servizio. Mi stupisco poi quando pensano di passare per persone intelligenti e sapientone”[255].

Passato ormai al professionismo, Monti viveva comunque in pieno quel clima di scontri e scaramucce tipico della fotografia amatoriale e dei rapporti tra i Circoli, nel cui contesto sembrava ricercare una propria personale rivincita sui bussolanti, emarginando  (e prendendo il posto di) Cavalli come figura di riferimento. Quasi un conflitto edipico.  “E ora dovrei dirti della mostra di Salsomaggiore (…) – scriveva Camisa a Möder – A proposito di gesti polemici stupidi: hai saputo che Roiter aveva mandato, oltre che a suo nome, pure sotto falso nome e che ha fatto il diavolo a quattro accusando la giuria di settarismo perché gli hanno accettato e pubblicato sul catalogo una della foto sotto falso nome? Dimmi tu se una persona nella posizione di Roiter deve prestarsi a fare delle figure così cacine…)”[256]. Che quella prassi non costituisse un caso isolato è confermato anche da Giacomelli: “ Sì perché alcuni  lo facevano: mandavano le foto con il nome della moglie o del figlio. Dicevano «Vinco qua, vinco là» (…) quando gli ‘amici’ hanno visto che io vincevo dieci volte e loro una, quando erano nella giuria mettevano da parte le mie cose, mica le esponevano, le levavano, non le facevano accettare”[257].   C’era però anche chi si ritraeva da quei teatrini:  “Se mi sono appartato da qualche tempo e non partecipo troppo alla vita fotografica italiana – scriveva Möder – è perché ne sono nauseato.  Camorra dappertutto, beghe personali, gente che parla male del prossimo e via di questo passo. La fotografia italiana è diventata una giungla e un pessimo ambiente”[258]. Altri, infine, inevitabilmente esclusi da quel terreno di scontri incruenti, si lamentavano di quella “organizzazione burocratica” fatta di circoli e centri di studio della fotografia (leggi Crocenzi): “si diffondono manifesti, si tengono raduni e discorsi, chiamati lavori; si fa qualche mostra e si fotografa, anche” [259].  L’assenza di Monti dalla mostra Contemporary Italian Photography che l’Unione Fotografica era stata invitata a curare presso la George Eastman House nel 1957, ritenuta da alcuni “la prima presentazione in assoluto della fotografia italiana negli Stati Uniti”[260], credo debba essere letta in quel contesto: considerando che comprendeva ben 26 fotografi tra i quali De Biasi, Branzi,  Donzelli, Berengo Gardin, Giacomelli, Migliori, Roiter, Veronesi e Zannnier. Risaltava (in parte) l’assenza di Cavalli, ormai forse considerato meno ‘contemporaneo ’, ma ancor più quella di Monti (vicino a molti di loro) che avrebbe però avuto la propria rivincita l’anno successivo con la pubblicazione di alcune sue fotografie nella sezione Around the World in Fifty Photographs di  The picture history of photography from the earliest beginnings to the present day di Peter Pollack, che riconosceva l’appartenenza di Monti “a quella corrente di fotografi italiani che ha scoperto i valori del realismo sfrondato d’ogni sentimentalismo e ha rinnegato sdegnosamente la tendenza a presentare immagini magniloquenti di un’Italia esistente solo nei sogni. (…) Sue caratteristiche precipue sono l’ardimento con cui colloca le forme nello spazio e il contrasto con cui compone neri o grigi intensi e accenti di bianco puro. Monti non cede all’astrattismo totale (…)”[261].

Ora che i gruppi e i circoli fotografici erano in via di disfacimento si definiva un nuovo scenario, nel quale prevalevano le singole personalità e gli individualismi. Lo confermava, quasi tra le righe, anche Paolo Monti in un articolo per “Camera” firmato a due mani con Martinez, che costituì l’occasione per l’ennesimo bilancio della fotografia italiana del dopoguerra. Se era vero che  “La Bussola” si stava disfacendo dopo poco più di  dieci anni di esistenza, la sua influenza aveva “portato al desiderio di rottura manifestato soprattutto dalle giovani generazioni” e “il valore dei suoi insegnamenti non poteva essere negato nel suo insieme. Il conflitto tra la tendenza in corso di affermazione e quella che l’ha preceduta – antagonismo che ci sembra essere anche di ordine metafisico, sebbene questo aspetto della questione sia stato generalmente celato – non dovrebbe farci dimenticare che, senza il lirismo di Cavalli e Balocchi, il senso dell’astrazione e i grafismi di Veronesi, senza il mondo dei valori tonali di Leiss e Vender, la fotografia italiana avrebbe difficilmente superato l’impasse in cui si è trovata per troppi anni. In un’epoca in cui i successi di questo gruppo cominciarono a imporsi all’attenzione, così come nel campo delle competizioni, poco o nulla gli si poteva opporre”[262].  Nel preciso momento in cui ne riconoscevano storicamente la rilevanza, i due autori  decretavano la fine del ruolo egemone de La Bussola. Assegnandole un posto  nella storia indicavano la fine della sua attualità  di esperienza viva, ancora feconda.

 

“Fotografia inutile?”

Con questo titolo Guido Rey aveva presentato una propria conferenza al Teatro Carignano di Torino nel 1908, qualificando la fotografia come “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è  il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[263], ma considerando il dibattito che si svolse sulle riviste italiane nel secondo dopoguerra, e ancora ben avanti sino ai tardi anni Sessanta, pare che il modo di intendere la  pratica amatoriale non fosse mutato affatto.  “Gran parte della ‘fotografia italiana’ è il prodotto della giornata di festa di un medico, di un avvocato, di un ingegnere”, scriveva  Zannier[264] nel 1956, confermando da una posizione critica quanto ancora rivendicava  il Presidente FIAF Renato Fioravanti, che parlava di “piacevole connubio dell’arte con lo svago”[265]. Era ormai chiaro che quella fotografia vissuta  come hobby non poteva far altro che “relegarsi in un angolo per iniziati, per rimatori, per prosatori d’arte. (…) D’altronde, questo modus mentale rientra in un tenore di vita, e va riferito a un’intera classe sociale, quella della piccola borghesia, da cui proviene la maggioranza dei fotografi italiani, dilettanti o professionisti”[266]. Una concezione e una pratica che Piero Racanicchi avrebbe attribuito a  una specie di “domenicalismo”[267], contrapponendole a quelle adottate da coloro che intendevano l’arte “fondamentalmente [come] una ragione di vita. (…) Forse è proprio per questo inopportuno intendere l’arte come svago che oggi, in molti circoli fotografici, assistiamo al dilagare di un malcostume, che si identifica in un aspetto dell’intelligenza e dello spirito comunemente chiamato ‘incultura’. (…) I soci di questi circoli praticano purtroppo, nella maggioranza, la fotografia con uno spirito di avventura domenicale che sarebbe meglio impiegato in una  sana attività sportiva.”  Esito scontato di quei “sacri weekends  estetici” erano quelli che Cesare Colombo definiva  “ludi salonistici”[268], mentre Pietro Donzelli si chiedeva retoricamente quanto fossero “necessari i salon fotografici? Agli effetti commerciali e propagandistici senz’altro; un tempo lo erano anche artisticamente”[269].   Erano quelle  “le infinite mostre degli amatori fatte senza nessun particolare scopo” di cui scriveva Monti; quelle “che naturalmente finiscono in quel continuo concorso di vanità personale che noi conosciamo benissimo. Io devo dire  che per aver appartenuto molti anni alla categoria degli amatori non mi metto certamente la cenere sul capo; non ci penso nemmeno. Soltanto voglio aggiungere che l’ambiente amatoriale qualche volta è abbastanza antipatico; e le ambizioni assolutamente fuori luogo e le discussioni e le continue querele di quello che si fa e non si fa e i premi ecc, sono una cosa del tutto inutile. D’altra parte questa è la scorza che bisogna rompere per trovare dentro un midollo un po’ succoso”[270].  Monti si sarebbe provato a delineare una geografia culturale della nuova fotografia nostrana in una Lettera dall’Italia destinata al numero di marzo del 1959 di “Camera” poi rimasta inedita[271], nella quale lamentava innanzitutto gli esiti delle “regole internazionali della FIAP”, che con i loro vincoli danneggiavano molti dei partecipanti alle “molte e forse troppe” esposizioni  “nazionali ed internazionali (e perfino regionali)”, “senza avvantaggiare nessuno, obbligando i visitatori alla sopportazione di una morbida noia generale nella quale il giudizio critico lentamente annega.”  Oltre il letterario esercizio di stile, l’analisi critica di  Monti individuava due aree geoculturali nettamente distinte e contrapposte sul piano della qualità delle proposte: l’una che viveva ancora “il salonismo più convinto e convenzionale (…). l’altra la Lombardia, il Veneto, le Marche, Emilia Romagna e la costa adriatica fino a Pescara”, nella quale “la fotografia si è inserita o ha tentato vigorosamente di farlo,nelle correnti più vive della fotografia europea, e non è un caso se anche la miglior critica fotografica viene da quelle parti, e basti citare Morucchio e Turroni e i pittori Guidi e Breddo.” In quella geografia si collocava la produzione fotografica più attenta alle “scuole fotografiche europee”, da quella “impropriamente definita «soggettiva»” alla lezione dei grandi reporter conosciuti anche per il tramite della I Biennale internazionale di Venezia, nella quale – come si è detto – proprio Monti aveva avuto gran parte.

Con un duro giudizio retrospettivo Ando Gilardi[272] riteneva che  sulle pagine di “Ferrania” si fossero svolti “sfiancati dibattiti: grotteschi impasti di ingenuità e malafede, presunzione e, soprattutto, omertà intellettuale, per cui ciascuno fingeva di credere alla profondità dell’impalpabile discorso di un ‘inconciliabile’ avversario”, ma è esattamente per queste ragioni  che quella rivista costituisce la sede privilegiata in cui riscontrare limiti e meriti di quel momento culturale, specie a partire dal 1958 quando – accogliendo un suggerimento di Renato Fioravanti – “Ferrania” avrebbe dedicato il proprio numero di dicembre alla Fotografia italiana.  Gli editoriali del direttore Guido Bezzola costituiscono ancora oggi una guida efficace alla comprensione di quella produzione, segnata da un imperturbabile  conformismo (“anche in fotografia la moda impera”, 1958; “oggi come oggi spaventa un poco la diffusione del luogo comune fotografico”, 1959)  e dai rischi “del decorativismo inutile, del formalismo frigido ed esteriore, delle immagini fini a sé stesse” (1960). L’insoddisfazione si manifestava anche nel riconoscimento di un diverso statuto del numero antologico, che per Bezzola (1961) non poteva ormai essere considerato un annuario ma semmai “un censimento, un reperto, uno studio stratigrafico (…) Noi vorremmo che a un certo momento questi numeri natalizi assumessero il valore di fonte, di repertorio, di mezzo di consultazione per il futuro o i futuri storici della fotografia: e rammentiamo che le ricerche non si basano soltanto su ciò che le fonti dicono, ma anche su ciò che tacciono. Se domani, la grande fotografia italiana non troverà qui i suoi nomi maggiori, sarà anche questa una constatazione storica preziosa, a suo modo utilissima.”  Un giudizio senza appello si direbbe, seppur espresso con raffinata (e un poco perfida) eleganza; quella che avrebbe poi perso strada facendo se nella Lettera agli amici fotografi del 1962  riconosceva di trovarsi  “sull’orlo di una fase gravemente involutiva”, parlando senza mezzi termini di “panorama squallido”. “Vi assicuro – proseguiva – che la scelta è stata un lavoro improbo: i tavoli di redazione erano letteralmente neri, coperti di fogli tutti neri con poche macchie bianche, e da tanto nero emergevano i soliti, triti, logori, stanchi e ripetuti soggetti: il muro scrostato coi bambini poveri, le suore nere, le vecchie nere, i preti neri, il jazzista negro, le casine nere sulla montagna grigia, le piante grigio chiaro sulla montagna chiazzata di neve, i paesaggi contrastati alla giapponese, la ragazza con i capelli sugli occhi e così via”[273], tanto che – aggiungeva Turroni[274] –  “a occhi non smaliziati, non ‘iniziati’, le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.”  Considerazioni che richiamano alla mente quelle di poco precedenti formulate da Monti nel corso del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando riconosceva che  “la mostra che c’è qui a Sesto non si sarebbe potuta fare dieci anni fa (…),  forse bisognava farla, potendo, ancora più ampia, invitando tutti e facendo una specie di inventario generale della fotografia italiana, lasciando che tutti si sfogassero a mandare, senza giuria, quello che ritengono che sia lecito far vedere al pubblico. Avremmo avuto probabilmente uno spettacolo, un’alluvione veramente rivoltante di cose volgarissime.”  Considerazione interessante ma certo riduttiva poiché non teneva conto della presenza sempre più rilevante di figure nuove di professionisti che non provenivano dall’ambiente amatoriale né si sarebbero mai misurati con il piccolo universo agonistico di mostre e concorsi: non Gilardi, non quelli che nel 1954-1956 producevano i “fotodocumentari” di “Cinema Nuovo” come Mulas, Dondero, Pinna, Sellerio, Giancolombo, Cisventi, Bavagnoli e  Samugheo  (una protagonista  assoluta delle copertine di “ Ferrania”), né altri come Marirosa Toscani e Aldo Ballo, Giorgio Casali o Alfa Castaldi. Fu proprio a  Sesto San Giovanni che Gilardi si provò a delineare una possibile via d’uscita da quella situazione di stallo, a fornire una prospettiva culturale e politica che all’epoca suscitò più di qualche perplessità[275] sebbene le sue proposte fossero inserite in un discorso molto articolato e complesso, certo il miglior intervento di quei giorni, che solo in parte toccava la questione della fotografia dei dilettanti, rifacendosi semmai, ma in modo meno politicamente schierato, alle opinioni espresse nel 1954 da Albe Steiner in una famosa lettera a “Lavoro”, il settimanale della CGIL:  “L’osservazione attenta di quanto ci circonda – scriveva –  dal Sud al Nord d’Italia, in tutti gli aspetti di denuncia di quanto c’è di negativo e che va rinnovato, e di quanto c’è di positivo nella lotta e nella vita che i lavoratori conducono per questo rinnovamento, costituisce il nuovo soggetto, la fonte di ispirazione più fresca. (…) Il tipo di fotografia cambia se cambia il soggetto, cioè se cambia il contenuto. Pensare alla campagna nella forma solita cercando il bello, per esempio, nella ragnatela controluce o nella finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato (…) non è pensare alla campagna ma è rinunciare alla campagna. E non basta cambiare i titoli perché il più delle volte la fotografia parla da sé. (…) E ancora: i laghi non come sola poesia turistica di pochi mesi, non come salici piangenti e propaganda di grandi ville private, testimoni di tempi che furono e che oggi ancora si sfruttano come arma di dominio, non come le caratteristiche barche che ormai fanno acqua o come le Vecchie reti al sole, la Torre avita o Castello solitario o quel che è peggio Riposo al sole d’autunno. Ci sono paesi che hanno bisogno d’acqua, di case, di scuole, di strade, di luce, di asili, di ospedali, di pulizia, di fogne e si fotografano da decenni come se fossero il sogno e la quieta speranza dei cittadini. Ci sono città che si fotografano come nei film dei banditi come se fossero il miraggio di sempliciotti campagnoli. E a furia di fotografare così, c’è chi crede e chi fa confusione”[276].  A Sesto San Giovanni Gilardi si era rivolto a “coloro che fotografano non per sé stessi solamente, ma anche e soprattutto per la società in cui vivono: intendendo per società qualcosa più che un cenacolo, o una categoria più o meno numerosa di colleghi con i quali, intenzionalmente o meno, si giunge a stabilire una specie di omertà: ciascuno piglia terribilmente sul serio l’altro, anche quando fra di loro ferocemente polemizzano, trattando astrusamente di scuole correnti e tendenze, in una specie di reazione a catena intellettualistica. Dal punto di vista individuale è proprio il rompere quella tale reazione a catena chiusa che indica ai nostri giorni il passaggio dal dilettantismo al professionismo (…).  La società e il mondo in cui viviamo si offrono a varie scienze come immenso campo d’analisi e di registrazione: la fotografia rappresenta uno strumento ideale, moderno e inimitabile, per misurare l’uomo e la sua condizione servendosi delle immagini. Non si comprende perché il fotografo amatore qualificato debba trascurare anche una attività di questo genere, per limitarsi quasi sempre alla fotografia celebrativa. E ancor meno si capisce perché l’organizzazione ufficiale dei circoli e delle associazioni fotografiche non debba incoraggiare e organizzare attività di interesse sociale e scientifico. Probabilmente si fa grande confusione su ciò che si deve intendere per fotografia artistica e fotografia scientifica, almeno per quanto riguarda alcuni settori di quest’ultima: sociologico, etnografico, storico, eccetera. Ma proprio per questa ragione si isola il dilettantismo qualificato condannandolo ad una ripetizione senza fine di esercitazioni calligrafiche di sapore punitivo  non solo per chi le vede, ma forse anche per chi le esegue” [277].

Negli anni del boom economico e in un’Italia in profonda trasformazione,  “mentre sorgevano nuovi campi di attività fotografica (…) mentre nascevano nuovi mezzi espressivi (la TV ad esempio) (…) la fotografia del medio dilettante evoluto è rimasta ferma: ora, in un mondo che va avanti (o almeno si muove) molto in fretta, star fermi o andare adagio  significa retrocedere, il che è puntualmente accaduto” ricordava Guido Bezzola[278].   Il passaggio al professionismo di alcuni dei protagonisti della stagione amatoriale del secondo dopoguerra come Monti e Roiter e l’abbandono della pratica fotografica da parte di figure di primo piano come  Branzi , Camisa e Ferroni,   segnavano anche simbolicamente la fine di una stagione durata poco più di un decennio. Come ricordava Cesare Colombo[279], “le mostre dilettantistiche cominciano a essere disertate. (…) L’atmosfera FIAF non è più tollerabile” e l’ironia ormai si “esercita contro chi si ostina a collezionare entry forms ed ammassi di vermeille.”  Oltre alla diffidenza nei confronti dell’universo concentrazionario dell’associazionismo, era proprio quell’esitazione, il passo sospeso sulla soglia dell’impegno professionale (e magari artistico) il segno caratteristico del tempo e soprattutto della fine del ruolo attivo e propositivo dei gruppi, che nell’arco di pochi anni avevano perduto ogni loro funzione, sfaldandosi o ripiegando su sé stessi, mentre la scena fotografica si popolava sempre più di singole personalità autoriali, autonome. Sarebbe stato poi lo stesso Monti a rimettere ancora una volta in discussione la funzione culturale del fotoamatorismo proprio (e con una certa paradossale improntitudine) in occasione dell’ennesimo premio di fotografia, quando ricordava che “poche esperienze sono così noiose e mortificanti come il partecipare a giurie di mostre fotografiche (…). È impossibile parlarne senza rabbia quando per lunghe ore sfilano davanti agli occhi cento ritratti su fondo nero di donne, bambini, adolescenti, uomini (molti del genere vagamente jettatorio) e cento paesaggi funerei da pianeta morto”[280]. Fu quella una delle sue ultime occasioni d’incontro col mondo amatoriale[281]: quell’amaro sdegno era l’esito di una disillusione, della deriva che riconosceva in quel ristretto ambiente di circoli e consorterie, di dibattiti come di pettegolezzi e ripicche che pure era stato il suo e nel quale si era formata, anche per contrasto a volte aspro, la sua coscienza di fotografo. A quel  feroce giudizio, certo fondato su di una solida esperienza di partecipante e giurato, non era certo estraneo il duro scontro maturato tra i soci de La Gondola, opponendo i più giovani come Berengo Gardin[282], Giuseppe Bruno e Giancarlo Angeloni al segretario Libero Dell’Agnese;  in apparenza per questioni organizzative, in realtà per radicali contrasti sulla politica culturale e sulla concezione stessa della pratica fotografica.  “L’idea che qualcuno nutre –  scriveva Vittorio Piergiovanni a Monti[283] – di trasformare la rinnovata Gondola in un movimento di idee e di cultura fotografica non sarebbe tanto peregrina qualora si riuscisse a riportare il Circolo a quel livello di qualità, chiarezza e preparazione che dimostrava di possedere quando tu la lasciasti.”  In realtà – nonostante i soddisfacenti impegni professionali e alcune dichiarazioni apertamente contrarie – era Monti a guidare segretamente la fronda proponendosi nuovamente alla guida del Circolo, come ebbe modo di dichiarare Bruno in una riunione dei primi di gennaio del 1960 ripresa in un’allarmata e amara lettera di Dell’Agnese[284], che rivolgendosi a Monti  (si)  chiedeva “o Lei diffidando di me ha dato ordini precisi attraverso altre persone, ovvero diversi Soci ed un ex socio lavorano indipendenti al fine di presentarle il fatto compiuto e cioè che, per acclamazione, Lei è stato nominato Presidente (…). Ora, noi siamo gente pacifica che vede la fotografia come una distensione con rapporti di amicizia ma non una fonte di disgusti, di lotte, di ambizioni.” Più colorito un successivo resoconto di Bruno[285], secondo il quale “Quando il suo nome [di Monti] è stato proposto per la presidenza effettiva ed attiva della Gondola, ha fatto trasecolare parecchia gente, ed ha smosso la diarrea al vecchio presidente. Si sono fatte un sacco di congetture. Hanno agitato i fantasmi neri delle due dittature, sbandierato la sua fama d’iconoclasta, e volpi spelacchiate hanno sussurrato un interesse economico nascosto.”  In quel clima Monti venne nominato presidente ma a fatica e di strettissima misura, tanto che la votazione dovette essere ripetuta più volte sino alla definitiva del 26 gennaio 1960.  Congratulandosi in una nuova missiva[286] Piergiovanni  chiedeva però anche di “sapere (…) la buona notizia che tu e Roiter state per dare al nostro mondo fotografico.”  Ulteriori dettagli, forse non ancora sufficienti a svelare il mistero, erano contenuti nella diplomaticissima risposta di Monti a Dell’Agnese[287], nella quale gli riconosceva il merito di aver “salvato il salvabile con grande accortezza, evitando lo sfasciarsi completo e il naufragio della Gondola. Ora un grave compito, molto impegnativo attende tutti i responsabili della Gondola –  proseguiva Monti – e specialmente la presidenza qualunque essa sia. È  una manifestazione che è a conoscenza solo mia e di Roiter e sarà una grande affermazione in Italia: è soprattutto il riconoscimento da parte della cultura ufficiale di tutto il nostro lavoro dal 1947 al 1955, ma io desidererei che in essa figurasse anche la attività successiva fino al 1959 compreso. Posso dire che mai in Italia si è presentata una simile occasione ad un circolo fotografico; capirà quindi che di fronte a ciò tutte le beghe i pettegolezzi e le fessaggini di Tizio o di Caio non possono turbarmi. (…)  È  assolutamente assurdo dire che io voglia la presidenza, ma è vero che la desidero e che la accetterò se vi sarà una larga maggioranza e pertanto pongo la mia candidatura e ritengo che nessuno possa dimostrare che ciò sia illecito e fuori luogo.”

Quella  misteriosa “manifestazione” doveva verosimilmente essere l’iniziativa promossa da Carlo Ludovico Ragghianti che sul finire del 1959 aveva scritto a  Fulvio Roiter, anche come tramite per la Gondola, per segnalargli la costituzione da parte dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa di un Gabinetto Disegni e Stampe dedicato all’arte contemporanea italiana.  “È nota la nostra convinzione – scriveva Ragghianti – che la fotografia sia un’espressione artistica autentica e totale come le altre indicate. Sino ad oggi, in Italia, non esisteva nessuna raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica. L’Istituto, anche nell’intento di portare la fotografia nell’Università e nei musei, si propone di estendere le raccolte grafiche alla fotografia italiana.” Per la costituzione di quella raccolta Ragghianti sollecitava la generosa collaborazione dei fotografi ai quali garantiva:  “a) conservazione delle fotografie in una Sezione speciale; b) disponibilità per la consultazione degli studiosi e del pubblico; c) esposizioni permanenti e periodiche di gruppi e di artisti; d) pubblicazione di cataloghi scientificamente e criticamente elaborati, a cura dell’Istituto; e) eventuali manifestazioni d’arte fotografica, nel Gabinetto e nella sala di esposizione. Se questo programma è apprezzato nella sua obbiettiva utilità per il prestigio e per l’apprezzamento dell’arte fotografica rivolgo un appello ai Sodalizi fotografici ed agli Artisti fotografici, perché diano il loro prezioso contributo”[288].  A seguito del riscontro positivo di Roiter , Ragghianti ipotizzava che “nella prossima primavera, per esempio nel marzo o nell’aprile, l’Istituto mediante il suo Gabinetto potrebbe organizzare una mostra del gruppo La Gondola, vale a dire delle fotografie d’arte 1949-55 (e ulteriori, se ve ne siano di notevoli), destinate alle raccolte dell’Istituto; tale mostra sarebbe accompagnata da un catalogo critico illustrato a nostra cura e spesa; d’accordo che il formato medio delle fotografie d’arte dovrà essere di 30 x 40 cm almeno (noi possiamo predisporre un’incartonatura e una conservazione in mobili metallici adeguati); prevengo che la sala di Esposizioni (aperta al pubblico) del Gabinetto è capace di circa 100 pezzi montati in eleganti cornici vetrate.  Se Lei dunque ritiene di potere assumere la selezione delle fotografie d’arte, mi affido alla Sua sensibilità e al Suo discernimento. Il Catalogo critico verrebbe redatto, come d’uso, da un appartenente alla mia Scuola, ma ovviamente Lei dovrebbe mandare un breve scritto di motivazione e di presentazione. Sarebbe opportuno che tempestivamente ci fossero forniti anche i dati biografici, bibliografici, museali, espositivi degli Artisti, che potrebbero essere richiesti agli stessi. Sarebbe gradita anche qualunque nota di carattere estetico e tecnico relativo alle diverse elaborazioni visuali fotografiche. Per il momento non posso muovermi, ma probabilmente entro il mese dovrò venire a Venezia per la Commissione della Biennale (dove, come saprà, ho insistito perché accanto alle mostre di pittura e scultura vi sia anche una sezione destinata alla fotografia d’arte): in tal caso L’avvertirò della venuta e del mio indirizzo,e sarò lieto di conoscerLa personalmente e di prendere con Lei ulteriori accordi.”[289]  Le missive di Ragghianti vennero immediatamente trasmesse a Monti così che potesse farsi “un’idea precisa sul progetto. Spero molto che prima di Natale il prof. venga qui a Venezia: a tre ogni cosa prenderebbe una piega senza dubbio più interessante.”[290] Non abbiamo notizie di un eventuale incontro, ma il progetto venne condotto a termine e nel maggio del 1960 si aprì all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa la mostra dedicata a Il circolo fotografico La Gondola di Venezia. Nella sintetica scheda di presentazione Monti rivendicava il ruolo svolto dal gruppo nel superamento delle posizioni de La Bussola, anche attraverso l’organizzazione delle mostre internazionali, e indicava quali fossero stati gli autori  che ebbero maggiore influenza sul sodalizio:  “fra gli altri, i fotografi francesi Masclet, Thévénet, Ronis, Doisneau, Izis, Brassaï e soprattutto Cartier-Bresson; i tedeschi Steinert e Keetman; i nordici Hammarskiold, Hassner, Winsquit, Coppens, e lo svizzero Bischof; fra gli americani Weston, Smith, Strand e altri dello staff di Life[291]. Un insieme che nel suo eclettismo confermava l’assoluta libertà di orientamento nelle espressioni individuali che aveva da sempre caratterizzato il sodalizio.

Sarebbe stato Giuseppe Turroni ad assumersi il compito di tracciare un bilancio della Nuova fotografia italiana, riprendendo un progetto sviluppato da Mario Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo negli anni immediatamente precedenti, poi bruscamente interrotto per ragioni editoriali. Quell’ipotesi di lavoro, avviata nel 1956-1958 con la collaborazione di Alfredo Camisa, prevedeva la redazione di un volume antologico dedicato alla Nuova fotografia italiana; un titolo che  l’anno successivo sarebbe mutato in Fotografi italiani d’oggi prima che il progetto venisse affossato  dall’opposizione del Consigliere delegato Tito Legrenzi[292], poiché il materiale raccolto (e già impaginato in menabò) non era di suo gradimento: “io non ci arrischio sopra 5 milioni. Il libro non si fa”[293]. Al “tramortito” Finazzi il più pragmatico Camisa chiese di “avere in prestito per qualche giorno l’impaginato. Proprio in questi giorni un editore milanese [Arturo Schwarz]  ha preso in considerazione una analoga iniziativa (sia pure in forma e con intendimenti diversi: Fotografia italiana del dopoguerra), e l’Autore del testo [Turroni]  sta raccogliendo il materiale.”[294] Non è dato sapere se Turroni ebbe modo di studiare e profittare dell’impaginato (le foto erano nel frattempo state restituite ai rispettivi autori), ma è certo almeno che accolse il primitivo titolo modificando quello di lavorazione e Nuova fotografia italiana venne pubblicato allo scadere del 1959 quale decimo numero della collana “Enciclopedia di cultura moderna”, che sino ad allora aveva ospitato volumi dedicati prevalentemente alla poesia e in misura minore alla scultura, al cinema, al teatro e al jazz[295].  Le caratteristiche editoriali erano certo diverse[296] ma il profilo culturale e  critico era certamente analogo, con una selezione in cui non solo prevalevano i fotografi amatoriali (il doppio dei professionisti) ma che registrava assenze clamorose. Non solo Carlo Mollino, che col suo Messaggio dalla camera oscura aveva fornito un contributo fondamentale alla crescita della cultura fotografica italiana[297], ma anche tutti quegli autori che non erano mai transitati per mostre e salon, che con quel mondo non avevano mai avuto a che fare. Una prospettiva critica  amatoriale in sé, analoga a quella espressa da Monti,  che non sapeva liberarsi dal contesto  dei dibattiti e delle vicende salonistiche che tanta parte avevano avuto negli interventi al convegno di Sesto San Giovanni. Quindi non propriamente la “Nuova fotografia italiana”  pretesa dal  titolo, a meno di non voler leggere tra le righe (ma con una certa forzatura)  il tentativo di  dimostrazione dell’assioma sulla fecondità degli amatori come linfa che nutre, sebbene Turroni tracciasse poi un quadro tutto sommato sconsolante di quella stessa fotografia, nel quale “il ponte della forma è storicamente attendibile, e necessario. È la spia – proseguiva –  di tutte le sovrastrutture ideologiche e intellettualistiche, avallate dai tanti cenacoli e scuole e associazioni e unioni che pullulano nel nostro Paese e talora, coi loro manifesti e programmi, riescono persino a inibire la buona volontà creativa dei giovani (…). Comunque la storia della cultura – e anche della cultura fotografica – va avanti poco alla volta. (…) . Era tempo di morte per ogni sorta di dilettantismo. La forma diventava emblema di uno specifico fotografico che tendeva a farsi riflesso di un mondo, di un costume, di una cultura. La lezione di Monti sarà decisiva”[298]. In effetti il pensiero e la figura di Monti, al quale Turroni aveva dedicato un ben più sensibile ritratto critico solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”[299], costituivano un  riferimento costante per le sue riflessioni;  quasi un fil rouge che attraversava tutto il volume, nel quale (conseguentemente)   risultava l’autore più rappresentato, con ben venti fotografie che illustravano molta della sua produzione ma escludendo ogni suo lavoro professionale, con un solo esempio delle sue ricerche più sperimentali[300].  Non solo: il critico ne ricostruiva la vicenda artistica con omissioni che non possiamo che definire  tendenziose, non potendo immaginare che non conoscesse i primi lavori di questo autore tanto amato. Scriveva infatti:  “Notiamo [nelle prime fotografie] uno spirito razionale che rifugge dalle morbide contemplazioni dei cavalliani”[301], cancellando d’un sol tratto tutta la prima produzione a tono alto (tavv. 015, 023, 037).  Un’analoga mitografia sarebbe stata riproposta molti anni dopo da un critico e amico come Antonio Arcari,  che nel testo predisposto per il fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”[302]

 

“Non documento ma invenzione visiva”

Alla fine di maggio del 1959, con Romeo Martinez a fare da tramite[303],  Monti  incontrò il grafico svizzero Fritz Bühler per mettere a punto un progetto fotografico destinato a un volume  pubblicitario per la casa farmaceutica Sandoz di Basilea[304]; un incarico al quale doveva dare molta importanza, sul quale contava particolarmente tanto da redigere un vero e proprio Diario di lavoro, che ne registrava presupposti e tappe: un documento unico nella sua produzione sino a quella fase. Altri sarebbero seguiti, legati alle campagne emiliane, ma con intenti più programmatici e didattici, mentre qui troviamo riflessioni a un tempo tecniche ed espressive. Nelle settimane successive Monti si recò a Basilea per discutere il progetto coi referenti Sandoz e in particolare col Dott. W. Corti, che avrebbe dovuto essere  l’autore del testo, al quale  sembra riferibile il proposito di richiamarsi al  “Concetto della Metamorfosi: Empedocle, Ovidio ecc. – Magia della Chimica (…)”. Con Corti valutò anche le soluzioni suggerite dal volume di Gustav Schenk, Schöpfung aus dem Wassertropfen[305], nel quale si mostravano le infinite possibilità di restituzione visuale di un elemento liquido e semplice come l’acqua. Tra le sue fonti però doveva esserci anche l’opera di Georgy Kepes  (si consideri la stretta analogia tra  alcune immagini Sandoz e Fluid Forms, 1944[306]) e in particolare la selezione di fotografie per la mostra The New Landscape[307] che si tenne al Massachusetts Institute of Technology nel 1951, un’occasione per riflettere sulle corrispondenze formali tra la più avanzata produzione artistica e il nuovo universo visuale rivelato dalla strumentazione scientifica e tecnologica. La complessa elaborazione del progetto, puntualmente restituita nelle pagine del Diario, implicava la necessità di sondare  le risposte offerte da materiali e processi diversi sino a individuare la “possibilità di operare reazioni a colori nella glicerina – Comunque ci sono ottime occasioni di ottenere forme plastiche e lente[308],  ovvero di combinare “diversi fluidi nel liquido (…) con immissione di aria o gas, ecc. in modo da ottenere diverse formazioni sia cromatiche che morfologiche. (…) Non interessano solo le reazioni chimiche, ma i colori in quanto tali. Soprattutto non bisogna basarsi sulle possibilità dei soli colori fondamentali. Occorre agire con colori artificiali in concorrenza con quelli della natura. (…) coi cromogrammi su carta ottieni disegni astratti (…) sciogliere dei cristalli di alcuni coloranti in acqua- effetto fotografico? Da provare.”  Nel volgere di pochi giorni, già entro la metà di giugno, l’attenzione si concentrava soprattutto sull’uso di colori e coloranti (escludendo quindi altre materie e organismi come sangue, muffe, embrioni), in particolare per la possibilità che questi offrivano di “formare immagini astratte” e di sfruttare a tal fine “ tutte le possibilità del movimento-sfocato – movimento di macchina – doppie esposizioni – vetri deformanti – ecc.”,  mettendo quindi a frutto, qui con larga dovizia di mezzi, molte delle ricerche sperimentali da lui condotte in quegli anni Le prove svolte nel laboratorio fotografico dello stabilimento di Basilea proseguirono sino alla metà di agosto, quando Monti incontrò nuovamente Bühler, che si mostrò “in pieno accordo anche per quelle [foto] destinate alla copertina” del volume, che il fotografo aveva immaginato “parte negativa e parte positiva, a colori o solarizzata in stampa.” Poi accadde qualcosa: il 16 settembre  gli venne formalmente comunicato  il “divieto di fare per il momento nuove foto in fabbrica”. Forse la committenza non era soddisfatta di quanto prodotto sino ad allora,  forse era mutato l’organigramma interno e si attendeva un nuovo redattore scientifico che avrebbe potuto richiedere  “una nuova (o presumibilmente nuova concezione del volume) [che] comporta una revisione di tutte le foto eseguite. (…) COLLABORAZIONE MOLTO COMPLESSA E LABORIOSA – PARTECIPAZIONE DEL FOTOGRAFO – COME E QUANDO?  (…) 16/9 POMERIGGIO: FINITO IL LAVORO – ANNULLATO IL VOLUME/ FINE”.

Oltre lo smacco per la brusca conclusione di un’impresa affascinante, quel richiamo dubitativo al riconoscimento del ruolo del fotografo, al suo contributo autoriale, che forse Monti percepì come negato o almeno ridotto a  quello di semplice esecutore, dovette costituire un ostacolo insormontabile  per la sua etica professionale, per la sua deontologia. Monti si sentì relegato al ruolo di semplice esecutore, essendogli negata la “possibilità di formare”, di “divertirsi liberamente con questo mezzo straordinario di riproduzione, ma anche di creazione delle forme più varie e nuove. (…) Le fotografie professionali non possono che avvantaggiarsi dell’esperienza visiva di un fotografo che consuma almeno  una parte del suo tempo e della sua passione per l’esperimento, per la scoperta di nuove forme della visione”[309]. Non prelievi o astrazioni dalla natura quindi ma realizzazioni ex novo, sebbene qui il punto focale non fosse rappresentato dalla verifica delle operazioni fotografiche ma dalle variazioni sul tema delle combinazioni cromatiche sperimentalmente controllate, diversamente da quanto andavano proponendo altri autori italiani stimolati e sostenuti dalla produzione di pellicole fotografiche a colori da parte della Ferrania[310]. Si riferiva certo a quell’esperienza quando scriveva, nel 1963, di  “colore come nuovo mezzo espressivo (…). Il colore fotografico come favola, fantasia, invenzione (…) non documento ma invenzione visiva, da un realismo quasi magico all’astrazione”[311] (tavv. 072, 073). Quasi una didascalia a quelle lunghe sequenze di immagini realizzate per la Sandoz su pellicola di grande formato (9×12)[312] di fluidi a contrasto, di sfocature di vetri colorati, di colature di forte apparenza materica, di “melange di colori” di diversa natura e andamento, ma anche di più drammatiche diffrazioni ottenute fotografando fogli accartocciati di cellophane (1958-1959). Ne risultavano due distinti ambiti di indagine, come avrebbe lui stesso ricordato nella sua ultima intervista: “uno è il campo delle varie materie e l’altro campo è quello della diffrazione della luce, cioè il fenomeno della luce solare che si scinde nei suoi elementi passando attraverso delle piccole fessure. E così si possono fare delle fotografie che io metterei a livello della migliore arte astratta degli anni passati o dell’informale, con la differenza che non c’è niente di astratto, perché la fotografia non fa mai l’astratto, perché la fotografia fotografa sempre quello che esiste e quindi anche quando si fa una fotografia di una forma astratta si fa una fotografia reale perché non è che sia disegnata, è davanti all’obiettivo”[313].   Così chiudeva il cerchio, mostrando tutta la convenzionalità delle etichette e delle terminologie, e producendo immagini che solo per povera convenzione terminologica possiamo definire astratte, essendo consapevoli che l’atto fotografico implica sempre una registrazione. Ciò che quelle immagini mostrano (che è cosa ancora diversa da ciò che noi vediamo) è l’esito di una restituzione del dato reale mediata dall’ottica e dalla chimica (che qui è quella dello sviluppo cromogeno), mai un’invenzione pura come accadrà più tardi con i chimigrammi,  misurandosi direttamente con le superfici sensibili, andando alle origini del processo fotografico. Qui Monti lavorava con composti chimici e materie plastiche, con filtri colorati o polarizzati, si muoveva tra estrema prossimità e massima distanza dalla cosa fotografata, controllava luci e movimenti di macchina ed era dall’interazione tra tutti questi elementi – compreso il dato reale, esterno, così come la materia della carta fotografica  – che nascevano le figure. La sua cultura visiva, gli stimoli suscitati dalle correnti pittoriche più attuali (dall’astrattismo all’informale, all’espressionismo astratto) entravano in gioco al momento dello scatto e forse della selezione successiva. Una suggestione più precisa determinava poi il momento e i modi del taglio operato nel continuum spazio temporale per definire l’immagine finale, della quale erano preordinate le condizioni ma non gli esiti.

 

Muri, Manifesti, Materie

Ritornando a considerare il patrimonio bibliografico  posseduto da Monti relativo ai primi tre lustri della sua attività professionale, si nota una significativa trasformazione nelle categorie, nei generi che lo compongono:  nella manualistica prevalgono i testi specificamente dedicati alla pratica professionale[314], ma soprattutto aumentano i titoli propriamente fotografici, con molti volumi della Guilde du  Livre e delle edizioni Clairefontaine di Losanna[315], ben note per la qualità della loro stampa in héliogravure. A quelli  si aggiungono alcuni,  purtroppo inspiegabilmente pochi, tra i più noti titoli di quel decennio, come Les Parisiens tels qu’ils sont di Robert Doisneau, Da una Cina all’altra di Henri Cartier-Bresson, Le village des Noubas di George Rodger o The sweet Flypaper of Life di Roy de Carava e  Langston Hughes, mentre sorprendentemente mancano all’appello Un paese di Strand e Zavattini[316],  la New York di Klein (di cui possedeva Roma)  e Gli Americani di Frank, neppure nell’edizione italiana.  Un più utile indizio di un interesse sempre più consapevole e preciso per le ricerche sperimentali è la presenza non tanto dei volumi dedicati alla Subjektive Fotografie[317] quanto di quelli di autori tra loro tanto diversi quali Hayek Halke, Kepes e Brassaï [318].  Se col primo è più difficile cogliere analogie nella sua produzione più nota (tranne forse che in alcune doppie  esposizioni del ciclo dedicato a Meme, di certo tra le sue prove meno riuscite),  le sistematizzazioni di Kepes e la sua stessa opera  hanno costituito un punto di riferimento per le  sue  più analitiche sperimentazioni, mentre i Graffiti di Brassaï, pur nella diversità di presupposti e intenti non potevano non suscitare una eco suggestiva in un autore come Monti che si dichiarava, con un velo di ironia “un collezionista di foto di muri, di manifesti”[319].  Tra i libri della biblioteca di Monti c’è anche  Le paysage en photographie, 1947, di Daniel Masclet, con foto in cui muri, case sventrate e palizzate costituivano pretesti per la costruzione di composizioni sempre meno narrative, più ‘astratte’. Certo l’autore francese fu un importante punto di riferimento e non è difficile trovare analogie con il trattamento dei muri che connota alcune vedute veneziane o dei piccoli centri della laguna realizzate negli anni de La Gondola[320], quando la materia delle superfici aveva un ruolo ben definito nella strutturazione dell’immagine; ma si trattava ancora di un mero accidente, di un inevitabile accessorio del referente, sebbene trattato con particolare attenzione. “I  «muri» delle vecchie isole della laguna  (che ispirarono un mestissimo e vibrante cortometraggio a Michelangelo Antonioni, regista nato da una cultura non dissimile a quella del Nostro) – scriveva Turroni[321] –  si stagliano poveri e squallidi, pietra su pietra, ciuffo d’erba su fiori e graffiature.”  Turroni ritornava sul tema  in quello stesso anno con un articolo su “Ferrania” [322] nel quale ribadiva che “l’aspetto formale, è in Monti la visione stessa. (…) Il mondo di Monti (…)  si contorce, si intellettualizza vieppiù. Dal lirico naturalismo di prima egli trascorre a un astratto espressionismo. La lezione di più progredite culture straniere (…) in lui si macera nella visione formale, si cristallizza in una estrema e amara dialettica intellettualistica. L’oggetto non è più descritto ma interpretato come ‘occasione montaliana’, [così che]  una roccia, un lago, un muro, un po’ di neve, è come perdessero, per noi, la nozione elementare di oggetti quotidiani per diventare simboli di sé stessi, inchiodati alla forma irripetibile di una rabbiosa introspezione.” Una lettura che gli veniva dalle stesse parole di Monti citate nel testo:   “In sostanza è mia ferma opinione che  non c’è cosa più lontana dalla realtà fisico fenomenica di molte fotografie che ritraggono questa realtà alterandone tutti i rapporti per il solo fatto della trascrizione fotografica. Naturalmente questa trascrizione non è automatica, meccanica, frutto dell’ottica-chimica, ma è invece una particolare visione di mondo esterno che trova nel mezzo fotografico il modo di concretarsi. È logico che visione e tecnica finiscano col reagire l’una sull’altra. La prima costringe la seconda a adeguarsi a ciò che si vuole esprimere, ma la tecnica da parte sua può all’improvviso suggerire nuove soluzioni visive.” Più convenzionale  e semplicistica la lettura di quelle  particolari “espressioni riflesse di un dato realistico” offerta nel volume antologico del 1959[323], dove Turroni distingueva i muri veneziani che “sembrano fondali di palcoscenico”, dai successivi, milanesi, dei quali riconosceva che “non vengono scelti come fondali”  di un impossibile teatro, anzi in quelle fotografie “c’è molta tristezza (…) una tristezza  laboriosa ma non sorda”,  rinunciando a ogni possibile suggestione analogica o pittorica. Si potrebbe invece riconoscere, e dire, che poco alla volta era la materia di quelle superfici a diventare protagonista (Muro e albero, 1955 ca,  tav.075;  Treviso, 1949, tav. 076, progressivamente autonoma, liberata da ogni connotazione narrativa anche in casi quali Muro, 1950 ca, tav.077,  o Muro in Rio Terrà dei Pensieri, 1949, tav.  078,  in cui la presenza di parole o disegni graffiti avrebbe potuto riportare al racconto o almeno mostrare un qualche interesse per la connotazione semantica[324], consentendosi al più un esplicito gesto citazionista, come in quell’ Omaggio all’Informale realizzato a Milano nel 1953 che rimandava  esplicitamente a Franz Kline[325], o una reinterpretazione simbolica di una traccia gestuale, come La cometa, 1957 (tavv.079, 080)[326]. Ognuna di queste immagini ci appare  come un’epifania che mostra   “quello che è avvenuto, ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente”,  come in Muro e nuvola (tavv. 081, 082), che era scoperte di un attimo  reinventato in camera oscura, sfruttando positivamente quella che nel suo intervento al convegno di Sesto San Giovanni aveva identificato come “la limitazione della fotografia”[327]. Erano accidenti offerti dal caso all’interpretazione dell’occhio, come quelli quasi coevi di Aaron Siskind  e di Lucien Hervé[328], o quelli che aveva incontrato sulla sua strada Walker Evans[329], ricavandone una serie di “wry compositions” (composizioni contorte) certo lontane dall’espressionismo di Monti, così come lo erano (nelle intenzioni e negli esiti figurativi) i Muri di Nino Migliori, che in quegli anni, pur parallelamente  impegnato sul doppio fronte del racconto sociale e della fotografia ‘concreta’,  erano per lui non solo  “un modo di manifestare l’avversione al tipo di fotografia contemporanea, al pittorialismo, al salonismo fotografico, e anche alla foto detta realistica ma basata su una ricerca estetizzante e non su un’analisi del reale”, ma anche – e qui le analogie con Monti si facevano più forti –  un’occasione e un modo per cercare “il passaggio del tempo, cioè la disgregazione della materia-muro dovuta alle intemperie, alle piogge, agli sfregamenti, ma ricercavo anche il passaggio dell’uomo (…) registravo ciò che era successo”[330]. Una produzione che aveva immediatamente attratto gli osservatori più attenti come Alfredo Camisa, che a proposito della vittoria di Migliori alla  IV Mostra Nazionale Premio Città di Padova del 1958, che lo vedeva tra i giurati,  scriveva: “Sentiremo parlare dei muri graffiti di Brassaï, forse dei muri di Monti, ma crediamo egualmente nell’originalità di questi muri, di questi muri veri, che parlano più di tanti formali ritratti o di tanto reportage non sentito”[331]. A questi nomi ormai noti va ora aggiunto quello di un outsider come Catone Ramello, riscoperto da Zannier su segnalazione di Paolo Gioli[332], che nel 1958 partecipò con Silvia Brown e Giorgio Giacobbi ad una mostra alla Galleria dell’Opera Bevilacqua La Masa (22 febbraio – 15 marzo) con fotografie di “muri veneziani”, a proposito delle quali Giuseppe Marchiori riconosceva  che l’autore si era “fatto un occhio ‘moderno’ frequentando gli studi dei pittori e leggendo molti libri sull’arte (…). A lungo interrogammo insieme i muri della città, i cantieri, le piccole botteghe degli artigiani, i luoghi sconosciuti, gli atri, le scale, i cortili, i campielli, i canali, che nessuno ‘vede’, perché non sono nemmeno pittoreschi. (…) Ramello ha voluto fissare per sé quei momenti e, forse senza pensarlo, li ha fissati anche per gli altri. Chi vorrà, potrà stabilire una serie di rapporti ideali con le differenti espressioni  dell’arte contemporanea e riconoscere in esse i più caratteristici valori ‘simbolici’ della modernità.” Il critico in quell’occasione non chiamava in causa i lavori di Monti, che invece avevano “estasiato” Ramello, sebbene all’epoca fosse troppo “timido e apprensivo” per poter anche solo osare di  entrare nella sede de La Gondola, “nemmeno trascinato con la forza”[333].

Alla Mostra della fotografia Italiana del 1953 Ferroni aveva esposto una Architettura della materia (n.7), che era la ripresa ravvicinata di un ceppo tagliato a colpi di scure. Più che un indizio dell’influenza che su di lui ebbe Monti, che in quegli anni trovava nelle diverse configurazioni dei Legni infinite occasioni di ricerca personale, da affrontare secondo intenzioni diverse. Così nei due tronchi bruciati fotografati ad Anzola d’Ossola (tav. 066), immersi nel paesaggio da cui si distaccano con la loro presenza scultorea, la forma e la materia risultavano espressione di un dramma, come fu già in Snag Near Scotia, 1938 ca, di Ansel Adams.  Tutte rivolte all’indagine delle superfici erano invece altre fotografie dello stesso periodo (tav. 083) nelle quali la materia quasi era presentata di per sé, senza altre elaborazioni che non fossero già nell’inquadratura, come accadeva anche nelle Chiome di pioppi (tav. 084), la cui leggerezza argentea si trasformava in corpo mantenendo la sua levità. Più evidenti interpretazioni espressionistiche, frutto di precisi interventi in stampa che reinterpretano i provini (tav. 085),  sono riconoscibili invece in Legno (tav. 086), che rivela forti rimandi (o richiami) ai Legni e le Combustioni di Alberto Burri, tra 1956 e 1958[334], e soprattutto nella serie dedicata alla Natura del legno (1953-1957) della quale Turroni pubblicò un esemplare nel suo Nuova fotografia (fig. 150), quindi certamente con l’assenso se non con la supervisione di Monti, in una disposizione che col porre i due nodi chiari nella parte alta dell’immagine ne accentuava la connotazione antropomorfa, mentre altre versioni della stessa immagine presentano un’inversione alto/ basso che ne accresce l’effetto di astrazione[335]. Certo è che il soggetto da cui  era più attratto, sul quale ha lavorato più a lungo con presupposti diversi è stato quello delle Rocce (tavv. 087, 088, 089); la materia più antica, segnata dal tempo. Un repertorio di forme disponibili dal quale a volte faceva emergere un dialogo, magari aspro, tra organico e inorganico, tra vegetale e minerale; un’occasione per riflettere e restituire in sintesi il confronto tra tempo biologico e tempo geologico. Un affidarsi alla forma per innescare una meditazione  esistenziale[336]. Qui torna a proposito la notazione coeva di Turroni, che  riferendosi ad analoghi lavori scriveva di “forma di reminiscenze astratte mai sopite (la materia oggi pare a un artista moderno sempre la forma di un contenuto astratto, e viceversa: una macchia su un muro è una zona di colore; per un fotografo come Monti, è un «nero» concreto, intoccabile, immobile nello spazio)”[337], ribaltando infine la nota categoria critica statunitense per parlare invece – come si è visto – di “astratto espressionismo”. Questa interpretazione critica appariva però  incerta, forse non pienamente convinta, se solo due anni più tardi parlando de “l’ultimo periodo di Monti [che] è contraddistinto dalla serie delle rocce, delle pietre, delle muffe”, ne riconosceva le  derivazioni “dalla pittura informale, nucleare, concretista, che dir si voglia. (…)  [Monti] vuole trasmetterci la bellezza delle cose, che lo sguardo spesse volte non coglie, tanto è distratto dalle apparenze, dalle esteriorità”, per concludere infine – con una notazione che il fotografo non credo potesse condividere – che “in questo, Monti si avvicina – per una prestigiosa abilità tecnica – alla fotografia scientifica”[338].

Il dibattito relativo allo statuto estetico di quel genere di immagini era in quegli anni particolarmente vivo, polarizzato intorno a due opposte interpretazioni. Per  Umberto Eco  “l’artista che scopre la natura come formatrice è dunque in fondo un critico dalla intuizione sicura che scopre analogie tra i comportamenti dell’arte e quelli del caso, e carica i secondi delle intenzioni dei primi (…); il fotografo colto e sensibile, attento alle tendenze stilistiche della pittura contemporanea, gira per la strada e individua accadimenti materici di indubbia suggestività. E da un lato li trova, e inquadrandoli, scegliendoli li propone, dall’altro li costruisce effettivamente poiché fotografandoli completa le possibilità del materiale con la scelta di una angolatura, di un dato tipo di luce, di un maggiore o minore ravvicinamento all’oggetto”[339]. Opposta l’opinione di Giuseppe Marchiori, per il quale “a un certo punto, col gusto che corre, si rischia di scambiare un ‘oggetto trovato’ con una vera scultura. (…) L’informe assume una forma, che gli scultori del nostro secolo hanno rivelato, mettendone in luce l’armonia e la bellezza. (…).  Ma lasciamo le radici nei boschi e i sassi nei fiumi, nel loro ambiente più vero. Collocati nelle mostre alimentano assurdamente il paradosso della natura che imita l’arte”[340]. Certo il critico veneto non si riferiva alla fotografia anzi, con scelta per più versi ambigua, l’articolo era illustrato proprio da una serie di fotografie di “accadimenti materici” di Monti, che si direbbero selezionate quale ‘documento’, quale esempio possibile di “oggetto infernale, misterioso e simbolico, che eccita la fantasia, ma che non induce alla contemplazione”, senza tener conto del forte, intenzionale carico interpretativo dell’autore fotografo a cui invece si riferiva Eco. In anni a noi più prossimi è stato Claudio Marra[341] a sostenere che “non convince l’interpretazione naturalistica dell’Informale avanzata da Eco [ma che già fu di Francesco Arcangeli[342]], e soprattutto non funziona perché alla fine le fotografie di muffe, ruggini e quant’altro, pur nascendo secondo lo statuto anti-pittorico proprio del ready-made, finiscono per risultare apprezzabili in quanto del tutto simili alla superficie di un quadro informale.” Se è ammirevole l’intento di superare le più superficiali letture analogiche, questa tesi offre però nel complesso una plausibilità critica più apparente che teoreticamente fondata per almeno due non secondarie ragioni: a fronte di queste operazioni, di questi prelievi reinterpretati, pare improprio richiamare lo statuto specifico del ready-made, mentre sarebbe semmai più fecondo adottare quello di object trouvé rielaborato, come lascia facilmente intendere, considerando anche il significato e il senso della materialità delle cose, proprio l’incommensurabile distanza tra  la superficie di una stampa fotografica e quella di un dipinto informale.  E infine, e soprattutto, è da tempo venuto il momento di smetterla di porre la questione in questi termini riduttivi e schematici di ‘combattimenti’ tra arti visive per provare a misurarsi con le ben più complesse e osmotiche culture dell’occhio.

Poi, dalla metà degli anni Cinquanta, i muri divennero elemento e supporto di altre “astrazioni involontarie”, una locuzione a cui Monti ricorreva sovente in quel periodo, tanto da  far supporre un progetto di serie poi non realizzato, come sembra suggerire anche una delle categorie del suo soggettario per le pellicole in formato 6×6 che recita “Astratto nei manifesti”. Con quel titolo identificava quello che era  forse il suo primo esempio di fotografia di questo soggetto, del quale conosciamo almeno due varianti, diverse per inquadratura e contrasto tonale, a conferma ulteriore del suo costante processo di elaborazione nel passaggio dalla ripresa alla stampa finale[343]. In quelle prime immagini – ma anche in Manifesto strappato, 1955 (tav. 093) e Fine di un manifesto,1962-1965 (tav. 094) – l’oggetto era presentato decontestualizzato, esaurendo in sé  le ragioni dell’inquadratura ed era dotato di una sua elevata figurabilità.  Certo quella Astrazione involontaria (così la titolazione autografa) richiama irresistibilmente alla mente i lavori di Mimmo Rotella e di altri artisti che confluiranno nel gruppo del Nouveu Réalisme di Pierre Restany, presentato per la prima volta a Milano  alla Galleria Apollinaire nel 1960, ma il senso di questa “astrazione”  appare lontano dalle ragioni di quei décollage, a proposito dei quali  Restany  parlava  di “moralità intrinseca del gesto dell’artista (…) ancor più dell’emergere, nel manifesto lacerato, di nuove forme direttamente scaturite dalla realtà sociologica, capaci solo per questo di trasformare radicalmente la nostra visione dell’universo che ci circonda (…); in una parola, ancor più di questa efficace e poetica ricarica della realtà, Rotella ci trasmette un messaggio di cultura, di umanità e di speranza”[344]. La visita alla personale dell’artista alla Galleria del Naviglio[345] di Milano nel 1955  poteva aver  confermato a Monti le possibilità  di questi soggetti come materiale artistico, ma vanno considerati due altri aspetti di non secondario rilievo. Come accade per le architetture, anche la maggior parte delle sue fotografie di manifesti strappati è in bianco e nero[346]; non si presentano quindi come un  prelievo, come  un object trouvé ricontestualizzato e risemantizzato, ma come l’esito di un processo di astrazione che libera l’oggetto dal contingente preservandone la sola natura di traccia di una ‘cosa’, senza alcuna intenzione o funzione emblematica, esistenziale. Non va dimenticato inoltre che i manifesti di spettacolo (dal vaudeville al cinema e al circo), specie nella loro condizione degradata da strappi e lacerazioni casuali (quasi l’esito di una scrittura automatica) avevano costituito un tema non così inconsueto nella produzione fotografica di molti maestri statunitensi, da Edward Weston (Pulqueria, 1926) a Walker Evans (Torn Movie Poster, 1930); da Frederick Sommer (Orminda, 1947; Venus, Jupiter and Mars, 1949) al Willian Klein di New York, (1956) e Tokyo (1961). Autori che si confrontavano con un paesaggio urbano più precocemente segnato dalla grafica di comunicazione di massa, quella stessa che si sarebbe imposta in Europa solo negli anni del secondo dopoguerra. Della genesi ‘realistica’ di quelle immagini avrebbe parlato lo stesso Monti, ricordando che “quand’era di moda l’astratto e l’informale, espressioni che ancora altamente stimiamo, le soddisfazioni non mancavano e sono molte tutt’ora. Macchie, manifesti strappati, lebbre preziose di colle e umidità varie e anche immagini surrealiste uscite dagli strappi multipli di manifesti sovrapposti. Collages o meglio décollages di alta qualità e grandi dimensioni per la delizia dei solitari camminatori notturni”[347].  Da questo brano  emergono molte suggestioni  e rimandi a una possibile genealogia iconografica, ma soprattutto riecheggiano ancora le parole di Eco a proposito della  macchina fotografica, che “ora viene invitata a trovare occasioni informali, macchie, graffiti, tes­siture materiche, colate, graffi, scrostature, secrezioni, gromme, stria­ture, lebbre, escrescenze, microcosmi di ogni specie approntati dal caso sui muri, sui marciapiedi, nella fanghiglia, sulla ghiaia, sui legni di vecchie porte, sulle massicciate o nelle colate di catrame non anco­ra steso, variamente calpestato e rappreso” [348], innescando un processo di riconoscimento ben descritto circa gli stessi anni da Ernst  Gombrich nel momento in cui riconosceva che ” l’arte è una fonte frequente di nuovi interessi. Artisti contemporanei come Rauschenberg sono rimasti affascinati dai motivi e dalle trame dei muri degradati, con i loro manifesti strappati e le macchie di umidità. Sebbene non mi piaccia Rauschenberg, devo ammettere con disappunto che non posso fare a meno di notare questi elementi in modo diverso da quando ho visto i suoi dipinti. Forse se la sua mostra non mi fosse così dispiaciuta, il ricordo sarebbe svanito più rapidamente. Poiché il coinvolgimento emotivo, positivo o negativo che sia, favorisce sicuramente la memoria e il riconoscimento”[349]. Diverse nella concezione e nel senso erano invece altre riprese milanesi tra anni Cinquanta e Sessanta nelle quali il manifesto pubblicitario veniva  letto come elemento costitutivo della scena urbana;  quasi che Monti avesse voluto realizzare un reportage dedicato a quell’ “aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino” di cui diceva Argan[350], attento specialmente a sottolinearne la funzione di controcanto (Manifesti a Milano, 1957, tav. 097), secondo una linea genealogica  rintracciabile in  alcune riprese di Giuseppe Pagano[351] come dei fotografi della Farm Security Administration.

Tra incarichi professionali e ricerche personali  si dipanava in quegli anni tutto l’arco dell’attività montiana, dalla fotografia di  architettura alla grafica editoriale e pubblicitaria, di cui è ottimo esempio quella Sovrimpressione d’un albero, 1953 (tav. 098)[352], che nel 1962 venne utilizzata come copertina per il disco della Capitol dedicato alla Sinfonia concertante di Joseph  Jongen (tav. 074) . L’immagine presenta forti analogie con  Multiple Exposure Tree, Chicago, 1956, di Harry Callahan (tav. 099)[353] sia per quanto riguarda le modalità di realizzazione – ottenuta per mascheratura e rotazione in fase di stampa – sia nel titolo, che risulta una traduzione quasi letterale nelle due lingue della stessa operazione. Non sussistono ad ora elementi per comprendere se si sia trattato di  un interessante (e certo non nuovo) caso di ‘migrazione’ iconografica, senza che sia dato comprenderne la direzione, ovvero dell’esito sorprendentemente coincidente di ricerche condotte parallelamente dai due autori, come sembra indicare l’appartenenza di ciascuna di queste immagini a serie più ampie e variate, che in Monti comprendevanoanche esemplari a colori, sebbene dai risultati meno convincenti.

Era stata proprio quell’ostinata capacità di non disgiungere urgenza espressiva e pratica professionale che lo aveva di fatto imposto come modello per molti e come la figura più autorevole della fotografia italiana, a partire almeno dal 1959, anno dell’edizione italiana del volume di Pollack, della partecipazione alla mostra Photography at Mid-Century[354],  e della celebrazione fatta dall’amico  Turroni, sebbene poi in quelle occasioni fossero proprio le esperienze più innovative ad essere taciute o almeno poco considerate. Fu la pratica sperimentale a costituire l’elemento di continuità dell’operare di Monti, a segnarne la volontà continuamente ribadita di mettere alla prova le proprie competenze come di verificare le potenzialità linguistiche che potevano scaturire dalla  “violazione di tutte le consuete norme tecniche”.  Ciò che  mi pare  gli studi precedenti hanno indicato in modo meno chiaro, presentandoli quasi come due aspetti schizofrenicamente separati, è però il fatto che quelle ricerche oltre ad avere una valenza autonoma erano strettamente collegate alla pratica professionale. Si trattava di “fotografia sperimentale in bianco nero e colori per associazione alla grafica e alla pubblicità”, come lui stesso scriveva nella breve nota biografica redatta per la mostra a Il Diaframma del 1967. E poi, basti considerare le date: se escludiamo alcune solarizzazioni variamente trattate, debitrici del Veronesi più ‘naturalistico’ degli anni de La Bussola[355], vediamo che le prime verifiche sperimentali (stampe in negativo[356], fotogrammi, sfocature e movimenti di macchina con effetti di mosso controllato) risalivano tutte agli anni successivi al suo passaggio al professionismo ed anzi si concentravano particolarmente nel periodo che chiuderà proprio con la mostra del 1967, sebbene già le sue prime Intenzioni fotografiche del 1948 indicassero varie  tecniche sperimentali. Una serie di verifiche che per Monti dovevano comprendere le “nature silenti”, quel genere di composizioni  “ove entrino elementi, siano o no tradizionali, per giungere sino alla completa assenza di oggetti ‘reali’ cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”[357]. Definizione tanto sottile quanto dirimente, specie rispetto alla genericità del dibattito di quegli anni, perché si fondava su di  una chiara riflessione sulla stessa ontologia fotografica, ribadita in un contributo di quasi un decennio più tardo nel quale riconosceva come fosse “in un certo modo, impossibile parlare di fotografia astratta senza cadere in contraddizioni”[358], specificando semmai (in perfetto accordo con quanto scriveva Arcari circa gli stessi anni, ma certo con echi di Minor White) che è proprio del fotografare (del fotografico diremmo oggi) attuare sempre un processo di “astrazione”, portato alle ultime conseguenze poi in quella “immagine oggettiva ‘soggettivata’” che è la stampa fotografica finale, pienamente convinto (con citazione balzachiana) che “Far concorrenza allo stato civile delle cose, competere con la realtà sottomettendosi ad essa ma con lei rivaleggiando, è uno dei più grandi privilegi della fotografia”[359].  Questi, esposti con la sua consueta lucidità, i termini della questione, gli elementi che gli consentivano di precisare  quel processo da cui originarono immagini che trattenevano un qualche legame col reale da cui erano derivate (come i muri, i legni, gli stessi manifesti strappati), distinguendole dalle fotografie che diremo concrete, determinate dal misurarsi con due elementi fondamentali del linguaggio fotografico come la luce e il tempo, nelle quali – come scriveva Arrigo Orsi – “si arriva a sopprimere il soggetto, a farne a meno”[360]. Meno disposto alla comprensione critica di quei lavori era in quegli anni un esponente della generazione precedente come Guido Pellegrini, che deprecando le  “tendenze astratte oggi di moda”, parlava di “figurazioni ermetiche, oscure concezioni di riflessa introspezione”[361], mentre Pietro Donzelli – che pure apprezzava un autore come Chargesheimer – considerava “la fotografia astratta [come] un modo per eludere il problema sociale, per spersonalizzare la cultura; un modo di isterilire la necessità creativa del realismo”[362].   Se la scena fotografica italiana si mostrava ancora restia (quando non apertamente ostile) ad accogliere le ricerche sperimentali, riconoscendone la ‘legittimità’ quasi al solo Veronesi e alla attività dei grafici,  in ambito internazionale la situazione era sostanzialmente diversa: la Subjektive Fotografie certo, ma anche le iniziative promosse  dal  Department of Photography del MoMA[363], mentre in Europa un periodico come “Art d’aujourd’hui” nel già citato numero del 1952[364] pubblicava una serie di fotografie alle quali Monti deve aver guardato con profondo interesse. Era però “Camera”, un suo punto di riferimento importante in quegli anni, a prestare un’attenzione crescente[365]  a quella che veniva variamente definita come “fotografia sostanziale” (Fritz Gruber, 1956), “fotografia pura” (Grignani, 1957) e infine “fotografia creativa” (Monti, 1964). Una definizione apparentemente dotata di  minor precisione ed efficacia, giustificata però dalla necessità di non qualificare come “sperimentale” ogni fotografia astratta, distinguendo “l’astratto estetico dall’immagine astratta funzionale, in altre parole: distinguere tra ciò che procede dall’espressione e ciò che è il risultato di un’indagine”[366]. Negli anni in cui si diffondeva l’interesse sociologico per la fotografia come “arte media” (Calvino 1955-1958; Bourdieu 1965) furono proprio le pratiche  ‘sperimentali’ a sollecitare  le riflessioni di alcuni intellettuali europei di formazione strutturalista e semiotica, da Roland Barthes a Hubert Damish e Umberto Eco. Ne è buona testimonianza il numero de “L’Arc” del 1963 che raccoglieva, insieme ad alcuni saggi critici, una lunga intervista multipla a dieci fotografi europei particolarmente attivi nell’ambito di quella che i francesi chiamavano “photographie de composition”[367]. Le dettagliate risposte di Monti (forse le più articolate) accoglievano ampiamente le suggestioni delle domande poste da Frantz-André Burguet, considerando già qui il ruolo svolto dal caso, che “viene in aiuto di chi se lo merita (…); per tutti quelli che ne comprendono l’importanza può fornire degli esiti suscettibili di divenire in seguito motivo di ricerca sperimentale.” Esemplari in tal senso i movimenti di macchina (con oggetti, con luci) e  gli sfocamenti, che furono certo il contributo più personale di Monti alle ricerche sulle modalità espressive del linguaggio fotografico. Prove forse non immemori delle insegne luminose in movimento che Lucio Fontana aveva predisposto nel 1952 per le trasmissioni sperimentali della sede RAI di Milano e che avrebbero dato origine al Manifesto del movimento Spaziale per la televisione[368], ma ben distinte per modalità ed esiti da quelle dei fotografi che negli anni ’50 si dedicavano alla produzione di “Luminogrammi” e “Lichterspuren” (scie luminose), che presentavano invece analogie – e non solo formali – con la pittura gestuale di Hans Hartung e soprattutto di Georges Mathieu.  Queste sue verifiche, linguistiche ed estetiche a un tempo,  avevano scarsi riscontri anche nella fotografia che andava variamente sotto il nome di ‘soggettiva’ [369] e piuttosto che alla scena europea, da Otto Steinert a Pim van Os o Joachim Lischke o persino Raul Hausmann, mostrano corrispondenze con le sperimentazioni di derivazione Bauhaus della scuola di Chicago, da Henry Holmes Smith a Harry Callahan, ma qui con un di più di fenomenologico e visualmente ricco di suggestioni formali, certo debitrici della pittura non figurativa europea di quegli anni.  Mi riferisco in particolare alle immagini utilizzate per due copertine di “Domus”[370]  del 1961 ma realizzate alcuni anni prima e per l’occasione sottoposte a una rielaborazione grafica a colori, nelle quali la stampa in negativo, riduceva ulteriormente l’originario carattere di traccia di quel segno letteralmente fotografico che già aveva affascinato Paul Klee all’inizio del ‘900[371]. Erano, quelli, momenti di verifica che Monti avrebbe sempre considerato fondamentali: scivendo a Martinez nel 1956 si era complimentato per “le nuove rubriche [di “Camera”] sulla fotografia sperimentale e quelle sul movimento in fotografia e sui piccoli particolari mi sembrano molto opportune per  sviluppare in tutti, fotografi e non, il senso della visione. È un campo che mi interessa moltissimo e dove ho fatto qualcosa anch’io e che intendo sviluppare anche per ragioni professionali”[372]. Ancora nel 1981 avrebbe dichiarato che “la fotografia (…) è molto interessante soprattutto se si entra nel campo della sperimentazione; cioè se si cerca di usare quest’apparecchio e questi prodotti chimici nel modo più vario, al di là di tutte le regole (…). Vedere cosa avviene, per esempio, facendo le fotografie muovendo la macchina (…). Fare degli sfocamenti, delle sovraimpressioni, dei fotomontaggi, eccetera. Io sono del parere che la fotografia è sì un documento, ma è anche più del documento, cioè è anche un prodotto della fantasia, dell’immaginazione, di tecniche nuove che si possono anche inventare, ognuno per sé”[373].

Tra i primi esempi noti di sfocature comparivano le due versioni di  Cardo sulle rovine, 1954 ante (tav. 044; tav. 046);  immagini dolenti nelle quali ogni elemento era fuori fuoco, quasi a esprimere una constatazione muta della distanza da cui ormai si guardava alle tracce lasciate dalle distruzioni dell’ultima guerra, incommensurabilmente più efficaci della variante di ripresa caratterizzata da una maggiore profondità di campo  (tav. 045) [374]. Circa degli stessi anni era anche la serie dei nudi[375] (tavv. 104, 105, 106), uno dei quali presentato a Padova nel 1956 col titolo di Nudo trasfigurato, nei quali la massa corporea perdeva di riconoscibilità e si offriva quale generatrice di forme a cui le ombre davano una solidità quasi scultorea. Ancora nel 1965, quando un’immagine della serie venne esposta al Worcester Art Museum insieme ad opere di Bill Brandt e Lucien Clergue, Stephen B. Jareckie,  notava come “il dorso e il braccio sinistro della figura nella stampa Nudo  sono leggermente fuori fuoco e la texture della pelle è ridotta al minimo. Quando si vede questa fotografia per la prima volta sembra una composizione astratta, ma da uno studio più attento emerge la forma della figura”[376].  Una procedura di astrazione che connotava anche riprese di poco successive come quella utilizzata per la copertina del numero di giugno 1967 di “Roto C”, il magazine aziendale della Ciba destinato ai medici, che mostrava due ginocchia femminili accostate, nelle quali la diversa pigmentazione della pelle rimandava  ai pregiudizi razziali discussi in quella stessa sede da Silvio Ceccato[377].   Quelli del 1956 furono i soli nudi a destinazione pubblica, mentre altri, più corporali e intimi, erano riservati all’intimità complice; a quel gioco di voyeurismo erotico tra fotografo e modella che ha una tradizione lunga quanto l’intera storia della fotografia (e una diffusione di analoga ampiezza); un gioco destinato a passare dal buio della camera oscura a quello dell’archivio personale per essere poi (forse) votato alla distruzione, sino a che gli esiti della ricerca storica trasformano quelle immagini in sguardi privati consumati in pubblico[378]. Le altre prove di quegli anni rientravano più specificamente nell’ambito delle ‘invenzioni’ linguistiche, a partire dagli Alberi (tav. 109, da accostare ai più tardi Riflessi di un albero, 1969[379]),  nei quali si instaurava una tensione dialettica tra i due piani della rappresentazione e della restituzione dell’oggetto, con la conseguente determinazione di uno spazio che risultava reinvenzione ottica di quello fisico, del referente; una modalità di costruzione dell’immagine che mostra forti analogie coi lavori  del belga Julien Coulommier, tra gli organizzatori della mostra di Bruxelles del 1957 dal problematico titolo di Images Inventées, alla quale prese parte anche Monti[380]. In alcune prove più tarde (Fiore sfocato, 1971, tav. 110; Felci, riflessi deformati, 1974, tav. 111)  l’applicazione di mosso e fuori fuoco portava invece all’invenzione di nuove forme, che è quanto già accadeva nelle diverse varianti degli Effetti di diffrazione e sfocamento del 1959 (tavv. 112; 113) realizzati in studio con pellicola a colori e forse non immemori dello Studio per film  astratto, 1943, e delle proiezioni a luce polarizzata, 1958, di Bruno Munari[381], mentre tutte le prove condotte con elementi naturali (molte delle quali realizzate ad Anzola d’Ossola) erano in bianco e nero. Una differenza che sembra rimarcare quella distinzione tra invenzione e reinvenzione che possiamo riconoscere anche nella costante attenzione riservata al tema dei Riflessi, inaugurato da Edward Steichen con Late Afternoon – Venice, 1907[382] e sempre più frequentato a partire almeno dagli anni  Quaranta (Harry Callahan e Siegfried Lauterwasser tra gli altri) come fenomeno generatore di forme graficamente astratte. Una serie di lavori che Paolo Morello ha interpretato come  l’avvio di fatto della “serie delle Astrazioni involontarie”[383], senza considerare appieno, direi, la rilevanza dell’aggettivo: la distinzione fondamentale tra immagini trovate (e quindi  “involontarie”)  e immagini costruite a partire da un elemento di realtà per quanto effimera come un riflesso. La ricezione di quelle immagini da parte del nostrano pubblico delle mostre e delle pubblicazioni fotografiche dovette però essere più che problematica e ciò spiega forse la scarsa diffusione di quelle sue prime sperimentazioni[384], orgogliosamente presentate però come sole protagoniste della mostra inaugurale de Il Diaframma nel marzo del 1967, quando Lanfranco Colombo scelse  una serie di lavori recenti (la sua prima personale dal 1958) per inaugurare la propria galleria milanese[385]. Una  scelta che dà l’esatta misura della considerazione di cui allora godeva Monti e – di riflesso –  di quanto potesse valere il suo nome (quasi un imprimatur) per avviare quell’inedita impresa della cultura fotografica italiana.  Non un’antologica quindi  né tantomeno un’occasione celebrativa, ma la presentazione di lavori in corso, ricerche personali di un autore che con grande coerenza  non intendeva troppo distinguere né tantomeno separare la propria attività professionale dalle sperimentazioni più spinte.  Tutte prove recenti a colori, frutto di doppie esposizioni, filtraggi cromatici e sfocature; ultimi esiti di una ricerca che datava da almeno un decennio.   “In questo vario e affannoso operare [dettato dalle urgenze del lavoro professionale] diventa difficile trovare il tempo per pensare alla fotografia non come mestiere ma come mezzo per esprimere qualcosa di personale. Eppure – scriveva Monti[386] – è necessario: l’unica strada per progredire è fotografare non solo per i committenti ma anche per sé stessi, per amore della fotografia, usando tutte le possibilità della tecnica e tutte le emozioni dell’animo.” “Nella fotografia l’immagine è ‘dentro’ il supporto, dentro come in uno specchio e la carta lucida, quasi metallizzata, contribuisce a questa illusione; così il mezzo più preciso, scientifico di riproduzione della realtà fisica delle cose, ce le presenta spesso come illusorie apparizioni ricche però di una più precisa esterna apparenza. (…) Molte di queste fotografie registrano in parte l’azione del caso (…). Altre fotografie sono il lavoro di ogni giorno”[387].   Spazzati via d’un colpo i sofismi delle iniziative amatoriali, erano ormai altri e più impegnativi i compiti e più raffinati gli strumenti di cui poteva disporre la migliore cultura fotografica italiana, ben testimoniati dalla citazione di Umberto Eco posta in esergo al testo per Il Diaframma, fatta a memoria:  “anche l’utilizzazione del caso ha un’apparenza di atto formativo autentico.”[388] A quella che il semiologo aveva definito come “estetica dell’oggetto trovato” Monti aggiungeva altri elementi, celebrando le “possibilità di questo prodotto scientifico industriale che è la carta fotografica, materiale che io considero vivo come gli alchimisti parlavano del mercurio quale argento vivo. La carta fissa le immagini, registra le tracce, rivela le impronte e i segni e qui sono sperimentate queste varie possibilità e l’ultima, quella del chimigramma, ci riconduce all’esemplare unico uscito dalla cosciente violazione di tutte le consuete norme tecniche.” Il ricorso insistito a termini quali traccia, impronta, segno, conferma le suggestioni culturali di quegli anni, mentre il richiamo esplicito, quasi un appello alla violazione delle regole imposte da quello che Vilém Flusser avrebbe più tardi definito l’apparato fotografico[389], segnava la distanza con le  coeve Verifiche di Ugo Mulas[390].

 

Fotogrammi e chimigrammi

L’interesse di Monti per la fotografia off-camera traspariva già dalle sue prime Intenzioni fotografiche, tra le quali erano compresi anche i “fotogrammi ottenuti per proiezione”; una modalità espressiva poi costantemente praticata nel decennio successivo (tavv. 062, 102,  114, 115) come indicano anche gli esemplari presentati in alcune mostre o inviati a Minor White nel 1957.  Non risulta invece che in quel periodo si dedicasse alla produzione di chimigrammi, che risalgono quasi esclusivamente agli anni Sessanta, come si può desumere da un confronto con i pochi esemplari datati. Quando, nel corso della già citata intervista pubblicata ne “L’Arc” del 1963, venne chiamato a rispondere se “si possa fare della fotografia che sia solo di camera oscura, senza oggetti né materiali (…)? E se sì, che differenza vedrebbe tra fotografia e pittura?”  Monti rispose confermando (ma la domanda a quella data era ormai retorica) che “bisogna dire che è comunque possibile creare immagini di laboratorio che si possono definire astratte utilizzando solo la luce, la carta sensibile e gli agenti chimici, senza alcun intervento ottico o meccanico. Queste immagini sono ‘uniche’ allo stesso modo di un quadro e sembrano dipinti, ma non sono ‘fotografie’. Sono risultati grafici ottenuti con l’ausilio del materiale fotografico e il loro valore artistico dipende dalle capacità dell’autore.” La tipologia di  immagini a cui si riferiva era quella del  “fotogramma [che] è la semplificazione estrema del processo ottico-chimico che dà origine all’immagine fotografica. Nel fotogramma, infatti, viene eliminato l’intervento della fotocamera e nei fotogrammi per contatto viene eliminato anche l’obiettivo dell’ingranditore.” È così possibile comprendere meglio  il senso della negazione precedente e della messa tra apici del termine fotografie, col quale sembrava indicare solo le immagini convenzionali realizzate con un apparecchio fotografico. “Ma esiste ancora una possibilità estrema – aggiungeva – di creare immagini che, almeno etimologicamente, possiamo qualificare come fotografiche, operando solo con l’ausilio della chimica sulla carta sensibile. (…) Naturalmente queste immagini non sono riproducibili: sono monotipi eseguiti con tecnica fotografica”[391]. Erano i chimigrammi o “chimigravure”, come le chiamava Pierre Cordier, di cui Monti possedeva un esemplare della serie Visage, 1966 (tav. 116).

Stabilito che si tratta di immagini per definizione uniche (e fanno amaramente sorridere le tirature commerciali di ‘fotogrammi’), resta indispensabile chiarire le differenze sostanziali, ancor prima che estetiche, tra fotogrammi e chimigrammi, precisando meglio le distinzioni ancora approssimative indicate da Monti. L’elemento determinante è da ricercarsi nella eventuale presenza del referente, dell’oggetto matrice del quale nel fotogramma la luce traccia la presenza contingente,  segna il contatto con la superficie sensibile senza altre mediazioni. Nella grande famiglia dei chimigrammi invece il referente materiale quasi sempre scompare (tavv. 117, 118, 119) . Qui la sola traccia che permane (perché permane, certo, ed è costitutiva) è quella del gesto compiuto dall’autore: gesto che si manifesta nel tracciamento di segni, nelle manipolazioni e nei trattamenti fotochimici e fisici applicati. Sebbene per Monti “il legame indissolubile del fotografo col mondo esterno” rivestisse una “forza morale”[392], nei chimigrammi operava sulla specifica materialità e potenzialità delle emulsioni, senza rimandi ulteriori. Senza alcuna narrazione, senza porre in atto alcuna ‘astrazione’ dalla realtà; senza nessuna intenzione né possibilità di registrare un tempo che non fosse il qui ed ora della sua realizzazione. Qualcosa che li avvicinava (al di là delle apparenze) proprio alla pittura informale, che “conosce solo la dimensione del presente, non cerca un prima e un dopo alla fisicità cruda e alienante della materia e del gesto”[393].  Per questo le fotografie che ne risultarono non possono definirsi altrimenti che concrete, poiché “il concreto è il non astratto”, come scriveva Max Bense[394]. Stampe materiche, sebbene la materia sia forse difficile da discernere di primo acchito, compressa com’è nello spessore infinitesimale dell’emulsione, emergendo solo (semmai) in aree distinte per diversa diffrazione della luce, dove i prodotti chimici l’hanno più fortemente incisa o condensata d’argento. Opere che implicano e ci impongono una relazione diversa per poterle comprendere appieno; che obbligano al confronto diretto e certo impoverite da ogni operazione di riproduzione, per quanto inevitabile per la loro diffusione e conoscenza. Il numero sette di “Imago” (1965), il bellissimo periodico pubblicato da Bassoli Fotoincisioni con la direzione artistica di Michele Provinciali,  conteneva tra altre cose una cartellina con otto tavole fotografiche a colori, poste sotto il titolo Chimigrammi (Paolo Monti tra fotografia e pittura), così presentate da Antonio Arcari: “Sulla scia delle proposte avanzate da Weston e Siskind, Moholy-Nagy e Man Ray, Heinz Hajek-Halke e la Subjektive, il fotografo-pittore ci presenta 8 immagini nuove, uniche, irripetibili, preziose”[395], corredate da un breve testo dell’autore[396] che riproponeva concetti e considerazioni già espresse nell’intervista citata. Esito inevitabile dell’incongrua congerie di riferimenti avanzati da Arcari era la lettura equivoca di quei lavori, testimonianza evidente della difficoltà di maneggiare criticamente questa categoria di immagini, rivelata del resto anche dalla loro collocazione “tra fotografia e pittura” e dalla sorprendente qualificazione dell’autore come “fotografo-pittore”[397], per certi versi avallata  dallo stesso Monti. Era la stessa difficoltà mostrata pochi anni prima da Turroni nel presentare analoghe opere di Migliori[398], quando piuttosto singolarmente sosteneva che “per vedere e analizzare queste foto astratte di Antonio Migliori nella loro giusta luce, non occorrono né una cultura né una intelligenza speciali”. Concezione quantomeno curiosa, che riduceva quei lavori a semplici “esperimenti (…) al di fuori di ogni considerazione critica o estetica”, accostandoli alle opere dei fratelli Pomodoro,  “che sono i meccanici e i fabbri della pittura”, e al dripping di “Pollock che, come un imbianchino impazzito, spruzza colori e vernici su tele enormi (…). Sono figure di artisti moderni che (…) intendono esprimere il gusto d’oggi incerto e caotico, sfuggente e allarmante, in bilico tra l’indifferenza morale alle voci dello spirito e l’ossessione di nuove forme, nuove strutture, nuovi esperimenti. (…) Consideriamo ora queste foto di Migliori. Ne dobbiamo dare un giudizio estetico? Preferiremmo di no. Ci interessa, per contro, la testimonianza di questo esperimento, e la dimostrazione di un duplice scambio: pittura-fotografia, fotografia-pittura”, che è  quanto avrebbe rimarcato Arcari alcuni anni dopo. Di quello scambio presunto potrebbe essere testimonianza un raro esempio di disegno di Monti riferibile ai chimigrammi (tav. 120), ma  credo invece che esso  debba essere inteso come elemento di un procedere, di un processo di progettazione e previsualizzazione all’interno del quale era anche possibile  “controllare almeno al settanta per cento i diversi toni di colore, anche in termini di ripetitività in sperimentazioni successive”[399].  Una pratica – non sappiamo quanto sistematica – che riduceva in parte l’aleatorietà del processo e che trovava riscontro (certo solo come procedura) nella progettualità di Hans Hartung[400]. Una modalità operativa che pare confermata da un gruppo di chimigrammi non datati (tavv. 121, 122, 123) che per la ricorsività dello schema compositivo si presentano come vere e proprie variazioni sul tema, come esiti di un’indagine specifica sulle possibili metamorfosi dei materiali che già aveva improntato il lavoro per la Sandoz nel 1959, ottenuti adottando specifiche modalità di intervento, sulle quali sarebbe tornato in una più tarda intervista[401]. “Brucio la carta – spiegava Monti  a proposito dei chimigrammi – esponendola migliaia di volte più del necessario. Una esposizione di mezz’ora al sole provoca evidentemente delle trasformazioni nei sali d’argento perché poi, toccandola appena con un rivelatore, si generano delle tinte color ruggine, bellissime. (…)  è necessario alternare l’uso del rivelatore con quello del fissaggio, tamponare l’uno con l’altro. I migliori risultati sì ottengono così. (…)  si possono ottenere tinte ruggine, bluastre, rosate. (…)  Esponendo i fogli a sorgenti di calore si hanno grossi fenomeni di ossidazione. I colori più straordinari compaiono sulle carte lucide normali (…), non finirò mai di meravigliarmi nel vedere come possano apparire così belle tonalità cromatiche su materiali concepiti per il bianconero. (…)  Una strada da tentare è quella di una rielaborazione di immagini stampate tradizionalmente, secondo tutte le regole, ma fissate solo parzialmente: un supporto nuovo per operare un chimigramma. È  una avventura fatta di spugnature sullo sfondo, di batuffoli di cotone imbevuti di rivelatori a concentrazione e temperatura diverse, di acidi molto densi oppure magari corretti con coloranti.”  L’esito di quelle prove costituisce un corpus di immagini, datate tra il 1960 e il 1970[402], in cui (specie tra le prime) chimigrammi puri si alternavano a loro combinazioni con fotogrammi di elementi naturali (fiori, le amatissime felci di talbotiana memoria) che lui chiamava significativamente “impronte” (tav. 124), figure che ricordavano “quasi un fossile” (tav. 125). Quelli successivi erano privi di elementi referenziali, e quindi figurativi, e certo vivevano di infinite, possibili analogie con molta produzione pittorica coeva (da Jean Fautrier a Toti Scialoja, per fare solo due nomi), ma senza quella drammaticità esistenziale e concettuale che le era propria. Altri esemplari più tardi, intorno o dopo il 1965, erano invece decisamente gestuali (tavv. 126, 127): pure esplosioni di segni e colature tracciate dai chimici sulle superfici sensibili. È in questo misurarsi con la materia della fotografia più che nella loro apparenza che possiamo comprendere le possibili analogie con le diverse declinazioni della pittura informale, da confrontare (in una futura indagine) con quanto – almeno in Italia[403] – andavano facendo autori come il già citato Migliori  o Pasquale de Antonis, più noto come ritrattista e fotografo di moda, ma autore anche di fotografie astratte e chimigrammi che vennero presentati a Roma, presso la Galleria L’Obelisco, nel 1951 e nel 1957, sebbene con modalità che certo ne sminuivano il valore e la forza, se Leonardo Sinisgalli poteva descriverli come “divertissement photographyques (…) un passatempo dentro la sua fatica, l’hobby dentro il suo job”[404]. A questi nomi va certamente aggiunto quello di Enrico Genovesi, che fu  direttore di “Diorama”[405] e autore di una serie di notevoli fotogrammi pubblicati in Nuova fotografia italiana (pp.103-109), di cui curò anche l’impaginazione e progettò la sovracoperta.  A proposito di questi lavori Turroni parlava di “sperimentalismo che non ha nulla di schematico (…).  Questo interesse per l’informale’ è mutuato dalla pittura più che dalla subjective photographie; anche in questo caso l’esempio di Monti appare decisivo. Da esso peraltro Genovesi si discosta con modi e forme autonomi (…),  ci restituisce in un ambito immediato il sapore di una nuova visione della realtà, di un più acceso interesse della fotografia verso la sensibilità contemporanea. I fotogrammi di Genovesi sono in tal senso degni di nota. Pensate a una fotografia spuria, che abbia perduto le ragioni del proprio operare  ‘facile’, commerciale o emotivo, e che al tempo stesso abbia incontrato le sorgenti di significati assolutamente liberi, svincolati dalla ingenua trafila dei giochi astratti. Pensate a un ‘informalismo’ che esula dai limiti dell’immagine e si arricchisce di introspezioni delicate. Siamo di fronte a una ‘materia’ che respira, che si riverbera in incanto cosmico, di plastica e ‘naturale’ bellezza”[406]. Una chiusa ‘poetica’ che mostrava ancora una volta l’incapacità di accogliere il senso di quelle operazioni, che muovevano semmai dalle ragioni esplicitate da Chargesheimer nella conferenza milanese del 1950: “l’uomo ha scoperto il caos e segue l’impulso creativo per dargli forma. Il caos lo costringe verso la  pura forma, verso la forma primaria delle cose. Allo stesso modo mi ha spinto a liberare la forma sconosciuta della materia. Il mio sforzo era quello di produrre coscientemente questa contingenza e di esercitare un preciso controllo sul suo andamento. (…) una composizione libera di linee e superfici, e per includere tutte le occasioni del caso in queste composizioni. Gli strumenti sono diversi e possono solo essere utilizzati intuitivamente: agitare, strofinare, graffiare, raffreddare, riscaldare, utilizzo di acidi, basi (…) solo per citarne alcuni”[407].  In una testimonianza di molto successiva[408] Monti avrebbe assunto una posizione più incerta, quasi revisionista, dapprima rivendicando orgogliosamente di aver esposto alcuni fotogrammi  “a Venezia che hanno avuto un certo successo e di cui ha parlato abbastanza bene Carluccio” (“ Le macchie, le corrosioni, gli strappi sono momenti attivi del caso che trovano nei chimigrammi precise rispondenze e una profonda rigenerazione”[409]), per ridimensionarne  drasticamente poi il senso e il valore, ricordando che  “questi fatti che sembrano lontani dalla vera fotografia fatta con la macchina fotografica, invece non lo sono  perché tutti questi esperimenti servono poi a stampare meglio, a comporre meglio sia nel quadrato che nel rettangolo che nelle altre forme; creando queste forme anche a mano s’impara poi a farle attraverso la macchina fotografica, attraverso un mirino”. Un’altra manifestazione di understatement montiamo diremmo, essendo difficile ridurre al rango di semplice esercizio il migliaio di prove che ci sono pervenute o la stessa loro pubblicazione su “Imago”, ma non si può neppure – come ha fatto Valtorta[410] – parlare  di “ ‘provocazione’, probabilmente, alla radice delle esperienze astratte e delle sperimentazioni (…) iniziate da Monti per gioco ma comunque condotte sempre con lo stesso rigore tipico della produzione professionale e di ricerca.” Né provocazione né gioco, ma neppure realizzazioni strumentali “che poi rivende all’industria, in ragione del forte impatto visivo, del potere di evocazione, ed anche di una certa disponibilità che queste immagini hanno ad accogliere grafica ed iscrizioni”[411].  Consultando l’archivio Monti è facile verificare che quando ciò è accaduto si trattava sempre di fotogrammi (le posate di Ponti, tav. 128) o di doppie esposizioni, né si può accostare a quelli il lavoro condotto nei laboratori Sandoz, che fu tutt’altra cosa in termini sia tecnici che concettuali. Non appare neppure plausibile l’ipotesi che i chimigrammi fossero legati “a quella distruzione della forma che ha avviato già nei primi anni a Venezia”[412]. Si trattava semmai – all’opposto –  di costruzione di nuovi  oggetti visuali, di generazione di inedite porzioni di realtà, non di distruzione condotta “per strappare un segreto alle cose”[413].  Più pertinente e centrata la notazione critica, anonima ma verosimilmente attribuibile ad Arcari, contenuta nella bozza di progetto di mostra dedicata a Paolo Monti, poi non realizzata, in cui si riconosceva che le “ricerche e sperimentazioni (…) non sono state solo un modo di provare strumenti e materiali, di collaudarne le qualità, di conoscerne la duttilità, ma di verificare la possibilità del proprio mezzo linguistico nell’adeguarsi alle tendenze artistiche del nostro tempo: astrattismo, ricerca materica, informale”[414].

 

“Ritratti/ Artisti”

La presenza di questa categoria nel soggettario di Monti conferma la rilevanza che riconosceva a quei lavori ben oltre il semplice incarico professionale, come testimonia anche la loro ricorrente presentazione in mostre nazionali e internazionali, da Spilimbergo a Bordeaux  e Rochester, e la  ricca antologia che ne fece Giuseppe Turroni per il suo volume del 1959[415].  Al suo arrivo a Milano Monti aveva potuto contare su di un’importante conoscenza, un altro membro della diaspora veneziana attratto dalle possibilità milanesi come Carlo Cardazzo (a sua volta possibile tramite di conoscenza con Carlo Scarpa[416]) che nel 1946 aveva aperto in città la Galleria del Naviglio  per estendere l’impresa avviata con la  veneziana Galleria del Cavallino (1942), poi diretta dal fratello Renato[417]. Primo frutto di quella collaborazione fu il volume del 1954 dedicato a  Capogrossi, con testo di Michel Seuphor, che originava dalla mostra alla galleria milanese dell’anno precedente. Negli anni successivi, in un momento in cui il ricorso alla fotografia si avviava a costituire la privilegiata strategia di comunicazione del mercato dell’arte,  i contatti si estesero ad altre gallerie come la milanese Galleria del Milione, per la quale documentò specialmente lavori di scultori (Milani, Minguzzi, Negri), la filiale romana della Marlborough o la  De’ Foscherari a Bologna per le quali Monti realizzava non solo riproduzioni delle opere destinate ai cataloghi e alle riviste d’arte, ma anche cronache degli allestimenti, dei vernissage (tav. 129) e ritratti ambientati negli studi degli artisti.Non considerando la lunga serie dedicata alla nipote, fondata su presupposti diversi, Monti si misurava col genere del ritratto dichiarando che le sue simpatie, quindi le sue intenzioni e motivazioni andavano a quello “psicologico”[418], sebbene precisasse poi (ma molto più tardi) che “quando faccio delle foto sono molto cinico, per me una testa è un oggetto, quel che mi interessa quando riprendo un personaggio sono i rapporti di luce, poi considero l’uomo: senza un certo distacco non si riesce a fare i ritratti”[419]. Un’impostazione convintamente  “soggettiva” si direbbe,  sebbene poi proprio quelle fotografie  non incontrassero l’approvazione di Steinert che per Subjektive Fotografie 2[420] del 1954 scelse “tre Venezia e nessun ritratto”, “ ciò che – chiosava Monti – mi ha messo un sospetto e cioè che voglia restar solo a esporre ritratti steineriani”[421], ammesso e non concesso che quelli di Monti avessero qualcosa a che fare con quelli del collega tedesco. “Nel complesso non mi pare che a Saarbrücken sarò neppure rappresentato con quelle cose che io ritengo più alte.” “Hai visto il nuovo Subjektive? Anche questo inferiore al primo perché Steinert sta spingendo le sue tendenze grafiche alle estreme e quindi false conseguenze”[422]. Cosa potesse intendere per e come potesse coniugare indagine psicologica e composizione formale lo si può meglio comprendere studiando proprio i ritratti di artisti, caratterizzati da soluzioni ogni volta diverse ma accomunate in una formula che prevedeva la compresenza di un’opera a fare da sfondo, da contesto o da interlocutore muto, allo scopo di connotare precisamente il soggetto.Significativo in tal senso quello di Umberto Milani[423], ridotto ad un’ombra portata sulla Plastica parietale da lui realizzata per il Padiglione del Soggiorno alla X Triennale (1954); quello “nucleare” e quasi disintegrato di Enrico Baj (tav. 132) o quello di Arnaldo Pomodoro al lavoro[424] (quasi un’eccezione nella produzione di Monti), mentre erano alcune irriconoscibili forme evanescenti a caratterizzare quello del compositore e direttore d’orchestra Bruno Bogo (tav. 133). Una soluzione non lontana da quella adottata per il ritratto di Bruno Contenotte, (tav. 134), il volto ridotto quasi a maschera disposto su di uno  sfondo nero attraversato da scie  luminose, richiamando così la specificità dei suoi lavori[425].  “Quando fotografo uno di questi tanti pittori  – scriveva all’amico Ferroni – posso dimenticare che ho davanti a me un arrivista con la testa vuota, il cuore secco, un animo da pezzente che raccatta i rifiuti di Picasso e di Klee per essere ‘moderno’? E allora li faccio uscire come si meritano con quelle facce da semidegenerati che sembra essere la maschera di almeno il cinquanta per cento del milanese medio. E faccio loro ancora un onore perché li idealizzo in una maschera, mentre potrei accontentarmi di farli reali come fantocci. Per questo a loro i miei ritratti piacciono, qualche volta invero un po’ a denti stretti, ma non hanno il coraggio di dirmelo”[426]. Dichiarazione tanto sincera quanto sottilmente compiaciuta se è vero che proprio quello era considerato il genere in cui raggiungeva “una più compiuta espressione (…).  Non sono i suoi i soliti ritratti decorativi che sollecitano la vanità del soggetto, ma piuttosto stati d’animo presentati con una potente trasfigurazione realistica”[427], ovvero –  come scriveva  Turroni, fraintendendo in parte – “Monti non voleva accontentare questi artisti bensì mostrarceli in una luce positiva, vera, senza finzioni e sovrastrutture”[428]. Quel suo giudizio tremendo e certo ingeneroso nella sua generalizzazione risultava poi quasi incomprensibile se pensiamo che quasi negli stessi giorni si augurava “che nelle giurie fotografiche entrino anche artisti, collezionisti, critici d’arte e poeti”[429]. Un giudizio forse non estraneo a una concezione, a una dinamica culturale e sociale che ancora collocava il fotografo ad un livello di puro servizio, della quale Monti doveva essere dolorosamente consapevole:  “Insomma – scriveva a Parmiani [430] – la fotografia intesa come Dio comanda è una grandissima e degnissima e bellissima cosa, alla faccia di quella innumerevole legione di pittori e scultori stronzi, che ancora guardano a noi come ai servi sciocchi del vero e del reale.” E ancora, in uno dei suoi più tardi Appunti e disappunti  era costretto a constatare che “non vediamo mai ritratti scattati da fotografi italiani fatti con quel minimo di cattiveria che spesso assicura un buon risultato: più o meno c’è sempre un ossequio al personaggio. (…) Si teme il vilipendio del personaggio? Forse la ragione è diversa; il fotografo da noi non ha ancora lo status sociale che gli permetta di essere almeno moderatamente insolente. Guadagna bene ma se ne stia buono e tranquillo; resta però il fatto che senza acido non si fanno acqueforti”[431].  Credo sia stato Cesare Colombo[432] a riconoscergli per primo quella “ben nota costante di amarezza… quasi un risvolto di una personale posizione nei confronti della vita stessa”, tale che “il calore degli incontri è sempre serrato in certe mediazioni espressionistiche”, suggerendo nel contempo che nelle sue figure fossero presenti “la ritrattistica rinascimentale, e l’ottocento fotografico franco-inglese”, sebbene – credo – queste non possano esaurire l’orizzonte della specificità dei suoi ritratti, sempre lontani  dalla “messa in scena dell’artista in azione”[433] com’era invece in Mulas. A considerarli nel loro insieme si colgono suggestioni provenienti da fonti diverse, da Florence Henri[434], in particolare i suoi ritratti di Jean Arp e di Robert Delaunay della metà degli anni Trenta, alle fotografie di scena pubblicate da una rivista come “Ferrania” e magari al “cinema d’arte di Eisenstein e Dupont, [essendo Monti] lettore provveduto di scritture e cifre ermetiche (accolte nella loro motivazione polemica)” come scriveva  Turroni[435], seguito in questo da un altro sodale come Anche Emiliani[436], che lo ricordava   “divoratore cinematografico, così come digeriva ogni forma del visivo e del figurativo, sfogliando libri con quell’aria di mestiere – sempre interessata, talvolta appena perplessa – che io avevo già visto sulla faccia assorta di Roberto Longhi.” Non aiutano a comprendere meglio la poetica dei suoi ritratti neppure le riflessioni sul tema che espresse nel 1963 sulle pagine di “Camera” celandosi sotto lo pseudonimo di Paul Bergen[437], con una selezione di immagini che nulla avevano a che vedere con la sua produzione ritrattistica e rimandavano semmai ai più convenzionali ritratti da studio. Qui  Monti intendeva semmai  indagarne le caratteristiche dal punto di vista storico culturale e sociale più che esplicitamente estetico, “perché bisogna rendersi conto, se necessario, che limitare il ritratto ai soli aspetti estetici, tecnici ed economici del lavoro in studio equivale a rinchiudersi in uno schema tradizionale, estraneo all’evoluzione estetico-tecnica della fotografia e alle sue dimensioni sociali e commerciali. (…) Lungo tutta la storia della fotografia si osserva la correlazione tra le forme socio-economiche e le forme estetiche di una data epoca, tanto è vero che tutte le società tendono a considerare le proprie funzioni sociali nelle arti.  E sebbene questi elementi sociali siano antiestetici, estranei all’arte, agli occhi di chi vuole creare un’opera che sia individuale nell’essenza e singolare per definizione – e hanno ragione nella misura in cui ci riescono – è riferendosi ai fattori tempo, ambiente e moda che cercheremo di circoscrivere la questione del ritratto. Tempo, ambiente, modalità, abbiamo detto; vuol dire già parlare di ‘stile’. E sappiamo tutti che il periodo della ricerca, il periodo dell’affermazione e il periodo di esaurimento di uno ‘stile’ sono ben più rapidamente transitori in fotografia che in qualsiasi altra forma espressiva. Inoltre, la permanenza di uno ‘stile’ è legata alla sua funzionalità, che a sua volta dipende strettamente dal gusto dell’utente e anche dalle esigenze utilitaristiche che il ritratto soddisfa in quanto rappresentazione nell’attuale circuito socio-economico.” Una lettura socioculturale e materialista, forse influenzata dal saggio di Arnold Hauser pubblicato in Italia qualche anno prima[438].

 

A proposito di pubblicità

Era “agli uomini del mestiere” che si rivolgeva in quell’occasione, quindi le ragioni di poetica furono  messe da parte a fronte delle più prosaiche e impellenti questioni poste dalla pratica professionale, e in particolare dalla sua qualificazione. Come ha ricordato Cesare Colombo[439],  “la battaglia di Monti alla guida dell’Associazione Professionale AFIP era rivolta a contrastare l’antica condizione subalterna del fotografo verso il committente. Egli sapeva contrapporre la propria erudizione personale a quella degli editori, degli architetti, dei dirigenti pubblici con cui operava (…). I committenti del suo lavoro professionale, che frequentavano il suo Studio 22 a Milano[440], in corso Sempione, riconoscevano in lui un interlocutore particolare. Egli padroneggiava il sistema tecnico di ripresa e di laboratorio (di quegli anni) come molti colleghi… ma sviluppava una dialettica, una personale cultura della comunicazione visiva come nessun altro.”  È stato lo stesso Monti a illustrare il contesto in cui si svolgeva l’attività professionale, a Milano e non solo: “Ho fatto dei lavori per agenzie pubblicitarie che hanno proprie sedi, propri laboratori fotografici e anche che non ne hanno affatto” – notava nel 1959 – “Qui il problema è sempre la serietà dell’agenzia. Ci sono delle agenzie serie le quali non accettano per esempio di fare un cartellone in dodici ore, ma ce ne sono di quelle che accettano di farlo anche in sei; e qui è questione di concorrenza, è questione anche di un malinteso spirito di milanesismo per cui il dover fare in fretta sarebbe la tipica dote di Milano, mentre la tipica dote di Milano è quella di fare molte cose in fretta e anche male, e di farne molte con il tempo dovuto e anche benissimo. Se dovessi fare una critica all’attività fotografica pubblicitaria milanese, dovrei essere piuttosto acerbo: in complesso mi sono visto sempre presentare del lavoro da fare in poche ore, il che dimostra fra l’altro che la famosa organizzazione milanese commerciale non è affatto organizzata. Perché quando una campagna pubblicitaria si deve improvvisare in pochi giorni, e quindi si deve dare pochi giorni al grafico, pochi giorni a quello che fa gli slogan e poche ore al fotografo, vuol dire che non si è arrivati in tempo a prevedere il programma commerciale con il dovuto anticipo; il che vuol dire una cattiva organizzazione.  Ora, quando si pensi che una campagna pubblicitaria può costare ad esempio mezzo miliardo, e poi, dopo aver speso mezzo miliardo, si vuole che il fotografo faccia fotografie per venti o trenta mila lire, si capisce subito la stupidità di una impostazione di questo genere, che deriva non tanto dal mal volere delle agenzie, dal mal volere dei servizi commerciali delle grandi società, quanto dall’infantilismo con cui viene considerata la fotografia. La fotografia è solo una cosa che si può fare in fretta, la fotografia non ha niente di difficile, la fotografia è la macchina che la fa, è una cosa meccanizzata; aspettiamo il can barbone che faccia fotografie o lo scimmione organizzato a far fotografie in tempo rapidissimo, e poi molti milanesi saranno soddisfatti. Non saranno soddisfatti i fotografi”[441].  Questa risentita descrizione delle condizioni di lavoro, formulata in occasione del Convegno di Sesto San Giovanni del 1959, era stata sollecitata dall’intervento di Cesare Colombo dedicato alla fotografia pubblicitaria[442]  e in particolare alla spinosa questione del  “ grande problema morale della pubblicità”. “Mi era sembrato di capire – affermava Colombo – che alcuni componenti della Giuria qui alla Rassegna avevano espresso delle riserve sulla «moralità» appunto delle foto pubblicitarie esposte, con particolari accuse al clima artificioso. E credo allora doveroso chiarire che se è ineliminabile il senso fondamentale di ottimismo, forse di retorica euforia, presente nelle foto destinate ai messaggi propagandistici, vi è tuttavia da porre l’accento sulla sincerità essenziale di tali atteggiamenti. Le figure femminili che oggi presentano i prodotti più disparati (…) ridono, sorridono; ma questa forma di esagerazione euforica, possiamo dire anche di incoscienza, che alcuni ritengono colpa del pubblicitario, non significa necessariamente una evasione colpevole dalla realtà, una menzogna. Il problema verità-bugia (…) può essere in verità ben risolto dal mezzo fotografico. La presenza concreta della realtà alla base della fotografia dovrebbe garantire una certa pulizia morale al messaggio… È vero che una ragazza o un giovane abbronzato ci presentano saponette, lame da barba, minestrine, con faccia stereotipata, con espressione fasulla, fastidiosa magari: ma questo non è imbroglio, perché insomma se la fotografia sorriderà è perché la realtà ha sorriso in quel modo; i modelli sono esistiti così davanti all’obiettivo, sì sono comportati così… ci può quindi essere uno sbaglio loro o del pubblicitario, ma non mai una totale contraffazione.” Un esempio da manuale di falsa coscienza ideologica diremmo, subito contestata da Monti con un fare tanto sornione quanto radicale: “Sulla fotografia pubblicitaria non avrei molto da aggiungere a quello che ha detto Colombo tranne alcune osservazioni di carattere marginale. La prima è questa, che non è poi tanto marginale. Sulla moralità della fotografia pubblicitaria ci sarebbe molto da dire. Indubbiamente molta fotografia pubblicitaria oggi si basa su dei riflessi condizionati di natura freudiana: quando si arriva a far propagandare le lame da barba da una bella ragazza che ci fa vedere le gambe evidentemente non siamo più nel campo della moralità, nel campo in cui ci dice Colombo, anche se le gambe sono realmente esistite, anche se la ragazza bella ci sorride volonterosamente”. Non si trattava di riflessioni astratte ma derivate dalla sua esperienza professionale, da quei lavori “di pagine pubblicitarie dove la possibilità di solleticare l’estro e le meningi è molto forte” [443] che tanto lo avevano attratto nei primissimi anni milanesi ma che potevano anche riservare diverse sorprese. Mi riferisco alla messa in fotografia della “sceneggiatura” predisposta nel 1958 per una campagna pubblicitaria della J. W. Thompson di Londra relativa a una saponetta, da sottoporre a Monti,  considerato dai pubblicitari  “un tale artista e una persona di tale gusto e cultura che spero possa dare ad una fotografia di questo genere un sapore e una qualità molto interessante”[444]. Gli abbozzi di sceneggiatura della posa fotografica scambiati tra il referente inglese [Willie]  e il suo corrispondente italiano, l’architetto  Giancarlo Pozzi[445] prevedevano tra le altre “un bagno nel mezzo di un giardino? Una fontana di marmi colorati con piante?”, ovvero una “Inquadratura astratta, della ragazza immersa in acqua, realizzata fotografando dall’esterno in una vasca di cristallo”, senza escludere la possibile “ambientazione con una foca che gioca con la ragazza, o che tiene la saponetta (eventualmente ingrandita) in equilibrio sul muso”. Accanto e prima della questione morale però si poneva per Monti quella della scarsa qualificazione professionale  (“Si diventa fotografi in Italia senza nessuna preparazione; si può fare il fotografo come si potrebbe fare il venditore ambulante”)[446], certificata anche dal mancato invito all’Associazione artigiana dei fotografi italiani a partecipare alla prima assemblea generale di Europhot (The Council of the Professional Photographers of Europe) dell’ottobre del 1959. Fu quello il fattore scatenante che indusse alcuni professionisti milanesi[447] a fondare nel 1960 l’AFIP – Associazione Fotografi Italiani Professionisti,  negli stessi mesi in cui  “Camera”  diveniva l’organo ufficiale dell’istituzione europea, modificando la testata in “Camera Europhot”. Su quelle pagine Monti avrebbe poi pubblicato  un lungo articolo sul tema[448] che  dopo un sintetico richiamo alla situazione statunitense, dove “la fotografia è entrata a far parte delle abitudini e delle scuole sino a divenire una delle  materie obbligatorie dell’istruzione tecnica e degli studi specialistici” e “le condizioni di lavoro in un paese altamente industrializzato con un’ economia di massa non potevano avere che effetti favorevoli sul livello socio-economico della professione”, affrontava in veloce sintesi storica le conseguenze sul piano della cultura fotografica che “la grande emigrazione provocata dall’ascesa di Hitler che svuotò la Germania dei suoi migliori talenti a favore di altri paesi, compresa l’America, che accogliendoli trassero vantaggio dalla loro considerevole contributo. Se ci si chiede cosa stesse succedendo in Italia mentre altrove si ‘reinventava’ la fotografia, la risposta non può che essere negativa. Solo alcuni ritrattisti, come Sommariva, e una manciata di fotografi documentari o di architettura sfuggirono al clima di sterilità che si era instaurato. Per quel che riguarda la ricerca sperimentale, i lavori di A.G. Bragaglia a sostegno del suo manifesto della “fotodinamica futurista” è stato l’unico fatto degno di attenzione. Ma questa impresa, pur anticipando di vent’anni alcune idee e realizzazioni del Bauhaus, non figura in nessuna storia della fotografia [449]. (…) Quindi potremmo sorvolare sul periodo fino agli anni Cinquanta, quando si fecero sentire gli effetti derivanti dai grandi cambiamenti nella vita politica, sociale, economica e culturale del Paese. (…) Tuttavia, se questa fase di transizione è stata superata rapidamente nonostante il peso del passato, ciò è dovuto agli sforzi di aggiornamento  estetico e tecnico dell’intera professione, nonché all’ingresso di una generazione di ‘dilettanti’ molto evoluti in termini di cultura visiva.[450] Da questo punto di vista, Milano ha svolto il ruolo di catalizzatore. (…) È in questo contesto che l’AFIP (Associazione Italiana Fotografi Professionisti), membro di Europhot, è stata fondata a Milano da un gruppo di fotografi professionalmente qualificati. Il suo scopo è di operare per elevare il livello della professione e difenderla, per definire una deontologia[451], per promuovere iniziative culturali e scambi con l’estero. Programma ambizioso, difficile da applicare.” Nella redazione originale[452] il testo si concludeva analizzando  la questione dei costi: “Si può dire che si conosce il prodotto ma non il suo costo. Nel costo generale di una campagna pubblicitaria, la percentuale di spese destinate alla fotografia si può valutare da un terzo a oltre un decimo delle percentuali americane. Questi squilibri sono inevitabili in una economia di recente e rapido sviluppo, dove il gioco competitivo falsa i rapporti di prezzo dei vari fattori che concorrono alla produzione e alla vendita. Bisogna peraltro riconoscere che negli ultimi tre anni, la situazione è molto migliorata: merito comune di committenti e fotografi ma soprattutto di questi ultimi, che non hanno esitato a investire molti capitali in studi e laboratori che oggi sono fra i migliori d’Europa e che possono soddisfare più che largamente i bisogni di oggi e di domani. Condizione evidente  [sic] molto vantaggiosa per una industria in espansione e per una pubblicità che naturalmente tende a diventare sempre più efficace e differenziata.” Grandi petizioni di principio convivevano con la razionale consapevolezza che quelle fotografie, che rappresentavano “il lavoro di ogni giorno” non fossero altro che “ il materiale di consumo dell’industria e della editoria per l’appagamento dell’universale e inesausto voyeurismo[453] dell’epoca: lavoro fatto di tecnica e di intuito formale, di esperienza e di improvvisazione, con la certezza che a castigare la nostra vanità, questi rettangoli di carta andranno veramente al consumo, alla distruzione”[454].  Forse era proprio la consapevolezza della ineluttabile consunzione consumistica e finale che lo portava a non andare oltre una corretta, convenzionale definizione di questa tipologia di immagini, a volte consentendosi però una qualche suggestione Pop (tav. 136), specie quelle destinate alle pagine dei periodici,  che facevano variamente ricorso alla presenza della figura umana, come quelle per la Lavanda Bertelli (tav. 137), per i nastri magnetici Agfa (tav. 138) o le macchine da cucire Singer (tavv. 139, 140): tutti casi nei quali  la messa in pagina prevedeva un semplice accostamento per sommatoria al messaggio testuale, confidando – ma certo in modo piano e quasi familiare – su quei “riflessi condizionati di natura freudiana” ai quali aveva fatto riferimento nel suo intervento a Sesto San Giovanni: “un fatto di carattere commerciale che si affida soprattutto a quella specie di magma indifferenziato che è nell’interno dell’uomo comune per cui si vede sempre sollecitato quando, o per le lamette da barba, o per una cravatta o per altro, c’è questa immagine femminile che si rapporta a una specie di erotismo più e meno qualificabile e che è comune a tutti gli uomini. Ora qui ci sarebbe da fare uno studio di psicologia di massa e probabilmente si arriverebbe a questo risultato. Che si tratta in sostanza di una grande frustrazione (…)”. Analoghe riserve dovevano riguardare la sua modesta produzione di fotografie di moda: niente a che vedere con quella dei suoi colleghi ‘milanesi’ come Gian Paolo Barbieri o Ugo Mulas o persino Gianni Berengo Gardin[455]. Forse una questione di committenza (quelle di Monti non appartenevano all’universo delle  grandi firme) ma anche di scarsa sensibilità per il genere, che pure conosceva bene non fosse altro che attraverso le Biennali di Fotografia. Monti non era tra quei fotografi che “ora in possesso di uno stile personale, di un mondo espressivo da far vedere e ammirare, abbiano, nella loro prima giovinezza o comunque nello stadio di preparazione tecnica e formale, guardato ai fotografi di «Vogue» come un modello irripetibile (diciamolo pure: la parola si usava dieci anni fa), come una linea di bellezza fotografica difficilmente raggiungibile, come una prova di raffinatezza e di gusto. E non solo per le belle fotografie in sé ma per quello che le fotografie implicavano di idee, di critica a un costume, di dialettica insomma”[456]. Senza scomodare le prime analisi sul sistema della moda di Roland Barthes, che proprio sul finire degli anni Cinquanta avanzava “l’idea di una vera e propria semiologia del vestito”[457], si potrebbe dire che troppo era il razionale disincanto di Monti rispetto a quell’universo, forse anche per ragioni etiche, insufficiente quindi la sua adesione (anche solo superficiale) per consentirgli di andare oltre un onesto mestiere. Quando si trattava di arredi (Arflex, Tecno), nella più parte dei casi le sue fotografie poi non si discostavano dall’ampia produzione realizzata per le varie edizioni della Triennale; non riuscivano a possedere un’identità connotativa come accadeva tipicamente nei lavori dello Studio Ballo o di  Giorgio Casali. Quelle  che oggi ci appaiono come le sue prove più convincenti in questo settore, anche per le relazioni strette con le sue ricerche più personali, sono  i fotogrammi e i fotomontaggi, che si inserivano in una ‘tradizione’ lunga della grafica milanese: da Luigi Veronesi a Max Huber[458], che fin dal primi anni del dopoguerra aveva curato l’immagine coordinata della società Braendli, per la quale lavorò Monti negli anni Sessanta realizzando anche due cataloghi a colori[459]. Più proficuo e lungo il rapporto con Albe Steiner[460], al quale fornì tra le altre le fotografie per una pubblicazione dedicata al Vetrotessile (tavv. 141, 142)[461], dove la bella impaginazione accostava immagini dei materiali, di forte impatto grafico, con riprese degli stabilimenti e dei cicli di produzione. Certo fu quella l’occasione per sviluppare anche proprie ricerche personali (tav. 143), tra le quali un Fotogramma da fibre di vetro (tav. 115), che rientrava però in una piccola serie di analoghe soluzioni adottate in occasioni diverse, quali  il già citato fotogramma ottenuto con le posate disegnate da Gio Ponti, 1958 (tav. 128) [462] o le due ambientazioni di gioielli di Arnaldo Pomodoro, del 1955, per le quali utilizzò in sovrimpressione una parte della Grande roccia solarizzata (tav. 144)[463].

 

 “Un certo Monti”

Quella sua volontà caparbia, profondamente motivata di coniugare lavoro professionale e sperimentazione che tutti riconoscevano quale sua specifica caratteristica, quel suo “interesse indiscriminato per immagini tra loro differentissime”[464] emergeva chiaramente anche dalla selezione delle opere presentate alle personali.  Così nel 1954 a Roma,  accanto alla riproposizione di fotografie già note comparivano due evidenti novità legate alla sua recente attività professionale come Copertina per uno scultore (n.31) e Pagina pubblicitaria (n.32). Una scelta che aiuta ancora una volta a comprendere come  sin da subito  per Monti non si trattasse di muovere da una condizione all’altra, non si trattasse mai di ‘passare’ lasciandosi alle spalle qualcosa, ma di far convivere e dialogare due aspetti altrettanto rilevanti per la propria definizione autoriale. Anzi: se consideriamo la cronologia delle mostre e delle pubblicazioni sulle riviste di settore vediamo che la figura di Monti si è definita e ha assunto crescente autorevolezza proprio a partire dal 1953. Quando sul numero di  “Ferrania” del  novembre di quell’anno venne pubblicato il primo saggio critico a lui dedicato, a firma di Berto Morucchio [465], Monti  aveva appena deciso di abbandonare la carriera di dirigente per fare della fotografia il proprio mestiere[466]; scelta e data che lo accumunavano ad altri  autori come Mario de Biasi e Fulvio Roiter, che avrebbero però orientato i propri interessi in ambiti diversi.  Conseguenza necessaria e inevitabile fu il trasferimento a Milano, dove il due ottobre costituì la Fotogramma Studio Laboratorio Fotografico[467]; una s.r.l. in cui aveva come socio la Color Record di Hrant e Vasken Pambakian, i fratelli armeni titolari del negozio veneziano in cui solo cinque anni prima si era formato il gruppo de La Gondola[468].  La lucidità della scelta, del momento e del luogo, gli dovevano derivare proprio dalla sua lunga esperienza di dirigente industriale, dalla consapevolezza che “con la ricostruzione dell’economia italiana, si presentano nuovi bisogni che la fotografia deve soddisfare e in primo luogo la pubblicità”[469],  anche se poi non fu quello il suo primario settore di attività. Milano era ormai “la città più attiva e aggiornata, perché in essa la fotografia professionale ha maggiori e più varie possibilità di utilizzazione (giornalistiche, pubblicitarie, industriali, ecc.) e quella degli amatori più varietà e stimoli di interessi culturali”, anche per il ruolo svolto da “Lamberto Vitali, critico d’arte e collezionista di antiche fotografie italiane”[470]. “Qui hanno sede le più grandi industrie, le agenzie pubblicitarie  italiane e straniere, le maggiori case editrici, la stampa periodica illustrata (quindici periodici settimanali esclusi quelli per la donna), in una parola i più forti utilizzatori di immagini. È quindi naturale che Milano sia il centro della produzione di immagini (…). Negli anni dal ’50 al ’60 la pressione delle nuove esigenze del mercato fotografico provocava un deciso adeguamento prima delle attrezzature tecniche e poi, almeno parzialmente, delle capacità professionali dei migliori fotografi. (…)  In questo decennio si aprono i migliori studi fotografici e altri rinnovano metodi e attrezzature e, fatto nuovo, entrano nella fotografia professionale uomini che non provengono dalle scuole fotografiche o dal lavoro subalterno, ma da altre attività e da varie esperienze culturali ed estetiche”[471].  Il richiamo tanto  implicito quanto chiaro era alla sua stessa esperienza, al proprio percorso di formazione, a quel passaggio osmotico che riuniva in Monti  fotoamatorismo e professione, Venezia e Milano.  In un’intervista tarda avrebbe ricordato che per interessamento di Roberto Crippa ebbe l’opportunità di presentare le proprie fotografie ai membri del comitato per la X Triennale (1954), “i quali mi vollero subito prendere come fotografo (…). Soprattutto perché avevano visto come io avevo interpretato le architetture maggiori, ma soprattutto le minori, quelle quasi popolari, di Venezia e anche delle isole”[472]. Abbiamo conferma di quel primo, importante impegno anche da una lettera di Monti a Giulio Parmiani nella quale scriveva:  “lo sto accanitamente lavorando per la Triennale e forse prenderò molto lavoro per architetti, artigiani e riviste tecniche come ‘Domus’ e ‘Stile e Industria’, dove esigono foto molto originali, grafiche talvolta e che mi attirano molto. Anche il lavoro industriale per grandi stabilimenti incomincia a funzionare e ti dirò che i successi migliori li ho avuti facendo delle foto che mi piacevano come dilettante, come se quelle inquadrature non avessero nessuno scopo pratico, ma mi dovessero piacere solo in quanto tali” [473]. Monti era ben consapevole che la cultura visuale acquisita nella pratica amatoriale e la capacità di superare i vincoli imposti dal lavoro su committenza costituivano l’elemento determinante della propria offerta professionale.  In quell’occasione ebbe modo di misurarsi con un’ampia gamma di soggetti, dagli ambienti ai gioielli  alla gran parte delle architetture, ma anche l’allestimento della Mostra della pubblicità e della estetica stradale, curata tra gli altri da Albe Steiner, col quale avrebbe poi lavorato per almeno un ventennio realizzando “moltissimi lavori in perfetta collaborazione [perché]  Steiner è un grafico che rispetta la fotografia nel modo più assoluto e soprattutto lascia la libertà al fotografo, la libertà più completa”[474]. Una parte di quella documentazione – realizzata sotto la sigla dello studio[475] –  venne pubblicata in un numero monografico di “Domus”  che portava in  copertina un  lavoro di Monti molto diverso: un affascinante fotogramma  intitolato Composizione di foglie e neve  (tav. 059), ma non tutte le fotografie realizzate per quella Triennale e attualmente conservate nel Fondo Monti e nell’Archivio dell’Ente[476] sono della stessa qualità. Non poche risultano sciatte, così come appaiono modeste in termini di  composizione e di  realizzazione tecnica quelle relative a prodotti realizzati da aziende di secondo piano; caratteristiche che non solo consentono di ipotizzare l’intervento di operatori diversi, ma soprattutto di rimarcare quanto il lavoro professionale fosse per gran parte costituito di produzioni routinarie o anche eccentriche rispetto agli ambiti più consueti. Monti avrebbe lavorato alla Triennale anche nelle successive edizioni del 1957 e del 1960, sempre nel ruolo di professionista indipendente come dimostrano non solo le richieste di autorizzazione di volta in volta sottoposte all’Ufficio Stampa, ma anche una lettera di Bruno Alfieri, all’epoca direttore di quell’ufficio, indirizzata  a Mrs. Ruth Lee, redattrice della rivista americana “Design for Living”: “Per quanto riguarda le fotografie,  noi disponiamo di un certo numero di ‘fotografie ufficiali’ che forse non sono molto adatte per  «Design for Living». Comunque siamo in grado di procurarle un fotografo. Ce n’è uno molto bravo, Paolo Monti, che è considerato uno dei migliori in Europa. (Credo che chieda circa quattro dollari per fotografia 30×24[477]). Ce ne sono anche altri meno cari, che sono pure ottimi professionisti. Se le interessa Paolo Monti me lo faccia sapere in tempo in modo che sia possibile prenotarlo per sabato 14 ottobre”[478]. L’opinione di Alfieri era certo lusinghiera e mostra quanto la figura di Monti si fosse imposta nell’arco di pochi anni negli ambiti specializzatissimi della fotografia d’architettura e di design in un contesto come quello milanese che vedeva attivi alcuni dei migliori professionisti italiani.

 

Fotografare l’architettura contemporanea

Sin dalle primissime collaborazioni Monti si era segnalato per l’elevata qualità del suo lavoro, come testimonia eloquentemente il brano di questa lettera inviata da Franco Albini a Caterina Marcenaro nel settembre del 1956: “Tutti i fotografi di Milano da noi sperimentati non vanno bene. Ultimamente i BBPR si sono serviti per il Castello di un certo Monti, che pare sia il migliore di tutti”[479]. Sotto la sigla “Fotogramma”, ma anche firmate “Paolo Monti”, erano le fotografie di soggetto italiano pubblicate ne  Il museo oggi di Michael Browne, edito nel 1965 per le olivettiane Edizioni di Comunità. Una sintesi analitica della nuova museografia[480] che si era sviluppata nel clima fecondo della ricostruzione del secondo dopoguerra, anche in Italia: dai fondamentali interventi genovesi di Albini (1949-1961) agli Uffizi di Gardella, Michelucci e Scarpa  (1956) passando per la nuova Galleria d’Arte Moderna di Torino (Bassi e Boschetti, 1954-1959)[481]. La collaborazione del fotografo con Franco Albini e Caterina Marcenaro datava appunto dal 1956, risolvendosi in un dialogo che pur nel rispetto delle istanze progettuali e storico critiche del progettista e della direttrice storica dell’arte[482] gli consentiva una propria evidente autonomia interpretativa. Dopo Palazzo Bianco e il Tesoro di San Lorenzo  (tav. 145)[483] la collaborazione proseguì per celebrare la riapertura di Palazzo Rosso con la pubblicazione di un volume dedicato agli affreschi; un soggetto che imponeva l’uso del colore per produrre un “materiale illustrativo” che la curatrice considerava  “il più completo e il più fedele tra quello pubblicato a tutt’oggi”[484]. Nonostante ciò in nessuna parte del volume Monti o altri eventuali fotografi responsabili delle riprese ante restauro meritarono l’onore di una citazione; valga quindi il riscontro con l’Archivio a certificarne la paternità: tra le numerosissime riprese realizzate tra  1961 e 1963 e poi ancora  il 31 ottobre 1964, si distinguono per il loro affascinante rigore compositivo le poche fotografie di ambienti, in particolare quelle relative alla grande specchiera collocata nella Sala di Fetonte, realizzate sia a colori  che in b/n (tav. 146), affidando di volta in volta allo specchio il dialogo tra gli elementi dello spazio interno o il rapporto con l’esterno, secondo una formula ricorrente nel procedere di Monti.  Furono quelle prime prove a consentirgli di avviare fruttuose collaborazioni non solo con architetti e designer ma anche con numerosi periodici italiani e stranieri come “L’architettura: Cronache e storia”[485], “Casabella Continuità”, “Domus”, “Metro” e “Zodiac”, “L’Oeil”[486] e “Architectural Forum”,  solo per indicare  i maggiori,  tanto che il senso complessivo del suo operare si può cogliere solo nel confronto lungo, nel diverso ritornare sulle opere degli architetti con cui ebbe maggiori frequentazioni, ma senza che allora gli fosse riconosciuta una vera preminenza. Anzi, ormai nel 1967, Allan Porter e l’amico Martinez  non scelsero alcuna sua immagine per  il numero di  “Camera” dedicato alla fotografia di architettura[487], avvalendosi del solo  Pepi Merisio per i soggetti italiani.  Scelta piuttosto sorprendente sia per la figura di Merisio, solitamente impegnato e noto per ben altri temi, sia perché a quella data Monti era forse il più autorevole fotografo italiano impegnato nel settore della documentazione della nuova architettura come del patrimonio storico. Le collaborazioni coi periodici di settore gli offrirono anche le prime occasioni di confronto con l’opera di Carlo Scarpa, a partire dal negozio Olivetti a Venezia, restituito in una bella serie di fotografie (tav. 147), di grande sensibilità e certo non immemori dell’esempio di Ferruccio Leiss, costruite come sono su di una incessante restituzione delle relazioni spaziali tra elementi architettonici e invaso, tra interni ed esterni, che ben si accordavano con “l’emozione profonda” espressa dal testo di Carlo Ludovico Ragghianti[488] su “Zodiac”, nel quale il critico riconosceva  che le fotografie di Monti riuscivano a ridurre al massimo, se non proprio a superare le difficoltà di lettura dell’opera[489].  L’allestimento ancora in corso del Museo di Castelvecchio a Verona  (tavv. 148, 149) venne invece pubblicato su “Domus”,  restituendo  “l’equilibrio fra lo spazio, gli oggetti, la luce”[490] proprio dell’intervento scarpiano, con un rigore compositivo di precisione assoluta, che vi aderiva perfettamente rivelandone anche la notevole fotogenia.  Poiché il tema era strettamente museografico,  Monti escludeva dalle proprie inquadrature quella presenza di visitatori che aveva connotato la serie dedicata all’allestimento BPR del Museo del Castello Sforzesco a Milano (1956), nella quale accanto alla sua già matura e raffinata capacità di restituire i rapporti spaziali (e in particolare le relazioni interno/ esterno, (tavv. 150, 151), sviluppava piccole sequenze narrative interpretate da figure solo in parte occasionali (tavv. 152, 153)[491] nelle quali risulta però impossibile ritrovare qualcosa che lo avvicini “alle poetiche humaniste degli scatti ‘rubati’ di Robert Doisneau”[492].  Bastano a rendere improbabile quel confronto alcune  imbarazzanti messe in scena con comparse femminili, come quella relativa alla Pietà Rondanini nella sala degli Scarlioni, nella quale un’improbabile interpretazione drammatica  – certo debitrice dell’iconografia dei fotoromanzi dell’epoca – si associava a un uso malaccorto delle luci  al fine  di evocare una inverosimile sindrome di Stendahl (tav. 154).

Il rapporto con le architetture di Scarpa  sarebbe proseguito nel tempo, mostrando una corrispondenza che andava ben oltre la qualità delle opere; quasi un rispecchiamento dovuto all’esistenza  di valori comuni (le possibilità espressive dei materiali, la cura compositiva, il dettaglio raffinato). Così Monti sarebbe tornato più volte a fotografare Castelvecchio e gli altri suoi allestimenti museali, ma anche il Padiglione del Veneto per Italia ’61 a Torino[493], il negozio Gavina a Bologna e la Fondazione Querini Stampalia a Venezia.  Erano prevalentemente sue le immagini comprese nei diversi contributi critici pubblicati in “Zodiac” sino alla metà degli anni ’60, sempre sottoposte alla rigorosa verifica dell’architetto[494], e sue avrebbero potuto essere le fotografie per la progettata monografia di Pier Carlo Santini per le Edizioni di Comunità, se ancora nel maggio del 1974 Monti poteva offrire a Scarpa una documentazione completa della sua opera, auspicando “che si faccia presto un libro su tutto il Suo lavoro”[495]. Anche in quell’occasione – come ricordava Guido Pietropoli, che gli fu assistente – Scarpa intervenne sulle stampe di Monti “tracciandovi sopra linee e diagonali, per isolare parte delle immagini che meglio corrispondevano al suo punto di vista”[496], sebbene per noi, dal considerare le stampe oggi conservate nell’Archivio Monti risulti quasi impossibile immaginare un impianto compositivo in grado più di queste di restituire con assoluta chiarezza le qualità delle realizzazioni scarpiane e degli altri protagonisti di quella stagione dell’architettura italiana. Il dialogo serrato, vitale, tra intervento museografico e contesto architettonico, tra le opere esposte e l’intorno, con invenzioni continue che legavano visivamente sala con sala, esterno con interno[497]  come nello splendido esempio della ripresa della statua equestre di Cangrande della Scala a Castelvecchio[498] (tavv. 156, 157), inquadrata dall’interno e posta in dialogo con la Preghiera nel Getsemani dal polittico della Passione di Paolo Morando, all’epoca con un diverso ordinamento tra le parti, documentato anche in uno schizzo progettuale dell’architetto (tav. 158)[499]. Una perfetta restituzione di quelle che Manfredo Tafuri aveva definito le “raffinate soluzioni di continuità poste da Scarpa in forme sempre variate” al fine di “isolare, letteralmente, i differenti pezzi”[500], pur senza negarsi le fascinazioni degli accostamenti visuali.

Innovativi progetti museografici e nuove realizzazioni architettoniche connotavano l’attività dei migliori professionisti e studi di architettura di quegli anni, puntualmente interpretati da Monti in una sempre più estesa area di intervento che da Milano e dall’Italia settentrionale in genere si estese ben presto  sino al centro sud e in particolare a  Napoli, qui lavorando per architetti quali  Luigi Cosenza, Giulio de Luca,  Carlo Cocchia e Michele Capobianco, impegnati a ridefinire  coi nuovi quartieri di edilizia popolare una parte significativa delle nuove periferie[501]. Architetture e luoghi documentati in quegli stessi anni anche da un architetto fotografo come l’americano George Everard Kidder Smith, che mostrava però un approccio più sentimentale al patrimonio architettonico di  quel “paese favoloso e romantico”[502] che per lui era  l’Italia, sebbene poi il modo di leggere il contemporaneo restituito dal suo Italy Builds[503] doveva certamente aver costituito un termine di confronto per Monti.

Il dibattito intorno alla fotografia di architettura era in quegli anni particolarmente vivo, specie in Italia, a partire dalle note riflessioni di Bruno Zevi, per il quale “risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale”[504],  poiché nella sua concezione dell’architettura era solo l’esperienza diretta a consentirne una “adesione integrale e organica”,  datosi che “dovunque esiste una compiuta esperienza personale da vivere, nessuna rappresentazione è sufficiente.”  Osservazioni interessanti, e da allora infinite volte citate e riprese, ma per certi versi ancora debitrici della concezione originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con, sovrapporsi a l’esperienza del soggetto, e non solo in termini di rappresentazione architettonica[505]. Non dissimili le considerazioni di Ernesto Nathan Rogers quando ammetteva che “fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi”[506].  Sarebbe stato poi Italo Insolera[507] a riprendere queste analisi introducendo però due elementi di fondamentale importanza come la  ricezione, ovvero la capacità di lettura dell’immagine di un edificio già mediata dall’interpretazione fotografica, ma soprattutto la necessità – già espressa da Edoardo Persico – di definire “una critica che consideri l’architettura come un fatto non necessariamente figurativo (…). Una critica che abbracci tutto il mondo dell’architettura e non ne isoli con una vivisezione solo una parte su cui poi esercitarsi con facili discorsi (…), una critica cioè che non si limiti alle conseguenze formali e alle ragioni culturali dell’architettura.  Io penso che la fotografia possa essere strumento adatto per questa nuova critica.  (…) la fotografia può essere il punto d’appoggio per avviare un discorso critico che si avvicini all’ideale di Persico di «una storia dell’architettura che si identifichi con quella stessa dell’uomo moderno»”.  Considerando l’insieme della sua opera mi pare che non si possa  definire in modo univoco  quale sia stata l’idea di fotografia di architettura che apparteneva a Monti, quale fosse quella che lui esprimeva; quale fosse la misura della sua eventuale prossimità alle posizioni di Insolera. Credo invece che accanto a una costante attenzione tettonica e materica  si possano riconoscere in lui momenti e modi cronologicamente e funzionalmente distinti; strettamente dipendenti dall’occasione e – ancor  più – dal progetto e dall’oggetto delle sue attenzioni, del suo guardare e mostrare attraverso la fotografia. A volte parrebbe di poter definire Monti fotografo di volumi e non di spazi; orientato alla  restituzione formalmente innovativa e rigorosa, alla catalogazione anche (e più tardi), ma non alla restituzione di un’esperienza che non fosse quella sua propria; a un’interpretazione dell’oggetto e magari della sua materia ma non dello spazio architettonico. Bastano però le fotografie dedicate alle opere di Scarpa, agli allestimenti di Albini e del gruppo BPR per smentire questa eventualità: in ciascuna di quelle occasioni riconosciamo lo spazio di relazioni definito dal progetto (e dalla sua messa in opera) che il fotografo rivelava e faceva proprio; verrebbe quasi da dire che condivideva, riconducendolo alla propria sensibilità personale. Accanto allo spazio, a certi spazi forse, i volumi. Quelli che avevano da sempre fatto parte della sfera di interessi di Monti, come mostra la sua costante attenzione per l’edilizia minore, da quella della laguna veneziana a Procida, sino alle case del lago d’Orta. L’avvio della professione imponeva però il confronto con le architetture contemporanee e coi loro autori, con le riviste di architettura quindi. Poneva cioè un problema non solo di interpretazione ma anche (e per certi versi soprattutto) di comunicazione, di messa in scena per la messa in pagina, coniugando fotogenia dell’edificio e comprensione del contesto in cui la nuova realizzazione si andava a collocare, a volte ridefinendolo radicalmente.  Si considerino a questo proposito le fotografie relative alle nuove costruzioni nell’area di via Melchiorre Gioia a Milano, non di rado giocate sulla contrapposizione netta (e un poco retorica) tra i ruderi e i resti lasciati dalla guerra e “la città che sale” (tav. 159), così come accadeva nell’area adiacente di Piazza Duca d’Aosta con la realizzazione del Grattacielo Pirelli (tavv. 160, 161, 162, 163), di cui Monti restituiva con grande efficacia sia la rilevanza di inedito segno urbano sia  le specifiche qualità architettoniche, fedele al principio che “l’architettura è un’arte che si scopre, si conosce e quindi si documenta camminandovi dentro e fuori lungamente” (come avrebbe voluto Zevi), della quale è indispensabile considerare anche “la quarta dimensione” costituita dal suo intorno[508] . Ne nacque  una serie giustamente famosa,  in parte pubblicata qualche anno dopo su “Camera” quasi a certificare l’affermazione di Richard Neutra[509] che solo una sequenza poteva almeno avvicinarsi a restituire “la nozione  di ‘continuità’ organica” di un edificio, dato che  “le ottiche fotografiche si oppongono in un certo modo alla fisiologia della nostra percezione visiva e alla chimica della nostra retina poiché le nostre facoltà sensoriali sono essenzialmente movimento mentre l’occhio dell’apparecchio fotografico è per sua natura statico.”  Non era però quello il nodo principale affrontato dal grande architetto, quanto semmai quello del rapporto  tra le due figure coinvolte,  rivendicando la regia sostanziale al progettista, all’autore dell’opera fotografata, che doveva far comprendere le proprie intenzioni al fotografo, farlo entrare “letteralmente nell’ «universo» della propria opera”. Per Neutra infatti  la fotografia di architettura doveva avere” uno scopo funzionale” e non liberamente espressivo, anzi doveva limitarsi a “interpretare correttamente le intenzioni dell’architetto”. Posizione nettissima e nella sostanza non lontana dalle riflessioni di Zevi e Rogers ma certo non pianamente condivisa da  Monti, che su questo aveva opinioni diverse[510]. In quegli stessi mesi, nella lunga intervista pubblicata ne “L’Arc”,  rifletteva sul senso stesso e sui limiti del significato ‘documentario’ della fotografia: ““Bisogna rendersi conto che fotografare e vedere non vuol dire comprendere. Ammessi questi limiti, sono convinto che il legame indissolubile del fotografo con il mondo esterno assuma nei migliori fotografi una forza morale: impossibilitati ad evadere dalla realtà, ne devono interpretare o approfondire il significato o, almeno, farne emergere soggettivamente il peso e l’intensità”[511].  Un imperativo morale da cui derivare una poetica, ben riconoscibile in buona parte della sua produzione dedicata all’architettura contemporanea e specialmente nel racconto della nuova  museografia,  dove la capacità di interpretare e restituire gli spazi di relazione ridefiniti da quelle strutture discorsive[512] confermava la centralità, la necessità  del dialogo tra presente e storia. Il racconto dell’architettura in quegli anni era per  Monti quasi esclusivamente in bianco e nero; una scelta che gli consentiva una restituzione più astratta e strutturata, meno episodica e contingente di quegli spazi e di quegli edifici. Le necessità editoriali imponevano però di ricorrere anche al colore, con esiti certo meno convincenti, quando non addirittura ordinari[513], come risulta particolarmente evidente in certi servizi dedicati all’architettura di interni e all’arredamento;  puntuali esempi di quello che lui stesso condannava come “eccessivo e noioso verismo (…) immagini che nulla aggiungono alla nostra esperienza visiva”[514]. Il colore ‘naturalistico’, descrittivo,  non era nelle sue corde e certo non era su quella tipologia di immagini che si fondava la sua fama di fotografo, tanto che Caterina Marcenaro nel distribuire gli incarichi per l’illustrazione del volume dedicato al Museo del Tesoro della Cattedrale di Genova[515] scelse di affidarsi a Monti per il bianco e nero ma a Mario Carrieri per il colore.

Il raffinato formalismo di quella stagione della fotografia professionale di Monti era in parte mitigato (se non contraddetto) dalla prevalente attenzione per il contesto e le persone che caratterizzava le sue coeve serie domenicali e milanesi (tavv. 164, 165, 166). Fedele all’intento (quasi un’etica) di non separare professione e ricerca, ma anche per sottoporre a verifica la propria visione di “una Milano in parte immaginaria”[516], mentre documentava le architetture dei grandi protagonisti di quella stagione Monti decise di fotografare “le domeniche degli altri” e la città minore e quasi nascosta tra il confine dei Navigli e i sempre più risicati prati di periferia. Una Milano scrostata e nebbiosa, che portava ancora i segni della guerra, a cui il fotografo  si volgeva con uno sguardo non dissimile da quello che aveva dedicato alle case della laguna, ma ora fatto più cupo e catramoso; un  tono che contrastava volutamente con la chiara, ottimistica  leggibilità delle fotografie d’architettura. Era la stessa città già indagata da Alberto Lattuada[517] e che ora faceva da sfondo ai “Segreti di Milano” di Giovanni Testori; quella su cui si esercitavano negli stessi anni anche Ugo Mulas, Mario de Biasi e Pietro Donzelli (per non dire di Ernesto Treccani[518])  o i più giovani Cesare Colombo (misurandosi anche col colore) e Mario Carrieri, che la leggeva attraverso il filtro e le suggestioni della New York di William Klein, provocando la vivace reazione di Monti, perché – diceva – “ il milanese, quando apre questo libro, ha l’impressione di essere preso a schiaffi (…).  La Milano di Carrieri potrebbe essere allo stesso modo Pittsburgh o Chicago. Ora Milano, per quanto sia una città industriale attivissima, è ancora una provincia in parte, non possiamo mai dimenticarlo. La città industriale esiste, siamo d’accordo, ma Milano ha dei lati estremamente provinciali che sono, d’altra parte, i lati più simpatici, i più vivi. Milano è ancora, in parte, ottocentesca, è ancora stendhaliana. Non si può presentare il Naviglio come se fosse una fogna di Chicago, è assolutamente assurdo”[519].  Non rientrava tra i progetti di Monti quello di raccontare la città in cui aveva deciso di vivere, sebbene considerasse necessario “narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine”[520]. Di fatto non  esiste una Milano di Monti intesa come racconto organico e forse neppure come sommatoria: troppi erano gli aspetti che non richiamavano la sua attenzione,  che confliggevano con la sua visione pessimistica, per questo esclusi dai suoi interessi. Basti a questo proposito  confrontare la sua produzione con l’immagine della città restituita dal volume curato da  Luigi Crocenzi [521] per Electa nel 1967: un racconto organizzato “per mezzo di blocchi di immagini collegate fra loro (…) su moduli di avvicinamento nello spazio e nel tempo”, dal quale erano programmaticamente tralasciati proprio quei “lati provinciali” che tanto affascinavano Monti ‘fotografo della domenica’ e che dovevano apparirgli per molte ragioni più accettabili della condizione attuale di una  “città [che] sta ogni giorno di più diventando noiosa, arruffata, violenta e gli uomini sadici, interessati, imbastarditi. Posso ignorare tutto questo?”[522]

 

La scultura

 

“Allo scopo di fornire una documentazione obiettiva dei complessi plastici e delle singole opere qui riprodotte – indica l’avvertenza alle tavole in un volume del 1972 dedicato alla scultura in Emilia nell’età barocca[523]– ci si è attenuti ad alcune elementari ma rigorose norme di regia fotografica: tutte le riprese (eccettuate pochissime per le quali si è dovuto per inderogabili necessità tecniche, far uso di illuminazione artificiale) sono state effettuate a luce ambiente, in modo che le sculture risultassero riprodotte nelle condizioni di chiaroscuro previste dall’artista; di ogni complesso si è presentata per prima una visone generale, ripresa dal punto di vista ottimale rintracciato in seguito all’analisi della ragione prospettica dell’insieme; i particolari infine sono stati fotografati senza ricorrere all’impiego di ponteggi, e collocando sempre l’obiettivo ad altezza d’uomo nei punti di vista individuati ancora come ottimali nell’ambito del reticolo prospettico del complesso.” Troviamo in questo testo, non firmato e quindi da attribuirsi ai tre autori del volume ( Monti, lo storico dell’arte Eugenio Riccòmini e il fratello di questi Corrado, fotografo a sua volta) una summa che si rivela essere ideologica ancor prima che metodologica, derivando questa coerentemente da quella. A fondamento del tutto si poneva il riferimento alle caratteristiche di oggettività della rappresentazione fotografica, alla concezione montiana di documento da cui erano fatte derivare le prescrizioni relative al rispetto delle condizioni di illuminazione e di registrazione dei particolari;  quindi – ben chiara- la definizione della campagna documentaria come progetto analitico di individuazione e restituzione delle ragioni e condizioni prospettiche e più generalmente spaziali, ambientali dell’opera[524], certo memore delle prescrizioni wolffliniane sui problemi posti dalla restituzione fotografica delle sculture[525],  che qui prendeva  forma di   serie o sequenze di immagini, secondo un procedere caro a Monti. Ciò che rendeva specialmente significativa questa breve avvertenza era però la comparsa – sorprendente nella sua disarmante semplicità – dell’accettazione di una sostanziale coincidenza tra occhio e apparecchio, tra percezione sensoriale e registrazione ottica e fotochimica. Questa concezione ‘ illuministica’ della fotografia come finestra, come schermo trasparente (da qui l’obiettività)  e non come sistema complesso di trascrizione appariva in palese contrasto con le sue dichiarazioni di poetica e col suo stesso operare, quale risultava (anche qui)  da alcune immagini in cui combinando opportunamente punto di vista e ottica fotografica, l’autore operava una modifica radicale e antinaturalistica delle figure risultanti, ricche di  eccezionali fascinazioni formali,  quasi surrealiste e certo non immediatamente documentarie[526], analoga a quella adottata nella serie dedicata agli Angeli di scuola berniniana del romano  ponte Sant’Angelo. Realizzata nel maggio del 1966 nel corso dei lavori per la Storia della Letteratura Garzanti[527],  questa serie costituisce una perfetta testimonianza del Monti più visionario, sollecitato dal confronto con un reale qui più che mai ricco di suggestioni. L’architettura barocca, scriveva,  “ha una tale ricchezza di movimenti che io preferisco fotografarla in ombra, perché altrimenti a tutte le forme – già oscillanti, contorte – si sovrappone un’ombra che, cadendo in certi punti poco opportunamente, le deforma (…). Contemporaneamente ho fotografato però le sculture di tipo berniniano del ponte degli Angeli a Roma con il sole, perché in quel caso la ‘confusione’ barocca delle forme era tale che le ombre – e soprattutto le macchie nere che sono venute fuori con il tempo – non facevano altro che aggiungere altro movimento al movimento che c’era già”  (Angelo con la corona di spine, part., tav. 167)[528]. Il contrasto netto tra superfici esposte e sottosquadri, certo, ma anche una magistrale interpretazione dinamica, antinaturalistica di quelle forme scultoree di cui è esempio paradigmatico la ripresa dedicata all’Angelo con la colonna della Flagellazione  (tavv. 168, 169), che mostra una sorprendente analogia con quella di Giuseppe Pagano[529], successivamente riproposta con leggere varianti da Giorgio Vasari sotto la regia di Luigi Moretti (e la condizione si ripresentò anche per la Fontana dei Fiumi) quale episodio di Forme astratte nella scultura barocca[530], offrendo suggestive letture critiche e visuali che si collocavano cronologicamente negli anni immediatamente precedenti alla collaborazione di Monti con l’architetto[531].

Più articolato e complesso il rapporto e la lettura offerta della Fontana di Trevi[532]  (tavv. 170, 171, 172), celebrata nel 1960 da Fellini ne La dolce vita, per non dire  di Totòtruffa ’62  di Camillo Mastrocinque.  Le prime fotografie, pubblicate a corredo di un articolo di Mario Praz (1960), erano ancora descrittive, quasi cronachistiche[533], ben diverse dall’indagine serrata condotta nel 1966, ritornando più volte sul tema per misurarsi con l’articolazione dei volumi, la resa materica delle scogliere e i rapporti con l’intorno, sino a produrre quello che immediatamente venne riconosciuto come “un capolavoro, per il quale hanno concorso tutti quei fattori che in altri professionisti raramente compaiono uniti (…): gusto, cultura, esperienza tecnica di parecchi anni, insomma tutto ciò che con altri avrebbe fatto diventare la fontana di Trevi un monumento visto da Negulesco[534] e acquistato in cartolina da un turista medio, con Monti diventa espressione, continuità di lavoro, trattato critico, sotto forma di fotografia, sulla costruzione di questo splendido monumento italiano”[535].  Lo stesso fotografo era ben consapevole della complessità e ricchezza di quel lavoro, che presentò  con un testo specifico[536] nel quale  sottolineava il “falso disordine delle rocce che simulano un ambiente naturale con una continua invenzione di forme che secondo la nostra esperienza attuale potremmo definire informali ed astratte”. La  storicizzazione della sua lettura si estendeva così sino a riconoscere “sulla sinistra (…) un complesso di forme che ricordano i primi piani delle acqueforti piranesiane”, aggiungendo poi che anche “nella stampa mi sono ricordato di Piranesi,  delle sue magiche caverne d’ombra e delle sue luci che non vengono dal sole ma escono come fosforescenti emanazioni da zone d’ombra”[537]. Il lavoro sulla Fontana di Trevi, come e più del successivo dedicato alla Pietà Rondanini, ci permette di considerare anche un altro aspetto determinante della sua fotografia, che diremmo intesa come forma espressiva nel tempo (anche storico) ma non del tempo, se non come effetto di sedimentazione di una lunga durata. Mai come accadimento, poiché  quando ciò accadeva, come nei movimenti di macchina (tavv. 051, 052), il prezzo da pagare era l’azzeramento della verosimiglianza analogica,  la sua trasformazione in figura altra, autonoma. È quanto si ricava anche dalle sue prime riflessioni sulla fotografia, fatte “da uomo che non è soltanto fotografo”, nelle quali riconosceva che “la limitazione della fotografia è proprio questa: che ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni (…) ci dà la fase  presente”[538]. Se questa variante ‘realistica’ dell’hic et nunc benjaminiano costituiva per Monti il dramma esistenziale della fotografia, allora assume un senso più profondo e compiuto la sua predilezione per le forme sedimentate dei muri corrosi e graffiti, delle materie sottoposte all’agire del tempo, per le testimonianze del patrimonio storico che portano in sé, nel fotografabile presente, i segni del tempo passato, di una durata altrimenti inattingibile. C’è però anche un altro aspetto che concerne il rapporto col tempo ed è quello implicato dalla strutturazione degli aggregati discorsivi, concettualmente distinti, delle sequenze e delle serie, da non confondersi però con insiemi semplicemente distribuiti negli anni come i ritratti della nipote.  Nelle sequenze (riconoscibili in parte nei lavori dedicati ai centri storici) la relazione tra le immagini implica (e vive di) uno scarto temporale, di una diacronia che diventa meccanismo narrativo, istituendo necessariamente un prima e un dopo tra le sub unità che la costituiscono, mentre le serie, pur contenendo in sé (inevitabilmente) uno scarto temporale, vivono percettivamente in una sincronia, essendo infine tutte leggibili mediante relazioni reciproche tra le immagini, senza che la consequenzialità  giochi ruolo alcuno. Si consideri il lavoro sulla fontana di Trevi, che certo implica il tempo dell’indagine ma nel quale la disposizione finale delle fotografie non risponde ad alcuna necessità descrittiva né di andamento cronologico. Si presenta anzi come sincronica,  pur esprimendo differenti e distinte durate: quelle della lettura e della restituzione montiana e, infine, quella della ricezione del lettore[539], non vincolata ad alcun ordine prestabilito poiché non era fissata dall’impaginazione editoriale come accadeva invece nel caso della Pietà Rondanini, alla quale Monti dedicò il solo libro fotografico pubblicato a suo nome[540].

Dopo le prime fotografie realizzate nel 1956 nell’ambito della più ampia documentazione dei riallestimento museale del Castello Sforzesco di Milano progettato dallo studio BPR[541], Monti sarebbe ritornato a fotografare il gruppo scultoreo ancora nel 1966 (tav. 176) per concorrere all’affidamento dell’incarico – poi non ottenuto – per l’apparato fotografico della grande opera Electa sulla scultura italiana[542], quindi ancora nel 1977, forse su suggerimento dell’editore e libraio Peppi Battaglini, realizzando in una settimana di lavoro alcune centinaia di riprese (tavv.177, 178, 179, 180), tra le quali vennero selezionate le centonove  pubblicate in volume. Il  percorso interpretativo mostrava un avvio canonico, con una serie di inquadrature a figura intera solo lievemente scorciate dove, come in tutto il lavoro, era il mutare dell’illuminazione che contribuiva a determinare la necessità di ogni scatto, restituendo ogni volta aspetti e immagini diverse di quella scultura. La lettura procedeva con una circumnavigazione lenta[543], antioraria, ferma ad altezza d’occhio nelle prime dieci fotografie, per poi salire scorciando le figure che incominciavano ad apparire corrose dalla luce, assorbite dall’ombra piena. Quando lo sguardo si spostava al fianco destro, il profilo a contrasto sullo sfondo tenuto alternativamente scuro o chiaro diventava un segno dinamico che esprimeva tutta la tensione corporale e simbolica del gruppo. Poi compariva lo specchio, ad offrire una simultaneità altrimenti impossibile, per questo straniante: dapprima appariva altro, rivelandosi solo progressivamente come doppio, quasi una moltiplicazione corale. Infine lo scarto dei particolari, le forme e i modi dello scolpire e della scultura, interpretati con tutta la sapienza che gli derivava dal confronto decennale con pietre e rocce; le tracce lasciate dagli attrezzi che incisero sulla materia[544] per mutarla in carne e corpo dolente, esprimendo un senso forte di tragicità.  Un sentimento che avremmo ritrovato anche nella lettura del Crocifisso ligneo del Museo Civico di Rimini, in cui la sequenza finale non solo suggeriva “inesauribili e legittime possibilità di lettura e aiuta[va] concretamente a guardare fuori dagli inibiti schemi ortogonali in cui si fissa usualmente il ricordo di oggetti scultorei” ma, col proprio andamento dall’alto verso il basso, dal volto ai piedi, proponeva una interpretazione simbolica favorita dall’eliminazione di ogni dettaglio di ambiente, conclusa significativamente con la suggestione di movimento, di spinta ascensionale del corpo del Cristo ormai staccato da terra dell’ultima immagine[545].

Svanita la vivacità dionisiaca con cui erano stati resi gli Angeli berniniani come le evocazioni  piranesiane della Fontana di Trevi, affiorava qui, prepotente, una eco drammatica che non pare di poter attribuire alla sola sacralità del soggetto[546] e che risentiva forse di una stagione della vita di Monti che lo aveva spinto al ripensamento, al bilancio esistenziale:  “L’incidente dello scorso anno – scriveva a Paolo Fossati giusto nel marzo del 1977 – mi ha gravemente danneggiato, non nel mio lavoro ma nel mio modo di pensare su quello che faccio e soprattutto su quello che ho fatto in passato. Ormai sono 30 anni. Tutto l’interesse che la fotografia ha provocato anche in persone così poco serie, i saggi (ma sono proprio saggi?) pubblicati dai nuovi proseliti, dagli scopritori di genii incompresi, le rapine continue da parte di nuovi pittori e tutti gli ottusi entusiasmi che la fotografia sta provocando solo per scopi commerciali, mi hanno stancato (…). In verità solo il lavoro mi eccita ancora e soprattutto le cose che prima del mio passaggio al professionismo mi hanno portato a pensare alla fotografia come una cosa degna di un uomo serio. Questa piccola scoperta, come Lei sa, mi ha spinto ad abbandonare il mio lavoro e a passare al professionismo con tutti i rischi di quel tempo ormai così lontano”[547].

L’occasione per quel bilancio era il progetto einaudiano di una pubblicazione monografica a lui dedicata, avanzato da Fossati nel 1973 sulla scia di quella di Ugo Mulas, uscita nello stesso anno.  Dopo una serie piuttosto lasca di scambi epistolari, fu solo nell’aprile 1975 che la casa editrice sottopose a Monti il relativo contratto editoriale, comprensivo di indicazione del titolo Dall’architettura al paesaggio. “Caro Fossati – rispose Monti a settembre – tutte le volte che vedo in vetrina un libro Einaudi o che in casa me ne capita uno sottomano, e ne ho molti, mi viene un nodo di coscienza e quasi mi vergogno. Purtroppo quest’anno è stato pieno di lavori (…). Quintavalle mi assilla da molto per una mostra molto complessa ed anche a lui ho dovuto dire di pazientare, tanto più che io non sono d’accordo su alcune sue idee sulla fotografia, mia e di altri[548]. Vedremo. La terrò al corrente dei miei movimenti (…).” La risposta non poteva essere più attendista e pare aver determinato un’interruzione nell’elaborazione del progetto, ma l’incidente occorso non dev’essere stata la sola ragione se nel gennaio 1977 Fossati scriveva a Monti lamentando con un poco di amarezza che “non ci siamo più parlati del suo libro e la cosa mi dispiace. Non l’ho più importunata perché sono dell’idea che questi libri bisogna che siano sentiti anche dai loro autori senza troppe spinte esterne, seppure dell’editore.” Nella lettera del marzo ’77 sopra citata, la loro ultima, Monti lo invitava a un incontro a Milano per “vedere assieme il massimo numero di foto di questi passati 30 anni. Negli ultimi tempi ne ho ristampate molte, alcune degli anni ’50, e mi sono convinto che il mio lavoro [cioè: il fotografo] era proprio questo. L’importante ora è saper dire le cose giuste. Spero di farlo col suo aiuto.” Monti certamente lavorò al progetto imbastendo un lungo e articolato schema[549], ordinato per capitoli, più enciclopedico che antologico,  che spaziava dalla “Storia del vedutismo architettonico e ambientale”, da realizzare con Andrea  Emiliani, a “qualche considerazione sulla fotografia di architettura e di ambiente che dovrebbe essere la parte più importante e anche più nuova del libro”[550], passando attraverso tutti i suoi temi più noti e cari per soffermarsi infine, con intenti più didascalici, quasi manualistici, su  “metodologia e tecnica” o “il formato e la composizione”.  In coerenza col titolo però nessuna traccia delle sue produzioni più ‘sperimentali’: né sfocati né mossi; né rifrazioni o chimigrammi  nelle foto di quei “passati 30 anni”, quasi fossero stati  un continuo esercizio segreto. Quel progetto einaudiano non andò in porto, come altri di quel periodo, e la prima occasione per presentare antologicamente anche quelle “ricerche e sperimentazioni”  avrebbe potuto essere la mostra di Reggio Emilia dell’ottobre del 1979, già esposta a Mantova,  nominalmente curata dallo stesso Monti con un testo in catalogo di Giuseppe Turroni[551]. L’uso del condizionale è però d’obbligo di fronte non tanto al ridotto numero di stampe presenti, circa un centinaio, quanto a una lettura ancora troppo debitrice della scena dei circoli fotografici, ormai inadeguata a restituire la complessità di una carriera tanto lunga e complessa. Non era però quella la sola lacuna: altre risultavano tanto macroscopiche da apparire incomprensibili, non comparendo né i due cicli romani dedicati alle statue di ponte Sant’Angelo e alla Fontana di Trevi, né il più recente lavoro sulla Pietà Rondanini. Più interessante e utile, per chi l’avesse voluta leggere, l’antologia di scritti che precedeva le “Illustrazioni” e poteva aiutare in parte a comprenderle, sebbene poi  alle puntuali note dedicate al rilevamento del centro storico di Bologna non corrispondesse neppure un’immagine in catalogo. Sola testimonianza dei censimenti condotti in Emilia Romagna erano infatti quattro fotografie del borgo appenninico di Ramiseto di Gazzolo, in provincia di Reggio Emilia[552].

“Penso che sia giunto il momento di dedicare una mostra a  Paolo Monti –  scriveva Piero Racanicchi ad Arcari nel 1982 –  il problema, come già ti ho scritto, è quello del tema: mostra antologica, con ampio catalogo storico-critico, o mostra di argomento circoscritto (…)?  Ti suggerirei di parlarne con lo stesso Monti”[553]. Il progetto non poté avere seguito per la morte del fotografo,  avvenuta appena due mesi più tardi, ma non fu del tutto abbandonato se ancora nei primi mesi dell’anno successivo, nel presentare alla vedova Maria Binotti un progetto di mostra e volume per Jacka Book, Giovanni Chiaramonte, Maria Antonietta Crippa  e Marina Loffi Randolin chiedevano garanzia formale che “per l’84 e l’85 non siano organizzate mostre su Paolo Monti fotografo di architettura. A questo proposito un chiarimento con Torino è indispensabile”, mostrandosi però nel contempo disposti a collaborare “eventualmente per una sezione specifica dell’esposizione antologica”[554].  Neppure questi progetti ebbero seguito concreto, e sebbene nei decenni successivi si svolgessero più di venti mostre tematiche dedicate ad aspetti specifici della sua produzione, si dovette attendere il 2016 per avere la prima grande mostra antologica che affrontava per la prima volta i diversi aspetti della sua produzione mettendone in evidenza i reciproci nessi profondi, potendosi finalmente avvalere della catalogazione completa del suo fondo fotografico, condotta per serie[555].

 

La pittura

 

“Non mi piace fotografare i quadri – affermava Monti in un’intervista del 1980 – Mi interessano i particolari: lì esce l’abilità del fotografo. Nel particolare si deve vedere che il quadro continua, ma l’immagine deve essere equilibrata. Come si fa?  Dipende dal taglio che si sceglie. Il particolare dovrebbe essere così completo da sembrare un quadro. Non sempre si riesce”[556].  Quelle modalità d’indagine, fatte di scomposizioni analitiche per sequenze, vennero adottate a partire dall’audiovisivo realizzato nel 1975 in occasione della mostra dedicata a Federico Barocci[557], poi proseguite  in modo più stringente  con l’indagine condotta sull’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, realizzata dopo il restauro (1976-1979) voluto da Cesare Gnudi e pubblicata postuma in occasione della mostra bolognese del 1983[558].  Quella “memorabile ricognizione” costituiva, come scrisse Emiliani[559], “un modello di prassi conoscitiva, che si rifiuta infatti a eleggere ‘particolari’ che non siano tecnici e dunque chirurgici in quella non sezionabile bramantesca formula che celebra il cerchio entro la perfezione del quadrato”. Nell’impaginazione finale l’andamento si sviluppava canonicamente dal generale al particolare, con una prima serie di movimenti centrati sull’asse principale, rivolti alla parte alta del dipinto (il gruppo dei santi, gli angeli, santa Cecilia) per aprirsi poi lateralmente e proseguire  per fasce orizzontali prive di scarti, parzialmente sovrapposte e successivamente approfondite (dalla figura intera al  dettaglio, dagli oggetti al particolare degli stessi) in un rilevamento quasi topografico dell’opera, nel quale ciascuna immagine conteneva elementi che la legavano indissolubilmente alla totalità del dipinto. Il percorso si chiudeva con la serie di riprese dedicate agli strumenti musicali che ne occupano il primissimo piano, mai ridotti a ‘motivo’ però, nello sforzo perfettamente controllato di non guardare all’opera di Raffaello come pretesto (prova ne sia la marcata assenza di immagini dei volti, che troppo rischiosamente avrebbero potuto tradursi in ritratti) per votarsi invece completamente all’analisi, per fornire strumenti utili ad un approfondimento della lettura senza concedersi  gratuite reinvenzioni formali.

È quanto accadeva, esemplarmente, anche nel lavoro di ricognizione di Fiumana e di Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, condotto su richiesta di Mercedes Garberi in previsione di un audiovisivo a corredo alla mostra alessandrina del 1980, poi non realizzato[560]. Fin da una prima, rapida osservazione dei  provini si nota come Monti avesse lasciato per ultimissime proprio le riprese dei due totali dei quadri; la registrazione del dato referenziale costituiva  quindi l’ultimo gesto del fotografo, puramente strumentale. Il percorso di avvicinamento era diverso, non rispecchiava i canoni della comunicazione finale; il confronto che ne risultava ci  appare individuale, diretto; esperienza intima da cui far nascere un progetto critico.

Seguendo la cronologia delle opere, il loro stesso rapporto genetico Monti si rivolse per prima a Fiumana, muovendo l’apparecchio da sinistra a destra, secondo il modo consueto dell’osservare, con pause e soluzioni di continuità, seguendo un percorso visivo non lineare, dove approfondimenti e sottolineature di certi elementi attraenti si alternavano a momenti di ripensamento. Da questi emergeva una prima intuizione forte della possibilità di restituire fotograficamente il moto, l’azione delle figure maschili al primo piano.   Nel secondo rullo questa venne estesa a tutta la superficie del quadro, e della scena, con una serie di immagini strette all’avanzare compatto delle figure, ridotte alle diverse posture dei corpi in moto, privati del volto, quasi a ribadire e sottoscrivere la volontà di Pellizza di “far nascere l’illusione di trovarsi davanti non ad una tela ma ad una vera massa di popolo”[561]. Il passaggio al Quarto Stato era brusco, non implicava la conclusione della ricognizione sull’opera precedente che anzi pareva fosse servita a mettere a punto una strategia di avvicinamento più che un metodo; ogni ipotesi  di lettura  generalizzata venne messa da parte per affrontare immediatamente, con la bella sequenza dei gesti,  l’approfondimento di un altro tema caro a Pellizza[562], per passare quindi allo studio dei vari blocchi di figure, ritagliando porzioni secondo modi che rimandavano all’estetica del reportage con inquadrature che suggerivano l’immobilizzazione dell’atto, quella monumentalizzazione dei comportamenti e delle posture che è propria  dell’istantanea fotografica, linguaggio non estraneo – come sappiamo – agli stessi interessi di Giuseppe Pellizza[563]. Il tema del moto, del lento avanzare si trasformava poi in una lettura approfondita delle soluzioni pittoriche, per scoprire nella meditata precisione  del disegno, della composizione l’efficacia dell’insieme: dal particolare al generale. In mezzo, riscontro necessario, un ritorno improvviso a Fiumana: una verifica. La lettura del Quarto Stato proseguiva per scomposizioni e riaggregazioni del terzetto centrale,  rivolgendosi quindi alle singole figure, ancora sempre immerse nella tensione collettiva della scena di massa (tavv. 182, 183). Solo avviandosi alla fine di questo viaggio di scoperta Monti si dedicava ai dettagli, alla fascinazione della grafia pittorica di Pellizza, alla sapienza colta dei panneggi e dei singoli gesti[564], alle suggestioni che nascevano dalla diversa stesura delle due opere (tav. 184), per chiudere infine con le viste generali dei due quadri, un gesto che comportava l’allontanamento definitivo.  La lettura condotta da Monti quale è possibile ricostruire seguendo l’ordine delle riprese sembra essersi svolta secondo due percorsi, due logiche diverse: analisi del quadro come dipinto e come scena. Il fotografo passava dall’uno all’altro registro cercando nelle loro ragioni reciproche il senso e il valore dell’opera di Pellizza, ricorrendo per questo  al gesto fondante dell’agire fotografico, quello che comunemente chiamiamo “taglio”, ma che qui più opportunamente definiremo “inquadratura”.  Se il primo infatti incide contemporaneamente sul tempo e sullo spazio, isola e separa inesorabilmente l’immagine dal mondo trasformandola in figura, nella fotografia di un dipinto il continuum temporale, la durata da cui prelevare un istante non esiste, è data una volta per tutte, predeterminata e immutabile come lo spazio complessivo in cui si svolge. Per questo l’azione qui consentita al fotografo può essere solo  l’inquadratura: non “tagliata dal vivo”[565] però, ma nella sua trasfigurazione e trascrizione, della quale nulla mai può essere definitivamente perduto o escluso, continuando a esistere in immagine oltre il momento dello scatto. Anche il tempo dell’arresto e della perpetuazione dell’azione sono già definiti per sempre e il fotografo non può che misurarsi, a volte, con un tempo reinventato, leggendo il dipinto come scena (appunto) o come materia.  Ripensando alla lettura degli Equivalents di Alfred Stieglitz fatta da Philippe Dubois scopriamo che anche in questa ricognizione montiana non c’è messa in scena dell’oggetto in funzione di un progetto di creazione estetica: “c’è solamente un gesto di ritagliare, di fare a pezzi il tessuto continuo dello spazio (…) Ed è solo questo gesto che, qualunque siano le intenzioni, genera sempre degli effetti di composizione”[566]. Sono quegli stessi intorno ai quali lavorava Monti considerandoli strumenti fondanti della propria possibilità di lettura, di traduzione dell’opera, del proprio agire intellettuale e critico.  è la comprensione profonda di quegli elementi che gli consentiva, misurandosi  con le opere d’arte, di esplorare  i confini della fotografia.

Ancora un’occasione emiliana, la sua ultima, fu la lettura del Sigismondo Malatesta in ginocchio davanti a San Sigismondo di Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano di Rimini, realizzata nella primavera del 1982 in occasione della mostra Dipinti di antichi maestri restaurati[567]. Qui il percorso di lettura mutava radicalmente andamento e, direi, scopo: appare piuttosto l’esito di un incontro e di una ricerca. Non più sequenze dal particolare al generale ma investigazioni insistite su ciascuna delle figure che abitano lo spazio sospeso di questo affresco, isolate, con particolare attenzione al linguaggio gestuale delle mani  (tav. 185)[568].  San Sigismondo dapprima, indagato minuziosamente alla ricerca di segni autografi e nuove tracce fuoriuscite dal trascorrere del tempo nella materia dell’opera, evocazioni dei Muri; poi il Malatesta, in progressione ravvicinata sino a tentarne il ritratto, la sottolineatura dell’espressione del volto, così strutturalmente ed emotivamente distante da quello del santo. Monti  muoveva poi alla parte destra, ai “due veltri oppostamente accosciati [ove] par che l’inversione della posa porti seco l’inversione del colore”[569]; al castello di Rimini che appare oltre l’oculo aperto nella parete illusoria, misurandosi infine con la sinopia. Come era doveroso attendersi, Monti non applicava schemi precostituiti; si confrontava ogni volta coi problemi di lettura critica che ciascuna opera impone,  in questo mostrando di aver meditato non tanto sulla tradizione pur ricca della storia della fotografia italiana di documentazione d’arte, sostanzialmente estranea a questo procedere[570],  quanto di essersi confrontato con la lezione offerta dalla monografia di Roberto Longhi su Piero della Francesca, pubblicata nel 1927 poi  ristampata con un corredo iconografico ampliato nel 1946. Nella prefazione a questa seconda edizione l’autore sottolineava la novità e la rilevanza di quell’antico “materiale illustrativo, che fu anch’esso esemplare a tante altre scelte e diede, involontariamente, fin troppo l’avvio alla smania, spesso sbadata, dei ‘particolari’ e dei ‘particolari di particolari’ ”, che per la prima volta comparvero in quell’opera a formare nel loro insieme un compiuto testo critico,  un saggio per immagini costruito a partire dalla riproduzioni di Anderson e Brogi, Alinari e Giraudon, presentate e impaginate con tagli arditi nei quali la sottolineatura del dettaglio superava l’immediata funzione didascalica per farsi veicolo di ipotesi critiche ad ampio raggio, che suggerivano derivazioni e legami lungo tutto il percorso storico dell’arte, sino a comporre figure dotate di forte autonomia, condotta sino ad una reinvenzione compositiva nella quale non è difficile intravvedere suggestioni derivate dalle coeve ricerche artistiche.

 

I grandi architetti classici

“Fotografie per volume Borromini. Stampe millimetrate su inquadrature desunte da prove contatto o ingrandimenti di miei negativi – eseguite da Dino Sala su vostro ordine” riporta una fattura del 15 febbraio 1968 indirizzata alla casa editrice Electa, con riferimento al volume di Paolo Portoghesi pubblicato l’anno precedente[571]. È questa una delle prime (forse la prima) indicazione documentaria dell’impegno di Monti nel confronto specifico con i grandi architetti del passato; letture monografiche che si distinguevano quindi per obiettivi e metodologia dalle indagini tipologiche come quelle condotte sulle ville genovesi (1963-1964) o sulle architetture gotiche veneziane (1970). Se la partecipazione al progetto editoriale di Portoghesi fu ancora relativamente episodica, essendo la più parte delle fotografie pubblicate dovuta all’autore stesso[572], il successivo confronto con le architetture di Leon Battista Alberti, destinate alla mostra romana per il cinquecentenario della morte, fu realizzato in gran parte da Monti, e molte di quelle fotografie confluirono nell’apparato fotografico del volume curato da Franco Borsi[573]. Frutto del consolidato rapporto con Electa fu l’affidamento nel 1976 della realizzazione di tutto l’apparato fotografico del volume di Eugenio Battisti dedicato a Brunelleschi, un autore col quale si era già misurato circa dieci anni prima  per quello di Eugenio Luporini[574], pubblicato in un periodo di rinnovato interesse per quel maestro. Nel presentare le ragioni della sua profonda revisione critica Battisti ricorreva a un’analogia fotografica: “Man mano che si sfogliano le pagine, scompare, infatti, come in una fotografia mal sviluppata, la tradizionale immagine di lui suggerita dai cento studi generici sul Rinascimento (…). In alcuni casi il divario è tale che ne potrebbe nascere un profondo scetticismo sulla validità d’ogni critica verbale rivolta all’analisi dei fatti architettonici, se altrettanto colpevoli non risultassero i rilievi tradizionalmente usati e le fotografie d’archivio”[575]. Da qui la necessità di realizzare un’apposita e innovativa campagna documentaria, molto articolata nei modi e nelle soluzioni di ripresa, per la cui conduzione si può ipotizzare se non proprio una rigida regia almeno un confronto serrato tra studioso e fotografo, confermato anche dalla presenza di Monti alla performance dedicata  alla riproposizione  dell’esperienza della tavola prospettica brunelleschiana nel giugno del 1975 (tav. 189)[576]. Assecondando il taglio monografico del saggio, Monti fotografava anche le opere di Brunelleschi scultore (l’altare di San Jacopo nella cattedrale di Pistoia, la formella col Sacrificio di Isacco al Museo del Bargello, con un’analisi dettagliata dei gesti delle figure), ma naturalmente la più parte del lavoro era dedicata alle architetture. Qui confermava la sua grande maestria nella restituzione dei rapporti spaziali[577], adottando punti di vista coerentemente prospettici (tav. 191), che davano evidenza plastica alla nota riflessione di  Wittkower[578] e  gli consentivano di restituire  compiutamente la misurata armonia di quelle costruzioni. Alle riprese con asse prospettico centrale ne accostava altre di impianto perfettamente ortogonale o zenitale,  per  corredare e puntualmente riflettere i rilievi grafici degli edifici (si veda il modulo compositivo della facciata dell’Ospedale degli Innocenti),  rivelando così la precisa adesione alle necessità del committente, altrettanto evidente in quei casi in cui lo studioso richiese al fotografo di mostrare “la mano dell’architetto” o di restituire la tessitura muraria della cupola di Santa Maria del Fiore, con riprese degli interni che i forti contrasti di luce rendevano drammatiche (tav. 192). La verifica condotta in archivio conferma che tutto il lavoro fu realizzato utilizzando il formato 35 mm, con apparecchio a mano e obiettivo decentrabile;  un procedimento certo speditivo ma non sempre adeguato, così che in alcuni scatti relativi ai dettagli della trabeazione o al sistema delle coperture la ripresa risultava eccessivamente scorciata,  generando effetti di distorsione ottica che non poco ne disturbano la lettura. Un prezzo da pagare a parere di Monti, poiché “importante è non generalizzare: la deformazione prospettica va bene solo in certi casi. La vista d’interno di una chiesa a tre navate deve essere corretta, le linee devono essere diritte, anche se si dovesse perdere un terzo di arco. Se dobbiamo invece far vedere cosa sostiene il tetto, quante cupole ci sono, quanti archi e come sono collegati fra loro, ecc. possiamo esagerare la deformazione prospettica con le linee che corrono verso uno stesso punto”[579]. Ritroviamo qui qualcosa più di  una eco delle prescrizioni di John Ruskin, che aveva a suo tempo suggerito di  cogliere “ogni opportunità offerta dalle impalcature per avvicinarsi ad essa,  collocando l’apparecchio in qualsiasi posizione imposta dalla scultura, senza alcun riguardo per le risultanti distorsioni delle linee verticali; tali distorsioni  possono essere tollerate  quando  si siano ottenuti compiutamente i dettagli”[580].

Nella stessa collana di Electa usciva nel 1977 il volume dedicato a Mauro Codussi[581] per la cura di Loredana Olivato e Lionello Puppi, che Monti aveva già conosciuto nel corso delle campagne di rilevamento appenniniche. L’occasione ebbe per Monti un significato speciale poiché veniva dopo alcuni mesi di forzata inattività: Dopo tanto far niente – scriveva a Paolo Fossati – ora incomincerò a lavorare molto e quello che più mi attira è un volume per l’Electa su un architetto veneziano poco noto. L’architettura, e la scultura bisogna dirlo, restano i miei due punti forti del lavoro professionale: il resto, ed è molto, sono i capricci sulla tastiera. La natura, il ritratto e la scoperta di una tecnica che mostra il suo fascino per le cose inutili. Nei prossimi giorni otto ore al giorno di riprese, all’aperto quasi tutte, penso mi rimetteranno di nuovo in forma e sarà l’architettura a stimolarmi come avvenne a Venezia e unendo l’ambiente eccezionale”[582].  Come ricordavano i curatori nella Premessa, il progetto storiografico prevedeva di operare sui due livelli  complementari “dell’analisi contestuale e del ragionamento obiettivo dei dati d’informazione (…).  A rendere, poi, tanto più ricco e dinamico il dialogo tra i due livelli di scrittura, è stato indirizzato l’uso dei repertori illustrativi, dove i materiali più propriamente di documentazione iconografica vengono ad integrare l’amplissima sequenza delle immagini espressamente eseguite a capo di un fertile dibattito intrattenuto fra il fotografo e gli autori.” Come già nella predisposizione dell’apparato fotografico per Venezia gotica (1970), Monti doveva affrontare un plurimo  ordine di sollecitazioni, provandosi a coniugare le indicazioni storico critiche con le  suggestioni,  le lunghe frequentazioni e le specificità urbanistiche e ambientali veneziane; qualcosa che metteva in gioco la sua stessa biografia personale ed espressiva.  Le riprese delle facciate vennero risolte con vedute frontali o fortemente scorciate (a volte accoppiate nell’impaginazione di Diego Birelli), che in molti casi rivelano il ricorso ad un filtro per scurire lievemente i cieli e far risaltare i rivestimenti in pietra d’Istria e di Verona (tavv. 193, 194, 195),  conservando quell’ampia scala di gradazioni di grigio che era mancata in altre pubblicazioni degli stessi anni.  Lo scorcio ritornava nella restituzione dei sistemi voltati, quasi esprimendo  l’intenzione ‘naturalistica’ di restituire  un punto di vista corrispondente allo sguardo dell’osservatore: una posizione (forse una postura) percettiva e quindi soggettiva oltre che tecnica. Da questo rigore descrittivo quasi manualistico si distaccava l’illusionistico gioco della facciata delle ‘vecchie’ Procuratie[583] riflessa in un’ampia pozza d’acqua; una fotografia di alto gusto amatoriale,  tanto affascinante però da essere accolta dagli autori e valorizzata dal grafico, che le concesse una pagina destra al vivo.

Quasi a chiudere un ciclo, quasi a costituire una non dichiarata monografia di Monti fotografo e un omaggio al suo continuo travaso tra ricerche personali e pratica professionale, Andrea Emiliani pubblicava nel 1979 una selezione di un centinaio di fotografie di repertorio, certo realizzate per incarichi precedenti  ma qui selezionate anche per la loro particolare autonomia compositiva. Un corredo che mostrava  nella scelta delle immagini come nella loro articolazione in sequenza tutta la complice sintonia intellettuale tra lo storico dell’arte e l’amico fotografo, dove la funzione documentaria lasciava emergere e conviveva con tutte le ansie sperimentali della ricerca personale. Si consideri a questo proposito la fotografia di uno stucco decorativo di Galeazzo Alessi in Villa delle Peschiere a Genova (Tav. 196) [584] che in una versione radicalmente rielaborata in fase di stampa (ribaltamento orizzontale, mascherature e bruciature)  venne presentata come Natura, 1960,  nella monografica di Reggio Emilia (tav. 197)[585], confermando ancora una volta con questo mutamento  di statuto da documento a opera,  indifferente ai dati referenziali e cronologici, che per Monti la stampa finale, “immagine oggettiva ‘soggettivata’” era il vero compimento del processo fotografico; ” una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà[586]. Altre suggestioni ancora emergono dalla ripresa  della Cotta aprettata del Conservatorio del Baraccano di Bologna[587] (tav. 198), nella quale si riconosce  quel fascino per le grafie pure della trama che si ritrova anche in  Felci, riflessi deformati, 1974 (tav. 111).  Qualcosa di ben diverso da quella “ricognizione fotografica dell’esistente” condotta da Monti e celebrata qualche anno più tardi dallo stesso Emiliani, che le riconosceva “un ruolo determinante proprio in quel movimento di conoscenza e di riappropriazione che unisce, in uno sforzo, un doppio risultato”, concludendo infine che “assai più che non la scuola e la stessa ricerca specifica, la ricognizione fotografica, attivando processi di comunicazione immensi attraverso la stampa, ha giovato al patrimonio artistico una costante dinamica dei suoi confini, quasi tornando ad imporre all’occhio quella funzione organizzativa e classificatoria che sta alle origini stesse dell’opera storica di tutela artistica e della proposta operativa rappresentata dal museo”[588].

 

Storie,  luoghi, territori

Oltre a Venezia, della quale negli anni de La Gondola aveva raccontato specialmente l’edilizia minore, fu Roma il luogo del suo primo confronto con l’architettura storica, verosimilmente in occasione della sua prima personale all’Associazione Fotografica Romana del 1952. Accanto ad alcune veloci notazioni di carattere bressoniano (tavv. 174, 175), non per caso poi premiate con la copertina di “Ferrania”, il tema principale, quanto mai prevedibile, fu l’archeologia dei Fori, ripresa con le luci radenti dell’estate filtrando i cieli per ottenere stampe dai forti contrasti tonali, palesemente ‘irreali’ (tav. 199)[589]. “Bianchi frammenti di marmo, splendenti colonne imperiali, pietre levigate da secoli –  scrisse poi Giovanni Chiaramonte[590] – rilucono nella Città Eterna tra la cupola oscura del cielo e la caotica tenebra di scavi e rovine, sopra lo squarcio raggiato di una antica volta in mattoni che s’apre, attraverso il geometrico buio d’una porta, alle profondità della terra”, ma la scrittura immaginifica del curatore non riusciva a celare l’approccio dilettantistico al tema, diametralmente opposto a quello che solo pochi anni più tardi avrebbe adottato per realizzare la  campagna fotografica su Castelseprio (1957)[591]  e quella sui  Sacri Monti, a corredo di un articolo di Rudolf Wittkower[592].  Alla prima occasione sistematica di confronto col patrimonio architettonico italiano, avviata nel 1963-1964 col catalogo delle ville genovesi, fece seguito  nel 1965 l’incarico di realizzare l’apparato iconografico per la Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno.  L’idea di affiancare ai saggi “una sorta di storia iconografica della letteratura italiana”[593] era stata di Cecchi, ma Livio Garzanti non intendeva avvalersi del patrimonio fotografico storico  consueto (e anche un poco consunto);  occorreva “un fotografo colto e sapiente, capace di discutere e indiscutibile, che comprendesse le ragioni generali dell’impresa di dare per la prima volta illustrazione compiuta alla nascente Storia[594]. Andrea Emiliani è ritornato più volte sulle feconda fatalità di quell’incontro  “nei corridoi della Casa editrice Garzanti”, dove lui era impegnato con Vanna Massarotti[595] nella ricerca iconografica. “Il fotografo – ricordava  Emiliani[596] – era già noto per la sua conoscenza, spesso straordinaria, del segreto rapporto che regola il legame tra i luoghi e la loro storia. Monti veniva infatti da un mestiere che a Venezia s’era, per così dire, caricato quanto mai di sensi e anche di sentimenti della storia: viveva in sostanza la forma italiana con la coscienza e con la poesia di chi sa bene come in questo paese esista un così lontano e continuo universo formale da rendere quasi impossibile rimuoverne la storia. Paolo Monti stava ore e giorni davanti alle foto Alinari e, bofonchiando come era solito fare, finiva per ammettere che sì, di più era impossibile fare. E che i confini erano già tracciati, cosicché bisognava variare l’intensità, piuttosto, caricare le tensioni conoscitive dell’immagine fotografica. E non illudersi troppo. Di queste varianti di tensione interne, l’opera di Monti è un registro continuo.”   Giusta l’osservazione critica di Emiliani resta però da chiarire su quali basi, allora, si fondasse la fama della “sua conoscenza, spesso straordinaria, del segreto rapporto che regola il legame tra i luoghi e la loro storia” se la sua più nota attività professionale era legata all’architettura contemporanea, a meno che non fossero state proprio le sue magistrali letture della nuova museografia a rivelarne le potenzialità a un osservatore attento. Le campagne fotografiche per Garzanti, eseguite tra luglio 1965 e dicembre 1967 con brevi appendici nei due anni successivi, segnarono “una specie di reintegrazione dell’immagine evocativa entro quel pensiero letterario italiano che, in fondo, legava al luogo nel tempo le più ampie possibilità di comprensione. Monti organizzava il suo viaggio prima mentale e poi fotografico. Ritornava con scatole di fotografie perfette, inattese e indiscutibili, raccomandando al grafico di non operare tagli. La foto di Monti era assolutamente la stessa dal negativo alla stampa. Questa perfezione di taglio e inquadratura resisteva così nelle foto operate con il cavalletto a terra, che in quelle prodotte con la macchina in mano. Fu proprio da questa capacità, che Monti mostrava, mettendo a punto i primi apparecchi decentrabili, che nacque il coinvolgimento nelle attività sul territorio dell’Emilia e Romagna e in seguito una vera amicizia”[597].  Nei ricordi di Emiliani precisione del dettaglio e mitografia si mescolavano[598], contribuendo a definire un’immagine di Monti che si discosta in parte dalla dimensione storica ed è piuttosto indizio del forte legame intellettuale e affettivo tra i due, che congiuntamente vissero quell’impresa e ancor più i successivi progetti in Emilia Romagna, che in parte a quella si sovrapposero cronologicamente[599].  Tra le figure retoriche più forti di quella mitologia troviamo il tema dell’indipendenza decisionale del fotografo nei confronti di  committenti e curatori, rispetto al quale Monti era molto netto ed esplicito, dichiarando di non andare “quasi mai a vedere e poi fotografare i miei soggetti insieme agli autori di quei libri di architettura i quali pur si avvalgono delle mie immagini, perché a volte non sanno guardare bene neppure loro, ed essi necessariamente non guarderanno, non scopriranno quello che andrò a scoprire e guardare io”[600]. Può darsi che la perentorietà dell’affermazione fosse fatta ad usum Delphini, vista la pubblicazione in una rivista fotoamatoriale, ma altre  testimonianze lo contraddicono o almeno relativizzano quelle affermazioni.   Non solo era consuetudine che  l’autore o il curatore del volume fornisse un elenco delle “fotografie da fare sul posto, e vale come indicazione di massima, essendo necessario un adeguato incontro con il fotografo da voi designato per finalizzare strettamente le fotografie alla interpretazione critica data nel testo”[601], ma anche l’analisi dettagliata di alcuni lavori pubblicati mostra  evidenti segni di regia storico critica. Mi riferisco tra gli altri alla campagna pugliese del 1970 finanziata dall’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, certamente condotta sotto la guida di Maria Stella Calò Mariani[602] o alla “analisi fotografica delle opere albertiane [che] è stata appositamente eseguita, nel corrente anno, (…) con la regia di Agnoldomenico Pica”[603], come rivendicava esplicitamente il curatore. Più verosimile allora pensare a confronti e “stimolanti scambi di idee”, come  scrivevano Olivato e Puppi nella Premessa al loro studio su Codussi.

Alle campagne fotografiche per Garzanti si affiancarono, forse occasionate da quelle, le prime ricognizioni regionali per il Touring Club Italiano. Mentre le presenze nei volumi dedicati alla Puglia (1967) e alla Liguria (1969) furono poco più che episodiche e derivate da incarichi precedenti[604], per quello relativo all’Umbria (1969) le foto vennero “espressamente eseguite” da Monti e da Manfredi Bellati, all’epoca più noto come fotografo di moda, ma anche da  Gianni Berengo Gardin. L’incarico, datato 1967,  non conteneva precise indicazioni da parte della committenza,  come sembra  indicare una lettera a Monti di Giuliano Manzutto, redattore  del volume, nella quale si augurava “che nel frattempo avremo finalmente avuto modo di incontrarci e di parlare di molte cose (…). Il lavoro che io ho fatto è pessimo e si sente tutta la mia svogliatezza causata dall’ambiente nel quale il volume si concretizzava. Mi spiace molto che questo possa aver danneggiato le Sue fotografie eseguite invece con tanta partecipazione ed entusiasmo”[605]. Come sempre accade in questo genere di pubblicazioni, le peculiarità di ciascuno degli autori coinvolti tendono ad essere riassorbite dal progetto generale del volume e dall’impaginazione, così in molti casi risulta difficile distinguere Berengo Gardin da Bellati[606]  o da Monti, il cui  specifico magistero è però riconoscibile nella fascinazione per la materia di strade ed edifici (tav. 200) come nella restituzione prospettica perfettamente ortogonale della facciata del Tempio di Minerva ad Assisi (tav. 201) o ancora quella del Duomo e soprattutto di San Felice di Narco a Spoleto, nelle quali l’uso sapiente del teleobiettivo e il controllo perfetto dei parallelismi rimandano quasi a una restituzione fotogrammetrica, mentre la notissima ripresa scorciata del Duomo di Orvieto (tav. 202) ne sottolineava lo slancio gotico; una soluzione che avrebbe poi adottato nella restituzione affilata come una lama dello sperone del Castello de L’Aquila per il successivo volume dedicato a Abruzzo e Molise   (tav. 203)[607].

Parallelamente  Monti ebbe l’occasione di tornare a misurarsi con le amate architetture veneziane per illustrare il volume di Arslan sulla Venezia gotica[608], del quale condivise la responsabilità dell’apparato fotografico con Diego Birelli, art director di Electa e fotografo formatosi con Zannier al Corso Superiore di Disegno Industriale di Venezia. I crediti fotografici non distinguono tra i due autori, così che solo  il lavoro di riscontro in archivio consente di  identificare Monti, ciò che sembra confermare il forte ruolo registico  di Arslan, che muoveva per approfondite analisi comparative di elementi tipologici quali le finestre e le scale (Palazzo Papafava alla Misericordia, giugno 1968, tav. 204;  Palazzo Contarini della Porta di Ferro, particolare della scala scoperta, tav. 205). Accanto a ciò fu sicuramente la particolarissima condizione urbanistica di Venezia a determinare modalità di ripresa in cui alle inquadrature frontali si alternavano o si affiancavano (nel dinamicissimo impaginato di Birelli) foto nelle quali lo scorcio è accentuato da un uso del teleobiettivo collocato su di un piano quasi tangente alla facciata, come nel caso del loggiato al primo piano di Palazzo Ducale (tav. 206) o del prospetto su Riva degli Schiavoni, dove il gruppo scultoreo dell’Ebbrezza di Noè  venne plasticamente inteso come cardine di passaggio visuale verso il Rio di Palazzo, in una efficacissima sequenza[609] che comprendeva anche una terza fotografia (tav. 207, non pubblicata in Arslan) nella quale Monti riuniva e comprendeva in una sola, calibratissima inquadratura il gruppo scultoreo dell’Ebbrezza di Noè, la balaustrata del ponte della Paglia e il Ponte dei Sospiri, collocandosi in una serie iconografica storica che da Carlo Ponti, Giorgio Sommer (1870 ca) e Tomaso Filippi (1895 ca) giungeva sino a Francesco Pasinetti negli anni Quaranta[610].  Il teleobiettivo era indispensabile anche per riprendere certe facciate da una lontana distanza obbligata, trasformando il rio in un cannocchiale (Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande, tav. 208). Ne risultava una città che pareva magicamente fatta solo di finestre, nella quale la lettura attenta delle sue pietre mostrava (ancor prima delle varianti) una condizione di degrado diffusa, che la stampa catramosa del volume, con neri chiusi e privi di profondità rivelava impietosamente, senza che fosse possibile distinguere se ciò era dovuto ad una specifica scelta connotativa (una specie di sottotesto parallelo al racconto architettonico) o più immediatamente a ragioni di cifra compositiva della pagina, tipiche delle soluzioni grafico editoriali di quegli anni[611].  Dopo le architetture il topos per antonomasia della città lagunare: la gondola; ancora una volta una produzione più o meno direttamente legata alla comunità armena[612]. Nella struttura tripartita del volume le fotografie di Monti possedevano una forte autonomia, certo non illustrativa del saggio storico di Butazzi né illustrate da quello. La sequenza apriva con una ripresa in controluce di gondola e gondoliere simile a quella utilizzata per l’elaborazione per la sovracoperta (tavv. 209, 210), per procedere poi alternando dettagli, scene d’ambiente e vedute urbane, sovente realizzate secondo un ritmo di compressioni e dilatazioni prospettiche, mentre l’analisi del dettaglio era condotta sia in vivo che in studio, come nella bella sequenza dedicata alla forcola, ripresa su fondo bianco uniforme, quasi una scultura contemporanea[613].   L’itinerario in gondola attraverso la città si svolgeva avvalendosi di nuove fotografie ma anche di immagini realizzate decenni prima[614], da cui emergevano come un’autocitazione alcuni lacerti di muri o di legni ma anche omaggi o  evocazioni di autori antecedenti[615], chiudendo in modo piuttosto sorprendente col retorico controluce di “vibrante lirismo” di gondoliere e gondola[616]; una riproposizione della più vieta tradizione oleografica tardo pittorialista, qui (almeno apparentemente) priva di ogni ironica distanza. L’apparato fotografico qualificava quell’impresa piuttosto come un volume sulla città, su Venezia, obbligando quindi  al confronto coi precedenti più prossimi e noti:  da Leiss (1953) a Roiter (1954), da Mulas[617] (1952) a Berengo Gardin (1965) e Giorgio Lotti (1970). Solo gli ultimi due titoli di questa piccola serie sono ancora compresi nella biblioteca di Monti, a conferma ulteriore di un processo di depauperamento non altrimenti documentabile, ma sufficienti ad indicare una condizione strana, quasi un disagio di Monti nel restituire a quella data un profilo meditato e personale della città che fra tutte gli era la più cara. Quasi un ritrarsi dall’inevitabile confronto che si sarebbe posto con quegli autori a lui per molti versi vicini, non cogliendo ( o rinunciando a) l’occasione per fare (anche) un bilancio della lunga storia personale che lo legava a quel luogo[618].

Non considerando per ora l’enorme lavoro svolto in Emilia Romagna, sul quale torneremo, il progetto più interessante di quegli anni rimane quello dedicato a Procida, realizzato su invito di Giancarlo Cosenza,che l’anno precedente aveva firmato il Piano Paesistico Territoriale dell’isola. Non un’indagine strumentale e propedeutica quindi, e neppure una campagna documentaria in senso proprio, ma la lettura autoriale di quelle architettue spontanee che già erano state oggetto di ampie attenzioni e di ricca documentazione fotografica a partire almeno dalla metà degli anni Trenta,  in particolare ad opera di Giuseppe Pagano (tav. 010) e di Roberto Pane (tav. 214). Già Arcari aveva rilevato che “certe affinità con Giuseppe Pagano (…) meriterebbero un approfondimento”[619] che resta ancora da fare, verificando ad esempio quali possibilità avesse Monti di conoscere certi suoi lavori[620]. Nella presentazione critica che ne offrì alcuni anni dopo,  Quintavalle riconosceva come Monti avesse compreso quale fosse “la vera chiave urbanistica di Procida che sono le scale: il rapporto reale è proprio tra il sistema delle scale (tavv. 215, 216, 217, 218), che traversano anche differenti proprietà, e la vita su questi sovrapposti livelli, che è collettiva. (…) L’intenzione del servizio è cogliere non ciò che stacca un singolo elemento dall’altro, ma ciò che unisce; l’idea è mostrare la continuità tra strutture architettoniche e funzioni,  gesti e modelli di esistenza” [621]. Il critico leggeva così la peculiarità urbanistico architettonica di quell’insediamento restituita dalle fotografie senza soffermarsi peraltro sulle loro ulteriori specificità e neppure accennando al tema del colore, quasi fosse un elemento secondario di quel luogo e del suo racconto, mentre per Monti Procida era “una delle poche isole del Mediterraneo che sia a colori, un po’ come Burano, mentre tutte le altre isole del Mediterraneo si sa che sono bianche. E quindi è un’isola interessante anche sotto questo aspetto (tavv. 219, 220). Ho già i testi di un architetto e di un ingegnere; le fotografie sia in bianco e nero che a colori, i disegni, le sezioni e tutto quanto: ne uscirebbe un bel libro, ma non si è ancora trovato l’editore, anzi probabilmente tenterò di fare qualcosa in Germania o in Svizzera su questa cosa che meriterebbe senz’altro di essere fatta perché è [un] eccezionale ambiente che merita di essere conosciuto”[622].  L’ingegnere a cui Monti si riferiva era per l’appunto Cosenza,che pur “sempre escludendo una settaria valutazione estetica” aveva già riconosciuto che“tra le varie componenti climatiche e sociali, ha interesse come preesistenza ambientale in cui affrontare la ricerca, la scala cromatica realizzata nell’abitazione dell’isola. (…) La tinta di tono appropriato è anche essa sintesi in una continua ricerca di un giusto valore. La tecnica del colore quindi si dimostra fondamentale nella composizione architettonica, per la sua applicazione sulla parete esterna dell’edificio; anche questa non risulta per nulla una astratta ricerca di proporzioni” [623]. Una interpretazione storico culturale del fenomeno che certo deve aver sollecitato e molto influito sulla lettura che ne diede Monti, reduce in quegli anni dal confronto con le architetture rurali dell’Appennino Emiliano Romagnolo e con il centro storico di Bologna.

 

I censimenti emiliani

L’incarico ricevuto dalla sezione ligure di Italia Nostra per la compilazione del catalogo visuale delle ville genovesi[624] costituì per Monti  la prima occasione per misurarsi con le necessità metodologiche imposte dall’indagine sistematica di una tipologia architettonica; quelle che di lì a poco sarebbero state ampliate e meglio strutturate nello svolgimento delle indagini appenniniche e bolognesi, di poco successive. L’incontro nel 1965 tra Monti e Emiliani, neodirettore della Pinacoteca Nazionale di Bologna, non impedì a quest’ultimo di affidare a Ugo Mulas la documentazione del nuovo allestimento del museo che Leone Pancaldi  aveva appena terminato e Michael Brawne non aveva considerato nel proprio saggio[625]. In archivio si conservano però alcune riprese delle nuove sale eseguite da Monti nell’estate dello stesso anno, quasi una conseguenza della sua sostanziosa presenza sulle pagine del volume dell’architetto e critico inglese e certo l’avvio di una lunga e fruttuosa collaborazione con quella istituzione, che negli anni immediatamente successivi si sarebbe affiancata alle Campagne di rilevamento dei beni artistici e culturali dell’Appennino, nelle quali la restituzione del rapporto tra edificio e contesto richiamava  ancora una volta in modo significativo gli esiti delle indagini fotografiche di Pagano del 1936.   “La prima campagna fu posta in atto, e non casualmente, in un anno denso di significato come il 1968. Il territorio scelto per il primo esperimento fu quello di un’area geografica delimitata attorno al centro di Porretta Terme (tav. 221). Sulla base di quella prima esperienza si affinarono due dei principali mezzi d’indagine, sottoposti poi a verifica nei successivi interventi: la scheda inventariale e, soprattutto, la fotografia, adottata in modo il più possibile estensivo così da tener conto non solo dei singoli oggetti ma anche dell’ambiente che li circonda”[626]. In quel contesto le ricognizioni generali erano affidate a Monti, mentre la successiva schedatura fotografica intensiva, coerentemente condotta “senza stabilire una gerarchia né di valore né di qualità” era affidata a altri fotografi[627] come Marco Baldassari, Corrado Fanti,  Augusto Viggiano, Riccardo Vlahov, Pino Guidolotti[628] oltre a Raffaele Biolchini, Adriano Boni, Elio Celone, Attilio Foresti, Cesare Mari, Enrico Mulazzani, Piero Orlandi, Franco Ragazzi e Mario Scarpa[629]. Ricordava anni dopo Corrado Fanti: “Penso a qualche breve e intenso momento vissuto con Paolo Monti camminando su una costa dell’Appennino per fotografare insieme a lui il paesaggio. Non ci scambiavamo neppure una parola, eppure comunicavamo nel breve contatto dei nostri sguardi silenziosi, attraverso il digradare dei colli. Le parole venivano poi, magari in una lunga serata a Milano, guardando le immagini, parlando di forme e di tecniche”[630].   “Le ‘campagne’ – ricordava Emiliani[631] – furono proprio un’offerta di normalità, un invito alla frequentazione consueta che interveniva nel bel mezzo della migrazione umana che aveva spopolato la montagna, e che aveva lasciato ancora in piedi le strutture di un vivere secolarmente lentissimo o povero. La lettura che Monti diede per quattro anni – tante furono le Campagne – fece rifluire sulla groppa di un Appennino certo più dolce delle montagne dell’Ossolano, e tuttavia a volte spettacolare, la sua esperienza di interprete ben addestrato a quel misto di carattere e di amore che proprio la montagna esige di mettere in campo. Per esser brevi, Monti lavorò su alcuni temi, vere e proprie esercitazioni a soggetto.”  Quel progetto coniugava le istanze della geografia storica di Lucio Gambi con le indagini sulle specificità dei beni architettonici e artistici di quei territori proprie di una storiografia artistica che si impegnava nel confronto fattuale con la tutela, così determinando una prassi che si fondava metodologicamente sul superamento del concetto di monumento come emergenza a favore di quello di patrimonio culturale inteso quale tessuto di elementi inscindibili. (tavv. 222, 223), mettendo a frutto tutte le soluzioni espressive maturate in circa un ventennio[632].Ne nacquero ricognizioni  interdisciplinari di grande rilevanza, proseguite poi sino al 1971, nel corso delle quali Monti mostrò di avere “la sequenzialità dei grandi censitori, come fosse uno Scheuermeier che avesse ripassato roccia su roccia, faccia su faccia Ombre rosse di John Ford, ma parlando di contadini italiani”[633].  Le quasi duemila fotografie che ne risultarono costituiscono “una sorta di commento visivo al diario di lavoro pubblicato nei Rapporti dell’allora Soprintendenza alle Gallerie [tanto che] la loro migliore espressione, di metodo come di contenuti, va ricercata più nell’insieme che nella pur elevata qualità della singola prova. Non si tratta di foto d’architettura, poiché su nessun edificio, in quanto opera d’arte o d’autore era significativo soffermarsi (…) Non si può parlare di foto di paesaggio (…) perché, soprattutto, lo sforzo documentario di queste immagini vale più della attenzione vagamente contemplativa cui si associa di frequente la nozione stessa di paesaggio [sebbene poi] i soggetti di queste foto tendono ad allontanare (…) gli elementi di disturbo, siano essi ‘restauri’  brutali o paesaggi troppo modernamente compromessi”[634]. Ciò non tanto per una specie di manipolazione ideologica o di nostalgia illusionistica, ma perché – come ricordava Lucio Gambi – “qualsiasi operazione di cartografia e di fotografia non può dare una riproduzione globale dei patrimoni o ambientali o culturali di una data area, ma implica soluzioni e scelte fra le cose da mettere a fuoco e cose da lasciare in ombra”[635].

Negli anni immediatamente successivi (ma anche sovrapponendosi in parte, tav. 226) quella metodologia venne adottata, con opportuni aggiustamenti,  anche per il centro storico di Bologna, a partire dalle valutazioni emerse dall’indagine settoriale condotta da Leonardo Benevolo e Paolo Andina nel 1963-1965, avvalendosi di un gruppo di collaboratori che comprendeva anche Pier Luigi Cervellati, già all’Università di Firenze come assistente di Benevolo[636], che nel 1970  sarebbe diventato assessore all’Edilizia Pubblica e Privata nella nuova giunta di Renato Zangheri. Certo non era la prima volta che Monti si misurava con soggetti bolognesi, come indicano alcune riprese del 1965 realizzate per la Storia Garzanti, né le sue frequentazioni erano circoscritte all’ambiente della tutela e della pianificazione urbana, ma certo ora obiettivi e impianto del progetto erano radicalmente diversi e innovativi, suscitando non poche perplessità. Come avrebbe ricordato Cervellati, “allora, la domanda ricorrente era: «A che cosa serve un censimento fotografico del centro storico?  Perché incaricare Paolo Monti di fare centinaia, forse migliaia di fotografie di una realtà consolidata, presente e destinata a rimanere tale per scelta di cultura e volontà politica?» Furono in molti a non capire il significato – anche progettuale, come adesso si ama ripetere – di quell’operazione intrapresa sul finire degli anni ’60. (…) Monti aveva dimostrato (sicuramente per ‘influenza’ di Emiliani) di saper interpretare – e restituire – lo spazio architettonico e l’ambiente naturale e costruito in modo completamente diverso rispetto agli altri fotografi”[637]. Gli aspetti metodologici e le conseguenti scelte tecniche del progetto vennero esplicitati da Monti in una serie di Appunti per il censimento poi pubblicati nel volume a corredo della mostra del 1970 a Palazzo d’Accursio (tav. 227)[638]. Lì vennero indicati  gli scopi generali, le Esigenze particolari del rilevamento, le Norme di lavoro e principi informativi e infine l’indicazione dei Mezzi impiegati per il lavoro fotografico. La necessità di un rilevamento “il più completo possibile e nelle migliori condizioni ambientali, quindi in assenza di automobili[639] (…) e col minimo di segnaletica stradale visibile in primo piano (…) di documentare il centro storico come è,  vedere fino a una parte che generalmente è nascosta che è la base dei palazzi e delle case, che viene coperta da queste file di automobili che coprono completamente”[640], mostrando “questa quarta dimensione dell’architettura che è il piano di appoggio e il suo contiguo ambiente urbano”[641],  imponeva la “ripresa di intere strade con foto dei due fronti e di tutte le case, palazzi e monumenti, cortili, giardini, ecc. perché tutta la città storica sia documentata in modo completo e facilmente identificabile.” A quella si aggiungeva la “documentazione di particolari architettonici (…), arredo urbano, particolari ambienti e soluzioni urbanistiche anche minori o minime, ecc.  Degrado dell’ambiente del centro storico per posteggi, affissioni, insegne, negozi, pavimentazioni non originali (…) ecc.”  Il rilevamento doveva essere condotto con “rapidità e completezza (…) per giustificare pienamente le spese (…) e il dispendio e il disagio provocati dal blocco del traffico”, rendendo visibile (e qui risiedeva una delle più forti indicazioni progettuali) “il percorso umano della città e il suo possibile godimento pedonale”, ciò che comportava una “molteplicità dei punti di vista e delle inquadrature, vicine e lontane ed effetti prospettici vari, come appunto accade osservando mentre si cammina, con tutto il tempo disponibile al vagare dell’occhio (…). L’insieme delle fotografie deve insomma rendere visibile un ideale e lunghissimo vagabondaggio su vari itinerari urbani, con fermate nei cortili e su per le scale, passeggiate nei giardini, ecc.” Quasi il pedinamento di un utopistico flaneur al quale fosse concesso di ignorare i rigidi confini delle proprietà private.  La strumentazione più adatta venne individuata in un apparecchio fotografico Linhof di medio formato (10×12) “per le foto dei palazzi e monumenti più importanti (…) nonché per le vedute generali di strade e piazze” e un Nikon 35 mm dotato di obiettivo grandangolare a correzione prospettica, cioè decentrabile[642], messo in commercio dalla casa giapponese nel 1968 in sostituzione di una prima versione del 1962. “Si può affermare senza esagerazioni – concludeva Monti –  che solo la disponibilità di questo obiettivo permette di realizzare nei tempi voluti il rilevamento progettato.”  Le prime riprese, necessarie alla messa a punto della metodologia di lavoro, datavano al 30 marzo 1969 e riguardarono i due isolati compresi tra Via Santo Stefano e Via  San Petronio Vecchio con la casa  di Cesare Gnudi[643], per riprendere poi la mattina dell’8 agosto “quando finalmente si passò al programma preciso di fotografare tutta via Galliera e qualche strada attigua”,  lavorando “sei ore filate – dalle otto alle quattordici – ora di riapertura al traffico. (…) Direi però che Via Galliera non fu documentata al livello delle altre strade perché, malgrado tutto, un certo sforzo e qualche incertezza si vedono. Il risultato migliore l’ebbe, direi di diritto, Via Castiglione: percorsa passo a passo con tutte le sue curve e i suoi dislivelli, cortili, muri e colonne, gradini e selciati. E quei salti d’ombra e di luce che, a una stereometria così complessa e a così varie prospettive, aggiungono il fascino magico di certe antiche scenografie (tavv. 228, 229). Ma se la fotografia d’architettura di così largo respiro era già un lavoro appassionante, quella di particolari ambienti riportati al silenzio e alla naturalità dei loro spazi, quando l’automobile non esisteva (Bologna, via Zamboni coi  portici di San Giacomo Maggiore e di palazzo Malvezzi, tav. 230; Bologna, via del Pratello angolo via Pietralata, , tav. 231), fu esperienza ancora più eccezionale. Così come la sorprendente rapidità con la quale gli uomini, e più di tutti i bambini e i ragazzi di quegli spazi si impossessavano godendo subito nei modi più vari e giocosi. Un lavoro eccezionale che difficilmente potrà ripetersi, per quanto quasi tutte le città italiane abbiano un tale debito verso i loro centri storici, che sarebbe da attendersi che questa impresa fosse soltanto la prima di una lunga serie”[644].  La partecipazione anche civile di Monti a questo progetto era bene espressa in una lettera a Cervellati del novembre 1969 nella quale riferendosi ai conteggi (e quindi ai conti) relativi “al lavoro fotografico eseguito finora per il Centro Storico di Bologna” sottolineava di aver “considerato tre fattori: l’importanza del lavoro affidatomi, il suo scopo di interesse collettivo e il contributo di collaborazione datomi dal Comune”[645].  Le difficoltà dovute al ritardo nei pagamenti[646] si protrassero sistematicamente, ma ciò  nonostante in due anni vennero  realizzate più di 4.000 riprese di spazi urbani provvisoriamente liberati dalle auto, di singoli edifici e di loro dettagli architettonici e decorativi, sino a produrre quello che Emiliani definì una “specie di inventario urbanistico della città (…) Ed era con un respiro grandioso, potente che, per un attimo, la città storica si mostrava a noi. Un vero capolavoro nascosto [fatto] più di tessuto artistico che non di monumenti singoli e isolati” [647]. La strategia politica di costruzione del consenso intorno al Piano prevedeva l’utilizzo della fotografia anche come mezzo di comunicazione rivolto al pubblico generico, per “contribuire alla migliore conoscenza della vasta problematica, in via di sviluppo, sul centro storico bolognese” [648]. Così nel giugno 1970 aprì a Palazzo d’Accursio la mostra Bologna – Centro Storico[649], con un volume di corredo che mostrava  un approccio visuale alla città caratterizzato da un  andamento spaziale e ottico insieme, partendo da viste panoramiche per giungere sino alla scala degli elementi decorativi minimi delle facciate, suggerendo inediti percorsi di lettura della realtà urbana nella quale i visitatori erano quotidianamente immersi. Il capitolo centrale e progettualmente portante del volume, La scoperta della città vuota, si apriva con due testi programmatici e metodologici di Monti, L’avventura del fotografo e i già citati Appunti per il censimento, seguiti dall’introduzione alla campagna di rilevamento firmata da Andrea Emiliani: Una lettura critica e storica. Il titolo del primo contributo di Monti richiamava quello di un breve racconto di Italo Calvino pubblicato nello stesso anno[650]. La bulimia del protagonista (il “non fotografo” Antonino Paraggi, che a sua volta sembrava dar corpo a una nota riflessione di  Julio Cortázar: “Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie”) poco aveva però a che fare con la lucida sistematicità del rilevamento bolognese, con quella  “rapacità dell’occhio [alla quale] deve opporsi un ordine razionale, tanto più necessario nella fotografia d’architettura dove è sempre necessario un intendimento critico inteso a ‘far vedere’  quello che un largo pubblico si limita normalmente e nel migliore dei casi a ‘guardare’ ”[651]. Il senso d’avventura era comunque  ben presente: “il rilevamento del Centro Storico di Bologna – proseguiva Monti – resterà certamente una esperienza unica della mia professione di fotografo; solo una città così sensibile ai problemi urbanistici, e quindi umani, poteva darmi questa grande occasione, venuta dopo anni di esperienze varie, ma sia pure in diverso modo, quasi tutte convergenti a questo ultimo fine: la fotografia di architettura e di ambiente. Quando se ne parlò la prima volta, continuava a sembrarmi un progetto quasi impossibile. E anche dopo il saggio di rilevamento (…)  e persino dopo la Mostra campione a Palazzo d’Accursio, questa possibilità di lavoro non prendeva dentro di me il peso delle cose concrete, da farsi.” Al suo compimento quella campagna documentaria costituì  “la più straordinaria operazione di censimento fotografico che una città italiana abbia mai registrato”[652], segnata da “un ritmo espressivo che non soffre delle accentuazioni tecnicistiche così consuete al fotografo ‘artista’, ma pare davvero  un sensibile diaframma interpretativo fra l’immagine reale e l’obiettivo che scruta. Un diaframma che, necessariamente, ha il nome di lettura critica e storica della complessa città in cui viviamo”[653].  Aderendo alle intenzioni dei committenti, quelle fotografie non si limitavano a mostrare lo stato attuale e come temporalmente  ‘sospeso’ (ma non  astorico) di quei luoghi, ma ne prefiguravano il possibile assetto futuro, divenendo così contemporaneamente rilievo e progetto della città:  “Le foto riproducono quanto si può cogliere (vedere) osservando direttamente i luoghi fotografati ma, nello stesso tempo, indicano il possibile assetto futuro di quegli stessi luoghi”[654], scriveva Cervellati.  Da qui la scelta ideologica di Monti, e dei suoi committenti ancor prima, di escludere dalle proprie riprese non solo quei brani di città moderna e contemporanea che non potevano appartenere al progetto ma anche le presenze occasionali, le azioni contingenti, tanto da restituire l’immagine di una città vuota. Vuota come  la Parigi di Atget letta da Walter Benjamin: “Tutti questi luoghi non sono solitari – aveva scritto  – bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”[655].  Non si trattava infatti di realizzare un reportage sulle condizioni di vita nella città, ma un rilevamento del contesto urbano e architettonico, secondo un’intenzione che avrebbe informato di lì a poco – pur con motivazioni in parte differenti – anche il progetto poi non realizzato di Ugo Mulas di un “archivio per Milano”. “Quello che vorrei fare – scriveva Mulas – è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci colpisce di più quando entriamo in un luogo, è il fatto che esso sia frequentato, è la gente. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse, che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo città, una struttura inarticolata, che porta una folla anonima, che si ricambia ogni giorno, che ogni giorno passa, che ogni giorno è destinata a passare”[656]. Già all’epoca molti criticarono quei censimenti fotografici[657],  ma la mostra del 1970 a Palazzo d’Accursio ebbe 200.000 visitatori stupefatti nel vedere le loro case “trasformate in monumento”, innescando così un processo culturale nel quale alla fotografia e a ciascuna delle fotografie nel loro insieme era assegnato il ruolo di “agenti di storia”, con il compito di sollecitare la presa di coscienza (dei luoghi, dei loro valori storici, delle loro potenzialità) da parte di abitanti e osservatori, innescando così delle reazioni, e quindi delle azioni, che altre modalità di comunicazione non sarebbero state in grado di ottenere. Una funzione analoga a quella adottata anni dopo da progetti di altrettanto ampio respiro quali la DATAR francese o l’Archivio dello spazio della Provincia di Milano, sebbene a partire da presupposti profondamente diversi e contrastanti, incentrati sull’interpretazione autoriale.  Anche nel più circoscritto ambito della cultura fotografica italiana molti non compresero (e ancora accade) le ragioni  e le conseguenti specificità  di quel progetto. Così, oltre a rimarcarne la presunta “atemporalità” (ciò che pare quantomeno improbabile trattandosi di fotografie) o lamentando la riduzione della scena urbana a una “scenografia teatrale”[658], sulla scia lunga di antiche considerazioni di Italo Zannier non pochi commentatori hanno creduto di poter riconoscere in Monti  “il più moderno interprete della tradizione degli Alinari”[659], ribadendo anzi che  “da questo punto di vista, il caso del rilievo (…) per il piano di Bologna nel 1969 risulta paradigmatico. Nonostante la raffinata cultura visiva del fotografo e l’articolato quadro teorico del progetto, la reinvenzione di un centro storico senza storia ottenuta mediante la materiale obliterazione del rumore visivo della città contemporanea costituì di fatto un ritorno all’ordine della tradizione Alinari”[660].  Doppio piano di incomprensione si direbbe,  poiché il programma (commerciale e culturale) della ditta Alinari (a sua volta interpretato come monolitico, ciò che di per sé già costituisce un evidente stereotipo storiografico) è letteralmente incommensurabile col progetto (culturale e politico) emiliano, ma anche perché  nello specifico di quegli interventi non vi fu né una selezione di emergenze significative né alcuna “materiale obliterazione”, come del resto mostrano esplicitamente le immagini esposte e pubblicate in Bologna Centro Storico.  Anche nel considerare le modalità narrative il paragone con quell’ingombrante antecedente storico non regge, essendo il lavoro di Monti strutturato per “serie e sequenze nelle quali l’intenzionalità discorsiva del fotografo [è] leggibile con un minor grado di soggettività” [661]. Anzi fu  proprio quella rinuncia, adottata “con grande modestia, alla sua inesauribile creatività visiva”[662],  quel suo “nuovo, definitivo abbraccio alla realtà … condotto deliberatamente ‘senza stile’. Un estremo atto di vita, piuttosto”[663],  a segnare i rilevamenti fotografici emiliani “recuperando l’understatement dello stile documentario e la dimensione progettuale del lavoro”[664]; qualcosa che risuonava anche nella poetica di un autore per certi versi tanto lontano quanto Walker Evans, che ricercava “la non-visibilità dell’autore, la non soggettività. Questo è applicabile alla lettera al modo in cui io voglio usare e uso la fotocamera”[665]. Nell’impresa bolognese si trattava semmai di intendere la  fotografia  “come memoria attiva, strumento di democratica gestione della città. Le indagini compiute da Paolo Monti in più di un centro della regione  – ha scritto Massimo Ferretti[666] –  prima di rilevare inedite visuali e aspetti segreti riscoperti nella città deserta, suggeriscono un diverso modello di presenza, una riappropriazione collettivamente possibile; costituiscono una memoria che non è nostalgia, ma coscienza, attenzione, volontà di decidere.”  Ciò che mi pare da molti non sia stato colto è proprio il ruolo di pubblico servizio svolto da Monti, la sua organica adesione ai principi di quel progetto urbanistico. È la validità di quello e della connessa “escalation culturale e soprattutto politico-culturale”[667] che ne conseguì  a dover essere eventualmente rimessa in discussione criticamente e storicamente, non le  pratiche fotografiche che coerentemente ne derivarono. Certo ne sortì un “ingente repertorio di immagini, che mostrava una città monocroma pietrificata nel tempo, in una manifestazione quasi metafisica di spazi architettonici e complesse strutture urbane”[668], ma quelle sequenze di immagini, lontane dal voler celebrare “l’immagine nostalgica di una città non toccata dalla modernità, piena di segreti nascosti e di sorprese architettoniche, una città che solo lo sguardo del flâneur poteva apprezzare appieno”[669], erano funzionali allo scopo non solo di rilevare ma anche e forse soprattutto di rivelare le potenzialità dell’intervento conservativo a scala urbana.

Quella modalità descrittiva venne adottata anche in altre campagne coeve, come quelle del 1970 dedicate a Tarquinia e alla Tuscia romana[670], ma producendo esiti differenti; ciò che  mostra quanto potesse mutare il senso del procedere narrativo in relazione al progetto ed eventualmente al contesto editoriale. Qui la ricercata assenza di persone e di segni della contemporaneità produceva infatti una  indeterminatezza del tempo della ripresa, uno sguardo che diremmo anacronistico, che richiama quello dei pionieri della fotografia di architettura (Tuscania. Chiesa di San Pietro, novembre 1970, tav. 232), mentre la modernità dello sguardo si rivelava solo in qualche bell’episodio come la ripresa della Loggia del Palazzo Papale a Viterbo[671] . La consolidata collaborazione con Anna Maria Matteucci, che aveva fatto parte dei gruppi di lavoro delle Campagne di rilevamento promosse dalla Soprintendenza bolognese nel 1968-1970, segnò altre produzioni di quel decennio, che si concluse con la realizzazione dell’apparato fotografico per il volume dedicato nel 1979 ai Palazzi di Piacenza[672]. Come in altre occasioni analoghe a Monti vennero affidate le riprese in bianco e nero mentre quelle a colori erano di Antonio Guerra,  a sua volta conosciuto nel corso delle campagne promosse dalla Soprintendenza alle Gallerie di Bologna. Questo lavoro  apparteneva per committenza,  intenti e modi a  un universo lontano dagli altri progetti di quegli anni, consentendo forse una più ampia libertà d’azione specie nel confronto con gli spazi barocchi (Palazzo Baldini-Radini Tedeschi, la scala, tav. 233; Palazzo Anguissola d’Altoè, la scala, tav. 234)[673] che generava una  qualità interpretativa sovente valorizzata dall’impaginazione delle fotografie a piena pagina. In occasione del suo ultimo rilevamento Monti sarebbe poi  tornato a confrontarsi con le proprie radici, lavorando nella zona compresa tra Lago d’Orta, valle Strona e Ossola Inferiore per incarico della Fondazione Arch. Enrico Monti, con  sede nella sua Anzola, e in particolare del suo direttore scientifico Enrico Rizzi. Un’iniziativa che si poneva nel più ampio contesto di un programma regionale che prevedeva il “censimento del patrimonio storico, artistico, archivistico, iconografico e bibliografico cosiddetto minore e attinente la storia locale, l’etnologia, le tradizioni popolari, il recupero e la catalogazione del patrimonio fotografico locale inteso come bene culturale”[674]. Parte di quelle immagini venne pubblicata postuma in due volumi[675] segnati da un forte senso di heimat,  di sentimento del luogo originario, nelle quali Monti adottava registri diversi restituendo in modo rigoroso il dialogo tra architettura e ambiente naturale (Sacro Monte di Orta, Madonna del Sasso a Boleto) o rilevando le dense qualità materiche di vecchi tronchi e antiche case, ma concedendosi anche qualche veduta di gusto più oleografico, quando non elegantemente fotoamatoriale  (tav. 235)[676].  Ciò che più sorprende in Monti, e certo non è scoperta nuova, è la sua capacità di rendere le architetture riflettendo ogni volta sulle loro specifiche caratteristiche storiche e stilistiche, instaurando ogni volta un confronto vero, che rifiutava l’applicazione meccanica e stereotipa di formule prestabilite. Forse potremmo dire, osando un piccolo gioco verbale, che Monti non è stato fotografo di architettura ma di architetture: da Brunelleschi e Codussi alle case dell’Appennino e dell’Ossola, passando per Procida. Architetture ogni volta diverse, fotografie ogni volta differenti.

Gli esiti di quelle campagne di rilevamento vennero ampiamente pubblicati ed esposti in quegli anni ma  non sappiamo dire se e in quale misura influirono sulle politiche urbanistiche e sulla stessa percezione dei luoghi da parte dei loro abitanti, se non – almeno in parte – per quelli emiliani. Certo è che in ambito strettamente fotografico  costituirono un modello senza immediate filiazioni o eredità[677], specie per quanto riguardava la disponibilità del fotografo a porsi al servizio di un progetto pubblico rinunciando a lasciare ogni volta la propria riconoscibilissima impronta autoriale. Su questa soluzione di continuità influirono certo i profondi mutamenti di orizzonte politico e culturale che hanno segnato il passaggio agli anni Ottanta[678] e  il faticoso emergere, anche in Italia, di una connotazione del ruolo e della figura del fotografo che si avviava a caratterizzarsi  per una sua elevata riconoscibilità in termini culturali e commerciali, mercantili. Qui – credo – in questa ostinata e meritoria ricerca di affermazione culturale delle generazioni successive va cercata la causa primaria di quelle mancate filiazioni; nel rifiuto di quell’apparente anonimato fotografico  e non certo nell’emergere di “una nuova generazione di fotografi che si confrontava con la realtà nella prospettiva dell’attivismo politico, dell’intervento partecipato, dell’urbanistica dal basso, della contaminazione fra rurale e urbano”[679].

Le frequentazioni bolognesi di Monti datavano dai primi anni Cinquanta, segnate dai rapporti di amicizia e collaborazione coi membri del Circolo Fotografico Bolognese, e in particolare con Giulio Parmiani[680], ma le relazioni avviate nel decennio successivo, in primis quella con Andrea Emiliani[681], gli offrirono importanti  occasioni di intessere nuovi rapporti personali e professionali, che si tradussero quasi in un radicamento bolognese del fotografo. Così dalla collaborazione con la Galleria de’ Foscherari  nacquero rapporti duraturi con artisti quali Luciano de Vita[682] o Germano Sartelli, per il quale realizzò la documentazione delle opere presentate in galleria nel 1969 e ancora nel 1974. In quei lavori ritrovava suggestioni (in)formali più che evidenti, tali da trarre in inganno anche un occhio criticamente esercitato come quello di Carlo Bertelli, che presentando l’opera del fotografo confuse la riproduzione di un’opera di  Sartelli (tav. 236) con “quella che sembrerebbe una fotografia dello stesso Monti ingrandita e chiusa in un telaietto di legno. La fotografia incorniciata ritrae un groviglio di reti e una penna caduta a un uccello, ma l’effetto di superficie è tale che di primo acchito penseresti piuttosto di trovarti di fronte a una combustione di Burri. L’ambiguità è data dalla fotografia che ritrae un’altra fotografia, evidenziandone la collocazione sulla parete come un quadro”[683]. Anche nell’attività didattica, dopo le esperienze alla Scuola del Libro dell’Umanitaria di Milano coordinata da Albe Steiner intorno alla metà degli anni Sessanta[684], la stagione bolognese si rivelò importante. Così dopo l’incarico all’Accademia di Belle Arti, dove tenne il corso di Tecnica della Fotografia dal 1969 al 1971, venne chiamato da Ezio Raimondi al  neonato DAMS[685] per insegnare  Tecnica ed estetica della fotografia, partecipando anche  ai seminari  interdisciplinari di Museologia e Urbanistica con Emiliani e Cervellati.  “Una proposta formativa innovatrice che tuttavia non ebbe lunga durata”[686],  così come la complessiva esperienza universitaria di Monti che si rivelò frustrante a causa della mancanza di condizioni  organizzative e culturali  sufficienti a svolgere correttamente l’insegnamento, tanto da portarlo alla rinuncia all’incarico nel 1974, consigliando di assumere Zannier,  “cosa che fu accettata e che mi ha fatto molto piacere perché mi fido molto di questo amico”[687]. A testimoniare il suo impegno per la didattica restano una serie di appunti e i numerosi volumi oggi presenti nella sua biblioteca, con date di edizione comprese in quell’arco di anni[688];  un insieme che costituisce un quarto del suo intero patrimonio librario. Tra le note di lavoro è di particolare interesse un dattiloscritto del 1971 nel quale precisava la sua intenzione di articolare il corso in due parti, “la prima come tecnica della ripresa, sviluppo e stampa della fotografia e la seconda (…) sulla fotografia come linguaggio, anche attraverso il suo sviluppo storico e le sue implicazioni sociali”[689]. Questo interesse per temi di storia della fotografia, quale risulta anche da numerosi puntuali riferimenti sparsi nei suoi scritti e che avrebbe preso forma in un progetto editoriale per Electa  specificamente dedicato alla Storia della Fotografia in Italia [690], costituiva un segno concreto dell’accrescimento dell’attenzione culturale per il tema (e per il patrimonio) che si era faticosamente fatta strada in una cultura (non solo fotografica) come quella italiana a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, quando un critico militante come Zannier poteva ancora ironicamente scrivere di “quelli che si sforzano di riesumare fotografi ‘primitivi’, i quali d’altro canto possono interessare solamente un amatore d’anticaglie o, al massimo, uno studioso di tecnica fotografica”[691]. L’implicito riferimento a Lamberto Vitali era tanto evidente quanto critico e tragicamente anacronistico, ponendosi alla soglia della tappa milanese della mostra dedicata a  Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[692] nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957. Richiamando la mostra e confutando indirettamente quelle posizioni Piero Racanicchi si lamentava invece “di come, a diecine di anni dall’avvento della fotografia in Italia, si vada perdendo una documentazione fotografica nazionale la quale, oltre agli innegabili interessi artistici, di costume e tecnici, sarebbe di indiscutibile aiuto nella ricostruzione della storia della nostra fotografia, dalla sua nascita ai tempi odierni. La raccolta di antiche foto, allestita in appendice alla Collezione Gernsheim, nella recente Triennale, a cura di Lamberto Vitali, ha dimostrato chiaramente come vi sia per noi l’effettiva possibilità di intessere un discorso storicamente compiuto sulla fotografia italiana. Una fototeca ove esistesse, sia in forma di Mostra permanente (…) che di archivio, darebbe l’avvio a una revisione e ad una interpretazione storico-critica di tutto il ciclo della nostra fotografia, determinando una fioritura di studi e di interessi di cui oggi, non si può non avvertire la mancanza”[693]. In quel clima di nascente attenzione per la storia della fotografia e in un contesto come quello milanese che costituiva il centro più vivo della nuova cultura fotografica italiana[694] si muoveva Monti, ricevendone stimoli e suggestioni che molto avrebbero contribuito a precisare la sua sensibilità per le questioni storiche, nutrita anche – come si è visto – dalla conoscenza diretta di fondamentali testi della nuova storiografia quali Apologia della storia  di  Marc Bloch. Della necessità di porre in prospettiva storica i propri contributi critici, con costanti richiami ad autori storicizzati si trovano tracce già in uno scritto del 1955[695] per farsi poi sempre più articolati negli anni successivi, come in quello già ricordato relativo all’attività professionale in Italia[696], accompagnati da una crescente consapevolezza della fondamentale importanza di questo patrimonio storico, poiché “negli archivi immensi da cui sono state estratte queste immagini giacciono i documenti per gli storici futuri”[697]. Il progetto per una Storia della Fotografia in Italia dal 1839 al 1939, databile alla  fine degli anni Settanta se non addirittura ai primissimi anni di quello successivo,  venne redatto per Electa, la casa editrice che costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente di iniziative concentrate nell’anno 1979[698], in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali del crescente interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o dagli esiti di eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del  SICOF – Salone Internazionale di Cine Ottica Foto.  Per quanto possa apparire singolare che tale progetto storiografico fosse affidato a un fotografo, ne vanno segnalate alcune peculiarità che sembrano dovute proprio alle particolari competenze del curatore, quali l’intenzione di riprodurre le stampe “nel colore originale del tempo – seppia – seppia oscura – bianco e nero freddo e b/n caldo – ecc. (…)  in modo da rispettare i valori tonali delle opere originali” [699]  per assicurare “il carattere di autenticità dell’immagine”, vale a dire la sua apparenza materiale di oggetto e non solo il suo contenuto iconico. Altrettanto interessanti le implicazioni storiografiche sottese al titolo: “La ragione delle parole (…) «in Italia» è causata dal fatto che non vogliamo ignorare l’influenza dei fotografi inglesi e francesi che hanno esercitato la loro professione in Italia” scriveva Monti introducendo una precisa distinzione, quasi polemica, rispetto al titolo della grande mostra fiorentina (poi veneziana) del 1979 dedicata alla fotografia italiana, che pure aveva ospitato esemplari di quegli autori. L’attenzione avrebbe dovuto estendersi “dalla fotografia archeologica a quella di montagna, dalla foto di costume alla fotografia scientifica, dal ritratto alla foto di guerra (dalla Tripolitania alla 1a guerra mondiale). In altre parole, dalla fotografia come fatto estetico alla foto come documento (di cronaca, scientifico ecc). Questo piano di lavoro comporta una seria ricerca in Italia e all’estero sia delle opere che dei diritti di riproduzione, sia delle fotografie professionali che amatoriali.” Un progetto ambizioso, che per estendersi sino ai primi decenni del Novecento consentiva a Monti di ribadire ancora una volta il ruolo svolto dalla fotografia amatoriale (e  non solo nella contemporaneità), convinto che “una storia della fotografia italiana non potrà farsi senza lunghe ricerche fra i vecchi archivi dei dilettanti: vedremo allora che oltre agli Anderson e ai Brogi, ai fratelli Alinari, c’erano molti altri fotografi che hanno lasciato le loro nitide tracce”[700].

 

 

NOTE

[1] #  Monti 1948. N.B. Il segno “#” anteposto alle intestazioni rimanda al repertorio delle  fonti archivistiche.

[2] Si veda più oltre nel testo.

[3] Quasi solitaria traccia visiva del Ventennio una piccola stampa relativa ai Littoriali della Cultura e dell’Arte nell’edizione romana del 1935 (tav.001).

I numeri di tavola  rimandano prevalentemente al repertorio catalografico consultabile all’indirizzo  http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=paolo+monti, che fornisce anche i dati relativi a materia e tecnica delle fotografie citate. Le eventuali differenze di definizione del soggetto e di datazione rispetto a quanto indicato nelle schede sono l’esito delle ulteriori ricerche condotte in questa occasione. Nei casi in cui l’immagine appartenga a un insieme più ampio  sarà possibile consultare le schede relative a quella specifica serie o servizio digitando la parola chiave nella schermata di ricerca del sito.  Si ricorda che nei casi in cui il rimando è costituito dal repertorio https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Photographs_by_Paolo_Monti  i negativi lì pubblicati sono stati invertiti per favorirne la leggibilità, vanno quindi considerati soprattutto per soggetto e matrice dell’inquadratura. Altri ulteriori rimandi si riferiscono a tavole illustrative redatte ad hoc che contengono i dati identificativi minimi di ciascuna immagine.

[4] Rizzi 2010. Dopo la morte del fotografo (29 novembre 1982), il 26 marzo1985 la Fondazione arch. Enrico Monti di Anzola, Enrico Rizzi e Giancesare Rainaldi acquisirono dalla vedova Maria Binotti l’intero archivio,  costituendo a Milano l’Istituto di Fotografia Paolo Monti, con cui collaborò anche Roberta Valtorta dal 1992 al 2000. Nel febbraio 2008 la Fondazione BEIC (Biblioteca Europea d’Informazione e Cultura) acquistò l’archivio Monti dall’Istituto depositandolo quindi presso il Civico Archivio Fotografico di Milano.  Nel 2008-2010, finanziato dalla stessa  Fondazione venne realizzato il  progetto di riordino, catalogazione scientifica e  digitalizzazione del fondo fotografico, coordinato da chi scrive e da Silvia Paoli, Conservatore del Civico Archivio Fotografico; cfr. http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/fondi?nome=Paolo%20Monti.

[5] Laguna di Torcello, “Ferrania”,  2 ( 1948), n. 10, ottobre, p. 11, tav. 002.

[6] Zannelli 2016.

[7] Arte 1947. A Max Huber, che già  nel 1942 aveva partecipato alla mostra Abstrakt+konkret alla Kunsthaus di Zurigo, vennero affidati la progettazione del catalogo e del biglietto di invito. Lanfranco Bombelli Tiravanti e Max Huber, con  Eugenio Gentili Tedeschi avrebbero poi curato l’allestimento della Mostra internazionale fotografica dell’architettura per l’VIII Triennale di quello stesso anno, mostra da porsi in relazione alla mancata partecipazione di Max Bill alla stessa Triennale; cfr. Fabbri 2009, in particolare alle pp. 70-75.

[8] Valtorta 2008, p. 70.

[9] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[10] Una sezione fotografica era presente già nelle precedenti edizioni monzesi, a partire dal 1925, cfr. Arte della fotografia 1927. Va comunque ricordato che la nuova sede di lavoro di Monti sarebbe stata Cressa, in provincia di Novara e quindi, dal 1936 nello stesso  capoluogo, ciò che avrebbe favorito le frequentazioni con Milano.

[11] Pelizzari 2011, p. 148.

[12] Nel 1934 Monti aveva convinto il padre all’acquisto della Rolleiflex.

[13] Herbert Rüedi (Berna 1888 – Milano  1949), attivo a Lugano sino al 1932 (lo studio sarà gestito dalla moglie Frida sino al 1936 per poi passare a Vincenzo Vicari), dove ebbe come assistente Walter Bosshard, fu autore di noti manuali dedicati alla pratica della fotografia in 35mm  (Come si lavora con la Leica. Milano : Stucchi, 1934; La fotografia e la Leica. Milano : Igis-Ind. Graf. Ital. Stucchi, 1938)  oltre che dell’apparato fotografico di numerosi volumi d’arte e di paesaggio, tanto che un suo Paesaggio, a colori, venne pubblicato in Scopinich 1943b, p. 124. Cfr. G. P 1949; per ulteriori notizie si veda Paoli 2016, p. 36 nota 5. 

[14] Paoli 2016, p. 36 nota 11.

[15] Schwarz 1978.

[16] Monti 1980b. Gli scritti di Monti sono stati successivamente raccolti in Bertolini 2004 e Valtorta 2008, a cui si rimanda solo nel caso di materiali precedentemente inediti.  Testimoniano quegli anni di apprendistato di Monti una serie di manuali tecnici ancora conservati nella sua biblioteca personale,  come quelli di Ornano 1945, Cuisinier 1949 e di De Zitter 1949 e i quaderni contenenti Appunti di lavoro e Appunti e formule conservati nel suo archivio (AM-FA, s.1, b.1, reg. 2; s.1, b.1, f.3).

[17] Nell’archivio de La Gondola si conserva  una fotografia di Torcello fatta da Monti e stampata da Gino Bolognini nel 1949; Morello 2010, p. 28.

[18] Manfroi 2005a.

[19] Monti 1979a. Leiss, tra i promotori della Sezione fotografica del “Centro Studi d’Arte Contemporanea di Venezia” avrebbe poi promosso la mostra di Monti alla Galleria Il Ponte, nel luglio del 1953.

[20] Si veda Leiss 1953 con testi di Jean Cocteau (L’autre face de Venise, ou Venise la gaie)  e di Filippo de Pisis (Venezia, o la consolazione della pietra).  Nelle Note tecniche (p. 115) che corredano il volume Leiss si dichiarava esplicitamente “nemico del ‘documentario’ “ nella buona tradizione dei bussolanti, e  semmai orientato “a realizzare la trasfigurazione della realtà” servendosi  però “di mezzi strettamente fotografici” e dichiarando – con un certo ritardo ideologico – di voler “rinunciare  deliberatamente ai processi interpretativi” tipici della produzione pittorialista per operare strettamente con le possibilità specifiche del mezzo (inquadratura, valori luminosi, scelta dell’obiettivo, profondità di campo e simili) , poggiando infine sul “carattere analitico” della fotografia. Segnalo qui che una Venezia scura e catramosa si trova in alcune immagini di un bussolante atipico come Mario Bonzuan (1904-1982,) quale Venezia triste, 1955 ca (in Zannier, Weber, 1997, p. 77).

[21] Quest’ultima categoria di soggetti godeva di una lunga fortuna fotografica, a partire almeno da Ongania 1889.

[22] Citato in Paoli 2016, p. 36 nota 11.

[23] Morello, 62.

[24] A quella corrispondeva l’apprezzamento per la “candida pulizia” delle stampe che vide nel 1934 (Monti 1957b; Paoli 2016, p. 14).

[25] Monti 1957b.

[26] Per la fotografia di Emanuel Sougez cfr. Sotheby’s 1999, lotto 267;  per Cesare Giulio cfr. Sul limite 2007, p. 143. Il Fotogramma di Franco Grignani è stato presentato da Bolaffi 2016, lotto n.67.

[27] “ Ambiguità della tecnica fotogr. moderna – lo sfocato il mosso la grana come garanzia di autenticità”, notava in una sua schematica serie di appunti della prima metà degli anni Sessanta, cfr. Monti s.d. [1965 ca].

[28] Le tre immagini, a suo tempo pubblicate in “Luci ed ombre”, sono state riproposte in Costantini, Zannier, 1987, pp. n.n.

[29] Romeo Martinez (1983), lo ricordava a un anno dalla morte come “Lettore accanito, la sua biblioteca è certo una delle più ricche d’Italia quanto alla storia della fotografia e più in generale dell’arte”,  ciò che oggi risulta difficile comprendere davanti a quelli che possiamo considerarne i resti. Alcune clamorose lacune fanno infatti supporre che il patrimonio librario a lui appartenuto sia stato ampiamente  depauperato, e forse non incautamente: basti pensare ai libri di Paul Stand, di cui sono presenti La France de profil (1952) e Paul Strand: a retrospective monograph. The years 1950-1968 (1971), ma non Un paese (1955), di cui pure ebbe modo di analizzare criticamente le ragioni dell’insuccesso editoriale (cfr. Dal Bo [1981]1997). Nella stessa occasione Martinez aveva ricordato l’ammirazione di Monti per “Werner Bischof, fotografo che stimava molto, di cui raccolse tutti i libri”, dei quali però oggi rimane solo la tarda e striminzita antologia di Flüeler 1973.

[30] In Scopinich 1943b, p. 204. Segnalo che in De Seta 1979, p. 148 questa fotografia è indicata – credo correttamente –  come “Procida (vuoti e pieni, ombre e volumi luminosi), vol.34, n.44”; come in tutto quel volume, le immagini sono prive di qualsivoglia indicazione cronica ma si può supporre che essa sia stata realizzata entro il 1936, durante le campagne fotografiche dedicate all’architettura rurale italiana.

[31] Scopinich 1943a.

[32] Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943, p. 7 passim; i concetti fondamentali sarebbero stati ripresi in Vannucci Zauli 1945.

[33] Citato in Colombo C. 2003, pp. 3-4.

[34] Quell’impresa editoriale venne richiamata nello stesso manifesto de La Bussola, ricordando che  il gruppo non intendeva limitare la propria “attività ad una platonica affermazione culturale di principio, ma hanno in animo di esplicarla anche con mostre collettive in Italia e fuori, e con pubblicazioni affidate ad editori importanti. Come la recente collana «IMMAGINI» che ha incontrato largo favore nel pubblico e, ciò che più importa, ha suscitato interesse nei circoli della cultura e dell’arte; collana nata, appunto, dalla iniziativa di alcuni componenti del gruppo.”, Cavalli et al. 1947.  Zannier 1997 collocava invece al 1950 la data di pubblicazione della serie, considerandola quindi erroneamente come un esito e non un antecedente dell’attività de la Bussola e non comprendendo che l’ultimo fascicolo non conteneva solo immagini di Finazzi.

[35] In un suo repertorio di Foto per Mostre e Pubblicazioni (# Monti 1950ca) tra i soggetti elencati (“architettura, paesaggi, composizioni, riflessi, ritratti”) etc. compariva anche “toni alti”, inteso quindi come categoria in quanto tale, indipendentemente dal  soggetto ritratto. Ricordiamo che proprio i riflessi, insieme alle “pecore al pascolo” erano considerati tra gli esempi più diffusi di quel “cattivo gusto fotografico” proprio del “tradizionale romanticismo” foto amatoriale condannato da Scopinich 1943a, p. 8.

[36] Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943, p. 106.

[37] Cavalli et al. 1947.

[38] Un critico e amico come Antonio Arcari avrebbe poi addirittura negato quelle influenze.  Nel fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”, Arcari 1983, p. 5.

[39] Monti 1979c, p.6.

[40] Essendosi stabilito a Venezia solo nel 1945 forse non ebbe modo di vedere la prima mostra personale di un fotografo tenutasi in città, alla Piccola Galleria di Roberto Nonveiller, aperta nell’aprile del 1944 e dedicata a Leiss, ma certamente vide la successiva mostra di questo autore, alla Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo, nel 1951 (25 aprile – 4 maggio), preceduta nella stessa sede da quella dedicata agli autori de La Bussola (dal 14 al 24 aprile), mentre nessuna iniziativa venne dedicata a La Gondola. Solo nel 1953 (7-16 febbraio) la galleria ospitò  Toni del Tin, Mario Bonzuan e Leiss , cfr. Morucchio 1953a.  Il regesto complessivo delle mostre è consultabile all’indirizzo https://edizionicavallino.it/pages/galleria_cavallino/cardazzo_cavallino_1950.html (25 11 2020).

[41] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[42] Morello 2010, p. 70.

[43] Moholy-Nagy 1947b, basato essenzialmente sulla sua docenza statunitense, mentre il precedente Moholy-Nagy 1947a, rimandava ai corsi Bauhaus.

[44] Moholy-Nagy 1947b, fig. 233. Levstik (1908-1975), era il tecnico di laboratorio del Light and Advertising Workshop della School of Design di Chicago, coordinato da  Georgy Kepes, nel quale i  primi esercizi assegnati agli studenti riguardavano proprio l’esperienza fondamentale del fotogramma, cfr. Orosz 2019.

[45] La fotografia, già pubblicata in un numero de “La lettura del medico”, edita dai Laboratori Biochimici Fism del 1949,  venne premiata al concorso indetto dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo nel gennaio 1950, cfr. Verbale 1950. In giuria, accanto a Tito Legrenzi, Consigliere delegato dell’Istituto, sedevano Federico Vender e Mario Finazzi. Il primo premio assoluto fu assegnato a Luigi Veronesi (vincitore anche di un premio del “Gruppo industriale”), per Biancheria al sole; tra gli altri premiati Giuseppe Cavalli, Emanuele Cavalli, Fulvio Roiter e Riccardo Moncalvo, al quale vennero assegnati ben tre premi per il “Gruppo industriale”.

[46] Monti 1955c. Il breve testo venne riproposto anche in occasione della monografica genovese del 1956 (Panorama 1956, con elenco delle opere esposte) e della collettiva del 1957 a Senigallia (Monti 1957c).

[47] Luigi Comencini, Attesa;  Giuseppe Vannucci Zauli, Solitudine, in Scopinich 1943b, p. 175 e p. 182.

[48] Finazzi 1942. Franchini-Stappo indicava poi quali fossero i “tre aspetti dell’immagine [che] reputo siano di capitale importanza: «l’illuminazione», variando la quale un identico soggetto può suscitare impressioni diversissime (e dunque è necessario che l’autore «senta» che solo con quella illuminazione «vive ed esiste» il soggetto nell’ambito della sua concezione); la «resa», vale a dire l’atmosfera che, con i mezzi tipici della fotografia, si vuole creare attorno al soggetto trattato; infine – fattore squisitamente fotografico – «il momento». È certo che con queste abbastanza ingenue indicazioni non si comincia neppure a risolvere il problema di giudicare una fotografia sul piano estetico; esse tuttavia aprono una possibile strada.”

[49] Alberto Lattuada, Prefazione, in Lattuada 1941, p.n.n. Monti era lontano da “Corrente”, da quella cultura e dalla rivista omonima, sulla quale Giulia Veronesi aveva recensito America Photographs di Walker Evans (2 (1939) n. 19, 31 ottobre), cfr. Sabastiani 1998, p. 52.

[50]  “l’inévitable période des interrogations et des tâtonnements”,  Martinez 1956a.

[51] FIAF 1949, che costituiva il “Catalogo” della mostra. L’opera di Monti non venne né pubblicata né premiata.

[52]  Paoli 2016, p. 38, nota 35.

[53] Masclet 1949, che si richiamava alla “grande tradizione dei D.O. Hill, Streglitz [sic], Renger-Patzsch, Nadar, Guido Rey e Weston”. La stima di Masclet per Rey è confermata dalla dedica autografa posta in antiporta a una copia de  La beauté 1933.

[54] La prima venne esposta nel 1953 alla Internationale Fotoaustellung Bochum, alla quale Monti partecipò come membro de La Gondola; della seconda si conserva in archivio (AM-FF, S.021.34.06_06) una variante di stampa di diverso formato, con inquadratura più ampia in alto, datata 1951 e intitolata Paesaggio innevato.

[55] Lettera a Ferroni datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 105.

[56] Lettera a Ferroni datata 28 11 1954, citata in Morello 2010, p. 107.

[57] Più altra dello stesso titolo pubblicata in Turroni 1959, t.155, ma va considerata anche  Abstraction, 1949, pubblicata in  Zannier 1986a, p. 54, ma di datazione incerta, tant’è che nel testo è indicata  “1947”, sebbene debba essere verosimilmente più tarda. Si veda infra Nota 338.

[58] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point: its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality  was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For techical data,  the camera was faithfully used.”, White 1950, traduzione e corsivo di chi scrive. Il fotografo americano era quasi sconosciuto in Italia ma ben presente sulle pagine di “Photography Annual” e nelle esposizioni della Subjektive Fotografie. Risaliva al dicembre del 1957 un contatto epistolare tra i due, cfr.  Zannelli 2016, p.78, 88 nota 32.

[59] Abstraction – lines, 1928, gelatin silver print, 37.8 × 28.1 cm, un fotogramma oggi conservato nelle collezioni del Getty Museum di Los Angeles, inv. 84.XM.1000.64.

[60] Si veda ad esempio Wire Sculpture, 1946, pubblicata in Moholy-Nagy 1947a, p. 87.

[61] “Il fatto che sia, in un certo modo, impossibile parlare di fotografia astratta senza cadere in contraddizioni (…) non ci deve impedire di accostarci a questo ambito particolare”, Monti 1964a.

[62] Un metro metallico con analoga configurazione ma con ovvio trattamento grafico sarebbe stato utilizzato alcuni anni dopo da Albe Steiner per il pieghevole della mostra L’estetica nel prodotto, 1953  (1954a).

[63] Mi riferisco a una prova imbarazzante quale il ritratto in doppia esposizione, 1950 ca (AM-FF, RC 2906)  visibile all’indirizzo https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Maria_Elvira_Cocquio_photographed_by_Paolo_Monti#/media/File:Paolo_Monti_-_Serie_fotografica_(Anzola_d’Ossola,_1950)_-_BEIC_6336955.jpg.

[64] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. La vicenda presenta più di una qualche analogia con quella di Alfred Stieglitz che per più di un decennio a partire dal 1911 ca fotografò la nipote Georgia Engelhard (1906 –1986), figlia di George e di Agnes Stieglitz, la sorella più giovane del fotografo, cfr. Herbert 1996.

[65] Cavanna, Paoli 2016, t. 60.

[66] Ed anche La finestra di Poe,  “Ferrania”, 7( 1953), n. 11, p. 7.

[67] Lettera di Monti a Martinez datata Milano 26 luglio 1956, conservata alla Bibliothèque Roméo Martinez della Maison Européenne de la Photographie  di Parigi.  Ringrazio Silvia Paoli per avermela fatta conoscere al tempo della redazione del catalogo.

[68]  “les variations dans le temps sur un sujet unique qu’est la série des portraits de Mariel est un acte photographique dont l’accomplissement témoigne des concepts visuels et suit de près l’évolution d’un photographe que nous tenons en haute estime.”, Martinez 1956a.

[69]  “en dominer le cours ou au moins en ralentir la marche (…) un témoignage affectueux de ces moments d’ineffable attente” ;  un “essai photobiographique d’un visage féminin et de ses aspects dans le temps. Un peu à la manière d’un paysage dont on aurait photographié les variations saisonnières à des heures et des lumières différentes.”,  Monti 1956. Una fotografia di questa serie era già comparsa sulla copertina di “Ferrania” del settembre 1954 (Monti 1954b).

[70] Morucchio 1956a, dove era pubblicato anche un ritratto di Meme che, in una sua variante, sarebbe poi stato utilizzato da Albe  Steiner per illustrare la copertina di Solinas Donghi 1959.

[71] Turroni 1959, pp. 47-48.

[72] Portoghesi 1979.

[73] Monti, in Dal Bo [1981]1997.

[74] Trincanato 9148. L’attenzione per l’architettura minore veneziana era già ben presente in Bettini 1953, scritto però  nel 1940.

[75] Dopo l’ampia produzione cinematografica di argomento veneziano realizzata a partire dalla metà degli anni Trenta, Pasinetti si sarebbe avvicinato alla fotografia progettando nel 1943 una guida fotografica della città. Quel progetto non vide la luce ed è stato solo recentemente edito per la cura di Alberto Prandi e Carlo Montanaro (Pasinetti 2017), ma molte di quelle fotografie vennero pubblicate in TCI 1947.

[76] Presidenza del TCI, Prefazione, in TCI 1947, pp. 3-4.

[77] Ricordo che nel 1951 (18-31 luglio) si era tenuta a Venezia,  nella Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, La Mostra Nazionale del paesaggio veneziano e lagunare, che certo poteva aver costituito occasione di produzione e confronto su questo tema; tra i partecipanti anche Giuseppe Cavalli, Ferruccio Leiss e Gualberto Davolio Marani.

[78] Strutturalmente più semplice la variante di ripresa pubblicata in Chiaramonte 1993, fig. 34 come Sestiere Castello, s.d., tav. 040.

[79] Muro a Milano, 1954 appartiene alla stessa serie di Ricordo del 1943, 1950 (?) (Chiaramonte 1993, fig. 40); Cardo sulle rovine, 1954 ante (tav. 044), che è variante della ripresa di tav. 045,  indicata come Muro a Treviso, 1949 in Zanzi 2012, p.166. Si veda anche l’ulteriore variante di tav. 046.

[80] Pike 1947; Bovis 1948; Lorelle, Langelaan 1949.

[81] “Nor must we overlook that the operator’s success largely depends upon his taking his shot at the moment when the interest of the scene culminates. This is not a matter of lucky chance, but of artistic skill which is the outcome of synthetic effort.”, Natkin 1948, p. 12.

[82] Paolo Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[83]  Ronis 1951; Windisch 1951; ricordo che questo autore era stato il curatore della prima edizione di  « Das deutsche Lichtbild » (1927).

[84] Izis 1950; Izis  1951.

[85] Ylla 1950a; Ylla 1950b;  Ylla 1952; Ylla 1954.

[86] Steinert 1952; Steinert 1955; I lavori del fotografo tedesco del resto erano ben noti anche per le numerose presenze in varie esposizioni italiane a partire almeno dal 1949, cfr. Eskildsen 2000.

[87]  Etienne 1952. Paul Etienne, detto Paul Serisson, fotografo e grafico legato al “Groupe Espace”, fondato nel 1951 da Félix Del Marle e André Bloc.

[88]  “de présenter […]dans une Revue de défense de l’art non-objectif, une image qui voudrait être originale et qui soit le fidèle reflet des possibilités actuelles de la photographie en dehors de certaines ‘cuisines’, telles que surimpression ou photogrammes, lesquelles prétendent atteindre le subjectif par des moyens un peu faciles,”, citato in Girieud 2011, p. 146, corsivo di chi scrive.

[89]  Nel 1949 Il Circolo Fotografico Milanese aveva dedicato una mostra a Daniel Masclet; il suo Omaggio a Edward Weston, pubblicato  nel  numero monografico di “Art d’aujourd’hui” dell’ottobre 1952, poi in “Diorama”, 6 (1956), n. 8, marzo-aprile, p.30, presenta forti analogie con Finestra di Campo del Milion, 1949, di Monti (AM-FF,E063.25.02_02).  Più stringente il rapporto tra l’immagine di copertina di “Art d’aujourd’hui”, ancora firmata Masclet, e certe riprese più tarde di Monti dedicate al tema della mano (e del pugno), cfr. Ansia e aggressività 1971, p. 71.

[90] Internationale Ausstellung 1929.

[91] Il solo possibile confronto coevo, sebbene su scala più ridotta, è costituito da Boni 1944, che offriva al ristretto pubblico della collana diretta da Enrico Prampolini, oltre a quelle dell’autore, anche fotografie di Drtikol, Moholy-Nagy, Weston, Man Ray e altri, ma un significativo antecedente – almeno sul piano critico – può essere individuato  nel contributo pubblicato su “Emporium” da Lo Duca 1939.

[92] Mollino 1949, p. 122 nota 27. In particolare si direbbe che la selezione di fotografie di Erwin Blumenfeld avesse (anche) come bersaglio polemico l’opera di Mario Finazzi.

[93] Schwarz 1978.

[94]  Monti 1979b.

[95] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite; a questo proposito mi permetto di rimandare a Cavanna 2012.  Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; Tagg 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso si veda  Liégard  1905.

[96] Emiliani 1983, p. 13.

[97] Potrebbe essere letto in tal senso quel riferimento alla “sua cruda espressione intellettiva, difesa forse al dolore che investe qualsiasi aspetto della vita”, formulato da Morucchio 1956b.

[98]  La prima pubblicazione risulta essere stata su “Diorama”, 1953, n. 3, maggio-giugno, p. 6  come L’Angelo a Venezia (1951), poi in “Fotografia”, 1955, n.5, p. 17 come quindi in Pollack 1959, p. 629, come La gondola della morte, 1956, e ancora come La morte a Venezia nella versione presentata in una serie di mostre del 1956 (a Genova, n.31);  poi come Un angelo è sceso a Venezia in  Gerbi, Polastri 1960, t.38. In realtà le varianti del titolo (l’indicazione manoscritta “L’angelo della morte. 1951” al verso di AM-FF, 6342929 è di attribuzione incerta) corrispondono a due significative varianti di ripresa che si distinguono per la differente contestualizzazione del soggetto principale, cfr. Zanzi 2012, p. 237. Un’ulteriore variante, certo meno efficace e drammatica, venne pubblicata (e non per caso) in Chiesa Butazzi 1974, p. 95 (tav.  050).

[99] Monti 1979a; per il commento si veda Morello 2010, p. 70.

[100] Bellavista fu anche il titolare dell’agenzia fotografica Studio Sigla, presso cui ebbe il primo impiego Cesare Colombo (Colombo, Guerra, 2014, p. 18).

[101] Fiori mossi, 1952, tav. 051Movimenti , 1955-1960, tav. 052; Composizione fotografica, 1957-1961, tav. 053.

[102] Si confronti ad esempio Foglie e macchie di sole (tav. 054), con Interferenze dinamiche su curve. Sperimentale di sub percezione, 1954, di Grignani (Scimé1993, p. 59), come dichiarano i titoli, le intenzioni dei due lavori erano però diametralmente opposte.

[103]  Le prime copertine di Monti comparvero nel  1954: n. 300, novembre: La poltrona Martingala di Marco Zanuso, disegnata da Marco Zanuso proprio per la X Triennale, per la quale erano state studiate significative varianti (tavv. 056, 057, 058);  n. 301, dicembre: Composizione di foglie e neve (tav. 059);  nel 1957, n. 332, luglio, la solarizzazione di una Composizione in soffitta (tavv. 060061) e poi ancora nel 1961: n. 374, gennaio: Foglie e macchie di sole; n. 378 maggio: Composizione fotografica (tav. 055). Ricordo che altre copertine ‘astratte’ per la rivista vennero realizzate da György Kepes, Franco Grignani e soprattutto da William Klein, tra il 1952 e il 1960.

[104] Monti 1955a.

[105]  Cfr. infra NOTA 109.

[106] Donzelli 1956 faceva proprie le parole di un riconosciuto nume tutelare:  “La Subjektive Fotografie, come la si intende oggi, è un modo di esprimersi fine a sé stesso, che si serve di determinati principi estetici presi a prestito dalle altre arti (lettera di Steichen agli espositori della P.W.E.P. – [Post War European Photography, da lui curata]”.  Per l’immediata controreplica cfr. Turroni 1956. Segnalo inoltre che un’ampia selezione delle opere in mostra venne pubblicata in “ The 1954 U.S. Camera Annual”.

[107] Morucchio 1956a. Già alcuni anni prima, in quello che fu il primo testo critico dedicato al fotografo, l’autore aveva sottolineato “le variazioni sentimentali del suo spirito irrequieto” e la “ vita rivelata a sé stessa per quella parte d’incubo ch’essa significa a un occhio per naturalità metafisico.”, Morucchio 1953b. Meno lo convincevano invece le sperimentazioni off camera: “E così P. Monti perviene a un livello di buon gusto con il procedimento del fotogramma che, a mio avviso, ha in sé troppo  evidenti limiti decorativi e intellettivi.”, Morucchio 1953d. Se dobbiamo prestar fede alle parole di Finazzi, pare che Morucchio, nonostante gli apprezzamenti pubblici, “dicesse malissimo del dott. Monti (…) quand’era con noi, mentre in presenza di Monti era tutto «latte e miele» (…) ma Vender mi precisò che il dott. Morucchio era un eroe del doppio giuoco.”, cfr. lettera a Alfredo Camisa, pubblicata in  Morello 2003a, p. 178.

[108] Tra le opere più ‘sperimentali’ ricordo Meme 1 e 2 (tav. 061)  una doppia esposizione pubblicata in  “Ferrania”, 1951, n. 9, p. 9; due Riflessi esposti alla Mostra della fotografia italiana a Venezia, 1952; due Fotogrammi, pubblicati in “Fotografia”, 1952,  luglio-agosto e Fotogramma n. 1 e Fotogramma n.3 (una numerazione significativa) presenti alla sua  prima personale a Roma nello stesso anno; Fotogramma (tav. 062), presentato alla V Mostra nazionale FIAF a Venezia, ancora nel 1952 e quindi alla Mostra della fotografia italiana di Firenze, 1953; quindi altri (pochi) fotogrammi sino al 1956, dopo di che questa modalità espressiva pare scomparire da mostre e pubblicazioni periodiche.

[109] Si vedano a questo proposito Orsi 1956 da confrontare con Pellegrini 1955, che pur definendo la “fotografia sperimentale” come “arte moderna per eccellenza” la identificava (e la restringeva) a “realizzatrice d’immagini tipiche di un dinamismo (…) se invece surrealismi e astrattismi e concezioni similari si limitano a usare il procedimento fotografico per realizzare immagini statiche (…) allora il procedimento fotografico non sembra il più adatto per simili esercitazioni.” Questa antologia brevissima di citazioni non si può chiudere senza ricordare  ciò che scrisse  Gherardo Gentili (giornalista per “Grand’Hotel”, “Confidenze” ed altre testate femminili, dal 1957 a “Bolero Film”), per il quale  “La fotografia sperimentale non ha ambizioni d’arte; quella astratta sì, tante. Alcuni fotografi astratti, come i loro colleghi pittori, vorrebbero creare immagini e forme che in natura non esistono, inventare addirittura una realtà al di fuori di quella naturale.”, Gentili 1963. Anche un giovane critico cinematografico come Francesco Bolzoni, 1960b, p.24, nel recensire su “Ferrania” la Storia di Pollack scriveva dello “sperimentalismo di Harry Callahan e di Aaron Siskind, i cui sterpi e macchie di vernice sul muro poco ci interessano”.

[110] Da una lettera di Monti a Luigi Crocenzi, datata Milano, 8 febbraio 1957, citata in  Zannelli 2016,  p. 88, nota 32. Non è da escludere che l’iniziativa non avesse seguito poiché proprio in quell’anno White avrebbe lasciato la George Eastman House per trasferirsi al Rochester Institute of Technology. Nel maggio del 2016, su richiesta di Manfredo Manfroi che qui ringrazio per avermene segnalato l’esistenza e il testo, George Tatge contattava Ross Knapper, Collection Manager – Department of Photography al George Eastman Museum, che a proposito di questa mostra così rispondeva: ” Based on our exhibition records, it appears the museum organized an exhibition of Paolo Monti’s photographs in December of 1957. Unfortunately, there is very little information about the exhibition. In checking with the Registrar Department there does not appear to be any record of receipt or return of the photographs for the exhibition.” Segnalo inoltre che in un suo curriculum del 1967 (# Monti 1967) collocava al 1960 una sua mostra a Rochester, riferendosi verosimilmente a Photography at Mid-Century.

[111] Beaumont Newhall, [Introduction], in Photography at Mid-Century: Tenth Anniversary Exhibition, citato in Malazdrewich 2011. In particolare si trattava del Curato di campagna 1954 ca. tav. 063, (ma Parroco di campagna, 1956, in Turroni 1959, t. 156, ovvero Milano: 1880, alla III Mostra internazionale di fotografia di Venezia, 1956),  e del Ritratto di Gianni Dova, 1954 ca. [1953], in una variante di ripresa della versione pubblicata in Turroni 1959, t.154, attualmente inventariate ai numeri  1971:0140:0014 e 1971:0140:0013. Turroni 1962, p. 78, avrebbe definito il Parroco di campagna “senza dubbio una delle foto più belle della fotografia italiana dal 1945 in avanti.”  Il solo altro italiano tra gli autori esposti fu Alfredo Camisa.  Monti fece anche una serie di  ritratti a colori di Dova (tav. 064) ben noti all’epoca, come risulta da una lettera di Mario Finazzi a Camisa, citata in Morello 2003a, p. 186, relativa alla alla preparazione del volume Fotografi italiani d’oggi, poi non realizzato; cfr. infra.

[112] Monti 1954a.

[113]  Monti 1955a.

[114] Basti pensare alla forte presenza veneziana di un autore come Emilio Vedova, che pure non pare rientrasse tra le frequentazioni di Monti.

[115] Cinelli et al. 2013; Cinelli, Serena 2013.

[116] Monti 1953a.

[117]  Monti 1964b.

[118] Il fenomeno andrebbe considerate a livello internazionale, sebbene le differenze di intenti e di prospettiva fossero incommensurabili; basti pensare alla fondazione di Magnum nel maggio del 1947, mentre è all’istituzione della FIAP – Féderation Internationale de l’Art Photographique nello stesso anno che va connessa la fondazione della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

[119] “a new factor in pictorial photography in Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development”, Bricarelli 1922.

[120] La storia del sodalizio è stata attentamente ricostruita da Clera 2011.

[121] Cavalli et al., 1947. La ritrovata vivacità di pensieri e iniziative di quel dopoguerra aveva gia stimolato altre iniziative, come quella del Centro per la Cultura nella Fotografia–CCF di Luigi Crocenzi, che era nato da un gruppo di amici che sin dal 1946 avevano iniziato a “raccogliere e studiare libri di fotografia e di cinema, riviste e settimanali per studiare i fotoreportage”; lettera di Crocenzi a Zannier datata 24 aprile 1959, in Zannier 1986b.

[122] Monti, in Basaldella 1975.

[123] Zannier 1965.

[124] Dopo le iniziative del Circolo  Fotografico e dell’Unione sarebbe stato Lamberto  Vitali a proporre per la XII Triennale (1960), piccole mostre monografiche su altri importanti autori contemporanei –  tra gli italiani  De Biasi, Giacomelli, Monti, Mulas e Roiter –  mostre che non ebbero però alcuna risonanza in quanto relegate “in un ambiente angusto e introvabile del Palazzo dell’Arte”, Regorda 2010, p. 46.

[125] FIAF 1949.

[126]  Lettera di  Giuseppe Cavalli a Fosco Maraini datata 20 giugno 1951, citata in Weber 1997, p. 21.

[127] Cavalli 1947. La foto era compresa nella selezione curata dal “New York Times”.

[128] Ornano 1947.

[129] Vennero esposte 130 fotografie di 88 autori, frutto di una selezione assai severa da parte della giuria presieduta da Federico Vender con Gino Bolognini, Paolo Monti, Fulvio Roiter e Giuseppe Ferruzzi. Vinsero premi Giulio Parmiani, Luigi Veronesi, e Gualberto Davolio Marani cioè autori appartenenti o prossimi la gruppo de La Bussola.

[130] Monti 1951. Le due mostre non vennero segnalate né recensite su “Ferrania” ma solo su “Fotorivista”, cfr. Clera 2011, p. 41.

[131] Monti 1951. L’elenco degli espositori è stato pubblicato in Clera 2011, p. 91.

[132]  Monti 1951.

[133]  “L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”, Masoero 1898.

[134] Sull’attività dell’Unione Fotografica si veda la sintetica scheda informativa in Regorda 2010, p. 65, nota 28 e il capitolo The Photographic Union di Russo 2021.

[135] Venezia, Ca’ Giustinian 5-19 settembre 1954; a questa corrispose la mostra del Circolo Fotografico La Gondola, ospitata l’anno successivo al Musée Guimet di Parigi per iniziativa del Club Photographique de Paris 30×40.

[136] Cfr. 2ª Mostra Internazionale 1955. L’iniziativa sembrava rispecchiare ancora una volta la Mostra internazionale dell’Unione fotografica (Mostra 1954); la presentazione che ne fece Donzelli 1954 segnalava presenze di grande rilievo quali Angenend, Brandt, Hajek-Halke e Chargesheimer e, tra gli italiani, Roiter, Veronesi e Monti, indicato tra i nuovi soci, che espose Sogno a Milano. Non risulta però che fossero presenti fotografie di autori della Farm Security Administration, come vorrebbe la tradizione. Molto duro il giudizio di Morucchio sulle opere esposte a Milano, espresso in una lettera  a Mario Bonzuan del maggio 1954: “Ho visto la Mostra Internazionale di Fotografia: gli stranieri ci mangiano vivi. Rimasto che Roiter si sia presentato discontinuo. Del Tin un disastro […] eppure col nostro Centro si può fare meglio. Bisogna organizzare ‘la rete’ internazionale. Noi abbiamo idee più chiare di quelli dell’Unione.”, citata in Milozzi 2017.

[137] Morucchio 1955b. Il regesto delle partecipazioni è stato ricostruito da Clera 2011, pp. 91-100.

[138] Del gruppo di “pacifici amatori fotografi, pieni di pregiudizi accademici” de La Gondola  si salvavano appena “Berengo Gardin, il cui merito sembra quello d’essersi francesizzato” e “Monti,  con ricerche notevoli di tecnica” (Morucchio 1955b), confermando con quelle scarne segnalazioni la sostanziale  insoddisfazione di fondo.

[139] Unione Fotografica 1953. Poche le eccezioni positive segnalate dai recensori; Harold Lewis, editor di “Photography Year Book”, dichiarava di essere stato “felice di rivedere per esempio Meme di Paolo Monti: una composizione di testa e spalle di ragazza veramente interessante ed originale”, ibidem. Poco soddisfacente risultò anche la successiva edizione veneziana, nella quale “nessuna opera (…) racchiude[va] in sé quella completezza di carattere richiesta dall’arte.”, Morucchio 1953d.

[140] Russo 2011, p. 132.

[141] Un’ampia selezione delle opera esposte venne pubblicata da Steichen 1953, ma senza concedere alcuno spazio agli autori italiani.

[142] Martinez 1956a; Monti 1956; non un’antologica quindi, ma un progetto sviluppato “nel tempo”.

[143] Martinez 1956b.

[144] Roiter 1956; l’articolo è riportato integralmente in Dolzani 2008, pp. 120-121.

[145]  Italo Zannier, Due generazioni, “Camera”, 1956, n. 4, aprile, citato in  Colombo C. 2003, pp. 97-98.

[146] Balocchi, Berengo Gardin, Bevilacqua,  Branzi, Del Tin, Di Blasi, Ferri, Finazzi, Giacobbi, Giacomelli, Leiss, Orsi, Persico, Roiter e Veronesi.

[147] Bricarelli 1956a. La formula riprendeva il titolo del notissimo manifesto pacifista di Romain Rolland, pubblicato a Ginevra nel settembre del 1914. “Il Corriere Fotografico”, dopo quasi dieci anni di silenzio dovuti alle restrizioni belliche e alle successive difficoltà economiche, aveva ripreso le pubblicazioni col numero di gennaio del 1952.

[148] Monti 1959c, p. 47. Già Donzelli 1955-1956, aveva proposto a modello quei professionisti, come Roiter, Monti e De Biasi, che “divennero dei professionisti mantenendosi però amatori nell’animo.”

[149] Colombo C. 1963a, “c’est avec lui que s’amorce la rupture avec un certain hédonisme photographique, de même que c’est son passage aux activités professionnelles qui a secoué l’inhibition de nombreux amateurs doués mas incapables de prise de franchir le Rubicon.  L’entreprise de Monti signifiait pour notre génération l’émancipation et la revalorisation  d’un métier que l’on tenait pour socialement et économiquement inférieur. (…) Monti reste toutefois l’exemple de celui qui réussit à conserver son intégrité à tous les niveaux de sa production, c’est-à-dire qu’il réussit à défendre à tout moment sa propre personnalité de photographe.”

[150] III Mostra Internazionale 1956. Una selezione delle opere esposte venne pubblicata in “Diorama”, 6 (1956), n. 10, luglio – ottobre.

[151] Berengo Gardin, Bevilacqua, Branzi, Camisa, De Biasi, Del Tin, Ferroni, Giacomelli, Monti, Parmiani, Roiter, Veronesi tra gli altri.

[152] Il clima di tensione in cui nacque la mostra è testimoniato anche dal rifiuto a parteciparvi di Mario Bonzuan, che in  una lettera a Giacomelli diceva motivato “da divergenze accennate nella mia stessa lettera del 18 Marzo e dall’esclusione voluta, fra gli altri, dei tre promotori del Gruppo “La Bussola” (Cavalli, Finazzi, Vender) e da altri spiacevoli retroscena Montiani e Roiteriani.”, lettera di Bonzuan a Giacomelli, datata  Venezia 28 marzo 1956,  con trascrizione del carteggio intercorso tra Bonzuan e Bruno Bruni, Segretario de La Gondola, citata in Millozzi 2017. Ad ulteriore riprova di una crisi senza ritorno, nel marzo 1957 Guido Bezzola, peraltro sostenuto da Veronesi, si sarebbe rifiutato di pubblicare su “Ferrania” le foto inviate dai membri de La Bussola, cfr. Morello 2010, pp. 444-446.

[153] Zannier 1956b.

[154] Per Morucchio 1956b si trattava più esplicitamente di “un maldestro criterio selettivo circa gli inviti che generò giusti risentimenti in ambienti qualificati e la rinuncia ad esporre da parte di due autorevoli rappresentanti della fotografia italiana.” Per quel che riguardava gli espositori aggiungeva: “A Monti forse nuoce il cattivo allestimento (frittata di pannelli e cornici). Tuttavia il suo occhio ‘mordente’ e la sua cruda espressione intellettiva, (…) creano rappresentazioni scattanti per una evoluta coscienza linguistica visiva. Oggi, tra i presenti, è il più completo fotografo.”

[155] La mostra della  Magnum proveniva dall’edizione 1956 della  Photokina di Colonia, mentre  alcuni degli autori compresi nella sezione della fotografia europea parteciparono nel 1957 a Fotografie als uitdrukkingsmiddel curata ancora da Coppens allo Stedelijk Van Abbe Museum di Eindhoven (Fotografie 1957). In quella occasione l’Italia era rappresentata da Paolo Monti (nn. 171-180: Vetro sporco, Ritratto in ombra, Roccia nr.1, Roccia nr.2, Il pittore Baj, Composizione insolita, Scultore Umberto Milani, La cometa, Natura barocca e Lichene, che apriva le tavole in catalogo) e da Fulvio Roiter (191-200, con fotografie dalle serie Sicilia, Andalusia e Sardegna e sei opere Senza titolo).

[156]  Il modello era la Biennale de la Photo et du Cinema di Parigi, che aveva avuto la sua prima edizione nel 1955 vedendo coinvolti a diverso titolo sia Martinez che Monti. I rapporti tra Crocenzi, che era buon amico di Ferroni e in contatto con Monti,  e Martinez furono però di brevissima durata e solo pochi mesi più tardi si giunse a una rottura, cfr. la puntuale ricostruzione di Paolo Morello, 2010, pp. 447-451.

[157] Va ricordato che dal luglio 1957 avrebbe fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Pietro Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum e un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, quelli che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali” (Colombo 1958), da leggersi in parallelo col suo testo dedicato ai ” poeti con lo stipendio” (Colombo 1959b)

[158]  Martinez 1957, citato in Dolzani 2008, pp. 151-154.

[159] Monti 1957d. Di diverso avviso era Turroni 1956, che bollava di “semplicismo dell’argomentazione” l’ipotesi critica di  operare una “distinzione tra due ‘correnti’ – la «Family of man» e la «Subjektive Fotografie » – che rappresenterebbero, o meglio dovrebbero rappresentare i vertici della tensione artistica contemporanea, anche di casa nostra. Nessun dubbio ‘teorico’, forse, su tale enunciazione, che però ci sembra un poco semplicistica, dato che, a voler guardare per il sottile, le correnti sarebbero più d’una, e a volte tanto confuse tra loro da non saper certo districarle con una definizione appioppata a cuor leggero.” Quella volontà di rappresentazione aperta anche alle ricerche meno convenzionali non avrebbe però segnato i programmi espositivi delle Biennali di fotografia, certo utili per l’aggiornamento della cultura fotografica italiana ma di impianto più istituzionale.

[160] Monti 1952a; tranne diversa indicazione le citazioni successive sono tratte da questo testo.

[161] Corinaldi 1956.

[162] Si vedano a questo proposito Turroni 1959 e Arcari 1961.

[163] Versione originale in italiano di Monti 1954a, in Valtorta 2008, pp. 53-55; per la  versione francese cfr. Bertolini 2004, pp. 43-45. Resta singolare l’assegnazione di Cartier-Bresson al “reportage giornalistico di tipo americano”, distinguendolo però dagli altri autori Magnum.

[164] La questione etico politica ed  espressiva, e questi ambito sono necessariamente connessi, avrebbe interessato Monti lungo tutto l’arco della sua produzione e della sua vita se ancora molti anni dopo,  riflettendo su “Cos’è la fotografia”   introduceva la dicotomia “Esattezza o verità”, anche nella variante “Esattezza e verità”, posta in relazione a un ipotetico “Osservatore/ Fruitore”, cfr. rispettivamente Monti 1978-1979; Monti 1960-1965. L’affermazione  “L’exactitude n’est pas la vérité” si doveva a Henri Matisse 1947, che a sua volta riprendeva e sintetizzava una riflessione contenuta nel diario di  Eugène Delacroix alla data del 17 ottobre 1853, cfr.  Delacroix 1893-1893, p. 246. Per quanto riguarda la datazione Monti 1978-1979, assegnata da Valtorta 2008, p. 193, “agli anni Settanta”, ritengo vada collocata alla fine del decennio per il riferimento a Cristofori 1978 e per altri elementi che sembrano rimandare al progetto einaudiano e a  Paolo Monti 1979.

[165] Zannier 1957c. Considerazioni non dissimili, e un corrispondente riconoscimento degli esiti più che positivi della manifestazione veneziana vennero espresse anche da Bezzola 1957.

[166] Bezzola et al. 1957; se ne veda il ricordo in Zannier 2019.

[167] Analoghe cautele erano state espresse da Donzelli, secondo il quale molti fotografi correvano il rischio di confondere “il realismo propagandistico con la poesia e crediamo di fare opera d’arte nel fotografare i diseredati con uno stile documentaristico che ha i suoi maestri negli oscuri reporters  delle varie agenzie Associated Press o Wide World.”, Donzelli 1955-1956.

[168] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Restava singolarmente esclusa da questo brevissimo elenco la ben nota serie di foto della jam session nell’appartamento newyorchese di William Eugene Smith, realizzata nel corso del viaggio negli Stati Uniti fatto in compagnia di Romeo Martinez nell’aprile-maggio 1965 (tav. 065) . Su quella mitica serie di incontri e registrazioni si veda Stephenson 2009. Alcune di quelle fotografie, provenienti dall’Archivio Romeo Martinez, sono state pubblicate in Dolzani 2019.

[169] Patellani 1943.

[170] Arcari 1961, p. 76. Per un’ampia ricostruzione delle variate posizioni italiane in quegli anni si vedano Regorda 2010; Russo 2011.

[171] Arcari 1961 e la sintesi della discussione successiva in Atti 1959 1961, pp. 85-89.

[172] Monti 1959a. La discussa mostra curata da Edward Steichen aprì a New York nel 1955 avendo poi ampia circolazione anche in Italia, dove venne esposta  a Roma nel 1956 quindi a Firenze, poi  al PAC di Milano dal 18 febbraio al 22 marzo 1959 per iniziativa di Lamberto Vitali; fu poi a Torino, Palazzo Madama, dal 28 aprile al 17 maggio successivi. Poiché Monti la collocava a gennaio si può supporre  che questo scritto venne redatto a  qualche mese di distanza, forse in occasione della II Mostra Internazionale Biennale di Fotografia di Venezia, che si tenne tra ottobre e novembre, con una sezione dedicata a “Life”. Sulla ricezione italiana della mostra si veda Russo 2011, pp. 175-178. A qualche anno di distanza, nel 1964,  un pool di istituzioni internazionali produsse una mostra itinerante di analogo argomento e respiro, ma di non altrettanto successo, sul tema Was ist der Mensch? per celebrare il centoventicinquesimo anniversario dell’invenzione, con 515 opere di 266 fotografi di 29 paesi; tra i promotori vi furono anche i Musei Civici torinesi ma non risulta poi che l’esposizione venisse ospitata in città.

[173] Monti 1959a. Pochi anni dopo quella stessa definizione retorica sarebbe stata messa in forse, poiché “purtroppo molti balbuzienti e reticenti testimoni hanno resa sospetta questa qualifica.”, Monti 1963c.

[174] Monti 1959c, p. 42. Si veda anche infra p. 108, NOTA 538.

[175] Monti 1960-1965.

[176] Quella fu l’ultima edizione, poiché nel 1967, per ragioni anche economiche, l’Amministrazione Comunale decise di non sostenere oltre l’iniziativa, che sarebbe poi stata ripresa, con caratteristiche non troppo dissimili ma come unicum, con le manifestazioni di Venezia ’79 La Fotografia. In quell’occasione un suo Manifesto del 1971 venne compreso nella sezione dedicata alla Fotografia italiana contemporanea (Zannier 1979b, p. 15), mentre – pur invitato – Monti non prese parte alla serie di workshop organizzati tra luglio e settembre.

[177] Martinez 1959 citato in Dolzani 2008, p. 141 nota 3.

[178] Monti 1957d.

[179] Strettamente connessa a questo contesto la presenza a Venezia nel 1961 di Walter Boje, fotografo tedesco specializzato nella tecnica del colore e capo dell’Ufficio Pubblicità delll’Agfa, al quale si deve una bella foto di gruppo con Fritz Gruber, Man Ray, Ugo Mulas e Paolo Monti al caffè in Piazza San Marco, cfr. Paoli 2016, p. 25.

[180] V Mostra Biennale 1965. Quest’ultima edizione, sempre per la cura di Martinez, era in tono decisamente minore anche se presentata come “un naturale completamento delle precedenti, volta com’è ad illustrare determinati aspetti fotografici che si distaccano da quelli puramente artistici o fotogiornalistici, sui cui precipui valori espressivi sì era finora posto l’accento” (ibidem). In quella prospettiva si collocava anche la sezione dedicata all’AFIP, nella quale di potevano trovare “fotografie utilizzate esclusivamente nel campo editoriale e pubblicitario”, ma il vero obiettivo generale, sostenuto e confermato dalla presenza produttiva di Agfa e Kodak, era la presentazione e valorizzazione “dei progressi della tecnica del colore per la quale una perfetta riproduzione è un elemento indispensabile di valorizzazione del fattore espressivo.”, ibidem.

[181] Nonostante i suggerimenti di James Thrall Soby (che lo definiva “very fine”) Walker Evans non sarebbe stato selezionato neppure da Lamberto Vitali per la Triennale del 1960, cfr. Paoli 2015.

[182] Il lavoro di Frank, ampiamente celebrato da Steichen nella mostra Post War European Photography del 1953, dove gli era stata dedicata un’intera “parete con esempi del suo lavoro che è più esteso di quello di ogni altro espositore” (Red. 1953b) e ben presente in The Family of Man,  era stato segnalato da Zannier 1957b ma non citato da Arcari 1961 né da Tedeschi 1967 nella sua pur ampia rassegna sui libri fotografici pubblicati in Italia dal dopoguerra, sebbene l’edizione italiana di The Americans (Frank 1959) fosse stata oggetto di una recensione sulle pagine di “Ferrania” nella quale si rilevava che “la luce e l’angolazione dell’inquadratura sono sfruttati con finezza. Puntando sul montaggio interno degli elementi a disposizione, più che abbandonandosi senza calcolo all’ispirazione delle cose, Frank si compone uno stile rigoroso e meditato, che mai sfuma nel vago illudendo e deludendo. Chè la sua cultura di estrazione europea lo aiuta a sistemare il materiale lungo una linea precisa; ma non a violentarlo. Gli americani di Frank non sono inventati.”, Bolzoni 1960a.

[183] Monti 1963c; tranne diversa indicazione le citazioni seguenti sono tratte da questo testo.

[184] Bezzola 1960b. Come ha notato Dolzani 2008, p.207, “Non ci sarà sulla rivista altro riferimento a questa edizione o alle Biennali che si terranno negli anni successivi.”

[185] Il testo venne riportato integralmente in Red. 1953a. Non corrispondere quindi al vero che “la sua [di Roiter] prima mostra” fosse stata quella di Treviso del 1953 (Morello 2002, p. 18).

[186] Monti 1953a. Roiter si sarebbe ricordato di quella definizione, facendola propria senza indicarne l’autore originario, nel testo di  presentazione di Roiter 1977, pp.n.n.  La Galleria, aperta nel 1950 da Celio Perazzetta venne chiusa definitivamente nel 2009.

[187] Monti 1952b, poi ripreso in Monti 1952c.

[188] Monti 1954d; anche in quella occasione avrebbe rivendicato il suo “interesse indiscriminato per immagini tra loro differentissime.”

[189]  Lettera a Ferroni datata 25 agosto 1954, citatata in Morello 2010, p. 105. Ancora nell’intervista rilasciata a Maurizio Capobussi (1975), sintetizzando i diversi trattamenti necessari per le stampe a tono alto o a tono basso avrebbe concluso che “in definitiva ogni stampa è unica.”

[190] “Sono contento che Cavalli scriva di te sul “Progresso fotografico” tu te lo meriti perché hai molta passione e soprattutto perché hai già raggiunto ottimi risultati come ‘cacciatore di immagini’ (…). Io, personalmente, sono tiranneggiato da due diverse tendenze, quella del cacciatore e quella del costruttore.”, lettera di Monti a Mario de Biasi datata 5 novembre 1952, citata in  Morello 2003b, p. 20. Monti adottava qui le due categorie utilizzate da Cavalli nella lettera a De Biasi, ma come è noto la definizione di sé quale “cacciatore di immagini” risaliva a Pagano 1938, che avrebbe potuto trarla dal giudizio leopardiano sullo stile di Ovidio, cfr. Battaglino 2018.

[191] Lettera a Ferroni datata 21 ottobre 1954, citata in Morello 2010, p.107.

[192] “l’épreuve photographique, image objective ‘subjectivée’, est alors une représentation qui retient seulement certains aspects, certaines relations de la réalité. Si l’on admet, ce qui est indéniable, qu’avec son découpage de l’espace, son arrangement des formes, son rendu des valeurs tonales, la photographie est bien différente de la réalité qui lui a donné naissance mais dont elle est cependant l’image, on saisit mieux ce qu’abstraire veut dire.”,  Monti 1964a.

[193] Da una intervista di Angelo Schwarz a Monti (Schwarz 1978), poi raccolta in un volume che l’autore dedicava allo stesso Monti e a Luigi Crocenzi. Da rilevare, quale nota marginale, ai limiti del pettegolezzo, che l’uso reverenziale del “lei” dell’intervista originaria venne sostituito dal più colloquiale “tu” nell’edizione collettanea.

[194] In Schwarz 1978. Oltre all’understatement montiano, che lo induceva a proporsi quasi come un semplice artigiano nonostante la consapevolezza del ruolo da lui svolto e della sua opera, va sottolineato come tra queste diverse interpretazioni ‘tecniche’ Monti assegnasse grande importanza proprio alla fase conclusiva della stampa, nella quale il dialogo col materiale sensibile si faceva particolarmente serrato. Una diversa e contrastante testimoniaza sul suo modo di operare è stata fornita da Andrea Emiliani: “E qui imparammo subito a vedere una cosa per me eccezionale, e cioè che la foto che Monti operava era fin dal negativo – e cioè dalla sua vera imprimitura – assolutamente la stessa che ne discendeva nella stampa.”,  Emiliani 1983, p.11.

[195] Appunto manoscritto non datato, pubblicato in  Valtorta 2008, p. 187; la citazione di Monti – qui evidenziata in corsivo – è tratta da  Claudel 1933: “Alors nous comprendrons le véritable sens de ces mots: hasard, nécessité, mouvement, développement, unité, diversité (…) car la matière ne se soustrait au néant que par le mouvement vers une forme”.  Segnalo qui che un breve testo di Claudel dedicato alla fotografia (Claudel 1947) era stato pubblicato su “Ferrania” nella traduzione di Giulia Veronesi.

[196] Cfr. Serena 2013, t.2 e p. 119. Il precedente numero portava in copertina uno dei più noti ritratti di Meme (tav. 029). La consuetudine di riprendere panni stesi al sole quale pretesto di composizione grafica e tonale era piuttosto diffuso in quegli anni, come mostrano alcune fotografie dei Fratelli Pedrotti, di Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Vincenzo Balocchi, cfr. Bianco su bianco 2005, pp. 113-115, 117.

[197] Eco 1961.  Si veda anche il testo corrispondente alla NOTA 340.

[198] Già nel 1942 il Department of Photography del MoMA aveva curato la circuitazione di How To Make a Photogram, con opere  realizzata da docenti e allievi della School of Design di Chicago sotto la direzione di Moholy-Nagy, George Kepes e Nathan Lerner, mentre una delle mostre del 1951 fu Abstraction in Photography (nessun italiano presente) e nel 1960 The Sense of Abstraction in Contemporary Photography  (17 febbraio – 10 aprile 1960)  (nessun italiano presente). Anche in Postwar European Photography, 1953, tra i lavori degli italiani (Giuseppe Cavalli, Davide Clari, Piero Di Blasi, Piero Donzelli, Federico Vender)  riscossero particolare interesse le “abstract photographs” di Luigi Veronesi.

[199] Monti 1953b. Per il fotogramma cfr. tav. 062. Come suggerisce più che esplicitamente il richiamo agli “amici milanesi”, era Piero Donzelli l’interlocutore privilegiato di quella polemica, non certo  Morucchio, come riteneva Morello 2010, p. 82.

[200]  La Sezione era nata in quello stesso 1953 per iniziativa di Ferruccio Leiss, Virgilio Guidi, Berto Morucchio e Carlo Cardazzo e faceva riferimento alla galleria di quest’ultimo, tanto che le mostre fotografiche entrarono organicamente nel calendario espositivo della Galleria del Cavallino,  cfr. Millozzi 2017. Restano quindi da comprendere le ragioni per cui la personale di Monti venne allestita in una sede diversa.

[201] Morucchio 1953c.

[202] Paolo Monti 1954.  La personale era compresa nell’ambito della IV Rassegna Nazionale di Arte Fotografica, 1-15 settembre 1954,  organizzata dal locale club fotografico “Foto 0-23”, molto attivo per gran parte degli anni Cinquanta.

[203] Monti 1952b, poi ripreso in Paolo Monti 1954 .

[204] Citato in Morello 2002, p. 21.  Roiter avrebbe risposto ricordando la consuetudine quasi quotidiana con Monti ma mantenendosi ben lontano da ogni sospetto di filiazione:  “Ci siamo formati a vicenda, fotograficamente”, ricordava in una lettera del 29 settembre 1953, citata in Morello 2002, p. 39, nota 2. Analogo il senso della dedica autografa posta alla copia di Venise a fleur d’eau: ” A Paolo Monti/ e agli anni che ci/ hanno visto ‘fotograficamente’ / e felicemente insieme./ Meolo 4 dic. 1954”.

[205] Lettera di Ferroni a Giulio Parmiani datata  17 settembre 1954, citata in Morello 2010, p. 106. Un’interpretazione analoga sarebbe stata fornita anche da Camisa 1958 che riconosceva nei lavori di Monti “una aspirazione quasi simbolistica: una fuga dalla realtà entro le regioni della visione, un rifiuto o una trasfigurazione della realtà dopo averne ricavato quanto in essa v’è di legato all’uomo o alla natura in un dato momento.” Morello 2002, p. 21, ha rilevato opportunamente che “la dimensione onirica delle fotografie di Monti è un fatto oggi trascurato, ma del tutto evidente agli occhi dei contemporanei.”

[206] Lettera di Monti a Ferroni, datata 25 agosto 1954, pubblicata in Morello 2010, pp. 105-106. Quella sua insofferenza, quasi scostante nella propria orgogliosa consapevolezza,  era ribadita nel testo di presentazione della sua personale romana dello stesso anno: “Persuaso che le mie fotografie non a tutti possono piacere, ammetto subito che gli eventuali dissenzienti sono pienamente giustificati; vorrei però aggiungere che non a tutti la natura appare arcadica, gli uomini felici e Venezia una divertente città turistica.”,  Monti 1954d.

[207] Se ne veda il regesto in Cavanna, Paoli 2016, pp. 292-299.

[208] Monti 1955c.

[209] Negli stessi anni due fotografi della generazione successiva come Giacomelli e Migliori parteciparono rispettivamente a 18 e 3 personali ma a 138 e 137 collettive.

[210] Monti 1954c.

[211] Zanelli 1954. Nella testimonianza di Zannier “la mostra fece subito scalpore, anche per i criteri nuovi di giudizio, al di fuori delle combriccole fotoamatoriali”, cfr. Neorealismo e fotografia 1987. Il ‘manifesto’ del Gruppo venne pubblicato in Gruppo friulano 1956. Si vedano anche le notazioni autobiografiche contenute in Zannier 2000.

[212] Lettera di Fiamma Vigo a Monti, datata 3 settembre 1955, su carta intestata “Numero arte e letteratura”, (#  Vigo 1955).  Non corrisponde quindi al vero la ricostruzione a suo tempo proposta da Lenzi 2003, che ipotizzava in quella vicenda un ruolo attivo di Berto Morucchio. La storia della Galleria è stata ricostruita in Fiamma Vigo 2003.

[213] FIAF 1949, che costituiva il “Catalogo” della mostra. L’opera di Monti Inverno ad Anzola (n. 141) non venne né pubblicata né premiata.

[214]  Citato in Turroni 1959, p. 37; si veda anche Donzelli 1950a, mentre a p. 7 dello stesso numero si pubblicava Spiel, una delle stampe di Chargesheimer tratte  da pellicole termicamente manipolate. Si sarebbero dovuti attendere ancora molti anni prima che “Il Corriere Fotografico” (Bricarelli 1956b) pubblicasse quelle fotografie su una testata più tradizionalista,  ospitate nella rubrica  Fotografi d’oggi, seguite da quelle di Édouard Boubat e Otto Steinert (settembre 56), Jean-Pierre Sudre (dicembre 1956) e René Burri (maggio 1957).

[215] Mostra 1951. L’iniziativa aveva avuto il sostegno dell’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, dell’Accademia e degli Amici di Brera, quindi di Lamberto Vitali.

[216] Donzelli 1951.

[217] Ibidem.

[218] Monti 1952a.  Il pieghevole dichiarava esplicitamente che “Il Circolo della Gondola presenta l’Unione Fotografica, Associazione Internazionale Manifestazioni Fotografiche”. “L’Unione Fotografica – indicava la scheda – non è né un Circolo né un Club che desideri fare proseliti, e neppure un gruppo chiuso col proposito di imporre un proprio gusto artistico. In effetti le opere esposte in questa  Mostra (…) vogliono essere una dimostrazione di larghezza di vedute, obbiettività e spirito aperto alla più ampia libertà di espressione, sempre però sulla base di quell’elevato contenuto artistico che anima i fondatori della Unione Fotografica ed i suoi corrispondenti scelti fra i maggiori cultori della fotografia;  Monti vi espose  Temporale a sinistra, Gondola, Ghetto nuovo, Meriggio bianco e due Riflessi.

[219] ibidem.

[220] Monti 1953c.

[221]  Balocchi, Bolognini, Bonzuan, Branzi, Cavalli, De Biasi, Del Tin, Donzelli, Ferroni, Finazzi, Leiss, Monti, Orsi, Parmiani, Persico, Roiter, Scattola, Vender e pochi altri.

[222] Va qui segnalata la novità della locuzione “fotografia d’arte”, che nelle intenzioni avrebbe dovuto sostituire – ideologicamente – la frusta e vituperata categoria “fotografia artistica”.

[223] Cavalli 1953. A questa iniziativa la RAI dedicò due trasmissioni con interviste a Cavalli, Monti, Parmiani e Balocchi. Come ha ricordato Santoro 2019, la Galleria era stata diretta dal fratello di Giuseppe, Emanuele Cavalli, e nel 1951 aveva già ospitato una mostra de La Bussola.

[224]  Monti 1953b.

[225] Nèvola 1953, cr. Nota 199 Monti 1953b. Per il fotogramma cfr. tav. 062.

[226] Monti 1953b.

[227] Monti 1954a, da confrontare con il dattiloscritto originale in italiano pubblicato in Valtorta 2008, pp. 53-55.

[228] Monti 1955b, con traduzione in inglese del testo, posta a scorrere al piede della pagina. Poiché l’impaginazione si doveva a Monti risulta interessante, e certo con significato critico, considerare sia la sequenza che il dimensionamento delle immagini, come nel caso di Pietro Donzelli (t.48), sottodimensionato rispetto ad altri autori, tra i quali risultava anche Dino Sala, all’epoca collaboratore di Monti e registrato allo stesso indirizzo di studio.

[229] Donzelli 1955-1956.

[230]  Il livello insoddisfacente della critica fotografica italiana venne stigmatizzato anche da Camisa 1956.

[231] Donzelli 1956.

[232]  La formula era stata utilizzata in Monti 1955b.

[233] Quella distinzione troppo semplicistica venne contestata da Turroni 1956.

[234] Casiraghi 1956.

[235] Camisa 1956.

[236] Cavalli 1957; analoghe riserve furono espresse anche da Fumo 1956, per il quale “Da Paolo Monti ci si attendeva di più. La sua opera migliore è Perpetua, ottimamente realizzata nella composizione e nei toni.” A partire dal 1958 la mostra si sarebbe denominata Biennale internazionale della fotografia ovvero Biennale Fotografica Internazionale, ma anche, per # Monti 1958,  “Biennale Intern. della Fot. d’Amatore, che nel volgere degli anni, alternandosi con la Biennale di Venezia dedicata ai professionisti, potrà completare il periodico panorama della fotografia mondiale.” L’edizione del 1958 sarebbe stata condotta in collaborazione con “Camera”; con l’Unione Fotografica quella del 1960, che venne successivamente esposta anche a Milano, alla Galleria d’Arte Moderna, dal  4 al 18 dicembre 1960.

[237] “Anche Steinert era atteso per l’inaugurazione, ma poi non venne”, cfr. la lettera di Giacomelli a Camisa del 22 luglio 1956, citata in Colombo C. 2007, p. 24.

[238] Cavalli si riferiva verosimilmente a Curato/ Parroco di campagna, 1954 , tav. 063.

[239] Lettera di Giacomelli a Camisa datata Senigallia, 5 agosto 1956, in Morello 2003a, p. 36.

[240] Lettera di Piergiorgio Branzi a Camisa datata Firenze, 26 agosto 1959, in Morello 2003a, p. 207.

[241] Cfr. Guerra 2008, p. 43.

[242] Monti 1966. Con tutta evidenza il conflitto doveva essersi da tempo ricomposto, a testimonianza della volubilità e della contingenza di quelle diatribe.

[243] Morucchio 1955a, che a proposito di manovre eticamente discutibili aggiungeva: “E dobbiamo concludere che quel timore ventilato da più parti circa la parzialità del giudizio dei fotografi componenti la giuria, e che ha spinto qualche buon autore a inviare sotto mentite spoglie, aveva qualche fondamento?  Poiché penso che anche nel campo fotografico assieme al talento conviva la vanità e il gusto del predominio, per cui, molto spesso, invece di Gruppi di studio e di tendenza estetica si costituiscono Gruppi di clientele manovrabili, mi sembra che la critica, oltre a non essere panegirico, debba intervenire, pur col suo margine di approssimazione, a riequilibrare l’azione discriminatrice delle varie iniziative in detto campo.”

[244] Citata in Chiti 2001.

[245] Lettera di Giacomelli a Camisa datata Senigallia, 21 gennaio 1957, in Morello 2003a, p. 68. Erano anni di contrasti anche con Camisa, che Branzi designava ironicamente come “tuo ex-amante (leggi Monti)”, ivi, p.109. Nel dicembre 1957 Giovanni Massara aveva scritto a Camisa, pregandolo di contattare informalmente Monti per proporgli di far parte della giuria del IV Concorso Internazionale Fotografico Orso d’Oro di  Biella, 26 ottobre-9 novembre 1958 (cfr. Morello 2003a, p. 114). La giuria, costituita da Massara, Monti e Martinez assegnò poi il primo premio a Camisa,  per questo preso in giro da Branzi (“Ma cosa gli farai a Monti!”, ivi, p. 130).

[246] Citato in Tani 2007, p. 19. Nel 1956 Camisa aveva affidato al “dott. Monti”, per la stampa 50×60, due sue fotografie (Apparizione e Siesta, 1955), da presentare alla III Mostra internazionale di Venezia, a giugno (Morello 2003a, p. 25). Tale pratica non era certo rara, come si ricava anche da Zapponi 1956: “ la personalità di Monti [presente in giuria], vivissima nel nostro campo fotografico, traspare nella scelta delle opere, tanto da far sospettare che molti autori avessero già pronta la fotografia ‘alla Monti’ per qualche eventualità che ora si è presentata.” A proposito di competenza dei  recensori merita leggere Pazienti 1958, che parlando della giuria di quella edizione la descriveva “composta da eminenti personalità del campo dell’arte quali il pittore Gastone Breddo, il fotografo Gualtiero Castagnola, lo scultore e fotografo Paolo Monti, il critico d’arte Guido Parmiani  ed il giornalista Mario Rizzoli.”

[247] Branzi 2001.

[248] Al di là delle burrascose vicende associative i legami e le influenze reciproche tra i diversi componenti del gruppo rimasero ben salde se Mario Giacomelli fu portato a realizzare una letterale riproposizione a colori della notissima Scala di Ferroni, del 1950. La fotografia di Giacomelli, con una improbabile datazione al 1984,  è stata resa nota da Serge Plantureaux, I went to the Moon: Pages From Mario Giacomelli’s Colorful Notebook, “Weekly Transmission”, N°50, Thursday 15th December 2016, online www.plantureux.fr; il documento non è più accessibile al nuovo indirizzo https://sergeplantureux.blog/.

[249] Lettera di Ferroni a Fulvio Roiter datata 21 marzo 1955,  in Morello 2003c, p. 33.

[250] Citata in Morello 2004, p. 232. In quel contesto va collocato anche il passaggio di Mario Bonzuan da La Gondola a La Bussola. In quella occasione  gli scriveva Cavalli, “ci deve essere qualcuno che semina zizzania, certo che i veneziani non sono da qualche tempo molto cortesi nei miei riguardi.”, lettera di Cavalli a Bonzuan datata Milano 8 luglio 1955, in Millozi 2017.

[251] Lettera di Cavalli a Camisa, data  Senigallia 21 novembre 1956, in Morello 2003a pp. 61-64.

[252] L’ironia di Cavalli lasciava affiorare tutta la sua passione cinematografica, qui venata di una buona dose di cattiveria: l’attore messicano Armendariz, che condivideva con Martinez un bel paio di baffi e qualche tratto somatico, aveva partecipato in quello stesso anno alla lavorazione del film The Conqueror,  prodotto da Howard Hughes con John Wayne nel ruolo di Gengis Khan, poi considerato uno dei cinquanta peggiori film di tutti i tempi. Così  Branzi descriveva Martinez: “L’impressione che ne ho avuta non saprei definirla in poche parole. Certo loquace e leggermente fanfarone lo è. Ma non è uno stupido, e quello che ha di bello è che le cose le capisce prima che gli si dicano.”, Lettera di Branzi a Camisa, datata 15 novembre 1956, in Morello 2003a, p. 59.

[253] Quel clima da guerra fredda toccava anche il piccolo mondo della fotografia, come conferma un commento di Carlo Stucchi a proposito del fatto che “La fotografia esigerebbe un impegno totale, anzi totalitario, esigerebbe serietà e tetraggine, così da chiudere gli occhi alla realtà buona e gioconda per vedere, nei campi, non le primule ma lo sterco. (…) Ma (…) è pur necessario dire una buona volta la verità: tutto questo agitarsi è il cavallo di Troia che serve a introdurre la propaganda marxista fra la moltitudine disattenta degli utili idioti. Esagerazioni? Niente affatto. Per convincersi basta esaminare certe mostre o certi concorsi (…) e leggere certe riviste, magari edite da complessi capitalistici. Noi – e dico noi perché siamo in molti a pensarla così – amiamo la fotografia, amiamo l’arte fotografica, ma non amiamo il neoconformismo della fotografia né quello dei carri armati.”, Stucchi 1957a, p. 28.

[254] Quanta distanza con le cortesie di soli due anni prima: “A te tanti saluti carissimi come pure a don Peppino amatissimo” scriveva Monti a Ferroni il 19 maggio 1954 (Morello 2010, p. 81), mentre risaliva solo all’anno precedente il bel ritratto di Monti fatto da Cavalli a Pellestrina, con dedica “Al «Dottor Sottile» molto caramente”, (tav. 070). Il sorprendente (o “esilarante”, per Monti) avvicinamento tra il cattolico Cavalli e il comunista Crocenzi era durato solo pochi mesi.

[255] Lettera di Giuseppe Möder a Camisa datata Pescara 22 novembre 1956, in Morello 2003a, p. 65. Nella testimonianza fornita da una lettera di Alessandro Novaro a Martinez dell’11 ottobre 1957 (Zannier 2006, p. 16) relativa alla II Biennale internazionale di fotografia per invito, patrocinata da “Camera” di Pescara, Möder su consiglio di Novaro avrebbe “rinviato indietro le opere dei componenti della Bussola, salvo quelle di Branzi e di Giacomelli dietro consiglio di Monti, e le ha sostituite con quelle di Monti, Parmiani, Ferri, Migliori, Giovannini, Piergiovanni, Cantelli”.  Ricordo che Giovannini, Migliori e Parmiani appartenevano al Circolo Fotografico Bolognese.

[256] Lettera di Camisa a Möder, datata Milano 31 ottobre 1956, in Morello 2003a, p. 56.

[257] Guerra 2008, pp. 67-70. Si veda anche Baracchini Caputi 1998 che confermava la consuetudine di alcuni di inviare la stessa fotografia a vari concorsi, ma con titoli diversi, da qui la condizione posta in molti casi di presentare opere inedite, ciò che dimostra quanto le iniziative fossero rivolte agli addetti ai lavori, in un circolo chiuso e vizioso. Per il pubblico di sedi diverse quelle fotografie sarebbero state necessariamente inedite, per definizione.

[258] Lettera di Möder a Camisa datata Pescara  19 novembre 1958, in Morello 2003a, p. 143.

[259] Stucchi 1957a.

[260] “the first ever presentation of Italian photography in the United States”, scriveva  Pelizzari 2011, p. 127 ma l’informazione non corrisponde al vero poiché una Mostra della fotografia italiana si era già tenuta nella stessa sede nel  maggio del 1953, cfr. Russo 2011, p. 132.

[261] Pollack 1959, p. 628. Fotografo, curatore e storico della fotografia, nel 1962 Pollack, sarebbe diventato consulente del Worchester Art Museum  dopo essere stato per dodici anni il “Curator of Photography” all’Art Institute di Chicago. Nell’edizione originale del volume (1958) la sezione comprendeva, per l’Italia, foto di Del Tin, Monti (Lago alpino, 1954; La gondola della morte, 1956; Asfalto, 1956, già pubblicata in “Fotografia”, 11, 1956, p. 6) e Roiter, ai  quali si aggiunsero nell’edizione italiana Grignani, Mulas e Pozzi Bellini. In particolare Asfalto (tav. 071) ebbe lunga fortuna critica: venne pubblicata nel “Foto Annuario Italiano” del 1963, (CFM  1963, p. 198), edito anche come La fotografia oggi quale edizione fuori commercio per gli abbonati alla “Rivista dell’arredamento” dello stesso editore. Il volume di Pollack venne recensito con ampie riserve da Newhall 1960, per il quale “For its wealth of illustrations, The Picture History of Photography should be on the shelves of every art historians library. Nothing like it has been published since the long out-of-print Histoire de la Photographie of Raymond Lécuyer, a folio volume which it greatly resembles. Both books admirably illustrate 19th century contributions; both are weak in their treatment of the 20th  century. (…) It is not our purpose to catalogue the errors which have crept into the text and captions; we understand that they have been corrected in a second printing. Although we are disappointed that the text does not measure up to the standards of scholarship which the art historian expects, we are grateful to Mr. Pollack for making available a superb corpus of well-reproduced illustrations. If the field of the history of photography is to attract scholars, there must be abundant material available for their study outside the walls of the few museums which have collections. For that purpose, Mr. Pollack’s book is indispensable.”  L’edizione italiana ebbe un’attenta e ampia recensione di Francesco Bolzoni, 1960b, mentre fu molto critica quella di Donzelli 1960, così come il commento, tardivo ma per altri versi interessante, di Turroni 1961. Ancora in occasione della pubblicazione di una nuova edizione ridotta (New York: Harry N. Abrams, 1977) Colombo L. 1979 dichiarava che “la qualità di storico di Peter Pollack non ci ha mai convinto.” Buon ultimo venne Carlo Bertelli, 1993, che avrebbe ricordato il volume di Pollack ma citando il titolo in forma assolutamente fantasiosa (History of Photography from Antiquity to Today [sic]) e fornendo un’errata data di edizione (1961).

[262] “Bien qu’il soit prématuré d’établir dans quelle mesure et par quel choc en retour les idées dominantes introduites par ce groupement aient abouti à la volonté de rupture manifestée surtout par la jeune génération, on peut croire que sa doctrine n’est pas périmée dans tous ses aspects, de même que l’on ne peut nier dans son ensemble la valeur de ses enseignements. Le conflit entre la tendance qui est en voie d’affirmation et celle qui l’a précédé – antagonisme qui nous semble être aussi d’ordre métaphysique, même si cet aspect de la question a été généralement escamoté – ne doit pas nous faire oublier que, sans le lyrisme de Cavalli et de Balocchi, le sens d’abstraction et le graphisme de Veronesi, sans les définitions typiques dans le domaine des valeurs tonales de Leiss et de Vender, la photographie italienne aurait difficilement franchi l’impasse dans laquelle elle se trouvait depuis de très longues années. A l’époque où les réussites de ce groupement commencèrent à s’imposer à l’attention comme sur le terrain des compétitions, peu ou rien ne pouvait lui être opposé.”,  Martinez, Monti 1958.

[263] Rey [1908] 1925.

[264] Zannier 1956c.

[265] Citato in Racanicchi 1958. Segnaliamo qui che questa concezione – si direbbe fondamentale e fondativa – sarebbe rimasta caparbiamente immutata nel tempo se ancora nel 1998 Michele Ghigo, a sua volta Presidente onorario FIAF,  avrebbe parlato di fotografia come “intelligente passatempo” (Russo 2011, p. 274 nota 49). Da quel duro articolo di Racanicchi derivò l’incontro con Pietro Donzelli e la collaborazione del critico torinese con “Popular Photography Italiana”, cfr. Red. 1975.

[266] Turroni 1959, p. 25. L’analisi sarebbe stata confermata da Bezzola 1963, per il quale la fotografia “delle mostre, dei dilettanti evoluti, dei semidilettanti, nel suo complesso rispecchia abbastanza bene la classe da cui esce, vale a dire ciò che gli inglesi chiamano lower middle class, piccola e piccolissima borghesia di città e di provincia.”

[267] Racanicchi 1958, p. 8. La definizione categoriale ebbe immediatamente successo e il termine venne ripreso da Zannier 1958.

[268] Colombo C. 1959b.

[269] Donzelli 1959.

[270] Monti 1959c, p. 47. In una lettera datata Ancona, 23 novembre 1959 Piergiovanni  scriveva  a Monti a proposito della “inutilità (anzi pericolo per il fotografo) di farsi prendere la mano da questa mania delle continue personali. C’è gente che tiene una personale al mese; sempre la stessa insalata condita con lo stesso olio! Stufi dei saloni, non contenti delle troppo numerose mostre che si tengono con ritmo quasi quindicinale, si buttano alle personali con tale affanno che rischiano di coprirsi di ridicolo – Fatico a capirli!”, # Piergiovanni 1959.

[271]  #  Monti 1958. Per la datazione del testo all’ottobre-novembre 1958 cfr. Paoli 2016, p. 34.

[272]  Gilardi 1976, p. 37.

[273] Bezzola 1962.

[274] Turroni 1959, p. 36.

[275] Ancora dieci anni dopo Gilardi sarebbe stato tra i protagonisti del Primo Incontro Nazionale di Fotografia,  organizzato dal CIFe – Centro Informazioni Ferrania, che si tenne a Verbania, dal 31 maggio al 2 giugno 1969 in concomitanza col XXI congresso della FIAF. Nel corso del ‘vivace’ dibattito che si svolse in quell’occasione, specificamente dedicato – ormai fuori tempo massimo – a La funzione del fotoamatore, si consumò l’ennesimo, ulteriore duro scontro tra l’universo FIAF e il fronte dei fotografi ‘impegnati’, orientati verso una nuova concezione della pratica fotografica, fortemente connotata in senso politico. Si vedano Colombo L. 1969; Russo 2011, pp. 261-264; Cavanna 2019.

[276] Steiner 1954, ora in Steiner 1978, pp. 80-81. Certo quel riferimento alla “finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato” evocava irresistibilmente certi lavori di Monti.

[277] Gilardi 1961.

[278] Bezzola 1966. Per una ricognizione delle condizioni generali dell’attività fotografica in Italia si rimanda a Russo 2011 e D’Autilia 2012.

[279] Colombo C. 1959b.

[280] Monti 1966b, curiosamente pubblicato in Valtorta 2008, pp. 96-98, come “dattiloscritto non datato, databile alla metà degli anni Sessanta”. Allo stesso contesto va riferito  Monti 1966a.

[281] Verso la fine degli anni Sessanta avrebbe partecipato come giurato a iniziative in parte diverse, che si provavano a coniugare (anche come occasione di stimolo reciproco) mondo professionale e amatoriale quali Fotografi 1967 a Trento ed Europa 1968, promossa dalla Azienda Autonoma di Turismo di Bergamo, sostenuta da “Camera”, “Popular Photography Italiana”, “Foto Film”, e da “Sovetskoje foto” di Mosca e “Fotografie” di Praga. All’invito risposero 302 fotografi inviando 2.503 opere. La giuria composta da Antonio Arcari, Vaclav Jiru, direttore di  “Fotografie”, Monti, Alla Porter, redattore di “Camera”,  e Piero Racanicchi, scelse 295 fotografie e  assegnò quattro premi, oltre a celebrare Josef Koudelka, a cui venne dedicata la copertina del catalogo (Straznice, 1965, dalla serie Cikàni). Koudelka faceva parte del gruppo di sette fotografi invitati a esporre da “Camera” (10 foto della serie) e fu quella per lungo tempo una delle sue rare occasioni espositive, poiché il suo reportage fotografico sull’invasione russa di Praga dell’agosto precedente lo avrebbe obbligato all’anonimato e poi all’espatrio nel 1970.

[282] “Ad ogni modo le assicuro, egregio dottore, che la parte migliore ed attiva della Gondola è incondizionatamente con Lei, e quindi per questi soci e per il nome della Gondola, La prego calorosamente di aver un po’ di pazienza e di non abbandonarci”, scriveva Gianni Berengo Gardin a Monti, lettera datata Venezia Lido, 22 gennaio 1959, (#  Berengo Gardin 1959).

[283] Lettera di Vittorio Piergiovanni a Monti datata Ancona, 23 novembre 1959 (# Piergiovanni 1959).  Da Ancona Piergiovanni, che era stato socio de La Gondola, teneva le fila coi giovani veneziani ma anche con Parmiani a Bologna.

[284] Lettera di Libero Dell’Agnese a Monti, datata Venezia 7 gennaio 1960 (# Dell’Agnese 1960).

[285] Lettera di Giuseppe Bruno a Monti, datata Mestre 14 01-1960 (# Bruno 1960).

[286] Lettera di Piergiovanni a Monti datata Ancona, 17 gennaio 1960 (# Piergiovanni 1960).

[287] Lettera di Monti a Dell’Agnese, datata Milano, 18 gennaio 1960 (# Monti 1960).

[288] La lettera, datata Pisa, Museo Nazionale, Istituto di Storia dell’Arte, 15 novembre 1959 (# Ragghianti 1959), riprendeva i contenuti dell’appello pubblico rivolto da Ragghianti ad artisti italiani e stranieri da cui scaturirono le collezioni oggi conservate al Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa. A quanto consta questo progetto innovativo, specie per il contesto italiano, non ebbe l’esito sperato per quel che riguardava l’ambito fotografico, e si dovette attendere  il 1973 per assistere alla nascita, a Parma, del “Museo della Fotografia”, poi Centro Studi e Museo della Fotografia, quindi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, voluto da Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università con un’impostazione sostanzialmente distante da quella espressa da Ragghianti, sebbene simili fossero gli intenti di valorizzazione e tutela. Come ricordava Quintavalle 1978, “Quando, una decina di anni orsono, occupandoci di fotografia, cominciammo a raccogliere presso l’Università di Parma decine di migliaia di immagini, non avevamo ancora chiara l’idea dei modelli da impiegare, ma, certamente, avevamo quella che si doveva uscire dal gioco delle personalità e quindi della fotografia intesa come ‘arte’, uno strumento interpretativo ormai usurato e quindi da negare per le palesi implicazioni idealistiche.”

[289] #  Ragghianti 1959.

[290] Lettera  di Roiter a Monti, datata 14 dicembre [1959] (# Roiter 1959).

[291] Monti 1960. La mostra pisana era stata preceduta da analoghe iniziative a Padova (gennaio) e Venezia (febbraio-marzo): chiari segni di una volontà di storicizzazione che marcava la chiusura di un ciclo.

[292] Dalla corrispondenza intercorsa risulta che Monti propose per la pubblicazione anche alcune sue foto più sperimentali, ma Finazzi gli rispose che prevedeva “difficoltà per le fotografie astratte da parte del [suo] Consigliere Delegato” e che non sapeva neppure come avrebbe preso “le fotografie dell’arch. Grignani (…), quelle di Veronesi e di Migliori.”, citato in  in Morello 2003a, pp. 186-187).

[293]  Lettera di Finazzi a Camisa datata Bergamo 7 aprile 1959, in Morello 2003a, p. 189.

[294] Lettera di Camisa a Finazzi datata Milano 16 aprile 1959, in Morello 2003a, pp. 190-191. Anni dopo Camisa ne diede una versione in parte differente: “A compenso di tutto l’impegno profuso io chiesi (…) le bozze del progetto, affinché potessi magari trovare qualcun altro interessato alla pubblicazione. Parlando con Turroni lui si dichiarò disponibile a rifare il testo e sottopose il tutto a Schwarz al quale l’idea piacque molto.”, in Busoni Thompson 2007, p. 22.

[295] Turroni 1959. Mentre Bezzola 1960a recensendo il volume su “Ferrania” lo aveva giudicato “eccellente panorama delle tendenze attuali”, Cavalli 1961 rilevava che “fra le opere esteticamente valide ne mancano diverse importanti che era opportuno includere in una rassegna completa”, ma – soprattutto – contestava l’approccio critico di  Turroni, che  passava “da un ordine estetico di considerazioni e relativi giudizi (Bello + Brutto) ad un ordine, in modo precipuo, morale (Buono + Cattivo); e dico morale nell’accezione completa del vocabolo, ossia intendendo anche Utile – Inutile, Sociale – Non sociale etc.: tutte qualificazioni e distinzioni che, come lei sa, sono pertinenti alla morale. Eccoci dunque al punto su cui è necessario mettere i concetti bene in chiaro; non si mettono, sono convinto, in chiaro abbastanza. Il critico d’arte ha per definizione il compito di giudicare ESCLUSIVAMENTE se in una determinata opera c’è arte oppure non c’è.”, corsivi nel testo.

[296] Il progetto originario, più contenuto, prevedeva anche una sezione a colori mentre nel nuovo volume erano comprese ben 220 fotografie, ma tutte in bianco e nero.

[297] Va ricordato che il volume non venne neppure registrato tra i “libri ricevuti” di cui dava conto la rivista “Ferrania”.

[298]  Turroni 1959, p. 30 passim.

[299] Turroni 1957b illustrato significativamente (quasi solo) da foto di muri e manifesti strappati.  Il paragrafo che gli dedicò in Nuova fotografia italiana (Turroni 1959, pp. 47-51) derivava certo da questo scritto precedente, ma sottoposto a una specie di revisione divulgativa e più specificamente ricca di rimandi alla scena fotografica di quegli anni, come del resto richiedeva la sede di pubblicazione.

[300]  Turroni 1959, t. 166; Cavanna, Paoli 2016 p. 51.

[301] Turroni 1959, p. 47.

[302] Arcari 1983, p. 5. Non è solo la presenza materiale delle stampe conservate in archivio a smentire Turroni e Arcari, ma la precisa competenza dimostrata da Monti nello spiegare le tecniche di stampa da utilizzarsi in quei casi: “Con il riscaldamento di carte e rivelatori – precisava – i risultati variano notevolmente: il calore influisce molto sui processi di ossidazione, si potrebbe ricordare che qualcosa di simile accade quando si opera con la tecnica dei toni alti. Per questi ultimi, infatti, si ottengono i migliori risultati quando, completata l’esposizione sotto l’ingranditore, si sviluppa la stampa e, prima di procedere al fissaggio, la si immerge – anche per un quarto d’ora o più – in un bagno di acqua calda a circa 40° c. L’alta temperatura agisce sulla piccola quantità di rivelatore rimasta nell’emulsione e ciò si traduce in un aumento notevole della leggibilità dei dettagli delle zone high key, in tono alto. Per interventi con l’impiego del calore non si deve però dimenticare che spesso sensibili variazioni si ottengono semplicemente sfregando ripetutamente la copia con le dita, alitando su di essa e così via: interventi dunque che possono essere anche ben localizzati.”, in  Capobussi 1975.

[303] Tutte le citazioni  che seguono sono tratte dal Diario lavoro Sandoz (#  Monti 1959) che il fotografo tenne  dal 31 maggio al 16 settembre 1959.  Dopo le collaborazioni per le Biennali veneziane e nell’ambito di “Camera”, Martinez e Monti erano stati incaricati dalla Kodak di curare a Parigi una mostra di dodici fotografi italiani, con opere a colori. Gli autori, oltre a Monti, erano: Berengo Gardin, Branzi, Bruno, Camisa, De Biasi, Donzelli, Giacomelli, Migliori, Novaro, Parmiani e Roiter. L’iniziativa, già prevista per maggio 1959, venne  poi spostata a ottobre; cfr. Morello 2003a, pp. 188, 206.  La collaborazione tra Bühler e Martinez risaliva invece  ai tempi della  rivista svizzera “Monsieur” (1951), curata da Martinez.

[304] La Sandoz, dal 1996 Novartis per fusione con  Ciba-Geigy, era attiva nella produzione di coloranti ma anche in campo farmaceutico, nonché produttrice dell’acido lisergico (LSD), i cui effetti psicogeni vennero scoperti nel 1943 da Arthur Stoll e Albert Hofmann proprio nei suoi laboratori, dove questa ammide era stata sintetizzata pochi anni prima (1938).

[305] Schenk 1954, ancora presente nella biblioteca Monti, era stato a sua volta prodotto in collaborazione con un’altra industria chimica, la Böhme Fettchemie di Düsseldorf.  Ventotto fotografie di Schenk erano state esposte alla quarta edizione di Diogenes with a Camera (3- aprile – 3 giugno 1956) al MoMA, ancora sotto la direzione Steichen, che sottolineava come dalle tensioni provocate in una goccia d’acqua nascessero “Forms, patterns, shapes which leap and dance (…) Unsuspected rhythms are brought into being.”, citato in  # MoMA 1956.

[306] Si veda György Kepes 1978, pp.n.n.

[307] Botar 2010. Monti possedeva la ristampa del 1961 del volume derivato da quella mostra: Kepes [1956] 1961.

[308] Corsivo dell’autore. Ricordo che già nelle sue prime Intenzioni fotografiche (#  Monti 1948), aveva indicato la possibilità di “fotografare acque, correnti o cascate, con istantanee lente”.

[309] Dal testo di presentazione della sua mostra a Padova, Galleria Spazio Visivo, 30 giugno-15 luglio 1982, citato in Arcari 1983, pp. 7-8, che riprendeva – rielaborandolo in parte  – Monti 1981b. Alcune delle fotografie realizzate nei laboratori Sandoz ebbero poi utilizzazioni diverse: la copertina di un fascicolo pubblicitario per Nora International, 1962, la già citata tav. 073; la copertina del long playing Pathé-Marconi (Plaisir Musical – FCX30207) dedicato a Sheherazade di Rimsky-Korsakov diretta da Issay Dobrowen (1962,  tav. 074),  una illustrazione a corredo di Mascioni 1967, alla quale fanno riferimento alcuni documenti conservati in AM-FA, S.6, Fatture di vendita: Monti aveva lasciato in visione alla Fratelli Fabbri Editori 22 foto a colori e 8 in b/n  e  l’Ufficio Autorizzazioni Fotografiche, in data 21 novembre 1969, gli comunicava di aver scelto “la foto a colori riportante la seguente didascalia: fotografia pubblicitaria per una società di coloranti (colori versati)”. L’originale venne poi rispedito a Monti, con le altre fotografie non utilizzate.

[310] Alcuni esempi di quella produzione vennero utilizzati per le copertine dell’omonimo  periodico aziendale. Dicembre 1957: Luigi Veronesi; agosto 1959: Elio Luxardo; agosto 1960: Eugenio Petraroli;  dicembre 1961: Nino Migliori; aprile 1962: Arno Hammacher; maggio 1962: Alfredo Pratelli.

[311] Monti 1963a.

[312] Un’ampia selezione degli esiti di quel lavoro è consultabile all’indirizzo       http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+sandoz.

[313] Monti, in Dal Bo [1981] 1997]. Gli aspetti tecnici di quelle riprese vennero illustrati da Monti, cfr.  Capobussi 1975. Da questo universo di sperimentazioni cromatiche erano evidentemente escluse alcune convenzionalissime composizioni naturalistiche pubblicate su “Ferrania” nel 1967, quali Sottobosco,  “Ferrania”, 21 (1967), n.7, p. 20, e Contrasti, “Ferrania”, 21 (1967), n.11, p. 17.

[314]  Segnalo almeno Pinney 1962 e diversi numeri di “PMI Photo Methods for industry”, l’importante repertorio pubblicato a New York dal 1958.

[315] A quella casa editrice, che aveva pubblicato con notevole successo Ombrie: Terre de Saint-François di Roiter, avrebbero guardato con attenzione non disinteressata anche Branzi e Camisa, che in quello stesso anno proposero all’editore svizzero un volume dedicato a Firenze, ma senza successo, cfr. Morello 2003a, p. 24.

[316] Di quel volume, per nulla apprezzato da Turroni, Monti aveva realizzato anche alcune riproduzioni, verosimilmente a scopo didattico (http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=paolo+monti++2523L029A-36a). Attualmente la sua biblioteca conserva solo Roy, Strand 1952 e il secondo volume dell’antologica Paul Strand 1971.

[317] Steinert 1952;  Steinert 1955;  Otto Steinert 1959.

[318] Hayek-Halke 1955; Kepes [1944] 1959; Brassaï 1961.

[319] Monti 1967d.

[320] Cfr. Cavanna, Paoli 2016 cat. 20, 24.

[321] Turroni 1957b. Turroni 1959, p.15, ne indicava esplicitamente il titolo come Isole della laguna, che corrisponde però a quello del  lavoro  di Luciano Emmer ed Enrico Gras del 1948, che vinse il Nastro d’argento come miglior documentario nel 1949.

[322] Turroni 1957a.

[323] Turroni 1959, pp. 48-49.

[324] Più esplicito l’interesse  per le “immagini di graffiti presentate come esempi di “poesia trovata”(Russo 2011, p. 382 nota 31)  nel primo libro di  Franco Vaccari,  1966.

[325] Chiaramonte 1993, t. 96. Questa fotografia, insieme alle Astrazioni involontarie e Muro a Milano (ivi, t.41) corredava Turroni 1957b.

[326] Sebbene sia consuetudine pubblicarla in verticale (Zanzi 2012, p. 51; Cavanna, Paoli 2016, t. 126 ), per corrispondere al titolo e quindi alle intenzioni di Monti la stampa è da leggersi ribaltata in orizzontale di 90° a sinistra, come ben si vede nella ripresa che documenta la sua mostra alla Libreria San Babila di Milano nel 1958, in Paoli 2016, p. 29.

[327] Monti 1959c, p. 42.

[328] Le fotografie di Siskind vennero pubblicate anche in Pollack 1959,  pp. 466-477; per Lucien Hervé si veda Hervé 1962.

[329] Evans 1958.

[330] Quintavalle 1977, p. 25, poi ampiamente ripreso in Quintavalle 1993,  pp. 90-99; si veda anche Paoli 2012, p. 278. Ricordo qui che lo stesso Migliori, secondo quanto indicava la sintetica scheda biografica pubblicata in Red. 1961a, “tra i fotografi italiani [riteneva] suo maestro Paolo Monti”, ma resta ancora da condurre in modo storiograficamente accorto la verifica di quel rapporto.

[331] In Morello 2003a, p.252; Camisa si dimostrava aggiornatissimo: il volume di Brassaï sarebbe uscito in Germania solo nel 1960, ma c’erano già state una mostra al MoMA nel 1957 e una a Londra dal 25 settembre al 25 ottobre 1958 all’Institute of Contemporary Arts: Language of the wall: Parisian graffiti / photographed by Brassaï.

[332] Zannier 2004.

[333] Testimonianza raccolta in Manfroi 2005b.

[334] Legno e bianco I, 1956; Combustione legno, 1957;  Legno Sp, 1958.

[335] Cfr. Chiaramonte 1993, t. 117 e Morello 2010, t. 48, più chiara nei toni e con una datazione al 1954; per altre immagini della serie si veda Valtorta 1985, p. 62.

[336] Un piccolo cenno a parte merita una fotografia che mostra in ripresa ravvicinata un Peperone sezionato (tav. 090), ricavata per stampa parziale di un negativo 10×12 (tav. 091), realizzata nel 1963 nell’ambito del progetto di comunicazione pubblicitaria per il primo magazzino “a libero servizio” a Reggio Emilia, COOP 1 firmato dallo studio LAS (Lica e Albe Steiner), che – certo – guardava ai modelli inarrivabili di Weston (Halved Cabbage, Red Gabbage Halved, entrambe del 1930) qui interpretati con una vena che diremmo ‘padana’, tra surreale e grottesca, che è raro trovare in Monti. In Zanzi 2012, p. 215 la stampa è pubblicata con datazione errata al 1956.

[337] Turroni 1957b.

[338] Turroni 1959, p. 50. Un riferimento possibile, e forse condivisibile, poteva essere il lavoro critico di estetizzazione esplicitato da Kepes nel curare la mostra (e il volume) dedicato ai ‘new landscapes’ offerti dalla fotografia scientifica, mantenendo però ben distinti gli ambiti, cfr. Botar 2010.

[339] Eco 1961.

[340] Marchiori 1960.

[341] Marra, Revisione dell’Informale, in Marra 1999,  pp. 127-134.

[342] “La natura è profondamente e amorosamente angosciata, e quasi medianicamente intuita”, scriveva Francesco Arcangeli nel 1954 riferendosi al gruppo degli ‘informali’ padani da lui identificati come gli “Ultimi naturalisti”, cfr. Rovati 1999.

[343] Tav. 092, che appartiene alla stessa sessione di ripresa di Manifesto strappato; la foto è stata riproposta in Chiaramonte 1993, fig.116 ma ribaltata verticalmente, con titolo errato (Manifesto strappato) e una datazione al 1955 che non corrisponde a quella della variante di stampa pubblicata a fig. 95  (1956) dello stesso volume. Ricordiamo che un’altra Astrazione involontaria, era stata realizzata da Monti nel 1950 ca (tav. 026).

[344] “moralité intrinsèque du geste de l’artiste (…) plus encore que l’émergence, dans l’affiche lacéré, de formes nouvelles directement issues du réel sociologique capables de ce fait de transformer radicalement notre vision de cet univers qui nous entoure (…); plus encore en un mot que cette recharge effective et poétique du réel, Rotella nous transmet un message de culture, d’humanité et d’espoir.”, Restany  1962.

[345] Zannelli, 2016, p. 81. La pervasività di questo soggetto come ambito di ricerca espressiva in quell’arco di anni (e limitandoci alla scena italiana) credo debba ancora essere studiata in modo approfondito, ma ricordo che anche Arno Hammacher, appena arrivato  a Milano, tra il 1956 e il 1961, rivolgeva il suo sguardo sui muri della città coperti da cartelloni pubblicitari, scritte e insegne, sebbene con una impostazione pianamente descrittiva.

[346] Tra le poche eccezioni Manifesto strappato e albero, 1960-1961 (tav. 095), Manifesti strappati, 1960 ca (tav. 096) e la fotografia utilizzata per la copertina di “Camera”, 36 (1957), n. 6, giugno.

[347] Monti 1967a. Già nell’intervista a Burguet 1963, p. 32, aveva detto, “Que nous le voulions ou non, nous appartenons tous à notre temps et je suis sûr que, sans l’expérience abstraite, je ne serais jamais parvenu à certaines recherches photographiques. Actuellement, après la leçon donnée par l’art, le «non-figuratif», nous regarde sur les murs des villes où les affiches arrachées nous émeuvent comme des Pollock, des Klein, des Soulages. Je  collectionne les photos d’affiches et de placards publicitaires, comme des formes ‘abstraites ‘ diverses de la nature, et je dis ‘abstraites’ par analogie formelle (ou plutôt informelle).”

[348] Eco 1961.

[349]  “art is a frequent source of such novel interests. Contemporary artists such as Rauschenberg have become fascinated by the patterns and textures of decaying walls with their torn posters and patches of damp. Though I happen to dislike Rauschenberg, I notice to my chagrin that I cannot help being aware of such sights in a different way since seeing his paintings. Perhaps if I had disliked his exhibition less, the memory would have faded more quickly. For emotional involvement, positive or even negative, certainly favours retention and recognition.”,  Gombrich [1965] 1982, p. 31.

[350]  Argan 1970, p. 372, che a proposito dei “cartelli pubblicitari strappati” di Mimmo Rotella e Raymond Hains, parlava di “processo di décollage che si contrappone alla costruttività implicita del collage cubista. È ovvio il senso di reportage urbano: i cartelli pubblicitari sono un aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino; e come effimeri e scaduti vengono dati, infatti, con trasparente allusione al rapido mutare del volto della città. Anche qui si hanno i due momenti: appropriazione e distruzione.”

[351] Cfr. Milano, in De Seta 1979, p. 47.

[352] La datazione è fornita da Turroni 1959, t. 166. La fotografia venne poi  pubblicata in “Popular Photography Italiana” (C.C. 1965), in apertura di un articolo dal significativo titolo di L’obiettivo drogato.

[353] Pubblicata anche in Pollack 1959, p. 462.

[354] Cfr. supra NOTA 111.

[355] Piume solarizzate, 1951, tavv. 100, 101; Piuma e semi solarizzati, 1951, tav. 102, mentre la più precoce  Composizione in soffitta, 1947-1949, tav. 060, venne utilizzata come copertina di “Domus”, n. 332, luglio 1957, tav. 061,  sottoponendola  al trattamento  che Mario Finazzi chiamava “Hot Line”, basato sull’applicazione controllata del cosiddetto “effetto Herschel”.

[356] Ricordiamo, a titolo di esempio, Legno, (stampa in negativo), 1953-1954, tav. 103. Allo stesso decennio, e in particolare al 1958-1959 risalivano le più sistematiche ricerche sul colore, mentre i chimigrammi appartengono al decennio successivo.

[357] Monti 1955a.

[358] Monti 1964a, che richiamava sin dal titolo Arcari 1963, che a sua volta notava – proprio in apertura – che “parlare di fotografia astratta può sembrare a tutta prima una sorta di contraddizione in termini.”

[359]  “Faire concurrence à l’état civil des choses, faire concurrence à la réalité, tout en s’y soumettant mais en rivalisant avec elle, c’est un des plus beaux privilèges de la photographie.”, Monti 1960, mentre  Arcari 1963, dopo aver  tracciato una linea genetica che originando dalla Bauhaus giungeva a Weston, indicava come determinanti per Monti, “le componenti vitali di un rinnovato realismo”. Per il rimando balzachiano si veda  Smaniotto 2020.

[360] Orsi, 1956; il contributo costituiva la recensione di Hajek-Halke 1955, che Monti possedeva, e offriva l’occasione a Orsi, a sua volta autore di interessanti luminogrammi (cfr. Madesani 2008), di sintetizzare una breve ‘storia’ di questa pratica, riservando una citazione anche per Luigi Veronesi, ma non per il nostro.

[361] Pellegrini 1955.

[362] Donzelli 2006, p. 207.

[363] # Chronology 1964, cfr. supra NOTA 198.

[364] Etienne 1952.

[365] Si veda Dolzani 2008.

[366] “l’abstrait esthétique de l’image abstraite fonctionnelle, en d’autres mots: faire la distinction entre ce qui procède de l’expression et ce qui est le résultat d’une investigation”, Monti 1964a.

[367] Burguet, 1963; gli autori coinvolti furono Bill Brandt, Denis Brihat, Lucien Clergue, Pierre Cordier, Julien Coulommier, Antoine Dries, Henriette Grindat, Livinus [Van de Bundt], Monti e Jean-Pierre Sudre mentre ad Otto Steinert venne chiesto un autonomo contributo testuale, pubblicato accanto a quelli di Hubert Damisch, Umberto Eco e Paul Valery tra gli altri.

[368] Crispolti 1986, p. 37.

[369] Penso ad esempio alle radicali differenze concettuali e processuali rispetto a esiti ancora connotati da una certa figuratività,  come in Peter Keetman o Arrigo Orsi, che producevano volumi virtuali di luce per generazione geometrica di tradizione Bauhaus.  Questo tipo di lavori, realizzati in studio, va poi distinto dalla più vasta produzione di fotografie notturne a lunga posa di luci e di riflessi vari, testimoniate da una grande e variegata produzione che data a partire almeno dai viaggi americani di Fritz Lang e Eric Mendelsohn negli anni ’20 (Wollner 2012), che ricadono invece nella categorie di quelle immagini ‘astratte’ dal reale di cui prima si è detto.

[370] Foglie e macchie di sole, 1959 (tav. 054); Composizione fotografica, 1957-1961 (tav. 053), ma già il numero di dicembre  1954 di “Domus” aveva in copertina una Composizione di foglie e neve. (tav. 059),   cfr. NOTA 103.

 

[371] “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica”, scriveva nel  dicembre 1910; cfr. Klee 1990, p. 181.

 

[372] Lettera di Monti a Martinez datata Milano 26 luglio 1956, conservata alla Bibliothèque Roméo Martinez della Maison Européenne de la Photographie  di Parigi.  Cfr. NOTA XX (66)

[373] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[374] Pubblicata in Zanzi 2012, p. 167 come Muro a Treviso, 1949.

[375] Anche Arcari 1980, p. 157, pubblicò uno dei nudi di Monti in una doppia pagina che conteneva immagini di Weston, Steinert, Clergue e Hajek-Halke, ma senza particolari commenti. I volumi conservati nella biblioteca del fotografo testimoniano invece un interesse non marginale per il tema, concentrato specie negli anni Sessanta. Se escludiamo Perspectives of nudes di Bill Brandt, di cui possedeva l’edizione francese del 1961, gli altri autori presenti appartenevano però ad un universo di gusto apparentemente lontanissimo dai suoi modi espressivi: da Sam Haskins, Five Girls, 1962 e Cowboy Kate, 1965 a Wingate Paine, Memory of Venus, 1966 e Ica Vilander, La femme vue par une femme, 1967. Allo stesso genere rimandavano anche le due antologie Meister der erotischen Fotografie: Paare. München: Wilhelm Heyne Verlag, 1971 e Bill Jay, Views on Nudes. London: Focal Press, 1971, che potrebbero aver influito su alcune prove a colori, certo tra le sue meno riuscite (tavv. 107, 108).

[376] “The back and left arm of figure in the print, Nudo, are softly focused, and the skin texture is minimized. When this photograph is first seen, it appears to be an abstract composition, but after closer study, the form of the figure emerges.”, Three European Photographers 1965. L’iniziativa doveva essere stata di Peter Pollack, allora consulente del museo, ma i contatti vennero presi nel 1964 da Stephen Jareckie, allora “Associate in Photography”, che aveva invitato Monti  a partecipare alla collettiva, prevista per la  primavera del 1965 e – se interessato –  a inviare quindici stampe tra le quali ne sarebbero state selezionate dieci per la mostra, che avrebbe perciò presentato un totale di 30 fotografie (# Jareckie 1964). Alla fine dell’esposizione il Museo si impegnava ad acquistare tutte le stampe esposte, che sarebbero così entrate a far parte della più antica collezione fotografica museale statunitense. Le stampe prescelte furono  Inverno n.1, Tronco corroso, Still life, Cinderella, Silvia Tofanelli, Gianni Dova, Venezia, La Barca dei Morti, Two Pelicans e Nudo (nn. 21-30 del catalogo) tutte non datate, al contrario di quelle presentate dagli altri autori. Attualmente sul sito del museo (http://www.worcesterart.org/collection/ ) sono indicate come presenti in collezione solo:  Still Life, 1950;  Silvia Tofanelli, 1955, Inverno No. 1, 1959 e Nudo, 1961 (Inv. 1965.389-390; 1965. 403.404).

[377] Ceccato 1967. Le pagine interne ospitavano altre fotografie di Monti: tre dettagli di un pugno maschile chiuso che sembrano avere qualche debito con Autoportrait,  1951 di Denis Brihat  (ora nelle collezioni del Centre Pompidou di Parigi, inv. n. AM 1981-672), pubblicato in copertina del già citato numero di “Art d’aujourd’hui” dell’ ottobre 1952 (Etienne 1952),  tuttora presente nel suo fondo librario. Le foto di Monti vennero ripubblicate  in “Roto C” nel 1971, a corredo di un redazionale dedicato all’aggressività e quindi riprese in Ansia e aggressività 1971.

[378] Alcune di quelle riprese si inserivano come momenti particolari del lungo rapporto sentimentale di Monti con Mina Opizzi, dalla quale proveniva anche la raccolta di stampe acquisita da La Gondola nel 1998, in parte esposte nel dicembre del 2004 allo Spazio Antonino Paraggi a Treviso col titolo Paolo Monti: Col cuore, con l’anima, con la ragione. Ritratti 1947-1955, cfr. Manfroi 2004.

[379] Cavanna, Paoli 2016 t. 120.

[380] Berghmans 2011.

[381] Una delle composizioni per proiezione a luce polarizzata di Munari, presentate in anteprima proprio a Milano, cfr. Munari 1961, venne utilizzata per la copertina dell’Almanacco Letterario Bompiani 1959 (Bompiani, Zavattini 1958) che a sua volta conteneva molte fotografie di Monti, comprese sia nel Vocabolarietto dell’Italiano (Femminismo, Pace, Pubblicità, Vecchiaia) sia nella serie di ritratti di artisti e letterati (Campigli, Capogrossi, Cardarelli, Cassinari, Carlo Levi, Marini, Moravia).

[382] Dalla stampa al carbone, oggi nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York (Accession Number 33.43.50), venne tratta la matrice per la duogravure poi pubblicata in “Camera Work” 10 (1913) , n.42-43, aprile-luglio t. XIV.

[383] Morello 2010, p. 72.

[384] Alcuni chimigrammi erano stati pubblicati nel 1965 in “Imago”, periodico tanto raffinato quanto di ridottissima circolazione, cfr. Arcari 1965; Camuffo 2021 e infra nel testo.

[385] Ricordava Lanfranco Colombo 2010, p. 107, che attraverso Roberto Mutti aveva potuto riavere “il libro delle firme dei visitatori” di quella memorabile mostra.

[386] Monti 1967c.

[387] Monti 1967d.