Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese (1992)

in Antichità ed arte nel Biellese, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N.S. – XLIV, 1991/92, pp. 199-216

 

 

Immagini biellesi

 

Una bella veduta di Cerreto Castello, con le ossidazioni ed i grigi argentei della lamina dagherrotipica ad evocare impossibili effetti di colore, costituisce sino ad ora la più precoce testimonianza a noi nota di immagine fotografica del territorio biellese[1]. Il soggetto inconsueto a quella data ed i modi del suo trattamento  depongono a favore di un autore certamente non professionista sebbene alla data di esecuzione (1849) forse pochissimi avrebbero potuto  essere definiti tali, nati a questo mestiere senza essere stati prima ed ancora pittori, incisori, litografi, ottici e falegnami; ma insomma, crediamo, l’anonimo autore della veduta non esercita la dagherrotipia per mestiere né tantomeno appartiene alla categoria dei fotografi itineranti , la cui presenza in area biellese è documentata da alcuni noti ritratti[2]; il suo interesse per la nuova tecnica è forse più vicino all’attenzione prestata, circa negli stessi anni, da Giuseppe Venanzio Sella che passa ben presto ai processi negativo/positivo in cui “l’immagine, che nella camera oscura si produce, è rovesciata per causa dello incrocicchiamento dei raggi luminosi riflessi dagli oggetti esterni, quindi anche nell’immagine ottenuta col suo mezzo le parti sono rovesciate, cioè da destra sono portate a sinistra, ed inversamente. Questi apparenti svantaggi formano il merito principale del Calotipo, perché essi sono quelli che rendono quest’immagine su carta, non già un disegno comune, ma un tipo paragonabile alla forma dello scultore, al rame dell’incisore, capace di produrre una quantità innumerevole di altre più perfette immagini, le quali non lasciano più nulla a desiderare sotto il rapporto della verità e della naturalezza, poiché gli oggetti vi sono riprodotti con effetti naturali di luce e di ombra, e vi conservano la loro giusta posizione relativa”. (Sella 1863, p.11) Il doppio specifico della veridicità (obiettività) e della riproducibilità dell’immagine fotografica non potrebbe essere espresso  meglio che da queste parole tratte dal “Plico” sebbene forse non sia poi stata la produzione di immagini ciò che lo attraeva particolarmente della nuova tecnica poiché scarsa è la sua produzione di fotografo, iniziata ufficialmente a Parigi dove  realizza nel 1851 alcune immagini al collodio umido, e poi “tra il 1852 ed il 1853 una serie di stampe da negativi all’albumina, in cui ritrasse vedute di monumenti e di piazze di Torino , e, tra il 1859 ed il 1863, scene e figure di ambiente familiare, paesaggi”[3]. La poca rilevanza dell’attività fotografica di Giuseppe Venanzio Sella,   certamente non confrontabile col ruolo di rigoroso studioso e divulgatore svolto con la redazione del Plico, ci consente di guardare ad essa – secondo quelli che sono gli scopi di questo studio – come assolutamente paradigmatica dell’immagine del territorio propria dei  primi fotografi attivi nel Biellese: l’episodicità delle riprese rende significativi i soggetti prescelti, alla cui individuazione non si applica la lucidità critica di un progetto di documentazione, presentandosi questi come ovvii e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il territorio.

Una stampa all’albumina  apre il carnet di appunti acquistato da Giuseppe Venanzio a Parigi ma compilato in Italia, dedicato alla registrazione di “Fatti rimarchevoli”; si tratta di una ripresa frontale del ponte sul Cervo, effettuata dal greto del torrente, datata a penna in basso a sinistra “1853”, a cui fa seguito una formula di preparazione della emulsione su base albuminata (“Fotografia: albumina”), che il Sella giudicherà nel suo trattato “inarrivabile per prendere delle vedute, per copiare la natura immobile”[4]. Altre immagini di poco successive, non comprese nello stesso quaderno, riguardano invece il castello di Gaglianico, il Battistero ed il Duomo di Biella e la stazione della ferrovia Biella-Santhià, tutte vedute stereoscopiche databili circa il 1856, in cui ancora una volta sembra prevalere soprattutto la curiosità per una tecnica nuova, di cui poco vengono riconosciute ed utilizzate le potenzialità espressive: i soggetti sono sottoposti ad una visione strettamente frontale che nega i diversi piani del loro sviluppo spaziale  né alcun elemento con funzioni di quinta viene frapposto  tra questi e la camera, annullando di fatto le possibilità di una simulazione della visione tridimensionale proprie della stereoscopia.

Interessante è la scelta dei soggetti: accanto alla presenza di luoghi canonici quali il Battistero, il Duomo ed il castello di Gaglianico, e volendo escludere la veduta del ponte sul Cervo come contingente, per certi versi assimilabile alla veduta dalla finestra di Gras di Niépce, compare la stazione ferroviaria,  altro luogo canonico dell’urbanistica e della fotografia ottocentesche, ma che assume in questa piccola serie un significato particolare, che le è dato soprattutto dalla figura dell’autore, dal suo ruolo di imprenditore, “fabbricante di panni” come si firma nelle Note sopra l’industria della lana del 1873.

 

 

Il Catalogo

Con Giuseppe Venanzio Sella sia apre tradizionalmente la storia della fotografia biellese che comporta, quale apparizione successiva quella di Vittorio Besso, suo allievo  e sempre molto legato alla famiglia: quando nel settembre del 1864 si riunisce a Biella la Società Italiana di Scienze Naturali, Besso documenta l’evento e, firmandosi “pittore e fotografo”, ci lascia una bella immagine di gruppo dei partecipanti, ciascuno anagraficamente individuato in legenda[5].

Non è per ora dato sapere se la presenza di Besso quale fotografo ufficiale sia dovuta semplicemente all’assenza in quegli anni (ancora da verificare) di altri studi professionali attivi in città ma certamente la sua fama doveva già allora essere notevole, almeno localmente, se la “Gazzetta Biellese” del 1865 ricorda tra i meriti di questo stabilimento fotografico “quello di usare di questa divina arte…anche al nobile scopo di farci ammirare i capolavori di pittura e d’architettura (che sebbene rari, tuttavia si trovano qua e là sparsi nel nostro circondario); e le grandiose bellezze profuse largamente nei nostri monti e nelle nostre valli dalla mano onnipotente dell’essere creatore.”(citato in Becchetti 1978, p.55), a conferma di una attenzione precoce per i temi del paesaggio e del patrimonio artistico ed architettonico, probabilmente influenzata dal buon successo di stabilimenti famosi quali Alinari e Brogi ma certo non lontana dalle suggestioni di Quintino Sella, il solo in quegli anni e per alcuni decenni ancora ad occuparsi di tutela del patrimonio biellese “pur se in misura più circoscritta e quasi privata” (Astrua 1979, p.111). Besso pare raccogliere il messaggio costituito dalla raccolta di quadri riuniti nell’aula in cui si tiene la prima seduta della Società di Scienze Naturali e lo coniuga con possibili sbocchi professionali, commerciali anche, a loro volta legati ad un tipo diverso di frequentazioni, alla sua formazione di pittore e litografo, e la sua produzione si orienta verso la documentazione del territorio, rappresentato nelle sue emergenze più note, ma anche verso un genere particolare di riproduzione d’arte, geograficamente non connotato, destinato ad “essere di sommo aiuto ai pittori, sia in figura che in ornato ed in scenografia ed agli ingegneri, architetti, plasticatori” (Besso 1881, p.39) che assume nel 1868 la forma di un Album Artistico / ossia / raccolta di 326 disegni autografi /  di valenti artisti italiani / Galliari – Vacca – Sevesi – Barelli – Salvator Rosa – Apiani – Perego – Morgari – Bibiena – Vinca – Cineroli – Tiepoli – Rapus – Harthmann ecc. / Questi autografi vennero raccolti e fotografati / per cura del fotografo / Besso Vittorio / da Biella/…/ Album primo /…[6]. A poco meno di un decennio dall’apertura dello studio fotografico (1859) l’attività di Besso è quindi precisamente orientata secondo queste due direzioni, scarsamente integrate tra loro. Nulla conosciamo sino ad ora di Besso al di là delle (scarse) testimonianze della sua produzione fotografica ma due dati vanno rilevati ed immediatamente trasformati in problemi: l’Album Artistico nasce da una raccolta condotta in prima persona; l’interesse per pittori e scenografi di area prevalentemente piemontese non si traduce in attenzione per il patrimonio artistico della regione in cui vive. Quale sia l’immagine del territorio che Besso esprime risulta chiaramente dal catalogo del 1881, che vede accanto al Biellese assumere grande rilevanza anche la documentazione relativa ad altre zone quali il Canavese ma soprattutto la Valle d’Aosta e altre valli alpine e prealpine (Valle Po, Valsesia, Valtellina)  per estendersi sino a Lucca e le Apuane ed alle isole Maddalena e Caprera.

Che il Club Alpino Italiano sia l’ispiratore ed i suoi membri i destinatari di tale produzione risulta implicitamente fin dalle prime pagine del Catalogo (Besso 1881) che prevedono facilitazioni e sconti: le vedute, i panorami, le riproduzioni di monumenti sono destinate ad un pubblico di turisti colti ed amanti della montagna. Il Catalogo si apre con le “Vedute nel Biellese” suddivise in “Biella (città)” che comprende una piccola parte destinata alla documentazione dei monumenti più noti  accanto ad una più ampia sezione dedicata agli edifici industriali  a cui si aggiunge una serie di panorami composti di più immagini; completa la sezione dedicata a Biella la piccola serie “Circondario” con i castelli di Castellengo e Gaglianico ed il Cotonificio Poma, mentre le serie successive si riferiscono alla “Valle d’Andorno” con sessantuno immagini complessive, tra le quali si segnala un nucleo di ben trentaquattro fotografie dedicate a Rosazza che comprende anche immagini della chiesa e casa parrocchiale inaugurate l’anno precedente, all’ “Ospizio di Oropa” (ventitre immagini) ed infine all'”Ospizio di Graglia” ( due immagini) che chiude la parte  relativa al Biellese, complessivamente costituita da 126 immagini, caratterizzata da  una eterogeneità che conferma la funzione di guida e ricordo turistico che questa produzione doveva avere, segnata da una interpretazione carducciana delle caratteristiche del luogo biellese; siamo lontani quindi da una precisa intenzione documentaria in senso analitico e questa produzione di Besso si avvicina nell’impostazione al lavoro di Federico Castellani che nel giugno del 1873 presenta un Album delle principali vedute edifizi e monumenti della città di Vercelli in cui fin dalle distinzioni introdotte nel titolo si riconosce l’intento di fornire complessivamente una immagine dei luoghi senza pretendere o presumere alcun rigore disciplinare. Se a Vercelli, dove pure si poteva contare su di una ricca tradizione e pratica di studi storico-artistici , si giungerà con molta fatica, e solo dopo il 1886, a produrre importanti campagne di ricognizione fotografica del patrimonio artistico ed architettonico locale, a Biella, dove la percezione stessa di tale  patrimonio risulta essere inadeguata ( quei “capolavori che sebbene rari,tuttavia si trovano qua e là sparsi” per ritornare ai termini usati nel 1865) ed i problemi della tutela sembrano affidati alle sole attenzioni di Quintino Sella,  un preciso progetto fotografico in tal senso non vedrà forse mai la luce assumendo più facilmente come vedremo l’aspetto della raccolta di produzioni eterogenee dovute ad autori diversi.

La spinta essenziale e prevalente che guida l’operare degli studi fotografici è quella della pura commercializzazione e questo spiega credo la rilevante presenza nei Fondi sino ad ora consultati di immagini di Oropa[7], tra le quali si segnala un’immagine del cortile superiore ripresa da Besso che sembra essere stata il modello per la veduta corrispondente compresa in Alps and sanctuaries (Butler 1913, p. 174)[8].  L’iconografia di Oropa e, in misura minore, quella degli altri santuari biellesi è anche in quegli anni un prodotto di grande diffusione, destinato ad un pubblico vasto e composito, per il quale sono realizzate gamme differenziate di prodotti che vanno  dalle grandi stampe  24/30 cm sino alle ridotte dimensioni del formato “biglietto visita” (cm 6/10 ca), alle stereoscopie, agli album fotografici e litografici. Le Guide per il Biellese dei primi anni Ottanta (Pozzo 1881; Vallino 1882) confermano la presenza di studi fotografici nella sola città di Biella  (solo Rossetti, per quanto è dato conoscere sino ad ora, aprirà una propria succursale a Vallemosso nel 1887) e riportano i nomi già noti di Besso, Borro, Capellaro e Masserano e appunto Rossetti, ma tra le stampe conservate nel Fondo Fotografico del Santuario di Oropa non risultano immagini delle cappelle riferibili ad alcuno di questi; sappiamo però   che Besso -a cui si devono quasi  tutte le stampe di certa attribuzione presenti nell’Archivio e databili in questo intorno di anni-aveva in catalogo sette immagini di cappelle chiaramente identificate con la propria denominazione (della Presentazione, dell’Assunzione, della Concezione, della Purificazione, del Paradiso, della Natività della Vergine e della Dimora nel Tempio) più due altre minori, ciascuna indicata genericamente come “una cappella” (nn.64,65). (Besso 1881, p.10)

Non si può escludere che altri studi fotografici avessero una produzione simile ma ci sembra probabile che il catalogo di Besso, per quanto riguarda Oropa, fosse realizzato in condizioni di monopolio, strettamente connesse anche alla riscossione sui diritti di vendita da parte dell’Amministrazione del Santuario; quali poi fossero le ragioni di tale scelta di affidamento sembra, per quanto ne sappiamo oggi, relativamente facile dire: quello di Besso era il più antico studio fotografico biellese, fin dai primi anni particolarmente interessato alla documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, il solo noto in ambito extralocale ed infine, come sappiamo, ancora molto legato alla famiglia Sella. Il ruolo di assoluta prevalenza commerciale è tale che alla Esposizione Generale dei Prodotti del Circondario di Biella del 1882 Besso risulta essere il solo fotografo presente, premiato con medaglia d’oro dalla Commissione esecutiva per essere “l’unico in Italia che presenti i panorami delle nostre Alpi accuratamente e nitidamente fotografati, ed uno dei pochi artisti che abbiano sì gran copia dei nostri monumenti architettonici, la perfetta riproduzione dei quali richiede molto gusto e molta conoscenza della prospettiva e degli effetti di chiaroscuro. Al Besso vanno eziandio tributate molte lodi per la premura dimostrata in ogni circostanza nel riprodurre oggetti o avvenimenti che solo a pochi era dato di poter ammirare e a portarli così a conoscenza di tutti coloro ai quali possono porgere interesse.”(Esposizione 1882, p.213)

Il testo della motivazione mostra una compresenza di affermazioni appartenenti alla ormai consolidata retorica ottocentesca sulla fotografia accanto a più precisi riferimenti alla produzione specifica di Besso e ad improbabili affermazioni che lo dipingono quale campione assoluto della fotografia di montagna proprio nella stessa occasione in cui Vittorio Sella presenta le proprie vedute, ma inserite nella sezione del C.A.I., accanto a due quadri ad olio e ad un disegno a carboncino[9]. Un riconoscimento alla carriera quindi, ormai più che ventennale, ed anche alla sua preminenza professionale e commerciale di cui nulla sappiamo per ora ma che sembra sufficientemente intuibile dalle clamorose assenze che si registrano in questa Esposizione.

Gli anni ’80 sono, almeno virtualmente, i meglio documentati dell’attività di Besso, scanditi dai cataloghi editi nel 1881 e nel 1893 che testimoniano anche di una notevole modificazione della produzione: rimangono inalterate le caratteristiche generali di eterogeneità, accentuate dalla presenza di nuovi soggetti quali la serie dedicata ai manufatti più significativi (ponti, viadotti, muri di sostegno, stazioni) delle Ferrovie Economiche Biellesi ed alle miniere e stabilimenti sardi (che possono essere letti come  una celebrazione dell’operato di Quintino Sella) mentre risulta particolarmente accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entra a far parte una sezione dedicata ai castelli costituita da 17 immagini, forse influenzata dalla realizzazione del Borgo Medievale del 1884, e -per il Biellese- la serie dedicata al castello di Gaglianico che passa da tre a quindici fotografie. Altrettanto significative sono le serie mancanti: nessuna immagine di Rosazza, del castello di Castellengo o della chiesa di Tavigliano. Per Oropa infine la diminuzione della quantità complessiva (20 contro 23) si accompagna ad una sostanziale novità dei soggetti che ora non comprendono più alcuna cappella. Questo dato, per ora privo di una spiegazione documentata, potrebbe essere messo in relazione con l’apertura del nuovo studio “Fotografia Artistica/ Dossena e Scanzio / via Umberto, 40, casa Galoppo / Dirimpetto alla chiesa della SS.Trinità” che affianca alla produzione corrente una documentazione esaustiva di tutte le cappelle del Sacro Monte, per un totale di diciannove soggetti diversi, venduti ad Oropa da G. Regis, risultato probabile di una nuova privativa concessa dalla Amministrazione del Santuario. Anche in questo caso le immagini, relative ai soli interni, sembrano collocarsi in un’area di produzione devozionale mirata  prevalentemente ad offrire una storia figurata della vita della Vergine piuttosto che porsi l’obiettivo di una documentazione dell’opera d’arte, sebbene siano noti alcuni esempi della produzione successiva dello studio più precisamente orientati in tal senso[10].

 

 

Il Progetto

Nell’anno 1891 Emilio Gallo, imprenditore e amico di Vittorio Sella, realizza un Album del Biellese (Fotografi del Piemonte 1977, pp.33-34) composto di 39 stampe, tra paesaggio e architettura, con una attenzione prevalente per le immagini di montagna, secondo gli intendimenti di quella che è stata definita come “scuola di Biella” (Miraglia 1981, p.475), ma con presenze  significative di edifici o siti minori quali la Trappa di Sordevolo o Cerrione col proprio castello, che si accompagnano a temi canonici e consolidati: la tomba di Quintino Sella, il Santuario di Oropa con la nuova chiesa in costruzione ed il castello di Gaglianico. Se a questi soggetti aggiungiamo le immagini di un ponte ferroviario in valle di Andorno, uno stabilimento industriale e le cave della Balma avremo, come era forse nelle intenzioni dell’autore, una sintesi panoramica della regione biellese condotta per brani antologici, esemplificativi, secondo un progetto che prenderà forma alcuni anni più tardi nella Illustrated Guide to the valleys of the Biellese Region (Padovani, Gallo 1900) destinata, secondo le parole introduttive di Vallino, a quegli untiring travellers (who) will at last know that the fine Biellese region exists and will visit it”[11].

Gli elementi del paesaggio biellese sono nuovamente indagati nel volume che il CAI dedica a questa regione nel 1898, con ampio apparato fotografico, dovuto a numerosi autori, da cui emergono le belle tavole fuori testo dovute a Vittorio Sella ma soprattutto ad Emilio Gallo, dove lo sforzo maggiore sembra dedicato ad occultare la presenza diffusa, territorialmente caratterizzante, delle strutture industriali, al fine di fornire una visione ancora romantica di regione incontaminata che ben si adatta alla committenza ma risulta meno immediatamente comprensibile quando si ricordi la quasi perfetta corrispondenza tra membri del CAI e rappresentanti dell’imprenditoria biellese.

Anche la documentazione del patrimonio artistico ed architettonico non va oltre la consuetudine e del resto il Biellese non pare ancora in questi anni  essere riconosciuto quale territorio ricco di tesori d’arte, se anche gli operatori Alinari, che proprio nel 1898 realizzano un’ampia campagna di documentazione del Piemonte con una permanenza quasi ininterrotta di ben cinque mesi, non si addentrano nella regione, di cui invece percorrono con assiduità i confini, dalla Valle d’Aosta al Vercellese alla Valsesia (Sansoni 1987).

La prima ricognizione del patrimonio artistico ed architettonico di queste terre si deve, ormai all’inizio del secolo, alle campagne fotografiche di Secondo Pia: “Ill.mo Signore – scrive in una lettera a V. Sella del 2 luglio 1890 – Quale modesto dilettante in fotografia in arte antica recandomi a Biella avrei vivo desiderio poter ritrarre colla mia macchina i preziosi saggi di arte antica che mi si dice esistervi nella sua splendida villa già convento … Appassionato anch’io per la  fotografia ho ammirato le splendide vedute alpine della S.V con rara abilità eseguite, e benché modesti accolga anche i miei sinceri rallegramenti”[12]. Non sappiamo per quali ragioni tale progetto venisse temporaneamente accantonato, ma il regesto autografo delle campagne di Pia (Tamburini, Falzone del Barbarò 1981, pp.55-58) mostra come il primo viaggio a Biella ed Oropa avvenga solo nel 1898 e che si debba attendere addirittura il 1902 per una vera e propria campagna di documentazione, preceduta da una significativa anticipazione, questa sì nel 1890, a Roasio dove Pia fotografa gli affreschi al cimitero di  Curavecchia e Santa Maria dei Cerniori. Basta questo dato a mostrare come gli interessi del fotografo si discostino in modo radicale dagli esempi precedenti: se analizziamo anche sommariamente la sua produzione vediamo come accanto a luoghi canonici quali il Duomo e San Sebastiano, però indagati nei loro cicli pittorici e negli arredi, si trovino gli archivolti in cotto di piazza Cisterna (quegli stessi che aveva ricordato Q. Sella nella sua prolusione del 1864) e ben dodici siti biellesi poco o nulla frequentati come San Quirico a Cossato, Magnano, Masazza e così via, seguendo una rete di segnalazioni e di contatti che andrebbe ricostruita e studiata, disegnando una diversa geografia dei luoghi notevoli del territorio.

Sono questi gli anni in cui Roccavilla porta avanti i propri studi e ricerche, che sfoceranno nella pubblicazione del volume del 1905 dedicato a L’arte nel Biellese, dotato di un apparato fotografico ricco, dovuto all’opera di numerosi studi professionali (Besso, Ariello, Dossena e Scanzio, Rossetti), di ben più numerosi studiosi locali che praticano la fotografia (D. Vallino, L. Pozzo, E. Cappa, V. Olivetti, V. Maglioli, E. Protto, E. Negro) ma prevalentemente realizzato con immagini scattate dallo stesso autore. Sorprendente risulta l’assenza di immagini di Secondo Pia al quale pur si doveva la migliore documentazione sul patrimonio biellese sino ad allora disponibile e nome certamente non ignoto ad uno studioso quale Roccavilla che certo doveva almeno conoscere il breve testo di Brayda dedicato a Candelo e Gaglianico, illustrato con fotografie di Pia e del Di Sambuy. (Brayda 1904)

Tale assenza potrebbe forse corrispondere ad una scelta precisa, di coinvolgimento di forze strettamente locali nel primo progetto organico di studio del patrimonio artistico ed architettonico biellese, affidato prevalentemente anzi alle forze dell’autore, che si colloca nella breve tradizione costituita dall’operare di Masoero per il Vercellese e di Negri per il Monferrato, sebbene in Roccavilla si registri un atteggiamento differente sia nei confronti dell’uso della documentazione fotografica (per cui il momento della realizzazione sembra essere importante ma non essenziale, quasi una necessità dovuta alla scarsità di fonti disponibili, come già era accaduto per d’Andrade)   sia nei confronti del tema che risulta essere, complessivamente, piuttosto il Biellese quale entità storico-geografica, etnica, che non la storia dell’arte nel proprio specifico. Con Roccavilla si passa infatti dalla documentazione del patrimonio architettonico ed artistico (ma con significative attenzioni già nel 1905 per temi minori quali l’oreficeria) a quella di impronta nettamente etnografica connessa alla preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911 (Albera, Ottaviano 1989), in parte utilizzata due anni più tardi nel numero monografico della rivista “The Studio” dedicato a L’art rustique en Italie[13].

 

 

Il Registro

Nel 1880/81 Simone Rossetti entra in società con P. O. Borro, di cui rileva lo studio nel 1885 per trasferirsi quindi nei nuovi locali nei primi mesi del 1899 (Bianchino 1987); fin dall’inizio, proseguendo una consuetudine che era già di Borro, i dati di  ripresa sono  registrati  in volumi, denominati sino al 1911 “Libri Mastri”, in cui al numero progressivo ed al formato della lastra è affiancato il nome del committente, essendo strettamente in funzione di questo che lo Studio Rossetti opera, al di fuori di ogni progettualità sua propria che non sia quella di sempre meglio soddisfare le richieste del mercato[14];  per questo nello scorrere i registri è più frequente incontrare indicazioni di genere (Interno chiesa, Acque, Condotte, Dighe, Pitture, ecc.) piuttosto che denominazioni precise dell’opera, essendo questo un dato per così dire di secondaria importanza per il fotografo, per il quale risulta fondamentale il solo sistema di rimandi che consente di risalire eventualmente alla lastra necessaria per la ristampa, secondo il motto comune a tutti i fotografi del secolo scorso, ma forse non sempre realizzato in modo così scrupoloso, “Si conservano le negative”. È questo di Rossetti un mondo professionale ormai completamente diverso dai pionierismi di Besso ed opposto per intendimenti alle campagne di Pia, segnato da una delimitazione netta del proprio ruolo professionale che risulta qui privo di volontà propositiva, puro servizio, in cui ciò che conta non è più la scelta del soggetto ma il bagaglio di esperienze e tecnologie che il fotografo è in grado di offrire e che si traduce, per noi che guardiamo alla sua produzione anche quale fonte, in ulteriori e sempre più indispensabili elementi di documentazione. Si consolida nel primo decennio del secolo la separazione netta, iniziata circa il 1880 con la prima produzione industriale dei materiali sensibili, tra impegno professionale e produzione amatoriale a cui sfuggono forse, ma la loro vicenda è ancora poco nota,   personaggi con storie diverse alle spalle quali Mario Garlanda di Biella o Franco Bogge di Occhieppo, che dopo una stagione di buon dilettantismo pittorialista passa alla professione realizzando campagne di documentazione  per lungo tempo utilizzate a corredo di volumi dedicati al territorio biellese[15].

 

 

 

 

 

Note

 

[1] Costantini et al. 1989, tav.263.

[2] Falzone del Barbarò 1980, p.1385 sg.

[3] Racanicchi 1981, pp. 8-9. La vasta eco prodotta dalla pubblicazione del Plico è documentata in Vittorio Sella 1982, p.351, nota 36.

[4] G.V.Sella “Fatti rimarchevoli”, Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Maurizio. Ringrazio il Dott. Lodovico Sella, Presidente della Fondazione, Maria Vittoria Bianchino e Vittoria Sella per i preziosi suggerimenti e per le segnalazioni; per la citazione cfr. Sella 1863, p.13. La pratica della annotazione scrupolosa dei procedimenti, delle varianti e delle esemplificazioni basate sull’esperienza corrente non è un caso eccezionale specialmente tra i fotografi ottocenteschi, ciò che distingue G.V. Sella è il prevalere della attenzione tecnologica sulla produzione di immagini, la volontà di sistematizzazione che porterà alla redazione del Plico, entrambe strettamente legate alla sua attività imprenditoriale.

[5] Album Fotografico, 1864, Biella, Biblioteca Civica. L’immagine è stata pubblicata per la prima volta in Falzone del Barbarò, 1979, p.145 ed ora riedita in  Romano 1990, s.n. Per la biografia di Besso cfr. Falzone del Barbarò 1980, p.1404 , Poco definita risulta tuttora l’attività precedente  l’apertura dello studio fotografico nel 1859: secondo Torrione 1965  egli realizza nel 1842 una veduta in litografia, stampata a Torino nello stabilimento Doyen, della “Casa di campagna del Sig. Cavaliere Cipriano Villani a Lessona (Biella)” ed ancora, nello stesso anno, una veduta del castello di Sandigliano su incarico dell’Istituto Agrario del Regno Sardo; della stessa immagine esiste una versione incisa, in collezione privata, descritta come  “rara incisione del pittore Besso, tratta da una china di autore ignoto”(Vialardi di Sandigliano 1989, p.8). Da segnalare infine che nessuno di questi soggetti  figura nei cataloghi fotografici, mentre ancora nel 1881  viene offerto un “Piccolo ricordo in litografia contenente n.20 vedute comprendenti i tre Santuari di Oropa, San Giovanni e Graglia” (Besso 1881, p.11). Non essendo sinora stato reperito alcun esemplare di questa raccolta non resta altro che sottolineare la particolarità costituita dalla offerta di una serie di vedute in litografia a questa data ed all’interno di un catalogo fotografico. Per quanto riguarda la denominazione dello studio si ritrova dapprima la dicitura “Besso Vittorio/Pittore e fotografo/cantone Riva/Casa Cavaliere Marandono/Biella”, utilizzata almeno fino al 1864 e poi sostituita, forse intorno al 1873-75, da “Premiata Fotografia Vittorio Besso…”. La denominazione “Fotografia Reale Alpina” è registrata dal Catalogo del 1881 mentre al 1893 (Besso  1893) si avrà “Reale Stabilimento Fotografico Alpino”.

[6] Besso 1868. L’album, conservato presso la Biblioteca Civica di Biella, costituisce a tutt’oggi la testimonianza più importante della produzione di Besso nel campo della riproduzione d’arte ma certo una migliore conoscenza dei Fondi Fotografici di Istituti ed Accademie d’Arte potrebbe portare a non poche sorprese; basti ricordare a titolo di esempio che presso l’Istituto di Belle Arti di Vercelli sono conservate una trentina di stampe sciolte, montate su cartone. La riproduzione di disegni autografi prosegue per tutto il corso dell’attività di Besso: se al 1868 l’album contiene 326 esempi essi divengono “mille e più” (Besso 1881) circa venti anni più tardi e risultano oltre duemila negli ultimi anni di attività (Besso 1893). Di tali disegni, collezionati dallo stesso fotografo, “si ignora la collocazione attuale…(né, d’altronde, è certo che esistano tuttora)” (Viale Ferrero 1980, p. 1487). Tra le tavole riprodotte nell’Album segnaliamo una rappresentazione allegorica de La Fotografia dovuta a Paolo Morgari (n.306), che richiama la litografia dello stesso autore realizzata nel 1839 su iniziativa degli ottici torinesi Jest e Rasetti per celebrare Daguerre e Della Porta (Prolo, Carluccio 1978, p.136); ancora a Morgari si deve la decorazione con stucchi e pitture dello studi di Henri Le Lieure a Torino (Falzone del Barbarò 1987, p.17). Il tema iconografico dei putti fotografi è ampiamente diffuso intorno alla metà del secolo come mostrano gli esempi di Bertini (Lucca), Casarico e Tomaso Pozzi (Milano) pubblicati in Becchetti, 1978, passim. e la “Fotografia Svizzera di Fumasoli”, Aosta (Maccaferri 1986, p.30).

[7] Anonimo,” Ospizio di Oropa“, 1865 c., Anonimo, “Nuovo cimitero del Santuario di Oropa“,1874 c., Oropa, Santuario, Fondo Fotografico; da questo fondo provengono tutte le immagini di Oropa presentate in questa occasione. Ringrazio la Amministrazione del Santuario per aver autorizzato l’accesso al Fondo; devo alla grande cortesia del sig. Golzio la concreta possibilità di accedere alla ricchissima documentazione in questo conservata, solo parzialmente analizzata in questa occasione non essendo stato possibile studiare il fondo di negativi su lastra. Sia per le stampe che per i negativi sarebbe inoltre della massima urgenza provvedere ad una accurata sistemazione e conservazione al fine di frenare i processi avanzati di deterioramento determinati dalle peculiari condizioni di ambientali, termoigrometriche, che caratterizzano i locali del Santuario. Da segnalare inoltre la presenza, in altro contesto, di numerose testimonianze fotografiche tra gli ex-voto il cui significato non può essere affrontato in questa sede. Negli anni Settanta risultano operosi anche gli studi di P. O. Borro e Capellaro e Masserano (Cassio 1980, p.197; Bianchino 1987): Paolo Onorato Borro ha studio in via Umberto 59, dirimpetto alla piazza San Cassiano dove risulta associato con  Rossetti  dal 1880 al 1885, quando si trasferisce a Torino in via Cernaia, 20 dove apre la “Fotografia Cernaia”; allo stesso indirizzo risulta,  qualche anno più tardi, la “Platinotipia Giuseppe Paggiaro” poi trasferita a Trino verso il 1892, dove avrà come successore, a partire dal 1908, Enrico Toccafondi.  Dello studio Capellaro/Masserano (altre volte indicato come Capellaro/Massarano) non è nota l’ubicazione;  operatore dello studio era il fotografo G. Garaffi mentre un Giuseppe Masserano è ricordato quale chimico e fotografo ed un Lorenzo Masserano è citato quale litografo-tipografo nel 1881-82. Il motto da loro scelto, “Artis Amica Nostrae”, risulta ampiamente utilizzato dagli studi fotografici coevi: si vedano ad esempio i cartoni di Fumasoli, Aosta, 1880 c. (Maccaferri 1986, p.31) e dei F.lli Ajello di Catanzaro (Becchetti, 1978, p.61) in cui anche l’iconografia risulta derivata da un modello comune.

[8] Nella prefazione alla prima edizione (riedita in Butler 1913, p.11 l’autore ricorda che “the two larger views of Oropa are chiefly taken from photographs. The rest are all from studies taken upon the spot.” Sebbene per queste immagini non possa essere esclusa la paternità di Butler, che alcuni ricordano anche come fotografo (paternità che sarebbe però stata scrupolosamente segnalata nella stessa prefazione), la relazione con la citata fotografia di Besso è molto stretta e pare verosimile che lo studioso inglese abbia fatto ricorso alla produzione di uno studio fotografico locale. Va qui almeno ricordata l’amicizia di Samuel Butler e di Francesco Negri, legata alla redazione del volume dello studioso inglese dedicato agli Ex voto (1888). Nel Fondo Fotografico Negri della Biblioteca Civica di Casale Monferrato è conservata una lastra stereoscopica (BCC,FN, sc.E13) in cui compaiono S. Butler, H. Festing Jones e C. Coppo ripresi a Camino, ed un altro negativo, non stereoscopico, datato 1898 ca (BCC., FN., sc.B20) in cui ancora Butler e Jones, che sarà il curatore dell’edizione postuma dei Notebooks dello studioso, sono ripresi nel giardino di casa Negri a Casale.

[9] Come si ricava dalla serie cronologica delle opere  (L. Sella 1982, pp.29-33), alla data dell’Esposizione,in cui presenta tra le altre cose una “veduta panoramica dipinta ad olio” (Esposizione, 1882), Vittorio Sella ha già realizzato i panorami dal Monte Mars (1879), dalla Testa Grigia (1880), le immagini del Bianco(1881) ed il panorama di 360° dal Cervino. Le immagini di Besso, in particolare quelle relative alla Valle d’Aosta, vennero presentate ancora all’Esposizione Nazionale di Torino del 1884, valendogli una Medaglia d’argento. (Barbiera 1884, p.350). Il fotografo non risulta invece presente nella “Appendice alla Sezione Architettura – Fotografie Architettoniche” della stessa Esposizione in cui compaiono tra gli altri Berra, Castellani, Maggi ed Ecclesia, quest’ultimo con temi e soggetti simili a Besso (Esposizione 1884).

[10] Il corpus di immagini relative alle cappelle del Sacro Monte, conservato presso il Fondo Fotografico del Santuario di Oropa, è costituito da 19 stampe montate su cartone e 14 negativi di formato non immediatamente corrispondente alle stampe. A Dossena e Scanzio si deve anche una bella immagine dell’altare di San Teonesto a Masserano  forse legata ancora ad un mercato “devozionale” (bella stampa montata su cartone, destinata alla vendita ) ma forse non estranea al rifiorire di studi intorno al primo decennio del Novecento. Allo stesso Studio si deve la riproduzione de “La sciabola del Canonico Moretta” pubblicata in Carandini, 1914 p.77, conservata nella collezione dello stesso autore. Non risultano per ora altre informazioni relative all’attività di questi fotografi che sembrano porsi, non solo cronologicamente, tra il modo di operare di Besso e quello dello Studio Rossetti. Per comprendere quale differenza intercorra tra rappresentazione devozionale e documentazione del patrimonio artistico dei Sacri Monti può essere sufficiente confrontare le immagini di Dossena e Scanzio con quelle, sostanzialmente coeve, di Pizzetta e Masoero per Varallo e di Francesco Negri per Crea.

[11] Domenico Vallino in, Padovani, Gallo, 1900, p. VI. Egli va ricordato seppur per brevi cenni, anche come fotografo: già nell’Album di un alpinista (Vallino 1878) alcuni degli schizzi dal vero sembrano tratti da fotografie e sue fotografie compaiono sia nel volume realizzato in collaborazione con V. Sella (Sella, Vallino 1890) sia in quello collettivo del 1898 dedicato al Biellese (C.A.I., 1898); altre ancora saranno infine utilizzate da Roccavilla  (Roccavilla 1905). Una attenta verifica delle immagini comprese nel Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella porterà certamente alla individuazione di numerose stampe e lastre originali, alcune delle quali sono state pubblicate in Romano 1990. Il volume di Padovani Gallo 1900 ha un precedente nel testo dedicato ad Andorno pubblicato da Amosso nel 1887, corredato di una stampa all’albumina e di vedute in litografia (Lynn Linton 1887). Anche le Guide di Pertusi e Ratti sono dotate di una corredo illustrativo che nella edizione del  1892 comprende 16 fotografie, prevalentemente dovute a Francesco Casanova, che risulta essere l’autore della maggior parte delle immagini utilizzate  nei volumi da lui editi, ma anche a Carlo Ratti ed Emilio Gallo, da confrontarsi queste ultime con l’Album dell’anno precedente.

[12] Biella San Girolamo, Fondazione Sella, Fondo Vittorio, Lettere. Il “modesto dilettante” Pia riceverà pochi mesi dopo, durante la Prima Esposizione Italiana di Architettura, una Medaglia d’oro “Per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti” (Prima Esposizione 1891, p.49). Le riproduzioni dei dipinti a cui si fa cenno nel testo della lettera sono oggi conservate nel Fondo Pia della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, scatola C/II. Tale Fondo è costituito dalle stampe originali donate dallo stesso fotografo a partire dal 1891.

[13] Devo a Chiara Ottaviano, che ringrazio, la segnalazione di questa pubblicazione, già discussa in Albera, Ottaviano 1989, Appendice I,  in cui si affronta per la prima volta il problema di una corretta attribuzione del Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Biella. Se non si può non concordare nel riconoscere a Roccavilla la responsabilità della raccolta di immagini che lo costituiscono, si deve anche rilevare  come esse non siano riferibili ad un solo autore, come è dimostrato – anche solo per la porzione già riprodotta – dalla presenza di immagini cronologicamente e stilisticamente molto distanti, a volte di attribuzione certa (Vallino, Besso), in larga parte utilizzate per illustrare  il primo volume che il Club Alpino Italiano dedica al Biellese (CAI 1898). Il Fondo comprende anche  alcune stampe originali tra le quali si segnalano Sulla porta del molino di canapa, che una scritta sul verso attribuisce a Roccavilla, pubblicata nel volume del 1913 (“The Studio” 1913, tav.18) senza indicazione d’autore, mentre sono attribuite a Roccavilla due immagini di oreficerie vercellesi e biellesi (“The Studio” 1913, tavv. 283,284) riedite recentemente (Romano 1990, s.n., negg. 446, 430). Si segnala infine, ad esemplificazione dei problemi posti dalla identificazione degli autori delle immagini presenti nel Fondo, come la fotografia intitolata Peasant carriers, Valle del cervo, Biella, Piedmont sia attribuita nel 1913 a Roccavilla (“The Studio” 1913, tav. 25), che risulta tra i collaboratori del volume, mentre è assegnata a D.V.(Domenico Vallino) nel già citato volume del CAI del 1898 (CAI 1898, p. 178).

[14] Non è certo il caso di sottolineare l’importanza fondamentale del Fondo Rossetti, conservato presso la Fondazione Sella di Biella San Girolamo, per la storia della città e del territorio tra Otto e Novecento, non semplicemente legata alla abbondanza del materiale iconografico ma  anche alla presenza dei registri di commissione che consentono di datare esattamente e di studiare i modi dell’utilizzazione dell’immagine fotografica da parte di utenti estremamente diversificati (Bianchino 1987).

[15] Fotografie di Bogge sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” nelle annate del primo decennio del secolo, mentre allo stesso autore, che intorno al 1926 ha studio in Biella in via Umberto 43, si devono le belle illustrazioni del volume dedicato alla IV Incoronazione della Vergine di Oropa ( Cucco, Varale 1920). Ancora di Bogge sono le illustrazioni di soggetto biellese comprese in Marangoni 1931, riprese nel contemporaneo volume dedicato al Piemonte dal Touring Club Italiano (TCI 1931, pp.231-234). Con Rossetti e Bogge vanno ricordati gli autori/editori di cartoline quali Giovanni Bonda e Mario Garlanda, che all’inizio secolo edita una serie di paesaggi dovuti a Cesare Schiaparelli. Accanto a questi pochi nomi ed agli altri ormai noti dei fratelli Piacenza, di De Agostini, di Roberto Mosca, vanno almeno segnalati, quale labile traccia per ricerche future, Gabutti di Mosso S.Maria, Brilla di Biella, l’ing. P.Ponti di Andorno (segnalati in varie annate de “Il Progresso Fotografico” tra 1894 e 1909),  e la numerosa schiera di autori, forse prevalentemente dilettanti, che collaborano in vario modo nei primi decenni del secolo con Touring Club  e Club Alpino Italiano (Serpieri 1910; CAI 1928) quali L. Borsetti ed Erminio Sella di Biella, U. Sella di Cossato, A. Ramella di Pollone, E. Gaja, O. Silvestri, G. Varale, F. Maggia ed E. Cablé.

 

 

Bibliografia

 

Albera, Ottaviano 1989

Dionigi Albera, Chiara Ottaviano, Un percorso biografico e un itinerario di ricerca: a proposito di Alessandro Roccavilla e dell’Esposizione romana del 1911. Torino: Regione Piemonte, 1989

 

L’art rustique 1913

L’art rustique en Italie, “The Studio”, 1913, numero d’automne

 

Astrua, Romano 1979

Paola Astrua, Giovanni Romano, Vercelli, in Guida breve al patrimonio artistico delle provincie piemontesi. Torino: SBASP, 1979

 

Fotografi del Piemonte 1852-1899 1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Barbiera 1884

Raffaello Barbiera, Le Fotografie, in “Torino e l’Esposizione Generale”, 1884, n.44

 

Becchetti 1978

Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Quasar, 1978

 

Besso 1881

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute, panorami, ritratti ecc. coi prezzi correnti. Roma: Elzeviriana,  1881

 

Besso 1893

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute e panorami. Biella: Amosso, 1893

 

Bianchino 1987

Maria Vittoria Bianchino, Studio fotografico Rossetti. Cento anni di immagini biellesi, “Bollettino DocBi”, 1987, pp. 56-71

 

Brayda 1904

Riccardo Brayda, Visita artistica a Candelo, Gaglianico e Biella, “L’Escursionista”, 1904, estratto

 

Butler 1913

Samuel Butler, Alps and Sanctuaries. London: Fifield, 1913

 

C.A.I. 1898

C.A.I., Il Biellese. Milano: Turati, 1898

 

C.A.I. 1928

C.A.I., Il Biellese. Ivrea: Viassone, 1928

 

Carandini 1914

Francesco Carandini, Vecchia Ivrea. Ivrea: Viassone,1914

 

Cassio 1980

Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta: Musumeci, 1980

 

Coiz 1873

Antonio Coiz, Guida storico-artistico industriale di Biella e del circondario. Biella: A.Chiorino, 1873

 

Costantini et al. 1989b

L’insistenza dello sguardo: Fotografie italiane 1839-1989, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 25 marzo-2 luglio 1989) a cura di Paolo Costantini, Silvio Fuso, Sandro Mescola, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1989

 

Cucco, Varale 1920

Cornelio Cucco, Giovanni Varale, Regina Montis Oropae. Biella: Tip. Ospizio di Carità,1920

 

Esposizione 1882

Esposizione generale dei prodotti del circondario di Biella del 1882, Catalogo Ufficiale e Pianta. Biella: Amosso, 1882

 

Esposizione 1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884, Arte Contemporanea: Catalogo Ufficiale, Torino, Unione Tipografica Torinese, 1884

 

Falzone del Barbarò 1979

Michele Falzone del Barbarò, Besso Vittorio,  in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.145-146.

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Vittorio Besso (Biella 1828-95), in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, p. 1404

 

Falzone del Barbarò 1987

Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento. Turin ancien et moderne. Milano: Fabbri, 1987

 

Linton 1887

Elizabeth Lynn Linton, Andorno, with photographs and a map of the neighbourhood. Biella: Amosso, 1887

 

Maccaferri 1986

Gianfranco Maccaferri, a cura di, 1870-1940: I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Marangoni 1931

Guido Marangoni, Vercelli il Biellese e la Valsesia. Bergamo: Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1931

 

Mario Sansoni 1987

Mario Sansoni: Diario di un fotografo, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n. 5, giugno, pp. 44-53

 

Miraglia 1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2., pp. 421-544

 

Padovani, Gallo 1900

Pia Padovani, Emilio Gallo, Illustrated guide to the valleys of the Biellese region. Torino: Casanova, 1900

 

Pertusi, Ratti 1892

Luigi Pertusi, Carlo Ratti, Guida pel villeggiante nel Biellese. Torino: Casanova, 1892

 

Pozzo 1881

Severino Pozzo, Biella: Memorie storiche e industriali. Biella: Amosso, 1881

 

Prima Esposizione 1891

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino: Roux & C., 1891

 

Progresso Fotografico 1894-1909

“Il Progresso Fotografico”, 1 (1894) – 16 (1909)

 

Prolo, Carluccio 1978

Maria Adriana Prolo, Luigi Carluccio, Il Museo Nazionale del Cinema. Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1978

 

Racanicchi 1981

Piero Racanicchi, Vittorio Sella fotografo, alpinista, esploratore in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, a cura di, Dal Caucaso al Himalaya 1889-1909: Vittorio Sella, fotografo, alpinista, esploratore. Milano: Touring Club Italiano – Club Alpino Italiano, 1981, pp.7-33

 

Roccavilla 1905

Alessandro Roccavilla, L’arte nel Biellese. Biella: Allara, 1905

 

Romano 1990

Giovanni Romano, a cura di, Museo del territorio biellese. Biella: Gariazzo, 1990

 

Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del Fotografo. Torino: Paravia, 1863

 

Sella,  Vallino 1890

Vittorio Sella,  Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890

 

Serpieri  et al.1910

Arrigo Serpieri  et al., Il bosco. Il Pascolo. Il monte. Milano: T.C.I., 1910

 

Tamburini, Falzone del Barbarò 1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Piazza, 1981

 

T.C.I. 1930

Touring Club Italiano, Piemonte. Milano: T.C.I., 1930

 

Torrione 1965

Pietro Torrione, a cura di, Castelli biellesi. Biella: Sandro Maria Rosso, 1965

 

Vallino 1878

Domenico Vallino, In Valsesia: album d’un alpinista.  Biella: Amosso, 1878

 

Vallino 1882

Domenico Vallino, Guida per gite alpine nel Biellese e indicazioni sulle industrie del circondario. Biella: C.A.I., 1882  

 

Vialardi di Sandigliano 1988

Tomaso Vialardi di Sandigliano, Il castello del Torrione a Sandigliano, “Rivista storica biellese”, 5 (1988), n.5, pp.5-14

 

Viale Ferrero 1980

Mercedes Viale Ferrero, Fabrizio Sevesi (1773-1837),  in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 3, pp. 1486-1487

 

Vittorio Sella 1982

Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982

 

Luoghi, tempo, fotografie (2015)

in Angelo Anétra, a cura di, Testimonianze nel  Tortonese dall’Archivio Fotografico e disegni della Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2015, pp. 11-32

 

Guardare le fotografie

E vederle anche, questo è l’invito. Cercando di andare oltre l’apparenza, oltre l’immediata restituzione della cosa fotografata per essere consapevoli del fatto che lo sguardo che noi portiamo su questi luoghi, su queste architetture, è mediato dalla fotografia e dai fotografi: dal mezzo come dagli autori di queste serie di scatti. Queste immagini sono e ci restituiscono architetture dello sguardo: non solo perché queste sono raffigurate e rappresentate, ma anche perché ciascuno degli sguardi da cui originano è a sua volta caratterizzato da modi suoi propri, da una peculiare strutturazione espressiva che va riconosciuta e compresa. Detto altrimenti, queste fotografie sono documenti complessi che ci informano non solo sullo stato delle cose al momento della loro realizzazione, ma anche sulle intenzioni e la cultura dell’operatore che le ha realizzate, della committenza a volte. Oltre la loro apparente accessibilità, oltre la superficie vorremmo dire, contengono informazioni di natura diversa, della cui esistenza è bene tener conto.

Guardare una fotografia per poterla veramente vedere, allora, provandoci a superare la dicotomia espressa dal titolo di una famosissima mostra prodotta dal  MoMA di New York[1] nel 1978. Dobbiamo infatti considerare ogni fotografia ad un tempo “specchio” e “finestra”, immagine che documenta “non solo lo stato fisico delle architetture e degli spazi urbani  ma anche i modi del loro uso nel tempo” e che offre “un contributo alla conoscenza degli uomini e dell’uso che essi fanno degli spazi costruiti”[2]; consapevoli che esse sono “lettura critica di un’architettura (…) e della sua utilizzazione nel tempo.”[3]

Quelle qui pubblicate appartengono alla categoria delle fotografie comunemente definite documentarie e in particolare al ben consolidato  ‘genere’, della fotografia di architettura, in cui – almeno in prima approssimazione – è considerata meno rilevante se non proprio messa in secondo piano la figura (e per certi versi la presenza determinante) dell’autore. “Io conosco un tale che fa bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica”[4] scriveva Tristan Tzara nel 1922 offrendo una versione macchinista dell’idea già  ottocentesca di queste “immagini [che] creavano sé stesse” (François Arago, 1839),  accogliendo e valorizzando quella sorprendente, costitutiva assenza di autorialità in cui era individuata la meraviglia della fotografia, la sua confortante oggettività di prova.

Il “secolo breve” a cui appartengono le nostre fotografie avrebbe dovuto ormai essere culturalmente lontano dalla fiducia ‘primitiva’ e quasi incondizionata nell’oggettività di queste immagini che si dicevano prodotte  da una “natura fatta di sé medesima pittrice”, ma è sin troppo facile scoprire quanto quella fiducia sia ancora sottesa alla loro realizzazione e al loro utilizzo, tanto da rendere invisibile la stessa fotografia in quanto processo e in quanto oggetto: essa risulta ‘invisibile’ in quanto tale. Pare documentare solo altro da sé nonostante la propria invadente presenza di medium, quella rivelata dalle stesse modalità di rappresentazione: inquadratura, restituzione ottica, esposizione, messa a fuoco. Scopriamo allora che questa fiducia  nelle nostre capacità di comprensione è ancora la stessa di John Ruskin, che nella prefazione alla seconda edizione di The Seven Lamps of Architecture (1880) invitava gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico e li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli”.[5] Basti considerare qui la serie di riprese del 1981 relative alla  chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale.

Anche un eminente studioso come Ernst Gombrich ricordava che “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[6]. Questo è esattamente il termine della questione, sebbene non il solo. L’indifferenza alle ‘distorsioni’, siano esse derivate dalla strumentazione fotografica o dall’azione dell’operatore, dipende in tutta evidenza dal fatto che noi riconosciamo culturalmente queste immagini come fotografie e siamo  consapevoli della loro natura indiziaria di segno di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[7]. Indizi e documenti quindi: ma di cosa? Il tema è troppo complesso per poter essere sviluppato qui, ma non può neppure essere eluso. Allora possiamo almeno dire che ogni fotografia nella sua materialità di oggetto (e non solo di immagine) accanto alla cosa fotografata testimonia  anche  la cultura visiva e professionale dell’operatore, senza dimenticare che a queste si sovrappongono, nel momento dell’osservazione, le nostre attese e competenze di lettori di quel testo figurativo che è costituito dalla fotografia che stiamo osservando, che teniamo in mano, che vediamo su di una pagina di libro ovvero, oggi, sullo schermo di un dispositivo digitale. Per questo insieme di ragioni, per queste compresenze più o meno immediatamente comprensibili possiamo dire di ogni fotografia che è una traccia e un indizio, è un segno ed è anche un simbolo. È  – per riprendere la fortunata definizione di Jacques Le Goff[8] – un documento/ monumento, un insieme inscindibile e irrinunciabile, che ci forza a distinguere senza disgiungere le componenti referenziali e quelle culturali, verificando la possibilità di comprendere gli elementi connotativi che hanno contribuito a dare corpo all’ immagine a partire da quella oggettualità storicamente data che ne ha costituito ogni volta il referente fisico, materiale.  Ciò facendo assegniamo a ciascuna fotografia, un molteplice valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata dalla sua individuale materialità di oggetto, e contemporaneamente testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del soggetto fotografato, del referente, rispetto alla quale il valore documentario di ogni fotografia prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sulla sua più profonda natura di immagine, quella che ci fa dire con Roland Barthes che ciò che vediamo “è stato”.[9] Per questo complesso di ragioni le domande che noi possiamo porre al documento fotografico (anche di architettura) sono molteplici: esso ci informa non solo sullo stato dei luoghi e delle cose ma anche sul valore e sul senso assegnato all’opera rappresentata e alle sue modalità di raffigurazione. Da qui deriva la possibilità di riconoscere un significato anche nella scelta dei temi, di assegnare la stessa importanza alle presenze come alle assenze.

 

Verso una storia

L’invenzione della fotografia venne concepita e prese forma in un contesto che non può che essere definito della modernità in senso storiograficamente canonico, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, e fu ancora in quell’ambito che si definì la sua funzione di strumento utopico di classificazione del mondo, di generatore e materia costituente di quegli archivi iconici che costituiscono una delle fonti privilegiate  per tracciare le coordinate dell’oggi e del passato recente, per fare storia. L’enorme successo e diffusione della fotografia, quel suo essere (stata) fuor di ogni dubbio uno degli elementi costituivi della contemporaneità trovò il proprio fondamento proprio nel suo essere la prima incarnazione tecnologica di un canone rappresentativo di consolidata e solo parzialmente declinante tradizione, ciò che consentì il formarsi di  quel sentire comune che le riconobbe quella  presunta oggettività su cui, ancora, si sono fondati la sua fortuna mediatica e la sua pervasività.

La possibilità offerta dal mezzo fotografico di documentare cose ed eventi divenendo documento lo stesso suo prodotto era già ben chiara nella mente dei suoi pionieristici esegeti: i primi contributi alla discussione risalgono infatti al fatidico 1839 quando Jean Vatout, presidente della commissione francese dei Monuments Historiques, rilevava come la scoperta di Daguerre offrisse la possibilità di portare a compimento il progetto di “former la collection des plans et des dessins de tous les monuments de la France”[10], assegnando alla fotografia quella funzione di strumento per la documentazione, qui indiretta ma già precisamente orientata in senso archivistico, che venne sviluppata successivamente e quasi normata da Viollet-Le-Duc nel più specifico contesto del cantiere di restauro architettonico[11] e dalla Mission Héliographique del 1851 per la documentazione del patrimonio monumentale francese[12]. Era quello stesso ruolo sancito polemicamente anche da Charles Baudelaire in occasione del Salon parigino del 1859: “Bisogna dunque che [la fotografia] si limiti al suo dovere (…) che salvi dall’oblio le rovine pericolanti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose la cui forma va scomparendo e che esigono un posto negli archivi della memoria”.[13]

Anche in Italia l’attenzione per il patrimonio storico artistico si tradusse in specifiche iniziative di conoscenza, e quindi di tutela, già negli anni intorno all’Unità con l’istituzione di appositi Commissioni e Commissariati,[14] mentre nel 1870 uno studioso come Pietro Selvatico avanzava la Proposta per la riproduzione fotografica dei principali monumenti d’Italia, rivolta al Comune di Padova affinché si facesse “promotore di un consorzio fra municipi allo scopo di costituire una cospicua collezione fotografica, seguita dalla pubblicazione di un volume a guida della raccolta (…) cioè una storia monumentale della penisola”,  poiché “I cataloghi e le definizioni che pur ne vanno preparando apposite Commissioni, non bastano (…) perché la parola non è sufficiente (…) Per raggiungere utilmente lo scopo vuolsi unita alla definizione l’immagine dell’opera”, cioè la fotografia, “la quale con poca spesa riproduce un monumento qualsiasi con ben altra precisione che non possa fare il disegno”.[15] In quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione invitava le Accademie di Belle Arti a “raccogliere notizie intorno agli edifizi e monumenti ragguardevoli per l’arte e per le memorie storiche ed archeologiche, non esclusi gli affreschi e i mosaici”[16], vale a dire a compilare quegli Elenchi  “di edifici pubblici di qualsiasi forma, sacri o profani (…)  i quali per arte, antichità o memorie storiche, abbiano tale importanza da farli annoverare tra i monumenti nazionali”, di cui scriveva Cesare Correnti nel 1870, sollecitandone la redazione ai Prefetti[17].

Da quelle iniziative derivarono le prime sistematiche ricognizioni del territorio a scala nazionale, vale a dire  la  campagna documentaria  avviata nel 1878 per iniziativa del Ministro della Pubblica Istruzione. Forse seguendo il modello francese della Mission Héliographique[18], il ministro aveva invitato ogni  prefetto italiano a “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici (…) per  avere le fotografie dei monumenti medievali esistenti in questa provincia, e indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie.”[19] La Commissione piemontese istituita giusto quell’anno riuscì però a deliberare solo nel  febbraio 1882,  assegnando a due dei migliori professionisti piemontesi, Giovanni Battista Berra (Fotografia Subalpina)[20] e Vittorio Ecclesia[21], il compito di fotografare gli “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  assegnandogli rispettivamente il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[22] Così l’Elenco dei monumenti assumeva per la prima volta la forma di un repertorio per immagini, riconoscendo alla visualizzazione un ruolo importante nel processo di mediazione e diffusione della conoscenza come in quello di costruzione identitaria dei territori.

Ciò che colpisce di quella realizzazione non è tanto l’esaustività delle ricognizioni, ben delimitate dai rispettivi incarichi, o la scelta dei soggetti (alcuni dei quali ritroveremo due anni dopo nella realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino a Torino),quanto l’idea non specificamente espressa ma ben evidente nelle indicazioni generali, di pervenire alla formazione sistematica e strutturata di un archivio per immagini di quelle che allora erano considerate le eccellenze del patrimonio architettonico italiano. Si trattava però di un tipo del tutto nuovo di figure, poco adatte ad essere lette come traduzione e rappresentazione formalizzata del reale, sulla scia tradizionale delle arti del disegno e dell’incisione. Anzi: queste erano immagini che portavano in dote la propria invisibilità, quella capacità massimamente mimetica di offrirsi quale immediato sostituto del reale che lo stesso Pietro Estense Selvatico aveva celebrato già nel 1859, sottolineando come “l’impassibile occhio senza cuore” della fotografia – la definizione è però di Alfonso Rubbiani[23] – fosse in grado di “darci le esatte apparenze  della forma”.[24]

L’iniziativa personale dei singoli fotografi aveva anticipato da tempo quel genere di realizzazioni. Per limitarci al Piemonte, e non considerando quindi la nascita dei grandi studi come Alinari, Brogi o Sommer, fu a partire dagli anni Cinquanta del XIX secolo,  decennio segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, che si ebbero le prime pionieristiche realizzazioni del biellese Giuseppe Venanzio Sella, che utilizzava ancora la più antica tecnica della carta salata e fu autore anche di un testo fondamentale della prima letteratura fotografica italiana come il Plico del fotografo  (1856), di  Ludovico Tuminello, romano esule a Torino dopo la caduta della Repubblica Romana nel 1849, e del torinese  Francesco Maria Chiapella. Mentre la scelta dei soggetti operata da questi autori confermava quelli già stabiliti dalla produzione calcografica e litografica precedente, nel decennio successivo si sviluppò una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolgeva a tutto il territorio regionale; l’attività di documentazione fotografica si faceva più specifica e il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: basti pensare alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864), il tracciato della Ferrovia Fell al Moncenisio ripreso dal fiorentino Giacomo Brogi o il traforo del Frejus, illustrato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure nel 1868-1870, ma anche all’insieme vasto della produzione di Vittorio Besso.[25]

A partire dagli anni ’70 del XIX secolo comparvero anche i primi album fotografici dedicati ai centri minori della regione. In quelle realizzazioni i fotografi attivi nelle piccole città rivolgevano la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase era proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li portava  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrispondeva allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili, qui riconosciute invece quali luoghi canonici, che si impongono come ovvi e ineluttabili, specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzavano ciascun sito[26]. Nel loro riferirsi alla specificità del luogo, la novità non era ancora di sguardo, ma di cosa osservata; erano i soggetti prescelti a connotare ogni realizzazione, mentre la sintassi visiva e le formule espressive si muovevano in uno spazio comune, secondo canoni ben riconoscibili, in cui la definizione autoriale dell’immagine, pur presente, non era esplicitamente ricercata e semmai evidente nella diversa maestria tecnica di trattamento dell’immagine. Era il progetto documentario, insomma, a essere culturalmente rilevante, ben più che la qualità formale delle immagini che da quello derivavano, pur essendo in quegli anni molto alta anche in conseguenza delle caratteristiche proprie delle tecnologie adottate: dalla ripresa effettuata con lastre di grande formato alla stampa a contatto dei positivi.

Costituisce una realizzazione esemplare in tal senso l’album Tortona e dintorni pubblicato nel 1889 da Federico Castellani[27] per iniziativa del Municipio, della Banca Popolare dei Piccoli Prestiti, del barone Alessandro Guidobono-Cavalchini-Garofoli, del Cav. Paolo Ferrari, del Sig. G. Ferretti e dell’Avv. G. Fiamberti. Questo l’ordine di citazione al primo foglio, in cui solo a pochi fu concesso l’onore di essere indicati anche col nome proprio per esteso. “Illustrazione fotografica ordinata da Aristide Arzano” recita ancora il frontespizio, indicando seppure in una forma quasi dimessa a chi si dovesse la regia di quella rappresentazione. L’esemplare consultato ha i fogli slegati, ciò che non consente di analizzare la sequenza narrativa originaria né, forse, di esprimersi con troppa certezza sulla scelta dei soggetti[28], ma alcune considerazioni possono essere comunque esposte: l’attenzione risulta equamente distribuita tra edifici religiosi (Santa Maria Canale, San Giacomo e il Duomo prima e dopo il rifacimento della facciata, l’abbazia di Rivalta), e altri civili come  il Teatro Civico, col suo sipario, e il Cimitero ma anche le sedi delle due banche, una delle quali era tra i promotori dell’impresa, ruolo condiviso dal proprietario di Villa Ferretti, alla quale vennero dedicate ben due riprese. Da quello che pare un tentativo di compiacere le pretese della committenza piuttosto che di descrivere esaurientemente la città risulta un’immagine complessiva scarsamente definita, dalla quale vennero esclusi non solo altri importanti edifici di interesse storico, sia civili che religiosi, ma anche presenze istituzionalmente significative come il Palazzo Municipale o testimonianze della modernità in atto quali la Stazione ferroviaria e quella tramviaria. [29]

A pochissimi anni di distanza dall’iniziativa ministeriale sopra citata, l’ormai notevole disponibilità di documentazione fotografica consentì di avviare un altro rilevante progetto: la costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani affidò  al Collegio locale in occasione dell’Esposizione Generale del 1884 che si tenne a Torino. Nel successivo congresso (Venezia, 1887)  questo presentò il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” – quindi con una presentazione artistica – quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano ordinate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[30]

A quello stesso 1884[31] risale anche la costituzione della prima Delegazione Regionale per i monumenti del Piemonte e della Liguria, cioè della prima forma istituzionale delle Soprintendenze e da quella data, ma specialmente dopo il 1886, è possibile seguire in modo piuttosto preciso lo svilupparsi dell’interesse per l’uso della fotografia, sino alla realizzazione di un proprio gabinetto di sviluppo e stampa. In aderenza alle proprie funzioni istituzionali, la documentazione fotografica risultava sempre essere in stretta relazione con interventi di tutela e restauro e proveniva sia dall’acquisizione di stampe di professionisti esterni sia impegnando i principali collaboratori di Alfredo d’Andrade come Carlo Nigra[32], che aveva uno specifico interesse personale per la fotografia, e Ottavio Germano[33]. La necessità di provvedere a una documentazione sistematica dei beni tutelati e dei cantieri indusse D’Andrade nel 1889 a richiedere al Ministero i fondi necessari per la realizzazione di un gabinetto fotografico[34] in grado di soddisfare tutte le esigenze di sviluppo, stampa e montaggio delle fotografie, scelta certo non estranea al dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari, particolarmente intenso alla fine del XIX secolo; l’estendersi di questa attività impose addirittura un ampliamento del parco di strumenti a disposizione, come dimostra la richiesta avanzata da Germano a D’Andrade relativa a un preventivo di L. 852 per l’acquisto di una nuova macchina fotografica solo cinque anni più tardi.[35]

Anche a scala nazionale il Ministero esprimeva la necessità di dotarsi di proprie strutture produttive da affiancare a quella propriamente archivistica costituita nell’ambito della Direzione generale delle Antichità e Belle Arti[36] ; così nel 1895 per iniziativa dell’ing. Giovanni B. Gargiolli prese avvio  quello che si sarebbe poi chiamato Gabinetto Fotografico Nazionale[37], mentre era del 1893 il contestatissimo Regio Decreto che prevedeva l’obbligo da parte dei fotografi – poi non sempre rispettato – di consegnare al Ministero copie positive e negative delle riprese fotografiche di opere d’arte, monumenti e “cimeli artistici o letterari (…) per provvedere alla migliore preparazione del catalogo generale dei monumenti e degli oggetti d’arte del Regno”.[38] Come si è detto erano quelli anni in cui si stava sviluppando a livello internazionale il dibattito intorno alla possibilità di istituire musei documentari fondati sull’uso di fotografie, come quello parigino fondato da Léon Vidal,[39] che William Jerome Harrison intese proporre come modello per altri paesi del mondo in occasione del Congresso di Fotografia di Chicago del 1894, tema ripreso e illustrato Italia nel marzo dello stesso anno da un intervento di Pietro Alegiani sulle pagine del mensile milanese “Il Dilettante di Fotografia” e sviluppato da Camillo Boito, Giuseppe Fumagalli, Gaetano Moretti e Corrado Ricci che nel 1899 promossero la raccolta presso la Pinacoteca di Brera di “fotografie di opere d’arte, di luoghi, d’avvenimenti, di persone ragguardevoli in ogni campo dello scibile”.[40] La riflessione critica e metodologica sulle potenzialità documentarie degli archivi fotografici venne ripresa ancora da Ricci ma soprattutto da Giovanni Santoponte chiarendo la differenza tra Museo fotografico, inteso come raccolta eterogenea di immagini prevalentemente destinate ai contemporanei, e Archivio fotografico, costituito da materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte [individuando] i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali.”[41] Il dibattito internazionale proseguì ancora negli anni successivi, ma diversamente da quanto accadde in altri paesi europei, la situazione italiana fu sostanzialmente di stallo e, se si esclude l’esemplare impresa privata degli Alinari, che progressivamente acquisirono anche importanti fondi di altri professionisti come Anderson e Brogi[42], non si registrarono realizzazioni significative. Tale situazione non muterà neppure con la nascita dell’Istituto Luce  (L’ Unione Cinematografica Educativa, 1924) che pure acquisì archivi di cronaca, fondi fotografici di documentazione delle opere d’arte e lo stesso Archivio e Gabinetto Fotografico del Ministero della Pubblica Istruzione; come ha ricordato Carlo Bertelli: “Era  la grande occasione per costituire sia un inventario storico che un inventario attuale dell’Italia. Quell’occasione andò completamente perduta, come se il fascismo avesse timore di ciò che la fotografia potesse rivelare.”[43]

Ancora una volta, nello spazio lasciato libero dall’attività dei grandi studi nazionali come dalle iniziative ministeriali, in quella terra di nessuno che era la documentazione del patrimonio artistico e architettonico locale, un ruolo determinante, specialmente in Piemonte, venne svolto da alcuni fotografi amateur o da professionisti che affiancavano alla pratica ritrattistica un interesse autonomo per la storia artistica locale[44]. A questo progetto culturale, di forte valenza civica,  appartenevano ad esempio  le “ricreazioni fotografiche” di Secondo Pia[45], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione negli ultimi decenni del  XIX secolo, non di rado in anticipo sulla stessa storiografia e ancor più sull’azione di tutela del neonato Ufficio Regionale, cui già nel 1890 venne assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[46], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio, assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi”,[47] collocandosi senza soluzioni di continuità  tra le sollecitazioni ruskiniane e le raccomandazioni formulate dal Congresso di Parigi del 1900. Questo suo impegno venne giustamente celebrato specialmente in ambito torinese già a partire dall’Esposizione Italiana di Architettura del 1890 e quindi ancora in quella di Arte Sacra del 1898, quando espose circa 600 fotografie e Giovanni Cena gli dedicò un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[48]

Nel 1905 si tenne a Tortona l’ottavo Congresso Storico Subalpino e agli studi che vennero presentati in quell’occasione[49] credo possa essere riferito l’interesse di Pia per questo territorio. La sua campagna venne infatti realizzata l’anno successivo toccando oltre al capoluogo anche Castelnuovo Scrivia, Pontecurone, Viguzzolo e Volpedo (ma non Sale) e fu condotta con una attenzione inedita per quei luoghi. Il dato più significativo era costituito non solo dalla scelta dei soggetti, pur significativa, quanto piuttosto dalla sistematicità con cui era condotta la lettura degli edifici, di cui restituiva esterni, in viste generali e di dettaglio, interni ed elementi architettonici  oltre all’apparato decorativo e pittorico, allora ancora scarsamente considerato nonostante le prime pionieristiche ricognizioni di Carlo Nigra, limitate però all’area torinese e valsusina[50]. Fu proprio Pia negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo a compiere una ricognizione quasi esaustiva dei cicli pittorici del Quattrocento piemontese, compresi quelli di area tortonese tra Rivalta Scrivia, Pontecurone e Volpedo, in una ricerca sostanzialmente isolata, certo condotta a partire da indicazioni di numerosi e diversamente qualificati informatori, tenendosi a volte a ridosso  dei primi interventi di restauro. Dalle più di cinquanta riprese tortonesi realizzate è facile comprendere quanto Pia fosse aggiornato sulla più recente storiografia artistica e sulle ultime iniziative: lo testimoniano le diciassette riprese  di reperti archeologici effettuate nel Museo Civico di Tortona, appena istituito nel 1903, come la riproduzione del trittico di Macrino d’Alba da poco riscoperto nella Cappella Episcopale di Tortona[51] ma anche la documentazione delle mura di Volpedo sulle quali aveva richiamato l’attenzione nel 1903 Giuseppe Pellizza, commissionandone alcune riprese al fotografo tortonese Fausto Bellagamba.[52]  A pochissimi anni dall’emanazione della prima legge nazionale di tutela[53], le fotografie di Pia  restituivano di questo territorio un’immagine  ben più articolata e ricca di quanto non fosse emerso dalle “corografie” precedenti.

Quando la fotografia era sul nascere e poco si praticava, almeno nei piccoli centri della nostra provincia, il tema della veduta urbana, era stato Goffredo Casalis[54] a descrivere questi  luoghi alle soglie della modernità, prima della faticosa industrializzazione, prima della ferrovia, rappresentandoli nella loro condizione quasi immutata di borghi e città agricole in cui si insediavano  le prime manifatture. Nel 1846 Clemente Rovere[55] avrebbe considerato invece la sola Tortona nel corso delle proprie ricognizioni, schizzando rapidamente a matita con l’ausilio di una camera obscura  i resti del castello, una veduta dai (e dei) Cappuccini, la chiesa del Corpus Domini e la piazza principale col Duomo, oltre a Santa Maria Canale; poi la piazza del mercato con il “lungo bel loggiato di quaranta quattro archi”[56], costruito nel 1832 per il mercato del bestiame e la vicina Porta di Serravalle, resto occidentale delle vecchia cinta muraria. Non il Teatro civico però, recentemente costruito, che non venne considerato tra gli “edifici rimarchevoli” mentre pochi anni più tardi il significato della sua presenza venne correttamente indicato nella Corografia d’Italia[57] e confermato vent’anni dopo in occasione della ripubblicazione di quel testo ne Le cento città d’Italia[58]. Titolo di grande fortuna questo, come sappiamo, essendo stato utilizzato poi per il famoso supplemento de “Il Secolo” dell’editore milanese Edoardo Sonzogno, dove il fascicolo dedicato a Tortona venne curato nel  1890[59] da  Aristide Arzano in collaborazione con Giuseppe Dellepiane. Era l’anno successivo alla pubblicazione dell’album Castellani ma anche quello della pubblicazione del terzo volume dell’opera di  Giuseppe Strafforello La Patria: geografia dell’Italia, dedicato alla Provincia di Alessandria[60] che conteneva anche il testo su Tortona, illustrato da una serie di incisioni su acciaio tratte proprio dalle fotografie dell’album relative al Palazzo Cavalchini-Garofoli e alla casa medievale di Corso Leoniero, mentre tra gli edifici religiosi comparivano la Cattedrale, Santa Maria Canale, l’interno di San Giacomo e naturalmente l’abbazia di Rivalta Scrivia.

Quella era quindi l’immagine consolidata della città, quelle le emergenze architettoniche che la qualificavano e certamente la collocavano tra i centri minori del Piemonte anche dal punto di vista storico artistico[61] in anni in cui l’attenzione dell’Ufficio regionale piemontese, certo tenendo anche conto delle sollecitazioni di Arzano e poi della “Società per gli Studi” si appuntava su alcuni dei suoi principali monumenti, come dimostra una serie di lastre di grande formato (24×30) conservate nell’archivio dell’attuale Soprintendenza, relative a Palazzo Cavalchini-Garofoli, a Santa Maria Canale e all’interno della chiesa abbaziale di Rivalta. Sono queste le più antiche testimonianze fotografiche superstiti dell’azione di conoscenza e tutela svolta dall’Ufficio torinese (poi Soprintendenza), datate al 1905 e dovute verosimilmente a Cesare Bertea, allora giovane funzionario, realizzate seguendo le direttive di un Promemoria ministeriale dello stesso anno in cui si sottolineava non solo  “l’importanza che avrebbero i Cataloghi (…) se ogni scheda fosse fornita della sua fotografia” ma anche che le  fotografie fossero “fatte da chi redige la scheda e per conseguenza da persona che sa come il Monumento o l’Oggetto debba o possa essere riprodotto.”[62] Azione di tutela e documentazione fotografica assunsero da allora un andamento parallelo, come è facile riscontrare confrontando cronologia delle notifiche, degli interventi e datazione di alcune immagini; così nei mesi in cui era in discussione il disegno di legge “per le Antichità e Belle Arti” (poi legge n. 364/ 1909) si ebbero i primi provvedimenti in area tortonese, prevalentemente relativi a edifici di epoca medievale come la Chiesa di S. Maria e S. Siro a Sale, “dichiarata monumento d’arte in data 12 luglio 1908” come enunciava orgogliosamente il testo di una cartolina edita allora[63]. In anni in cui il Ministero sollecitava i Soprintendenti a inviare all’Archivio Fotografico della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “una copia positiva di tutte le negative fotografiche dei singoli Uffici già eseguite e da eseguirsi e di quelle positive di cui esista un duplicato disponibile”[64] , il  Gabinetto fotografico torinese, forse affidato al solo Bertea, si dotava di apparecchiature fotografiche ormai di minor formato[65], come testimoniano alcune riprese relative alla  Chiesa di S. Maria Canale e ai resti del Chiostro del  Convento dell’Annunziata, tutte realizzate su lastre 5×4 cm, mentre in altri casi si affidava ad operatori esterni come il tortonese Andrea Ginocchio[66], per lungo tempo collaboratore della Soprintendenza e autore di buone riprese realizzate con materiali sensibili di differenti formati, dalle lastre 18×24 e 13×18 alle pellicole 10×15 cm.

Nonostante l’estesa attività di tutela e il ruolo svolto dalla “Società per gli Studi”[67], la notorietà del patrimonio storico in area tortonese restava ancora ben più che circoscritta se la  “Guida” rossa del Touring Club Italiano (1930) ricordava che solo “Circa 2 ore sono sufficienti alla visita” della città[68] e il primo volume della collana “Attraverso l’Italia”, dedicato nello stesso anno al Piemonte segnalava solo il Sarcofago di Publio Elio Sabino e il bassorilievo di Perino Cameri a Volpedo[69].   Assume quindi ancora maggior significato la presenza del fotografo Mario Sansoni che nel 1934-1935  documentò l’affresco con San Rocco nella Pieve di San Pietro a Volpedo nel corso di una grandiosa campagna di documentazione del patrimonio artistico medievale e rinascimentale in Europa, condotta per incarico della Frick Reference Library di New York. [70] Una documentazione di analogo livello tecnico era da poco stata realizzata da Augusto Pedrini[71], il miglior fotografo piemontese del settore in quel periodo, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Pontecurone, durante un’importante campagna di restauri. L’uso di lastre di medio formato (13×18), un attento controllo dell’illuminazione e l’ausilio di ponteggi testimoniano dell’accuratezza professionale e fanno di questa serie uno dei migliori esempi ad oggi disponibili. Pedrini si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano principale per conservare il parallelismo delle linee verticali ed anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse principale ad un’altezza mediana. Le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate da questo professionista che intendeva la fotografia come uno schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini il bene da documentare. Lo stesso fotografo venne poi chiamato ad operare negli anni successivi anche a Rivalta[72] utilizzando ancora lastre 13×18 e riconfermando la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale.  Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, sino al limite della ripresa zenitale. Basta confrontare queste riprese con quelle di fatto coeve siglate “PM” per comprenderne la qualità. Restano, quelle di Pedrini, le produzioni qualitativamente migliori, alle quali possono essere in parte avvicinate, seppur più modeste,  quelle relative ai restauri in stile di Palazzo Guidobono, realizzate dallo studio tortonese Foto Novecento.

Negli anni del secondo conflitto mondiale proseguirono le notifiche, specialmente di edifici del tessuto abitativo tortonese, ma solo nel 1949 si ebbe un’ulteriore campagna fotografica realizzata da Giannantoni su pellicola 6×9 nell’ambito delle  attività di Soprintendenza: oneste riprese, dalle quali emerge la preoccupazione per una resa corretta dell’edificio ma a cui non corrisponde la necessaria competenza tecnica o, forse, il tempo per porla in atto.  È la stessa impressione che si ricava dall’analisi delle fotografie realizzate nel decennio successivo nel nuovo formato quadrato 6×6 dall’architetto Ercole Checchi, già collaboratore di Vittorio Mesturino. Basta ad esempio confrontare la scelta del punto di vista rispetto a uno stesso edificio per verificare lo scarto di qualità: per fotografare ad esempio la chiesa di S. Giacomo a Tortona nel 1889 Castellani  si era collocato a nord, rendendo leggibile al massimo la facciata, mentre l’architetto Checchi  si posizionò a ovest realizzando una ripresa fortemente scorciata che rende quasi illeggibile l’articolazione dei volumi.  Se si riflette sulla qualità complessiva di queste immagini realizzare da funzionari e non da fotografi professionisti emerge con grande evidenza un radicale mutamento di paradigma: non si può più parlare di documentazione del patrimonio architettonico al fine di valorizzarlo ma di testimonianze delle sue condizioni contingenti. Sono immagini dell’emergenza. Si vedano le riprese dei  pannelli con figure del soffitto cassettonato di Palazzo Ghislieri a Sale, ancora di Ercole Checchi, nelle quali una mano femminile, poi tagliata in fase di stampa, sostiene i singoli elementi poggiati su sacchi di cemento Buzzi o quelle dell’Arco dell’antica cinta muraria di Castelnuovo Scrivia dove la ripresa inclinata non corrisponde a tardive suggestioni della “nuova visione” modernista  ma sembra dettata piuttosto dalla fretta e dalla radicata fede nelle inossidabili virtù documentarie della fotografia, a prescindere dalla qualità della ripresa. Le modalità non mutano neppure negli anni Sessanta con la presenza di nuovi operatori (gli architetti Ernesto Gallo e Giorgio Lambrocco, sempre della Soprintendenza torinese). Qui le ragioni sono ancor più specifiche e il soggetto non è ormai più l’edificio nella sua qualificazione architettonica ma lo stato di degrado e i conseguenti interventi, come nel caso dell’ex Convento della Trinità a Tortona dopo la caduta di un pezzo di cornicione nel giugno del 1964 o del chiostro e loggiato del “Cortile di Filosofia” del Seminario Vescovile, con dettagli su alcune cadute di intonaco ai basamenti; proseguendo una lunga consuetudine su alcune di quelle stampe vennero indicate a penna tracce di possibile aperture. Sono foto modeste ma corrette, come quelle relative alle terribili condizioni di degrado di Palazzo Airoli a Rivalta, realizzate nel 1971 da Lambrocco con un piccolo apparecchio 35 mm e con una cura che lascia emergere quasi con sgomento lo stato dell’edificio, molto più efficaci delle modeste riprese del successivo cantiere di restauro. Sono anni quelli in cui l’attenzione per la documentazione fotografica e la cura posta nella sua realizzazione appaiono assolutamente insufficienti, conseguenza e specchio di riorganizzazioni funzionali e di ruolo all’interno della Soprintendenza ma anche di una perduta cultura dell’immagine, delle minime cognizioni di alfabetizzazione nella comunicazione fotografica. Penso alla tremenda serie di venti riprese dedicate da un autore rimasto anonimo alla pieve di S. Maria  di Viguzzolo in cui la scelta della meno opportuna delle ore del giorno ebbe come conseguenza la perdita quasi totale di leggibilità del soggetto: qui le fronde degli alberi circostanti e le loro ombre portate sul paramento murario hanno cancellato non solo il volume ma quasi l’esistenza della pieve, in un esito mimetico in cui architettura e natura (per quanto artificiale) inutilmente si confondono.

Queste genere di fotografie ben rappresenta l’esito certo involontario e per questo più che probante di quello che Franco Vaccari[73] aveva proposto di nominare inconscio tecnologico, riconoscendo conseguentemente la scarsa rilevanza del “piglio inventivo e autorevole” dell’autore, sottoposto se non proprio sottomesso a quell’apparato destinato a produrre simboli che è lo strumento fotografico, di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti”[74], di cui scriveva  Vilem Flusser nel 1979. È dal loro affidarsi compiutamente alle capacità insite nel processo fotografico che nasce questo grado zero della scrittura fotografica, dove la valenza documentaria risiede tutta e si fonda sulla sua natura irrimediabile di traccia.

 

 

Note

[1] John Szarkowski, Mirrors and windows: American photography since 1960, catalogo della mostra (New York, The Museum of Modern Art, 26 luglio – 2 ottobre 1978).  New York: The Museum of Modern Art, 1978.

[2] Giovanni Fanelli, L’anima dei luoghi: La Toscana nella fotografia stereoscopica.  Firenze: Mandragora, 2001, p. 5.

[3] Giovanni Fanelli, All’ombra della loggia: Storia dell’iconografia fotografica delle fiorentina Loggia della Signoria, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 46 (2002 [febbraio 2004]), n. 2/3, pp. 533-556 (p.533).

[4] Tristan Tzara, La photographie à l’envers, in Man Ray, Les champs délicieux. Paris: Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, p.75.

[5] John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture. Orpington (Kent): G. Allen, 1880. La prima edizione era stata pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in Paolo Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[6] Ernst H. Gombrich, Julian Hochberg, Max Black, Arte, percezione e realtà: come pensiamo le immagini. Torino: Einaudi, 1978.

[7] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[8] Jacques Le Goff, Documento/Monumento, in Enciclopedia, vol. V. Torino: Einaudi, 1978, pp. 38-48, ora in Id.,  Documento/Monumento, in Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp. 443-456.

[9] Roland Barthes, La camera chiara: nota sulla fotografia; traduzione di Renzo Guidieri. Torino: Einaudi. 1980.

[10] Citato in Françoise Bercé, Les premiers travaux de la Commission des monuments historiques, 1837-1848. Paris: Picard, 1979.

[11] Eugène Viollet-Le-Duc,  Restauration,  Id.,  Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siècle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Réunies, s.d. (1860), pp. 33-34.

[12] Anne de Mondenard, La Mission héliographique: cinq photographes parcourent la France en 1851. Paris: Monum – Éditions du Patrimoine, 2002.

[13] Charles Baudelaire, Salon de 1859; texte de « La Revue française » établi avec un relevé de variantes, un commentaire et une étude sur Baudelaire critique de l’art contemporain par Wolfgang Drost ; avec la collaboration de Ulrike Riechers. Paris: H. Champion, 2006.

[14] È del 1860 ad esempio l’istituzione del Commissariato straordinario per le belle arti per le province del Piemonte, Lombardia ed Emilia, Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, busta 596, fasc. 1063, n.1.

[15] Citato in Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96 (75, 87).

[16] Ariodante Fabretti, Atti della Società (1879), “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1879, 1881, pp. 9-15.

[17] Lettera di Cesare Correnti al Presidente dell’Accademia Albertina di Torino, conte Marcello Panissera di Veglio, datata 6 maggio 1870. Nella successiva, del 12 agosto, indirizzata alle “Commissioni conservatrici di Belle Arti e ai Prefetti”,  avrebbe precisato come fosse “mosso dal desiderio di far conoscere al paese nostro, con la maggior possibile esattezza, la dovizia dei monumenti che furono in ogni tempo una delle più splendide glorie della nazione e de’ quali il Governo debbe rispondere ad essa.” , Archivio storico Accademia Albertina di Belle Arti, AABA TO599, “Arte in Piemonte”. In seguito a tale mandato l’Accademia Albertina nominò una Giunta costituita da Carlo Felice Biscarra, Andrea Gastaldi, Edoardo Arborio Mella, Francesco Gamba, Vittorio Avondo e Carlo Ceppi.

[18] Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione inviò ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti (…) voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va sottolineato l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire,  tanto da essere ancora invocate nel 1904 da  Giovanni Santoponte.

[19] cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10.

[20] Su Giovanni Battista Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990, p. 358; P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898, catalogo della mostra (Torino 2003-2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003; La borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2004, p. 123.

[21] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano.

[22] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna, conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica

sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, congiuntamente alle «fotografie architettoniche» realizzate

da Castellani ad Alessandria, cfr. Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea.

Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884, p. 123 passim.

[23] Alfonso Rubbiani, Di un sentiero fiorito per l’arte nostra, “Giornale del mattino”, 6 febbraio 1913, ora in Id. Scritti vari editi e inediti; prefazione di Corrado Ricci. Bologna: Cappelli, 1925, pp. 227-233.

[24] Aggiungendo opportunamente, secondo una formula ampiamente abusata: “ma non  isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e Comp., 1859, p.338.

[25] Per la documentazione fotografica di alcuni grandi cantieri ottocenteschi piemontesi si vedano Infinitamente al di là di ogni sogno: Alle origini della fotografia di montagna (catalogo della mostra, Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2004 e Frammenti di un paesaggio smisurato: montagne in fotografia 1850-1870, catalogo della mostra (Torino, 2015), a cura di Veronica Lisino. Torino: Museo Nazionale della Montagna, CAI Torino, 2015. Per Vittorio Besso si vedano i diversi contributi pubblicati in Studi e ricerche sulla fotografia nel Biellese, 2, presentazione di Giovanni Vachino. Biella: DocBi Centro Studi Biellesi, 2006.

[26] Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863, la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedicò nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di “archivio” o “museo” fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852 – 1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Miraglia1990 e P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[27] Federico Castellani (San Giorgio Lomellina, Pavia 1848 – Alessandria 27 Luglio 1889) aprì il proprio  studio fotografico forse nel 1867 nella casa in cui risiedeva, in Corso Roma 35 ad Alessandria, coadiuvato dal padre Luigi (1822- 11 marzo 1890), maestro elementare in pensione. La prima pubblicità nota dello Studio comparve però solo nel 1869 ne “L’Osservatore di Alessandria”. Successivamente  lo studio venne trasferito in via Piacenza, Casa Pedemonte e altri due vennero aperti a Nizza in Quai Massena 9 e a Vercelli, via del Duomo 1, Casa Pasta. Proprio a questa città dedicò nel 1873 un Album delle principali vedute edifizi e monu­menti della città di Vercelli, realizzato forse in coincidenza con l’apertura dello studio e composto da 23 vedute, ma negli anni precedenti aveva prodotto anche una serie di vedute di Alessandria, presentate all’Esposizione torinese del 1884. Oltre a questa prese parte anche a quella di Alessandria del 1870, dove vinse una medaglia d’argento e a quella Universale di Vienna del 1873; lo stabilimento Castellani risulta attivo sino ai primi anni del XX secolo sotto la gestione del figlio Livio, nato ad Alessandria nel 1877 e diplomatosi alla École de photographie pratique Klary di Parigi.

[28] L’album venne esposto anche in occasione della mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte, il cui catalogo offriva una precisa elencazione delle stampe che lo costituiscono, corrispondente all’attuale, ma senza indicare se già all’epoca i fogli fossero slegati. La sequenza lì indicata risulterebbe comunque problematica ovvero, se corrispondente a quella originale, quanto meno singolare considerando che dopo le due vedute panoramiche dai ponti sulla Scrivia e dai Cappuccini la terza tavola fosse dedicata al  “Camposanto di Rinarolo”; cfr. Fotografi del Piemonte 1852-1899, p. 28.

[29] Potrebbe certo trattarsi di lacune dell’esemplare, ma la consistenza complessiva dell’insieme sembra escludere tale possibilità, così come il confronto con le immagini pubblicate da Giuseppe Strafforello, Provincia di Alessandria in La Patria: geografia dell’Italia, III. Torino: UTET, 1890.

[30] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[31] Regio Decreto del 27 novembre, cfr.  Mario Bencivenni, Riccardo dalla Negra, Paola Grifoni, Monumenti e istituzioni, II, Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915. Firenze: Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici per le province di Firenze e Pistoia, 1992.

[32] Su Carlo Nigra (1856 – 1942) si vedano Fotografi del Piemonte, pp. 38-39 e la scheda relativa di  Claudia Cassio in Miraglia pp.403-404.

[33]Su Ottavio Germano (1857-1913), che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra e inoltre Cassio in Miraglia 1990, p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in  Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (77, nota 23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992.

[34] Preventivo del primo impianto d’un Gabinetto Fotografico per uso della R. Delegazione per i Monumenti del Piemonte e della Liguria in Torino, datato 31 luglio 1889, non firmato, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m. 77, f.2, Fotografie.

[35] Lettera di D’Andrade al Ministero datata 4 febbraio 1891, Archivio di Stato di Torino, Corte, Fondo D’Andrade, m.77, Ufficio conservazione dei Monumenti del Piemonte e della Liguria, Fotografia.

[36] Fotografare le Belle Arti, appunti per una mostra: Un percorso all’interno dell’archivio fotografico della Direzione generale delle antichità e belle arti, Fondo MPI Ministero della pubblica istruzione, 1860 – 1970, catalogo della mostra (Roma, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, 10 maggio-28 giugno 2013), testi di Elena Berardi, P. Cavanna, Laura Moro. Roma: ICCD, 2013.

[37] Clemente Marsicola, a cura di, Il viaggio in Italia di Giovanni Gargiolli: le origini del Gabinetto fotografico nazionale 1895-1913. Roma: ICCD, 2014.

[38] Regio Decreto e Regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5 (1893), disp. 9, settembre, pp. 222-224. Per l’opposizione al Decreto cfr. Carlo Brogi, Circa la proposta di colpire con una tassa le riproduzioni fotografiche dei monumenti nazionali, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 4, (1892), disp. 5, maggio, pp. 101-103 e Vittorio Alinari, Del R. Decreto e regolamento per le riproduzioni fotografiche, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 5, (1893), disp.10, ottobre, pp.246-249.

[39] La letteratura sul tema dei musei documentari è ormai vastissima: si segnalano quindi solo due contributi italiani e un recente intervento di ordine storiografico-metodologico: Paolo Costantini, “La Fotografia Artistica” 1904-1917: Visione italiana e modernità. Torino: Bollati Boringhieri, 1990; P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’Impegno”, 2 (1991), n. 3, dicembre, pp. 41-48;  Elizabeth Edwards, Between the Local, National and Transnational: Photographyc Recording and Memorializing Desire, in Chiara De Cesari, Ann Rigney, eds., Transnational Memory: Circulation, Articulation, Scales. Berlin: De Gruyter, 2014.

[40] Cfr. Brera. 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano, catalogo della mostra (Milano, 200), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Electa, 2000.

[41] Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni, 7 (1905), pp.38-48 ora in Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano:  Franco Angeli, 1985, pp. 241-249.

[42] Sullo studio fiorentino si vedano Monica Maffioli, Arturo Carlo Quintavalle, a cura di, Fratelli Alinari fotografi in Firenze: 150 anni che illustrarono il mondo 1852-2002. Firenze: Alinari, 2003; Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003.

[43] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali”, 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, I, p.172.

[44] Vanno almeno ricordati in questo contesto gli studi e le iniziative di due fotografi come Francesco Negri e Pietro Masoero. Quest’ ultimo, nato ad Alessandria nel 1863, aveva iniziato la propria attività a Vercelli, dove dal 1880 era impiega­to quale operaio fotografo presso lo studio di Federico Ca­stellani per poi aprire un proprio studio che divenne in breve tempo il più importante della città, godendo di buona fama anche a livello nazionale e internazionale. Nel corso delle proprie campagne documentarie dedicate alla produzione della “Scuola pittorica vercellese” e in particolare alle opere di Bernardino Lanino, Masoero riprese anche il San Paolo del Palazzo Vescovile di Tortona sia su lastre orto­cromatiche Cappelli in formato 21×27 cm, sia mettendo immediatamente a frutto la recente commercializzazione delle autocromie Lumiè­re, con le quali era in grado di soddisfare per la prima volta una sufficiente restituzione della gamma cromatica del dipinto; cfr. P. Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in  Paola Astrua, Giovanni Romano, a cura di, Bernardino Lanino. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154. Per la complessa figura di Francesco Negri, scienziato, storico dell’arte e valente fotografo si rimanda a Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006.

[45] Su Secondo Pia si vedano Michele Falzone del Barbaró, Luciano Tamburini, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981; Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989; Cavanna 1997; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone. Pioniere itinerante della fotografia, catalogo della mostra (Asti, 1998), a cura di Gemma Boschiero. Asti: Comune di Asti, 1998; Claudio Bertolotto, I fondi fotografici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  II,  Indagine sulle raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, 9 (1999),  pp.15-18. La sua attività, pur eccezionale,  va collocata nel ricco contesto di autori piemontesi, solo in parte professionisti,  particolarmente attenti all’utilizzo della fotografia quale strumento di conoscenza e di divulgazione del patrimonio artistico locale; oltre ai già citati  Negri e Masoero ricordiamo qui almeno i nomi di Pietro Boeri e Alberto Durio, di alcuni religiosi come F. Origlia, Alessandro Rastelli e G. Valle, di Edoardo Barraja, Eugenio Olivero, Alessandro Roccavilla e ancora Mario Gabinio e Giancarlo dall’Armi.

[46] Lo stesso concetto era stato ribadito da Pietro Masoero recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino quando sottolineava come “Nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Secondo Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900) n.4, p.278.

[47] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, Slightly Out of Focus: Turin 1884-1898: From Art to Artistic Photography, “Photoresearcher”, 2013, n. 20, pp. 21-29.

[48]Giovanni Cena, Piemonte antico, “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240.

[49] In quell’occasione venne pubblicato il volume Storia ed Arte nel Tortonese:  Omaggio della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese all’VIII Congresso Storico Subalpino Settembre 1905. Tortona: Adriano Rossi, 1905, con contributi di Aristide Arzano, Pio Evasio Cereti, Ferdinando Gabotto, Vittorio  Poggi, Diego  Sant’Ambrogio.

[50] Penso a San Giovanni ai Campi di Piobesi, studiato da Nigra in occasione della Esposizione torinese del 1890; cfr. Carlo Nigra, La chiesa di S.Giovanni di Piobesi, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, 11 (1927), n.3-4, consultato in estratto.

[51] Il 27 giugno 1904 Diego Sant’Ambrogio aveva comunicato all’amico Francesco Negri l’avvenuto ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per Santa Maria di Lucedio (Trino), anticipando così la sua segnalazione ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Edoardo Villata, Macrino d’Alba; presentazione di Giovanni Romano. Savigliano: Editrice Artistica Piemontese, 2000, pp. 144-147).   Diego Sant’Ambrogio dedicò al tema anche il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, “Bollettino della Società per gli Studi di Storia, d’Economia e d’Arte nel Tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906. cfr. Sergio Samek-Lodovici, Storici, teorici e critici delle arti figurative in Italia dal 1800 al 1940.  Roma: Tosi, 1946. Il tema sarebbe stato successivamente ripreso, seppure non in forma monografica, proprio da Francesco Negri, Note d’arte a Lucedio, I pittori di Trino, in Evasio Colli, Francesco Negri, Alessandro Rastelli, Il Beato Oglerio nella storia e nell’arte di Trino e di Lucedio. Casale Monferrato: Tip. Pane, 1914 (nuova ed. Trino: Circolo culturale trinese, 1996, con introduzione di P. Cavanna, pp. 48-49). Circa in quegli anni, ma dopo la tragica interruzione della Grande guerra, al trittico venne dedicato uno studio anche da parte di Guido Marangoni, Arte retrospettiva: Macrino d’Alba, “Emporium”, 47 (1918), n.277, pp. 22-33 con fotografie di Pietro Masoero.

[52] Si tratta di tre riprese presenti in stampe all’albumina sia  nell’Archivio fotografico della Soprintendenza torinese (NCTN 0100262376) sia nella raccolta di Giuseppe Pellizza (nn. 90-92),  cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007, pp. 84, 158-159.

[53] Legge 12 giugno 1902, n. 185. – Sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti di antichità e di arte.

[54] Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna/ compilato per cura del professore G.C. Torino: Presso Gaetano Maspero librajo, Cassone Marzorati Vercellotti tipografi, 1833-1856. In particolare le voci relative ai comuni oggetto di questo studio sono così distribuite: Castelnuovo Scrivia, IV, 1837, pp. 200-220; Pontecurone, XV, 1847, pp. 584-587; Sale, XVII, 1848, pp.25-31; Tortona, XXIII, 1853, pp. 76-198;  Viguzzolo, XXV, 1854, pp. 364-365; Volpedo, XXVI, 1854, pp. 589-591.

[55] Cristiana Sertorio Lombardi, a cura di,  Il Piemonte antico e moderno delineato e descritto da Clemente Rovere. Torino: Reale Mutua, 1978, tavv. 3342-3350.

[56] Giacomo Carnevale, Descrizione dell’attuale Tortona, in Notizie storiche dell’antico e moderno Tortonese/ raccolte dal conte G. C.. Voghera: Tipografia di Cesare Giani, 1845, pp. 317-319, che costituisce il prototipo quando non la fonte non dichiarata di molte descrizioni successive.

[57] Corografia d’Italia, ossia Gran dizionario storico-geografico-statistico delle città, borghi, villaggi, castelli, ecc. della penisola, III: Lettera R-Z ; Appendice: aggiunte e correzioni. Milano: F. Pagnoni, 1854, pp. 510-515.

[58] Ariodante Manfredi, Le cento città d’Italia descrizione storica, politica, geografica, commerciale, religiosa, militare. II, Milano: G. Bestetti, 1872, pp. 515-521.

[59] Nel 1929 ne venne pubblicata una seconda edizione intitolata Tortona/ Eroina del Patrio Amore, n. 281, ancora con testi di Aristide Arzano, enfaticamente adattati al clima del tempo, e con foto di Ginocchio, Bellagamba, Pia e Ferretti.

[60] Strafforello 1890 con illustrazioni tratte da fotografie di: Castellani (Alessandria e Tortona), Ecclesia (Asti), C. Bruno (Castellazzo Bormida), N. Gabiani (Asti), Negri, (Casale Monferrato) e Cicala (Pontecurone, Castelnuovo Scrivia).

[61] Ricordiamo a tale proposito che né ad Alessandria né a Tortona venne dedicato alcuno dei 114 volumi de l’ “Italia Artistica”,  pubblicati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche sotto la direzione di Corrado Ricci.

[62] Archivio Centrale dello Stato, Roma, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, III  versamento,  II parte, busta 515, Uffici RegionaliPromemoria allegato a lettera del 27-09-1905.

[63] Sarà un’analoga fonte a celebrare anche il restauro del Castello di Castelnuovo Scrivia, condotto “in onore e gloria dei castelnovesi caduti nelle guerre dell’indipendenza”, come risulta da una cartolina di Aristide Fusetti, Milano (Stabilimento calcografico Fusetti, Passaggio Osii 2, Milano).

[64] Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, OFU, Affari generali, Legislazione.

[65] Macchina fotografica 9×12 e obiettivo Goertz con chassis, borsa e treppiede (L. 233,00), Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino, Archivio storico, Mastro per materie (…) degli oggetti mobili entrati o usciti relativamente all’inventario [1891 – 1939], 30  giugno 1911.

[66] Proprio nel 1919 Andrea Ginocchio, originario di Ovada, dopo il congedo e il  matrimonio aveva rilevato a Tortona, al civico 20 di Via Perosi, un precedente studio fotografico.  Nel 1931, a seguito dell’emanazione del  Regolamento della Legge sulle Professioni Sanitarie non Mediche emanata nel 1928, ottenne l’abilitazione a continuare ad esercitare “l’Arte di Ottico”. Nel 1936 l’azienda si trasferì nell’ attuale sede di Via Emilia 162; cfr.  http://www.gianni-rehak.it/253811634 [11-08-2015]

[67] Si veda ad esempio il saggio di Placido Lugano, I primordi dell’Abbazia Cisterciense di Rivalta Scrivia dal 1150 al 1300. Tortona: Rossi, 1916, estratto dal  “Bollettino della Società Storica Tortonese”, con disegni dell’ing. Piero Molli.

[68] Luigi Vittorio Bertarelli, Piemonte, “Guida d’Italia del Touring Club Italiano”. Milano: TCI, 1930, p.162.

[69] Piemonte; “Attraverso l’Italia”, I. Milano: TCI, 1930, p. 208. Anche nel 1939 il grande progetto storiografico ed espositivo messo a  punto da Viale avrebbe considerato per il Tortonese solo la Madonna col Bambino di Barnaba da Modena dalla Chiesa di San Matteo a Tortona, il trittico di Macrino d’Alba, e l’altorilievo di Volpedo; cfr. Vittorio Viale, Gotico e Rinascimento in Piemonte; catalogo della mostra (Torino, Palazzo Carignano).  Torino: Città di Torino, 1939, tavv. 15, 92,  213.

[70] Una copia di questa stampa è conservata presso la Fondazione Zeri di Bologna (n. 57988); sulla figura di Sansoni si veda  Redazionale, I nostri antenati, “AFT”, 3, (1987), n.5,  giugno, pp.44-45.

[71] Augusto Pedrini (1892 – 1970 post), avviò la propria attività come fotografo per le prime produzioni cinematografiche torinesi prima di aprire nel  1926 lo studio  di  Via Pio Quinto, 15-17 a Torino che gli consentì di segnalarsi come una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento. Oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di suoi contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”.

[72] In occasione del restauro degli interni e dei cicli affrescati sotto la direzione del Soprintendente all’arte medioevale e moderna, protezione bellezze naturali e passaggio Vittorio Mesturino, cfr. Manuela Mattone,Vittorio Mesturino, architetto e restauratore. Firenze: Alinea, 2005.

[73] Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Modena: Punto e virgola, 1979 (n. ed. Torino: Agorà, 1994; Torino: Einaudi, 2011).

[74] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987, p. 31. (n. ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006) Può essere utile ricordare qui che già Walker Evans aveva definito l’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p. 301.

 

Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

Bibliografia

 

Actis Caporale 1997

Aldo Actis Caporale, Le ultime volontà di un uomo di cultura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 31-48

 

Adams 1994

Steven Adams, The Barbizon School and the Origin of Impressionism. London: Phaidon Press, 1994

 

Albanese, Finocchiaro,  Pecollo 1990

Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare. Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990

 

Alfredo d’Andrade 1981

Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, 1981),  a cura di  Maria Grazia Cerri,  Daniela Biancolini, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981

 

Alle origini della fotografia 1989

Alle origini della fotografia: un itinerario toscano 1839 – 1880, catalogo della mostra (Firenze, 1989), a cura di Michele Falzone del Barbarò, Monica Maffioli, Emanuela Sesti. Firenze: Alinari, 1989

 

Angeli 1930

Diego Angeli, Le cronache del Caffè Greco. Milano: Fratelli Treves, 1930

 

L’art du nu 1998

L’art du nu au XIXe siècle. Le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, 1998), a cura di  Silvie Aubenas, Sylviane de Decker-Heftler, Catherine Mathon, Hélène Pinet. Paris: Hazan – Bibliothèque nationale de France, 1998

 

Arte Antica 1882

L’Arte Antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880. Torino: Fratelli Doyen, 1882

 

Atti Municipali  1900

Raccolta Atti Municipali di Torino – Annata 1900. Torino: Tipografia del Municipio, 1901

 

Aubenas 2002

Silvie Aubenas, a cura di, Gustave Le Gray 1820 – 1884. Paris: Bibliothèque nationale de France / Gallimard, 2002

 

Auer 2004

Collection M. + M. Auer. Une histoire de la photographie, catalogo della mostra (Nizza – Ginevra, 2004), a cura di Michèle e Michel Auer. Hermanace: Editions M+M, 2004

 

Avondo 1936

Catalogo della Mostra commemorativa di Vittorio Avondo nel centenario della sua nascita. Torino: Museo Civico di Torino / “La Stampa”, 1936

 

Ballaira 1993

Elisabetta Ballaira, Antono Zona, in Maggio Serra 1993, p. 387

 

Barberi  1997

Sandra Barberi, L’ultimo castellano della Valle d’Aosta: Vittorio Avondo e il maniero di Issogne, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 137-156

 

Barberi 1999

Sandra Barberi, a cura di, Il castello di Issogne in Valle d’Aosta. Diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo. Torino: Umberto Allemandi & C., 1999

 

Becchetti 1983a

Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Colombo, 1983

 

Becchetti 1983b

Piero Becchetti, Immagini della campagna romana: 1853 – 1915. Roma: Quasar, 1983

 

Becchetti 1989

P.B. [Piero Becchetti], Alphonse Bernoud, in Alle origini della fotografia 1989, pp. 210-211

 

Becchetti 1994

Piero Becchetti, L’opera fotografica di Giacomo Caneva, di Ludovico Tuminello e di John Henry Parker in un prestigioso fondo romano, in Romano 1994, pp. 17- 31

 

Becchetti 2003

Piero Becchetti, “La natura stessa è fatta di sé medesima pittrice”. Quindici anni di vedute romane, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp. 10-38

 

Bernardi 1936

Marziano Bernardi, Vittorio Avondo, in Avondo 1936, pp.n.n.

 

Bernardi, Viale 1957

Marziano Bernardi, Vittorio Viale, Alfredo d’Andrade. La vita l’opera e l’arte. Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti: 1957

 

Bertelli, Bollati 1979

Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845 – 1945, “Storia d’Italia. Annali”, 2. Torino: Einaudi, 1979

 

Bertone 2001

Virginia Bertone, Da casa Morelli alle collezioni del Museo, in Domenico Morelli – il pensiero disegnato, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Claudio Poppi. Torino: GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2001, pp. 59-95

 

Biscarra 1870

Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58

 

Biscarra 1878

Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II. Torino: 1878, pp. 225-230

 

Bordini 1991

Silvia Bordini, Aspetti del rapporto pittura-fotografia nel secondo Ottocento, in Enrico Castelnuovo, a cura di, La pittura in Italia, L’Ottocento. Milano: Electa, 1991, pp. 581-601

 

La Borghesia allo specchio 2004

La Borghesia allo specchio. Il culto dell’immagine dal 1860 al 1920, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di Annie-Paule Quinsac. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Calle, Nèagu 1988

Marie-Thérèse Calle, Philippe Nèagu, Photographies: Barbizon d’hier et aujourd’hui. Barbizon: Musée municipal de l’Ecole de Barbizon, 1988

 

La Campagna romana 2001

La Campagna romana da Hackert a Balla, catalogo della mostra (Roma, 2001-2002), a cura di Pier Andrea De Rosa, Emilio Trastulli. Roma: De Luca, 2001

 

Canestrini  2000

E.C. [Elisabetta Canestrini], Ernesto Rayper, in Dragone 2000, pp. 361-362

 

Caneva  1855

Giacomo Caneva, Della Fotografia. Trattato pratico di Giacomo caneva pittore prospettico. Roma: Tipografia Tiberina, 1855 (ripr. facsimile Firenze: Alinari, 1985)

 

Caneva 1989

Giacomo Caneva e la Scuola Fotografica Romana (1847 / 1855), catalogo della mostra (Roma, 1989), a cura di Piero Becchetti. Firenze: Alinari, 1989

 

Carandini 1925

Francesco Carandini, La Rocca e il Borgo Medioevale eretti in Torino. La figura e l’opera di Alfredo De Andrade. Ivrea: 1925

 

Cartier-Bresson 2003

Anne Cartier-Bresson, “La méthode romaine: entre prospection et adaptation », in Roma 1850  2003, pp. 15-21

 

Cassanelli 1998a

Roberto Cassanelli, a cura di, Luigi Sacchi. Un artista dell’Ottocento nell’Europa dei fotografi. Torino: Provincia di Torino, 1998

 

Cassanelli 1998b

Robeto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini, I, Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali, “Quaderni”, 8. Pisa: Scuola Normale Superiore, 1998, pp. 41-47

 

Castelli e cattedrali 1999

Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 1999), a cura di Clara Gelao, Gian Marco Jacobitti. Bari: Mario Adda Editore, 1999

 

Castello d’Issogne 1884

Castello d’Issogne in Val d’Aosta. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1884]

 

Cavanna 1981

Pierangelo Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 107-125

 

Cavanna 1992

Pierangelo Cavanna, Un territorio fotografico: tracce per una storia della fotografia di documentazione del Biellese, in Antichità ed Arte nel Biellese, atti del convegno (Biella 14-15 ottobre 1989), a cura di Cinzia Ottino, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, n.s., XLIV, 1990-1991, pp. 199-216

 

Cavanna 1997a

Pierangelo Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 68-77

 

Cavanna  1997b

Pierangelo Cavanna, Sketches of London, in Antonio Fontanesi 1818 – 1882, catalogo della mostra (Torino, 1997), a cura di Rosanna Maggio Serra. Torino: Umberto Allemandi & C., 1997, pp. 185-189

 

Cavanna 1999

Pierangelo Cavanna, Luigi Ghirri. Castelli valdostani, catalogo della mostra (Aosta, 1999). Aosta: Musumeci Editore, 1999

 

Cavanna 2000a

Pierangelo Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931, “Architettura & Arte”, n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23

 

Cavanna 2000b

Pierangelo Cavanna, Musei Civici di Torino. Il patrimonio fotografico. Analisi della consistenza, tipologia e stato di conservazione dei fondi, dattiloscritto

 

Cavanna 2003

Pierangelo Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858 – 1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837 – 1898, catalogo della mostra (Torino 2003 – 2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003, pp. 79-98

 

Ceresa, Mosca, Siccardi        2001

Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei Civici di Torino. Inventario 1862-1965. Torino: Città di Torino, 2001

 

Challe 1996

Daniel Challe, Eugène Cuvelier ou le légendaire de la forêt, in Gauss 1996, pp. 16-66

 

Challe, Marbot 1991

Daniel Challe, Bernard Marbot, Les photographes de Barbizon. La forêt de Fontainebleau. Paris: Hoëbeke – Bibliothèque Nationale, 1991

 

Chauvet 1901

Charles Chauvet, Le manoir des Comptes de Challant à Issogne (Vallée d’Aoste),  “L’Art pour tous. Encyclopedie de l’Art industriel et décoratif”, Paris,  40 (1901), n. 187, juillet

 

Collegio Architetti 1887

Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

La Contessa di Castiglione 2000

La Contessa di Castiglione e il suo tempo, catalogo della mostra (Torino, 2000), a cura di Martina Corgnati, Cecilia Ghibaudi. Milano: Silvana Editoriale, 2000

 

Corot 1994

Jean-Baptiste Camille Corot. Un sentimento particolare del paesaggio, catalogo della mostra (Lugano, 1994), a cura di Manuela Kahn-Rossi. Lugano – Torino: Museo Cantonale d’Arte – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Cox 1991

Julian Cox, ed., Ffotograffiaeth Cymreig Cynnar – Early Welsh Photography, “History of Photography”, 15 (1991), n. 3, autumn

 

Cremona 1946

Italo Cremona, Disegni di Vittorio Avondo. Torino: Collezione del Bibliofilo, 1946

 

Cristofari 1992

Roberta Cristofari, Poppi, Pietro (1833 – 1914), in Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografie fotografia a Bologna 1839 – 1900. Bologna: Grafis, 1992, pp.276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Franco Cristofori, Giancarlo Roversi, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia. Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of  édouard Baldus. New York – Montreal: Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

De Rosa, Trastulli 1988

Pier Andrea De Rosa, Paolo Emilio Trastulli, I pittori Coleman. Roma: Studio Ottocento, 1988

 

Di Macco 1997

Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-58

 

Dini 1997

Francesca Dini, Telemaco Signorini, l’uomo e l’artista, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra  (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 267-274

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del medioevo torinese fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra Medioevo e Rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale. Torino: Archivio storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Donghi 1891

Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891

 

Dragone 1973

Angelo Dragone, Lorenzo Delleani. La vita, le opere, il suo tempo. Biella: Cassa di Risparmio di Biella, 1973-1974

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865 – 1895. Torino: Banca CRT, 2000

 

Dragone 2001

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830 – 1865. Torino: Banca CRT, 2001

 

Esposizione  1880

IVa Esposizione Nazionale di Belle Arti, Catalogo degli oggetti componenti la Mostra di Arte Antica. Torino: Vincenzo Bona, 1880

 

Esposizione  1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione  1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Carlo Duroni. Banco di beneficenza, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna 1773 – 1861, catalogo della mostra (Torino, 1980), a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci. Torino: Regione Piemonte – Provincia di Torino – Città di Torino, 1980, II, sch. n. 1121, p. 928

 

Falzone del Barbarò  1989

Michele Falzone del Barbarò, La calotipia in Toscana: origini e protagonisti inediti, in Alle origini della fotografia 1989, pp. 31-56

 

Falzone del Barbarò  2000

Michele Falzone del Barbarò, Ambasciate e corti, in La Contessa di Castiglione 2000, sch. n. 1.34, pp. 132

 

Falzone del Barbarò, Borio  1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886 – 1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Ferro  1999

Francesca Ferro, Vittorio Avondo e la grafica, tesi di laurea in Storia dell’Arte moderna, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 1998 – 1999

 

Forrer  1896

Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassburg: Fritz Schlesier, 1896

 

Fotografi del Piemonte         1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Frisoni  1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte Sacra in San Francesco : recupero di una documentazione fotografica, in “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, a cura di Corinna Giudici. Bologna: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, 1998, pp. 35-41

 

Frizot  1994

Michel Frizot, Blanquart-Evrard éditeur de photographies, in Id., a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , p. 83

 

Galassi  1989

Peter Galassi, Before Photography: Painting and the Invention of Photography. New York: The Museum of Modern Art, 1981 (ed. Italiana, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia. Torino: Bollati Boringhieri, 1989

 

Galassi  1994

Peter Galassi, Corot in Italia. La pittura di plein air e la tradizione del paesaggio classico. Torino: Bollati Boringhieri, 1994

 

Gasparini  2005

Laura Gasparini, La raccolta delle carte salate della Scuola Romana di Fotografia dell’Istituto Statale d’Arte “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia, in Un Museo ritrovato. Il patrimonio dell’Istituto d’Arte Chierici restituito alla città, catalogo della mostra (Reggio Emilia, 2005). Reggio Emilia, Musei Civici / Litograph, 2005, pp. 81-89; 206-226

 

Gauss  1996

Ulrike Gauss, a cura di, Eugène Cuvelier 1839 – 1900. Stuttgart/ Ostfildern-Ruit: Staatsgalerie / Cantz Verlag, 1996

 

Gelao  1999

Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 33-47

 

Gentile  2001

Guido Gentile, Importazioni di opere e migrazioni di artisti lungo le vie delle Alpi, d’Alemagna e delle Fiandre, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Enrica Pagella. Torino: Museo Civico d’Arte Antica, 2001, pp. 114-116

 

Giacosa  1884

Giuseppe Giacosa, Notizie storiche intorno alla famiglia di Challant, in Castello d’Issogne 1884

 

Giacosa  1898

Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898

 

Giacosa  1968

Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968

 

Giudici  2004

Corinna Giudici, a cura di, C’era due volte. Fondi fotografici e patrimonio artistico. Bologna: SPSAD / Minerva Edizioni, 2004

 

Giusa  1995

Antonio Giusa, Fotografi e fotografie della S.A.F., “Immagine e cultura”, 2 (1995), n.2, marzo, pp.22-33

 

Grabaudi, Falzone  1979

Elisa Gribaudi Rossi, Michele Falzone del Barbarò, Carnet di ballo. Milano: Longanesi & C., 1979

 

Griseri, Gabetti  1973

Andreina Griseri, Roberto Gabetti, Architettura dell’eclettismo: un saggio su Giovanni Battista Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

Grohn 1971

Hans Werner Grohn, L’opera completa di Holbein il giovane. Milano: Rizzoli, 1971

 

Heilbrun  2004

Françoise Heilbrun, Paesaggio e natura. Milano: 5 Continents Editions, 2004

 

Heilbrun, Néagu  1986

Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Musée d’Orsay. Chefs-d’œuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers – Réunion des musées nationaux, 1986

 

L’immagine rivelata  1998

L’immagine rivelata. 1989. Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Invention  1989

L’invention d’un regard (1839 – 1918), catalogo della mostra (Parigi, 1989), a cura di, Françoise Heilbrun, Bernard Marbot, Philippe Néagu. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 1989

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento 1839/ 1859. Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Roma, Firenze, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Italien  1994

Italien. Sehen und Sterben. Photographien der Zeit des Risorgimento, catalogo della mostr (Colonia, 1994), a cura di Bodo von Dewitz, Dietmar Siegert. Köln: Agfa Foto-Historama, 1994

 

Jammes  1981

Isabelle Jammes, Blanquart- évrard et les origines de l’édition photographique française: catalogne raisonné des albums photographiques édités 1851 – 1855. Genève: Droz, 1981

 

Jammes, Parry Janis  1983

André Jammes, Eugenia Parry Janis, The Art of French Calotype. Princeton: Princeton University Press, 1983

 

Krauss  1996

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

In the Light of Italy  1996

In the Light of Italy. Corot and Early Open-Air Painting, catalogo della mostra (Washington, Brooklyn, Saint Louis, 1996 – 1997), a cura di Peter Galassi. Washington: National Gallery of Art, 1996

 

Maccaferri, Sergi  1986

Gianfranco Maccaferri, Fortunato Sergi, a cura di, 1870 – 1940. I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

Maggio Serra  1977

Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte 1977, pp. 17-20

 

Maggio Serra  1979

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Galleria Civica d’Arte Moderna. Acquisizioni 1971 – 1978. Torino: Città di Torino – Assessorato per la cultura – Musei Civici, 1979

 

Maggio Serra  1981

Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 19-43

 

Maggio Serra  1988

Rosanna Maggio Serra, Il vero e il paesaggio in Piemonte: vent’anni di polemiche e dibattiti, in Il Secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero,  catalogo della mostra (Milano, 1988), a cura di Renato Barilli. Milano: Mazzotta, 1988, pp. 90-104

 

Maggio Serra  1993

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  L’Ottocento. Catalogo delle opere esposte. Milano: Fabbri Editori, 1993

 

Maggio Serra  1994

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Repertorio delle opere su carta acquisite per la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino 1982 – 1992.  Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Maggio Serra  1997

Rosanna Maggio Serra, Qualche novità su Avondo pittore. Studi sul fondo di disegni e dipinti della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 61-93

 

Maggio Serra  2003

Rosanna Maggio Serra, L’arte in mostra nella seconda metà dell’Ottocento, in Umberto Levra, Rosanna Roccia, a cura di, Le esposizioni torinesi 1805 – 1911,. Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 297-322

 

Maggio Serra, Signorelli 1997

Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Nuova Serie – Atti – v. IV, 1997

 

Mallè  1970

Luigi Mallè, I Musei Civici di Torino. Acquisti e Doni 1966 – 1970. Torino: Museo Civico di Torino, 1970

 

Marbot  1991

Bernard Marbot, Les photographes oubliées de la  forêt de Fontainebleau, in Challe, Marbot 1991 , pp. 14-18

 

Margiotta  2003

Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, in Roma 1850 2003 , pp. 28-34

 

Mario Gabinio  1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Mario Gabinio  2000

Mario Gabinio. Valli piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2000

 

Mascia  2000

  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Scoprire le architetture: patrimonio storico e documentazione fotografica in Piemonte 1861 – 1931  (2000)

“Architettura & Arte” , 3 (2000), n.11-12, luglio-dicembre, pp. 16-23

 

Gli anni della scoperta e del primo affermarsi della fotografia – come è noto – coincidono in ambito europeo con il consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio architettonico, specialmente medievale, e col definirsi dei fondamenti stessi delle moderne teorie del restauro architettonico che, insieme alla fotografia,  sono tra gli elementi costitutivi del “moderno”. è altrettanto vero però che la  diffusione  della conoscenza di questo patrimonio e la stessa sua definizione qualitativa e quantitativa molto devono, specialmente nelle aree del Bel Paese tradizionalmente ritenute marginali dal punto di vista artistico come il  Piemonte, alla attività di quei fotografi che mescolando interessi professionali e commerciali ad una profonda passione conoscitiva, ma nella maggior parte dei casi fidando solo su quest’ultima, si sono impegnati nella formazione del catalogo visivo dell’architettura e dell’arte di questa regione.

Nella circolare che il Ministro della Pubblica Istruzione invia ai prefetti italiani nel 1878 è contenuta la richiesta di “rivolgersi alle Commissioni Conservatrici perché colla scorta dell’Elenco dei Monumenti approvato dalla Giunta Superiore di Belle Arti e rimessole nel 1875, voglia indicare per ciascuno dei più importanti le figure d’insieme e quelle di dettaglio che meglio valgano a darne una chiara idea. Avute queste indicazioni, Ella mi farà cosa graditissima se acquisterà, e al caso farà eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.”[1]  Con questo atto, le cui conseguenze iniziano appena a essere conosciute e studiate, lo stato italiano si poneva sulla scia delle iniziative avviate dal governo francese nel 1851 con l’istituzione della Mission Héliographique e si colloca in un orizzonte di sempre più precisa attenzione delle possibilità offerte dall’uso strumentale della tecnica fotografica, sperimentate a partire dal 1875 dallo stesso Istituto Geografico Militare sotto specie di fototopografia.

Il decennio che precede queste iniziative, segnato tecnologicamente dalla messa a punto e successiva affermazione dei negativi al collodio e dei positivi all’albumina, è anche il periodo di prima massiccia diffusione degli album fotografici: dopo le produzioni documentarie degli anni ‘50 con le opere di Giuseppe Venanzio Sella, Ludovico Tuminello, Francesco Maria Chiapella, in cui  i soggetti sono ancora quelli  privilegiati dalla produzione calcografica e litografica precedente,  nel decennio successivo si sviluppa una attività dotata di caratteristiche nuove, di una sistematicità prima assente, di una estensione dello sguardo che si rivolge a tutto il territorio regionale.

L’attività di documentazione fotografica si fa più specifica ed il comparire sulla scena di nuovi temi e soggetti ne è una esplicita dimostrazione: accanto alle prime campagne di documentazione dei cantieri delle grandi opere infrastrutturali come il canale Cavour, documentato da Vialardi e Bernieri (1861-1864) con immagini di grande qualità, il traforo del Frejus, documentato ancora da Vialardi nel 1863, a partire dagli anni ’70 compaiono i primi album di vedute realizzati dai numerosi studi fotografici ormai presenti nelle maggiori città piemontesi; in queste opere viene riproposta, adeguandola alla realtà locale, la sequenza consolidata dei luoghi canonici – che si presentano come ovvi e ineluttabili – specchio di una concezione sedimentata delle emergenze che caratterizzano il sito[2], ma proprio il loro riferirsi alla specificità del luogo ne costituisce la novità, che non è ancora di sguardo ma di cosa osservata. Sulla scia dei precedenti torinesi di Le Lieure e Marville, nei primi anni Settanta numerose sono le produzioni documentarie, tra le quali si ricordano l’opera di Pasquale Bossi per il Lago Maggiore (1870), di Giovanni Ferrari a Saluzzo (1871ca), di Luigi Natale Fariano a Cuneo, con un album dedicato alla città (1872) ed uno, non datato ma verosimilmente coevo, esteso a tutta la provincia, ed ancora le realizzazioni di Castellani, Viglietti, Berra ed Ecclesia alle quali faranno seguito nei due decenni successivi produzioni relative ai principali centri piemontesi da Biella (Emilio Gallo, 1891) a Tortona (Castellani), da Novara (Tarantola) a Pinerolo, dove Pietro Santini, figlio di Pietro, propone nel 1881 un Album del viaggio di Umberto I da Pinerolo a Perrero che richiama modestamente ma in tutta evidenza  il modello dell’album commissionato dal barone James de Rothschild a édouard Baldus nel 1855, in occasione della visita di stato condotta in Francia dalla regina Vittoria.[3]

Emerge da questa produzione un segno diverso e distintivo rispetto alle campagne precedenti: la celebrazione delle glorie municipali avviene ancora per il tramite consueto dell’illustrazione dei principali monumenti affiancando però, con pari dignità, le nuove realizzazioni che segnano le trasformazioni della città e del territorio, gli emblemi della modernità: asili e scuole, stabilimenti industriali e idroterapici,  stazioni e ponti, le banche, il gasogeno. Gli album sono a volte commissionati dalla municipalità (Acqui, Susa), da committenti o sottoscrittori privati, ma più sovente sono realizzati per iniziativa dello stesso fotografo sia a fini promozionali sia quale precisa iniziativa editoriale e commerciale. Primo significativo esempio di questa strategia culturale e commerciale è Turin ancien et moderne che il parigino Henri Le Lieure, a Torino dal 1859, dedica alla città nel 1867 corredando le ventidue splendide albumine che lo formano di brevi saggi dei personaggi più in vista della cultura torinese di quegli anni: da Luigi Cibrario a Pio Agodino, da Michele Lessona e Vittorio Bersezio a Federico Sclopis, Carlo Felice Biscarra e altri.

Se i soggetti di Le Lieure ripropongono ancora i temi delle litografie che nel 1845 Enrico Gonin include in Turin et ses environs, i fotografi attivi nei centri minori rivolgono la propria attenzione non solo al tema sostanzialmente nuovo del paesaggio ma anche, specialmente per quanto ci riguarda, a tutte le emergenze architettoniche dei territori indagati, senza preclusioni di sorta e senza giudizi preconcetti di valore: almeno in questa fase è proprio il loro ruolo di illustratori e di non specialisti che li porta  a non distinguere, a fornire un’immagine dei luoghi che corrisponde allo stato delle cose e che noi oggi riconosciamo come moderna, nella quale i nuovi edifici industriali si alternano alle architetture storiche, allora non solo dimenticate ma per la maggior parte culturalmente invisibili.  Sono questi gli anni in cui la documentazione fotografica si avvia a una utilizzazione mirata  anche da parte di studiosi e architetti, come indicano alcune partecipazioni alla Esposizione torinese del 1880: qui ad esempio Alfredo d’Andrade, seguendo le ben note indicazioni di Viollet-Le-Duc[4] e anticipando le risoluzioni boitiane, documenta il suo primo intervento architettonico, il restauro del castello di Rivara, proprio con sei fotografie realizzate da Giovanni Battista Berra e  da Giuseppe Vanetti.[5] è da qui che  la  fotografia architettonica  muove  i suoi primi passi, utilizzata specialmente  in virtù delle sue più efficienti possibilità tecniche che consentono di sostituire in modo rapido ed economico i processi di stampa calcografica e litografica, senza che si pensi ancora ad una sua utilizzazione quale specifico strumento di documentazione e di studio del patrimonio storico architettonico[6]; perché questo percorso si compia, almeno in area piemontese,  debbono giungere a maturazione le riflessioni e le esperienze nate dai contatti tra cultura artistico archeologica (piuttosto che specificamente architettonica)  e fotografica  e  contestualmente avviarsi le procedure per esaudire le richieste provenienti dalla amministrazione centrale.

Nel 1878 viene istituita la Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità (sulla base del R.D. 3 agosto 1870), composta da sette membri tutti appartenenti alla neonata (1875) Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino. Nella seduta nel 31 ottobre viene illustrata alla Commissione la citata  richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione (circolari del 21/10 e 14/11), ma solo quattro anni più tardi, nel 1882, dopo una prima ipotesi non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” per documentare il patrimonio (18 giugno 1881) definito  dell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte” redatto nel 1871 dalla specifica commissione diretta da Carlo Felice Biscarra[7],  la Commissione delibera di assegnare a due dei migliori professionisti piemontesi, Berra (Fotografia Subalpina) e Ecclesia, il compito di fotografare il circondario di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente dallo stesso Biscarra e da Crescentino Caselli, al quale ultimo si deve verosimilmente il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, quale appare proprio  nelle immagini di Ecclesia.[8]  Negli esiti di  queste campagne di ricognizione l’intenzione documentaria si sposa con la poetica  di Biscarra   ed ancor più di Federico Pastoris che vedeva nella fotografia un efficace strumento ausiliario alla sua aspirazione verista, quella stessa che gli “dava un energico impulso allo studio e all’amore dell’arte antica. I veristi – nelle parole di Alessandro Stella – invece di leggere la storia nel libri, preferivano studiarla sui monumenti; amavano risalire ai sentimenti, alle idee, alla fisionomia delle epoche più importanti per mezzo delle opere d’arte rimaste a documentarne la vita.”[9]

Qui, in questo desiderio di verità e di conoscenza diretta, oggettiva che Pastoris condividerà con Alfredo d’Andrade trovano spazio e terreno fertile anche le prime applicazioni  della fotografia nel processo di scoperta e valorizzazione di quel patrimonio artistico piemontese che ancora alla fine del secolo si giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[10], riproponendo tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra”[11] e la cui infondatezza sarà di lì a poco  tradotta in evidenza espositiva dalla realizzazione del Borgo Medievale nel parco del Valentino in occasione della Esposizione generale italiana del 1884,  “copia esattissima così nelle forme come nelle dimensioni” delle diverse tipologie di costruzioni selezionate dal gruppo di studiosi coordinato da D’Andrade, raccogliendo “da parecchi le diverse parti dell’edificio” e compiendo un’opera  assimilabile “a quella di un compilatore di una raccolta di oggetti per museo o galleria o di un dizionario d’arte e d’archeologia” (…) obbligo solo e strettissimo l’autenticità.”[12] In questo monumento nuovo, punto nodale per la formazione di una consapevolezza professionale e civile del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano, è facile riconoscere il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, in copie autentiche, che dichiara in tutta evidenza i propri debiti con le modalità culturali proprie dell’universo fotografico. Qui l’idea di copia oggettiva, e quindi autentica, analoga e fungibile al reale propria dell’ideologia fotografica di secondo Ottocento   investe   una pratica che si vuole filologica nonostante l’intervento di assemblaggio e collage: ogni frammento, così come ogni fotografia, è considerato autentico in quanto riproduzione fedele all’originale e tutto il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, destinato a tradurre dalla raffigurazione alla realizzazione  un soggetto inesistente in quella forma.

Intorno e ancor di più in conseguenza di questa iniziativa[13] operarono sia fotografi professionisti come Ecclesia (verosimilmente contattato da D’Andrade grazie ai buoni auspici di Vittorio Avondo)[14], sia giovani studiosi interessati ad una utilizzazione diretta dello strumento fotografico (non senza tentazioni artistiche) come Carlo Nigra[15], che sarà per lungo tempo collaboratore di D’Andrade. A lui si devono serie di immagini  inserite in un articolato processo di indagine, che indicano come l’attenzione del giovane studioso fosse rivolta alla comprensione sostanziale dell’opera piuttosto che alla sua perfetta restituzione tecnica, in questo dimostrando di aver fatta propria la posizione espressa da John Ruskin nella prefazione alla seconda edizione (1880) di The Seven Lamps of Architecture in cui, invitando gli amatori fotografi a documentare intensivamente il patrimonio artistico e architettonico, li sollecitava a non avere “il minimo riguardo per le eventuali distorsioni delle linee verticali; queste distorsioni risultano sempre accettabili se si riesce comunque ad ottenere una esatta restituzione dei dettagli.”[16]

Lo stesso 1884 costituisce però momento importante per la storia della documentazione fotografica dell’architettura anche per l’avvio del progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali” che la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani che si tiene in occasione dell’Esposizione affida  al Collegio torinese; nel successivo congresso (Venezia,1887)  questo presenterà il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato proprio al Borgo Medievale,  costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” [quindi con una presentazione artistica] se dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”[17]

La realizzazione del Borgo e la successiva istituzione del Museo favorirono una attenzione nuova per quella tipologia di edifici che erano serviti da modello alla sua realizzazione;  ad essi venne dedicata da allora una attenzione fotografica sempre più ampia sia da parte dei professionisti[18] sia degli amateur photographers  tra i quali accanto a Nigra e, in misura minore,  ad Ottavio Germano[19] la figura più rilevante fu quella di Secondo Pia[20], certo il più noto e celebrato degli amatori fotografi piemontesi impegnati nella documentazione del patrimonio culturale della regione.

In occasione della Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tiene a Torino nel  1890 mentre uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizza il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte   nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano”[21], a Pia viene assegnata una medaglia d’oro “per la numerosissima collezione di fotografie di monumenti e particolari di essi, in gran parte non conosciuti o non riprodotti. Raccolta fatta di propria iniziativa ad uso degli studiosi”[22], anche con l’esplicito intento di stimolare i dilettanti a seguirne l’esempio assumendo “nelle pubblicazioni fotografiche la missione utilissima per gli studi e per la storia dell’arte, di applicare la loro attività e le loro cognizioni alla riproduzione puramente artistica e storica di quei monumenti, o parti, o resti di monumenti che i fotografi professionisti devono trascurare come punto o meno remunerativi delle riproduzioni di vedute o di aspetti completi di monumenti famosi.”[23]

Una ulteriore occasione di conoscenza sarà poi costituita dalla Esposizione di Arte Sacra del 1898, nel corso della quale Pia espone circa 600 fotografie mentre Giovanni Cena gli dedica un lusinghiero articolo sulle pagine del giornale dell’Esposizione ricordando come iniziasse “le sue escursioni nei dintorni di Asti e di Torino spingendosi sempre più lontano, accumulando notizie nelle biblioteche, dagli studiosi e dagli artisti, notando, visitando, ricercando. (…) Il medioevo e il cinquecento piemontese non fu finora ricostruito che a scomparti. Ed ecco: qui rivive intero. (…) Che prezioso materiale per chi si assumesse un giorno il compito di illustrare l’arte antica in Piemonte! Speriamo che qualche studioso di studi storici e artistici della nostra regione si lasci presto tentare efficacemente.”[24]

L’accumulo di notizie a cui Cena si riferiva  prendeva nel frattempo la forma di un ricchissimo corpus di precise schede analitiche, dedicate a ciascuna delle opere fotografate, che costituisce oltre che una fonte importante e sinora non utilizzata per la storiografia artistica piemontese anche un indicatore esatto dello scrupolo estremo con il quale questo “dilettante fotografo” ha affrontato il suo fondamentale e pluridecennale compito di documentazione; esso è anche un indizio ulteriore e preciso dell’elevato livello culturale oltre che specificamente professionale al quale si collocava in Piemonte, a partire almeno dagli anni ‘60 del XIX secolo, questa attività fotografica, che nei casi più significativi è connotata dalla volontà esplicita di porre in atto un vero e proprio progetto culturale di scoperta e valorizzazione del patrimonio locale, muovendosi in direzione opposta rispetto alle gigantesche imprese commerciali dei più noti studi italiani (da Alinari a Sommer).

Ad un progetto analogo si richiama esplicitamente Pietro Masoero, di professione fotografo ritrattista, che avvia nel 1890 un esteso rilievo fotografico della basilica di S. Andrea a Vercelli, pubblicato nel 1907 parallelamente ai relativi rilievi grafici realizzati da Federico Arborio Mella a corredo di un volume sulla storia della basilica che si poneva quale “contributo al recente risveglio pel culto dell’arte sacra”, uno dei temi più interessanti del dibattito culturale nel Piemonte di secondo Ottocento, strettamente connesso alla rivalutazione della tradizione artistica locale e quindi anche al dibattito e alle prime iniziative di tutela[25].

In questa pubblicazione  “Si volle che la riproduzione fotografica di questo gioiello, sviluppata in una serie logica e possibilmente completa di parti armonizzanti col tutto, desse all’opera un senso di realtà e di vita”  con immagini fotografiche che “riproducono in modo mirabile, non svisato o alterato da alcun manierismo, la vera parvenza o carattere stilistico”[26] della basilica.  Mentre negli anni ‘50 Pietro Estense Selvatico sceglieva la fotografia perché credeva potesse offrire “le esatte apparenze della forma” contro le alterazioni dell’accademia, cinquant’anni più tardi, dopo la fotografia di ispirazione pittorialista,  il rischio di cui un intellettuale attento come Masoero è ben conscio è quello di leggere come obiettiva in quanto fotografica una immagine svisata o alterata dal “manierismo”, inteso quale gratuito formalismo interpretativo dell’opera, per non dire del mondo.[27]

Nel secondo decennio del Novecento la documentazione fotografica del patrimonio storico piemontese si estende sia per iniziativa di alcuni grandi stabilimenti fotografici italiani quali Alinari, che ampliano nel 1912 il ristretto repertorio realizzato nel 1898, e l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, a cui vengono commissionate più di quattrocento riprese[28] in  occasione della realizzazione del padiglione piemontese all’Esposizione romana del 1911, mentre prosegue la collaborazione tra nuove generazioni di studiosi,  organismi di tutela e fotografi particolarmente sensibili alla conoscenza e divulgazione del patrimonio artistico e architettonico, collaborazione già per certi versi anticipata negli anni Ottanta dell’800 dal rapporto tra Riccardo Brayda e Alberto Charvet[29], ma che assumerà nei primi decenni del’900 forme più precisamente connotate: dalle cartelle dedicate da Giancarlo dall’Armi al Barocco  Piemontese, con bellissime immagini corredate dai testi di Cimbro Gelati, Carlo Camerano, Emanuele Provana di Collegno, Melchior Pulciano e Paolo R.Deville[30], alla collaborazione un poco più tarda di Augusto Pedrini con  Augusto Telluccini, Mario Ceradini, Giuseppe Maria Pugno e Marziano Bernardi.[31]

Il ruolo svolto da Brayda risulta fondamentale anche per comprendere l’opera di Mario Gabinio, in particolare la serie realizzata nei primi mesi del 1900 per partecipare al concorso bandito dal Comune di Torino  per la “Collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”.  Gabinio si aggiudica il premio con la serie dedicata a Torino che scompare:  84 stampe che per scelta  dei soggetti, esaustività della documentazione e per l’approccio quasi da reportage consentito dall’uso del medio formato costituiscono una novità assoluta nel panorama della fotografia di documentazione urbana piemontese e italiana.

A partire dagli anni Venti data l’inizio effettivo dell’interesse di Gabinio per il patrimonio architettonico di Torino, già indagato con Torino che scompare e con alcune più sporadiche riprese degli ani ‘10, del quale ci restituisce un catalogo sostanzialmente esaustivo, ritornando più volte sullo stesso soggetto, alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta.

Il suo lavoro intorno all’architettura assume la forma dell’indagine tipologica nella serie dedicata a portali e  portoni degli edifici sei-settecenteschi, riprendendo un tema non nuovo della produzione fotografica torinese, qui connotato da una più marcata attenzione per il dato architettonico e da evidenti preoccupazioni compositive, che si concretizzano nella ostinata concatenazione di spazi e superfici tra facciata e cortile interno; intendendo il portale come cornice architettonica e punto di accesso al cannocchiale prospettico puntato verso il cortile, con la presenza costante di un elemento collocato centralmente a sottolineare la posizione del punto di fuga.[32]

Agli edifici torinesi Gabinio dedica serie costituite da numerose immagini, in cui architettura e presenza urbana sono indagate con inquadrature singolari e sapienti, tanto poco ortodosse quanto efficaci, dove l’interesse per i volumi edificati e per le possibilità di lettura che ne offre la fotografia, per i problemi posti dalla relazione tra illuminazione e forma architettonica, convive col rigore topografico nella determinazione dei punti di ripresa, fornendo esempi concreti di quel connubio tra documentazione e fotografia artistica che molti ritengono  non realizzabile e che costituisce una delle manifestazioni del più generale ambito di discussione sulla natura del documento fotografico che si trascinava almeno dalla metà dell’Ottocento.

“La fotografia architettonica – afferma T.H.B. Scott, vicepresidente della Royal Photographic Society di Londra,  nel 1925 – non può essere fotografia artistica; essa altro non è che fotografia documentaria, una applicazione scientifica della fotografia (…) ed il più grande successo pittorico deve rinnegarsi se l’architettura formi il soggetto dell’immagine fotografica”; sentenza senza appello alla quale tenta debolmente di opporsi J.R.H. Weaver quando afferma che “Nella fotografia di soggetti architettonici ben raramente possono conciliarsi con felice risultato le esigenze scientifiche con quelle pittoriche. [Il fotografo] ricaverà, a quando a quando, piccoli capolavori d’arte da soggetti architettonicamente nulli, mentre potrà  imbattersi in costruzioni d’eccellente architettura ma di niun valore per la fotografia artistica [poiché] la bontà maggiore o minore di un soggetto sotto l’aspetto architettonico ha poco o nulla a che vedere col risultato artistico, cui tende il fotografo”.[33]

Di queste posizioni esteticamente poco consistenti, fortemente legate a una poetica “pittorialista” e antimodernista avrà ragione negli stessi anni la nuova concezione della fotografia in varie forme legata o determinata dalle realizzazioni delle avanguardie storiche, immediatamente recepita e fatta propria anche da Gabinio che nella documentazione dei due importanti cantieri torinesi della Società Reale Mutua Assicurazioni si abbandona al fascino costruttivista dell’architettura del ferro, qui sapientemente confrontata con la città e le sue permanenze, in un dialogo suggestivo tra struttura architettonica e maglia urbana.

Superando concretamente la cultura ottocentesca dell’immagine ottica, tutta orientata e rinchiusa nella celebrazione dei valori documentari propri della fotografia, per aprirsi alla soggettività della nuova visione propria del moderno,  Gabinio segna il passaggio cruciale alla modernità della cultura fotografica torinese, guardando non tanto alle opere presentate ai  Salon o pubblicate in Luci ed Ombre, sostanzialmente ancorate ad un tardo pittorialismo in lenta trasformazione, con la sola eccezione di alcune opere di Stefano Bricarelli e delle prime prove di Riccardo Moncalvo, ma invece a quella mediata delle riviste di architettura, “Domus” in particolare, che contribuisce al formarsi di una precisa consapevolezza delle modalità di trascrizione del reale proprie del mezzo, su queste fondando le stesse possibilità espressive e documentarie dell’immagine ottica.

La pacifica convivenza tra possibilità documentaria e espressione estetica, compositiva, la moderna coscienza che l’un atteggiamento non escluda l’altro si ritrovano nell’opera – meno stilisticamente connotata ma non per questo indifferente alle determinazioni estetiche – di uno studioso come Albert Erich Brinckmann (1881 – 1958), tra i primi e più autorevoli  storici ad affrontare sistematicamente l’analisi delle architetture barocche piemontesi ponendole in relazione con le più importanti scuole internazionali. Le immagini a cui ci riferiamo, tutte ricavate da negativi su lastra nel formato 9/12, vennero  realizzate nel corso dei primi viaggi compiuti in Piemonte nel 1928 – 1930 quindi pubblicate nel suo fondamentale studio del 1931[34], e donate all’Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” che Vittorio Viale aveva da poco costituito presso i Musei civici di Torino, riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Giovanni Vacchetta e Lorenzo Rovere, anche allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle diverse Società di Studi, a rischio di dispersione.[35]

La figura di studioso interessato direttamente alla utilizzazione appropriata delle possibilità offerte dalla fotografia per documentare ma ancor più per interpretare e leggere, non solo formalmente le architetture si delinea in area piemontese proprio con gli anni Trenta del Novecento, avviando una stagione nuova di esperienze e realizzazioni che porterà almeno sino a Carlo Mollino e al più giovane Roberto Gabetti, certo oggi non ancora interrotta ma da conoscere e comprendere compiutamente.

Note

[1] Il testo qui presentato costituisce una prima occasione di sistematizzazione di informazioni e riflessioni relative all’argomento sino ad ora sparse in contributi diversi, parzialmente citati nelle note che seguono, e non pretende pertanto una esaustività che mi auguro possa in futuro essere almeno ipotizzata, anche grazie all’approfondimento e all’estensione degli studi specifici.

Il testo della comunicazione ministeriale è qui citato dalla copia conservata presso l’Archivio di Stato di Lecce, Prefettura, I serie, I vers., b.44, f.413, consultata nel corso di una più ampia ricerca relativa alla definizione dei processi di sedimentazione dell’immagine (fotografica e non solo) del patrimonio culturale regionale condotta nell’ambito del corso di Storia e tecnica della fotografia presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce. Per i documenti relative alle parallele vicende piemontesi cfr. “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880,  p.10. Va segnalato infine l’importante riferimento alla standardizzazione dei formati presente nel documento ministeriale, specificamente orientato alle necessità di catalogazione e archiviazione, quelle stesse che saranno disattese ancora per decenni a venire tanto che ancora nel 1904 Giovanni Santoponte dovrà richiamare esplicitamente la necessità metodologica di dotarsi di materiali altamente normalizzati “allo scopo di ottenere la massima uniformità nei documenti riferentesi a una stessa classe di soggetti e il più alto grado di conservabilità delle immagini fotografiche raccolte (individuando) i formati più indicati (…) le proporzioni della riproduzione rispetto all’originale, i sistemi di stampa inalterabile da adottare (…) i procedimenti per la riproduzione del fototipo più idonei ad assicurarne la conservazione, i modi di custodire, collocare e classificare il materiale negativo e positivo. Tutto ciò dovrebbe fare oggetto di norme internazionali”, Giovanni Santoponte, Per un museo italiano di fotografie documentarie, in Id. Annuario della fotografia italiana e delle sue applicazioni. Roma: 6 (1905), pp.38-48.

[2]Datano a questo periodo anche le prime realizzazioni piemontesi di campagne fotografiche e album dedicati alla produzione artistica: citiamo a titolo esemplificativo le stampe raccolte negli album prodotti dalla Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, a partire dal 1863; la ricchissima collezione di riproduzioni di disegni – specialmente scenografie – realizzata a partire da questi anni dal biellese Vittorio Besso e l’album che Cesare Bernieri dedica nel 1866 a L’opera pittorica di Massimo d’Azeglio, con presentazione di Federico Sclopis, costituito da venti stampe all’albumina da lastre di grande formato. Va ricordato che gli album costituivano la forma di presentazione preferita dai diversi progetti di ‘archivio’ o ‘museo’ fotografico formulati tra Otto e Novecento, anche in ambito amatoriale, cfr. Anselmo Giusta, Illustrazioni artistiche, “L’Escursionista”, 3 (1901), n.3, 6 maggio, pp.6-7.  Il contenuto di molti importanti album fotografici venne per la prima volta reso noto in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.  Per una più aggiornata presentazione di materiali piemontesi si vedano Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839 – 1911.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1990;  P. Cavanna, Culture photographique et société en Piemont: 1839-1898, in Photographie, ethnographie, histoire, “Le Monde Alpin et Rhodanien”, 23 (1995), 2e – 4e trimestres, pp.145 – 160.

[3] cfr. Malcom Daniel, The Photographs of édouard Baldus. New York: The Metropolitan Museum of Art – Montreal, Canadian Centre for Architecture, 1994.

[4] Eugène Viollet-Le-Duc,  voce Restauration, in Id., Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du  XIe   au XVIe  siécle, VIII. Paris: Librairies-Imprimeries Reunies, s.d. [1860], pp.33-34,  in cui viene per la prima volta codificato l’uso della fotografia nei processi conoscitivi e operativi connessi al restauro degli edifici.

[5] IV Esposizione nazionale di Belle Arti. Catalogo. Torino: L. Roux e C.,  1880, nn.182-183; va ricordato qui anche l’album fotografico che G.B.Berra dedica a questa esposizione. La novità  costituita dall’utilizzo di fotografie per la presentazione di progetti architettonici (utilizzate da quattro dei settantanove espositori della sezione “Architettura”), è ulteriormente indicativa se pensiamo alle ben note qualità di disegnatore di D’Andrade, cfr. Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981; Alfredo d’Andrade. L’opera dipinta ed il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra il XIX e il XX secolo, catalogo della mostra (Aosta, 3 luglio  – 19 settembre 1999), a cura di Lia Perissinotti. Aosta:  Musumeci Editore, 1999.

[6]è noto che la documentazione urbana e d’architettura anticipa, per molteplici ragioni, non solo tecniche, quella relativa alla pittura; cfr. Miraglia, Culture fotografiche e società , op. cit.; P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, in Tiziana Serena (a cura di), Per Paolo Costantini, I,  Fotografia e raccolte fotografiche, «Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni», VIII, (1998),  pp.49-55.

[7] Cfr. Carlo Felice Biscarra, Studio preparatorio per un elenco degli edifici e monumenti nazionali del Piemonte, in “Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, II, Torino, 1878, pp.225-230.

[8] Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884 congiuntamente ad analoghe campagne condotte nell’Alessandrino da Federico Castellani. Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte.

[9]Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte 1842-1891: Torino: Paravia e C.,  1893, p.337, citato da Rosanna  Maggio Serra, Ricognizioni ottocentesche sui cicli ad affresco del primo Quattrocento piemontese, in Giacomo Jaquerio e il gotico internazionale, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, aprile – giugno 1979), a cura di Enrico Castelnuovo, Giovanni  Romano,. Torino:  Città di Torino – Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, 1979, pp.325-326, da leggersi in parallelo  a Id., Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andradeop. cit.,pp.19-43.

[10]Antonio Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp.106-110 (p.107); n.22, pp.171-175; n.23, pp.177-179. Del permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” ha parlato ancora in anni recenti Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela  di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp.11-32 (p.23).

[11]Francesco Gamba, L’arte antica in Piemonte, 1880, citato in R. Maggio Serra, Uomini e fatti, op. cit., p.29.

[12] Giuseppe Giacosa,  Guida Illustrata al Castello feudale del secolo XV, in Esposizione generale italiana, Catalogo, 1884, p.9.  Dalle più recenti ricerche risulta però che per queste realizzazioni non si possa parlare di  copie “esattissime” ma semmai di accurate trascrizioni sapientemente adattate per essere inserite nel nuovo contesto, cfr. Carla Bartolozzi, a cura di, Un Borgo colla dominate Rocca. Studi per la conservazione del Borgo Medievale di Torino. Torino: Celid, 1995.

[13] Si vedano a questo proposito i diversi saggi contenuti in  Fotografi del Piemonteop. cit.  e in Alfredo d’Andrade, op. cit.

[14]  Vittorio Avondo aveva commissionato proprio a Ecclesia più copie delle fotografie realizzate nel castello di Issogne, da lui acquistato e restaurato anche col sostegno di D’Andrade,  nel corso della campagna del 1882 allo scopo di realizzare una serie di album, cfr. Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: SPABA, 1997.

[15] Sul valore e le caratteristiche del lavoro fotografico di Carlo Nigra (1856-1942) aveva per prima richiamato l’attenzione R. Maggio Serra, La fotografia nel Fondo d’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonteop. cit.,  pp.17-20. Per il ruolo svolto da Nigra nel mantenere in area piemontese un rapporto fecondo con la tradizione della “scuola storica”, cfr. Giovanni Romano, Presentazione, in Id., a cura di, Gotico in Piemonte.  Torino: Cassa di Risparmio di Torino, 1992, p.11.

[16] La prima edizione di The Seven Lamps fu pubblicata a Londra presso Smith & Elder nel 1849. La prefazione alla seconda edizione, da cui  è tratta la citazione, è stata discussa da Paolo Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in P.Costantini, Italo Zannier, I dagherrotipi della collezione Ruskin. Venezia: Arsenale Editrice,  1986, pp.9-20.

[17] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1; tale indicazione proponeva con largo anticipo il problema dei Musei documentari,  ripreso in Piemonte dieci anni più tardi da Giovanni Vacchetta, il quale  elabora un progetto di catalogazione del patrimonio artistico piemontese  e propone alla Sezione di Architettura presso il Circolo degli Artisti di Torino l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, unitamente alla formazione di un archivio fotografico, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni; la sezione V del Museo doveva ospitare “negative fotografiche”.  I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto proponendo infine solo la formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.”,  Roberto Albanese, Emilio Finocchiaro, Maristella  Pecollo, a cura di, G.Vacchetta. Volontà d’arte: il gusto del particolare.  Cuneo: Comune di Cuneo – Assessorato per la Cultura, 1990, p.141.

[18] Per fare un solo esempio il confronto tra i cataloghi di Vittorio Besso del 1881 e del 1893 mostra come in questo lasso di tempo si fosse accresciuto il repertorio di immagini della Valle d’Aosta, di cui entrò a far parte una serie dedicata ai castelli costituita da ben 17 soggetti mentre per il Biellese la serie dedicata al castello di Gaglianico passò da tre a quindici titoli.

[19]Su Ottavio Germano, che dopo Torino e Genova si trasferirà a Bologna, si vedano le prime segnalazioni di Rosanna Maggio Serra ed inoltre Claudia Cassio, in Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., p.386;  P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, in Paola  Salerno, a cura di, Santa Maria di Vezzolano. Il pontile. Ricerche e restauri. Torino:  Umberto Allemandi & C., 1997, pp.68-77, (p.77, n.23);   Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografia & fotografi a Bologna 1839-1900. Bologna: Grafis Edizioni, 1992. Sull’attività fotografica legata alle prime attività di tutela  piemontese molto resta ancora da conoscere ma va segnalata almeno la presenza a Palazzo Madama di un vero e proprio laboratorio di sviluppo e stampa gestito da Germano e Nigra, come si ricava da una lettera datata 3 gennaio 1892: “Favorisco farmi sapere  se prima di tornare a Sartirana puoi venire a Palazzo Madama a sviluppare le rimanenti lastre già impressionate e fare altre stampe.”, citato in Cristina  Ghione, Ingegneri, architetti, restauratori in Piemonte fra il 1915 e il 1940: Carlo Nigra, Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura, relatore Mariella Vinardi, correlatore Rosanna Maggio Serra,  Anno Accademico 1993-1994, p.87.  Sulle necessità di definire compiutamente i compiti e le metodologie operative dei gabinetti fotografici degli Uffici regionali si esprimerà Pietro Toesca, L’Ufficio fotografico del Ministero della pubblica istruzione, “L’Arte”, 7 (1904), pp.80-82, inserendosi in un dibattito più ampio, anche internazionale,  a proposito della necessità di attuare raccolte sistematiche di documentazione fotografica, i cosiddetti Musei Documentari. Il riferimento metodologico costituito da  Toesca  è stato analizzato da Giovanni Romano, Pietro Toesca a Torino,  “Ricerche di Storia dell’arte”, 21 (1996), n.59, pp.5-19 ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali. Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 1-21. Per la ricostruzione del dibattito su queste istituzioni, nuclei originari e occasioni primarie di riflessione per ogni successivo  musée imaginaire fotografico o comunque virtuale si vedano Paolo  Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990, in  particolare alle pp.58-72;  P. Cavanna, Per l’archivio fotografico e audiovisivo, “L’impegno”, 11 (1991), n.3, dicembre, pp.41-48; Brera 1899, un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, Palazzo di Brera, Sala della Passione, 17 febbraio-25 aprile 2000) a cura di Matteo Ceriana, Marina Miraglia. Milano: Electa, 2000. La particolare attenzione di Toesca per le possibilità consentite dalla documentazione fotografica, già espressa in una lettera a Secondo Pia del 1907 (cfr. Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia.  Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, p.31) lo porterà nel secondo dopoguerra a curare i volumi della collana “Artis Monumenta photographice edita”, della quale usciranno i titoli dedicati a San Pietro al Monte a Civate  ed alla Cappella di San Silvestro in Santa Croce a Firenze,  mentre rimarrà inedito il terzo, sulla Basilica Superiore di Assisi, tutti con fotografie di Mario Sansoni e Carlo Bencini, cfr. Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979, pp. 57-198 (pp.158-159); Paola Callegari et alii, La Fototeca Nazionale. Roma:  Ministero per i Beni Culturali, ICCD, 1984.

[20]Tamburini, Falzone Il Piemonte fotografato da Secondo Pia, op. cit.;    Secondo Pia: Fotografie 1886-1927, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale del Cinema, 19 ottobre-19 novembre 1989) a cura di Amanzio Borio, Michele Falzone del Barbarò. Torino: Allemandi & C., 1989; P. Cavanna, Per un repertorio delle immagini di Vezzolano, op. cit.; L’immagine rivelata: 1898: Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, Archivio di Stato, 21 aprile-20 giugno 1998) a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998; Secondo Pia fotografo della Sindone, pioniere itinerante della fotografia: Immagini, di Asti e dell’Astigiano, catalogo della mostra (Asti, Archivio Storico, Palazzo Mazzola, 20 maggio-30 settembre 1998) a cura di Gemma Boschiero. Asti: Archivio Storico del Comune di Asti, 1998. L’altro grande dilettante piemontese del periodo, il più giovane Francesco Negri  era invece – come noto – più impegnato nello studio e nella documentazione del patrimonio artistico, cfr. cfr. P. Cavanna, Cinquant’anni di sguardi: la fotografia scopre il Sacro Monte, in Amilcare Barbero, Carlenrica Spantigati, a cura di, Sacro Monte di Crea.  Alessandria: Cassa di Risparmio di Alessandria, 1998, pp.137-145.

[21] Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891, p.18;  nella stessa occasione rilevava come Pia “girando tutta la regione del vecchio Piemonte, seppe scovare una quantità  di monumenti in gran parte ignorati, ch’egli presentò in tre album di oltre 200 fotografie.”

[22] Lo stesso concetto era ribadito da Pietro Masoero che ancora  dieci anni più tardi recensendo l’Esposizione Internazionale di Fotografia di Torino sottolineava come “nell’esposizione dell’Arte sacra a Torino nel ‘98 egli [Pia] aveva vastissime vetrine e voluminosi albums in cui tuffavano con voluttà le mani gli amatori e gli studiosi d’arte antica. (…) Il Pia dona alla storia futura tutto quanto sfugge al raccolto delle grandi case, che riproducono per commerciare, ed il suo lavoro è l’elemento più prezioso per chi studia.”, Pietro Masoero, L’Esposizione fotografica di Torino – Note e appunti,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 12 (1900), n.4, , p.278. Altra grande occasione espositiva per Pia si presentò nel 1926 con la “Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese” che si tenne a Torino alla palazzina della Promotrice delle Belle Arti al parco del Valentino nell’ambito della “II Mostra Internazionale di Edilizia”; nella sala VII erano ospitati rilievi di d’Andrade, Brayda, Mella, Ferrante, Nigra, Pulciano, Vacchetta e Tornielli mentre “tutta una parete della sala [era] occupata da ben 22 vetrine dell’avv. Secondo Pia contenenti fotografie di grande formato di edifizi piemontesi dal periodo romanico, al gotico, al rinascimento: è la più completa raccolta di fotografie della Mostra”., cfr. La Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese, in “Il Momento”, 24 (1926), n.128, 2 giugno, p.5.

[23] I Esposizione Italiana di Architettura, Relazione delle Giurie ed elenco dei premiati. Torino: L.Roux e C., 1891, p.49, sottolineatura nostra. Va qui rilevata l’accezione di “fotografia artistica” che muterà radicalmente entro un decennio; si veda P. Cavanna, 1890-1902. Documentazione, catalogazione, fotografia artistica in Piemonte, op. cit.

[24]Giovanni  Cena, Piemonte antico, in “1898 Arte Sacra”, n.34, pp.239-240. A quella stessa occasione risale anche, come è noto, la prima fotografia della Sindone, realizzata proprio da Pia, che a questa impresa deve – impropriamente – la sua scarsa notorietà.

[25] P. Cavanna, Lavoro fotografico: la documentazione dell’Abbazia di Sant’Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia”, studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier, n.6, 1986,  pp. 34 – 45

[26] Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, Pietro Masoero, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli. Vercelli: Gallardi e Ugo, 1907, p.439 passim, sottolineatura nostra.

[27] Per Masoero infatti si doveva “evitare il pericolo di cadere nel manierato (…) Al vero, unicamente al vero deve l’arte fotografica attingere le sue ispirazioni (…) L’arte fotografica deve avere un’ispirazione, di diventare il documento ispiratore e coadiuvatore dell’arte, con le sue potenti verità.”,  P. Masoero, Arte fotografica, in “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), pp.161-171.

[28] Le 436 lastre allora realizzate sono oggi conservate presso l’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino; per quanto riguarda la datazione va rilevato che essa potrebbe anche essere lievemente antecedente: si vedano alcune delle stampe relative a Ranverso conservate nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Piemonte che  riportano  una datazione (tarda però) “prima del 1907”  e le due stampe all’albumina relative a San Sebastiano (una vela di volta e la Crocifissione)  comprese nel Fondo Rovere dei Musei Civici di Torino (Scatola 22) , non datate ma tecnicamente attribuibili al più tardi ai primi anni del Novecento. Naturalmente già nella seconda metà del XIX secolo frequentarono il  Piemonte anche operatori di altri importanti stabilimenti fotografici quali Brogi e Sommer, ma la loro produzione specifica non è ancora sufficientemente nota e studiata.

[29] Riccardo Brayda,  Porte Piemontesi dal XV al XIX secolo,  1888.  La collaborazione tra i due origina dal precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, Torino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.  L’opera di Alberto Charvet costituisce un importante esempio della ricchezza del panorama torinese e più ampiamente piemontese di fotografi attivi nel campo della documentazione d’arte e d’architettura con produzioni di costante alto livello. Per Charvet cfr. Miraglia, Culture fotografiche, op. cit., pp.371-372.

[30]Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915], sei cartelle fotografiche corredate di  notizie storico-critiche. Anche Dall’Armi (1881-1928) come Pietro Masoero, era professionalmente molto noto specialmente per la sua attività di ritrattista,  genere nel quale adotterà con grande eleganza e misura  stilemi di matrice pittorialista, conservati ben oltre la loro stagione più efficace nella produzione dello studio, gestito dalla moglie Giovanna Andrate fino al 1951.

 [31]  Di Augusto Pedrini, una delle più interessanti figure di fotografi professionisti attivi a Torino nel campo della documentazione d’arte e di architettura nella prima metà del Novecento, oltre alla ricca produzione editoriale va ricordata  la numerosa serie di contributi apparsi in “Atti e Rassegna Tecnica della Società Ingegneri e Architetti di Torino”;  Pedrini viene chiamato nel 1932, con Gabinio, a documentare il cantiere della nuova sede della Società Reale Mutua Assicurazioni di Torino.

[32] Cfr. Mario Gabinio: Dal paesaggio alla forma: Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997) a cura di P.  Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Allemandi, 1996.

[33] John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica,  “Il Corriere Fotografico, 22 (1925), n. 3, marzo, pp. 35-36. Dallo stesso articolo è tratta la citazione di Scott con cui l’autore polemizza utilizzando strumenti e categorie molto deboli e confuse, del resto proprie della maggior parte della pubblicistica di quegli anni, specialmente quella rivolta al grande pubblico dei dilettanti.

[34] Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

[35] Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte.  Torino: Tip. Anfossi, 1933.

Vedere barocco (2020)

Vedere barocco

 

“Una cosa finalmente piacemi ancora si avvertisca, 

ed è proprietà essere naturale de' raggi, come egli è di tutti i fluidi, 

il mutar continuamente e successivamente figura 

nell’allontanarsi che fanno del luogo onde si partono, 

tendendo sempre ad annullare gli angoli, e le acutezze della loro figura, 

e così ad accostarsi continuamente 

vieppiù al tondo, vale a dire al conico, o al cilindrico” 

Bernardo Antonio Vittone, 1760

 

 

 

 

“La fotografia – scriveva  André Bazin nel 1945 – portando a compimento il barocco, ha liberato le arti visive dalla loro ossessione per la somiglianza”[1], ma oggi potremmo dire che di quella stessa ossessione anche la fotografia si sia liberata,  ovvero,  per dire meglio, che l’abbia trasformata in una condizione più complessa della semplice relazione di analogia, dove l’accezione convenzionale di copia o riproduzione, l’intenzione documentaria infine ha progressivamente assunto un significato diverso, più interpretativo e narrativo, senza mai rinunciare però alla necessità ontologica del rapporto col referente. Generalizzando ciò che in altro contesto ebbe a scrivere Minor White potremmo dire che “La sottile linea elastica tra realtà e fotografia è stata tesa inesorabilmente, ma non è stata spezzata. Queste astrazioni della natura non hanno abbandonato il mondo delle apparenze perché farlo significherebbe spezzare il punto di forza dell’apparecchio, la sua autenticità. (…) La trasformazione del materiale originario in realtà fotografica è stata applicata in modo mirato; la stampa è stata manipolata per influenzare l’asserzione; (…) Per i dati tecnici, la macchina è stata usata fedelmente”[2].

Questo progressivo mutare di intenzioni nel rapporto tra soggetto fotografante e oggetto fotografato risulta particolarmente evidente se consideriamo l’ambito della fotografia di architettura, qui esemplificato seguendo le alterne vicende della fortuna fotografica di alcuni  edifici barocchi piemontesi.

Un viaggiatore attento come  Jérôme de la Lande, giunto a  Torino nel corso del suo “Voyage en Italie” del 1765-1766, aveva espresso (pur con qualche riserva) una sincera ammirazione per le architetture guariniane  come  la Cappella della Sindone –  considerata “la più bella chiesa di Torino” nonostante quella sua cupola “di costruzione  assolutamente singolare, si potrebbe quasi dire stravagante[3] –   o Palazzo Carignano, “un grande edificio la cui  facciata, sebbene di mattoni, ha un aspetto gradevole e maestoso”[4]. Quando però la fotografia si aprì al racconto delle architetture e degli spazi urbani,  l’opinione dei colti (cioè dei primi acquirenti di quelle stesse fotografie) viveva ancora delle feroci considerazioni di matrice neoclassica che avevano bollato il Barocco come “corruzione (…) di ogni ragionevole architettura”[5],  prolungando una sfortuna critica che si sarebbe mantenuta ben salda oltre l’inizio del Novecento, specialmente in Italia dove il recupero operato in area germanica, da Gurlitt  a Wölfflin, da Schmarsow a Riegel, tardava a dare i propri frutti[6].

 

Fotografare monumenti

 

Le più precoci tracce di un’attenzione, per quanto incerta, per le manifestazioni dell’architettura barocca in Piemonte si ritrovano nelle pagine di alcune guide o nella veduta al dagherrotipo (invertita) del lato nordoccidentale della Piazzetta Reale a Torino, realizzata da Enrico Federico Jest l’11 ottobre 1839,  a pochi giorni di distanza dalla prima e più nota ripresa della chiesa della Gran Madre di Dio (8 di ottobre),  con le cupole di San Lorenzo e della Sindone che inevitabilmente emergono dalla cortina edilizia[7]. Come scriveva Felice Romani, che ebbe l’opportunità di assistere a quelle prime “prove di questo mirabile dramma della fisica moderna (…) Al debole lume di una candela noi spiammo a traverso del vetro (…) e in meno di due minuti la superficie metallica, poc’anzi nuda ai nostri occhi cominciò a improntarsi di visibili forme (…) la cupola di San Lorenzo sorgeva colla sua rotonda, coi suoi compartimenti, colle sue finestre (…) e l’estremità della piazza del Castello, dall’angolo di Doragrossa fino a quello che mette al palazzo reale, appariva con tutte le sue proporzioni, con tutte le sue case (…).”[8]   Non dissimile l’inquadratura di una successiva ripresa di Giuseppe Venanzio Sella (fig.1), realizzata su lastra all’albumina nel luglio del 1853, contemporaneamente al lato nordorientale scorciato sulla facciata juvarriana di Palazzo Madama: due riprese che facevano (quasi) panorama e si inserivano in una serie che comprendeva anche Piazza San Carlo, il Castello del Valentino e quello di Racconigi[9].


1 – Giuseppe Venanzio Sella, Torino: Palazzo Reale e Palazzo Madama, luglio 1853, in: Ormezzano 1923, p. 134.

 

Un  significativo insieme di ambienti ed edifici ‘barocchi’, certo, ma qui scelti per il loro valore simbolico e dinastico, non per le loro specifiche (sebbene eterogenee) valenze architettoniche. Ancora più labili testimonianze si ritrovano nel piccolo nucleo di dagherrotipi realizzati da Frederick Crowley con John Ruskin nel corso della loro tappa torinese dell’estate del 1858, che oltre ad alcune vedute di  Strada Doragrossa (ora via Garibaldi), estensione barocca del decumano maximo, comprendevano un’ulteriore veduta della Piazzetta Reale con le cupole guariniane di San Lorenzo e della Sindone in secondo piano, mentre di Palazzo Madama venne preferito l’assetto medievale[10]. Analoga fu la scelta adottata per la rappresentazione di questo edificio nelle tavole delle Excursions Daguerriennes[11], distinguendo nettamente lo “Château” medievale (fig. 2) dall’addizione juvarriana di “Palazzo Madama”; una soluzione che ritroviamo in un’altra ripresa del 1853 ancora di Sella e in quella sostanzialmente coeva di Ludovico Tuminello[12], allora esule a Torino, mentre Francesco Maria Chiapella illustrava le residenze sabaude di Venaria Reale e di Stupinigi[13]. A chiudere questo primo catalogo visuale di architetture barocche si sarebbero aggiunte di lì a poco Villa della Regina e Palazzo Carignano, compresi da Henri Le Lieure nel proprio Turin Ancien et Moderne del 1867 (fig. 3).

 

2 – Vogel (incisore), Château delle Torri à Turin, 1842, incisione da dagherrotipo, in: Lerebours 1842, f. 108

 

 

3 – Henri Le Lieure, Palais Madame, 1867, in: Falzone del Barbarò 1987, t. V

 

A considerare il trattamento che questi autori riservarono a quegli edifici si conferma l’intenzione di restituirne il valore politico e urbanistico di emergenze monumentali, indifferenti alla specifica connotazione ‘stilistica’. Così ancora nel corso della campagna promossa dal ministero della Pubblica Istruzione nel 1878, ma realizzata quattro anni più tardi da Giovanni Battista Berra e da Vittorio Ecclesia per incarico della Regia Commissione conservatrice provinciale dei monumenti, si sarebbero privilegiate le testimonianze romane e specialmente medievali, citando della lunga stagione barocca la sola basilica di Superga, sede delle Tombe Reali di Casa Savoia, con un’ampia veduta generale. Un ulteriore caso di fotografia di monumenti, non di architetture.  

Solo un’isolata ripresa dello scalone di Palazzo Madama realizzata dal fiorentino Giacomo Brogi verso il 1875 rivelava una prima specifica attenzione per il tema.  Lo stesso Secondo Pia, il più importante amateur piemontese del periodo, meglio noto come autore della prima fotografia della Sindone nel 1898,  escluse con sistematico impegno le architetture barocche dalla sua meticolosa, pionieristica indagine fotografica del patrimonio storico piemontese condotta tra Otto e Novecento[14], e ancora il programma di riprese torinesi degli Alinari, effettuate sul finire del secolo (Sansoni [1898] 1987), avrebbe riconfermato l’attenzione per i soli interventi juvarriani: da Palazzo Madama a Stupinigi, mentre la successiva campagna di Brogi, pur restituendo il prospetto occidentale del palazzo lo qualificava come “costruito verso la fine dei XIII secolo”[15], certificandone così  l’invisibilità culturale (fig. 4).

 

4 – Edizioni Brogi, 3713, Torino: Palazzo Madama: costruzione del secolo XIII cadente, 1920 ca.

 

Anche a scala nazionale, non considerando sporadiche realizzazioni quali La Provincia di Terra d’Otranto di Pietro Barbieri del 1889,  che comprendeva i maggiori esempi di barocco leccese, il primo solido indizio di una inversione di tendenza si ebbe solo nel 1912 con la pubblicazione  di Architettura barocca in Italia di Corrado Ricci[16], un vero e proprio atlante con più di 300 fotografie realizzate dai maggiori studi italiani (Alinari, Anderson, Gargiolli-GFN, Moscioni). Dagli  stessi studi fotografici provenivano anche le immagini a corredo di Roma Barocca, primo titolo della “Collezione Italia” diretta da Antonio Muñoz (1919), con ben 355 illustrazioni in cui comparivano quasi per la prima volta[17]  immagini zenitali, utilizzate però non tanto per leggere le articolazioni spaziali (Alinari: San Carlino; Anderson: Cappella Paolina in S. Maria Maggiore) quanto per restituire gli apparati decorativi di volte e soffitti[18], mentre in termini più generali prevaleva,  in entrambe le opere, l’attenzione per la figurabilità urbana di quegli edifici, escludendo le più conturbanti sperimentazioni architettoniche condotte sull’articolazione degli spazi interni.

 

Fotografare architetture

 

Per quel che riguarda il Piemonte[19] fu la grande Esposizione In­ternazionale dell’In­dustria e del Lavo­ro che si svolse a Torino nel 1911 per celebrare il cinquan­tenario dell’U­nità a consolidare l’attenzione per le architetture barocche nel contesto del più ampio dibattito per la definizione di uno ‘stile nazionale’, assumendo qui più sottili valenze di orgogliosa rivendicazione di un’identità culturale sostitutiva dell’ormai superato modello neogotico di matrice sabauda, quello  che aveva portato alla realizzazione del Borgo Medievale al Parco del Valentino nel 1884. In quello stesso 1911 però, nel volume dedicato all’ex capitale del Regno di Sardegna, un importante storico dell’arte come Pietro Toesca, all’epoca primo titolare della cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna a Torino, condannava senza appello le opere di Guarini, “ch’ebbe in sorte d’innalzare alcuni dei più importanti edifici della città e di imporre ad essa, nei luoghi più frequentati, le linee uggiose ideate dalla sua stracca fantasia. (…) l’aspetto sgradevole delle sue fabbriche è aumentato dal cattivo modo di muratura (…) [che] è quasi ripugnante alla vista.”[20] Verdetto inappellabile, di marca settecentesca, che non poteva che contribuire  a mantener vivo quel pregiudizio che  (nonostante  le precoci attenzioni di Stendhal[21])  aveva indotto Jacob Burckhardt ([1855] 1952) a  lasciare ai margini del suo viaggio italiano Torino e l’intero Piemonte; quello che ancora nel 1931 avrebbe consentito a Brinckmann di affermare che “Il Piemonte, collocato alle porte d’Italia, fa ancora parte delle aree sconosciute del paese più conosciuto nella storia dell’arte.”[22].

Lo studioso tedesco aveva iniziato a frequentare questi luoghi[23]   nell’estate del 1914 in preparazione del saggio dedicato all’architettura del Sei e Settecento (Brinckmann 1919); testo che un gesuita antimodernista come Carlo Bricarelli avrebbe recensito sulle pagine del “Bollettino  della  Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, riconoscendo come “dallo studio dei monumenti barocchi di Torino e d’una parte del Piemonte, fatto sul luogo in persona, [l’autore] trae un prezioso accento di novità all’opera sua e argomenti non ispregevoli in conferma del suo modo di concepire lo stile barocco [e] grazie a questa giustezza di criterio il Piemonte viene a prendere nella storia dell’ architettura moderna, e precisamente dei secoli XVII e XVIII, la posizione che gli spetta, di primaria importanza addirittura.”[24]

 

5 – Giancarlo dall’Armi, 40 Torino – Palazzo Carignano – Guarini, 1915 ca..

 

Tra le fotografie pubblicate in quel volume comparivano anche due riprese[25] di Gian Carlo dall’Armi (fig. 5), uno dei più importanti e colti professionisti attivi a Torino nei primi decenni del Novecento[26], che aveva da poco edito i primi fascicoli della sua “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”; una serie avviata nell’anno dell’entrata in guerra e per questo quasi immediatamente interrotta. Il piano dell’opera, che prevedeva trenta cartelle monografiche con brevi introduzioni storico critiche affidate ad architetti e studiosi, si ridusse alla  pubblicazione dei soli primi fascicoli de Il Barocco Piemontese[27], ciascuno contenente una serie di stampe fotografiche, che costituivano l’esito di una scelta rigorosa, frutto di numerose varianti di ripresa progressivamente ravvicinate[28], caratterizzate da una composizione nitida e ordinata, sorretta da una magistrale sensibilità agli esiti della luce sulle superfici murarie, con rare eccezioni di scorci zenitali, come per la volta dello scalone di Palazzo Barolo (fig. 6); una soluzione di cui si sarebbe ricordato Augusto Pedrini mezzo secolo dopo nel fotografare la Scala delle Forbici di Palazzo Reale[29].

In quello stesso 1915 Giovanni Chevalley dedicava a  Benedetto Alfieri una sua conferenza alla Società degli ingegneri ed architetti di Torino[30], mentre  di poco successivo fu il primo studio su Bernardo Antonio Vittone (Olivero 1920), illustrato da numerose fotografie di professionisti e amatori torinesi, tra le quali si segnalano per la qualità degli esiti ancora quelle di Dall’Armi – che nella sua prima  serie aveva offerto solo esempi di architetture civili – dedicate alle volte della vittoniana chiesa di Santa Maria di Piazza[31], e quelle  di Giuseppe Ferazzino, il solo in quegli anni a tentare una veduta zenitale delle volte della Chiesa dei Santi Bernardino e Rocco a Chieri[32].  Nella generalità dei casi le altre riprese non presentavano novità di rilievo, tanto che le fotografie di Pedrini del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi[33] poco si discostavano dalle riprese Alinari del primo anteguerra[34],  senza arrischiare prospettive più ardite, senza veramente accettare il dialogo con le architetture fotografate.

 

6 – Giancarlo dall’Armi, 462 bis Torino – Palazzo Barolo –

Baroncelli – Fregi dello scalone, 1915 ante

 

Di quel rinnovato clima culturale che consentiva di guardare “alla architettura barocca (…)  in un senso prettamente storico, senza alcuna allusione dispregiativa” ovvero – come scriveva ancora Carlo Bricarelli (1921) – di “ricuperare i diritti civili”  di quello “stile” nonostante gli anatemi di Benedetto Croce[35],  fu testimonianza l’importante Mostra retrospettiva di Architettura Piemontese che si tenne nel 1926 nelle sale del palazzo della Promotrice delle Belle Arti al Valentino. Diretta da Giacomo Salvadori di Wiesenhof e dallo stesso Chevalley[36],  presentava nella Sala X alcuni rilievi di edifici barocchi realizzati da Giovanni Vacchetta e corredati di fotografie di Dall’Armi e di Pedrini, impegnato in quegli anni a fornire il corredo fotografico degli studi che Augusto Telluccini dedicava all’opera di Filippo Juvarra (fig. 7).

 

7 – Augusto Pedrini, Torino – Palazzo Madama: atrio, 1926 ante, in: Telluccini 1926,  t.52

 

Lo studioso tributava “un meritato elogio [a Pedrini] che, con grande disinteresse e con grande amore e studio, mi ha coadiuvato eseguendo con vero senso d’arte le riproduzioni fotografiche usate per illustrare l’opera”[37].   Come già si è notato, a queste date il fotografo si muoveva ancora nella tradizione dell’ortogonalità prospettica ottocentesca: punto di vista rialzato e macchina parallela al piano verticale principale per conservare il parallelismo delle linee; anche negli interni l’apparecchio era posto sull’asse centrale ad un’altezza mediana: le deformazioni non erano consentite, tanto meno ricercate. La fotografia era  ancora intesa come schermo trasparente, una finestra in posizione privilegiata da cui osservare senza inquietudini i dinamici volumi barocchi, ridotti al più ragione­vole spazio bidimensionale di una forma geometrica piana (cerchio, ellisse, poligoni inscritti e circoscritti): quasi una normalizzazione tranquillizzante che rifiutava ogni deformazione esplicitamente anamorfica, espressionista.

A testimoniare un più generale mutamento del gusto fu una pubblicazione a larghissima diffusione come il primo volume della collana “Attraverso l’Italia” che nel 1930 il Touring Club dedicava  al Piemonte. La prima tavola fuori testo (fig. 8) , colorata in stampa, raffigurava l’interno di San Lorenzo e ne celebrava “l’ardita, originalissima cupola, la bizzarria dell’architettura che esclude ogni linea retta, la ricchezza e il buon gusto della decorazione, l’armonia delle luci e dei colori [che] ne fanno un capolavoro di grazia e di eleganza.”[38]  Accantonate e forse dimenticate le sprezzanti opinioni di Toesca, anche la nascente cultura di massa era pronta a celebrare queste realizzazioni riconoscendone il ruolo determinante nella definizione culturale del barocco sabaudo e del patrimonio architettonico nazionale.

 

8 – Autore non identificato, Torino: interno della Real chiesa di San Lorenzo, 1930, in: Touring Club Italiano 1930, All.1.

 

 

Vedere il barocco

 

Sviluppando le prime ricerche avviate nell’immediato anteguerra,   nel 1931 Albert Erich Brinckmann  pubblicava in soli 300 esemplari il Theatrum novum Pedemonti, unanimemente considerato il caposaldo della scoperta del  barocco piemontese, sebbene con una impostazione all’epoca molto discussa[39]. Uno studio che qui importa considerare specialmente per le scelte metodologiche e di poetica che guidarono la realizzazione e la composizione dell’apparato fotografico, sinteticamente ricordate dall’autore nell’introduzione al volume: “La comprensione  di una parte della storia dell’arte di quest’area culturale non è possibile senza un preliminare lavoro tecnico-giornalistico. In primis  le mie fotografie degli edifici, fotografie che ho raccolto nel corso di cinque viaggi in treno e in auto, da solo e spesso con difficoltà (…). Ciò che si può trovare presso gli studi fotografici commerciali è trascurabile. Non volevo illustrare ma semmai  chiarire un edificio. Oltre a una preparazione tecnica specifica, ciò comporta un  modo e una capacità di vedere particolari. Mi sono deciso a  realizzare numerose  riprese scorciate, e ravvicinate,  perché corrispondono all’immagine visiva e all’intenzione rappresentativa dell’architetto barocco. Con questo lavoro creativo mi auguro  di aver accresciuto la percezione visuale storico-artistica dei concetti spaziali e volumetrici del Barocco. (…) Come ho evitato quel genere di  abbellimento tipico  dei libri popolari di paesaggio, così mi sono anche guardato dall’adottare  quello stile ditirambico che seduce in modo ingannevole. (…) Il fotografo torinese Pedrini ha spesso esaudito richieste ambiziose.”[40]

9 – Albert Erich Brinckmann, Chieri – chiesa dei Santi Bernardino e Rocco: la cupola, 1928-1930,

courtesy Fondazione Torino Musei

 

La presenza di questo bravo professionista costituiva ormai una costante nell’apparato documentario dei primi studi sulle architetture barocche piemontesi, sebbene in questo caso contenesse oltre a quelle realizzate in proprio dallo studioso tedesco anche fotografie di autori diversi (e non dichiarati) quali Alinari, Dall’Armi[41] e Guido Cometto, risultando quindi più eterogeneo di quanto non ci si potesse attendere leggendo la prefazione. Così fotografie di impostazione più convenzionale e descrittiva[42] si alternano ad altre, dovute allo studioso,  nelle quali è ben riconoscibile l’adesione di Brinckmann ai dettami della “nuova visione” modernista, specialmente evidente nelle riprese scorciate del sistema voltato di San Bernardino a Chieri (fig. 9), poi reimpaginato editorialmente con un ardito taglio verticale rispetto all’originaria ripresa in formato quadrato[43]; in quelle di Santa Chiara a Bra o della torinese chiesa del Carmine ma anche in alcune riprese zenitali delle cupole di San Lorenzo a Torino, poi non utilizzate per la pubblicazione[44]. Scelte che influenzeranno non poco le successive riprese di un professionista locale come Paolo Beccaria, che adotterà un’esplicita composizione in diagonale per restituire la Scala delle Forbici di Palazzo Reale a Torino, verso il 1936 (fig. 10); uno scatto che va collocato nel novero della campagna fotografica commissionata da Vittorio Viale in preparazione della prima grande mostra del 1937 dedicata al barocco piemontese[45], purtroppo povera di fotografie del patrimonio architettonico, che pure “rappresentava il cuore concettuale della mostra”[46]. Non si può escludere che tale condizione dipendesse dalla  buona documentazione già disponibile nell’archivio fotografico dei Musei Civici, da poco istituito per volontà dello stesso Viale, ma resta il fatto che le rare  riprese architettoniche risultarono piuttosto convenzionali, con la sola, notevole eccezione di quella appena citata.

 

10 – Paolo Beccaria, Torino – Palazzo Reale: Scala delle forbici, 1935 ca.

 

Suggestioni di visione modernista si ritrovano anche nelle coeve riprese torinesi di Mario Gabinio, quasi un’indagine tipologica che lo faceva ritornare più volte sullo stesso soggetto, chiese e palazzi barocchi, porte e portali[47], alla ricerca dell’illuminazione più efficace, della scena più vuota, deserta. Qui oltre al taglio dell’inquadratura grande attenzione era data ai valori luminosi dello spazio rappresentato, sovente ripreso in condizione di luce particolari, con ombre dense dalle quali emergono gli elementi strutturali, le sculture che a volte li animano e le decorazioni plastiche, come nelle  riprese dello scalone di Palazzo Graneri[48]; segni che si aggiungono a segni, sottolineature ed elisioni. Un momento di consapevolezza profonda, di riflessione sui fondamenti del linguaggio fotografico che richiama quelle di Gio Ponti comprese nel suo Discorso sull’arte fotografica, pubblicato su “Domus” nel maggio del 1932, nel quale riconosceva alla fotografia “una vista indipendente, astratta, disumana. (…) Quali e quante cose oggi ci appaiono, quindi sono, soltanto attraverso l’immagine fotografica! L’aberrazione fotografica è per molte cose la nostra sola realtà: è per molte cose addirittura la nostra conoscenza, ed è quindi il nostro giudizio. Enorme importanza della fotografia”[49]. Diverse intenzioni e modalità connotavano invece  altre sue riprese, come quella fortemente scorciata dell’invaso della cupola della Sindone (fig. 11), realizzata intorno al 1928[50]: qui riconosciamo l’intenzione di  definire un valore autonomo dell’immagine,  immediatamente debitrice delle suggestioni della “nuova visione”, tra costruttivismo e Bauhaus – note in Italia specialmente per la mediazione di Antonio Boggeri e delle riviste di architettura – che imponevano “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari”[51].

 

11 – Mario Gabinio, Torino – Duomo: cappella della SS. Sindone, 1928 ca.

 

 

Nel 1941 l’architetto Mario Passanti, già allievo e collaboratore di Giovanni Chevalley,  pubblicava sulla rivista “Torino” un saggio dedicato alla Real cappella della S. Sindone in Torino, corredato da un’interessante serie di fotografie di Riccardo Moncalvo (fig. 12) nella quale si riconoscono sia la cultura modernista del fotografo, che negli anni precedenti aveva già fornito prove interessanti misurandosi con alcune architetture contemporanee, sia l’adesione alle accorte indicazioni di regia dell’architetto, ben riconoscibili nel confronto tra restituzione grafica e fotografica di alcuni elementi quali il tamburo, o nell’insistere sui dettagli dell’articolazione degli archi, alle quali si aggiungevano inedite (e ancora dopo inconsuete) riprese scorciate dall’alto.

12 – Mario Passanti, Riccardo Moncalvo [fotografie], Real cappella della S. Sindone, in: Passanti 1941,  pp. 6-7

 

 

Negli anni della seconda Guerra Mondiale la sola documentazione disponibile relativa a queste architetture è quella conservata negli archivi fotografici dell’Ufficio Protezione Antiaerea –  UPA,  dei Vigili del Fuoco e delle testate giornalistiche locali[52]. Una  raccolta  e un racconto di ingegnose opere provvisionali e distruzioni. Fu per celebrare il restauro del Palazzo dell’Università di Torino, parzialmente distrutto dai bombardamenti del luglio 1943, che Anna Maria Brizio dedicò a L’architettura barocca in Piemonte la propria prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico il 13 dicembre 1952. In quella occasione  ricordava come la venuta di Guarini e Juvarra  avesse prodotto “Ogni volta (…) correnti nuove di idee e di gusto, e una discendenza di seguaci, che riprendendo spunti del loro stile l’andavano interpretando e modificando secondo il proprio ingegno personale e i gusti e le tendenze della cultura locale. Far la storia di tali riflessi e reazioni è il capitolo più propriamente piemontese della storia dell’architettura rinascimentale e barocca in Piemonte” [53]. A quella storia apparteneva la monografia dedicata da Nino Carboneri (1954) a Francesco Gallo, ancora con fotografie di Augusto Pedrini, il quale riconfermava la sua consueta controllata libertà, quasi coincidente con l’impegno a evitare ogni ingombrante presenza autoriale. Solo quando era indispensabile inclinava un poco l’apparecchio sull’asse verticale per riprendere il sistema voltato, secondo uno schema applicato senza variazioni, che prevedeva di porsi sotto la cupola per inquadrarne  la metà posteriore raccordata alle volte del presbiterio  e del transetto. Era nel riprendere una cappella laterale dei Santi Pietro e Paolo a Mondovì Breo (fig. 13) che il fotografo osava di più, memore forse degli insegnamenti di Brinckmann, avvicinandosi alla parete destra per puntare l’obiettivo verso l’alto e comprimere così all’interno dell’inquadratura la vela e il catino absidale, mentre nella chiesa dell’Annunziata a Busca (ivi, t.51) forzava lo scorcio per descrivere la relazione plastica tra cupola e volte, come nella chiesa della SS. Trinità a Fossano (ivi, t.66).

 

13 – Augusto Pedrini, Mondovì Breo, chiesa dei Santi Pietro e Paolo, volta di una cappella laterale, 1953, in: Carboneri 1954,  t.30

 

 

In quegli anni la vera novità in termini di lettura critica sub specie fotografica fu però rappresentata dalle fotografie realizzate da Paolo Portoghesi per il proprio volume dedicato a Guarino Guarini[54], nel quale leggeva magistralmente le ardite soluzioni strutturali della chiesa di San Lorenzo (t. 14) e contemporaneamente restituiva con evidenza plastica il confronto con l’architettura juvarriana, scegliendo di riprendere l’esterno della cupola con una inquadratura chiusa a destra dalle modanature  del basamento di Palazzo Madama (fig. 14), sovvertendo così una consuetudine rappresentativa che almeno da Giancarlo dall’Armi in poi (1920 ca) prevedeva di riprendere l’esterno dell’edificio collocandosi nel fornice dell’arcata occidentale del portico del Palazzo delle Regie Segreterie di Stato.

 

14 -Paolo Portoghesi, Torino – chiesa di San Lorenzo: esterno, 1955 ca, in: Portoghesi 1956, t. 11

 

Nella seconda grande mostra che Vittorio Viale[55] dedicò al barocco piemontese[56], nel 1963, fu “il medium espositivo della fotografia a offrire la più seducente chiave di accostamento all’architettura e ad aprire la strada a una visione collettiva dell’esperienza piemontese. A differenza degli altri ambiti della mostra, in più stretta relazione con l’arte di corte,  l’architettura si offriva naturalmente anche alla scala della città e del territorio.”[57] Più di mille riprese (trecento delle quali in mostra nella sezione al piano nobile di Palazzo Madama, stampate in grande formato da Vittore De Regibus),  vennero realizzate per l’occasione da Pedrini percorrendo  con Nino Carboneri, curatore della sezione,  “l’intero Piemonte per visitare, studiare e far fotografare il più gran numero possibile di monumenti barocchi”, ma ricorrendo anche al proprio consolidato repertorio antecedente[58]. Anche in quell’occasione si confermava quella misurata impostazione che aveva caratterizzato l’operato ormai quarantennale di questo fotografo, che preferiva assimilare l’immagine al piano  della percezione, senza forzature nella scelta dell’ottica, o del punto di vista. Solo nel confronto con le opere di Vittone si trovava costretto ad osare di più, come nella bella invenzione per le volte di San Luigi a Corteranzo ( ivi, t.138a), nelle quali è più evidente l’adesione alle richieste di Viale che gli aveva raccomandato di “effettuare le riprese dalle stesse angolazioni che aveva proposto Brinckmann”[59], mostrando di comprendere bene come dovesse essere l’architettura a indirizzare la ripresa, a suggerirne i  modi.

Oltre agli autori[60] impegnati tra il 1958 e il 1964 nella realizzazione delle monografie curate da Marziano Bernardi per la “Biblioteca d’Arte” dell’Istituto bancario San Paolo di Torino, che introducevano la novità dei “fotocolori eseguiti in luogo”, altri furono in quegli anni i fotografi, come Aldo Moisio,  che si misurarono con edifici barocchi su commissione dell’allora Soprintendenza ai Monumenti, realizzando riprese tecnicamente ineccepibili ma con impostazioni canoniche, di buon impianto ottocentesco. Più aggiornata appariva la serie di fotografie degli interni della chiesa di San Lorenzo realizzate da Mario Serra per un saggio di Giuseppe Michele Crepaldi (1963), soffermandosi sapientemente sulla lettura degli aspetti strutturali (come già Portoghesi) e sul dialogo tra le due cupole dell’aula e del presbiterio (fig. 15), che la ripresa zenitale centrata sull’arco assimilava in termini di forma e dimensioni, restituendo così un’immagine tanto falsata quanto comunemente accettata di questi volumi architettonici; una soluzione già adottata da Gabinio intorno al 1930 e successivamente riproposta con minime varianti da autori diversi –  da Daniele Regis a Pino dell’Aquila[61] – e che per certi versi conferma le riserve espresse da alcuni esponenti della cultura architettonica novecentesca a proposito della capacità di restituzione proprie della fotografia.

 

15 – Mario Serra, Torino – chiesa di San Lorenzo:  cupole del

     presbiterio e dell’aula, 1963 ante,  in: Crepaldi 1963, t. 9.

 

“Risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, ha scritto Bruno Zevi in un passo famoso datato 1948, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale. Le vedute fotografiche rendono bene l’effetto della scatola muraria (…) Ma se il carattere precipuo dell’architettura è lo spazio interno e se il suo valore deriva dal vivere successivamente tutti i suoi stadi spaziali, è evidente che né una né cento fotografie potranno esaurire la rappresentazione di un edificio, e ciò per le stesse ragioni per cui né una né cento prospettive disegnate potrebbero farlo”[62]. Pur partendo da presupposti diversi giungeva a conclusioni non dissimili anche Eugenio Battisti, che nella sua fascinosa lettura iconologica della Cappella della Sindone notava quanto la sua costruzione fosse “tanto basata su questi sottili rapporti psicologici che nessuna fotografia riesce mai a suggerirne il clima luminoso. Sprofondando nel buio, il fedele è salito alla massima luce; ma in questa luce l’ombra resta compresente e minacciosa. (…) Il nero dei marmi insistentemente ripresentato in sagome nervose, crea un efficace contrappunto di raggi del sole, che risultano spezzati a raggiera. (…) Questa è la ragione per cui nelle fotografie, dove la muratura diventa grigia e si evitano le zone di luce, l’edificio non solo risulta appiattito ma privo di dinamismo.”[63]

Certo sulla scia del grande successo della mostra di due anni prima, nel 1965 comparve nella collana dell’Automobile Club Italiano, Torino Barocca con fotografie di Aldo Ballo tecnicamente ineccepibili ma prive di elementi innovativi,  ma il frutto più rilevante di quella stagione  fu il volume di Andreina Griseri intitolato alle Metamorfosi del barocco (1967), che per quanto riguarda le architetture piemontesi si avvaleva di un apparato fotografico che diremmo di produzione eccentrica, nel quale trovavano scarsa rappresentanza i più noti professionisti locali, che certo non diedero in quell’occasione gran prova di sé[64], mentre ampio spazio era riservato a un piccolo gruppo di compagni di strada di generazioni diverse, a loro volta in parte legati da relazioni anche personali come Mario Passanti (ma in realtà alcune fotografie erano di Riccardo Moncalvo[65]), Roberto Gabetti ed Emilio Giay[66], ma soprattutto  Giorgio Avigdor, a sua volta  allievo di Carlo Mollino e collaboratore di Gabetti,  all’epoca semmai noto per le sue fotografie di moda, a cui venne affidata la maggior parte della documentazione architettonica piemontese, riservandogli l’onore dell’immagine di copertina: l’erma dello scalone di Palazzo Madama, forse il più persistente ‘luogo comune’ della storia di questo particolare genere di fotografia (figg. 16-19). Specie nelle foto di Avigdor è evidente la regia di una storica dell’arte come Griseri, che privilegiava l’analisi di dettaglio del particolare decorativo piuttosto che le articolazioni spaziali degli edifici considerati, che erano invece il fulcro dell’attenzione delle fotografie degli architetti, che mostravano però un tono generale di rapidi appunti visivi: pensate più per riflettere che per comunicare.

 

 

Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud.

 

16 – Giancarlo dall’Armi, 1915 ante

17 –  Augusto  Pedrini, 1925-1926,  in: Brinckmann 1931 t. 271

18 – Paolo Beccaria, 1930 ca, in: Viale 1963, t. 97

19 – Giorgio Avigdor, in: Griseri 1967

 

Le iniziative espositive ed editoriali degli anni Sessanta favorirono certo la divulgazione del tema, ripreso nel decennio successivo in occasione di alcune campagne fotografiche commissionate dal Touring Club Italiano, tra i cui esiti più singolari ricordiamo la serie di riprese dello scalone di Palazzo Madama realizzate da Gianni Berengo Gardin nel 1973[67] nelle quali l’autore si provava a scardinarne le consuete modalità di lettura adottando un’inquadratura orizzontale ma conservando il consueto punto di vista dal pianerottolo intermedio. Già fatto proprio da Dall’Armi nella sua vista generale da sud dello scalone di Palazzo Madama (n. 488), esso si inseriva in una linea iconografica di lunga durata: la sua determinazione, che  risaliva  a un primo schizzo di Filippo Juvarra[68], venne   successivamente adottata  in un disegno a penna e inchiostro acquerellato di Giovanni Migliara, 1834 ca.,  e confermata ancora da Carlo Bossoli[69]  circa vent’anni più tardi, introducendo una strabiliante dilatazione dello spazio, assimilabile solo alle più recenti immagini digitali ottenute con obiettivi grandangolari a correzione prospettica.  Un punto di vista che sarebbe divenuto canonico, riproposto con minime varianti da Augusto Pedrini nel 1925-1926[70]  e confermato solo pochi anni più tardi da Paolo Beccaria[71], così che le diverse riprese si  distinguono tra loro solo per la diversa apertura angolare e per il relativo decentramento rispetto all’asse costituito dalla balaustra con l’erma, restituendo ogni volta in modi sottilmente distinti le relazioni spaziali tra piani orizzontali e rampe (figg. 16-19). Alla committenza del TCI vanno riferite anche le riprese un poco più tarde di Toni Nicolini (1978), che a San Lorenzo interpretava alcuni elementi strutturali come le colonne delle cappelle radiali sino a trasformarle in minacciose presenze espressioniste che quasi cancellano lo spazio architettonico, e le due serie  che Roberto Schezen dedicava all’invaso delle cupole della Sindone e di San Lorenzo, forzando le prospettive scorciate dal basso, per la prima, e facendo emergere suggestioni zoomorfe e quasi apotropaiche per l’altra, riproponendo (crediamo inconsapevolmente) la formula adottata per la copertina di Brayda et al., 1963.

 

Vedere barocco

 

Fu Carlo Bertelli (1984) a riconoscere esplicitamente, a certificare quasi, la possibilità di intendere La fotografia come critica visiva dell’architettura in un importante scritto pubblicato su “Rassegna” nel numero curato da Gabriele Basilico.  Da storico dell’arte da sempre attento alla storia e alle pratiche delle fotografia, Bertelli riconosceva l’autonomia interpretativa (e non descrittiva) di  “questa razionalità nuova che scompone l’unità apparente [e] riconduce ogni elemento allo stesso grado di leggibilità [che]  costituisce un discorso a sé. Se la fotografia d’insieme è una metafora (associativa e simultanea, astorica) del monumento reale, l’insieme dei dettagli ne costituisce una metonimia (sintagmatica e sequenziale, storica) (…) la nostra consapevolezza del rapporto di tempo fra la presa fotografica e la realtà ci costringe ad ammettere una circolazione all’interno dell’edificio”[72]. Di più: “É impossibile cogliere un’architettura nella sua complessità in un colpo solo. L’architettura è fatta di dettagli, frammenti, invenzioni. E l’idea che ne è all’origine può essere colta in un frammento, in un dettaglio”[73].

Quella consapevolezza, quelle modalità di lettura avevano già da tempo trovato una loro misura, una loro efficacia ermeneutica nelle magistrali interpretazioni fotografiche offerte da Paolo Portoghesi a partire dalla monografia dedicata a Vittone (Portoghesi 1966; fig. 20), proseguendo nella propria personale verifica delle possibilità critiche della fotografia avviata esattamente dieci anni prima con il volume dedicato a Guarini[74], redatto quando era ancora studente.  “L’importanza che le immagini fotografiche possono avere  per lo studio del linguaggio architettonico  – affermava  lo studioso nella Nota alle illustrazioni che apre l’Introduzione visiva a Vittone – sia dal punto di vista documentario che dal punto di vista critico, ci ha spinto a creare un archivio di circa cinquemila negativi, riguardanti le opere di Bernardo Vittone, solo parzialmente utilizzati in questa monografia. Nel raccogliere il materiale si è fatto uso di tutti i mezzi tecnici più progrediti, riprendendo gli stessi soggetti con una gamma di obiettivi che fornisce angoli visuali dai 15° ai 180°. Il valore che Vittone dà alle cupole come elemento risolutivo dell’organismo ha reso necessario offrire insieme a immagini parziali riprese con l’asse dell’obiettivo orizzontale, immagini ad asse verticale che coprono il campo visivo dell’osservatore quando rivolge lo sguardo verso l’alto.  Le proporzioni degli spazi interni molto sviluppati in altezza hanno consigliato inoltre l’uso di obiettivi grandangolari. In particolare le immagini di forma circolare riprese coll’obiettivo Nikkor fish-eye (180°) riassumendo in un solo fotogramma l’intero organismo, come una planimetria ma con informazioni assai più numerose e pertinenti, hanno permesso di condensare in poche pagine una ampia rassegna delle idee architettoniche di Vittone. Queste immagini non corrispondono alla visione dell’occhio umano ma a questa si approssimano per eccesso di informazione, quanto, per difetto, si approssimano ad esse le immagini rilevate da un obiettivo normale.”[75]

Nello stesso anno comparve un altro volume a sua firma, esplicitamente costruito per “determinare nel lettore un rapporto critico attivo”: Roma barocca si presenta come “una sequenza di immagini che aspira anzitutto alla continuità del racconto (…) una sintesi visiva che volta per volta chiarisse un ‘pensiero architettonico’, un contributo al chiarimento dei problemi e allo sviluppo dei temi del barocco.”[76] Le sguardie della bellissima edizione curata da Carlo Bestetti sono illustrate da due riprese con obiettivo fish eye, dove quella dell’invaso di San Carlino vale come  omaggio ‘citazionista’  alla vista zenitale della cupola di Sant’Ivo pubblicata dal Borromini stesso nel suo Opus architectonicum (1725).

 

20 – Paolo Portoghesi, Santuario del Vallinotto;  San Luigi a Corteranzo, in Portoghesi 1966a, tt.11-12.

 

Nella testimonianza di Giorgio Stockel, allora giovane architetto coinvolto nell’impaginazione del volume, “Portoghesi, pur non escludendo l’uso della Linhof Technica per le fotografie d’insieme, scopriva nella SuperWide [Hasselblad] il nuovo strumento con il quale esprimere un nuovo linguaggio (…), vedeva l’architettura barocca come un corpo di donna da indagare, scoprire, accarezzare impudicamente in tutte le sue parti, per rendere visibili anche quelle invisibili: si comportava quasi come il fotografo di moda del film Blowup di Michelangelo Antonioni.”[77] Il confronto con la complessa composizione barocca  produsse un repertorio di immagini di grande qualità e interesse, dovute prevalentemente a Portoghesi e a Eugenio Monti, che ben rispondevano allo scopo di definirne strutturalmente le componenti visive. A ciò si aggiunga un’impaginazione innovativa e molto efficace, concepita per consentire al lettore di “scivolare senza disturbi all’interno delle immagini, libero apparentemente di pensare”[78], che credo debba più di una suggestione ad un libro apparentemente lontano come New York di William Klein, pubblicato nel 1956.  Anche per il successivo Francecsco Borromini[79] Portoghesi predispose una efficacissima serie di riprese e una coerente impaginazione delle  fotografie allo scopo di analizzare e restituire  l’architettura, intesa “come sistema di comunicazione autonomo” cui applicare schemi grafici di “interpretazione spaziale”. La sequenza risultante era costituita da riprese di dettaglio alternate a vedute fortemente scorciate, zenitali o quasi nadirali, con l’intento di comprendere tutta  la trabeazione  all’interno del fotogramma, di farla essere visualmente e non solo architettonicamente cornice. Immagine e cornice allora, assimilando così la ripresa fotografica alla proiezione planimetrica, ma dichiarando nel contempo l’insopprimibile, esuberante necessità di fagocitare lo spazio, che è uno dei comportamenti compulsivi imposti dalle architetture barocche. Inesauribili, imprendibili, irriducibili alla piramide prospettica, esse inducono a loro volta ad una barocca moltiplicazione delle fughe, degli scorci, delle deformazioni proiettive conseguenti.  Col pretesto di identificare e quasi inventariare il sistema di segni con cui si costruisce il linguaggio architettonico, queste immagini riescono a trattenere e trasmettere l’eccitazione indotta nell’occhio dell’osservatore, a testimoniare un’esperienza quindi. Qui il divario dai canoni descrittivi antecedenti è enorme, incommensurabile anzi. Segna tutta la distanza tra l’intenzione documentaria di tradizione ottocentesca, cui prevalentemente si assoggettavano gli operatori professionali, e la feconda interpretazione critica richiesta e qui concessa allo studioso che si fa fotografo, come accadeva anche negli studi di poco successivi di Christian Norberg-Schulz[80], autore di numerose delle fotografie lì pubblicate e già presente con proprie immagini in altri volumi di Portoghesi, come  lui impegnato  nella doppia  traduzione delle architetture in  parole e immagini.

Qui si direbbe che fosse l’interpretazione architettonica a provocare la fotografia,  a sollecitare e imporre una risposta non convenzionale; una ripresa ‘barocca’  dove i modi della restituzione aderivano all’oggetto fotografato. Immagini come strumenti e veicoli di conoscenza, consapevoli della necessità di “trovare nelle rappresentazioni stesse la misura e il criterio della loro verità (…); le rappresentazioni sono perciò non imitazioni ma organi della realtà, nel senso che soltanto attraverso esse qualcosa diviene un oggetto da noi compreso e per noi reale”[81]. È per questo  che “una fotografia Alinari  – come sosteneva Rudolf  Wittkower –  è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani” [82].  È per le stesse ragioni che “una costruzione neoclassica non potrà mai essere fotografata come una costruzione barocca – come riconobbe Luigi Ghirri –  perché l’una e l’altra prevedono un certo tipo di visione, frontale od obliqua”[83].   Il problema che si pone è allora quello di individuare soluzioni narrative adeguate, adatte alla restituzione di spazi dinamici come quelli barocchi,  provandosi a realizzare quella apparente contraddizione in termini che possiamo chiamare ‘fotografia barocca’, nella quale temi e modi della rappre­sentazione aderiscono tra loro in un continuo dialogo e sfida; dove la regolarità ottico-geometrica del sistema prospettico rivela a sua volta la propria natura di prodotto cultu­rale, passibile di esplorazioni individual­mente differenti ma sempre legittime e culturalmente moti­vate, vive. Solo apparentemente bizzarre,  momentaneamente irriconoscibili e incommensurabili rispetto al nostro consolidato modo di vedere, quasi fossero prodotti di un’ottica non geometrica. Però – lo ricordava Ernst Gombrich – “dal punto di vista geometrico, una fotografia in grandangolo non è né più né meno corretta di una ripresa con un obiettivo a fuoco normale. La differenza è una differenza psicologica”[84]. Adattando al nostro dire un’antica notazione di Manfredo Tafuri potremmo allora parlare di “innaturalità” fotografica a proposito di queste riprese che – pur obbedendo alle stesse leggi – non rincorrono il canone della verosimiglianza: “Il problema è sempre quello di negare ogni oggettività alla categoria dello spazio (…) anche lo spazio è (…) ‘relativo’: relativo, più precisamente, a un’esperienza soggettiva di rielaborazione”[85]. Precisazione ricca di conseguenze quando l’intento di restituzione critica muove dalla mimesi fenomenologica dell’effetto percettivo verso il riconoscimento delle potenzialità tecnologiche di trascrizione critica proprie del mezzo (qui tutt’altro che inconsapevoli), in una riflessione ampia sulle possibilità e le implicazioni metodologiche pertinenti allo specifico fotografico che apparteneva in quegli anni anche a Paolo Monti, impegnato in un serrato confronto col patrimonio architettonico e urbanistico italiano, seppure con  accenti diversi:  “Per quanto mi concerne – dichiarava in un’intervista ad Angelo Schwarz del 1978 – io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[86].

A questo ventaglio ampio di pratiche di ermeneutica visuale, ma con una intenzionalità più propriamente fotografica, vanno accostate altre serie di lavori  di diversa ampiezza condotte nei decenni successivi, quali le fotografie realizzate da Mimmo Jodice nel 1999 nel corso di una campagna fotografica commissionata dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte,  quelle del progetto condotto  da Giorgio Jano  tra 1983 e 2006[87], che nelle prime fasi vide la collaborazione di Domenico Prola e di Enrico Peyrot e le successive riprese realizzate da Pino dell’Aquila a corredo di una serie di volumi curati da Giuseppe Dardanello.

Le fotografie di Jodice pubblicate in quella occasione, per la gran parte dedicate ad interni museali, avevano il preciso scopo di “mettere le cose di traverso rispetto alla logica del vedere”[88] ovvero – come notava Giovanni Romano – di spiare la realtà circostante “con attenzione allertata”, rivelando “indizi equivoci che cadono a grappoli nel fuoco del mirino, anzi precipitano con un effetto di risucchio”, come già accadeva in precedenti lavori dell’autore napoletano quali Mediterraneo (1995) ed Eden (1998).

Commentando la  ricognizione delle Architetture barocche in Piemonte realizzata da Giorgio Jano, Henry Millon (2002) riconobbe invece che quelle “immagini affascinanti (…) hanno aggiunto un nuovo aspetto alla nostra metodologia analitica.” Accanto al desiderio di comprendere e rendere omaggio alle “soluzioni formali, plastiche e spaziali di grande e libera fantasia (…)  delle decine di chiese barocche sparse nei piccoli centri della provincia piemontese”[89], si poneva infatti, forte e via via preponderante, l’intenzione di verificare i limiti tecnologici e critici del mezzo e del metodo fotografico, affrontando “un grande sforzo tecnico e culturale [che ha] imposto la sperimentazione prima e l’adozione poi di una grande varietà di materiali, attrezzature e procedure inedite o insolite, attinte (…) dal ricchissimo, diversificato e desueto patrimonio tecnico che la fotografia ha, lungo la sua relativamente breve storia, accumulato”[90]. Ne risultò una prima serie di  immagini che “piuttosto che obiettive sarebbe meglio dirle totalizzanti (…) perché hanno una carica esplorativa dirompente. (…) Non restituiscono una percezione, la suscitano. E non rispondono alla scoperta sequenziale degli spazi interni, perché sono fatte per il sincronico. Producono insiemi mai visti, ‘impossibili’”[91].   A considerarle ora si comprende meglio come nello sviluppo di quella ricerca abbia assunto sempre maggiore rilievo l’intenzione di sondare i limiti dell’apparato, con un agire che richiama la figura di quello che Vilém Flusser ha identificato come perfetto fotografo: colui che “se guarda il mondo attraverso la macchina fotografica, non lo fa perché è interessato al mondo, ma perché è alla ricerca di virtualità del programma non ancora scoperte, che lo rendono capace di produrre nuove informazioni”[92]. Per questa sola ma determinante ragione da quell’indagine fotografica è esclusa ogni relazione non solo con l’intorno ma anche con l’attuale, col tempo quindi.

 

21 – Giorgio Jano, Chierichiesa dei Santi Bernardino e Rocco: interno, 2006.

 

A Jano non  interessa il vissuto, non la materia né il suo mutare o resistere al trascorrere tempo. Quasi non interessa neppure quello della ripresa: non quella luce di quel particolare momento del giorno, dell’anno; solo quella necessaria a rivelare le architetture per riportarle sulla superficie sensibile della pellicola. Nonostante le immagini appaiano così inconsuete, l’intenzione esplicita del fotografo non è quella di destare meraviglia né di restituire una qualche esperienza personale, ma di mostrare gli esiti dell’applicazione sistematica di un metodo che prevede l’adozione di un ventaglio ristretto di soluzioni, per quanto arrischiate.  Le sue riprese sono l’esito di un posizionamento tutto ottico geometrico; il risultato reiterato e reiterabile di una applicazione che esclude la soggettività della composizione a favore della sistematicità del ‘rilevamento’.  Il ricorso ad apparecchi di grande formato ed ottiche con  amplissime aperture angolari ha una prima conseguenza fondamentale: nessuna confusione tra visione e immagine, tra sguardo e fotografia. Osservando le riprese di Jano non possiamo mai, neppure per un momento fingere di credere che è ‘come se’ fossimo in presenza delle architetture che ne costituiscono il soggetto. La loro analogia con la cosa risiede nella loro natura di traccia, non con la nostra plausibile esperienza di quell’edificio. Basti pensare a come di fronte a uno spazio tridimensionale, per quanto semplice, il nostro agire non possa che essere una ricognizione, richieda un movimento, implichi una durata. Siamo dentro lo spazio, e invece davanti alla fotografia.  Queste restituzioni anamorfiche rappresentano un dato di grande fascinazione visiva che rischia forse di alterare alcuni aspetti identificativi del singolo edificio (fig. 21) ma  fa emergere con chiarezza esemplare  le   relazioni sintattiche tra i diversi elementi strutturali e architettonici, senza rinunciare a quella coerenza di dettaglio nella resa della materia e della sua risposta alla luce che nessun disegno potrà mai restituire con la stessa ambigua ricchezza. Qui l’immagine fotografica si approssima all’astrazione grafica, proiettiva, conservando però intatto il proprio carico di referenzialità. Ancor più complesse le questioni poste dalle riprese panoramiche realizzate con fotocamera rotante motorizzata per il formato 12.5x25cm dotata di obbiettivo Schneider Super-Angulon XL 47 mm: queste fotografie più che mai intrattabili, impossibili a cogliersi in un solo sguardo, mostrano più che sensibili differenze di esito e di efficacia a seconda dell’andamento dei volumi a cui si applicano. Le forme concave vengono restituite con effetto straniante, dovuto allo sviluppo imposto alla forma dell’invaso, mentre mostrano tutte le loro potenzialità quando l’apparecchio è collocato in corrispondenza di snodi significativi dell’organismo architettonico o di spazi solitamente percepibili solo sequenzialmente,  poiché eliminano ogni soluzione di continuità, com’è per il  bellissimo effetto di flusso generato dallo scalone guariniano di Palazzo Carignano[93].  Fotografia  come  reinvenzione dell’architettura.

Nella solida consuetudine con la lettura e la restituzione fotografica del patrimonio artistico e architettonico italiano i lavori che Pino dell’Aquila ha dedicato alle architetture barocche piemontesi non si propongono tanto di sondare i limiti della strumentazione fotografica quanto di sfruttarne appieno le potenzialità per la realizzazione di un progetto che è propriamente conoscitivo, che – per questa ragione – conserva un’aderenza forte, diremmo una fedeltà al soggetto fotografato che non viene mai meno neppure nell’uso delle ottiche grandangolari, sempre funzionali all’interpretazione architettonica, non alla verifica dell’apparato come invece accade in Jano.  In questa intenzionalità conoscitiva vanno compresi anche il ricorso all’uso del colore e la consuetudine di ritornare più volte, anche a breve distanza di tempo, a confrontarsi con lo stesso soggetto, di precisarne la restituzione fotografica adottando un diverso (e magari di poco) punto di vista, ricorrendo a ottiche di differenti caratteristiche e soprattutto con una consapevolezza critica inevitabilmente accresciuta, mediata ed esplicitata dalle precedenti riprese.

Non possiamo escludere che queste radicali differenze dipendano anche dalla formazione dei due autori: laureato in matematica il primo, e particolarmente attratto dai problemi di geometria proiettiva,  in architettura il secondo, orientato alla comprensione e alla restituzione critica del costruito, sebbene poi entrambi pongano in atto strategie e strumenti di ripresa destinati – seppure in modi diversi – a dilatare la restituzione (più  percettiva che fotografica) di questi volumi interni.  Dell’Aquila si confronta con le architetture piemontesi sei-settecentesche a partire almeno dalla metà degli anni Novanta del Novecento[94], ma in modo più sistematico ed esplicitamente interpretativo a partire dai primi anni 2000, ricorrendo nella restituzione dei sistemi voltati alle riprese zenitali (centrate o eccentriche quando le cupole sono multiple, come in San Lorenzo a Torino) che costituiscono ormai quasi un canone virtuosistico e sempre molto efficace.  A volte invece si consente di giocare d’effetto, come nella ripresa del salone di Stupinigi dove la coincidenza dell’asse di ripresa col grande lampadario settecentesco evoca quasi una visione caleidoscopica; nell’accentuazione delle suggestioni zoomorfe dei costoloni della volta di San Lorenzo, o ancora sottolineando gli elementi geometrizzanti, come accade per lo scalone di Palazzo Graneri (2001).  Come ha sottolineato Giovanni Romano, “per surrogare le reticenze di Bellotto abbiamo fatto ricorso a un altro sguardo d’eccezione, competente e sensibile, quello del fotografo Pino dell’Aquila, che va considerato, nella sua specialità professionale, un autentico critico della grande architettura torinese. Il confronto con le indagini di Dardanello rivela una leggera sfasatura di visione che rende ancor più stimolante la lettura del volume: lo storico descrive animatamente l’esperienza personale di chi si avventura negli spazi architettonici torinesi seguendo i percorsi di invito proposti dagli architetti, cadendo volutamente in tutte le trappole predisposte; il fotografo forza all’estremo il punto di vista, l’ampiezza del campo visivo, la profondità di penetrazione ed estrae dagli ambienti accortamente spiati quell’ultimo resto di follia, ancora non interamente bruciato, che risale alle origini scenografiche di tante invenzioni architettoniche. I due modi di far critica convergono sulla stessa verità, soprattutto quando si tratta di Juvarra, e non si poteva desiderare conferma migliore sull’esattezza dei giudizi” [95].   Proprio nella restituzione fotografica dello scalone juvarriano di Palazzo Madama la serie di riprese ipergrandangolari si sviluppa adottando punti di vista corrispondenti alle articolazioni spaziali (l’atrio, il pianerottolo intermedio), restituendo così in progressione la percezione dei volumi architettonici ai diversi livelli, dilatandoli in senso sia verticale che orizzontale.  Altre interessanti applicazioni di queste ottiche si riscontrano nelle fotografie di Palazzo Carignano (1999-2006) sia per quanto riguarda gli esterni, con una forte accentuazione delle sinuosità della facciata guariniana, sia nella restituzione di una rampa dello scalone in cui l’ampio angolo di campo consente di mostrare le relazioni spaziali con l’atrio senza eccedere in improprie deformazioni prospettiche e solo sacrificando in parte la resa corretta dell’inclinazione e della curvatura.

Con l’avvento del digitale il confronto con gli spazi barocchi muta procedure e strumenti, passando dall’utilizzo analogico di ottiche supergrandangolari e obiettivi decentrabili all’elaborazione digitale di sequenze spaziali di immagini (fig. 22), assemblate in post produzione (stitching) utilizzando algoritmi proiettivi che consentono di restituire in modo percettivamente unitario e ‘corretto’ spazi e volumi non riducibili ai limiti di una singola inquadratura.

 

22 – Pino dell’Aquila, Torino – Palazzo Madama: atrio e scalone visti da sud, 2010

 

Com’è evidente, si tratta di  fotomontaggi che nulla hanno a che vedere con la tradizione modernista né con alcuna poetica dello straniamento, ma tendono anzi a restituire uno spazio percettivo, escludendo ogni deformazione ottico geometrica come ogni contrasto espressionistico (o di vincolo tecnologico derivante dalla latitudine di posa delle emulsioni) nei rapporti luce/ ombra. Potendo realizzare più riprese, ciascuna perfettamente corrispondente alle condizioni della porzione fotografata, poi assemblate digitalmente,  nell’immagine finale tutto è perfettamente equilibrato in termini di restituzione prospettica e di luminosità, applicando un procedimento concettualmente analogo a quello adottato nel 1851 da Édouard Baldus per restituire convenientemente la galleria settentrionale del chiostro di Saint-Trophime ad Arles, quando ricorse al montaggio di una serie di dieci negativi di carta, ciascuno correttamente esposto per una specifica porzione del soggetto[96].

Immagini fatte di immagini; fotografie fatte di fotografie. Una manipolazione produttiva (e lo dimostra bene l’esempio di Baldus)   ben presente da sempre anche nelle pratiche fotografiche che siamo soliti collocare nella solida tradizione documentaria della rappresentazione ‘oggettiva’ della realtà. Penso non tanto e non solo agli accostamenti multipli necessari  per formare panorami e fotopiani,  ma alla consuetudine di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle prime riprese ottocentesche facendo ricorso a una specifica collezione di negativi di nuvole  o alle silhouette sapientemente poste in secondo piano da un autore di riconosciuta maestria descrittiva come Vittorio Sella. Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso però. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà. È quanto ritroviamo anche in questi assemblaggi digitali,  in queste fotografie ‘frattali’, ciascuna formata da un numero  teoricamente infinito di riprese[97], dove  il quadro generale risultante potrebbe continuare ad essere nutrito di immagini a scala sempre più grande, ciascuna a sua volta pensata e realizzata per fornire un massimo di informazione;  perfettamente congiunte in un insieme ‘realistico’ e massimamente virtuale che pretende modalità di osservazione e lettura diverse dal consueto; che consente e quasi impone un’esplorazione in profondità, oltre l’apparenza della superficie, mostrando tutta l’inattualità, l’inadeguatezza della loro restituzione statica su supporto cartaceo: pagina di libro o foglio stampato che sia. Sono immagini fatte per l’interattività dello schermo: un cannocchiale non più metaforico che può offrirci una “inaspettata immagine dell’obietto rappresentato” [98].

 

 

Bibliografia

Sara Abram, La Mostra del Barocco piemontese del 1937, in Di Macco, Dardanello, 2019, pp. 4-33.

Accademia nazionale di San Luca, Studi sul Borromini, atti del convegno, Roma, 1967. Roma: De Luca, 1970-1972.

Gennaro  Acquaviva, Daniela  Palazzoli, a cura di, Pietro Barbieri: La Provincia di Terra d’Otranto [1889]. Milano: Electa, 1991.

Alinari,  Liguria, Piemonte, Lombardia, Alpi Marittime e Canton Ticino. Riproduzioni Fotografiche.  Firenze: Alinari,  1913.

Antonio Arcari, Paolo Monti tra realtà e astrazione, in: Paolo Monti, “I Grandi Fotografi”, n. 39. Milano:  Gruppo Editoriale Fabbri, 1983, pp. 4-10.

Giulio Carlo Argan,  Recensione di A.E. Brinckmann,  Theatrum Novum Pedemontii,  “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, 1 (1932), pp. 233-236 , ora in Id., Studi e note: dal Bramante al Canova.  Roma: Mario Bulzoni editore, 1970, pp. 307-323.

Giulio Carlo Argan, Per una storia dell’architettura piemontese, “L’Arte”, 5 (1933), pp. 391-397.

Giulio Carlo Argan, L’architettura barocca in Italia. Milano: Garzanti, 1957.

Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra, a cura di, Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977). Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977.

Andrea  Bacchi, Liliana Barroero, a cura di, La riscoperta del Seicento: i libri fondativi, Fondazione 1563 Quaderni di ricerca”, 1. Genova: Sagep, 2017.

Aldo Ballo, Torino barocca, a cura di Lorenzo Camusso e Riccardo Mezzanotte. Roma: LEA, 1965.

Eugenio (Nino) Barbantini, a cura di, Il Settecento italiano, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo delle Esposizioni, 18 luglio – 10 ottobre 1929). Venezia: Premiate Officine Grafiche Carlo Ferrari, 1929.

Teresa Barnett,  Partnership and Discovery: Margot and Rudolf Wittkower, Margot Wittkower interviewed by T. B., “Art History Oral Documentation Project”. Los Anageles: The J. Paul Getty Trust, 1994; online: https://archive.org/stream/partnershipdisco00witt/partnershipdisco00witt_djvu.txt (10 06 2020).

Geoffrey Batchen, ed., Photography’s Objects, catalogo della mostra (Albuquerque, University of New Mexico Art Museum, 26 agosto – 31 ottobre 1997). Albuquerque : University of New Mexico Art Museum, 1997.

Geoffrey Batchen, Vernacular Photographies, in Id. , Each Wild Idea: Writing, Photography, History. Cambridge, Mass. – London: The MIT Press, 2002.

Geoffrey Batchen, Forget me not: Photography and Remembrance. New York – Amsterdam: Princeton Architectural Press – Van Gogh Museum, 2004.

Eugenio Battisti,  Rinascimento e Barocco. Torino: Einaudi, 1960.

André Bazin, Ontologie de l’image photographique, in : Gaston Diehl‎, sous la direction de, Les Problèmes de la peinture.  Lyon: Confluences, 1945, pp. 405-414,  ora  in  André Bazin, Che cosa è il cinema, Milano:  Garzanti,  1973, pp 3-10.

Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931]. In Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78.

Barbara Bergaglio, a cura di, Torino 1911: fotografie di Gian Carlo Dall’Armi. Torino: Archivio storico della Città di Torino, 2011.

Marziano Bernardi, a cura di, Immagini di Torino barocca. Torino: Edizioni Radio Italiana, 1950.

Marziano Bernardi, a cura di, La Palazzina di Caccia di Stupinigi. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1958.

Marziano Bernardi, a cura di, Il Palazzo Reale di Torino. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1959.

Marziano Bernardi, a cura di, Tre palazzi a Torino. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1963.

Marziano Bernardi, a cura di, Barocco piemontese. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1964.

Carlo Bertelli, La fotografia come critica visiva dell’architettura, “Rassegna”, 20, 1984, pp. 6-13.

Vittorio Besso, Catalogo delle vedute, panorami, ritratti, ecc. Roma: Tipografia Elzeviriana, 1881.

Antonio Boggeri,  Commento, in:  Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1929, pp. 9-16.

Camillo Boggio,  Gli architetti Carlo e Amedeo di Castellamonte e lo sviluppo edilizio di Torino nel secolo XVII ; memoria letta la sera del 25 gennaio 1895,Atti della Società degli ingegneri e degli architetti di Torino”, 29 (1895),  pp. 27-58.

Jorge Luis Borges,  Del rigore della scienza [1935-1954], in Id., L’artefice. Milano: Adelphi, 1999, p.181.

Carlo Brayda, Laura Coli, Dario Sesia, Ingegneri e architetti del Sei e Settecento in Piemonte. Torino:  Comune di Torino – Società degli Ingegneri e Architetti in Torino, 1963; estratto da “Atti e rassegna tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino”, 17 (1963), marzo.

Carlo Bricarelli S.I., recensione di Albert Erich Brinckmann, Baukunst des XVII und XVIII Jahrhunderts in den romanischen Ländern. Berlin – Neubalbesberg : Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion M. B. H., 1919,   “Bollettino  della  Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”,  5 (1921), n. 3-4, luglio – dicembre, pp. 85-90.

Martin Shaw Briggs, Baroque Architecture. London:  T.F. Unwin, 1913.

Albert Erich Brinckmann, Baukunst des 17. und 18. Jahrhunderts in den romanischen Ländern. Berlin- Neubalbesberg : Akademische Verlagsgesellschaft Athenaion M. B. H., 1919.

Albert Erich Brinckmann, Theatrum Novum Pedemonti: Ideen, entwürfe und bauten von Guarini, Juvarra , Vittone. Düsseldorf: L. Schwann, 1931.

Albert Erich Brinckmann, Tre astri nel cielo del Piemonte : Guarini, Juvarra, Vittone,  in:  Atti del X Congresso di Storia dell’architettura (Torino, 8-15 settembre 1957). Roma : Centro di studi per la storia dell’architettura, 1959,  pp. 345-357.

Anna Maria Brizio, L’architettura barocca in Piemonte, in “Annuario per l’anno accademico 1952-53”.Torino: Università degli studi di Torino – Tipografia Artigianelli 1953, pp. 19-32.

Markus Brunetti, Facades: Cathedrals, Churches, Cloisters in Europe. Dresda: self published, 2016.

Jacob Burckhardt,  Der Cicerone: eine anleitung zum genuss der kunstwerke italiens. Basel:  Schweighauserische Verlagsbuchhandlung, 1855 (ed.it. Firenze: Sansoni, 1952).

Arthur Burda, Max Dvořák,  hrsg., Die Entstehung der Barockkunst in Rom: akademische vorlesungen gehalten von Alois Riegl.  Wien: A. Schroll & Co., 1908.

Giulia Calanna, Antonio Muñoz storico dell’arte e collezionista. La fotografia per la ricerca e la didattica. Bologna: Bononia University Press, 2018.

Nino Carboneri,  L’architetto Francesco Gallo, 1672-1750. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 1954.

Catalogo delle fotografie pubblicate dalla ditta Giacomo Brogi fotografo editore.   Italia Settentrionale: pitture, vedute, sculture, ecc. Firenze: Brogi, 1926.

Augusto Cavallari  Murat, Antologia monumentale di Chieri. Torino: Istituto Bancario San Paolo di Torino, 1969.

Pierangelo Cavanna, Lavoro fotografico. la documentazione dell’Abbazia di S.Andrea a Vercelli tra rilievo e illustrazione, “Fotologia: studi di storia della fotografia a cura di Italo Zannier”, n.6, 1986, pp. 34 – 45. 

Pierangelo Cavanna, Paolo Costantini, a cura di, Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 28 novembre 1996-16 febbraio 1997). Torino: Umberto Allemandi,  1996.

Pierangelo Cavanna, Veronica Lisino, a cura di, Dal Vesuvio alle Alpi: Giorgio Sommer: fotografie d’Italia, Svizzera e Tirolo, catalogo della mostra (Napoli, Castel dell’Ovo,  27 marzo-30 aprile 2011). Torino: Museo nazionale della Montagna,  2011.

Pierangelo Cavanna, 1967, In Id., Silvia Paoli, a cura di, Paolo Monti: Fotografie 1935-1982, catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco, 16 dicembre 2016 – 19 marzo 2017). Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2016, pp. 42-67.

Pierangelo Cavanna, L’altra macchina:  un industriale biellese e l’affermazione della fotografia in Italia, catalogo della mostra (Biella, Fondazione Sella, 11 ottobre 2019-2 febbraio 2020). Biella: Fondazione Sella, 2019.

Gianni Celati, Commento su un teatro naturale delle immagini, in Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano Milano: Feltrinelli, 1989, p.n.n.

Giovanni Chevalley, Gli architetti, l’ architettura e la decorazione delle ville piemontesi del XVIII secolo. Contributo alla storia dell’architettura piemontese. Torino: Società Tipografico Editrice Nazionale, 1912.

Giovanni Chevalley, Un avvocato architetto : il conte Benedetto Alfieri : contributo alla storia dell’architettura italiana; lettura tenuta alla Società degli ingegneri ed architetti di Torino la sera del 26 marzo 1915, Atti della Società degli ingegneri e degli architetti in Torino”, 2, 1915  (nuova ed. Torino: Celanza, 1916).

Vera Comoli,  Laura Palmucci, a cura di,  Francesco Gallo 1672-1750. Un architetto ingegnere tra Stato e Provincia. Torino: Celid, 2000.

Joseph Connors, L’«architettura aperta» di Richard Pommer e la geografia culturale della storia dell’arte a New York nell’immediato dopoguerra, in Pommer 2003, pp. XV-XIX.

Paolo Costantini, Luigi Ghirri – Aldo Rossi. Cose che sono solo sé stesse. Montreal – Milano: CCA – Electa, 1996.

Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per una autobiografia. Torino: SEI, 1997.

Giuseppe Michele Crepaldi, La Real chiesa di San Lorenzo in Torino. Torino: Dagnino, 1963.

Benedetto Croce, Il concetto del Barocco, “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 23 (1925), pp. 129-143.

Benedetto Croce, Storia dell’età barocca in Italia : pensiero, poesia e letteratura, vita morale. Bari : Laterza e figli, 1929.

Gian Carlo Dall’Armi, Il Barocco Piemontese. Soggetti Architettonici ricercati e scelti da G.C. Dall’Armi e corredati di notizie storiche, “Illustrazione fotografica d’arte antica in Italia”. Torino:  Dall’Armi, s.d. [1915].

Malcom Daniel, The Photographs of Édouard Baldus. New York – Montreal: The Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994.

Giuseppe Dardanello, a cura di, Sperimentare l’architettura: Guarini, Juvarra, Alfieri, Borra e Vittone ; fotografie di Pino Dell’Aquila.Torino:  Fondazione CRT, 2001.

Giuseppe Dardanello, La Mostra del Barocco Piemontese del 1963, in Di Macco, Dardanello, 2019, pp.34-67.

Giuseppe Dardanello, Susan Klaiber, Henry A. Millon, a cura di, Guarino Guarini ; fotografie delle architetture di Pino Dell’Aquila. Torino:  Umberto Allemandi & C., 2006.

Paul De La Garenne,  Chateau delle Torri a Turin, in: Noël-Marie Paymal Lerebours, sous la direction de,  Excursions daguerriennes : vues et monuments les plus remarquables du globe, II. Paris: Rittner et Goupil,  Lerebours, H. Bossange, 1842, ff. 106-107.

Michela Di Macco, Giuseppe  Dardanello, a cura di,  Fortuna del Barocco in Italia: le grandi mostre del Novecento. “Fondazione 1563 Quaderni di ricerca”, 2. Genova: Sagep, 2019.

Michele Falzone del Barbarò, a cura di, Henri Le Lieure maestro fotografo dell’Ottocento: Turin Ancien et Moderne. Milano: Fabbri Editori, 1987.

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886-1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989.

Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987.

Luigi Ghirri, Per Aldo Rossi, “Fotologia”, 10, 1988, pp. 54-55, ora in Costantini, Chiaramonte, pp. 127-129.

Elena Gianasso, Per l’immagine dello Stato: sperimentazioni neobarocche a Torino: Castello del Valentino e Palazzo Carignano. Torino: Centro studi piemontesi, 2018.

Ernst H. Gombrich,  L’immagine e l’occhio. Torino:  Einaudi, 1985.

Nelson Goodman, Come conquistare le città, in Georges Teyssot, a cura di, Le città del mondo e il futuro delle metropoli: Oltre la città, la metropoli,  catalogo della mostra (Esposizione Internazionale della XVII Triennale di Milano, Palazzo dell’Arte, 21 settembre – 18 dicembre 1988). Milano: Electa, 1988, pp. 69-72.

Andreina Griseri, Le metamorfosi del barocco. Torino: Einaudi, 1967.

Andreina Griseri, Pino dell’Aquila, Angela Griseri, Un cantiere dopo la Guerra del Sale: Francesco Gallo 1672-1750. Farigliano: Cassa Rurale di Carrù e del Monregalese, 1995.

Angela Griseri, a cura di, Stupinigi: Lo splendore ritrovato del Salone Juvarriano. Torino: Fondazione Ordine Mauriziano – Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino, 2015.

Cornelius Gurlitt, Geschicte des Barokstils in Italien. Stuttgar: Ebner & Seubert, 1887.

John Hejduck, The Flatness of Depth, in: Judith Turner, Photographs Five Architect.  New York: Rizzoli International Publications, 1980, pp.  9-11.

Ken Jacobson, Jenny Jacobson, Carrying Off the Palaces: John Ruskin’s Lost Daguerreotypes.  London:  Quaritch, 2015.

Giorgio Jano,  Fotomorfosi del Barocco: fotografie 1983-2006. Torino: Agorà Editrice, 2007.

William Klein, Life is good & and good for you in New York : Trance Witness Revels.  Milano : Feltrinelli, 1956.

Jérôme de La Lande, Voyage d’un françois en Italie, fait dans les années 1765 et 1766  contenant l’histoire & les anecdotes les plus singulières de l’Italie, & sa description, les mœurs, les usages. A Venise ; et se trouve à Paris : chez Desaint, 1769.

Luciana Manzo, a cura di, Architetture barocche fotografate da Giancarlo Dall’Armi. Torino: Archivio Storico della Città, 2000. 

Francesco Milizia,  Barocco, in Id.,  Dizionario delle Belle Arti del Disegno [1797]. Bologna: Stamperia Cardinali e Frulli, 1827, p. 131.

Henry A.  Millon, Introduzione, in: Domenico Prola, 40 chiese barocche in Piemonte. Torino: Centro studi piemontesi, 2002, pp. 13-17.

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990.

Laszlo Moholy-Nagy, Vision in Motion. Chicago: Paul Theobald, 1947.

Filippo Morgantini, Un esempio di diffusione dell’arte fotografica in aree di provincia: i fotografi Ferazzino a Chieri, “Bollettino della Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti”, N. S. nn. LXI – LXII (2010 – 2011), pp. 145-164.

Antonio Muñoz,  Roma Barocca. Milano – Roma: Bestetti & Tumminelli, 1919.

Christian Norberg-Schulz, Architettura Barocca. Milano: Electa, 1971.

Christian Norberg-Schulz, Architettura Tardobarocca. Milano: Electa, 1972.

Ugo Ojetti,  a cura di, Mostra della pittura italiana del  Sei e Settecento, catalogo della mostra  (Firenze, Palazzo Pitti, 20 aprile – 6 novembre 1922). Roma : Bestetti & Tumminelli, 1922.

Eugenio Olivero, Le opere di Bernardo Antonio Vittone : architetto piemontese del secolo XVIII.  Torino: Tipografia del Collegio degli Artigianelli, 1920.

Vicenzo Ormezzano, Giuseppe Venanzio Sella, Biella: Ospizio di Carita, 1923.

L.P., Il barocco piemontese nella storia dell’arte: Intervista col prof. Brinckmann, “La Stampa”, n. 145, 19 06 1937, p. 6.

Mario Passanti, La Reale Cappella della S. Sindone in Torino, “Torino”, Rassegna mensile municipale,  21 (1941), nn., 10, 12, ottobre, dicembre, Torino: Accame, 1941.

Mario Passanti, Nel mondo magico di Guarino Guarini. Torino: Toso, 1963.

Mario Passanti, Architettura in Piemonte: da Emanuele Filiberto all’Unita d’Italia (1563-1870): genesi e comprensione dell’opera architettonica, a cura di Giovanni Torretta. Torino:  Allemandi, 1990.

Augusto Pedrini, Portoni e porte maestre dei secoli XVII  e XVIII in Piemonte.  Torino: Pozzo-Salvati-Gros Monti, 1955.

Richard Pommer, Architettura del Settecento in Piemonte: Le strutture aperte di Juvarra, Alfieri e Vittone, a cura di Giuseppe Dardanello.  Torino: Umberto Allemandi & C., 2003.

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus” 5 (1932), n. 53, maggio, pp.285–88.

Paolo Portoghesi, L’architetto Guarini, “Civiltà delle macchine”, 4 (1956), n.1, gennaio-febbraio, pp. 57-61.

Paolo Portoghesi, Guarino Guarini 1624-1683. Milano: Electa, 1956.

Paolo Portoghesi [a], Bernardo Vittone, un architetto tra illuminismo e rococò. Roma: Edizioni dell’Elefante, 1966.

Paolo Portoghesi [b], Roma barocca : storia di una civiltà architettonica.  Roma:  C. Bestetti Edizioni d’arte, 1966.

Paolo Portoghesi, Francesco Borromini. Milano – Roma: Electa – Ugo Bozzi, 1967.

Paolo Portoghesi,  Il linguaggio di Guarino Guarini, in Vittorio Viale, a cura di, Guarino Guarini e l’internazionalita del barocco [atti del convegno], Torino, Accademia delle Scienze, 1970, v. 2, pp. 9-34.

Domenico Prola,  Giorgio Jano, Enrico Peyrot,  Architetture barocche in Piemonte. Firenze: Alinari, 1988.

Antoine Quatremere de Quincy,  Guarini,  in Id., Dictionnaire historique d’architecture comprenant dans son plan les notions historiques, descriptives, archéologiques, biographiques, théoriques, didactiques et pratiques de cet art, II.  Paris : Adrien Le Clère et Cie, 1832, pp.687-698.

Carlo Ludovico Ragghianti, Orientamenti sul Barocco in Piemonte, “Sele arte”, 11 (1963), n. 65, pp. 2-14.

Dario Reteuna, Premiato Studio. Da Dall’Armi a Cagliero sessant’anni di vita a Torino, Torino, Regione Piemonte – FIF, 1998.

Corrado Ricci, Architettura barocca in Italia. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1912.

Rosanna Roccia, Giorgio Vaccarino,  a cura di,  Torino in guerra tra cronaca e memoria. Torino : Archivio storico della Città di Torino, 1995.

Ernesto Nathan Rogers,  Architettura e fotografia. Nota in memoria di Werner Bischof, “Casabella-Continuità”, 205, 1955,  pp. 156-157.

F.R. [Felice Romani], Fotografia. Primo daguerreotipo in Torino, “Gazzetta Piemontese”, Sabbato [sic] 12 ottobre 1839, n. 234, pp. 1-3.

Giovanni Romano con Charles-Henri Favrod, a cura di, Lo spirito dei luoghi: quattro fotografi italiani attraverso il Piemonte : Roberto Bossaglia, Mimmo Jodice, Bruna Biamino, Mauro Raffini, catalogo della mostra (Torino, Accademia Albertina di Belle Arti, 29 gennaio – 11 aprile 1999). Torino – Cinisello Balsamo: Regione Piemonte – Assessorato alla Cultura – Silvana Editoriale, 1999.

Lorenzo Rovere, Vittorio Viale, Albert Erich Brinckmann, Filippo Juvarra. Milano: Oberdan Zucchi, 1937.

Paolo San Martino, Augusto Telluccini e la rivalutazione delle Residenze reali e del barocco decorativo in Piemonte, 1921-1930, “ Studi Piemontesi”,  47 (2018), n. 1, pp.87-100.

Mario Sansoni, Diario di un fotografo, “AFT: Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano”, 3 (1987), n. 5, giugno, pp. 44-53.

August Schmarsow, Barock und Rokoko: eine kritische Auseinandersetzung uber das Malerische in der Architektur. Leipzig: Hirzel, 1897.

Società Promotrice delle Belle Arti, LXXXIV Esposizione Annuale di Arti Figurative. Primavera 1926, Mostra retrospettiva di architettura piemontese. Catalogo. Torino:  Società Promotrice delle Belle Arti, 1926.

Stendhal (Henri Beyle),  Viaggio in Italia partendo da Parigi e ritornandovi attraverso la Svizzera e Strasburgo, itinerario e note, [1817]. Milano: Tranchida, 1987.

Manfredo Tafuri, Il complesso di S. Maria del Priorato sull’Aventino, in Alessandro Bettagno, a cura di, Piranesi, Incisioni – Rami – Architetture – Legature. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1978, pp. 78-79.

Augusto Telluccini, Le decorazioni della già Reale palazzina di caccia di Stupinigi. Torino: Itala Ars, 1924. 

Augusto Telluccini, L’arte dell’architetto Filippo Juvara in Piemonte. Torino: C. Crudo & C., 1926.

Augusto Telluccini,  Il Palazzo Madama di Torino. Torino: S. Lattes, 1928.

Emanuele Tesauro,  Il Cannocchiale aristotelico o sia idea dell’arguta et ingeniosa elocutione, che serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria, et simbolica esaminata co’ principii del divino Aristotele [1654]. Torino: Bartolomeo Zavatta, 1670.

Giovanni Testori, Barocco splendido e funesto, “Settimo giorno”, 16 (1963), 3 luglio 1963, pp. 56-57, 60.

Pietro Toesca,  Torino. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1911.

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I.  Milano: TCI, 1930.

Touring Club Italiano, Piemonte occidentale. Milano: Touring Club Italiano, 1958.

Touring Club Italiano, Piemonte orientale. Milano: Touring Club Italiano, 1959.

Michel Tournier, Il barocco, in Id., Immagini, paesaggi e altre piccole prose. Milano: Garzanti, 1990, p. 9.

Vittorio Viale, a cura di,  Mostra del Barocco piemontese, catalogo della mostra  (Torino, Palazzo Madama, Palazzo Reale, Palazzina di Stupinigi, 22 giugno-10 novembre 1963).  Torino, s.n., 1963.

Bernardo Antonio Vittone, Istruzioni elementari per indirizzo de giovani allo studio dell’architettura civile divise in libri tre, e dedicate alla maestà infinita di Dio Ottimo Massimo. Lugano: presso gli Agnelli, 1760.

Minor  White, Fourth Sequence, Colophon, 1950, in Filippo Maggia, a cura di, Minor White/ Life is Like a Cinema of Stills.  Milano: Baldini&Castoldi, 2000, p.17.

Heinrich Wölfflin,  Renaissance und Barock: eine Untersuchung über Wesen und Entstehung des Barockstils in Italien. München: Bruckmann, 1888.

Frank Lloyd Wright, Testamento. Torino: Einaudi, 1963.

Bruno  Zevi, Il barocco spiegato ai turisti, “L’Espresso”, 4 agosto 1963, p. 18.

Bruno  Zevi, Saper vedere l’architettura [1948]. Torino: Einaudi, 1970.

 

 

 

Note

[1] «La photographie, en achevant le baroque a libéré les arts plastiques de leur obsession de la ressemblance », Bazin [1945] 1973, p. 6. L’adozione sin dal titolo del mio breve saggio del termine “barocco” non va ovviamente intesa quale scelta critica di campo in un dibattito che ha visto fronti fieramente contrapposti, e specie in Italia; semmai una connotazione convenzionale ed empirica, che consenta di riferirsi a una serie di architetture piemontesi realizzate tra XVII e XVIII secolo senza richiedere  troppi distinguo.

[2] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point : its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality  was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For technical data,  the camera was faithfully used.”, White [1950] 2000, p. 17, traduzione di chi scrive.

[3] «la plus belle Eglise de Turin»,«d’une construction absolument singulière, on peut même dire extravagante», La Lande 1769, pp. 78-79, traduzione di chi scrive.

[4]«un grand edifice dont la façade, quoique de briques, à un aspect agréable et majestueux»,  Ivi, p. 141, traduzione e corsivo di chi scrive.

[5]  «corruption (…) de toute l’architecture raisonnable», Quatremère de Quincy 1832, ad vocem “Guarini”, pp.687-698 ; diversa la considerazione per “Ivara (Philippe)” [Juvarra] (ivi,  pp. 30-32) che considerava  “lontanissimo dalla bizzarria della scuola che l’avea preceduto” , traduzione di chi scrive.

[6] Gurlitt 1887 e Schmarsow 1897  non sono mai stati pubblicati in Italia e analoga sorte hanno avuto le  trascrizioni delle lezioni tenute da Riegel tra il 1898 e il 1902 (Burda, Dvořák 1908),  mentre la traduzione italiana della tesi di abilitazione di Wölfflin (1888)  comparve solo nel 1928, pubblicata a Firenze da Vallecchi. Su questi temi si vedano i diversi contributi raccolti in  Bacchi, Barroero 2017. A testimonianza delle alterne vicende della comprensione di queste architetture ricordiamo che ancora per Martin Shaw Briggs “Palazzo Carignano (…) sfortunatamente mostra la maggior parte dei capricci e dei punti deboli del periodo [e] l’interesse principale [della cappella della S. Sindone e della chiesa di San Lorenzo] risiede nello straordinario, complicato e assurdo modo in cui sono coperte a cupola.”, Briggs 1913, pp. 98-99, traduzione di chi scrive.

[7] La preziosissima lastra dagherrotipica, oggi purtroppo in condizioni di scarsissima leggibilità, è  conservata nell’Archivio fotografico della Fondazione Sella di Biella.

[8] Romani 1839.

[9] Le lastre originali e le relative stampe sono conservate a Biella presso l’Archivio fotografico della Fondazione Sella, Fondo Giuseppe Venanzio Sella, cfr. Cavanna 2019.

[10] Jacobson 2015.

[11] De la Garenne 1842.

[12] La diffusa mancanza di interesse per le architetture barocche è ben testimoniata anche da una stereoscopia di Giorgio Sommer del 1863-1867 che mostra scorciata e quasi illeggibile la facciata di Palazzo Madama (Cavanna, Lisino 2011, p. 22).

[13] Cfr. Miraglia 1990, rispettivamente alle tt.3, 59, 53, 60,61.

[14] Falzone del Barbarò, Borio 1989. Per ragioni sinora non note il biellese Vittorio Besso realizzò prima del 1881 una serie di fotografie del santuario di Vicoforte, presso Mondovì (cfr. Besso 1881, pp. 27-28), proprio negli stessi anni in cui il soggetto venne fotografato anche dal monregalese Giuseppe Viglietti, Album fotografico della città di Mondovì e del santuario di Vico, 1878, cfr. Avigdor, Cassio, Maggio Serra 1977, p. 44.

[15] Catalogo (…)  Brogi  1926, p. 74.

[16] Ricci  1912; libro di grande successo, pubblicato nello stesso anno a Londra da Heinemann, quindi riedito nel 1922 a Torino dalla Itala Ars, e ancora nel 1928 a Stoccarda da Julius Hoffmann.

[17] Un precoce esempio di lettura architettonica di un sistema voltato condotto mediante riprese zenitali si ritrova nella campagna documentaria condotta da Pietro Masoero sulla basilica di Sant’Andrea a Vercelli a partire dal 1890 circa, cfr. Cavanna  1986.

[18] La fototeca di Muñoz è confluita negli anni Cinquanta del Novecento in quella di Federico Zeri ed è ora conservata nella Fondazione omonima. http://www.fondazionezeri.unibo.it/it/pubblicazioni/call-for-papers/articoli-2012/il-fondo-fotografico-di-antonio-munoz [22-11-2019]. Si veda ora Calanna  2018.

[19] Costituisce un riferimento bibliografico imprescindibile per la ricostruzione dell’intrecciarsi di studi e occasioni espositive Di Macco, Dardanello 2019, che raccoglie gli atti della giornata di studi promossa nel 2016 dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo di Torino.

[20] Toesca 1911, pp. 64 passim . La presentazione critica proseguiva analizzando “L’incubo deforme delle linee degli archi coi quali Guarini volle sostituire la cupola, e della luce violenta”  della chiesa di San Lorenzo, mentre la concezione della Cappella della Sindone, è considerata “povera e puerile nei concetti.” Radicalmente diversa la valutazione delle architetture juvarriane perché “ad osservare quelle linee ragionevoli [di Superga] ferme, sicure, si sente di essere in presenza di un poderoso intelletto d’artista, quanto diverso dalla mente sfibrata e convulsa del Guarini!”. La scelta di Vittorio Viale di destinare Palazzo Carignano a sede principale della Mostra del Barocco piemontese del 1937, avrebbe plasticamente segnato il superamento e si direbbe la presa di distanza dalle posizioni espresse da  Toesca.

[21] “A Torino ci sono cinque o sei chiese che non bisogna perdere, soprattutto quella con la cupola insolita.”, Stendhal [1817] 1987,  p. 56.

[22]  „Piemont, an der Schwelle Italiens liegend, auch jetzt zu den unbekannten Gegenden des kunstgeschichtlich bekanntesten Landes.“,  Brinckmann 1931, p. 7, traduzione di chi scrive.La situazione rimase sostanzialmente immutata nei decenni successivi, anche in conseguenza del contesto bellico, tanto che riferendosi ai viaggi condotti col marito nel secondo dopoguerra, Margot Wittkower  ricordava che “Piedmont (…) was an almost undiscovered territory. Nobody stopped in Turin, nobody went into the country around there, and it has the most marvellous houses, churches, cathedrals, whatnot”, rievocando poi un gustoso aneddoto a proposito della loro scoperta di una “delightful small church (…) by an architect nobody had ever heard of, by the name of Vittone” (Barnett 1994, p. 319), scordando per l’occasione l’antecedente degli studi di Olivero e Brinkmann. Si veda anche quanto ricordato da Joseph Connors  2003, p. XVI.

[23] “Tutti quanti da me fotografati, imperterrito sotto il sole rovente delle vostre estati”, citato in L. P. 1937.

[24] Bricarelli 1921, che richiamandosi ancora a Brinckmann ricordava come “A tale aristocrazia dell’ arte vengono annoverate la cappella della S. Sindone e la chiesa di S. Lorenzo in Torino, minutamente descritte entrambe e studiate dal Brinckmann; due pietre miliarie nel cammino percorso dall’architettura moderna, anzi quasi colonne d’Ercole, estremi confini oltre i quali vien meno il terreno dell’arte, incomincia quello della pura scienza costruttiva, della matematica.” I fascicoli postbellici del “Bollettino” costituiscono una fonte determinante per descrivere e comprendere il mutato atteggiamento critico nei confronti della produzione barocca.

[25] Due vedute generali di Palazzo Carignano e Palazzo Madama (Brinckmann 1919, p. 126); altri soggetti torinesi come l’interno di San Lorenzo o l’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano erano invece firmati dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo. Queste riprese non sembrano far parte della serie oggi conservata nel fondo omonimo della Fototeca dei Musei Civici di Torino,  commissionata all’Istituto in preparazione del padiglione piemontese per l’Esposizione celebrativa del 1911 a Roma e in parte utilizzate in Toesca 1911; serie che non comprendeva alcun edificio barocco.

[26] Cfr. Reteuna 1998; Manzo 2000; Bergaglio 2011.

[27] Dall’Armi 1915, sei cartelle fotografiche, vendute in abbonamento a L. 10 cadauna,  contenenti ciascuna 12 stampe fotografiche alla gelatina bromuro d’argento nel formato 21×27 cm, dedicate rispettivamente al Palazzo Morozzo della Rocca (poi della Borsa, demolito in seguito ai danni subiti nel corso delle incursioni aeree del 1942 – 1943), Palazzo Madama, Palazzo Barolo (I, II), Palazzo Saluzzo Paesana e Palazzo Graneri.

[28] Si confronti la n. 484, relativa alle volte dell’atrio di Palazzo Madama con la sua omologa  conservata nel Fondo Dall’Armi dell’Archivio Storico della città di Torino (ASCTO – DAL R0310138).

[29] Cfr. Viale 1963, t. 103.

[30] Di poco antecedente era stato il suo studio dedicato alle ville piemontesi del Settecento (Chevalley  1912); considerando anche gli studi antecedenti di Camillo Boggio (1896) pare di poter dire che – almeno a Torino, già sede di alcuni interventi neobarocchi (Gianasso 2018) –  la rivalutazione critica del barocco avvenne in ambito storico architettonico ben prima che storico artistico.

[31] ASCTO R0310210-R0310521; quella  serie di riprese ebbe un discreto successo e venne in parte utilizzata ancora in  Brinckmann 1931.

[32] La stampa, conservata presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD,  Fondo Ministero della Pubblica Istruzione – MPI, n. 310378, proveniente dall’Archivio fotografico dell’allora Regia Soprintendenza di Torino, venne pubblicata in Olivero 1920, p. 10.  Sui Ferazzino si veda Morgantini 2011.

[33] Pubblicate in Telluccini 1926 e in Brinckmann 1931 ma riutilizzate ancora nel 1963 anche per realizzare il cartoncino d’invito alla mostra.

[34] Cfr. Alinari 1913, n. 15733, Stupinigi – Salone centrale: l’interno.

[35] Si veda il testo della conferenza tenuta al Politecnico di Zurigo il 2 febbraio 1925, poi ampiamente ripresa in Croce 1929.

[36] Società Promotrice delle Belle Arti 1926. Nel 1922 si era tenuta a Firenze la prima grande Mostra della pittura italiana del  Sei e Settecento (Ojetti 1922).

[37] Telluccini 1926, p.3. Pochi anni più tardi lo studioso, insieme ad Arturo Midana e Lorenzo Rovere avrebbe curato la sezione piemontese della mostra veneziana Il Settecento italiano (Barbantini 1929).

[38] Touring Club Italiano 1930, t.1, corsivo di chi scrive.

[39] “Si cercherebbe invano nel libro del prof. Brinckmann una traccia storica che inquadri ed illumini il ricco materiale documentario”, scriveva Giulio Carlo Argan [1932], 1970, p. 315; come si è detto Brinckmann aveva già precedentemente visitato il Piemonte studiandone le architetture del XVII e XVIII secolo (Brinckmann 1919).

[40] „Der Aufschluss eines Teiles dieses Kulturgebietes für  die Kunstgeschichte ist ohne technisch-publizistische Arbeit nicht möglich. So stehen voran die eigenen Fotoaufnahmen der Bauwerke,  die ich auf fünf reisen mit Bahn und Auto allein und oft mühsam zusammenbrachte (…) Was dem Fotohandel entnommen werden konnte, ist verschwindend gering.  Denn ich wollte nicht abbilden, sondern ein Bauwerk klar machen. Außer eingehenden technischen Vorbereitungen gehört dazu eine besondere Sehart und Sehkraft. Ich habe den Mut gehabt, wohlüberlegte Schrag – und Verkürzung aufnahmen in größerer Zahl zu machen, denn sie entsprechen dem optischen Sehbild wie dem Darstellungswillen des Barockarchitekten. Mit dieser nach schöpferischen Arbeit hoffe ich, allgemein das kunsthistorische Sehen barocker Raum – und Körpervorstellungen  entwickelt zu haben. (…) Wie ich bei den Aufnahmen jegliche Art von Schönfärberei in der Art beliebter Landschaftsbücher vermied,  so habe  ich mich auch vor einem dithyrambischen Stil gehütet, der betrügerisch besticht. (…) Der Turiner Fotograf Pedrini hat oft anspruchsvolle Wünsche erfüllt.” Brinckmann 1931, pp. 7-8, traduzione di chi scrive.

[41] Si devono a Dall’Armi la ripresa della facciata di Palazzo Carignano, 1915 ca, t. 253,  qui tagliata di tutta la porzione destra e in parte ritoccata (cfr. FFTM, Fondo Brinckmann 253.4),  e la veduta scorciata della volta della chiesa di Santa Maria di Piazza, già pubblicata in Olivero 1920, p. 25 e qui reimpaginata in verticale escludendo le fasce laterali della lastra originaria, cfr. ASCTO, Fondo Dall’Armi DAL R0310521. L’apparato iconografico del volume richiederebbe un’analisi puntuale che non è possibile svolgere in questa occasione, ma va almeno segnalata l’assenza – apparentemente immotivata – di riprese dell’invaso della cupola della Sindone, forse non accessibile in quei mesi per le cerimonie connesse all’ostensione del “Sacro Lino” (3-24 maggio 1931), ma certamente presenti nei repertori di diversi fotografi quali Gabinio o Pedrini, per non dire di Alinari.

[42] L’assenza di indicazioni di responsabilità in calce alle immagini ne rende difficoltosa l’attribuzione in tutti quei casi in cui essa non sia precisamente assegnata al recto o al verso delle stampe originali conservate nel Fondo Brinckmann della FFTM. Anche il timbro a inchiostro “Professor/ A.E. Brinckmann” al verso della stampa n. 171 è qualificabile solo come timbro di collezione, essendo la ripresa riferibile a Pedrini, datata 1924, analogamente a quanto accade per la n. 171.2, che porta al verso il timbro a inchiostro “Foto: Bildarchiv Rh. Museum, Köln” e la scritta a matita “phot. Brinckmann/ Stupinigi/ 93252”.

[43] Cfr. FFTM – Fondo Brinckmann, 67.2. La qualità linguistica e l’efficacia descrittiva delle fotografie dello studioso tedesco venne confermata anche da Laszlo Moholy-Nagy  1947, p. 117, che pubblicando una sua fotografia del transetto della basilica dei Santi Alessandro e Teodoro a Ottobeuren, così commentava: “This is a composite view produced by assembled perspectives in depth and height. The photograph recreates the movement of the eyes as they wander from the benches upward to the ceiling.”

[44] Si vedano in Brinckmann 1931 rispettivamente le tavv. 67, 34 e 195.

[45] Ricordo che in  quegli stessi mesi Beccaria era impegnato a riprodurre il corpus di disegni juvarriani (Rovere, Viale, Brinckmann 1937). Purtroppo, come è noto, di quella mostra non si pubblicò il catalogo “che pur avevo già redatto” (Viale 1963, I, p.1). Sulla genesi e sul significato di quel progetto si veda ora Abram 2019, da cui si ricava che nel corso della campagna fotografica commissionata da Viale tra 1936 e 1937 vennero realizzate circa 1345 riprese. Gli esiti del programma di ricerca, catalogazione e digitalizzazione del fondo di lastre Beccaria sono stati presentati nel corso dell’incontro del 16 dicembre 2019 promosso dall’Accademia delle Scienze di Torino intitolato a  Il progetto lastre fotografiche. Torino 1937. Mostra del Barocco piemontese. Una storia che riemerge, curato dal Centro Conservazione Restauro La Venaria Reale e dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo, con interventi di Sara Abram, Francesca Bocasso, Ambra d’Aleo e Federica Panero (La campagna fotografica della Mostra del Barocco 1937. Dietro le quinte di una “magnifica attrezzatura culturale”), che ha individuato in Paolo Beccaria l’autore delle riprese.

[46] Abram 2019, p. 25.

[47] Non si può escludere che la scelta del tema derivasse dai suoi giovanili contatti con Riccardo Brayda, che nel 1888 aveva pubblicato Porte piemontesi dal XV al XIX secolo, con immagini di  Alberto Charvet.  La collaborazione tra i due risaliva al precedente volume dedicato agli Stucchi ed affreschi nel Reale Castello del Valentino, 1887, entrambi pubblicati dalla Libreria e Fotografia Artistica Charvet- Grassi.

L’argomento venne poi ripreso da Pedrini 1955.

[48] FFTM, Fondo Gabinio, nn. B43/45, B43/48.

[49] Ponti 1932, pp. 285-286, corsivi dell’autore.

[50] Cavanna, Costantini 1996, t.94.

[51] Boggeri 1929.

[52] Roccia, Vaccarino 1995.

[53] Brizio 1953, p. 25.

[54] Portoghesi 1956, con 64 fotografie realizzate dall’autore, una di  Riccardo Moncalvo (t. 19)  e una di Alinari (t. 21).

[55] Viale 1963. In quello stesso anno, che segna l’avvio definitivo degli studi locali sul barocco piemontese, venne pubblicato anche il volume di Mario Passanti, con fotografie di Riccardo Moncalvo, generalmente modeste, tranne alcune sorprendentemente arrischiate della scala ellittica di Palazzo Carignano e del particolare della volta della Sindone, molto scorciata e quasi espressionista: inservibile come documentazione, realizzate circa un ventennio prima per Passanti 1941. A queste si richiamerà Roberto Gabetti circa vent’anni più tardi, nelle vesti di fotografo, ancora tutte da studiare, lasciandosi attrarre dall’elemento fantastico e quasi immateriale della cupola, accogliendo tutte le suggestioni di una forte illuminazione filtrata dalle vetrate (cfr. Griseri  1967, t. 119); si veda anche infra p. 30.

[56] La mostra si collocava in un periodo di rinnovata fortuna critica del barocco in genere (Argan, Battisti, Mellon, Portoghesi, Zevi) e di quello piemontese in particolare, anche grazie ai volumi strenna pubblicati dall’Istituto Bancario San Paolo di Torino, curati da Marziano Bernardi, mentre  di poco successiva sarebbe stata la pubblicazione di Griseri 1967. 

[57] Dardanello 2019, p. 63. Divergenti furono invece le opinioni dei critici contemporanei sulla qualità e l’efficacia di questa sezione. Così se per Giovanni Testori (1963) essa era “infinitamente bella”, per Bruno Zevi (1963) “il pubblico posto di fronte a una monotona e interminabile serie di pannelli fotografici impara poco e si stanca presto poiché non si è fatto alcun tentativo per rendergli accessibile la comprensione degli impianti spaziali e degli organismi struttivi (…). Le considerazioni del Carboneri non trovano alcuna visualizzazione”, confermando così la sua sostanziale diffidenza nei confronti delle possibilità della fotografia; cfr. infra.

[58] Il confronto col catalogo della mostra (Viale 1963), consente  di riconoscere alcune riprese antecedenti, quali ad esempio quella relativa allo scalone meridionale di Palazzo Madama (t. 97), certamente anteriore al 1934 o quella dell’atrio del Palazzo Asinari di San Marzano (t.45, n.50), di cui si conosce copia conservata presso l’Archivio del TCI datata 1957. Altrettanto interessante il confronto tra alcune riprese originali e le versioni pubblicate in catalogo (e forse presenti in mostra) dopo essere state sottoposte a un esteso e raffinato ritocco, come nel caso del Salotto cinese di Stupinigi (t.14), da cui scompare la passatoia, e soprattutto della veduta di scorcio della facciata di Palazzo Carignano (t. 36b), da cui sono fatti scomparire i passanti e le rare auto parcheggiate.

[59] Dardanello 2019, p. 63.

[60] I crediti non riportano mai l’indicazione degli autori delle singole riprese, che dovranno però essere identificati tra quelli citati in un successivo volume della serie (Cavallari Murat 1969): Mario Carrieri, Arthur Frehmer, Schmölz-Huth (Karl Hugo Schmölz e Walde Huth), Arcade, Eugenio Salvi ovvero – per il bianco e nero – Paolo Beccaria, ancora Carrieri, Piero Chomon e Odette Perino, Pedrini, Ferruccio e Giustino Rampazzi, Mario Serra.

[61] Si vedano rispettivamente l’atlante fotografico compreso in Passanti 1990, pp. 195-228  e il corredo fotografico in Dardanello et al., 2006.

[62] Zevi [1948] 1970, pp.46-47. Analoghe perplessità vennero espresse in quello stesso periodo da Ernesto Nathan Rogers: “Fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi.” (Rogers 1955) Anche per Frank Lloyd Wright:  “Se si vuole cogliere il carattere essenziale di un edificio organico non si deve ricorrere alla macchina fotografica, perché esso è integralmente fatto di esperienza. (…) La profondità sfida il piatto occhio fotografico.”, Wright 1963, p.144. A ben  considerare  queste osservazioni critiche  appaiono piuttosto ingenue, quasi ancora fondate sulla pretesa originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con/ sovrapporsi a l’esperienza del soggetto. Analogo atteggiamento sembra di cogliere in uno studioso molto raffinato come Geoffrey Batchen quando scrive che “the photograph does not really prompt you to remember people the way you might otherwise remember them – the way they moved, the manner of their speech, the sound of their voice, that lift of the eyebrow when they made a joke, their smell, the rasp of their skin on yours, the emotions they stirred. (Can you ever really know someone from a photograph?)”, Batchen  2004 che riprendeva  e sviluppava temi già affrontati in Id., 1997) e ancora in Id. 2002, pp.56-80.

[63] Battisti 1960, pp.274-275, 279, n.2.  Sembrano rispondere positivamente a queste preoccupazioni le riprese in controluce realizzate da Giorgio Jano nel 1993 (Jano 2007, p. 173), che restituiscono visivamente l’impressione che “la struttura muraria [possa] dissolversi nell’effetto scenografico di un’aureola.”, Battisti 1960, p. 274.

[64] Si veda l’imbarazzante ripresa a luce artificiale dello scalone del Collegio dei Nobili realizzata dallo  Studio Rampazzi (Griseri 1967, t. 118) con un confuso sovrapporsi di ombre, quasi da incubo.  Ancora sotto la firma Rampazzi venne pubblicata (ivi, t. 213) la ripresa del salone della Palazzina di caccia di Stupinigi realizzata però da Augusto Pedrini nel 1924.

[65] Si deve certamente a Moncalvo la ripresa a tav. 122, realizzata per Passanti 1941, mentre sono verosimilmente opera dell’architetto le fotografie di altre opere guariniane utilizzate per Passanti 1963.

[66] Credo che  l’autore della ripresa della facciata della chiesa del Corpus Domini sia da identificare con l’architetto Emilio Giay, all’epoca assistente presso l’Istituto di Caratteri distributivi degli edifici della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, con Mario Federico Roggero Direttore e Gabetti professore incaricato.

[67] Touring Club Italiano, Milano, Archivio fotografico – TCIAF, A12334, A12337, A12338.

[68] Pubblicato in Telluccini 1928, p. 86.

[69]  Carlo Bossoli, Re Vittorio Emanuele II, Cavour, i ministri e la corte scendono lo scalone di Palazzo Madama dopo l’inaugurazione della V legislatura subalpina, 1853, tempera su carta, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea; alle stesse collezioni appartiene anche il disegno di Migliara.

[70] Cfr.  Telluccini 1928, t. 51; Brinckmann 1931, t.271.

[71] Si veda la lastra conservata nella  FFTM, Storiche GAM 0008, ancora riutilizzata in Viale 1963, t.97.

[72] Bertelli 1984, p. 7.

[73] “It is impossible to see architecture in its full complexity at once. Architecture is made up of detail, fragments, fabrications. And the very idea behind it can be captured in a fragment, in a detail”,  Hejduck  1980, traduzione di chi scrive, corsivo dell’autore.

[74] Portoghesi 1956, con interessanti fotografie dell’autore. A ulteriore conferma della sfortuna critica di certi temi, segnaliamo quanto  l’autore ebbe a ricordare anni dopo: “quando, nel 1955, raccoglievo il materiale per il mio studio, avevo constatato la assoluta assenza di fotografie della cupola della S.S. Sindone da tutti i trattati dedicati alla Storia dell’Arte e dell’Architettura.”, Portoghesi 1970, p.9.

[75] Portoghesi 1966a, p. 32. Quel confronto tra visione oculare e ottica richiama il concetto di “inconscio ottico” formulato da Walter Benjamin nel 1931 e reso noto in Italia dall’edizione Einaudi del 1966.

[76] Portoghesi 1966 b, p.n.n.

[77] Da una lettera di Giorgio Stockel a chi scrive, datata 25 settembre 2006.  Anche Michel Tournier  1990, p. 9 riconosceva che “con l’architettura barocca, ecco che la curva invade l’edificio. (…) Ora, notiamolo bene: la linea curva è quella del corpo vivente, e in particolare del corpo umano.”

[78] “Le immagini fotografiche così impaginate restituiscono quasi una architettura in movimento, quasi fossero la sequenza di una serie di quei colpi d’occhio che tanta parte hanno nel nostro modo di vedere gli insiemi. A ciò si accompagnava una consapevole scelta del sistema di “stampa in rotocalco quale l’unica tecnologia che a quel tempo fosse in grado di fornire dei neri pieni capaci di restituire la ‘carnosità’ e la ‘sensualità’ delle soluzioni architettoniche.”, Portoghesi 1966 b, p.n.n.

[79] Portoghesi 1967, con immagini dell’autore e di  Eugenio Monti, Paolo Monti, Oscar Savio  e Giorgio Stockel che mi ha ricordato come l’altro progettato volume dedicato all’architetto ticinese, con Bruno Zevi, “mai vide la luce per i tipi di Einaudi per lo scontro insanabile e mai sanato tra Zevi e Portoghesi  consumato in un convegno avvenuto all’Accademia San Luca di Roma.”, vale a dire quello del 1967 dedicato proprio a Borromini.

[80] Norberg-Schulz  1971.   Tra gli autori del corredo fotografico non era citato l’amico Portoghesi, cui pure si doveva la bella ripresa dell’invaso di Sant’Ivo alla Sapienza, fotografato dall’alto con i tre lobi anteriori della pianta visivamente inscritti nell’oculo della lanterna (t.152), già pubblicata in Portoghesi 1967, p.89.

[81] Goodman 1988, pp. 71-72.

[82] Citato in Bertelli 1984, p.7.

[83] Citato in Celati 1989, p.n.n.

[84] Gombrich 1985, p.246.

[85] Tafuri 1978, pp.83- 85.

[86] Citato in Cavanna 2016, p. 56. Sfumato per ragioni economiche il progetto dedicato a Gian Lorenzo Bernini,  l’interesse per le opere della stagione barocca si era sostanziato in Monti prevalentemente nell’attenzione per alcune realizzazioni romane come la Fontana di Trevi e gli angeli di Ponte Sant’Angelo, nelle quali – secondo Antonio Arcari – si potevano riconoscere “le stesse motivazioni che si arricchiscono e si sostanziano con la sua attenzione per la vitalità della materia (…) e con le sue tendenze all’informale e all’astratto”, Arcari 1983.

[87] Prola, Jano, Peyrot 1988; Jano 2007.

[88] Mimmo Jodice, citato in G. Romano, Sguardi sul Piemonte: Lo sguardo dell’uomo ombra (Mimmo Jodice) in Romano 1999, pp. 17-18; dallo stesso testo sono tratte le due successive citazioni.

[89] Domenico Prola, 120 chiese del periodo barocco in Piemonte, in Prola et al. 1988, pp. 17-25 (17).

[90] Giorgio Jano, Nota sulla Fotografia, Ivi, pp. 37-38.

[91] André Corboz, Architetture zenitali, Ivi, pp. pp. 12-13, corsivo di chi scrive.

[92] Flusser 1987, p. 35.

[93] Jano 2007 p. 201.

[94] Griseri et al. 1995. Ancora in  Comoli, Palmucci 2000 realizzava un Percorso per immagini (pp. 146-167), molto ordinate e “classiche” (come ebbe a dire Griseri a proposito di Augusto  Pedrini), con molti dettagli e qualche zenitale per le cupole (Santa Chiara a Mondovì Piazza, p. 160; Santuario di Vicoforte, p. 163; Santa Croce e San Bernardino a Cavallermaggiore, p. 165), ma senza forzature ‘espressioniste’.

[95] Giovanni Romano, Presentazione, in Dardanello 2001, pp. 11-12 (12).

[96] Daniel 1994, pp.21-22, t. 1.

[97] Per una applicazione estensiva, rigorosa e altrettanto problematica di questa metodica di restituzione delle architetture si veda il pluridecennale lavoro di Markus Brunetti (2016), http://www.markus-brunetti.de/ (23 07 2020).

[98] Tesauro 1670, p. 166.

Il miele e l’argento: storie di storia della fotografia in Italia (2020)

Melfi: Libria, 2020

http://www.librianet.it/

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

 

Sommario

 

 

01 – Introduzione

           01.1 – Avvertenze – Acronimi

02 – Dal 1839

           02.1 – 1839 e oltre
           02.2 – Intorno al 1939: Lamberto Vitali e l’antica fotografia
           02.3 –  1949-1950 Carlo Mollino e il Messaggio dalla camera oscura
           02.4 – Silvio Negro e la fotografia a Roma
           02.5 – Ancora Lamberto Vitali

 

03 – 1967-1978

           03.1 – Il posto dell’Italia nelle storie generali 
           03.2 – Dizionari ed enciclopedie
           03.3 – Storie italiane:  Archivi, fondi, raccolte
           03.4 – Carlo Bertelli, “Popular Photography” e la fotografia storica
           03.5 – Piero Becchetti e le prime ricognizioni
                       a scala locale e territoriale
           03.6 – Le prime monografie
           03.7 – Arte e fotografia: contatti
           03.8 – Fotografia e ideologia
           03.9 – “La storia, il collezionismo, i maestri, le tecniche,
                      i mercanti, i capolavori, i prezzi”

 

04 – Intorno al 1979

           04.1 – Grandi mostre
           04.2 – La fotografia come bene culturale
           04.3 – Gli Annali della Storia d’Italia Einaudi
                 04.3.1 – La progettazione                                              
                 04.3.2 – Struttura e contenuti
                 04.3.3 – La ricezione dell’opera e la questione
                                della fotografia come fonte

 

05 – 1980-1988

           05.1 – L’Italia nelle storie generali / Alcuni modelli storiografici
           05.2 – Quale storia della fotografia
           05.3 – Prime riflessioni sulla fotografia come fonte per la storia
           05.4 – Storie italiane
           05.5 – A proposito di cultura fotografica
                 05.5.1 – La “Rivista di storia e critica della fotografia”
                 05.5.2 – “ Fotologia”
                 05.5.3 – “AFT”
           05.6 – La fotografia e le arti: studi sul Novecento
           05.7 – Indagini a scala  territoriale
                 05.7.1 – Valle d’Aosta
                 05.7.2 – Piemonte
                 05.7.3 – Liguria
                 05.7.4 – Lombardia
                 05.7.5 – Veneto
                 05.7.6 – Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige
                 05.7.7 – Emilia Romagna
                 05.7.8 – Umbria e Lazio
                 05.7.9 – Campania e Calabria
           05.8 – Monografie
           05.9 – La Storia della fotografia italiana di Zannier

 

06 – Intorno al 1989

           06.1 – Alcune indagini a scala locale e la questione dei generi
           06.2 – Monografie
           06.3 – Verso la catalogazione

 

07 – 1990 -2003

           07.1 – Nuove storie della fotografia
           07.2 – Percorsi trasversali e storie settoriali
           07.3 – Elementi di storia della fotografia italiana
                 07.3.1 – In generale
                 07.3.2 – Intorno al dagherrotipo
                 07.3.3 – Lo spazio discorsivo della stereoscopia
                 07.3.4 – Società fotografiche ed editoria periodica
                 07.3.5 – Studi settoriali
                 07.3.6 – Una geografia degli studi

                                07.3.6.1 – Torino e il Piemonte

                                07.3.6.2 – Milano e la Lombardia

                                07.3.6.3 – Bologna

                                07.3.6.4 – Roma

                                07.3.6.5 –  Al Sud

                 07.3.7 – Una nuova rivista
                 07.3.8 – Monografie

                                07.3.8.1 – Protagonisti della calotipia in Italia

                                07.3.8.2 – Alcuni modelli storiografici per l’età del collodio

                                07.3.8.3 – Alinari 150

                                07.3.8.4 – Regolari e irregolari del Novecento

                 07.3.9 – Archivi: storie e catalogazioni

                                07.3.9.1 – Storie di archivi

                                07.3.9.2 – Manuali e norme di catalogazione

           07.4 – Storie e fotografie
                 07.4.1 – La breve stagione delle Storie fotografiche dell’Italia
                 07.4.2 – La guerra serve a fare fotografie
                 07.4.3 – Fotografia e industria
                 07.4.4 – “Il contadino fotografato”
           07.5 – Fotografia come fonte / Fotografie come fonti

 

 08 – 2004-2015

           08.1 – Nuova storiografia e nuove storie generali
           08.2 – Raccontare storie italiane
                 08.2.1 – L’eredità di Giulio Bollati:
                           fotografia, identità nazionale e modernità
                 08.2.2 – Convergenze parallele

                                08.2.2.1 – La lista di discussione s-fotografie

                                08.2.2.2 – La Società Italiana per lo Studio della Fotografia

                 08.2.3 – Archivi e raccolte:
                           verso il censimento dei patrimonio fotografico
                 08.2.4 – Storia e fotografie

                                08.2.4.1 – Archivi, fonti, dispositivi e oggetti sociali

                                08.2.4.2 – Turn! Turn! Turn!:  da singolare a plurale

                                08.2.4.3 – Fotografie nella rete

                08.2.5 – Studi settoriali

                                08.2.5.1 – Fotografia e scienze dell’uomo

                                08.2.5.2 – Arte, Storia dell’arte e fotografia

                      08.2.5.2.1 - Storie di storici dell’arte 

                      08.2.5.2.2 - Biografie fotografiche: alcuni casi di studio 

                      08.2.5.2.3 - Storia dell’arte, editoria, fotografia 

                      08.2.5.2.4 - Produzione artistica e fotografia 

                      08.2.5.2.5 -  Fotografia e pratica artistica: Accademie, atelier, archivi 

                                08.2.5.3 – Storia dell’architettura e fotografia

                                08.2.5.4 – Storia dell’archeologia e fotografia

                                08.2.5.5 – Letteratura e fotografia

                                08.2.5.6 – Immagini dai conflitti

                      08.2.5.6.1 - Temi e problemi  risorgimentali 

                      08.2.5.6.2 - Fotografie delle guerre 

                      08.2.5.6.3 -  Fotografie di protezioni antibelliche 

                                08.2.5.7 – Fotografie e storie del lavoro e dell’industria

                                08.2.5.8 – Indagini a scala territoriale

                      08.2.5.8.1 - Territori, archivi, repertori

                      08.2.5.8.2 - Immagini dei luoghi

                      08.2.5.8.3- Immagini e identità: sguardi interni/ sguardi esterni

                                08.2.5.9 – Storie locali

                      08.2.5.9.1 - Storie illustrate  

                      08.2.5.9.2 -Storie illustrate con fondi fotografici locali

                      08.2.5.9.3 -Storie della fotografia locale

                      08.2.5.9.4 -Immagini, mutazioni e catastrofi

                                08.2.5.10 –Monografie

                      08.2.5.10.1 -Gli evergreen

                      08.2.5.10.2 -Di alcune storie veneziane

                      08.2.5.10.3 -Oriente e orientalismi

                      08.2.5.10.4 -Cataloghi virtuali/ repertori virtuosi

                      08.2.5.10.5 -Intorno alla pratica del ritratto

                      08.2.5.10.6 -Di alcuni studi fotografici

                      08.2.5.10.7 -Fotografia amatoriale

                      08.2.5.10.8 -La scena torinese

                      08.2.5.10.9 -Figure di passaggio

 

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

Introduzione

 

Ma la perizia si accresce ereditando: e anche in senso limitativo,

ereditando la cognizione dell’errore.”

Carlo Emilio Gadda, 1939

 

 

Questo lavoro nasce da un incontro e da un incrocio. L’incontro è stato quello con Giovanni Fanelli, che ci ha portati in più occasioni a confrontarci sui modi e le ragioni del fare storia della fotografia; sul lavoro nostro e degli altri partendo da una medesima spinta a comprendere ma da posizioni non di rado diverse. Queste occasioni di  confronto si sono poi incrociate con qualcosa di per me inatteso; qualcosa che certo viveva da qualche parte ma non aveva sino ad allora preso forma né nome ed era l’attrazione (e il fascino) per la riflessione storiografica. Qualcosa che poco alla volta, e ciononostante improvvisamente, mi chiariva le ragioni per cui nei miei scaffali e tra i miei libri si fossero accumulate negli anni così tante storie della fotografia: quelle generali intendo; quelle che narrano vicende a volte molto simili, magari coincidenti, in modi tra loro anche molto diversi. Quelle, appunto, che hanno perduto (per me) quasi ogni funzione informativa; che mi attraggono per le questioni che pongono le loro differenti impostazioni storiografiche e connotazioni narrative.

Il riferimento non narcisistico a sé vale anche e forse soprattutto per chiarire i limiti di questo lavoro, in cui l’accento autobiografico sottende anche (ma è una questione almeno generazionale) una formazione ancora sostanzialmente autodidattica. Così mi auguro che si possano comprendere se non proprio scusare le insufficienti conoscenze che possono emergere, che derivano anche da una forzata autarchia nell’accesso ai testi e ai documenti, reperibili sempre con difficoltà in un contesto in cui scarseggiano istituzioni dedicate alla fotografia e alla sua storia, così come mancano biblioteche specializzate. Quindi non solo nell’approntare il repertorio bibliografico ma specialmente nelle segnalazioni e nelle scelte si sono privilegiati quei testi che ebbero almeno il riconoscimento di una recensione, una buona o discreta circolazione, qui verificata sulla base della loro presenza in biblioteche pubbliche desunta da OPAC SBN,  e  naturalmente dalle citazioni nella letteratura specialistica.     Questa condizione di difficoltà, infine, ha di necessità accentuato il ricorso alla rete come canale di accesso indiretto alle fonti bibliografiche, specie di quelle che per cronologia, occasione o sede di pubblicazione hanno goduto di minore circolazione materiale. Ciò che invece non ho incontrato, ma certo l’indagine non è stata sistematica, sono state produzioni significative di un fare storia della fotografia al tempo di internet, poiché pare che anche nei casi migliori e più precisamente orientati non si riesca  ancora  a sfruttare appieno tutte le potenzialità del nuovo medium e a mettere a punto strutture narrative innovative e paradigmaticamente diverse dai modelli cartacei.

 

In queste condizioni si sono sviluppati e hanno progressivamente preso forma (una forma in progress, mai chiusa) il testo che segue e la bibliografia che lo accompagna, cresciuti anche sotto lo stimolo rappresentato dal crescente interesse internazionale per la storiografia fotografica; un interesse che rappresenta uno dei frutti più succosi della svolta culturalista. Contrariamente a quanto avviene per le discipline artistiche, non esiste infatti una tradizione di studi che abbia affrontato sistematicamente l’analisi delle storie di storia della fotografia e non è certo un caso che  il primo manifestarsi di interesse per il tema abbia corrisposto alla messa in discussione dei modelli storiografici novecenteschi e alla stessa ridefinizione del fare storia innescata dalla tecnologia digitale, a sua volta origine di una radicale ridefinizione del concetto stesso di fotografia. E allora il tentativo di delineare una possibile storia della storiografia italiana ha avuto per me anche lo scopo di raccogliere elementi e offrire l’occasione per riflettere sui criteri, sul senso, i significati e i modi dello scrivere possibili storie della fotografia oggi, in presenza di uno scenario tecnologico radicalmente mutato; di fronte alla marginalizzazione  -almeno in termini tecnologici -dello stesso oggetto di studio della storiografia qui considerata.

Dati questi elementi il gioco risultava irrimediabilmente avviato

 

È  solo dalla fine  degli anni Settanta del Novecento che gli studiosi hanno incominciato a  interrogarsi  sistematicamente su cosa si dovesse intendere per Storia della fotografia e sulla necessità di riscriverla. La domanda si è poi fatta sempre più impellente a partire dal decennio successivo, specie in occasione delle celebrazioni del centocinquantenario, né ha cessato di essere riformulata sino ad oggi, assumendo di volta in volta posizioni e attese le più diverse, segnate da preoccupazioni di tipo teorico che sono giunte a considerare il fare storia della fotografia come possibile paradigma del lavoro storico tout court, ovvero hanno proposto nuovi approcci settoriali che ne hanno indagato e posto in questione la stessa identità disciplinare, proponendosi di volta in volta di intendere la storia della fotografia come “storia di una abiezione” o -all’opposto –  come “storia di attese” successive Una storia che ha preso corpo in oggetti materiali  “storicamente formati”  coinvolti in una serie quasi infinita di pratiche, strategie e modalità di circolazione, ricezione  e sedimentazione delle informazioni che li costituiscono. Lo studio di questa variegata produzione consente per intanto una  prima considerazione: che le storie della fotografia (al singolare) dovrebbero essere (e raramente sono) storie dell’idea e delle teorie intorno alla fotografia, attente alle componenti concettuali e alle loro mutazioni storiche e culturali, distinguendosi così da quelle che chiameremmo piuttosto storie delle fotografie (ma comunemente dette della) che  contemplano e contengono in sé in modi di volta in volta diversi, ponendole in relazione tra loro, le istanze concettuali, teoriche, estetiche con le pratiche e le opere che da quelle sono derivate, verificandone quindi il loro agire sociale e culturale storicamente dato in aree geografiche di diversa estensione.  Non dissimili dal punto di vista strutturale ma circoscritte tematicamente sono poi  le storie settoriali (della fotografia di architettura, di montagna o di quella pornografica, ad esempio) mentre negli ultimi decenni si sono sviluppati specifici settori di studio con più forti implicazioni teoriche e metodologiche nei quali  si considerano i rapporti storicamente significativi della fotografia con altri ambiti e discipline quali la storia dell’arte, quella della psichiatria ma anche (e forse prima di altre) dell’etnografia, sulla base dell’acquisita consapevolezza di quanto la fotografia abbia influito storicamente sulle costellazioni metodologiche di quelle discipline; con arricchimenti reciproci che in più di un caso hanno  inciso in modo significativo sulla storiografia fotografica. Infine non possiamo dimenticare, anche solo per un cenno,  le ‘storie con’:  trattazioni di diverso argomento e livello qualitativo e scientifico in cui il ricorso alla documentazione fotografica storica presenta forme d’uso estremamente variabili: dal mero utilizzo illustrativo e commemorativo, rischiosamente referenziale, alla rigorosa critica ed edizione delle fonti utilizzate, ciò che implica una consapevolezza delle culture fotografiche che le hanno prodotte.

 

Quale  limite cronologico per l’argomento degli studi considerati è stato adottato il 1945, nella convinzione che il discrimine costituito dalla Seconda guerra mondiale sia stato di portata epocale anche in ambito fotografico sia a livello internazionale che in Italia, dove è col secondo dopoguerra che ha inizio la nostra contemporaneità. L’intenzione di ripercorrere le vicende della storiografia che ha eletto a proprio oggetto di studio il periodo compreso tra le origini della pratica fotografica in Italia e il 1945 si è da subito dovuta confrontare con un aspetto che rendeva problematico e discutibile quello stesso intento, poiché non si poteva non constatare come  questa produzione nascesse e si fosse sviluppata in un più generale contesto di formazione di una cultura storica della fotografia, in un maturarsi cioè della considerazione stessa della fotografia come possibile oggetto di studio, anche storico. Un fenomeno sviluppatosi in tempi diversi ma che ha accomunato tutta la prima letteratura fotografica a livello internazionale. Per questa semplice ma fondamentale ragione  è risultato indispensabile dare conto almeno dei principali di quei contributi prodotti nel nostro paese a cui (in modi diversi) possiamo riconoscere una prima attenzione (magari in nuce, magari strumentale o ingenua, ma presente) per temi di storia della fotografia, anche se non ancora rivolti allo scenario italiano. Ne è derivata la necessità di interrogarsi sulla progressiva definizione e sulle mutazioni di questa identità disciplinare, ciò che  ha implicato di dar conto e riflettere su cosa si sia inteso e si intenda per “fare  storia della fotografia”, verificando metodi, strumenti e modi che hanno determinato una successiva estensione di  tipologie e confini; con un andamento (teorico e pratico) che mostra non poche analogie con quello di ben più ampia portata che ha riguardato la questione delle fonti per la storia in generale. Come in quella si è passati nel corso del Novecento dalla prevalenza della parola, del documento scritto, a un concetto di fonte sostanzialmente onnicomprensivo e determinato dalle scelte dello storico. Così la storia della fotografia ha impiegato circa un secolo per divenire storia di immagini e solo a partire da quel momento, tra post pittorialismo e istanze moderniste, si sono potuti sviluppare strumenti e metodi in grado di analizzare e rendere conto delle diverse e distinte dinamiche che hanno connotato funzioni e ruoli della fotografia nelle culture del proprio tempo; di studiarne quindi le dinamiche storiche proprie dei diversi contesti. Questi processi non hanno però avuto alcuna sincronicità geostorica: così in ciascuna area culturale non sono significativi solo i mutamenti di canone storiografico, da storie di tipo tecnologico (con più o meno rilevanti connotazioni nazionalistiche) ad altre di tipo iconografico (e surrettiziamente artistico) sino alle più attuali storie culturali, ma anche la loro cronologia e  incidenza in relazione alla cultura dei paesi di produzione e d’influenza.

Il primo passaggio determinante, la prima svolta paradigmatica  di questo accidentato percorso quasi bicentenario è stata la possibilità, favorita dal pittorialismo e fatta propria dal modernismo,  di concepire una storia della fotografia come storia di fotografie, riconoscendo loro un valore autonomo, non semplicemente strumentale. Un  ‘genere’ di storiografia che ha caratterizzato gran parte del Novecento, con progressivi arricchimenti e slittamenti, ancora in corso, che hanno visto solo recentemente un passaggio dall’immagine alla fotografia e alle fotografie per considerarne non solo i valori estetici e comunicativi ma anche le manifestazioni materiali, le valenze sociali e politiche delle diverse forme di sedimentazione e aggregazione. Non è allora difficile dire che oggi si può intendere la storia delle fotografia anche come storia della cultura fotografica;  quella espressa dalla fotografia in tutte le sue forme di produzione e d’uso ma anche intorno alla fotografia, e delle diverse modalità con cui si è storicamente manifestata.  Certo in tal senso la storiografia è una delle sue forme privilegiate, specie se possiamo intenderla in senso lato, riunendo sotto questa categoria tutte quelle produzioni e azioni che a diverso titolo e a diverso livello e intenzioni si sono rivolte al patrimonio fotografico storico:  dalla ricerca al saggio e alla mostra;  dalla catalogazione alla tutela.

 

Stabilito empiricamente l’areale d’indagine e gli elementi che ne sono compresi, si trattava di provarsi a individuare le fonti e i metodi da adottare per realizzarne una mappatura sufficientemente ampia; tale da consentire di tracciare alcuni degli elementi caratterizzanti del contesto culturale che progressivamente costituivano e del quale erano espressione più o meno compiuta.

Componente determinante di questo percorso, fonte privilegiata e oggetto storiografico a un tempo sono stati i testi a stampa nelle loro numerose varianti tipologiche (dal saggio in periodico a  quello in volume, al catalogo di mostra, al volume illustrato), con una prima, inevitabile attenzione e predilezione per quei contributi che si qualificavano esplicitamente come di storia della fotografia, e senza ancora chiedermi cosa si intendesse con quella definizione. Nel raccogliere quei primi materiali, nel compilare le prime voci della bibliografia di riferimento e supporto, emergeva sempre più riconoscibile una condizione (di fatto) di storiografia come autobiografia;  di un lavoro di ricostruzione e di analisi che ripercorreva  (certo più sistematicamente)  le tappe confuse e incerte della mia formazione: i libri letti e non letti; quelli letti male; le relazioni ascoltate e presentate ai convegni;  le conversazioni a margine; le determinanti necessità di fare chiarezza per mettere a punto un ciclo di lezioni o di seminari. Ne risultava un bilancio di attenzioni e di studi  che intersecava e toccava a volte molto da vicino quello personale. Un elemento, una caratteristica che ho accolto a sua volta come dato costitutivo progressivamente arricchito dalle esigenze  che lo sviluppo del progetto poneva e definiva con maggiore chiarezza, prima delle quali è stata proprio la crescente necessità di considerare altri modi del fare storia della e con la fotografia che non fossero solo quelli delle pubblicazioni a stampa.

Il percorso che ne è risultato (uno dei possibili, quindi) sempre più diramato col procedere della cronologia e dell’avanzamento degli studi relativi al nostro paese,  rappresenta l’esito (molto personale ma -mi auguro -non personalistico) di un processo di avvicinamento e di riconoscimento delle diverse storiografie che hanno riguardato la fotografie e le fotografie (non necessariamente in questo ordine o in perfetta sincronia). Nella tensione feconda tra autobiografia e metodo, l’intento  è stato quello di considerare per primi tutti quegli autori e progetti che per opinione diffusa hanno svolto un ruolo significativo nella formazione e nelle trasformazioni della cultura italiana intorno alla storia della fotografia nel nostro paese, considerandoli quindi sotto il duplice aspetto dello specifico storiografico e della loro natura di “documento/monumento” della cultura che li ha prodotti. Non si è trattato quindi di individuare l’eventuale processo di formazione di un canone, che pure progressivamente emerge e muta,  ma semmai di riconoscere indizi, aspetti ed elementi che abbiano contribuito nel tempo a definire una metodologia, consentendo di comprendere e valutare criticamente il livello di congruenza tra gli assunti (magari impliciti) e gli effettivi esiti storiografici. In molti casi si è trattato anche (e purtroppo) di sottoporre a verifica l’esistenza di un’attrezzatura conoscitiva minima, indispensabile per analizzare con cognizione di causa il sistema complesso della fotografia e delle fotografie a prescindere dai presupposti teorici e dai modelli metodologici con cui queste sono affrontate. Un set minimo di conoscenze che appare scontato possedere per qualsiasi altra disciplina ma che sembra ancora essere facoltativo se non superfluo quando si parla di storia della fotografia, dove capita ancora che qualcuno si permetta di discettare a proposito di “lastre di peltro imbevute di una soluzione di bitume”, o simili. Questa è la ragione per cui il differente  spazio dedicato alle discussione delle singole produzioni (saggi, mostre) non implica necessariamente alcun giudizio di valore. Ciò che è stato considerato sono invece (e semmai) i testi e relativi sottotesti, non solo verbali. Ciò ha determinato due evidenti conseguenze:   il ricorso sistematico  ad ampie citazioni dirette, nella convinzione che non solo i concetti ma anche i modi e le formule con cui sono stati espressi costituiscano un elemento imprescindibile per la comprensione del dibattito e della cultura di un momento storico, e un più ampio spazio di attenzione critica a quelle opere che per la loro problematicità risultavano più discutibili.

 

Devo a quella frase di Carlo Emilio Gadda posta in esergo la comprensione delle ragioni profonde che hanno motivato questo lavoro, e non tanto nel senso (peraltro determinante) dell’accrescimento personale quanto piuttosto nell’intravvedere un’utile chiave di lettura storiografica da cui derivare (anche)  la possibilità di riconoscere e tracciare un eventuale percorso identitario. Una genealogia nel senso più comune e pieno del termine, che potesse dar conto del  successivo emergere di elementi e spunti (più metodologici che teorici, a dire il vero) dei quali riconoscere una necessità e un’efficacia attuali nell’affrontare dal punto di vista storico e storiografico la fotografia e il patrimonio di oggetti e culture che questa ha prodotto. E ancora, e nello stesso tempo, altrettanto necessariamente dare corpo al desiderio di mantenere traccia delle vicende, dei dibattiti,  delle    opere  e  insomma  delle culture che in Italia  si sono rivolti con intenzioni e in modi diversi

alla fotografie e alle fotografie in questo arco di tempo ormai non più breve. Questo ha voluto dire comprendere come sia stata di volta in volta intesa (sebbene non definita) la fotografia; quali siano stati gli aspetti e le caratteristiche considerate, e in quale orizzonte fossero poste. Si considerino a questo proposito le più precoci narrazioni, che nella loro impostazione prettamente  tecnologica sottolineavano in particolare la ‘moltiplicabilità’ di questa nuova tipologia di immagini,  guardando alla comunicazione e non all’opera, in una prospettiva che sarebbe stata ripresa e sviluppata solo a metà Novecento.

Il primo dato macroscopico che è emerso dalla questa ricostruzione è che l’Italia è arrivata tardi a produrre una storia generale della sua fotografia  (Zannier 1984), poiché rari sono stati i momenti e le occasioni di formazione di una precisa cultura storica e storiografica nei decenni precedenti.  Si può dire, con una schematizzazione a cui cercherò di porre rimedio nel corpo del saggio, che solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento questi temi hanno goduto di una vera attenzione, che si è manifestata dapprima sotto forma di produzioni espositive, meritoriamente divulgative ma non sufficientemente supportate da precedenti studi e ricerche specialistiche. Il ritardo della cultura italiana nei confronti della fotografia si direbbe dovuto all’incidenza e al perdurare di un atteggiamento che semplicisticamente diremo ‘idealistico’,  in un contesto segnato da un cronico ritardo nei processi di industrializzazione. Tra gli elementi che hanno variamente condizionato e determinato le caratteristiche della  storiografia italiana un ruolo non secondario è stato però anche svolto dalle culture, dalle professioni e più ampiamente dalle ragioni di chi si è di volta in volta proposto come storico della fotografia, o di coloro che noi oggi identifichiamo come tali, così come dalla tipologia di lettore ‘ideale’ cui ciascuno si rivolgeva; un modello a sua volta mutevole e storicamente determinato. Basti anche qui considerare i primi resoconti relativi alle molteplici invenzioni della fotografia, provandosi a distinguere tra cronache, cronologie e prime ricostruzioni, ma anche tra le differenti sedi di pubblicazione. Così le notizie comparse sui periodici avevano il sapore netto della  cronaca, per quanto imprecisa e magari fantasiosa,  mentre le prime voci enciclopediche (Minotto 1839) si distinguevano da quelle per l’intento  evidente di sistematizzare e ‘spiegare’ dati ed eventi, per quanto recenti. Un atteggiamento e un metodo che caratterizzarono tutta la successiva manualistica ottocentesca, a partire dagli esempi di Giacomo Caneva e di Venanzio Sella,  adottando i canoni stabiliti dalle coeve storie della scienza e della tecnologia, fondate sulla convinzione che una migliore conoscenza del passato avrebbe consentito all’utilizzatore attuale di compiere meglio il proprio lavoro.  Nei decenni successivi si ebbero ricostruzioni schematiche e celebrative; certo indizio interessante della volontà (magari implicita) di collocarsi dentro la storia ma di fatto manifestazioni di una forma esteriore di religione del passato; quella stessa che portò al ricorso alla documentazione fotografica storica in occasione delle prime celebrazioni risorgimentali. Dopo la stagione pittorialista e in anni di modernismo nascente l’accento mutava e l’attenzione per la storia assumeva il tono e il senso di un processo di legittimazione di un fare che si voleva sempre più autoriale, senza escludere più o meno forti accentuazioni nazionalistiche, perfettamente aderenti all’ideologia del Regime, mantenute però sottotono dalla mancata realizzazione di un storia di produzione italiana. Questa lacuna, che non ha  interessato paesi quali la Francia, la Germania e gli USA,  era verosimilmente dovuta a una scarsa considerazione culturale per la fotografia e alla quasi insormontabile difficoltà di ascriverne la scoperta tra le italiche glorie nazionali. I pochi contributi databili agli anni tra le due guerre mondiali riuscirono comunque a indicare possibili, e per certi versi divergenti direzioni di ricerca, tra storia sociale attenta alle pratiche professionali (Enrico Unterveger),  e storia autoriale derivata da interessi storico artistici,  rappresentata dai primi saggi di Lamberto Vitali, al quale è stata assegnata la titolarità di un paradigma (più simbolico che reale però) che sarebbe risultato dominante nei decenni successivi: un atteggiamento critico così attento agli aspetti iconografici e referenziali da porre in secondo piano la necessità di comprensione degli elementi tecnici; una caratteristica ampiamente diffusa  tra le prime generazioni di storici anche quando provenivano dalla professione di fotografo e di cui era indizio non secondario (e certo complesso) la consuetudine di riferirsi nelle descrizioni dei materiali alle caratteristiche tecniche della matrice negativa e non del positivo studiato.

Un disinteresse (magari non formale) per le questioni tecniche che si può anche interpretare  come residuo non elaborato di avversione a  quel marchio culturale originario che attribuiva alla fotografia la natura di vile immagine meccanica e, contemporaneamente ma conseguentemente, la manifestazione del desiderio di distaccarsi dalla tradizione premodernista delle storie tecniche, ma senza poi procedere a elaborazioni nuove, metodologiche e storiografiche, per ridursi infine a una più o meno consapevole interpretazione idealistica delle fotografie e dei loro autori. Ciò che era mancato era proprio una riflessione sulla specificità ontologica della fotografia, sostituita da un’assunzione di posizioni e, in parte, di metodi derivati da discipline  di più lunga e solida tradizione, dimostrando carenze di ordine teoretico e metodologico che favorivano o quanto meno consentivano da un lato quel basico utilizzo referenziale  dell’immagine fotografica  che per troppo tempo ha connotato l’attività degli storici contemporaneisti, e dall’altro un’assunzione implicita dell’artisticità come unico elemento valoriale, forzando la storia della fotografia negli spazi nobili ma angusti della storia dell’arte. Una cultura fotografica che per lungo e troppo tempo è stata e si è considerata marginale e subalterna, ponendosi sulla difensiva,  e che  – si direbbe – per quella sola ragione adottava meccanismi di valutazione critica di tipo rigorosamente autoriale,  che si risolvevano puntualmente in esercizi di analogia con figure o canoni  ritenuti ‘alti’, vale a dire già riconosciuti dalla letteratura internazionale,  senza interrogarsi troppo sul fondamento e sul senso di tali operazioni. Per analoghe ragioni temi e figure della fotografia italiana si affacciarono timidamente solo a partire da alcune storie generali pubblicate negli anni Sessanta, anche da autori italiani (Enrie, Zannier, Settimelli), certo penalizzati nelle loro ricerche da quel  “vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza”  che lamentava Racanicchi nel 1961, mentre si avviavano riflessioni di ordine più ampiamente culturale dovute a figure di studiosi appartenenti a diversi e magari distanti ambiti disciplinari, da Mario Praz a Emilio Servadio, ospitate in un importante numero monografico de  “I problemi di Ulisse” (1967).

Fu solo sul finire del decennio successivo che si coagularono una serie di contributi e realizzazioni che hanno costituito uno spartiacque con le produzioni antecedenti, tanto da poter dire –schematizzando ancora -che hanno segnato la nascita della storiografia italiana in senso proprio. Così accanto a importanti mostre come Fotografi del Piemonte, Gli Alinari fotografi a Firenze e Roma dei fotografi, tutte del 1977, la cultura (fotografica) italiana offriva titoli di grande rilievo come l’impeccabile monografia dedicata a Michetti da Miraglia (1975) o la Storia sociale di Gilardi (1976); una proposta storiografica per molti versi eccentrica che ebbe però il grande merito di spostare l’accento sui temi della produzione e  del consumo di immagini, certo inconsueti per lo scenario italiano. Il decennio si chiuse con la serie di mostre e iniziative dedicate ad “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia” che segnarono il passaggio da un uso strettamente referenziale della fonte fotografica, proprio di iniziative quali La famiglia italiana in 100 anni di fotografia  (Macchieraldo 1968) o L’Italia nel cassetto (Berengo Gardin et al. 1978), a una indagine disciplinare rivolta a ricostruirne la storia (Fotografia Italiana dell’Ottocento; Fotografia pittorica 1889/1911) pur con un taglio ancora fortemente – e forse inevitabilmente  – derivato dai tradizionali modelli storico artistici e in sostanziale assenza di chiare impostazioni metodologiche. Dal punto di vista editoriale la produzione più rilevante fu la pubblicazione nello stesso 1979 de L’immagine fotografica 1845-1945, il volume in due tomi curato da Carlo Bertelli e Giulio Bollati per gli  “Annali della Storia d’Italia” Einaudi, che intendeva porre in relazione esplicita gli ambiti culturali e disciplinari della storia culturale e politica e della fotografia, con un’ipotesi storiografica – dovuta prevalentemente a Bollati – che leggeva le vicende fotografiche quali componenti dei processi di modernizzazione e di definizione dell’identità nazionale. La sede di pubblicazione produsse inoltre una specie di processo di legittimazione della fotografia in quanto campo di studi, favorendo inedite riflessioni critiche e metodologiche intorno alla questione della fotografia come fonte, ma su presupposti ancora metodologicamente incerti, poveri di riferimenti strutturati, così che anche i rimandi ai saggi di Benjamin e della Freund sembravano nella più parte dei casi poco più che rituali, mentre pochi raccolsero all’epoca le suggestioni psicanalitiche e ‘culturali’ del testo di Bollati.  Pur tra molte contraddizioni si trattava però di un primo reale riconoscimento della fotografia, e delle fotografie, in quanto beni culturali, come titolava il convegno modenese dello stesso anno, segnando  l’avvio di quel passaggio significativo che avrebbe portato a privilegiare il patrimonio e il tessuto connettivo rispetto alle ‘emergenze’, introducendo quindi i temi della catalogazione e dell’archivio; un argomento sul quale  uno studioso come Quintavalle aveva da poco proposto le sue prime, mature riflessioni interrogandosi su quali dovessero essere i modelli storiografici adeguati per lo studio del fenomeno fotografia.

In anni in cui a livello internazionale emergeva una prima attenzione specifica per la storiografia di settore, derivata dalla necessità di riconsiderare i modelli canonici e di definire l’oggetto (teorico e storico) fotografia, il panorama italiano produceva importanti contributi come quelli di Miraglia e Gilardi per la “Storia dell’Arte” Einaudi (1981), dei quali interessa qui sottolineare non tanto l’incommensurabile distanza di impianto e di esiti ma la loro comune caratteristica di elaborazione autarchica; ciascuno per opposte ragioni dotato di un metodo ‘autocostruito’,  solo empiricamente adeguato al proprio progetto di ricerca e apparentemente indifferente ai dibattiti teorici in corso. Così il contributo di Miraglia, che nasceva da una solida formazione accademica, risultava poi carente in termini di comprensione dei processi di produzione di questa “arte industriale”, magistralmente affrontati da Gilardi in un testo quasi orgogliosamente privo di metodo. Tentativi più circoscritti di ridefinizione e di approfondimento trovarono invece ospitalità e furono sollecitati dal fenomeno nuovo delle riviste di cultura fotografica che nel periodo 1980-1985 videro la nascita (ed anche la morte, in un caso) della “Rivista di storia e critica della fotografia” (1980-1984), di “Fotologia” (1984) e di “AFT” (1985). Erano segni di un processo di strutturazione del campo disciplinare necessario e determinante, che vide anche la progressiva estensione delle indagini a scala territoriale, a cui si accompagnarono iniziative di conservazione e tutela,  e delle presentazioni monografiche: una letteratura da cui iniziavano ad emergere le figure di alcuni autori evergreen.

Superate senza iniziative degne di particolare rilievo le celebrazioni del centocinquantenario dell’invenzione, gli anni Novanta videro un primo consolidarsi dell’interesse internazionale per la storia della nostra fotografia, mentre in Italia il confronto teorico e metodologico era sostenuto specialmente dalle iniziative (convegni, seminari) promosse dall’Archivio Fotografico Toscano. La cultura storica e la riflessione metodologica che si erano andate faticosamente formando nel ventennio precedente si tradussero in una serie di progetti di ricerca ed iniziative espositive  che adottavano un approccio storico filologico assumendo l’archivio quale base di studio e che si proponevano di definire un corretto standard di edizione. Certo una concezione di archivio ancora piuttosto strumentale e lontana dal più recente riconoscimento delle sue caratteristiche di “dispositivo” culturale e politico, ma che portò al consolidarsi dell’attenzione per il patrimonio fotografico al di là di ogni prospettiva riduttivamente autoriale o artistica; attenzione che si tradusse in una serie di convegni (Prato 1992, 2000), nei primi tentativi di censimento a scala nazionale e nella messa a punto e poi emanazione delle norme di catalogazione delle fotografie (1999), mentre anche gli storici contemporaneisti ribadivano la necessità di definire una “diplomatica del documento fotografico” (Pavone).

Nell’ultimo quindicennio una storiografia sempre (più) sicura di sé e ormai sufficientemente radicata anche in ambito accademico, ha espresso in modo sempre più chiaro l’opportunità se non proprio  la necessità   di dotarsi di spazi di aggregazione e di confronto come la lista s-fotografie,  la Società Italiana per lo Studio della Fotografia e la rivista che questa esprime (“RSF”, dal 2015), mentre i sistemi di catalogazione si sono aperti progressivamente al web e si è finalmente avviato l’indispensabile censimento delle raccolte e degli archivi fotografici italiani, in anni in cui la riflessione teorica ne rimetteva in discussione la stessa definizione tradizionale e si affermava il concetto, fortemente influenzato dagli apporti antropologici, di fotografia come “oggetto sociale” dotato di una sua propria biografia. I contemporaneisti d’altro canto appaiono ancora incerti tra fonte e documento, tra indessicalità e connotazione culturale ma sono forse finalmente disposti ad accoglierle entrambe, a integrare tra le loro conoscenze le riflessioni intorno alla natura primaria dell’immagine fotografica ed alle culture specifiche che questa ha prodotto. Elementi indispensabili  per una decifrazione delle immagini stesse, nella consapevolezza che un riconoscimento dell’attendibilità e della veridicità del contenuto referenziale da queste  trasmesso, e delle culture che esprimono,  non possano che fondarsi sulla capacità di discernere le forme e i modi della trascrizione del mondo in fotografia.

È stata proprio la svolta culturalista a connotare maggiormente la più recente produzione storiografica, offrendo una serie di contributi -non solo italiani -che si propongono di individuare e riflettere intorno ad alcune caratteristiche già a suo tempo riconosciute da Bollati e ora più precisamente indagate, quali il policentrismo come specificità del rapporto, specie alle origini, tra fotografia e identità culturale italiana, o quello – di fatto complementare – tra questa e la modernità, con declinazioni non di rado di carattere essenzialista, intese a stabilire e verificare i caratteri di una possibile (o presunta) italianità della fotografia, dell’esistenza di una specifica fotografia italiana. A questa possibile ricostruzione identitaria hanno contribuito in misura determinante  e necessaria gli studi settoriali, indagando relazioni e ruoli svolti dalla fotografia nei più diversi ambiti, dalla storia dell’arte e dell’architettura alla letteratura e alla geografia; dalla guerra al lavoro e all’industria, mentre le ricognizioni a scala territoriale hanno determinato un accrescimento micrometrico e continuo, quasi frattale, delle nostre conoscenze, prestando particolare attenzione al contesto e alle pratiche piuttosto che alle emergenze e facendo nettamente emergere la necessità sempre più stringente dell’integrazione dei saperi e delle consapevolezze teoriche e metodologiche come uno dei nodi centrali di una storiografia che intenda muoversi nel territorio complesso della fotografia e delle pratiche fotografiche. Per queste ragioni sono convinto che le questioni poste dall’uso come dal riuso delle immagini, anche quale soggetto storiografico, siano un portato eminentemente culturale che si può provare a comprendere solo affidandosi alle risorse di un metodo storico che si nutra delle indicazioni e degli apporti di ogni altra procedura conoscitiva, tra le quali riveste importanza sempre maggiore l’antropologia a partire dalle riflessioni che questa ha condotto ed elaborato specialmente intorno alle immagini storiche, portando a riconsiderare più consapevolmente anche la loro natura di oggetti materiali e sociali dei quali, ad esempio, si dovranno incominciare a studiare sistematicamente le condizioni economiche e il contesto di produzione e ricezione, quindi anche le specifiche relazioni con l’immaginario collettivo contemporaneo e di come la fotografia vi abbia partecipato e lo abbia condizionato, contribuendo così a delineare un ampio orizzonte di problemi e di intersezioni che riguardano anche le modificazioni storiche dell’immaginare.

Ciò che infine è emerso con maggiore chiarezza è che nel corso del lungo periodo qui considerato non è mutata solo la definizione dell’oggetto di studio, delle tipologie e ambiti che si è ritenuto di volta in volta più necessario, opportuno o interessante considerare con attenzione (studiare, valorizzare, conservare) ma soprattutto la dotazione metodologica. Così, al di là delle valutazioni di merito, ciò che risulta evidente nel considerare le produzioni più recenti sono le marcate differenze di impianto con quelle prodotte nei decenni precedenti, determinate da una coerenza epistemologica di cui quelle risultavano in diversa misura carenti. Così insieme all’identità degli oggetti si definiscono le teorie e i metodi, prendendo progressivamente coscienza del fatto che per lo storico della fotografia (una figura in fieri, come la sua disciplina) fonte e oggetto di studio coincidono. I fototipi sono infatti oggetto di studio e fonte primaria di sé stessi, di cui è indispensabile conoscere e comprendere le condizioni storiche e culturali di  produzione come di ricezione, utilizzando ove è il caso attrezzi che provengono dalla cassetta di altre discipline di più consolidata (e sottilmente qualificante) tradizione, in primis certo gli storici dell’arte e dopo, più recentemente e faticosamente, ma efficacemente, etnografi, antropologi e altri studiosi sociali.  Una svolta ‘culturale’ da cui ci si può attendere molto se non si ridurrà all’applicazione schematica di formule né dimenticherà i meriti delle elaborazioni passate; di chi ad esempio già negli anni Settanta parlava di “funzione della cultura di immagine in differenti momenti” come oggetto di studio (Quintavalle 1977, p. 71). Così la crescente attenzione per la materialità dell’immagine che è stato uno dei frutti succosi del  material turn e il corrispondente concetto di  “biografia sociale” delle fotografie  non possono far dimenticare  il lungo percorso di  elaborazione, molto raffinato (che altri potrebbero addirittura considerare estenuato ed estenuante) dei modelli di catalogazione dei fototipi che proveniva da differenti presupposti teorici e metodologici, frutto di una concezione del fare storia della fotografia che ha inteso lavorare per la tutela e la valorizzazione del patrimonio che si andava studiando.

 

A conclusione di questo lavoro non posso che ringraziare tutti quelli che si sono dedicati con passione  a studiare e far conoscere la storia della fotografia in Italia, e quelli che continueranno a farlo.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

AVVERTENZE:

La bibliografia citata nel testo e nelle note, nella forma Cognome anno, è consultabile nel file relativo.

Per non appesantire il testo e l’apparato di note, il rimando bibliografico viene dato in occasione della prima citazione della fonte, intendendo che tutte le citazioni successive provengono da quella sino a diversa indicazione.

Tranne che dove esplicitamente indicato, le traduzioni sono di chi scrive

 

Acronimi

ACS:                      Archivio Centrale dello Stato, Roma

AFS:                      Archivio Fotografico Storico della Provincia di Treviso, ora FAST

AFT:                      Archivio Fotografico Toscano, Prato

“AFT”:                 “Semestrale dell’Archivio Fotografico Toscano –  Rivista di Storia e Fotografia””

AIB:                      Associazione Italiana Biblioteche, Roma

AIM:                     Alinari Image Museum, Trieste

ALI:                       Atlante Linguistico Italiano, Torino

ANIMI:                                Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, Roma

ASMI:                   The Association for the Study of Modern Italy, London

AST:                      Archivio di Stato di Torino

ATAC:                  Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea, Torino

BREL:                   Bureau Regional Etnologie et Linguistique, Aosta

CAF:                      Civico Archivio Fotografico, Milano

CAMERA:           Centro Italiano per la Fotografia, Torino

CIFe:                     Centro informazione Ferrania, Milano

CIHA:                   International Committee of the History of Art

CLN:                     Comitato di Liberazione Nazionale

CRA:                     Centro interdipartimentale di Ricerca Audiovisuale dell’Università di Napoli

CRAF:                   Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, Spilimbergo

CRICD:                Centro Regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei beni culturali della                                  Regione Siciliana, Palermo

CSAC:                   Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Parma

ECPA:                   European Commission on Preservation and Access,  Amsterdam

ENEA:                   Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, Roma

ERPAC:                Ente Regionale Patrimonio Culturale della Regione Friuli Venezia Giulia, Gorizia

ESHPh:                 The European Society for the History of Photography, Vienna

FAST:                    Foto Archivio Storico Trevigiano, Treviso, già AFS

FIAF:                     Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Torino

FIF:                        Fondazione Italiana per la Fotografia, Torino

FINSIEL:              Finanziaria per i Sistemi Informativi Elettronici, Roma

GFN:                      Gabinetto Fotografico Nazionale – ICCD, Roma

IBC:                      Istituto Per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Bologna

ICCD:                   Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma

ICCU:                   Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche,                          Roma

ICG:                      Istituto centrale per la grafica, Roma (dal 2014), già ING

IFLA:                    International Federation of Library Associations and Institutions, L’Aia

IGM:                     Istituto Geografico Militare, Firenze

ING:                      Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, ora ICG

INGV:                   Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Roma

INSMLI:               Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano

IRE:                       Istituzioni di Ricovero e di Educazione, Venezia

ISBD (NBM):       International Standard Bibliographic Description for Non-Book Materials

ISRE:                    Istituto Superiore Regionale Etnografico,  Nuoro

ISRSC Bi-Vc:      Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in                            Valsesia, Varallo

ISTORECO:         Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea, Reggio Emilia

ISUC:                    Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea, Perugia

IUAV:                   Istituto Universitario di Architettura di Venezia (dal 2001: Università Iuav)

KIF:                       Kunsthistorischen Institut in Florenz – Max- Planck- Institut, Firenze

MAST:                  Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia, Bologna

MiBAC:                                Ministero per i Beni e le Attività Culturali

MIUR:                  Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

MNAF:                  Museo Nazionale Alinari della Fotografia, Firenze

MUFOCO:            Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo

OPAC SBN:          Catalogo del Sistema Bibliotecario Nazionale

PRIN:                    Progetto di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale

REICAT:              Regole italiane di catalogazione

RIBA:                   Royal Institute of British Architects, Londra

RICA:                   Regole Italiane di Catalogazione per Autori

RMFA:                  Raccolte Museali Fratelli Alinari, Firenze

“RSCF”:               Rivista di storia e critica della fotografia

“RSF”:                  Rivista di studi di fotografia

SEPIA:                  Safeguarding European Photographic Images for Access

SGI:                       Società Geografica Italiana, Roma

SICOF:                  Salone Internazionale Cine, Foto, Ottica e Audiovisivi, Milano

SIGEC:                 Sistema Informativo Generale del Catalogo

SIRBEC:              Sistema Informativo Regionale Beni Culturali della Regione Lombardia

SIRPaC:               Sistema Informativo Regionale del Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia

SISSCO:               Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea

SISF:                     Società Italiana per lo Studio della Fotografia

SPSAE:                 Soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico

TCI:                       Touring Club Italiano

 

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

Dal 1839

 

 

1839 e oltre

 

 

Le opinioni sulla data in cui collocare le origini della fotografia possono legittimamente divergere ma l’avvio della sua storiografia è certo, e risale al 1839.

“Gli inventori della fotografia – ha scritto André Jammes[1] – non attesero gli storici per far rientrare le loro scoperte nell’ordine della storia scritta. Si incaricarono loro stessi di quel compito. Collocando quelle scoperte nell’evoluzione scientifica e tecnica, definirono una tradizione che avrebbe influito su tutte le successive narrazioni: la storia della fotografia sarebbe stata la storia della sua tecnica.” Da noi se ne era accorto per tempo Giuseppe Gioacchino Belli, rilevandone anche le connotazioni nazionalistiche:  “a Parigi sostienesi che il trovato è cosa francese, a Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è alemanna o britannica.”[2] Dopo le prime, necessariamente imprecise e fantasiose cronache comparse sui periodici italiani, un accurato resoconto dell’invenzione del dagherrotipo venne pubblicato sulle pagine de “Il Politecnico” già nel giugno[3] del 1839,  ma la prima trattazione ‘storica’ dell’invenzione apparsa in Italia sullo scorcio di quello stesso anno fu la voce Fotografia redatta dal veneziano Giovanni Minotto, per il  “Supplemento” al Nuovo Dizionario Universale Tecnologico[4]. Qui l’articolata presentazione delle vicende francesi e inglesi era arricchita da una aggiornatissima rassegna delle prime prove italiane, poi non considerata da altre opere enciclopediche, che adotteranno analoga impostazione ‘evoluzionistica’ delle  voci, con un alternarsi significativo di omologazioni o distinguo tra i termini dagherrotipo e fotografia[5]. Si registrava qui – tra le prime – quella linearità genealogica che divenne ben presto canonica e si sarebbe poi ripetuta con scarse varianti sino alle grandi storie del Novecento; sino a Gernsheim e Newhall: Della Porta, Wedgwood e Davy, Niépce e Daguerre, con l’aggiunta di Talbot alla voce “fotografia”. Quella che la Nuova Enciclopedia popolare italiana pubblicata a Torino nel 1859 apriva segnalando – credo per prima in Italia[6]  – lo strabiliante capitolo del Giphantie di Charles-François  Tiphaigne de la Roche (1760) in cui quella era prefigurata,  ma con un evidente refuso di datazione (“1670”). In perfetta aderenza alla natura di matrice moltiplicabile del nuovo procedimento, l’attenzione maggiore delle enciclopedie era però riservata a un’invenzione allora ritenuta di ben maggior avvenire quale l’eliografia (fotolitografia), oggetto di trattazioni ben più analitiche e di ampio respiro, che celebravano la possibilità per ciascuna immagine di “potersene con la stampa ottenere molte copie”[7]. Una prospettiva scarsamente frequentata poi dalla più parte degli storici del mezzo, ma che un secolo più tardi sarebbe stata cara all’Ando Gilardi della Storia sociale della fotografia.

Diverse erano invece le ragioni che imponevano di dedicare il capitolo di apertura dei primi manuali italiani a una sintetica narrazione delle vicende storiche: “La Fotografia è la successione pura del Dagherrotipo” dichiarava Giacomo Caneva in apertura del suo trattato del 1855[8], facendo seguire una breve disamina delle ragioni critiche su cui fondava quell’affermazione, con cui concludeva il paragrafo primo, da lui intitolato Origine e storia. Di ben altro tenore e impegno l’ampio manuale di Giuseppe Venanzio Sella, quel Plico del Fotografo edito a Torino l’anno successivo che si apriva con una ricca introduzione corredata di note, per complessive quarantanove pagine,  in cui si ripercorrevano storia e ‘preistoria’ dell’invenzione:  dalla camera oscura di Della Porta allo stereoscopio; dalle prime prove di Wedgwood alle lastre al collodio, con un’intenzione che oggi potremmo definire di consapevolezza critica del mezzo. “Da quello che precede – scriveva Sella – il lettore ha potuto conoscere in modo generale l’origine, ed i successivi progressi ed applicazioni della fotografia, ed avrà potuto convincersi che non basta una triviale conoscenza dei procedimenti pratici per possedere a fondo quest’arte incantevole.”[9] “Cenni storici sull’arte fotografica” sarebbero poi comparsi ciclicamente su periodici italiani anche non di settore, come “L’Alchimista friulano”[10] o la Rivista periodica dei Lavori dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti in Padova”[11], a firma di Luigi Borlinetto, mentre “Il Dilettante di fotografia” di Luigi Gioppi ospitò una serie di “Appunti storici” sin dal suo primo numero del 1890[12] e, dato ancor più significativo, nella seduta inaugurale della SFI Società Fotografica Italiana[13], il 26 maggio 1889, il Consigliere Ing. Arnaldo Corsi teneva una prolusione dedicata alla Storia delle origini della fotografia[14], nel cinquantenario della sua invenzione.

Per quanto ci risulta non pare che in Italia quella ricorrenza fosse particolarmente considerata dall’editoria fotografica (nessun manuale pubblicato in quell’anno, neppure in traduzione) o  dai quotidiani, né celebrata dalla comunità dei fotografi: oltre alla cerimonia di fondazione della SFI si ha notizia  solo del banchetto torinese che si tenne il 28 febbraio per iniziativa di Felice Alman, presidente dell’Unione Fotografica Italiana,  a cui presero parte quasi solo fotografi piemontesi.[15] Allo stesso episodico interesse possono essere attribuiti gli interventi di Luca Beltrami e di Luigi Gioppi sulle pagine della “Rivista scientifico-artistica di fotografia”, organo del Circolo Fotografico Lombardo, dedicati rispettivamente all’invenzione della camera oscura e alla triade degli inventori[16].

Più interessanti e mirate le scelte compiute  nel 1898 in occasione della mostra realizzata per l’Esposizione nazionale di Firenze, dove la Società fotografica di Vienna espose nella prima sala la riproduzione del “contratto preliminare fra Daguerre e Niépce, stipulato nel 1829. (…) Così sappiamo subito a quali condizioni noi venimmo alla luce; o, meglio, a quali condizioni la luce venne a noi.” [17] Negli stessi locali Brogi mostrava “una vecchia tenda per sviluppare le lastre al collodione” accanto a una “collezione di primitive macchine Daguerre” e a fotografie ‘antiche’ con vedute di Firenze e Roma presentate da Alinari e Tuminelli [sic]. “In una parola, e per concludere – scriveva Augusto Novelli –  una buona parte di questa prima sala è come un tempio dedicato alla religione del passato; religione che sentiamo tutti e le cui reliquie, se talvolta possono farci sorridere, hanno sempre diritto al nostro rispetto e alla nostra venerazione. Anzi, dirò di più; questa parte mi sembra così importante e così ben raccolta e conservata, che dovrebbe essere trasportata, fatta qualche ampliazione, alla mostra futura di Parigi. Messa colà essa direbbe chiaramente i primi cinquant’anni della vita fotografica italiana.”

Un altro “tempio”, quello del “Risorgimento Italiano” realizzato per l’Esposizione Generale Italiana di Torino nel 1884 aveva rappresentato invece l’occasione di un primo ricorso alla fotografia quale testimonianza storica, forse con valore simbolico e iconico più che documentario. In quella sede – tra gli altri cimeli –  furono esposte “Fotografie a dagherrotipo delle rovine della campagna del 1848-49”[18], verosimilmente da identificarsi con la serie di calotipie di Stefano Lecchi pubblicate da Danesi nel 1849 come “tratte dal dagherrotipo”, da cui l’errata identificazione in catalogo. Quelle vedute vennero presentate anche all’Esposizione Romana per la storia del Risorgimento dello stesso anno, nella quale accanto a ritratti e gruppi diversi compariva anche una foto di “Prigionieri in Aspromonte, gruppo eseguito nel 6 ottobre 1864”[19].  Date queste prime realizzazioni non è difficile sostenere che il tema risorgimentale sia stato uno dei primi se non il primo a sollecitare una qualche forma di interesse per la fotografia storica  (ma non per la storia della fotografia, ovvio). Di impianto più celebrativo che storico documentario fu invece la proposta di Aurelio Favara, fatta propria dalla Società Fotografica Italiana nella seduta del 13 aprile 1911, quindi presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma nello stesso anno cinquantenario dell’Unità; l’intenzione non era più quella di raccogliere ed esporre cimeli storici bensì di  dare “visione fotografica di paesaggi e città, di piazze e di edifici, di monti e di marine che furono teatro di avvenimenti e di eroismi”, da pubblicarsi in fascicoli che avrebbero dovuto costituire “il Museo fotografico di ogni scuola d’Italia”[20]; un’iniziativa che risentiva del dibattito ormai pluridecennale che accanto allo sviluppo del pittorialismo, e quasi in reazione a questo, aveva portato  anche in Italia alla nascita di raccolte, archivi e musei documentari, accompagnati da un acceso dibattito metodologico e dalle prime acquisizioni di fondi storici, considerati però esclusivamente per il loro valore referenziale[21].

 

Fino al primo dopoguerra la cultura fotografica italiana era tutta rivolta alla contemporaneità  e i pochi testi ‘storici’ pubblicati nel più importante periodico italiano dell’epoca, “La Fotografia Artistica”, “seguivano uno stesso filo conduttore. Il ritrovamento di un’idea di tradizione nella lettura evoluzionistica delle vicende fotografiche [che] si ancora saldamente al presente, fornendo certezze sugli aspetti tecnici come valori fondativi per un conseguente sviluppo del ‘sentimento estetico’ ” [22]; un’intenzione non così lontana da quella espressa da G. V. Sella esattamente mezzo secolo prima, che si tradusse qui in una serie di articoli intitolati alla Histoire de la Photographie  curati dal direttore Annibale Cominetti e tratti da periodici inglesi[23], e in un più lungo saggio pubblicato in tre parti a firma di Fanny Dalmazzo[24].  Per disporre di un primo accenno di disegno storico critico  relativo alle immagini si dovette attendere  il resoconto della grande Esposizione di Dresda del 1909 pubblicato da  Cesare Schiaparelli[25],  nel quale il noto fotografo tracciava in apertura una sintesi dell’evoluzione artistica del mezzo a partire Hill e Adamson, recentemente riscoperti[26], e le testimonianze a stampa relative al primo periodo di quella storia presentate alla Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tenne nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911[27], alcune delle quali appartenevano ad Adriano Tournon[28], ingegnere e autocromista en amateur, primo sintomo di un interesse collezionistico per i cimeli fotografici. Un’analoga retrospettiva si sarebbe tenuta ancora a Torino nel 1923, nell’ambito dell’importante Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia: L’Arte nella Fotografia, promossa dalla locale Camera di Commercio per onorare  – con notevole ritardo –  il terzo centenario della morte di Giovanni Battista Della Porta (1535-1615), una delle glorie italiche che ben poteva essere fatta propria dalla macchina propagandistica del fascismo nascente. Secondo Pia, che era stato presidente della Società Fotografica Subalpina, ed Annibale Cominetti  furono chiamati a far parte della commissione di quella mostra, presieduta da Carlo Baravalle, che con gli amici Stefano Bricarelli e Achille Bologna aveva da poco costituito il Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e che proprio in quell’anno aveva acquisito la testata milanese “Il Corriere fotografico”, trasferendola a Torino. Anche in Italia  si sentiva la necessità di riferirsi alla storia (e quindi di conoscerla) quale elemento fondamentale del processo di legittimazione culturale ricercato dalla ‘nuova fotografia’ (tra pittorialismo e modernismo), così come era già accaduto in altri paesi europei e negli USA.

 

 

Intorno al 1939: Lamberto Vitali e l’antica fotografia

 

Diversamente da quanto accadeva in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti, la cultura italiana non si misurò con la redazione di una storia generale né nazionale ed oltre  le poche opere e iniziative sopra citate, le prime prove di storiografia fotografica propriamente intesa erano rappresentate dagli scritti oggi quasi dimenticati di un fotografo come Enrico Unterveger, figlio di Giovanni Battista, che nel 1922 pubblicava sul periodico torinese “Vita fotografica italiana” un suo Contributo alla storia della fotografia in Italia con speciale riguardo al Trentino e all’ex Regno Lombardo -Veneto[29] mentre altre andavano cercate in ambiti contigui ed estremamente specialistici, come il contributo di Giuseppe Albertotti Disegni fotogenici comunicati da Fox Talbot a G.B. Amici, presentato nel 1925[30].  Ben più noti e ampiamente citati dalla successiva storiografia sono invece  gli interventi che Lamberto Vitali pubblicò dal 1935 su “Emporium”, la rivista di cui  fu direttore per un triennio sino al 1938[31], anno in cui fu costretto a lasciare a causa delle leggi razziali emanate dal governo fascista.  Al primo articolo del 1935 dedicato a Federico Faruffini fotografo[32], fecero seguito l’anno successivo Ritorno all’antica fotografia e Un primitivo della fotografia: David Octavius Hill[33], testi da intendersi in quel contesto  internazionale caratterizzato da una nuova attenzione per la storia del mezzo che segnò gli anni in prossimità del centenario dell’invenzione.   Nella loro diversità quegli scritti suggerivano una prima distinzione tipologica: dalle ricerche d’archivo alle indagini a scala locale e territoriale,  alla riflessione fenomenologica e alla monografia.

In quello  dedicato alla “antica fotografia” i soli autori italiani (o attivi in Italia) citati da Vitali erano Bettini, Marzocchini, Alinari, Bernoud e Metzger, mentre la presentazione critica della figura di D.O. Hill derivava dalla recente fortuna internazionale di questo autore e dalla  “fondamentale monografia” di Heinrich Schwarz[34], citata col dovuto rilievo insieme a numerosi altri titoli nella puntuale nota bibliografica che chiudeva l’articolo; testimonianza di un approccio metodologicamente fondato e corretto ma anche di quella sua raffinata passione collezionistica che già si era espressa in altri ambiti[35]. Hill apparteneva a quel ristretto gruppo di nomi entrati ormai a far parte di un primo empireo della storia europea della fotografia; riferimenti forse non consueti ma dati almeno per noti a un pubblico di cultura medio alta sebbene non settoriale:  magari lettori come quelli di “Domus”, la rivista di  Gio Ponti in cui il direttore aveva pubblicato il proprio  Discorso sull’arte fotografica[36] e con la quale Vitali collaborava  dal 1928. Riferimenti e attenzioni che era possibile ritrovare in altri periodici milanesi come “Fotografia” e “Natura” o nelle recensioni di Edoardo Persico su “La Casa Bella”, non senza puntuali letture critiche[37]. Era la stessa attenzione testimoniata dalle pagine scritte da Raffaele Carrieri per la “La Lettura”, la rivista mensile del “Corriere della Sera”, dedicate ai ritratti in carte-de visite, dove si trattava di quello stesso “ritorno” studiato da Vitali ma con mano più lieve: “Risorgono tutti gli album di famiglia. Prima gli antiquari compravano pendoli e porcellane, ora fotografie: Niépce, Daguerre e Talbot sono diventati già dei primitivi  [con evidente richiamo, quasi ironico, alle categorie utilizzate da Vitali]. Davy è una specie di Giotto della fotografia. Si stabiliscono date, si identificano i maestri ignoti. La fotografia fa parte delle collezioni. In America, le fotografie delle guerre d’indipendenza costano un patrimonio. Non parliamo di un originale di David Octavius Hill, o di un Nadar firmato.”[38]

In una lettera a Zannier datata 15 dicembre 1988 e pubblicata nel n.11 di “Fotologia” (1989), non a caso concepito proprio in quell’anno In onore di Lamberto Vitali[39],  il grande collezionista citava un poco disordinatamente la sua produzione bibliografica tra fotografia, incisione e pittura;  in modo non esaustivo, quasi distratto però,  fornendo (per tono e contenuto) una bella testimonianza, un interessante indizio della sua personalità  come della sua figura di studioso, non separabile se non strumentalmente da quella di collezionista. Quale primo titolo  poneva il Ritorno all’antica fotografia e non il testo su Federico Faruffini fotografo, sebbene fosse dell’anno precedente e affrontasse una questione difficile e nuova come quella del rapporto degli artisti del XIX secolo con la fotografia[40], alla quale avrebbe dedicato uno specifico contributo solo vent’anni più tardi[41]: quasi una noncuranza o forse il segno di una predilezione, di una tenuta nel tempo del testo più programmatico e ‘militante;  più  strettamente legato al modello interpretativo e storiografico assegnato alle distinte genealogie del dagherrotipo e del calotipo dai curatori di Film und Foto, l’importante rassegna di Stoccarda del 1929. L’idea di fotografia di Vitali si rivelava nell’apprezzamento per quegli autori che mostravano “espressioni appropriate al nuovo mezzo”, facendo emergere così la sua avversione radicale e radicata – tutta modernista, della Milano modernista direi – ai valori pittorici e ingenuamente simbolisti del tardo pittorialismo[42], assimilato impropriamente alla pittura di genere, ciò che ci aiuta a comprendere come fosse il tema del ‘vero’ e della sua rappresentazione a costituire il centro della sua valutazione; a giustificare una considerazione per la fotografia che fu per lungo tempo prevalentemente di tipo referenziale, documentario [43]. Fotografie come testimonianze disponibili a  una lettura quasi archeologica, modernamente fondata sul loro specifico; ciò che più caratterizzava quei suoi contributi  era però il loro impianto storico critico e il presupposto collezionistico inteso in termini di necessità di studio e di tutela di un patrimonio allora come ora sottoposto ai rischi della dispersione.

Il Ritorno cui si riferiva il titolo del 1936 registrava  in realtà il fenomeno  inedito dell’interesse – poi confermato da Carrieri – per le fotografie “antiche”, tanto che ancora poteva “sembrare a tutta prima cosa stranissima”  il fatto che queste potessero essere “oggetto proprio di studi, di ricerche, perfino di analisi critiche”. Le ragioni che muovevano Vitali erano certamente quelle di soddisfare il “desiderio di fissare la fisionomia di una società scomparsa” ma accanto a queste emergeva, del tutto nuova, la “ragione estetica, perché veramente la fotografia fu un mezzo d’espressione per i primi maestri.” I principali riferimenti, piuttosto scontati già all’epoca, erano a Hill, Le Secq e Nadar, riuniti impropriamente nella definizione di fotografi “dei primi tempi”, quelli che con fortunata formula,  poi ripresa anche da Negro,  apparivano segnati da “castità di mestiere cui naturalmente s’associa l’affettuosa, profumata castità di visione”. Era stato proprio Nadar a parlare a sua volta di “primitifs de la photographie”[44], ma  nella formulazione di Vitali  emergeva una sensibilità prossima se non debitrice del venturiano “gusto dei primitivi”, che aveva preceduto le sue riflessioni di giusto un decennio[45], e ancora  più di una eco di quella “innocence of the eye” di cui aveva parlato Ruskin[46], qui ben distinta dalla più modesta “onestà di mestiere”[47] riconosciuta ai “regolari” italiani; ulteriore e altrettanto fortunata categorizzazione, tutta compresa nell’orizzonte temporale del 1875, data che per Vitali chiudeva il “periodo aureo” della fotografia[48]. La novità di quel breve testo risiedeva, per l’Italia, proprio nella proposta di un inedito oggetto di indagine, l’antica fotografia per l’appunto, rivolta ad un pubblico probabilmente non “del tutto ignaro di vicende, termini e nomi finora sconosciuti”[49], ma certo poco avvezzo a considerare criticamente quelle immagini. Più che un abbozzo storico, l’articolo costituiva l’aggiornatissimo riconoscimento di un fenomeno culturale e storiografico (“la decisa prosperità di scritti dedicati ad un argomento in apparenza tanto profano”) letto attraverso il filtro delle posizioni critiche espresse dalla cultura modernista internazionale. Ciò risultava evidente anche nella bella chiusa in cui dichiarava che “la rinascita della fotografia poteva avvenire soltanto con un capovolgimento completo dei termini, [con] la ricerca di effetti quali soltanto l’obiettivo può dare. Ed appunto la scoperta delle facoltà visive della lente, diverse affatto da quelle dell’occhio umano, ha determinato, con l’invenzione di un nuovo mondo, la ripresa dell’ultimo tempo: ma questo è un altro discorso.”[50]

In Italia, a considerare la letteratura nota, non pare che la ricorrenza del centenario dell’invenzione avesse sollecitato studi specifici  ma solo una serie di richiami giornalistici, tra i quali merita segnalare quelli precoci di chi (tra i più attenti e informati)  individuava in Niépce l’origine del percorso definitivo, anticipando così le celebrazioni di quasi un ventennio.  Accogliendo le tesi esposte da Georges Potonnièe sulle pagine del bollettino della Société Française de Photographie [51], “Il Corriere Fotografico” e “Il Fotografo” ospitarono nel 1922 due articoli dedicati a Niépce[52], uno dei quali a firma di Enrico Unterveger, mentre nel maggio del 1927 un altro illustre figlio di fotografo, e importante fotografo a sua volta come Carlo Wulz curava per  il Civico Museo di Storia ed Arte una Mostra temporanea di fotografie di Trieste scomparsa, composta di circa trecento stampe realizzate dal padre Giuseppe e donate per l’occasione al Museo; antecedente tanto significativo quanto poco noto di iniziative culturali che prefiguravano la nascita delle fototeche civiche.  In quello stesso anno si stavano avviando i lavori per la realizzazione della Prima Esposizione nazionale di Storia della scienza, prevista a Firenze nel 1928 ma inaugurata solo l’8 maggio 1929, destinata a dimostrare “come in quasi tutti i fondamentali rami dello scibile gli italiani siano stati grandi e geniali precursori.”  A quello scopo il Commissario per la sezione fotografica Luigi Castellani diramò un invito, diffuso dalle riviste di settore, affinché chiunque possedesse “un qualche cimelio o altro materiale di importanza storica, inerente a lavori di italiani nel campo fotografico o fotomeccanico” lo volesse mettere a disposizione, e inoltre “se può darci informazioni su lavori, invenzioni, applicazioni di una certa importanza inerenti alla fotografia o alle sue applicazioni, eseguiti da Italiani, le saremmo gratissimi e di questa sua collaborazione terremo il massimo conto.”[53]   I risultati furono inferiori alle aspettative e per quanto risulta[54] la mostra ospitò sì molte fotografie documentarie ma quasi nessun cimelio, se si esclude un “daguerrotipo (1856) – il primo eseguito a scopo scientifico” del Museo di Antropologia di Firenze,  il fototeodolite progettato da Pio Paganini nel 1878 esposto nel padiglione dell’Istituto Geografico Militare e una “Mostra Alinari” con “fotografie di scienziati o di argomento scientifico, insieme ad altre di soggetto comune.”[55]

Negli anni successivi fu soprattutto l’edizione italiana di “Galleria” ad ospitare contributi storiografici di un certo rilievo, a partire da quello di Heinrich Schwarz sulla storia della camera oscura, pubblicato nel febbraio del 1933[56], che si proponeva anche come un erudito saggio di storiografia (quasi fuori luogo in quel periodico, che ne offriva una traduzione incerta) intorno alla questione della “spiritualità della scoperta” – e non dell’invenzione quindi – provandosi a definire come si fosse manifestato nei secoli quello che chiamava “il desiderio di fotografare”; prima elaborazione di quella prospettiva storico critica che avrebbe poi sviluppato  compiutamente nei suoi più importanti saggi successivi. A partire dal marzo 1938 lo stesso periodico avviava la pubblicazione di una serie di testi storici con estratti dal Trattato pratico di fotografia di Marc Antoine Gaudin,  pubblicato a Torino da  Jest nel 1845[57], mentre nel marzo 1939 comparve una anonima e breve rassegna dei Punti capitali della Storia della Fotografia,  seguita nei mesi successivi da una serie di contributi “alla storia della fotografia” firmati dal  direttore Luigi Andreis e da alcune brevi schede monografiche (Hill, Schulze ma anche Misonne), comprese in un inserto staccabile destinato a formare l’ “Enciclopedia Galleria”. Anticipando di pochi mesi l’ufficialità della ricorrenza, anche l’altro periodico torinese “Il Corriere Fotografico” celebrava il centenario con un intervento di Federico Ferrero (1938) che conteneva  una interessante presa di posizione storiografica:  “per me come per altri storici della Fotografia, il 1839 rappresenta il vero anno d’inizio, l’inizio ufficiale per così dire [poiché] in quel giorno [7 gennaio] per la prima volta al mondo si parla pubblicamente di Fotografia: da quel giorno comincia veramente la storia della Fotografia.”[58]  Dopo aver asserito – poco coerentemente – che  “il vero fondatore del moderno processo fotografico non è Daguerre (…) ma Fox Talbot” il pubblicista ricordava “la fulminea diffusione” del fenomeno a scala mondiale, lamentando infine che  nessuno in Italia  avesse pensato a celebrare degnamente il centenario. Al redattore del “Corriere” rispose Enrico Unterveger[59] con una lunga lettera nella quale confermava che “pochi studi storico-fotografici se ne vedono pubblicati in Italia, ove manca anche una pubblicazione di valore sulla storia della fotografia”; aggiungeva poi alcune precisazioni di non secondo rilievo tratte da fonti in lingua tedesca, evidentemente sconosciute al redattore torinese che aveva infarcito il proprio testo di gravi imprecisioni, e chiudeva proponendo che proprio “a Torino ove più di tutte in Italia si tiene in debito conto l’arte fotografica, si potrebbe iniziare qualcosa.” Fu ancora Unterveger (1939a), il primo e misconosciuto storico della fotografia in Italia, a fornire ulteriori contributi e approfondimenti, come quello dedicato a L’invenzione della fotografia nella stampa trentina del tempo, con riproduzioni in facsimile delle prime notizie sulla dagherrotipia pubblicate nei periodici della regione[60], da porre in relazione con la progettata “Mostra retrospettiva” che si sarebbe  inaugurata a Trento[61]. Qui dopo “una opportuna illustrazione del contributo dato dall’ingegno italiano alla grande invenzione (Leonardo, Della Porta, Beccaria) vennero esposti “pregevoli esempi (…) di procedimenti di fotografia tramontati e sorpassati”, dal collodio su vetro e su carta all’albumina, dai pigmenti al platino; alcuni esempi di tecniche fotomeccaniche (woodburytipia, fotolitografia, zincotipia), “apparati ed apparecchi dei già lontani tempi” e una sezione bibliografica che comprendeva “il primo manuale pubblicato in Italia (1856)”, cioè, verosimilmente il Plico del fotografo di G.V. Sella, e uno dei “primi periodici (1870)”, forse quella “Rivista fotografica universale” di Antonio Montagna a cui aveva collaborato anche il padre di Enrico, Giovanni Battista. Infine “dieci pubblicazioni di Enrico Unterveger su argomenti storico-fotografici.” Fu quella la sola iniziativa espositiva legata al centenario[62]; un evento a cui quasi non fecero cenno le principali testate di settore[63], con l’esclusione de “La Gazzetta della Fotografia” di Palermo sulla quale il direttore Arturo Valle scrisse un lungo articolo[64] nel quale accentuava fascisticamente il nazionalismo proprio di molta storiografia fotografica coeva. Considerando che “come tutte le grandi invenzioni anche quella della fotografia non avrebbe potuto vedere la luce senza che precedenti invenzioni e ricerche gliene avessero dato la possibilità” e inoltre essendo “indubitato che la invenzione della camera oscura è prodotto del genio italiano (…) in ultima analisi questo basta”, per rivendicare un ruolo determinante di Della Porta[65] e quindi dell’Italia in quel processo.  A Torino fu l’edizione serale de “La Stampa” [66] a ricordare La prima fotografia eseguita a Torino, riportando ampi estratti dello storico articolo del direttore della  “Gazzetta Piemontese” Felice Romani[67], pubblicato il  12 ottobre 1839, ma confondendo in parte i termini a proposito della corretta sequenza delle due riprese.  Al di là di queste imprecisioni l’iniziativa meritava di essere segnalata anche per la scelta di celebrare il centenario  ripubblicando ampi stralci di una fonte cronachistica importante, con ciò celebrando anche l’autorevolezza e la storia dello stesso periodico, essendo la “Gazzetta Piemontese” la testata da cui derivò “La Stampa” nel 1894. Di respiro internazionale e culturalmente complesso fu invece il contributo di Giuseppe Maria Lo Duca pubblicato in due parti su “Emporium”[68]; nella prima offriva un sintetico excursus con corredo di iconografia storica, tra camera obscura e lanterne magiche, individuando   “nell’evoluzione dei mezzi tecnici (…)  il rapporto che conduce alla nascita dell’arte fotografica”, ma soprattutto proponendo confronti iconografici per mostrare come esistesse uno “stile comune nella pittura di Ingres e nella fotografia di Nadar e dell’Anonimo” autore di uno dei ritratti proposti.  Mostrando tutta l’aggiornata competenza che gli derivava dalla sua recente emigrazione in Francia  Lo Duca indicava i “nomi più importanti di questa manifestazione estetica”: da Nadar a Pierson sino a Lotar, Tabard, Kérstez (di cui pubblicava una distorsione, messa in pagina accanto al notissimo ritratto della Contessa di Castiglione), Bragaglia; Bandy, Cahun, Kesting e Man Ray, all’epoca sostanzialmente sconosciuti in Italia,  e chiudeva con la trascrizione di una  sua (presunta) intervista  a Paul Valéry  fatta “in occasione del centenario di questa scoperta”[69], che  si rivelava però una rielaborazione dell’importante  discorso che il poeta aveva tenuto alla Sorbona  il 7 gennaio 1939 su richiesta della Société Française de Photographie et de cinématographie[70].

Questa sostanziale assenza di manifestazioni di rilievo nazionale, contrariamente a quanto avvenne in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, consente ora di comprendere meglio (pur senza chiamare direttamente in causa l’estetica crociana, che pure vi ebbe un ruolo) le ragioni per cui le fotografie non fossero comprese tra le “cose d’interesse artistico o storico”  tutelate dalla legge 1089 del 1939, sebbene un Regio Decreto dl 1927 avesse almeno previsto la possibilità che fossero descritte “in appositi cataloghi (…) sotto uno stesso numero (…) le fotografie, anche non riunite in volume, se costituiscono o possono costituire una serie organica sotto una stessa denominazione.”[71] Troppo lontana, addirittura estranea alla cultura accademica e della tutela l’idea che questa tipologia di immagini, che quegli oggetti potessero avere un interesse più che strumentale. Una concezione che pare aver influito nella lunga durata  anche sulla stessa nostra genealogia storiografica, sulla costruzione di una tradizione che nell’indicare le proprie origini ha celebrato i contributi di uno studioso come Vitali (che nelle proprie pubblicazioni avrebbe privilegiato le funzioni documentarie e le produzioni “irregolari”, tra arte e cronaca) relegando nell’oblio quelli di un professionista come Unterveger, più attento alla storia della pratica fotografica.

 

1949-1950 Carlo Mollino e il Messaggio dalla camera oscura

 

Primo frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu da noi il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi: Il messaggio dalla camera oscura, scritto da  Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato solo nel dopoguerra[72], costituì la prima vera sintesi prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo.  Come già in Film und Foto[73] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive  a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. La prima parte, che si apriva con “la più antica fotografia del mondo (Niépce 1822)” non essendo ancora nota la Veduta di Gras[74], era dedicata a una “Storia breve del gusto nella fotografia”, avendo come prima tavola fuori testo un ritratto femminile al dagherrotipo, splendidamente stampato su carta argentata da Vincenzo Bona, che era stato lo stampatore de “La Fotografia Artistica”, a conferma di una cura per la resa visuale e materiale delle immagini proposte che derivava da una chiara preoccupazione filologica; qualcosa a cui l’editoria fotografica non solo italiana si sarebbe dedicata solo alcuni decenni più tardi.

“Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo”, dichiarava Mollino analogamente a Lo Duca, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sull’analisi stringente dei rapporti di quella con la cultura visiva e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[75], anche Mollino (come sarà per Gernsheim e Vitali) condannava come decadente la “fotografia d’arte”, quella in cui “il fotografo (…) si butta alla razionale simulazione del quadro e della pittura”[76], sebbene poi pubblicasse alcuni tardi bromolii di Peretti Griva, la cui presenza giustificava essendo quello “tra i pochissimi dove l’atmosfera avvolgente di questa pericolosa tecnica fotografico – pittorica, qui non gratuita, giunge all’evocazione di un autentico mondo di poesia.”

 

 

Silvio Negro e la fotografia a Roma

 

Fortemente legato a Vitali ma meno interessato alle questioni critiche era Silvio Negro, che nel 1942 pubblicava uno studio dedicato a I primi fotografi romani[77] poi posto in appendice a  Seconda Roma 1850 – 1870[78] arricchito da “79 illustrazioni da documenti fotografici dell’epoca”, scelti con la collaborazione di Giovanni Scheiwiller e  Lamberto Vitali[79], ma registrati senza alcuna datazione e con rare attribuzioni all’indice. La prima ricostruzione delle vicende romane[80], e la prima italiana di tale ampiezza, prendeva avvio dalla nota di Giuseppe Gioacchino Belli nel suo Zibaldone[81] e per individuare i nomi dei primi dagherrotipisti ricorreva a fonti quali i manifesti e i fogli pubblicitari oltre che a quanto veniva esposto nelle grandi mostre internazionali, come indicava il riferimento a due dagherrotipi anonimi, “rappresentanti rispettivamente il palazzo Vaticano e la fontana di Trevi”, e ad un calotipo del Colosseo erroneamente attribuito a Prevost[82], presentati “in una mostra di incunaboli della fotografia ordinata a Nuova York alcuni anni fa.”[83]  La periodizzazione adottata, strettamente connessa allo sviluppo tecnologico come già in Vitali,  portava con sé un giudizio di valore degli esiti che le era inversamente proporzionale: “i ritratti della loro epoca hanno ai nostri occhi una pulitezza e un potere evocativo che si perdono del tutto dopo il ’75. In questo tempo ci fu realmente uno scadimento, ed esso derivò proprio dal progresso della tecnica.” Sebbene richiamasse per primo l’attenzione per il lavoro dei fotografi che lavoravano per i pittori, per i quali “la necessità di tenersi al vero ha portato ad effetti sobri e consistenti”[84], in quel testo Negro non riservava neppure una fuggevole citazione a Caneva, che forse gli era ancora sconosciuto ma a cui avrebbe  dedicato un breve saggio monografico l’anno successivo[85],  né ad altri componenti di quella che sarebbe poi stata conosciuta come Scuola fotografica romana[86], facendo coincidere la nascita del professionismo in quella città con l’età del collodio e in particolare con Antonio d’Alessandri, titolare di uno specifico profilo biografico, mentre le notizie sui fotografi attivi nel campo della documentazione del patrimonio artistico (tra i quali segnalava gli Anderson) erano tratte essenzialmente dalle guide e dall’importante Elenco (…) degli oggetti spediti dal Governo pontificio all’Esposizione di Londra del 1862.

All’iniziativa di Carlo Pietrangeli ma alla competenza di Negro “che ne fu l’anima”, si doveva la successiva Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915 [87], allestita nel 1953 “con criteri topografici e romanistici”[88] un anno dopo il trasferimento del Museo di Roma nell’attuale sede di palazzo Braschi; prima organica occasione espositiva italiana fondata sull’uso della fotografia storica quale “fonte di informazione storica e di documentazione topografica e artistica.”[89] A quello scopo venne imbastita un’impresa di enormi dimensioni: 3689 pezzi esposti, di cui soltanto cinquantaquattro riprodotti in catalogo,  ordinati per sezioni tematiche:  Storia, Arti-Lettere-Scienze, Amministrazione Civile, Topografia, Usi e costumi, Corte e Società, Moda, Vaticano, tra le quali – come già in Seconda Roma – anche una specificamente dedicata alla Storia della fotografia a Roma[90]. Si trattava infatti di documentare le trasformazioni “che subisce ogni giorno la nostra città e la scomparsa di ambienti, di usi, di costumi e di modi di vita che si verifica continuamente sotto i nostri occhi e che ancor più avvenne nei tempi passati e specialmente nel periodo della trasformazione urbanistica e della febbre edilizia tra il 1870 e il 1885.”  Roma nella fotografia quindi, più che la fotografia a Roma, con uno scarto allora forse non avvertibile e un atteggiamento analogo a quello che sarà del Vitali studioso delle immagini risorgimentali, nonostante il testo di Negro in catalogo[91], che costituiva sin dal titolo (I primi fotografi romani) una ripresa esplicita di quanto da lui pubblicato alcuni anni prima, con poche ma significative aggiunte. Tra queste la più rilevante era rappresentata dalla ‘scoperta’ delle prime opere di Caneva ( “il fotografo locale di cui si è trovata finora la più antica documentazione datata o databile […] un pittore”), però non ancora posta in relazione con quello sviluppo del genere “dei modelli vivi ed elementi di paesaggio da servire al pittore nello studio” già precocemente individuato come proprio della produzione romana nel saggio precedente.  Il regesto delle opere in mostra indicava il titolo, cioè l’identificazione del soggetto, qualche volta l’autore e sempre la provenienza (alcuni enti pubblici e molte collezioni private), mentre solo raramente era riportata l’indicazione della tecnica e mai quella delle misure. Pur con questi che oggi riconosciamo come rilevanti limiti  metodologici, certamente connessi anche all’intenzione – propria di Negro e dei suoi collaboratori – di fare storia con la fotografia piuttosto che una storia della stessa, la mostra e il catalogo costituivano la prima organica occasione di misurarsi con la fotografia considerandola almeno un prezioso documento storico. Nella misura in cui si interessavano anche agli autori di quei documenti e alle loro condizioni di lavoro essa rappresentava però anche un momento determinante nella formazione  della storiografia fotografica italiana, soprattutto considerando che l’imponente insieme di opere esposte dimostrava che “l’Ottocento ha, fra i moltissimi suoi meriti, anche quello di aver creato un’estetica fotografica, una sua particolare ‘logica’ delle immagini meccanicamente riprodotte”, come rilevava il notista de “La Stampa”[92].

Il desiderio di illustrare più compiutamente le immagini utilizzate in quella occasione portò alla pubblicazione nel febbraio 1956 di  Album romano[93],  che di quella mostra fu il “catalogo postumo”. Il testo di Negro costituiva una ulteriore rielaborazione di quanto pubblicato nelle due occasioni precedenti; testimonianza di un inesauribile work in progress che ne riconfermava impianto e obiettivi, mirati prevalentemente alla ricostruzione per immagini del quadro storico (ciò che portava anche ad arbitrari tagli delle riprese originali, come nel caso di Primoli) ma con precisazioni e notazioni critiche che risultano oggi, e per ragioni diverse, sorprendenti. Mi riferisco al giudizio sprezzante riservato a “Jacopo Caneva (…) questo pittore (…) che ha fornito risultati senza rilievo anche colla camera oscura”, a cui preferiva gli anonimi calotipisti che “per nobiltà di taglio e capacità evocativa dell’ambiente si lasciano indietro di molte lunghezze il paesaggista veneto”[94] o – per converso – al precoce riconoscimento dell’opera di Giuseppe Primoli, che per lo studioso costituiva “la più vistosa eccezione [alla] scarsa vocazione locale per l’istantanea”, rendendolo “l’unico fotografo di alto livello che abbia mai avuto Roma”[95]. Un giudizio che appariva in lampante contraddizione con l’opinione, ribadita nelle stesse pagine, che “l’epoca dei mezzi e delle attrezzature rudimentali fosse anche l’epoca d’oro della camera oscura”; una valutazione critica che certo avrà pesato sulla successiva scelta di Vitali di accogliere il suggerimento di Giulio Bollati per aprire proprio con il volume dedicato a Primoli la sua collaborazione su temi fotografici con Einaudi, maturata negli stessi mesi in cui Lucilla Negro stava tentando di portare a termine il lavoro di riordino dell’archivio della Fondazione Primoli[96], interrotto nel 1959 dalla morte del marito. La pubblicazione dell’Album riscosse notevole successo così  sui quotidiani come sulla stampa specializzata e il “Corriere Fotografico” gli dedicò un’ampia recensione, riproducendo ben otto fotografie, la metà essendo di Giuseppe Primoli, e segnalando come “il pittoresco quadro della vita di Roma”[97] che ne risultava oltre a costituire una “eloquente documentazione dei fasti e più ancora dei nefasti della trasformazione urbanistica subìta dalla Città Eterna dopo il 1870” fosse integrato dalle precise indicazioni descrittive a proposito di ciascuna delle immagini pubblicate[98].  Era anche quello il segno della diffusione, per quanto embrionale, di un fenomeno culturale che all’interesse per la fotografia storica e per la storia della fotografia  come parte della storia di una città affiancava una consapevolezza nuova, che  ne riconosceva il valore autonomo di formazione culturale, tanto che la necessità di una precisa coscienza e conoscenza storica dei fatti e delle culture fotografiche era in quegli anni fortemente sentita anche dai fotografi più attenti: si pensi al programma di iniziative del Centro per la cultura nella fotografia di Fermo, voluto da Luigi Crocenzi  nel 1954 ma attivo dal  1956, che tra le “sezioni di studio” comprendeva “Storia della fotografia” e “studi storici”, ma anche “Letteratura e fotografia”, “Cinema e fotografia” e “Fotografia e arti figurative”[99]; il tutto destinato a favorire lo “studio approfondito della storia delle idee e delle poetiche che hanno condizionato la creazione di opere che sarebbe opportuno studiare per comprenderne i valori e per acquisirle come ‘classici’ della fotografia.”[100]

Ancora Lamberto Vitali

 

Il ruolo pionieristico svolto da Vitali[101] per il riconoscimento e la valorizzazione del patrimonio fotografico storico italiano divenne ancor più rilevante quando,  nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957, promosse la mostra dedicata a  Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[102] a  soli due anni dalla pubblicazione di The History of Photography[103],  anche  con la speranza di poter creare in città un Museo nazionale della fotografia presso la stessa sede[104].  Nella Prefazione al catalogo i coniugi Gernsheim riconoscevano criticamente un nesso significativo tra il nostro neorealismo e la storia della fotografia, ricordando come “negli ultimi anni la fotografia e la cinematografia italiane hanno riportato il mondo a una interpretazione realistica della vita, lontana dalle romanticherie e dalla finzione. In ciò può essere visto un ritorno alla documentazione onesta e immediata della metà dell’Ottocento che ebbe una breve rinascita nei reportages [sic] di alcuni fotografi tedeschi, francesi ed americani fra il 1920 e il 1940”[105]. Si auguravano perciò che l’iniziativa potesse servire anche a promuovere la conoscenza della storia della fotografia italiana, di cui citavano quale unico antecedente di rilievo la mostra romana del 1953[106], esponendo comunque alcuni esemplari di autori attivi in Italia nel corso del XIX secolo tratti dalla loro collezione: James Anderson, Luigi Bardi (ma Leopoldo Alinari), Robert Macpherson[107], Antonio Perini, Carlo Ponti e un “Ignoto” napoletano attivo intorno al 1865, accanto a alcune tavole della monumentale opera dedicata alla Basilica di San Marco dall’editore Ferdinando Ongania[108].

Accanto a questi comparivano gli autori compresi nell’inedita sezione dedicata alla Antica fotografia italiana curata da Vitali, “precoce conoscitore del patrimonio culturale della fotografia”[109] nel nostro paese, formata da circa ottanta fototipi provenienti da musei e collezioni private (Marino Parenti e Silvio Negro tra gli altri).  L’occasione e il momento consentirono di delineare in prima approssimazione le caratteristiche di una storia della fotografia liberata da ogni vincolo referenziale, fondata sulla “minuziosa competenza e il rigore critico” del curatore quanto sulla consapevolezza che “la storia della fotografia italiana ancora deve essere scritta, né essa potrà esserlo se non quando saranno compiute quelle ricerche, che il passare del tempo e la dispersione e la distruzione di un materiale fragile e apparentemente di poco conto rendono purtroppo sempre più difficili.”[110] Nonostante questi dichiarati limiti conoscitivi, Vitali ritenne di poter esprimere un giudizio severo a proposito della vicenda italiana, che “non ebbe operatori dalla personalità, per esempio, dello stesso Hill o di Nadar (…) anche se in Italia si ripeté la vicenda di pittori scoraggiati (il Faruffini) o falliti (il Caneva), che nella fotografia cercarono una fonte di guadagno più sicuro, bisogna riconoscere che si trattò essenzialmente di un artigianato, che tuttavia diede frutti assai saporiti.” Il testo proseguiva specificando le  motivazioni non tanto dell’iniziativa in sé (“doverosa appendice alla mostra della collezione Gernsheim”) quanto dell’impostazione e della selezione delle opere, certo condizionate dalle conoscenze e dalle disponibilità di collezioni pubbliche e private ma anche dalla capacità di individuare criticamente alcuni punti nodali di quella storia: “È naturale che in un Paese come il nostro, ricco di testimonianze preziose dell’antica arte, i professionisti (…) si dedicassero soprattutto, anche per ragioni di opportunità commerciale, alla documentazione di monumenti e opere d’arte [realizzando] serie notevolissime, oggi doppiamente preziose per le trasformazioni rabbiose subite dalle città italiane nel corso degli ultimi cent’anni. Naturalmente questa non fu la sola attività dei fotografi nostrani, non tutti professionisti (…) Accanto alla fotografia di paesaggi e di architetture, prosperò quella di ritratti, forse aiutata dagli entusiasmi per la riconquistata unità e per i suoi eroi (…). Ma accanto a vedute di città (…)  si è voluto attirare l’attenzione su quelli che si possono definire gli incunaboli del reportage fotografico. In una civiltà come la nostra, nella quale l’elemento visivo acquista ogni giorno più peso, anche se a scapito di ben altri valori, simili esempi, oltre alla loro importanza di documenti storici, acquistano un particolare sapore.  Ed il giorno, che speriamo non lontano, in cui la personalità dei fratelli conti Primoli, Giuseppe e Luigi, ma soprattutto di Giuseppe troverà il suo illustratore, ci si accorgerà quale ‘poeta della vita del popolo’ e quale ‘avvertitissimo fotografo giornalista’  – per ripetere le parole di Silvio Negro – fosse quest’ultimo: il fotografo forse più originale e più vivo che in cent’anni abbia dato l’Italia, certo quello più vicino al nostro gusto.” [111]

Un augurio che assume, letto oggi, il senso di un auspicio e di una promessa e che rendeva ragione delle molte immagini di tema risorgimentale e delle ricchissime sequenze (circa settanta fotografie) che componevano i reportage di Primoli, cui Vitali avrebbe dedicato la prima importante monografia nel 1968[112]. Questo brevissimo testo, che si riallacciava idealmente sin dal titolo (Antica fotografia italiana) al contributo del 1936,  non poteva né voleva essere quella prima sintesi storiografica (delineata semmai dagli esemplari in mostra) di cui si sentiva ormai l’esigenza e che invece prese forma più articolata, per quanto ancora necessariamente sintetica nel testo redatto dallo stesso Vitali[113]  per l’edizione italiana di The Picture History of Photography di Peter Pollack [114], tradotta tempestivamente  da Garzanti sulla scia del successo della mostra alla XI Triennale. Una grande opera di oltre 600 pagine, dedicata “a Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim”, strutturata in modo molto discutibile[115] sulla presentazione di un ristretto numero di “grandi autori” considerati quali figure emblematiche e qui arricchita di un capitolo dedicato alla Fotografia italiana dell’Ottocento, ricco di quarantasette riproduzioni in parte corrispondenti a quelle già utilizzate nel 1957. Qui lo studioso milanese ribadiva la propria interpretazione della “storia della fotografia italiana dell’Ottocento (…) soprattutto [come] la storia di un artigianato anziché quella di singoli artisti (…) Si aggiunga che in Italia il campo d’azione era in un certo senso già segnato e delimitato (…) così i fotografi ebbero la maggior fonte di guadagno proprio dai fogli di vedute e dalla riproduzione di opere d’arte (…) Ma si trattava di un compito che richiedeva una precisione obiettiva e scrupolosa senza permettere quasi un’interpretazione personale della realtà.” Nel tracciare il profilo delle vicende italiane inevitabili emergevano i debiti, e quindi i limiti di una ricostruzione ancora prevalentemente fondata su una rete di rapporti personali tra collezionisti[116], sebbene il quadro che ne risultava considerasse ormai – e per la prima volta – tutto il territorio nazionale: così tra le più antiche testimonianze comparivano  Duroni e Stefano Stampa a Milano accanto ai dagherrotipi di Girault de Prangey (in collezione Gernsheim, di cui non pubblicava alcuna immagine); Giacomo Caneva, lo pseudo Augusto Agricola[117] e il vero Luigi Sacchi “un altro dei nomi che compare con onore fra i primitivi della fotografia italiana [che] ha lasciato una serie di grandissime fotografie (…) che sono fra le più belle che si conoscano, e perché è suo uno dei più vecchi nostri esempi di reportage fotografico, quello del ponte di Magenta dopo la battaglia del 1859.” Per i decenni successivi la ricostruzione storiografica adottava la ben nota distinzione tra “regolari”, tra i quali collocava i professionisti stranieri attivi in Italia, e “irregolari”, cioè “i dilettanti, non legati ad una formula destinata a rivelare presto la sua meccanica uniformità [che] ebbero certamente un’idea della fotografia che si avvicina alla nostra quando colsero aspetti apparentemente minori della vita del loro tempo con una schiettezza e talvolta un’audacia di visione e di tagli sconosciute ai professionisti.”[118] Che il giudizio fosse quello del critico piuttosto che dello storico lo rivelava  proprio  il richiamo a una sensibilità riconosciuta come moderna[119], quella stessa che gli faceva privilegiare la linea documentaristica del reportage che a partire da Lecchi conduceva a Giuseppe Primoli, “un uomo che nessuno aveva preso sul serio e che tutt’al più era tenuto con compatimento per maniaco”, a proposito del quale Vitali riproponeva letteralmente il giudizio encomiastico già espresso nel 1957. Quella posizione critica non poteva che implicare il rifiuto della “cosiddetta fotografia artistica”, tenuta ben distinta dalla fotografia dei pittori, a cui per primo aveva dedicato le sue cure col breve saggio su Faruffini del 1935 e qui ripresa a proposito dei rapporti tra De Gori e Signorini. L’avversione al pittorialismo e alla sua genealogia (analoga, credo, a quella per la pittura accademica e di storia), quella stessa che lo aveva portato nel 1957 a chiedere ai  Gernsheim  – senza successo – di escludere la Cameron ed Emerson dalla selezione per l’XI Triennale, individuava nei “nuovi procedimenti di stampa e [nella] pratica del detestabile ritocco” le caratteristiche principali di quella “disgraziata tendenza, che aveva tutti i favori dei sedicenti competenti, tanto la maniera dei ‘primitivi’ sembrava superata; gli esempi qui riprodotti del milanese Giovanni Battista Silo [ma  H.P. Robinson[120]] e del piemontese Guido Rey (…) mostrano come ormai si fosse lontani dalle nettezze del dagherrotipo e dalle mediocri virtù della carte de visite, e quale eredità in questo clima provinciale si andasse preparando ai fotografi del secolo successivo.” Un giudizio che confermava la condivisione delle posizione critiche moderniste ancora a trent’anni di distanza[121], ma che contemporaneamente si distanziava e quasi si contrapponeva a quello di Heinrich Schwarz, a cui come sappiamo Vitali aveva guardato con grande interesse, che nella mostra da lui curata nel 1928, Die Kunst in der Photographie, aveva tracciato una genealogia che comprendeva anche Robinson. Oggi, quando a partire anche dal magistero di Vitali le nostre competenze storiche si sono fatte più ampie e strutturate, oltre a comprendere meglio quella sua avversione contestualizzandola, potremmo forse tornare a condividere in parte quel giudizio, ma per altre ragioni. Ora siamo consapevoli che la breve stagione pittorialista (e non la sua lunga, lentissima agonia salonistica e concorsuale, che ha avuto altre ragioni e significati) costituì uno snodo fondamentale per la formazione di una specifica cultura e produsse opere anche di altissimo livello, a cui corrispose però una sconfortante riflessione estetica, fatta di poco consapevole riproposizione di riflessioni, tesi e argomenti già ampiamente presenti negli anni intorno alla metà del XIX secolo e ormai consunti. Senza aggiungere elementi veramente significativi, senza sentirsi addosso l’alito incombente della tragedia e poi della modernità.

Per Vitali il 1960 fu l’anno de La fotografia e i pittori, pubblicato in estratto nella Biblioteca degli Eruditi e dei Bibliofili di Sansoni[122], anello cronologico di congiunzione tra quella Fotografia italiana dell’Ottocento compresa nella Storia di Pollack e la trilogia einaudiana. A partire dalle ricerche svolte per la pubblicazione del Diario di Delacroix[123], Vitali riprendeva – pur nella brevità del testo – alcuni temi già affrontati nel primo saggio dedicato a Faruffini  per illustrare la funzione di ‘regista’ svolta da Telemaco Signorini nella realizzazione delle fotografie di Giulio de Gori e, più in generale, l’interesse anche strumentale dell’artista nei confronti della fotografia[124]. Nella lettura critica di questo breve intervento Paolo Costantini avrebbe poi riconosciuto il “ritorno a una questione grande, calata tutta nell’analisi del documento (…) Qui, ancora una volta, Vitali dimostra la volontà di rimanere vicino e aderente all’opera e insieme di muoversi con sicurezza in un terreno affatto indagato, intorno al quale non esisteva alcun comune consenso su cosa significasse fare critica, né su cosa si volesse prendere a oggetto di storia.”[125] Notazione affettuosa ma anche eccessivamente generosa, poiché se era vero che quei temi e quelle posizioni critiche erano ancora tabù per molta critica d’arte non solo nostrana, va ricordato che l’argomento era stato da poco affrontato da Jean Adhémar in una mostra da lui curata per il Cabinet des Estampes della Bibliothèque Nationale di Parigi, in cui veniva per la prima volta presentato “un insieme di opere molto varie, di epoche molto diverse che fa emergere i legami, le connessioni e le opposizioni fra la fotografia e la pittura”[126] e che sempre nel 1955 era comparso sulle pagine di “Fotografia” un articolo di Heinrich Schwarz[127] nel quale si sintetizzavano i contenuti di un suo importante intervento sui rapporti tra arte e fotografia[128]. Il tema sarebbe stato ripreso poco dopo in una lunga, importante intervista di Piero Racanicchi a Carlo Ludovico Ragghianti[129], al quale si doveva anche la riscoperta delle fotodinamiche dei Bragaglia, dovuta al fortuito ritrovamento nel catalogo della libreria antiquaria torinese Bottega d’Erasmo del numero de “La Fotografia Artistica” del maggio 1913 che ospitava l’articolo di Edoardo di Sambuy loro dedicato[130], da lui ampiamente chiosato nel proprio saggio per “sele arte”[131]; una fonte allora insostituibile essendo quasi “impossibile venire in possesso [dell’] introvabilissimo” volume originale di Fotodinamismo futurista prima della sua riedizione[132].

 

 

1967-1978

 

 

Il posto dell’Italia nelle storie generali

 

Il 1960 fu l’anno in cui venne dato alle stampe il primo tentativo italiano (quasi dimenticato) di redigere una ‘storia’ della fotografia di tipo manualistico o almeno, come modestamente ammetteva l’autore, un suo “facile compendio”. La Società Editrice Internazionale di Torino, di proprietà della Congregazione Salesiana, con forte indirizzo pedagogico e scolastico, pubblicava Il miracolo della fotografia di Giuseppe Enrie, fotografo ben noto almeno in Piemonte e più in generale in ambito religioso per essere stato il secondo in ordine di tempo a riprendere ufficialmente la Sindone in quello stesso 1931 in cui partecipava con alcune sue interessanti opere all’edizione torinese della Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista[133]. Quel testo, per il quale non ci sentiamo di condividere il giudizio di Zannier che lo ha considerato un “rigoroso manuale”[134], era caratterizzato da una narrazione prevalentemente tecnico aneddotica, forse redatta per larga parte ben prima della sua pubblicazione come sembrava suggerire la sistematica italianizzazione dei nomi stranieri e la mancata citazione di Pollack  tra “gli autori stranieri che lo precedettero”, ai quali rendeva omaggio pur con qualche refuso e qualche dimenticanza: “al grande storico della fotografia Joseph Maria Eder, al Potonnié, a Raymond Lecuyer, a Erich Stenger, al Newhall, al Gernsheim ed agli italiani Gioppi, Bettini, Santoponte, Rodolfo Namias, Enrico Unterveger ed altri, dai cui scritti raccolsi come l’ape dai molti fiori.”  Questi, di fatto, i soli nomi italiani citati nel compendio, che non comprendeva Vitali né Negro, mentre l’apparato illustrativo presentava opere di Alinari e di un buon numero di ritrattisti (Sorgato, Brogi, Schemboche, D’Alessandri, Bernieri, Bolletti e Verri, Montabone, Sebastianutti & Benque, Ecclesia) ma riproducendo solo il verso delle carte de visite: indizio certo di un embrione di collezionismo. Accanto a questi autori ottocenteschi comparivano due delle opere presentate alla Mostra Futurista, comprese nel capitolo dedicato a Trucchi e fotomontaggi, e una piccola antologia di immagini di Sella, Rey, Massaglia, Sommariva, Bertoglio, Bricarelli, Peretti Griva e del fratello Angelo Enrie, prevalentemente tratte (ma senza dichiararne l’origine) dalle pagine degli annuari “Luci ed Ombre”[135] editi tra il 1923 e il 1934. Nonostante questi limiti l’opera presentava più di un motivo di interesse quali la conferma ‘poetica’ della distinzione tra dagherrotipia e fotografia[136]; l’accenno a temi di sociologia della fotografia quali la diffusione delle carte de visite;  le pratiche fotomeccaniche ed anche i rapporti fra fotografia e letteratura. Certo non era, e non voleva essere “uno storico trattato”, di cui non possedeva né l’impostazione né la cura filologica nella presentazione dei materiali e delle opere, ma certamente era l’indizio, anche editoriale, di una prima considerazione per questi temi in un ambito diverso da quello  del pubblico colto e del collezionismo erudito. Un’opera per certi versi da collocare accanto a un’iniziativa di tutt’altro genere e risonanza (e chissà se maggiore) come la pubblicazione nel 1966 delle sei figurine Liebig dedicate alla Storia della Fotografia (La camera oscura; Gli esperimenti del dottor Schultze; Le Eliografie di Nicéphore Niépce; La stereoscopia; Una preziosa alleata del giornalismo; Le più recenti conquiste)[137], mentre sulle pagine del “Notiziario” del Museo nazionale del Cinema di Torino Maria Adriana Prolo avviava la pubblicazione di fonti per la storia della fotografia italiana, sistematizzando notizie e dati raccolti in un quarto di secolo di amorevoli ricerche sulla storia del cinema muto italiano[138].

 

Anche la traduzione italiana di A Concise History of Photography[139] dei coniugi Gernsheim venne pubblicata nel 1966 da Adelphi sotto il marchio Frassinelli; il volume conservava l’impostazione dell’opera maggiore, suddivisa in due  parti ancora poco integrate tra loro: “L’evoluzione tecnica della fotografia” e “I risultati artistici della fotografia”. Intenzione evidente era quella di superare i modelli storiografici di impianto tecnologico senza spingersi però sino a proporre una autonoma  storia delle immagini e dei loro usi, articolata per problemi, come aveva iniziato a fare Newhall. Quale fosse la ‘posizione’ dei curatori  rispetto al fare storia risultava esplicitamente da un’intervista raccolta da Angelo Schwarz nel 1977 nella quale il grande collezionista affermava  con orgoglio di  non essere “stato guidato da una metodologia storica, assolutamente, non ne avevo bisogno. Quando uno ha tra le mani cento immagini della Cameron o i famosi tre album di Lewis Carrol, ha tra le mani la vita.”[140]  Per Ando Gilardi quell’opera era “largamente derivata da quella meravigliosa di Eder (…). Di originale, nel libro dei Gernsheim, si trova specialmente quanto può essere vantaggioso per accrescere la loro collezione di fossili e cimeli della fotografia, non solo in quanto tali, ovvero oggetti curiosi, ma opere d’arte: la qual cosa accade inevitabilmente quando i ruderi sono delle immagini.”[141] Sebbene – come in Newhall – si potessero riscontrare  un’eccessiva propensione per la produzione anglosassone[142] e  certe posizioni critiche oggi discutibili come la condanna assoluta del fenomeno pittorialista, il ruolo svolto dall’opera dei Gernsheim è stato rilevante specialmente nei confronti del panorama italiano essendo rimasta per almeno un ventennio, sino alla traduzione einaudiana di quella di Newhall,  l’opera più nota in Italia. Dopo la mostra milanese del 1957 e il volume di Pollack la storia della fotografia italiana si era conquistato un piccolo spazio nella narrazione generale delle sue vicende, ma nella Storia dei coniugi Gernsheim non si faceva che un cenno indiretto all’utilizzazione del dagherrotipo nell’ambito della ritrattistica[143], mentre più ampi erano i riferimenti alla documentazione architettonica: venivano ricordate le riprese italiane di  Girault de Prangey e quelle realizzate per Alexander John Ellis da Achille Morelli e Lorenzo Suscipi, considerati autori delle “più antiche fotografie d’Italia giunte sino a noi”, e soprattutto la meraviglia di John Ruskin a Venezia, di cui si citavano ampi stralci della nota lettera al padre.[144] Ancora all’ambito della documentazione del patrimonio storico erano riferibili gli altri autori attivi in Italia citati nel volume: da Eugène Piot a Robert MacPherson[145], segnalato come “uno dei più importanti fotografi di architetture del diciannovesimo secolo”, mentre il solo “che poteva reggere il confronto” con questi era ritenuto James Anderson, non a caso ben rappresentato nella collezione dell’autore[146]. Brevi citazioni erano riservate anche a Luigi Sacchi, Antonio Perini, Carlo Ponti e naturalmente agli Alinari, sciogliendo implicitamente l’equivoco attributivo della mostra del 1957, determinato dal fatto che “tutte le loro fotografie più antiche e più belle del 1854-1855 (…) portano stampigliato il nome di Bardi, cosa questa che portò naturalmente ad attribuirle a lui.” A questi si aggiungevano Giacomo Caneva, membro del “piccolo circolo di fotografi animato dal conte Flacheron”, Vittorio Sella col padre Giuseppe [Venanzio], “autore tra l’altro, del primo manuale generale di fotografia pubblicato in Italia”. Di Giuseppe Primoli si proponeva invece un interessante accostamento a Jacques Henri Lartigue (poi accolto anche da Daniela Palazzoli nella sua monografia del 1979), entrambi compresi da Gernsheim nel novero di quelle centinaia di “fotografi dilettanti, totalmente indifferenti alle esposizioni e alle accademie, [che] si servirono della macchina fotografica per istinto come del mezzo più appropriato per rappresentare i vari aspetti della vita in modo diretto e obiettivo, senza sentire il bisogno di manifesti che illustrassero le finalità ultime della fotografia.”

Alle tempestive traduzioni dei volumi di Pollack e  Gernsheim  fecero  seguito le prime proposte sistematiche di una nuova generazione di autori italiani, a volte fotografi essi stessi come Ando Gilardi e Italo  Zannier, o Renzo Chini, che nel discutere questioni di linguaggio fotografico[147] forniva anche alcuni elementi di storia. In ambito fotografico Chini  fu tra i primi in Italia a confrontarsi con le posizioni di Roland Barthes, da poco tradotto, in un contributo compreso nel sessantunesimo fascicolo monografico de “I problemi di Ulisse”, dedicato a Cento anni di fotografia[148], pubblicato nel novembre del 1967 in occasione del ventennale del periodico.  Le ragioni della pubblicazione erano indicate nella premessa di Maria Luisa Astaldi, che riconosceva alla fotografia il ruolo di “progenitrice e base di ogni tipo di riproduzione, che ormai si estende dal giornale e dal libro al cinema e alla televisione”, ma anche “in considerazione del fatto che ricorrono oggi cento anni dacché fu scoperta”; affermazione di per sé incomprensibile e contraddetta dalla stessa precisa Cronologia essenziale posta in appendice al fascicolo. Prescindendo da questo, l’insieme dei brevi saggi costituiva certamente il primo autorevole contributo italiano a una riflessione complessiva sul ruolo della fotografia nella società e nella cultura contemporanee, sino ad allora oggetto di scarsi e scarni interventi giornalistici, qui affidato a intellettuali di grande levatura: da Mario Praz a Cesare Brandi, Gillo Dorfles, Emilio Servadio, Mario Spinella ed altri. Nel generale intento di considerare i diversi aspetti del fenomeno risiedeva forse la ragione della scarsa e un poco eccentrica presenza di studiosi provenienti dall’area fotografica vera e propria (Chini, Ando Gilardi, Piero Berengo Gardin)[149] e l’altrettanto ridotta presenza di storici italiani: assenti Negro e Vitali come i più giovani Bertelli, Racanicchi o Zannier, il saggio di apertura venne affidato proprio a Gernsheim, seguito da un contributo di Jean Keim, entrambi però circoscritti al tema delle possibilità artistiche della fotografia[150]. Le questioni storiche e storiografiche risultavano quindi nominalmente assenti da quella ricognizione ad ampio raggio, sebbene ampi e significativi riferimenti e riflessioni fossero comprese nella maggior parte dei saggi ed Emilio Servadio, all’epoca presidente della Società Psicoanalitica Italiana, affrontasse i comportamenti di chi fotografa[151] a partire dalle analogie utilizzate da Freud ne L’Interpretazione dei sogni; quelle stesse a cui avrebbe fatto ricorso circa dieci anni più tardi Giulio Bollati a proposito di “fotografia e storia”[152].

Si doveva invece a un “bravo giornalista e cronista di nera” come Wladimiro Settimelli – così lo avrebbe un poco velenosamente definito Angelo Schwarz  – la Storia avventurosa della fotografia[153] pubblicata nel 1969 con un anno di ritardo rispetto ai programmi editoriali.  L’autore ne  proponeva una ricostruzione dichiaratamente soggettiva e parziale, con esplicita esclusione delle vicende italiane per le quali riteneva “necessario un ulteriore lavoro  di ricerca”; ciò che avrebbe dato i suoi  discutibili frutti alcuni anni dopo. Il lavoro, costruito avendo in mente il “modello di letteratura popolare: il feuilleton”[154], assunse l’andamento di una sequenza di avvenimenti piuttosto che di immagini, adottando il tono e i titoli propri dei rotocalchi “popolari” (“Daguerre il furbo scende per le strade”, “Carta all’albume: una strage di uova”, per citarne alcuni) nella convinzione – errata – di essere utilmente provocatorio e didascalico; volendo proporsi come popolare ma essendo invece populista, inanellando perciò una serie ininterrotta di colpi di scena che toglievano interesse anche alle parti più ricche ed innovative, quali il capitolo dedicato a “Guerra – Rivoluzioni e repressioni”, certamente una novità importante nell’ambito della storiografia disponibile in Italia. Quella Storia avventurosa  fu il solo riferimento bibliografico italiano citato da Zannier (1974) nel dare alle stampe una versione notevolmente ampliata della sua Breve storia della fotografia del 1962,  che era stata il suo primo contributo storiografico in volume. La  versione ampliata  confermava una definizione del mezzo  quale “prodotto di due diverse esperienze scientifiche, l’una nel settore dell’ottica (…) l’altra in quello della chimica”, che avevano consentito alla luce di “disegnare” “l’apparenza delle cose”. Adottando un andamento cronologico che riprendeva il modello di Newhall, Zannier procedeva per temi caratterizzanti (“Nasce un’industria” ma anche – più interessante – “Nasce un linguaggio”) secondo una trama evoluzionistica che si svolgeva senza soluzioni di continuità dalla “Preistoria” alla “Panoramica contemporanea”, a partire dalla considerazione fondamentale che “la fotografia, con tutte le prerogative che questo linguaggio ha nella civiltà contemporanea, nasce in definitiva con Talbot.”  Scorrendo quelle pagine si comprendeva bene come i sintetici cenni alle vicende italiane non potevano ancora essere l’esito di fondate considerazioni storico critiche ma, più empiricamente, il frutto di una insufficiente conoscenza generale del patrimonio fotografico complessivo e delle relative fonti primarie, surrogato dal ricorso sistematico a informazioni ricavate dalle poche storie generali allora disponibili (Lécuyer, Newhall, Gernsheim, Pollack, l’edizione americana di Eder), senza ricorrere agli studi di Unterveger o  di Negro, pur brevemente richiamati nel testo. Così Alessandro Duroni risultava il solo dagherrotipista citato e poco più che elencate erano le “oleografiche astrazioni architettoniche” di Alinari e Brogi o le “romantiche vedute romane” di MacPherson e di Anderson, già molto apprezzate da Gernsheim. Escludendo Primoli, trattato sulla scorta degli interventi di Piero Racanicchi e della recente monografia di Vitali, il resto si riduceva a poco più che un’elencazioni di nomi, determinando accostamenti che apparivano motivati da superficiali analogie formali, come nel caso di Faruffini, Rey e Peretti Griva, mentre uno spazio ampio era dedicato alla fotografia futurista: dai Bragaglia al Manifesto di Marinetti e Tato, pubblicato integralmente, dimostrando una per noi rara considerazione per l’edizione delle fonti.

Ancor meno fortuna ebbero le vicende nostrane in un’altra Breve storia, quella di Jean-Alphonse Keim[155], che citava solo di sfuggita pochissimi nomi,  tra i quali il solito Anton Giulio Bragaglia, presentato come “fotografo [che] tenta talvolta di servirsi dello sfocato [sic] per ottenere un effetto di velocità.”  Quando venne pubblicata la traduzione della sua Histoire, Keim era noto da noi per la sua collaborazione a “I problemi di Ulisse”[156] e per la pubblicazione di un interessante contributo sulle pagine di “Popular Photography Italiana” in cui aveva posto, seppure in modo necessariamente poco articolato, alcune questioni nodali e inedite per il panorama italiano: “Che cosa si deve intendere con ‘storia della fotografia’? E come affrontarne un’elaborazione? (…) Due appunti si impongono immediatamente, che paiono evidenti agli storici di mestiere, ma che spesso sono stati dimenticati da autori di diversa formazione. Comunque si affronti la storia della fotografia, essa si è sviluppata nel quadro della storia generale, della quale fa parte pur se essa ne viene molto spesso esclusa. Essa non può dunque venir studiata utilmente che posta nel contesto del momento, dei movimenti politici, economici e sociali dell’epoca.” [157]

Considerazioni indiscutibili ma di fatto prive di conseguenze visibili in quella Breve storia, arricchita da un’appendice sulla fotografia italiana firmata da Settimelli con una soluzione analoga a quella adottata per il volume di Pollack di quasi vent’anni prima. Il testo, redatto in origine per una collana di divulgazione, apriva infatti con questa imbarazzante definizione: “La fotografia è essenzialmente un’immagine del mondo ottenuta senza che l’uomo vi svolga un’azione diretta” e chiudeva coerentemente (cento pagine dopo) ricordando che “la fotografia si è allargata: non vi è più soltanto la luce a riprodurre il reale. I raggi fuori dallo spettro visivo (…) impressionano nuove superfici sensibili.”[158] Nel mezzo, una narrazione per schemi canonici (dalla preistoria al colore) che ricalcava la struttura utilizzata da Gernsheim, adottandone a volte anche i titoli di capitolo o di paragrafo, e forniva una sintetica sequenza di figure e vicende da cui era escluso non solo ogni riferimento più che generico “alla storia generale” ma anche qualsivoglia presa di posizione critica da parte dell’autore, che tendeva così ad oggettivare il contenuto del proprio discorso.

Di ben diversa impostazione e impegno la Storia sociale della fotografia di Ando Gilardi[159] che Feltrinelli pubblicava nel 1976, della quale merita richiamare l’impatto che ebbe sulla cultura fotografica italiana, sebbene proprio le sue caratteristiche critiche e narrative (strutturali e testuali) la rendessero un prodotto culturale difficile da ‘maneggiare’, cioè da considerare e utilizzare secondo le consuete convenzioni della storiografia[160].   Il volume costituiva lo sviluppo e la sistematizzazione di ricerche già comparse  su alcune riviste italiane come “Ferrania”, “Popular Photography Italiana” e in particolare “ Photo 13” ma – come ha ricordato l’autore nella premessa alla seconda edizione (2000)  – l’opera venne scritta “nell’estate del 1976, pressato dall’Editore (…) appena in tempo per essere pubblicata come libro strenna per il Natale. Questo significò che non ebbi il tempo per modificarne due o tre volte la forma della scrittura, com’era mia nevrotica abitudine[161]. Com’era perché oggi so con assoluta certezza che quando viene riveduta e corretta la forma peggiora.”  Pochi allora si accorsero che la sua copertina costituiva un’immagine a chiave e non una semplice figura antologica, essendo una citazione di quella del n. 140 di “Popular Photography Italiana” (maggio 1969), il più gilardiano dei numeri di quel periodico,  dedicato al Calendimaggio della fotografia e al Primo Incontro Nazionale di Fotografia che si era tenuto a Verbania dal 31 maggio al 2 giugno di quello stesso anno[162]. Una inequivocabile scelta militante quindi; una presa di posizione fondata su di un assunto critico determinante e innovativo, e non solo per l’asfittico panorama italiano dell’epoca: “La fotografia (…) ha un secolo e mezzo, ma con essa da tempo si producono in un giorno qualunque più immagini di quante non ne sono state realizzate con tutti gli altri mezzi nella storia dell’uomo”; per questo la fotografia doveva essere considerata “l’ultimo dei procedimenti per fabbricare figure, il quale aggiunge alle proprie le possibilità di tutti gli altri”. Si trattava allora di affrontare le questioni poste dalla fotografia in quanto fenomeno di massa, considerandone gli aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi per insistere sulla comunicazione piuttosto che sulla produzione, abbandonando di fatto ogni prospettiva autoriale e estetica -ma anche linguistica – per affrontare piuttosto i nodi inestricabili che avevano legato storicamente produzione e consumo di questa “polvere iconica indistinta” determinata dalla moltiplicazione fotomeccanica di cui lo stesso Gilardi fu appassionato cuoco bulimico. Posizione non inedita, anzi patrimonio comune di molta cultura di secondo Ottocento, riconoscibile in molte voci enciclopediche o negli scritti di autori quali Paolo Mantegazza e Domenico Vallino[163] per limitarsi all’Italia, ma qui declinata avendo ben presenti Mac Luhan (“la galassia Niépce”) e Benjamin, a cui dedicava una bella voce del Dizionario in appendice al volume (“Linke Melancholie”). Accanto a questi numi tutelari si poteva riconoscere qualcosa di più che una traccia, una consonanza politica e culturale neppure troppo sotterranea con l’antiautoritarismo del decennio che si stava amaramente chiudendo. L’attenzione per l’iconografia delle figure sociali e culturali marginali (per la cultura, non solo materiale delle classi popolari) ed emarginate (dal delinquente lombrosiano all’alienato) si legava alle riflessioni filosofiche e politiche nate dal lavoro sulle istituzioni totali (da Basaglia a Goffmann, Laing e Foucault) nell’interpretare quelle immagini e le pratiche da cui derivavano come espressione di una società classista che intendeva la fotografia anche come strumento di controllo sociale.  Secondo quella interpretazione i processi fotomeccanici, e non la fotografia in quanto tale (come voleva il titolo) costituirono l’esito di un processo (per Gilardi un progresso) di affinamento delle tecniche di moltiplicazione dell’immagine che aveva portato  alla comunicazione di massa.

Anche la struttura del testo risultava innovativa, con andamento tematico più che cronologico, dove il titolo di ciascun capitolo costituiva – come in Settimelli – una sintesi icastica del contenuto (“Quell’industria sognata da Niépce poi chiamata la fotomeccanica”; “Il foto ritratto: dall’atelier alla galera, dallo schedario al computer”) strutturato su tre narrazioni parallele (testo/ immagini/ ampie didascalie), che fornivano suggestioni e percorsi di lettura poco praticati allora e dopo. Si veda a titolo di esempio l’analisi della serie di Figurine Liebig già ricordate, corredate da una nota che mettendo a confronto disegno, fotografia e fotoincisione costituiva a sua volta una sineddoche dell’intero impianto storiografico. Il solo dato mancante in quella lunga, virtuosistica didascalia era proprio la data di emissione (1966), e anche questa assenza costituiva un elemento caratterizzante del lavoro di Gilardi. Non che le date fossero sistematicamente assenti, né che si potesse sostenere che solo sul loro trattamento si dovesse fondare la valutazione di quell’opera, ma questa lacuna era significativa e più che interessante. Ciò che mancava clamorosamente a quella Storia era proprio un metodo storico ovvero, ancor più semplicemente, l’adesione minima alle regole della correttezza delle informazioni fattuali e della verificabilità delle fonti mediata dalla citazione archivistica o bibliografica. Adottando la distinzione semantica della lingua inglese potremmo dire che qui si trattava di Story e non di History; quello che veniva proposto  era un racconto fortemente personalizzato, una narrazione pura (ma non arbitraria né – quasi mai – d’invenzione)[164]. Riprendendo una sua stessa, recente definizione (cui si sarebbe di certo fieramente opposto) potremmo dire che Gilardi è stato un caso tipico di “storico borghese (…) uno scrittore che scrive romanzi, ma crede o vuol far credere di essere uno scienziato”[165]. Il suo interesse prevalente era rivolto ai processi e agli ambiti, agli uomini di scienza e di varia cultura, meno ai fotografi; poiché le immagini citate (e poveramente riprodotte) erano da intendersi come esempi  e tipi e non come realizzazioni emblematiche: da qui il disinteresse quasi assoluto per i loro autori.  Era proprio nel continuo richiamo al ruolo centrale delle tecniche, in particolare quelle fotomeccaniche, alla sociologia dell’industrializzazione dell’immagine in termini di produzione e, in misura minore, di ricezione che risiedevano la novità e  l’interesse di quel lavoro, accanto alla considerazione, allora altrettanto inedita, per le pratiche ‘culturalmente’ marginali ma socialmente e politicamente più rilevanti: le schedature operate da medici legali, psichiatri e polizia[166], la fotografia pornografica e quella anonima; prestando sempre una grande attenzione (più affabulatoria che analitica)  alle loro relazioni con l’immaginario e l’iconografia di tradizione ‘popolare’.

In quella prospettiva evoluzionistica e sociale in cui lo sguardo si spostava necessariamente dalla fotografia, intesa come forma specifica per quanto diversificata di raccontare il mondo, all’universo generale delle immagini, non mancavano prese di posizione critiche allora certo non comprese ovvero considerate bizzarre. Basti pensare alla determinante riflessione sui fondamenti tecnologici (“avevamo sempre sospettato – come dirlo? – che la prima fotografia doveva essere il primo negativo, e non gli strani oggetti corrosi dagli acidi e dalla ruggine che vengono abitualmente proposti come tale, e che nessuno si azzarda a definire positivo o negativo”[167]) o alla posizione controcorrente espressa in merito alla fotografia artistica: “Da inqualificabili storiografie e critiche fotografiche improvvisate e correnti, le immagini del genere sono catalogate come ‘pittorialiste’ e addirittura decadenti e sono considerate non il massimo sforzo di ricerca prima di tutto tecnica sperimentale, ma come libera scelta fra varie possibili soluzioni espressive (…) Incredibilmente le storie della fotografia parlano di quella dell’Ottocento dimenticando che è stata prodotta con macchine e materiali che erano essi stessi medesimi quasi sempre sperimentali e alla sperimentazione costringevano anche chi non voleva.” Ancor più rilevanti alcune proposte di studio, come quella  su uno dei “maggiori consumi fotografici di massa del nostro paese (…) relativo all’uso che ha fatto il fascismo della fotografia per la promozione del consenso al regime”, a cui dedicava un’importante voce del suo Dizionario, con puntuali indicazioni di ricerca ancora oggi scarsamente frequentate, come quella sul “fotoamatorismo come attività organizzata del tempo libero” o  “all’impiego dell’immagine meccanica per l’organizzazione e la promozione del consenso”, riconoscendone l’elevata qualità al di là di ogni preconcetto ideologico.

Il volume conteneva anche un imponente Dizionario degli antichi termini, miti e personaggi dell’immagine ottica, di ben cento pagine, che si rifaceva alla tipologia di lunga tradizione dei dizionari, glossari e prontuari tecnici presenti in ogni buon manuale ottocentesco, mutandone però radicalmente il senso proprio nella scelta dei lemmi così come nelle caratteristiche di una scrittura barbaramente immaginifica, che rinunciava volentieri – come in tutti i suoi scritti del resto – alla correttezza filologica o storica a favore della fascinazione affabulatoria (si veda l’esempio ricordato da Tempesti  del lemma Acqua di Javelle al posto del più ordinario e comprensibile Candeggina). Completavano gli apparati una “Biblioteca del fotografo dell’Ottocento”, che si proponeva di integrare la ricca bibliografia prodotta da Buguet e Gioppi[168] nel 1892, estendendola sino all’anno 1900, e una più sintetica “Biblioteca moderna”.

Data la sua posizione critica e l’impostazione del volume che da quella coerentemente derivava, sarebbe stato difficile attendersi dalla Storia sociale di Gilardi, un riferimento sistematico alle vicende italiane e ai nostri autori,  fossero questi Stefano Lecchi o l’amato Francesco Negri, alla cui prima monografia aveva pur collaborato nel 1969, ma di cui non si peritava di fornire dati tecnici errati in merito ad alcuni singolari materiali sensibili da quello utilizzati[169]. Lui era più interessato ai processi che agli autori; alle caratteristiche generali dei fenomeni piuttosto che alle loro manifestazioni nazionali o locali, ricordando semmai figure minori o minime (come Rebughi – Candiani e C. di Brescia o Arrighi di Portoferraio, sconosciuto allo stesso Becchetti[170]) ma funzionali al proprio discorso. In questo contesto andava inteso quindi solo in parte come un’eccezione il capitolo quattordicesimo[171], tutto dedicato all’ideologia del “socialismo fotografico” espressa dalla Società Fotografica Italiana e dal suo primo presidente Paolo Mantegazza, che produsse alcuni dei “documenti fondamentali per mettere a fuoco (è il caso di dirlo) la questione sociale della fotografia alla fine dell’Ottocento, e non solo nel nostro, ma qual è in tutti i paesi industriali.”  Analoghe furono le ragioni per collocare numerosi esempi di fotografia ‘sociale’ (briganti, criminali politici e comuni, soggetti lombrosiani in genere) nell’ambito del successivo capitolo dedicato al ritratto, uno dei più efficaci argomenti di ricerca e divulgazione di Gilardi, a cui due anni più tardi avrebbe dedicato una monografia.[172] Altre importanti suggestioni riguardavano poi un ambito che da sempre aveva connessioni profonde con le vicende italiane, vale a dire “l’accoglienza da parte della Chiesa, romana specialmente ma poi delle organizzazioni religiose nell’insieme, del nuovo mezzo  di produzione delle immagini, ovvero dei procedimenti fotografici”, a partire dal commento al testo del gesuita Pietro Antonacci, scritto nel 1847 “per comodo delle Missioni straniere”[173].

  

 

Dizionari ed enciclopedie

 

Alla fotografia dedicavano un rinnovato interesse, e uno spazio maggiore,  anche le varie opere di consultazione che si andavano pubblicando in quel periodo. Nel quarto volume dell’Enciclopedia Europea edita da Garzanti la redazione della voce specifica venne affidata a Oscar F. Ghedina[174], prolifico autore di manualistica, il quale  le diede – coerentemente – una impostazione evoluzionistica su base tecnicistica ma facendola precedere da una sintetica sezione dedicata alla Nascita ed evoluzione del mezzo fotografico,  strutturata diacronicamente per coppie  di categorie o concetti ma sorprendentemente inficiata da strafalcioni tecnologici, ben esemplificati dalla descrizione della “lastra di peltro spalmata con una sospensione bituminosa di sali d’argento” di cui si sarebbe servito Niépce. Da questo quadro incerto  emergeva però qualche suggestione culturalmente più aggiornata, quale la lettura della diffusione del ritratto come fenomeno connesso alla “ascesa sociale e [al] desiderio di affermazione mondana dei nuovi ceti benestanti”, che riecheggiava le tesi di Gisèle Freund, pubblicate in Italia l’anno precedente su sollecitazione di Bertelli[175]. L’edizione italiana della notissima “The Focal Encyclopedia of Photography” (1969) venne pubblicata dalla Fabbri Editori a dieci anni di distanza, rivista e aggiornata da Maurizio Capobussi, come “Enciclopedia pratica per fotografare”; destinata al grande pubblico dei fotoamatori, con una tiratura iniziale di 100.000 copie ben presto cresciuta a 160.000. Ciò che distingueva nettamente quella edizione era la presenza in ciascun fascicolo di inserti dedicati ai più interessanti autori italiani contemporanei curati da Quintavalle, al quale si doveva anche la corposa introduzione ai volumi, in cui delineava un “territorio della fotografia (…) ampio quanto la nostra cultura”[176]. Le finalità eminentemente pratiche dell’opera e la scelta di individuare “un sistema letto orizzontalmente, cioè tutto contemporaneo” portarono al rifiuto del “modello arcaico delle figure-guida, dei capolavori fotografici” ma anche alla ridotta presenza di elementi di storia nelle quasi 2.700 pagine complessive, che pure contenevano una voce non banale dedicata al Pittorialismo[177], né comparivano altro che nell’introduzione riproduzioni di fotografie storiche, essendo le voci corredate di efficaci, didascalici disegni. Con una qualche realistica ragione i curatori originari avevano ritenuto che la storia  non rientrasse tra i principali ambiti di interesse di chi si dedicava alla “Amatoriale, fotografia”,  di coloro cioè che “praticando un mestiere o una professione qualsiasi, occupano una parte del loro tempo libero con la fotografia”[178]. Per colmare questa lacuna si ritenne indispensabile “fornire al pubblico italiano una enciclopedia della tecnica fotografica e della sua storia”: per colmare “un vuoto che è anche il vuoto della cultura dell’idealismo, il vuoto dell’arte contrapposta alla tecnica (…) per dare a lui ed a tutti coloro che vogliono concretamente sperimentare e ricercare, uno spazio diverso, una differente dignità culturale”[179]. Lodevole intenzione che non si tradusse però in una radicale revisone del’impianto originario né teneva sufficiente conto del fatto che  alla “storiografia fotografica” era dedicata una specifica voce, verosimilmente non apprezzata da Quintavalle per la sua impostazione, datosi che vi si affermava perentoriamente che “lo scopo principale delle storiografo fotografico è quello di trattare l’evoluzione tecnica. Oltre a ciò deve menzionare gli uomini che impiegarono le tecniche e i risultati da questi raggiunti. La storia della fotografia è infatti anche la storia di fotografi e fotografie.”[180] La concezione qui espressa da Andor Kraszna-Krausz, fondatore della Focal Press e curatore dell’edizione originale, certo piuttosto distante dalle più recenti riflessioni storiografiche, si rifletteva chiaramente nella struttura e nel trattamento generale dei temi di storia, che trovavano spazi concreti di sviluppo specialmente nelle voci tecniche e non in quelle dedicate ai ‘generi’ o agli ambiti di applicazione: quelli che meglio avrebbero consentito una presentazione storico critica culturalmente aggiornata. Nonostante questi limiti l’intento di offrire alcuni primi elementi di orientamento al pubblico fotoamatoriale fu certo positivo, specie considerando che gli strumenti sino ad allora disponibili erano di livello incommensurabilmente inferiore. Basti considerare a questo proposito una pubblicazione come la “Enciclopedia generale della fotografia” delle Edizioni AFHA Italia di Milano, che nel primo volume conteneva un breve testo anonimo che raccoglieva Aneddoti sulla Storia della fotografia, illustrato con disegni al tratto di sapore incongruamente e involontariamente ottocentesco. Un contributo che non merita neppure di essere commentato  ma che costituiva  – accanto alla voce curata da Ghedina per Garzanti – un buon  indicatore di quale potesse essere  considerato il livello minimo di conoscenze nell’Italia degli anni Sessanta – Settanta, prima che si avviasse anche da noi una prima e più attrezzata riflessione generale su questi temi.

Anche Cesco Ciapanna, noto editore di manualistica e della rivista “Fotografare”, pubblicava un Dizionario della fotografia[181] prevalentemente tecnico, nel quale però “non potevano mancare i nomi dei personaggi che hanno contribuito a creare la storia della fotografia, o con le loro ricerche, o con le loro immagini”;  dove per “ricerche” si dovevano implicitamente intendere quelle fotochimiche o tecnologiche, datosi che risultavano mancanti  le voci dedicate a Gernsheim o a Newhall, del quale Zanichelli aveva tradotto in italiano il saggio sulle origini della fotografia[182],  e lo stesso Josef Maria Eder era ricordato principalmente quale scopritore “dell’azione indurente del cromo e dei cromati sulla gelatina.” Sorte non migliore toccava agli studiosi italiani, mancando ogni riferimento a Negro, Vitali, Gilardi o Miraglia, mentre a Zannier, “critico fotografico e fotografo”, era dedicata una voce piuttosto esauriente, con ampi riferimenti bibliografici. Altrettanto lacunosa risultava la serie delle voci dedicate ad autori storici della fotografia italiana[183], tanto che lo stesso Zannier nel recensire il volume indicava come “in una prossima edizione [fosse] opportuno integrare l’elenco dei fotografi, specie dell’800, in parte mancanti, perlomeno quelli italiani.”[184] Analoghe lacune connotavano la più recente edizione de La nuova enciclopedia dell’arte edita da Garzanti nel 1986, per la quale le voci specifiche furono redatte da Enzo Minervini e Roberta Valtorta. Nell’accurata recensione critica che ne diede Renzo Chini poneva però un problema diverso, derivato dalla difficoltà di “segmentare la cultura fotografica per riferirne in modo organico in una enciclopedia dell’arte”[185], certo un problema  comune a questa tipologia di opere, ma ne segnalava anche alcuni limiti di impianto poiché “le voci specifiche non inquadrano abbastanza i fotografi presentati” essendo “impostate in modo alquanto pregiudiziale secondo il principio che solamente il genere della fotografia creativa è creativo”, mentre “il fatto che sorprende di più è l’assenza della voce fotografia, nel testo e nel dizionario dei termini in appendice.”[186]

 

 

Storie italiane: Archivi, fondi, raccolte 

 

Nel 1967 venne pubblicato un numero monografico di “Imago – Proposte per una nuova immagine”, l’innovativo house organ  della Bassoli Fotoincisioni di Milano[187],  che conteneva “un piccolo Museo del Risorgimento in miniatura che è al tempo stesso un piccolo Museo delle origini della Fotografia in Italia”[188], utilizzando parte dei materiali presenti nella mostra Immagini del Risorgimento, prodotta dal CIFe nel 1967[189]. Nella sezione intitolata La fotografia arte diabolica  Settimelli[190] citava una serie di documenti che testimoniavano come “voler fissare immagini effimere fosse un’offesa a Dio”, poste  a commento della riproduzione anastatica dell’Editto cardinalizio del 28 novembre 1861 che vietava la detenzione non dichiarata di apparecchi fotografici, ben noto agli storici della fotografia a Roma. Quel documento venne poi pubblicato anche da Gilardi che ne dava però un’interpretazione diversa, connessa a questioni poliziesche[191] più che ecclesiastiche, tanto da polemizzare indirettamente (anche) con l’amico Settimelli: “si legge in alcune storie fotografiche di una opposizione, addirittura, che l’organizzazione religiosa avrebbe mosso, nell’Ottocento, all’immagine fotografica accusandola di diavoleria. Non esiste affermazione più infondata e sciocca di questa.”

Lo stesso Settimelli avrebbe di lì a poco raccontato La fotografia italiana in appendice al volume di Keim[192], dichiarando in apertura che “c’è ancora molto da indagare, qui da noi, sulla fotografia intesa soprattutto come fenomeno con spiccatissime caratteristiche sociali”.  A  quell’intenzione corrispondevano una serie di dichiarazioni velleitariamente  ‘controculturali’ (“il ruolo rivoluzionario dell’immagine ottica”, la fotografia come strumento per “negare al potere la possibilità di ‘interpretare’ la realtà a proprio uso e consumo” e simili), per certi versi comprensibili nel clima di quegli anni sebbene poco consone a un giornalista di una testata ortodossa come “L’Unità”; prese di posizione che già all’epoca dovevano apparire come espressioni di una rozza superficialità ammantata di pretese politiche, incommensurabilmente lontana – solo per fare un esempio cronologicamente prossimo – dalle raffinate interpretazioni di Bourdieu, ben note in Italia per essere state pubblicate da Guaraldi nel 1972[193]. A queste sembrava comunque riferirsi polemicamente Settimelli nel criticare “i sociologi, gli specialisti in scienze umane e persino gli stessi studiosi marxisti [che] continuano ad avere, con la fotografia, un tipo di approccio poco rigoroso  (…) Si rinuncia così – e questa può essere la sola logica spiegazione – ad utilizzare il lavoro di alcune centinaia di colti e bravi fotografi italiani dell’Ottocento.”[194] Il testo che seguiva, che sarebbe stato difficile definire sistematico, pescava a piene mani dall’ancora scarsa pubblicistica precedente – per altro mai citata – e si segnalava soprattutto per la scarsa accuratezza delle informazioni fornite[195], a cui non riusciva a fare da contrappeso l’estensione dell’arco temporale sino agli anni  Cinquanta, come di lì a poco avrebbe fatto anche Zannier con un contributo specificamente dedicato al nostro Novecento[196].

Gli evidenti limiti della storiografia italiana di quegli anni si nutrivano di elementi diversi: da un lato l’assenza totale, quasi ingenua, di preoccupazioni metodologiche di ricerca e di elaborazione, sostituite nei casi migliori da una verve militante che soffriva però ancora troppo della formazione giornalistica degli autori; dall’altro una cronica carenza di dati, di materiali e di fonti disponibili per lo studio e l’indagine, a cui si tentava di porre rimedio con iniziative diverse per intenzioni e impegno, sebbene non scarse. Così accanto alle ricognizioni locali e territoriali, sovente però di stampo revivalistico, si assisteva a uno sviluppo per noi inedito di monografie, sia nella forma di articoli o allegati monografici ai periodici, in particolare “Popular Photography”,  sia in quella più impegnativa del saggio autonomo o del catalogo di mostra, a loro volta legati a una prima preoccupazione conservativa per il patrimonio fotografico storico che si manifestava con programmi e interventi anche a livello centrale.

Tra il 1968 e il 1970 la Fototeca della Ferrania – 3M Italia aveva acquisito, con la cura di Roberto Spampinato,  gli archivi di Ghitta Carell, di Elio Luxardo e di Attilio Badodi[197], mentre nel 1971 si costituiva come organismo separato l’Archivio fotografico del Comune di Roma, diretto da Lucia Cavazzi, e due anni dopo il Ministero per la Pubblica Istruzione emanava l’importante notifica di vincolo – la prima di tal genere in Italia –  dei negativi costituenti l’Archivio Alinari, avanzata dal Soprintendente alle Gallerie di Firenze il 7 aprile e firmato dal Ministro Salvatore Valitutti il 18 giugno successivo[198]; atto che costituiva la conclusione – che crediamo inattesa – della proposta di vendita allo Stato fatta dallo stabilimento fiorentino di tutto il proprio archivio in bianco e nero, in previsione di convertirsi “nel ramo del colore.” L’offerta non venne accolta poiché la cifra richiesta era “assolutamente al di sopra di ogni ragionevole previsione di spesa e, a parere dello scrivente, sproporzionata al valore effettivo della collezione, per quanto esso sia veramente ingente”, ma l’impossibilità di un’intesa suggeriva a Carlo Bertelli, di applicare lo strumento della notifica, “nel caso in cui vi fosse una concreta minaccia di dispersione”, anche se, avvertiva, “non si sa se la legge consentirebbe di estendere la notifica alle lastre fotografiche (in tal caso sarebbe allora assai più urgente notificare quanto è rimasto degli archivi Reali e Sansoni, che sono stati quasi interamente acquistati dalla Frick Library di New York).” [199]  La difficoltà di tutelare ex lege il patrimonio fotografico rendeva ancora più significative e rilevanti alcune iniziative del 1975: a livello statale, la costituzione dell’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e  dell’ING – Istituto nazionale per la Grafica e la Fotografia (questa la denominazione completa, dal 2014 modificata in ICG – Istituto Centrale per la Grafica), nel quale confluirono il Gabinetto nazionale delle Stampe e la Calcografia Nazionale, quali organismi del neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, e la nascita a Parma, del Centro Studi e Museo della Fotografia, poi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione[200], voluto da  Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università, che avviò una innovativa politica di acquisizione e tutela degli archivi (o parte di essi)  di studi e autori italiani: da Orlandini e Villani a Bruno Stefani, promuovendo importanti mostre di Ugo Mulas, Nino Migliori, Luigi Ghirri e Mario Giacomelli.[201]

Fu lo stesso Quintavalle a firmare nel 1978 l’introduzione al volume dedicato a un altro, sommerso e negletto patrimonio archivistico, quello delle famiglie italiane.  La mostra L’Italia nel cassetto[202] che si tenne alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nei primi mesi del 1978 prendeva le mosse dal programma televisivo Album: fotografie dell’Italia di ieri, curato da Piero Berengo Gardin e Virgilio Tosi con la collaborazione di Iole Sabbadini e contributi filmati di Raffaele Andreassi.  L’esposizione, strutturata in diverse sezioni tematiche[203], si presentava quasi come  una storia per immagini della nazione,  frutto di una raccolta pubblica che mirava alla costituzione di un archivio fotografico, così che i materiali raccolti vennero riprodotti e ristampati tutti nello stesso formato, quindi filmati e – appunto – presentati nel corso di sedici puntate su RAI2 a partire dal 26 aprile 1977.  I problemi metodologici e critici di quell’operazione vennero affrontati in apertura di catalogo da Quintavalle[204], offrendo al grande pubblico una serie di ‘istruzioni per l’uso’, a partire dal fatto che le poche centinaia di immagini presentate in mostra non potevano corrispondere né alla totalità di quelle inviate né di quelle selezionate per la trasmissione, sulle quali, inevitabilmente, Berengo Gardin e Tosi erano intervenuti con modalità diverse: dalla lettura del singolo esemplare con movimenti di macchina in truka all’ordinamento in una nuova sequenza temporale o spaziale. Non solo: la scelta di lavorare su riproduzioni uniformi cancellava ogni caratteristica originale dei materiali, riducendone ulteriormente il valore documentario, qui sottoposto a un doppio e distinto ordine di trascrizione per la mostra e per il catalogo. Quella assunzione di consapevolezza critica, da trasmettere e condividere col visitatore e col lettore, si accompagnava alla verifica delle possibili opzioni che sarebbero potute derivare da un diverso processo operativo, quello della conservazione degli originali: l’analisi dei differenti “codici della fotografia” presenti in quei materiali ma anche “l’organizzazione storica di una rassegna della fotografia in Italia”. Operazione allora “sostanzialmente impossibile” per ammissione stessa dell’autore, perché “debbono passare ancora molti anni di indagine (e di scoperta) dei materiali, e la nostra cultura su questo particolare modello di trascrizione (la foto appunto) deve diventare molto più acuta e soprattutto deve conoscere ben di più di quanto, oggi, ci è dato conoscere della produzione fotografica nel nostro paese.” Scartata quindi l’ipotesi di una restituzione storica, restava aperta la prospettiva sociologica “e, al meglio, antropologica dei fatti, cioè delle immagini proposte”; non quindi delle fotografie. Ne derivava la necessità di comprendere o almeno ipotizzare i criteri e le censure operate a monte dalle stesse persone che raccolsero l’invito, per provarsi poi – in sede critica – a suggerire alcuni problemi di comprensione della cultura visiva che quelle stesse fotografie esprimevano. Muovendosi lungo percorsi e ipotesi da sempre centrali nel lavoro storico critico di Quintavalle, si trattava di far emergere le relazioni non esplicitate con l’universo del visivo: dai generi pittorici, all’illustrazione e alla grafica, nella consapevolezza che “la sociologia dell’immagine comunque passa, o dovrà passare, per meglio dire, anche dall’analisi del senso che le immagini stesse assumono grazie al modello della loro trascrizione. La scrittura infatti è il modello attraverso il quale le immagini ‘sono’ e la scrittura è la loro materialità.”[205]

Posizioni critiche molto diverse, dovute a una differente formazione piuttosto che alla distanza temporale, erano state espresse da Tullio Seppilli giusto un decennio prima in apertura del catalogo della mostra L’evoluzione della famiglia italiana in cento anni di fotografia[206],  che lo vedeva tra i curatori. L’antropologo aveva infatti parlato di “immagine fotografica” e non di fotografia, considerandola la “registrazione di una realtà (…) un’operazione (e il suo risultato) attraverso la quale a partire da una determinata realtà viene prodotta una sorta di ‘impronta’ o di ‘matrice’, stabilmente capace di provocare nell’osservatore una immagine percettiva (visiva, acustica) analoga a quella che egli avrebbe direttamente ricevuto dalla realtà stessa trovandosi al posto dell’apparecchio registratore.” [207] I debiti con la prima semiologia francese risultavano evidenti, piegati però a una specie di ‘ingenuità’ fenomenologica che riduceva il concetto barthesiano di messaggio senza codice a un meccanicismo positivista, essenzialmente tecnologico, (“la immagine fotografica non rinvia a un significato mentale ma direttamente alla realtà”) da cui sembrava escluso qualsivoglia elemento di connotazione culturale e linguistica, sebbene Seppilli riconoscesse poi che “l’impiego della fotografia può tuttavia comportare una codifica di significati mentali, e perciò il ricorso a un ‘linguaggio’, dando luogo a un vero ‘messaggio’ e quindi a un processo di comunicazione in senso stretto”[208], circoscritto però alla sola, esplicita e consapevole intenzione dell’operatore. Per Roberta Valtorta, che aveva dedicato a quelle due esperienze la propria tesi di laurea[209], si era tentata la “strada del censimento fotografico realizzato grazie alla diretta collaborazione dei cittadini e delle famiglie attuato attraverso i mass media”, utilizzando la fotografia “come strumento per cercare nel passato l’identità presente del paese, indagata con intenzioni democratiche nel suo tessuto sociale grazie alla partecipazione dei protagonisti stessi”, con un’intenzione di fondo che non poteva dirsi quindi altro che politica, sebbene sottintendesse anche quel “recupero di sapore revivalistico dell’immagine fotografica di utilizzo popolare” che avrebbe avuto proprio in quel decennio un primo considerevole sviluppo.

Le nostre prime e più estese ricognizioni del patrimonio fotografico non furono quindi di tipo storico ma antropologico e sociologico[210], perfettamente coerenti con i profili intellettuali dei curatori (da Gilardi a Seppilli), poco interessati o propensi a una riflessione sul linguaggio e orientati per converso ad una utilizzazione in termini strettamente referenziali (da qui le avvertenze di Quintavalle)  come testimonianza delle condizioni di vita delle diverse classi sociali lungo circa un secolo.  Certo contro le stesse intenzioni e aspettative dei curatori quelle realizzazioni costituirono di fatto l’antecedente e il modello di una sterminata serie di nostalgiche esposizioni locali, solo di rado condotte con criteri e obiettivi scientifici, anche quando originavano ed erano animate da intenzioni positive, come la ricerca condotta dai soci del Fotocineclub di Fermo che portò alla pubblicazione del volume Fermo, …ieri (1969) così recensito da Gilardi sulle pagine di “Popular Photography”: “io sono profondamente convinto che il fatto che dei soci di un circolo fotografico italiano si occupino di una ricerca storica (…) è storico davvero (…) è  serio e, per quel che mi riguarda, rappresenta una svolta nella storia patria dell’immagine ottica. (…) Il senso dei discorsi ‘antipecora’ di Verbania era anche, forse soprattutto questo.”[211] Più interessato a comprendere il senso generale di quel genere di operazioni, e lucidamente critico,  fu Franco Fortini, che offrì una lettura diametralmente opposta del fenomeno: “Oltre la moda, non l’intento di avvicinare bensì quello di distanziare mi pare dominante. È come pubblicare l’epistolario dei nonni. Portare a conoscenza storica, si dice. In verità: sbarazzarsi (…) volersi separare da un ieri ancora troppo vicino.” Le ragioni profonde di questo inconscio atteggiamento collettivo risiedevano “nel mezzo fotografico: saldato alle sue origini, alla causale della sua nascita, che è naturalistica, scientistica, verista, lassù nell’Ottocento. E fintanto che noi viviamo in una società dell’immagine (…) ogni nostro sforzo per liberarci di quell’ottica (e del suo inverso, simbolistico e magari surrealista) equivale a liberarci da quell’eccesso di vicinanza e di parentela (…). Quella illusione ci incolla addosso le generazioni fotografate, nell’album o nella cornice della credenza. Ricoverandole nell’ospizio della cultura istituzionale, nella esposizione e nel museo, crediamo di poter essere nuovi, di dimenticare il ‘caro estinto’ ”.[212]

 

Carlo Bertelli, “Popular Photography” e la fotografia storica

 

Anche l’Enciclopedia del Novecento, pubblicata nel 1978,  conteneva la voce Fotografia,   redatta da Carlo Bertelli, nella quale  lo studioso ne restituiva il percorso collocandolo criticamente nel solco generale della storia della produzione e della ricezione (i modi e i codici) delle immagini; ponendo l’accento sulla industrializzazione delle tecniche e dei prodotti  e sulla conseguente “moltiplicazione dei produttori [che] si ripete negli avvertimenti estetici impartiti dalle riviste specializzate”. Accanto a quel fenomeno collocava la scoperta e l’accettazione dell’imprevisto che avevano aperto le porte all’affermarsi della fotografia quale strumento di esplorazione e di narrazione soggettiva del mondo, contribuendo così alla riconsiderazione critica e al riconoscimento del valore storico della fotografia pittorialista (a cui l’anno successivo sarebbe stata dedicata la prima mostra italiana[213]), qui intesa quale momento di rottura con la concezione documentaria ottocentesca e come anello di congiunzione e avvio dell’avventura modernista. In quella prospettiva attenta alla fotografia come elemento costitutivo della modernità, poco spazio era concesso alle vicende italiane poiché “per molti anni, per tutto l’Ottocento e fino a questo dopoguerra, salvo rare punte isolate, la fotografia italiana risente del tono provinciale delle arti figurative, del giornalismo, della ricerca scientifica e, in genere, della mancanza di strutture del nostro paese”. Così il parco elenco di nomi considerati (oltre ai grandi studi: da Alinari a Sommer) comprendeva solo Cugnoni, Michetti, Morpurgo, Nunes Vais e Primoli, vale a dire tutti e soli quegli autori i cui fondi (con l’eccezione di Cugnoni e Primoli) erano stati acquisiti dal GFN nei primissimi anni Settanta[214] proprio per iniziativa di Bertelli. Alcuni di questi erano inoltre stati oggetto di recenti monografie edite dalla casa editrice Einaudi, di cui Bertelli era consulente, curati da studiosi romani a loro volta dipendenti (Miraglia) o in stretto contatto (Porretta) col Gabinetto Fotografico Nazionale e quindi con l’Istituto Nazionale per la Grafica di cui lo stesso Bertelli era stato via via direttore[215].  Il ruolo svolto dallo storico dell’arte milanese nella formazione e nella promozione di una cultura storica della fotografia in Italia e per la tutela del patrimonio prodotto nel corso di quella stessa storia è stato fondamentale, sebbene nella sostanza prevalesse ancora in lui il riconoscimento delle qualità del “fotografo interprete sensibile dell’oggetto”[216], vale a dire una concezione documentaria, per quanto raffinata, della fotografia. Altrettanto rilevante fu lo sforzo di portare questi temi all’attenzione del più vasto pubblico amatoriale, provandosi ad utilizzare sapientemente il canale offerto dalle riviste di settore per avviare iniziative che era allora impossibile proporre né tantomeno realizzare in quella che avrebbe dovuto essere la loro sede istituzionale.

I primi contatti con “Popular Photography Italiana” risalivano al 1970, quando Bertelli scrisse a Gilardi in risposta a “un suo gustoso articolo” comparso nel numero di aprile, per lamentare il fatto che, se si fossero incontrati, il Direttore avrebbe potuto fargli risparmiare “qualche grossa inesattezza”; in quella stessa occasione suggeriva che “Popular Photography dibattesse a fondo il problema della documentazione fotografica del patrimonio artistico, magari in una tavola rotonda cui sarei lieto di partecipare. Penso infatti che sia buon giornalismo risalire alle fonti.”[217] Nei successivi scambi epistolari Gilardi[218] propose, anche “a nome del  direttore”, la stesura “di un articolo che la nostra rivista sarebbe lusingata di pubblicare”, trovando consenso in Bertelli  che lo intendeva “come avvio di un dibattito più ampio.”[219] Ebbe così inizio un’importante per quanto problematica collaborazione che nel maggio 1971 vide la messa in cantiere di un censimento concepito da Bertelli che avrebbe dovuto essere condotto da “Popular Photography Italiana”: si trattava di realizzare “un repertorio degli archivi fotografici, sull’esempio di quello prodotto dalla Direction de la Documentation in Francia (1966),  pubblicando in appendice al periodico una serie di schede “sul tipo di quelle francesi”, anche in considerazione del fatto che “naturalmente ci vorrà molto perché da noi un ministero compia un lavoro del genere.”[220] Il direttore della rivista accolse l’invito[221] proponendo a sua volta una collaborazione al periodico sotto forma di “rubrica fissa storica” che segnalasse anche le attività del GFN; nei giorni immediatamente successivi venne stabilito il titolo (Entroterra fotografico[222]) e definita una scaletta per i primi numeri: Morpurgo, Chigi, Valenziani, Cugnoni, Michetti, temi sui quali Lanfranco Colombo avrebbe poi coinvolto il GFN nell’edizione del SICOF di quell’anno.

Il censimento era a sua volta accompagnato da un Questionario agli uomini d’immagine, che aveva lo scopo di “accertare quanto la cultura fotografica entri nel bagaglio normale delle persone interessate all’immagine e di avviare in grandi linee un censimento delle raccolte fotografiche esistenti in Italia”, intendendo però prevalentemente quelle professionali (fotografi e agenzie) piuttosto che quelle istituzionali.[223]  Il questionario apriva con la richiesta di informazioni in merito all’eventuale acquisto di fotografie, alla loro tipologia, cronologia e quantità, chiedendo infine di indicare le ragioni di quella raccolta e  se la professione dell’intervistato avesse qualche “attinenza con l’immagine”. Nessun cenno invece, per quanto marginale, alla formazione culturale e agli eventuali mezzi per raggiungerla e aggiornarla (libri, mostre, periodici), ciò che rendeva piuttosto singolare lo stesso scopo dichiarato in apertura. Le parti destinate al vero e proprio censimento (“Repertorio alfabetico” e “Repertorio analitico”)  confermavano il carattere strumentale dell’indagine, prevedendo oltre ai dati anagrafici del proprietario o del responsabile della collezione, una breve descrizione “al massimo di una ventina di righe” e la qualificazione professionale del titolare (Agenzia o  fotografo professionista, per settore; editore; “servizio pubblico”; collezionista; “uno specialista che aggiunge la fotografia alla sua attività principale”). A queste informazioni seguiva una più articolata indagine quantitativa per generi (arte, ritratti, usi e costumi, istituzioni, fotografie scientifiche, ecc.)  e tipologia (b/n o colore).

A chiusura del SICOF di quell’anno, che nella propria sezione culturale aveva ospitato una mostra dedicata a Michetti[224] e un incontro col direttore del GFN,  Bertelli scrisse alla rivista un “letterone post-Sicof”[225] che il redattore capo Pier Paolo Preti decise però di non pubblicare perché “dal punto di vista redazionale (cioè del pubblico destinatario) la lettera risulta un po’ confusa”.[226] A questo rilievo il mittente rispose notando che “la lettera era stata letta da diverse persone prima di inviarla, ed era apparsa chiara a tutti, ma evidentemente non ci configuravamo il lettore-tipo di Popular photography sul modello del lettore di Grand Hotel.” Ciò che però gli premeva maggiormente era che si fosse lasciata cadere l’ipotesi di censimento, rispetto alla quale Preti confermava invece l’interesse del periodico, specie in quella fase in cui se ne stava ridefinendo l’impostazione. Nella lettera in questione Bertelli aveva lamentato anche lo scarso interessamento del pubblico del SICOF, “venuto essenzialmente per vedere i films [sic] di e su Michetti, sull’argomento che mi sta più a cuore, che è, per enunciarlo in termini burocratici, quello del contributo del fotografo alla conservazione e alla fruizione del bene culturale. Sono anzi gratissimo a Franco Leonardo [sic, per Ferdinando] Scianna, che con un paio di interventi calzanti mi ha consentito di accennare (…) ad alcuni dei temi più pressanti.”  Scianna fu in quell’occasione, con Jean-Claude Lemagny, Giorgio Lotti e Lamberto Vitali, tra i pochi a intervenire al dibattito intorno a un possibile “Museo fotografico”, sollecitato anche da una piccola mostra del Cabinet des Estampes della Bibliothéque Nationale di Parigi, curata per quella stessa edizione da Lemagny, alla cui conferenza di presentazione però – notava sconsolato Bertelli – “c’eravamo, se ricordo bene, soltanto Lei [L. Colombo], io e [Lello] Mazzacane; un isolamento vergognoso, che fa temere che la sensibilità a un problema grave di organizzazione culturale sia scarsissima quando non vi sia la prospettiva di un inserimento in un apparato industriale.”[227]

La sezione culturale del SICOF (dal 1969) era un’invenzione e una creatura di Lanfranco Colombo[228], una delle figure centrali della fotografia italiana della seconda metà del Novecento, che contribuì non poco a sviluppare l’interesse per la fotografia storica nel nostro paese presentando nelle diverse edizioni non pochi autori e temi che negli anni successivi avrebbero goduto di grande interesse: dalla produzione degli Alinari (1969 e 1977) a Naya (1977); dalle fotografie del brigantaggio (1970)[229] a quelle dell’emigrazione italiana nelle Americhe (1973), ottenendo però scarsi riscontri poiché “la recente riscoperta della fotografia in Italia non nasce dal momento di una politica culturale anche nostrana, ma piuttosto di rimbalzo: dagli USA, dalla Francia, dall’Inghilterra (…) E non è solo un problema di egemonia economica.”[230] Nel marzo del 1966 Colombo era divenuto comproprietario e condirettore di “Popular Photography Italiana”, pubblicata dal 1957 come edizione italiana della testata statunitense sotto la direzione dell’architetto Alessandro Pasquali[231]; col numero 105 la testata si rese indipendente dall’edizione americana e la rivista uscì con una nuova veste, dovuta a Giancarlo Iliprandi. Crebbe in quegli anni anche lo spazio dedicato ad argomenti di storia della fotografia, con interventi tra gli altri di Gilardi, Settimelli, Turroni e Schwarz, redattore dal 1970, mentre si avviava una collaborazione con il fotografo e scrittore praghese Petr Tausk, al quale venne  affidata una rubrica dedicata a La fotografia del ventesimo secolo. Appunti per una storia della fotografia, accompagnata da Note storiche redatte da Giuseppe Turroni[232]. Nulla più che uno zibaldone di considerazioni varie ma certo un inizio e un indizio. Col 1971 l’interesse si accrebbe, se pure non si può dire che si precisasse, con le collaborazioni degli studiosi legati al GFN e con gli interventi di Jean A. Keim e Oreste Grossi, in collaborazione con Gilardi, alle soglie del nuovo mutamento di testata: dal 1972 la rivista assunse infatti il nome de “Il Diaframma – fotografia italiana” per diventare poi semplicemente “il Diaframma”[233], come la galleria aperta da Lanfranco Colombo a Brera nel 1967, la prima ad essere esclusivamente dedicata alla fotografia.  Nell’opinione di Ando Gilardi[234]  la prima “versione italiana, arricchita con poveri testi tecnici e critici di produzione locale, fu in principio ancor peggiore di quella americana” nonostante la presenza di un redattore capo, poi condirettore, come Pietro Donzelli e di una rinnovata serie di collaboratori qualificati che comprendeva tra gli altri Piero Raffaelli, Luigi Crocenzi, Morando Morandini, Bruno Munari, Gualtiero Castagnola e Piero Racanicchi, ai quali ultimi Beaumont Newhall espresse in quegli anni il proprio apprezzamento “dal momento che nessun altro periodico di fotografia ha mai avuto la costanza di ospitare in ogni suo numero articoli di tal genere.”[235] Tra i rari interventi dedicati ad autori italiani sulle pagine della rivista[236], particolarmente significativo risulta ancora oggi il breve ma denso saggio del 1961 che Racanicchi dedicò a quello che era allora il solo nome italiano a godere di fama e considerazione internazionali: Vittorio Sella[237]. L’interesse del testo non risiedeva tanto nell’analisi critica del grande fotografo quanto piuttosto in alcune considerazioni di ordine generale e di metodo che l’autore pose significativamente in apertura:  “A volte mi domando se sarà mai possibile tracciare un disegno organico della fotografia italiana. Dalle prime ricerche, che qualcuno di noi ha già condotto, è emerso chiaramente e dolorosamente il vuoto lasciato da collezioni e documenti scomparsi per motivi attribuibili all’incuria ed alla leggerezza di coloro che avevano in consegna tale materiale. Specie se risaliamo indietro nel tempo, agli anni lontani del dagherrotipo e del collodio, sentiamo il peso di questa lacuna; ed allora ci rendiamo materialmente conto di quanto sia significante, in questo lavoro di ricerca, la mancanza di elementi concreti e di riferimenti precisi. Uno storico della fotografia che si rispetti, infatti, non può prescindere dallo studio diretto del materiale riferentesi ad autori dei vari periodi presi in esame. (…) Ne viene fuori un panorama della nostra fotografia che manca di compiutezza e di sintesi. E questo non può che disorientarci nel nostro lavoro di ricerca, specie se consideriamo il vantaggio competitivo dei critici americani, francesi ed inglesi, ben assistiti e coadiuvati da istituzioni ed enti, pubblici e privati, che da tempo e con cura si sono assunti il ruolo di archivisti scrupolosi di una massa di immagini fotografiche, che oggi vengono offerte allo studio attento degli storici e dei ricercatori. In Italia, probabilmente – proseguiva Racanicchi – fece difetto agli enti pubblici ed ai mecenati privati, una opportuna valutazione del significato informativo ed estetico di questo moderno linguaggio, proprio perché fu estranea alla coscienza dei più una idea precisa della sua moderna funzione sul piano dei valori visivi. (…) Trascurando così di valutare per le sue effettive possibilità un mezzo tra i più funzionali nel settore del linguaggio figurativo, gli italiani negarono alla fotografia quel credito di cui essa invece aveva bisogno. Perciò i nostri fotografi – molti sono gli anonimi o quasi – fecero del loro lavoro una seria produzione artigianale e niente di più, tralasciando le impegnative ricerche estetiche che difficilmente avrebbero avuto un pubblico men che disattento ed indifferente.”  Analisi lucidissima, che non solo denunciava con largo anticipo lo status assegnato dalla cultura italiana al patrimonio fotografico, ma individuava – anche storicamente – nelle nostre condizioni socio culturali le ragioni e i condizionamenti che avevano connotato come ‘artigianale’ la produzione italiana, senza limitarsi – come invece aveva fatto Vitali, col quale condivideva le preoccupazioni per la dispersione del patrimonio – a segnalarne quasi di sfuggita i “frutti saporiti”.  Questo e altri articoli monografici di Racanicchi vennero poi raccolti in due fascicoli di “Critica e storia della fotografia”[238] ma la rubrica che li ospitava ebbe vita breve;  “poiché – come ricordava Renzo Chini –  non vi era motivo intrinseco di interrompere tale rubrica, forse la prima del genere mai tentata, almeno in Italia, è da supporre che la sospensione sia stata la conseguenza del poco gradimento da parte dei lettori della rivista. La nostra ipotesi è avvalorata da giudizi ingiusti e  insipienti su quegli articoli da noi ricevuti oralmente anche da parte di dilettanti così detti evoluti.”[239]

 

 

Piero Becchetti e le prime ricognizioni  a scala locale e territoriale

 

Tra istanza revivalistica e interpretazioni psicanalitiche, ma anche con intenti di ricostruzione storica, si produssero tra anni Sessanta e Settanta una trentina tra volumi e cataloghi di mostra di argomento locale. Eterogenei per impostazione e interesse, molti di questi rimandavano sin dal titolo a una equivoca nostalgia dello sguardo, ricorrendo più volte a lemmi come “ieri”, “cent’anni fa” (e varianti), “antica”, “vecchia” (Asti, Bergamo, Oneglia, Torino); accanto a questi si potevano trovare alcuni, ancora pochi esempi di approccio storico e storiografico più consapevole[240], quali la pubblicazione nel 1963 del facsimile dell’album di Edouard Delessert del 1854 dedicato alla Sardegna[241], e i primi studi di storia della fotografia a Roma di Piero Becchetti, tra cui la mostra Roma cento anni fa nelle fotografie del tempo[242], che costituiva di fatto l’anello di congiunzione con l’iniziativa analoga curata da Silvio Negro nel 1953, anche per la presenza tra i curatori di Giovanni Incisa della Rocchetta, che era stato uno dei membri di quel Comitato esecutivo. A quella avrebbero fatto seguito negli anni successivi la monografica dedicata a Enrico Valenziani, con immagini provenienti dal fondo omonimo del GFN, e la mostra itinerante dedicata a Roma intorno alla metà del XIX secolo, con fotografie provenienti da collezioni romane e danesi, che dopo Palazzo Braschi venne presentata al Museo Thorwaldsen di Copenhagen e al Museo Ludwig di Colonia.[243] Pur con le dovute differenze queste mostre romane, come altre analoghe torinesi degli stessi anni[244], fondavano il loro interesse, e l’impianto storico critico che le sosteneva, sul delicato equilibrio tra rappresentante e rappresentato, certo imprescindibile e fondante per questo genere di fotografia documentaria, ma con una eccessiva accentuazione del secondo termine della relazione, orientandole ancora verso una storiografia urbana che vedeva nelle fotografie la propria fonte più accattivante e ostensibile.

Un primo tentativo di spostare l’accento sul patrimonio fotografico in quanto tale, quindi anche sugli autori e sulle opere fu proposto da Giorgio Avigdor, fotografo e collezionista, che ideò e diresse una prima ricerca sistematica presso le principali istituzioni della regione, poi confluita nella mostra Fotografi del Piemonte 1852-1899[245], riconosciuta come “una tappa metodologica importante [che] costituirà un modello di ricerca per mostre successive.”[246] Il catalogo valorizzava sin dal sottotitolo la presenza delle “duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana” presentate in mostra, ciascuna corredata da una scheda descrittiva che – nonostante le indicazioni dichiarate[247] – non contemplava la tecnica ma forniva ogni altra indicazione catalografica (titolo, data, misure, iscrizioni, collezione di appartenenza); anzi, a sottolineare l’importanza di quei dati le “schede delle opere esposte”, accompagnate da brevi note biografiche e dalla bibliografia relativa a ciascun fotografo, precedevano le riproduzioni a piena pagina, purtroppo stampate in un uniforme inchiostro seppiato.  Scopo primo della ricerca era stato, ancora, quello di utilizzare e confrontare “materiali prodotti negli anni della prima diffusione del mezzo fotografico in Piemonte (…) per le sue implicazioni dirette con la storia dei luoghi”[248], ma arricchito da  più complesse suggestioni originate dalla lettura di un dialogo in cui Carlo Bertelli e Giovanni Romano[249] avevano invitato a riflettere sull’efficacia dello studio dell’antica fotografia per gli autori delle nuove generazioni. Accanto alla funzione storico documentaria se ne riconosceva così la sua valenza di forma espressiva, di manifestazione di cultura che necessitava di essere studiata e materialmente salvaguardata. I due contributi in catalogo di Maria Adriana Prolo[250] e di Rosanna Maggio Serra[251] davano conto delle prime attività dagherrotipiche a Torino, non considerate dalla ricerca, e dell’importante fondo di documentazione archeologica e architettonica raccolto da Alfredo d’Andrade, senza tentare – se non tangenzialmente – un primo profilo storico complessivo; quello che avrebbe ricostruito Marina Miraglia pochi anni più tardi[252].  La ricerca, la mostra e il catalogo che ne dava conto presentavano rilevanti elementi di novità rispetto al povero panorama italiano, a partire proprio dalla volontà di fornire i primi elementi utili a ricostruire storicamente l’attività fotografica in quel preciso contesto territoriale e culturale. Da quei presupposti derivava la definizione delle stesse modalità dell’indagine, condotta prevalentemente in archivi pubblici e biblioteche, facendo emergere per la prima volta un patrimonio negletto, ora accuratamente studiato facendo ricorso a fonti primarie coeve e presentato in originale. L’approfondimento dell’analisi, sollecitato se non imposto dal misurarsi con un contesto circoscritto, e il confronto con le fonti, che obbligava a rinunciare alle generalizzazione e alla genericità, fornivano le prime occasioni per elaborazioni metodologiche di portata più generale, mentre la progressiva estensione del repertorio dei fotografi attivi in Italia offriva la base per delineare progetti di più ampio respiro.

Più complessa e articolata dell’esempio piemontese si presentava in quello stesso 1977 la mostra fiorentina dedicata agli Alinari[253], curata da Settimelli e Filippo Zevi, nuovo titolare della società dopo la scomparsa di Vittorio Cini che l’aveva fortemente voluta, marcando una svolta significativa nella considerazione della ditta fiorentina del valore storico ed economico del proprio patrimonio.  Diversamente da quanto si era fatto per Fotografi del Piemonte, per la grande mostra al Forte Belvedere, poi trasferita a Torino a Palazzo Reale[254], si era scelto di ristampare e ingrandire le vecchie lastre “con le tecniche più aggiornate” invece di esporre gli  originali, “così – dichiarava Zevi – la fotografia rispetta il suo compito primario: che è di trasmettere una ‘registrazione’, qualunque essa sia”[255], privilegiando ancora la consolidata funzione e concezione referenziale, sottoposta invece a stringente verifica nei numerosi, importanti saggi in catalogo. Questi costituivano dal punto di vista storico critico la vera, determinante novità del progetto e dimostravano in concreto la necessità e la possibilità di affrontare i diversi aspetti della storia della fotografia con i più affilati strumenti metodologici.

Il volume apriva con una attenta ricostruzione delle vicende della famiglia Alinari, redatta da Settimelli in uno stile insolitamente sobrio, ed era corredato di un accurato regesto delle opere esposte, che per ciascuna immagine riportava gli elementi identificativi delle lastre originali[256].  Una prassi certamente importante ma viziata da una contraddizione interna, avendo come esito la descrizione puntuale di oggetti non corrispondenti a quelli esposti  e pertanto ignoti all’enorme pubblico di visitatori[257], sebbene potesse forse trovare una qualche  ragione d’essere nella volontà di soddisfare contemporaneamente esigenze di comunicazione divulgativa e di correttezza metodologica, almeno tendenziale. Una lettura criticamente attrezzata qualificava invece la sezione dedicata alla documentazione d’arte, curata da Massimo Ferretti con Alessandro Conti ed Ettore Spalletti, tre giovani storici dell’arte formatisi tra Bologna e Pisa. Il primo affrontava il tema nodale della ridefinizione storico critica dei concetti, e dei rapporti, tra traduzione e riproduzione, a partire dalla constatazione che “non sembra infatti opportuno presentare l’avvento della fotografia nella riproduzione d’arte come una frattura immediata e totale, un rapido voltar d’angolo, dietro il quale si incontrerebbero subito I Maestri del Colore e le tardive, spesso un poco talmudiche, letture italiane di Walter Benjamin”[258]; meglio seguire “le tappe di quella rivoluzione frenata e non sempre avvertita che fu la riproducibilità dell’opera d’arte”, coniugando trasformazioni tecnologiche (nella capacità di trascrizione del colore, ad esempio[259]) e allargamento delle fasce culturali e sociali degli stessi destinatari, dal momento che “la fotografia diventò uno strumento di conoscenza più facile e immediato”, per la cui lettura non era più necessaria la competenza specifica del conoscitore di stampe. “La fotografia d’arte – proseguiva Ferretti – è un codice non meno complesso di quelli stabiliti nei vecchi procedimenti, ma il suo utilizzo è più vasto e meno specializzato. Per questo motivo le testimonianze degli ‘addetti ai lavori’  sull’importanza e sulla funzione della fotografia nello studio dell’arte non vanno sopravvalutate.” Mostrando una certa sintonia con Gilardi ricordava infine come l’utilizzo della riproduzione fotografica non avesse più che tanto influito sulla disciplina storico artistica e sul suo insegnamento, poiché semmai “la svolta si avverte acuta e definitiva (…) quando la fotografia esce dalle cartelle dei collezionisti ed entra nei libri d’arte.”  Le due altre sezioni, dedicate rispettivamente a Firenze e all’attività ritrattistica, erano curate da un gruppo di studiosi di diversa formazione[260], alcuni dei quali avrebbero poi dato vita all’Archivio Fotografico Toscano. Mentre il testo di Silvestrini su Firenze restituiva  il contesto storico economico degli anni considerati dalla mostra, senza affrontare il problema del cosa e del come gli Alinari avevano raccontato la loro città contribuendo non poco alla sua fortuna turistica, l’intervento di Fernando Tempesti, che solo l’anno precedente aveva  curato una mostra dedicata ad analoghi temi[261], entrava nel merito dei modi e degli stilemi della loro produzione ritrattistica, utilizzando quale termine di confronto i ben noti “appunti pratici per chi posa”, dati alle stampe da Carlo Brogi nel 1895[262]. A considerarlo oggi il saggio di Tempesti presenta ancora una scrittura convincente ma notevoli limiti metodologici e più propriamente storiografici: nell’adottare quel testo e nello svolgere le proprie riflessioni, infatti, lo studioso non aveva tenuto conto di alcuni elementi che appaiono con grande evidenza determinanti, a partire dal fatto che Brogi si rivolgeva al soggetto piuttosto che all’operatore. Pur volendo prescindere da quell’artificio retorico restavano però aperte almeno altre due questioni altrettanto dirimenti:  che esistesse una corrispondenza, non dimostrata, tra i modi di Brogi e quelli di Alinari, e che le modalità e i canoni adottati nei loro primi ritratti, datati verso il 1860, fossero rimasti immutati in quel trentennio cruciale che li separava dalla pubblicazione del ‘manuale’, redatto ormai a  ridosso del nuovo secolo.

La mostra fiorentina costituì il primo evento di risonanza mediatica legato alla valorizzazione del patrimonio fotografico storico, privato in termini economico produttivi ma pubblico per incidenza culturale, che invitava a letture spinte oltre la superficie documentaria:  “La mostra degli Alinari a Firenze – scrisse Stefano Reggiani – ha fatto capire che quando al documento si aggiunge l’autore, la vecchia fotografia diviene preziosa e articolata come un saggio. Per esempio, i monumenti d’Italia sono stati inventati dagli Alinari, che ne hanno stabilito in celebri immagini la forma ufficiale, la prospettiva vincolante. Ma come? Con che diritti? Diventando interpreti della realtà anche artistica, sovrapponendo alla bellezza una loro lucida, un pochino frigida e punitiva inclinazione moralistica. E così la gente, gli interni fotografati dagli Alinari sono documenti già elaborati e consegnati agli storici con un’aggiunta che bisogna ‘togliere’ e valutare.”[263] Una breve notazione giornalistica, certo, ma ben consapevole della necessità di superare il puro dato referenziale per interrogarsi sulla funzione culturale, di prodotto e produttore di cultura, di una certa cultura, di quelle fotografie e dei loro autori.[264]

A quelle prime analisi monografiche (una regione, un’impresa) si affiancò poco dopo un’indagine di taglio orizzontale, che considerava tutto il territorio italiano: il fondamentale repertorio che Piero Becchetti dedicava a Fotografi e fotografia in Italia[265], adottando una titolazione che avrebbe avuto nei decenni successivi grande fortuna editoriale in opere declinate a scale diverse. Il lavoro, presentato da Fortunato Bellonzi come il “primo contributo sistematico ad una storia della fotografia in Italia che è ancora da scrivere”, era per larga parte fondato sulla raccolta personale dello studioso, testimoniando ancora una volta il legame strettissimo tra pratica collezionistica e storiografia che caratterizzava molte produzioni di quegli anni. Esso costituiva cronologicamente il frutto maturo di quel decennio che possiamo far iniziare con la pubblicazione del saggio di Vitali dedicato a Primoli, di cui diremo,  e che si sarebbe di lì a poco compiuto con la pubblicazione del secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi. Il riferimento alla propria personale passione collezionistica posto in apertura, sebbene sotto tono, trovava la propria ragione e giustificazione anche nella quasi totale assenza di ricerche a scala regionale o locale che avrebbero potuto svolgere per lo studioso la funzione di fonti secondarie, mentre di una certa utilità era risultato il ricorso ad alcuni titoli stranieri, compresi i cataloghi di vendita delle principali case d’asta. Delle circa duecento immagini pubblicate, la prima ricca esemplificazione a scala nazionale, Becchetti forniva indicazioni in merito ad autore, soggetto, data, formato e tecnica, corredando a volte la didascalia di brevi note di contenuto, ricalcando cioè il modello editoriale utilizzato da Vitali, di cui riprendeva anche alcune formule testuali[266]. Il saggio introduttivo aveva andamento cronologico: dalla diffusione della notizia dell’invenzione alle relazioni di Talbot con studiosi italiani sino a “L’impero del collodio”, ampiamente trattato con approfondimenti relativi ad alcuni particolari ambiti di applicazione quali il ritratto, la stereoscopia e la fotografia scientifica, a cui si aggiungevano tre brevi capitoli di più ampia contestualizzazione. Da questi si distingueva quello relativo alla Grande panoramica con i combattimenti del 1849, con un salto di scala e di ambito che risultava difficilmente comprensibile nell’economia generale del volume ma che era dettato dalla volontà, poi frustrata, di pervenire a una corretta datazione di quella discussa immagine a partire dall’analisi dei referenti urbani, non considerando però quelli oggettuali né la tecnica, come se – ancora – la fotografia fosse in sé trasparente.[267] I singoli capitoli derivati dalla  “umiltà severa  della ricerca di Becchetti”[268] costituivano a quella data la più compiuta sistematizzazione dei periodi considerati, condotta con ampi riferimenti alle fonti archivistiche e bibliografiche coeve, non solo italiane, ciò che gli consentì di correggere e precisare alcuni dati forniti dai pochi studiosi precedenti che si erano misurati specialmente con la ricostruzione del periodo delle origini, da Silvio Negro a Maria Adriana Prolo, e di fornire alcune chiavi interpretative che dovevano favorire, in anni di sostanziale ignoranza del tema, una prima, diffusa comprensione dei fenomeni storici connessi alle innovazioni tecnologiche come la riproducibilità del calotipo o l’introduzione del negativo di vetro con emulsione al collodio, quando  “la fotografia (…) cessò di essere considerata una meraviglia ottica o una curiosità. Con la folgorante introduzione del collodio termini come dagherrotipia e talbotipia, che pure avevano suscitato deliranti entusiasmi, vennero presto dimenticati ed eliminati dall’uso comune”. Un altro punto di svolta da lui precisamente indicato fu l’industrializzazione dei materiali sensibili e la conseguente diffusione amatoriale della pratica fotografica, portando di fatto – come per Negro e Vitali –  alla conclusione della “grande stagione” della fotografia (in Italia e non solo).  In quella periodizzazione andavano perciò individuate le ragioni, per altro non esplicitate,  dell’arco cronologico considerato dalla sua ricerca, ma del resto questo lavoro di Becchetti si proponeva non tanto come una storia quanto come un repertorio (anzi, per molto tempo a venire: il repertorio) originato e condizionato dalla sua stessa, preziosa passione collezionistica piuttosto che dall’applicazione di un metodo in senso proprio. Le ragioni critiche credo possano essere invece riconosciute nella condivisione delle opinioni espresse dai maggiori studiosi che lo avevano preceduto: “Nonostante la rapida diffusione del mezzo fotografico e la sua immediata fortuna, la fotografia in Italia non ebbe personalità di rilievo tali (…) da farla considerare una fotografia d’eccezione. Essa ebbe uno sviluppo simile a quello di altre nazioni europee dove la produzione non raggiunse vertici altissimi pur esprimendosi attraverso valenti e qualificati artisti.” Oltre a questo giudizio pesava la consapevolezza, altrettanto condivisa, della necessità imprescindibile della ricerca di base, e delle sue lacune: “Dopo i pochi qualificati saggi che sono stati pubblicati sulla fotografia italiana, attualmente siamo in condizione di poter affermare che in Italia si è fotografato molto e bene ma non siamo ancora in grado di poter dare un giudizio critico complessivo a causa del grave ritardo con il quale nel nostro paese sono stati intrapresi questi studi. Per questo motivo, gran parte del materiale fotografico è ancora disperso in mille rivoli di difficile accesso o peggio ancora molto è andato inconsultamente distrutto. Solo quando il patrimonio fotografico residuo, che giace ancora negletto in biblioteche, archivi o soffitte, avrà avuto l’esatta collocazione storica e critica, integrata anche da ampie ricerche presso musei e biblioteche straniere, sarà possibile valutare nella sua interezza la fotografia italiana.”[269] Di quale potesse essere l’entità di questo patrimonio residuo dava indirettamente conto l’incredibile repertorio di circa 1.300 fotografi attivi in Italia dal 1839 al 1880 che costituiva la parte più rilevante e il contributo fondamentale di questo lavoro di Becchetti per la costruzione di una storia della fotografia nel nostro Paese, ordinato topograficamente per luogo di attività. Di ciascuno erano fornite informazioni di diverso livello e rilevanza, condizionate dalla disponibilità delle fonti,  nella gran parte costituite dai soli supporti secondari dei fototipi reperiti, di cui in alcuni casi venne fornita la riproduzione,  mentre solo per i maggiori Becchetti poteva disporre di documentazione bibliografica o archivistica, a sua volta indizio del loro contributo alla cultura e non solo alla pratica della fotografia; mi riferisco alle schede dedicate a grandi tecnici come Giuseppe Venanzio Sella, di cui ancora non era nota la produzione fotografica, Luigi Borlinetto o Giuseppe Pizzighelli e agli editori dei primi periodici come Ottavio Baratti e  Antonio Montagna.

 

Le prime monografie

 

Con quelle iniziative si andavano delineando due distinti e per certi versi opposti filoni di ricerca, rivolti rispettivamente alla definizione di un contesto o all’approfondimento autoriale (dall’amateur ai grandi studi).  La ricerca condotta da Becchetti aveva per la prima volta tentato la messa a punto di un repertorio sistematico, mentre la mostra dedicata agli Alinari, pur condividendone la dimensione  territoriale (qui garantita dall’areale geografico della loro attività) rappresentava un importante modello di studio monografico, che da noi aveva ancora pochi precedenti, specialmente se espresso sotto forma di catalogo di mostra.

Un importante ruolo di promozione era stato svolto in tal senso  dalle iniziative realizzate dal CIFe, il Centro Informazioni Ferrania, istituito nel 1961 dalla società omonima e chiuso  nel 1972[270]. Il primo direttore era stato Guido Bezzola, capo delle pubbliche relazioni della Società Ferrania e direttore della rivista omonima, poi docente di Letteratura italiana all’Università statale di Milano, che firmò il testo della mostra dedicata alle  Immagini del Risorgimento[271] (1967), prodotta ancora come Ufficio stampa e pubbliche relazioni della società. Quando la direzione passò a Marcantonio Muzi Falconi dopo l’acquisto da parte della 3M Italia  vennero realizzate altre mostre di interesse storico, con cataloghi editi in collaborazione con la Cooperativa ”Il libro fotografico” di Bergamo, nata per iniziativa di Antonio Arcari, Cesare Colombo e altri[272].  Scopo della cooperativa era quello di “pubblicare libri che rispondano a certe esigenze di ordine ‘ideologico’, non nel senso politico certamente, ma nel senso di un nostro particolare modo di intendere la fotografia”[273], dando vita a “una attività editoriale fotografica culturale in un senso abbastanza largo del termine”, ma senza perdere di vista gli aspetti commerciali dell’impresa.  Tra gli argomenti prospettati, tutti segnati da un preciso intento sociale e politico,  “La condizione della donna in Italia” (…) “emigrazione, Scuola, Sport ecc. [che] potrebbero essere i titoli di una collana di ‘Storia italiana’, un progetto che da tanto sta a cuore di molti di noi.” Accanto ai volumi era prevista una “attività marginale, di minor impegno economico, ma di più precisi interessi culturali (…) rivolta all’attuazione di due ‘quaderni’ di 60-80 pagine che trattino problemi di storia e di cultura fotografiche, soprattutto nelle sue relazioni con il mondo della pittura e della grafica. La critica fotografica e gli agganci che essa ha creato in questi ultimi anni con i cultori di altre discipline è in grado di realizzare saggi che possono proporsi come contributi alla conoscenza e all’approfondimento di aspetti particolari e a volte decisivi della nostra civiltà dell’immagine. Per esempio: la fotodinamica futurista. Il fotomontaggio dada. Le rayografies [sic]. Toulouse Lautrec e la fotografia. Nascita del fotoromanzo. ecc.”[274] Ipotesi particolarmente suggestive e innovative, si pensi all’attenzione per un prodotto popolare come il fotoromanzo, in alcune delle quali si riconosceva, forte, l’influenza di Piero Racanicchi, ma che per più ragioni si tradussero in uscite editoriali più ‘moderate’ come  La famiglia italiana in 100 anni di fotografia (1968) e le monografie dedicate a Francesco Negri fotografo a Casale (1969) e a Giovanni Verga fotografo (1970), a ridosso della scoperta dell’archivio fotografico dello scrittore fatta da Giovanni Garra Agosta nel 1966[275].  Il riscontro cronologico dei materiali verghiani aveva subito mostrato come quella sua passione si fosse manifestata solo nella fase declinante della sua attività di romanziere (“compagna di  giorni stanchi”, la definì con esattezza Bertelli[276]) aprendo quindi interrogativi non ovvi sul più ampio tema del rapporto tra verismo e fotografia, tra letteratura e pittura: da Capuana a Michetti, ma dal quale, solo per apparente paradosso, dovevano essere escluse proprio quelle immagini. “Possiamo istituire un parallelo tra la narrativa di Verga e la sua fotografia? Sarebbe troppo – scriveva Enzo Siciliano – Queste immagini che il tempo ha ingiallito sono state l’occasione, a volta a volta cercata, per distrarsi da una feroce ipocondria.”[277] In conseguenza di queste e analoghe valutazioni critiche, lamentava deluso Settimelli, “chi pensava che la scoperta di un Verga anche fotografo stimolasse una analisi più precisa del rapporto tra fotografia e verismo è stato, fino a questo momento, smentito dai fatti perché non è successo niente di niente. (…) quella del Verga fotografo mi pare sia stata una grande occasione fatta cadere anche dai ‘verghiani’ più preparati e soprattutto dagli studiosi dello scrittore siciliano che si rifanno a Marx e Gramsci.”[278]

La monografia dedicata a Francesco Negri[279] da un gruppo di studiosi coordinati da Cesare Colombo era stata invece l’esito di un primo incarico di ricerca assegnato a Settimelli e alla moglie Fridel Geiger dall’Amministrazione comunale di Casale Monferrato nell’ambito delle iniziative promosse nel 1967 per “studiare e sviluppare l’azione necessaria per la rivalutazione e la divulgazione dell’opera di Francesco Negri e per degnamente onorarne la memoria” in vista del cinquantesimo anniversario della morte (1974). Il Comitato appositamente costituito aveva già promosso una prima pubblicazione ampiamente illustrata da immagini del fotografo casalese ma in un contesto di ricostruzione delle vicende ottocentesche della città[280], mentre il nuovo volume affrontava tutti gli ambiti di applicazione della fotografia coi quali Negri si era misurato, ciascuno affidato a un singolo studioso,  preceduti da un testo di inquadramento generale della sua figura a firma di Settimelli.  La presenza di differenti competenze consentì diverse letture e contribuì certamente a mettere in rilievo l’interesse dell’opera e del ruolo da lui svolto nella cultura fotografica italiana coeva, specialmente in qualità di sperimentatore curioso e qualificato di varie tecnologie, sebbene poi mancasse ogni e qualsivoglia descrizione delle caratteristiche tecniche delle immagini pubblicate. Come ricordava Settimelli, Francesco Negri “ha sperimentato di persona, volta a volta, nuove tecniche e nuovi strumenti ed ha messo a punto attrezzature mai usate prima. (…) Usa lastre di ogni genere e formato”, e così via enumerando, ma poi mai che si dicesse delle immagini riprodotte quali fossero le misure del negativo (non essendo quasi sopravvissute stampe), quale l’emulsione e la data di ripresa[281].  Unica eccezione la sezione dedicata alle tricromie, curata da Fabrizio Celentano, in cui si ripercorrevano le vicende delle prime ricerche sul colore sino agli ultimi anni di attività di Negri, pur non considerando la comparsa coeva delle autocromie Lumière con le quali si era pur sporadicamente misurato. Le modalità applicate e il quadro che ne era risultato  erano per molti versi stimolanti e innovativi ma non ancora compiutamente coerenti, incerti com’erano tra un certo revivalismo neppur troppo celato (forse attribuibile alle esigenze della committenza) e una propensione all’analisi storico critica non ancora sostenuta dagli strumenti e dalle metodologie necessarie.

Ben più autorevole e accurata era stata la ricostruzione storico documentaria offerta dalla monografia dedicata al conte Giuseppe Primoli[282], di cui Vitali decise finalmente di diventare l’ “illustratore” dando la stura a una sequela di titoli fondati sulle testimonianze fotografiche di questo autore che ha avuto pochi confronti in Italia[283].  L’uscita del volume si collocava a poco più di un decennio di distanza dalle prime entusiastiche segnalazioni e costituiva un omaggio alla cara memoria dell’amico Silvio Negro, a cui era dedicato. L’avvio dell’importante saggio era canonico, trattandosi dello sviluppo di tesi già ampiamente annunciate nei più brevi testi precedenti, mentre molto più netta e incisiva era  l’enunciazione dell’ipotesi storiografica, che legava sviluppo tecnologico e innovazione linguistica: “quando, attorno al 1880, dalla negativa al collodio umido fu possibile passare a quella della gelatina secca, si può dire che veramente avesse inizio un tempo nuovo per le sorti della fotografia. Fu, ancora una volta, l’ingresso rinnovatore degli ‘irregolari’ della fotografia”. E più oltre: “la fotografia di reportage o di attualità, quale noi l’intendiamo, quella che ormai ci opprime e rischia di sopraffarci talvolta con una mancanza di tatto e di scrupoli veramente inscusabile[284], la fotografia con i personaggi in azione fu conseguenza naturale del ritrovato di lastre più sensibili, che abbreviarono i tempi di posa da minuti primi a frazioni di secondo; così tutto un nuovo modo di intendere la fotografia si apriva agli operatori e non soltanto a quelli che ne esercitavano la professione.” Oggi siamo più consapevoli della rilevanza e del ruolo che gli amateurs ebbero nella pratica e nella costruzione di una cultura della fotografia, ben prima del processo di massificazione consentito e avviato dalle emulsioni alla gelatina e – ancor più – dall’uso dei supporti plastici, ma  la rilevanza della notazione di Vitali non può essere diminuita dal riconoscere che era (anche) strumentale alla migliore presentazione critica del protagonista del saggio, introdotta dalla messa a punto di una genealogia italiana del fenomeno che gli serviva per “spiegare come il caso dei due fratelli Primoli non possa essere considerato eccezionale se non per i risultati.” Basti a questo proposito confrontarla con l’interpretazione riduttiva del fenomeno espressa solo pochi anni prima da Helmut Gernsheim, per il quale “usando apparecchi piuttosto semplici e, nella stragrande maggioranza, privi di un’educazione specifica, questi nuovi dilettanti non avevano mai sentito parlare di teorie compositive e si limitavano a fare istantanee facili e spesso molto graziose. (…) Facendo fotografie unicamente per il  proprio piacere, la maggior parte dei dilettanti della nuova generazione è rimasta sconosciuta. Per questa ragione l’opera di alcuni di loro è venuta alla luce solo recentemente. Le numerosissime fotografie che il conte Giuseppe Primoli fece tra il 1885 e il 1905, per esempio, descrivono con ammirevole immediatezza e straordinaria originalità di concezione infiniti momenti di vita romana, tanto dell’aristocrazia quanto del popolo minuto.”[285]

Dopo aver affrontato in termini metodologicamente significativi la questione attributiva, assegnando al solo Giuseppe la più parte del corpus di immagini superstiti, e di fatto relegando il fratello Luigi in posizione assolutamente marginale, Vitali affrontava l’analisi del suo lavoro secondo categorie che – un poco contraddittoriamente – ricavava dal reportage moderno, considerando Giuseppe Primoli “come un vero e proprio ‘primitivo’ del reportage”; un autore che “del fotoreporter ha l’occhio sicuro, la decisione pronta, la rapidità d’azione, la curiosità insaziabile e inesauribile di tutti gli aspetti della vita che si anima intorno a lui”; il desiderio – si potrebbe dire – di cogliere l’immagine di quella vita “passante frammentaria e fuggevole” di cui scriveva il contemporaneo Marcel Proust[286]. Quella sua disposizione “alla creazione di una serie di immagini (…) è la stessa pratica che adottano al giorno d’oggi tutti i fotoreporters a principiare dai più illustri (…),  i punti di contatto con gli operatori attuali sono altri ancora e non meno singolari. Primoli insegue l’avvenimento e non se ne lascia sfuggire nessuna fase. (…) E ancora: anticipando di mezzo secolo i Cartier-Bresson e i Bill Brandt – e qui veramente precorre il gusto d’oggi – Primoli ritrae spesso non l’avvenimento, ma l’avvenimento riflesso nelle impressioni degli astanti”[287]. A quella analisi delle qualità narrative di questo autore avrebbe reso omaggio Carlo Bertelli[288] un decennio più tardi riconoscendo “quella divinazione letteraria – tanto bene individuata da Lamberto Vitali – che dava al Primoli la capacità d’intervenire tagliente come un epigramma, e sempre al momento giusto. (…) Primoli è il vero e geniale fotografo zoliano: è suo il miracolo di una ‘rappresentazione esatta della realtà’ (…) [poiché] accetta la totalità della fotografia, ossia la sua incapacità di selezione e di organizzazione dell’immagine altro che in rapporto al tempo. (…) Avido di notizie, scatta dello stesso episodio quattro, cinque lastre in rapida successione, trovando di continuo, nell’osservare la scena, uno sviluppo che aggiunge qualcosa al già detto, al già fermato, quasi con un senso infelice del tempo che già non è più, dell’ora irripetibile. Allora la difesa, se non si vuole essere trascinati da una mania sconfinante, è l’ironia, la garbata ironia”. Le ragioni di quella disposizione narrativa erano riconosciute da Vitali nell’essere Primoli “doppio memorialista, scrittore e fotografo”, tanto che  “Primoli fotografo non si spiega se non con Primoli memorialista, si può dire che uno nasca dall’altro.” L’analisi proseguiva serrata, considerando i moduli compositivi adottati[289] per svilupparsi con grande finezza interpretativa anche a proposito di quegli aspetti che Vitali giudicava negativamente, come le opere “ispirate alla pittura del tempo” nelle quali riconosceva un gusto non solo “essenzialmente letterario” ma anche scarsamente sensibile alle proposte più innovative del momento, pur riconoscendo che Primoli “fu salvo” dalla tentazione “di ottenere, con stampe alla gomma o al bromolio, effetti che rivaleggiassero con quelli della pittura più scadente.”

L’autorevolezza di quel modello e il successo del volume  determinarono una diffusa attenzione editoriale per la produzione amatoriale dei rappresentanti della nobiltà italiana a cavallo tra Otto e Novecento: così dopo le Memorie fotografiche di Francesco Chigi[290]  si pubblicarono le conturbanti pose della Contessa di Castiglione accanto alle più familiari fotografie di Casa Pignatelli, di Giuseppe Caravita Principe di Sirignano, del Marchese di San Giuliano, di Wladimir d’Ormesson, di Vittorio Emanuele III ed Elena di Savoia[291] o dei Lorena in Toscana. In quella occasione la selezione dei materiali piuttosto che fornire complesse testimonianze di vita o far trasparire un peculiare sostrato ideologico consentiva semmai di riconoscere le forti affinità espressive con altre analoghe produzioni del fotoamatorismo borghese coevo, tanto da indurre i commentatori a non “nascondere, sotto sotto, un senso di delusione per aver scoperto un mondo che credevamo e volevamo diverso, meno banale e meno quotidiano; delusione alla quale si sostituisce però ben presto il piacere di una lettura più partecipata di una visione di persone, luoghi e vicende colte nella loro reale, e quindi più genuina e sincera, dimensione umana.”[292] Un caso non infrequente in cui l’analisi non si spingeva oltre quelle descrizioni retoricamente superficiali,  riducendo così di molto l’interesse della pubblicazione dei materiali presentati.

Nobiltà e alta borghesia come committenti e produttrici di corpora fotografici inestricabilmente connessi a un’intenzione più o meno consapevole, se non proprio a un progetto di costruzione di un’immagine di classe[293], furono in quegli anni il soggetto privilegiato di saggi e mostre, come fu per il banchiere fiorentino Mario Nunes Vais, al quale tra 1974 e 1978 vennero dedicate ben due esposizioni con relativi cataloghi e due volumi monografici, tutti derivati dalla donazione del fondo fatta dalla figlia Laura Weil al GFN[294].  Quel gesto consentì al nuovo direttore Oreste Ferrari di avanzare l’ipotesi della costituzione di un museo della fotografia, utilizzando gli altri fondi conservati da quell’istituto: “troppo poco, forse, per presumere di parlare d’un vero e proprio Museo storico della fotografia italiana; ma intanto c’è un nucleo di base che consente almeno di assolvere dignitosamente parte di quei compiti di informazione e di promozione degli studi che del Gabinetto Fotografico Nazionale sono peculiari e che meglio esso potrà assolvere quando farà parte integrante di quel nuovo Istituto per il Catalogo e la Documentazione dei Beni Culturali che è previsto dal progetto del Ministro Spadolini.”[295] Diametralmente opposta, decisamente riduttiva in termini di potenzialità museale e preciso sintomo di una divergenza nella definizione dei reciproci ruoli istituzionali ben riconoscibile  ancora oggi, l’opinione di  Bertelli, passato alla direzione dell’ING, che riteneva invece che fosse “da  escludere che il vecchio Gabinetto Fotografico, ora confluito nell’Istituto Centrale per il Catalogo, possa essere ancora un promotore di cultura fotografica. Nella situazione attuale sarebbe innaturale. L’Istituto del Catalogo si occupa del catalogo delle opere d’arte. È il suo compito primario, e compie ogni sforzo per assolverlo. Quando il Gabinetto Fotografico fu assorbito dal nuovo Istituto proposi che le sue raccolte storiche fossero assegnate al nuovo Istituto per la Grafica, dove la fotografia avrebbe avuto un posto diverso, quello documentario.[296] Mi sembrava che le fotografie di attori di Nunes Vais, quelle della bella gente di Mario[297] Chigi, quelle dell’industria lombarda di Bombelli, o quelle del mondo meridionale di Michetti (tutti fondi che avevo acquisito io, e forzando le cose, al vecchio archivio del Gabinetto Fotografico) non avessero rilevanza per la documentazione delle opere d’arte e che avrebbero trovato la loro collocazione più ragionevole in un istituto che si fosse dedicato all’opera multipla, stampa, serigrafia, fotografia. Non fui capito e fu perduta un’occasione storica. Il lavoro potrà essere ripreso ora sul piano regionale e delle soprintendenze,  con ben altre difficoltà, e con un’ottica inevitabilmente provinciale.”

La fotografia come pratica e strumento di rappresentazione borghese non era invece una categoria storico critica immediatamente applicabile (nonostante le forti componenti classiste)  a quella che fu in quegli anni una delle ‘scoperte’ di maggiore successo editoriale e commerciale: l’opera di Wilhelm von Gloeden, che pian piano emergeva dalla damnatio memoriae in cui l’avevano relegata dapprima il fascismo e poi la cultura perbenista (tra cattolicesimo e comunismo) del secondo dopoguerra. Dopo il profilo biografico romanzato da Roger Peyrefitte[298] e la ricostruzione d’ambiente di Pietro Nicolosi, la lussuosa monografia edita nel 1964[299], con belle riproduzioni in fototipia applicate su fogli di carta uso mano, aveva presentato una ristretta selezione di ritratti, corredandoli con una breve nota autobiografica. La scelta dei soggetti era certo stata prudenziale ma aveva portato a considerare un nome sino a quel momento escluso dalle storie della fotografia, nelle quali iniziò a comparire solo a partire dal 1975, quando Cecil Beaton ne pubblicò un arcadico gruppo con veduta sul golfo[300]. Difficile dire oggi sino a che punto le modificazioni dei costumi e dei comportamenti sociali indotte dai  movimenti politici della fine degli anni Sessanta influirono sulla possibilità stessa di considerare un autore la cui opera era stata caratterizzata da quello che Goffredo Parise aveva definito uno “sguardo omosessuale”, segnalando – con crudele slittamento semantico – come questo fosse “rigettato dagli estetisti storiografi”[301], ma credo che non sia priva di significato la concentrazione di saggi e di mostre, in gallerie prevalentemente private[302] e quindi anche, certo, con scopi commerciali, dedicate al barone di Taormina negli anni tra il 1977 e il 1980, con ampie proliferazioni successive.

Un percorso di avvicinamento ancora diverso aveva segnato un pittore come Michetti, col  quale a sua volta Von Gloeden stesso si era dichiarato in debito per l’avvio della propria attività fotografica, anch’egli oggetto di una articolata serie di studi  e di mostre originate dalla riscoperta del suo archivio fotografico. Tra la fine degli anni Quaranta del Novecento e l’inizio del decennio successivo una concatenazione di iniziative e di eventi aveva richiamato l’attenzione sulla figura e sull’opera del pittore abruzzese, ma  fu solo nel 1966 che Raffaello Delogu durante un sopralluogo a Francavilla a Mare[303]  aveva scoperto l’archivio di Michetti segnalandolo a Bertelli che, “in diverse mostre, fra il ’67 e il ’71, [si era provato] a dare un ordine cronologico al vasto materiale (2921 lastre, 9349 disegni), collegando certe fotografie a dipinti noti e supponendo che l’interesse autonomo per la documentazione di ciottoli, rocce, foglie e acque appartenesse agli ultimi tempi. Affidai la classificazione di tutto il materiale prima a Francesca Galli, poi a Marina Miraglia. Con mia sorpresa vidi, dallo studio accurato e di molti anni compiuto da Marina Miraglia (…) che non mi ero sbagliato.”[304]   La catalogazione e la duplicazione del Fondo (1968-1970) avevano infatti costituito l’occasione per una prima mostra fortissimamente voluta da Vitali per gli Amici di Brera[305], curata dallo stesso Bertelli  nel 1968 e prontamente segnalata da Giuseppe Turroni: “Se la storia della fotografia è ancora tutta da scrivere – notava – bisognerà certo aggiungere un capitolo su questo grande pittore (…) il quale fece della fotografia non soltanto uno strumento pratico di lavoro (…) ma anche un mezzo espressivo”, sottolineando il fatto singolare che “Michetti è stato forse il primo a saper catalogare così bene le sue fotografie” poiché per ciascuna  redigeva “schede disegnate, con riferimenti agli elementi più interessanti.”[306] Pochi anni dopo l’interesse per le fotografie di Michetti venne ulteriormente sollecitato dalla mostra prodotta dal GFN per la sezione culturale del SICOF 1970[307] e da una serie di articoli pubblicati in riviste di grande diffusione come  “Popular Photography Italiana”[308] e “Photo 13”[309]. Il contenuto ma ancor più il titolo (Il vizio segreto di Michetti) adottato in quell’ultimo caso irritarono però non poco Bertelli che ne scrisse all’autrice Marina Cacciò: “Ho visto, naturalmente, l’articolo e non direi che mi sia piaciuto. Intanto il titolo, mi sembra che confonda un po’ le cose: perché sembra in relazione con le fotografie dei nudi e perché toglie alla scoperta di Michetti fotografo uno dei suoi aspetti più curiosi, e cioè che attraverso la fotografia la sua esperienza artistica si faccia europea e dunque tutt’altro che ‘segreta’. (…) dispiace che una scoperta originale di Marina Miraglia, e su cui la stessa stava lavorando con serietà, sia già stata divulgata prima che l’autrice abbia ancora potuto definirla e presentarla come meglio avrebbe creduto. Intendo tutta la storia della documentazione fotografica per la rappresentazione della Figlia di Iorio.”[310] Considerazioni per più motivi ancora oggi interessanti: perché mostrano quale distanza, diciamo così, deontologica vi fosse tra la ricerca storica metodologicamente fondata e la pubblicistica di divulgazione e perché il disappunto di Bertelli smascherava l’atteggiamento ammiccante comune a tutte le testate giornalistiche di fotografia dell’epoca (e non solo), talmente pervasivo da connotare anche temi di interesse storico. Il lavoro che si stava conducendo produsse ulteriori interventi rendendo nota la figura di Michetti ben oltre i confini degli addetti ai lavori[311], consolidata infine dalla monografia che gli dedicò Miraglia nel 1975, esplicitamente intitolata a Francesco Paolo Michetti fotografo, uscita nella collana “Einaudi Letteratura” in cui erano già stati pubblicati il Fotodinamismo di Bragaglia (1970) e La fotografia di Mulas (1973), mentre l’anno successivo comparve l’altro saggio sollecitato da Bertelli: Ignazio Cugnoni fotografo, a firma di Sebastiano Porretta[312].

Già solo considerando il sommario, il volume curato da Miraglia forniva importanti indicazioni metodologiche, evidenti nell’articolazione dei capitoli che prevedeva in apertura la sintetica descrizione dell’archivio fotografico, vero fondamento e fonte primaria per qualsiasi ipotesi di studio e valutazione critica dell’opera di un autore[313]; a quella faceva seguito un capitolo di inquadramento generale che collocava l’opera di Michetti pittore nell’ambito della cultura del suo tempo e affrontava il tema nodale di quella “crisi di espressione che porterà il maestro a rinunziare definitivamente alla pittura”, considerando il rapporto arte – fotografia con ampi riferimenti al contesto europeo, ricavati dall’attenta lettura dei saggi di Aaron Scharf[314] (1962-1968) e di Van Deren Coke (1964) come delle più recenti mostre Malerei nach Fotografie (1970) e Combattimento per un’immagine (1973), ciò che le consentiva di sottoporre a revisione critica le prime notazioni in merito formulate da Ugo Ojetti e le indicazioni a suo tempo fornite da  Costantino Barbella, scultore amico di Michetti. L’ultima parte era invece dedicata alla lettura delle fotografie, nella quale considerava “non tanto il riporto nella pittura di modelli fotografici (…) ma il contributo della fotografia come linguaggio ed espressione al rinnovarsi dell’arte”,  tenendo però presente che “se anche prima del ritrovamento del fondo fotografico di Michetti, era inequivocabile, a ben guardare, il ricorso alla fotografia, altrettanto inequivocabile risulta, dall’esame delle fotografie, che tale ricorso non trovò mai un percorso in senso inverso dalla pittura alla fotografia”. Si stabiliva così un giudizio di merito sulla ‘modernità’ di Michetti fotografo rispetto alla sua produzione pittorica, anche se – per stessa ammissione dell’autrice – “forse è forzato pensare ad un Michetti che, dati i tempi aberranti della fotografia contemporanea, puntualizzi il problema con la stessa lucidità d’analisi che costituisce il presupposto della verifica n.1 di Mulas.”

Il libro di Miraglia costituì un evento importante non solo dal punto di vista del merito ma anche e forse soprattutto, perché rappresentava il primo sistematico contributo italiano all’analisi dei rapporti tra pittura e fotografia, già accennato a suo tempo da Vitali e più recentemente antologizzato in modi che destarono più di una perplessità nella mostra Combattimento per un’immagine[315], condotto con gli strumenti e le metodologie propri di uno storico dell’arte, ciò che di riflesso legittimava anche quell’area di studi a considerare il rapporto dei pittori con la fotografia come un possibile ambito di ricerca, superando rimozioni e censure. A distanza di anni il volume assume però un ulteriore valore testimoniale, rappresentato da quelli che oggi ci appaiono come alcuni rilevanti limiti dell’opera, che più che essere ascrivibili all’autrice ci sembrano ben rappresentare lo stato degli studi e la disponibilità, a quella data, di adeguati strumenti metodologici e conoscitivi: mentre la raffinata lettura storico artistica poteva contare su di una strumentazione teorica e metodologica consolidata da una lunga tradizione, alla nascente e meritoria consapevolezza della necessità di mettere in relazione tecniche e modalità espressive non corrispondeva ancora un bagaglio di competenze e di conoscenze storico tecnologiche adeguato a interpretare correttamente il corpus di  opere analizzate[316], determinando così una evidente discrasia tra i vari piani analitici, che non solo restarono nettamente separati ma anche pericolosamente disequilibrati.

La consapevolezza della necessità di partire dalla realtà materiale e tecnologica dei fototipi analizzati costituì il fondamento del successivo volume dedicato alla Collezione Cugnoni, nel quale una gran parte venne dedicata alla descrizione delle caratteristiche delle lastre conservate presso il GFN[317], corredando il testo anche di un sintetico glossario delle tecniche. Sebbene non esistesse una documentazione esauriente, la realizzazione di quel cospicuo insieme di lastre (4.515) venne assegnata all’architetto Ignazio Cugnoni, qualificato sin dal titolo come fotografo, da annoverarsi tra gli “irregolari” poiché “in effetti egli non fotografa per vendere a terzi, ma per sé, per la propria professione; così la sua espressività può definirsi libera, ma solo in quanto svincolata dal mercato”[318]. Tale condizione era allora parsa sufficiente a giustificare quell’insieme di materiali eterogenei per soggetto, cronologia e modalità di ripresa, oggi più ragionevolmente comprensibili come repertorio di immagini raccolte a scopo professionale attingendo dai cataloghi di autori diversi, da Filippo Belli a Carlo Baldassarre Simelli ed altri.[319]

 

Arte e fotografia: contatti

 

La questione dei rapporti tra la fotografia e le altri arti visive, la pittura in particolare, che Miraglia aveva analizzato a proposito di Michetti, era stata affrontata per la prima volta in  una mostra tenutasi alla Bibliothéque Nationale di Parigi nel 1955[320] e aveva goduto di una considerazione sempre maggiore nei due decenni successivi anche in area italiana, con gli interventi di Ragghianti su “seleArte”[321], di  Racanicchi in “Popular Photography Italiana” (1963)[322] e con altri raccolti nel gà citato numero monografico di “Ulisse” del 1967[323]. In ambito internazionale i contributi più sistematici  di quel periodo vennero dal volume divulgativo del cineasta e fotografo André Vigneau  e dagli studi di Beaumont Newhall, di Van Deren Coke, storico dell’arte ma anche fotografo, allievo di Ansel Adams, di Otto Stelzer (1966)[324] e di Aaron Scharf (1968)[325]. Per quanto riguarda la situazione italiana va ricordato che nel 1969 Paolo Fossati aveva proposto a Lamberto Vitali di curare “un libro sul lavoro dei pittori italiani fine Ottocento inizio del ‘900 condotto su fotografia – pittura. Si tratta di proporre un buon numero di esempi che illustrino il problema, quasi interamente illustrato e perciò in termini visivi. (…) si dovrebbe procedere più a provocare, come conseguenza di una proposta del genere, in altri il bisogno di lavorare al tema”[326].   Vitali declinò l’offerta, ma in un panorama artistico segnato dalle più mature esperienze concettuali e comportamentali  il tema era nell’aria, così che poco dopo la chiusura della grande mostra di Monaco Malerei nach Fotografie: von der camera obscura bis zur Pop Art. Eine Dokumentation[327], si apriva a Milano  nell’ambito della Sezione culturale del SICOF 1970  la mostra Arte e Fotografia curata da Daniela Palazzoli[328]. In occasione dell’inaugurazione si svolse la tavola rotonda Rapporti tra arte visuale contemporanea e fotografia,  a cui presero parte la stessa Palazzoli, Gillo Dorfles, Pier Paolo Preti, Pierre Restany e Lea Vergine[329]  e vennero proiettati lavori di Luca Patella e Franco Vaccari, anch’essi presenti, che scatenarono le ire dei convenuti. Nella cronaca offerta da Dorfles “la cosa più sorprendente della serata fu l’inattesa reazione del pubblico, formato in maggioranza da fotoamatori. Ebbene, costoro trovavano poco interessanti e belle (fotograficamente parlando) le immagini proiettate ed esposte e si scagliarono contro gli oratori che, a loro avviso,  parlavano non di fotografia ma di ‘arte’, dimostrando così come, purtroppo, non basti maneggiare, anche ottimamente, una tecnica, per intendere il valore artistico: come cioè tra arte e tecnica ci sia spesso un baratro incolmabile.”[330] Non migliore il ricordo di Lea Vergine che parlava di “una massa urlante di frustrati – a livello ‘ottico’ beninteso”, mentre a sua volta Preti, in una lettera aperta pubblicata nel successivo numero di gennaio di “Popular Photography”,  accusava il gruppo dei critici non solo di aver manifestato pubblicamente il loro disprezzo per quel pubblico ma anche di aver dato una lettura strumentale e quindi riduttiva dell’utilizzo del reperto (e del riporto) fotografico da parte degli artisti considerati. Le risposte di Lea Vergine e soprattutto di Daniela Palazzoli, pubblicate sullo stesso numero furono molto articolate e appropriate,  mettendo in evidenza e sottoponendo a un forte giudizio critico le  convenzionalità e quindi le ingenuità di opinione della  cultura fotoamatoriale sostenuta da Preti e vivacemente espressa dal pubblico dei presenti, misurando così quale fosse ancora a quella data l’incommensurabile, paradigmatica distanza tra questi due universi di  produzione e cultura dell’immagine.

Quando Palazzoli propose a Luigi Carluccio[331] di realizzare la mostra che poi si sarebbe chiamata Combattimento per un’immagine[332], trasformandosi quasi in una formula idiomatica[333], la ripresa del tema aveva certo anche il sapore di una sfida e di una scelta di campo, essendo ora destinata a un contesto museale.  La sua elaborazione, avviata sul finire del 1971, entrò nella sua fase esecutiva nella primavera successiva, quando si formularono anche alcune ipotesi di titolo;  tra queste la ripresa di Arte e Fotografia, apprezzata anche dal gallerista newyorkese Leo Castelli, ebbe per molto tempo la miglior fortuna, sino a che Carluccio propose alla presidente dell’ATAC il titolo definitivo, più mediaticamente efficace, a soli quindici giorni dall’apertura della mostra alla Galleria civica d’Arte Moderna di Torino il 28 febbraio 1973[334]. In quella sede vennero presentate circa 500 opere, secondo un percorso che procedendo da Canaletto giungeva sino alle più recenti opere concettuali, ma agendo per sommatoria piuttosto che per accostamenti e confronti critici, di numero piuttosto ridotto. L’intenzione era infatti quella di “costituire  una specie di antidoto alla visione prospettica che crea la storia, e che fa di ogni storia un fatto a sé”, come dichiarava Palazzoli  nel testo in catalogo, caratterizzato da un titolo che rafforzava l’assunto della mostra (Descrizione di una battaglia: l’Immagine) sebbene poi ricorresse più volentieri al concetto di dialogo, poiché “invece che delle differenze, siamo portati a diventare sempre più consapevoli dei legami che uniscono disciplina a disciplina, immagine a immagine.”[335]

Antonella Russo ha ricordato che “l’esposizione riscosse un enorme successo e fu accolta con grande soddisfazione specialmente dalla comunità fotografica, che vide finalmente ammessa, anche in Italia, la fotografia in un importante museo d’arte. Gli storici dell’arte, invece, riservarono non poche critiche, lamentando la genericità dell’impostazione della mostra.”[336] Le prime avvisaglie di quelle riserve si potevano rintracciare già in uno scambio epistolare tra Paolo Fossati e Carlo Bertelli del 1972, in cui il primo, prospettando la calendarizzazione dell’uscita del volume di Gisèle Freund scriveva: “forse si potrebbe uscire per il prossimo inverno quando di fotografia, pittura e simili si parlerà, e a vanvera spesso”[337]; giudizio poi confermato e ulteriormente articolato in una recensione in cui lo stesso Fossati contestava i presupposti critici che avevano governato la concezione della mostra, fondati sulla presunta contrapposizione tra manualità delle tecniche artistiche e meccanicità della fotografia, per poi mettere in luce (e un poco alla berlina, anche) il rifiuto da parte dei due curatori di “ogni connotazione di tipo filologico e storicistico” per affidarsi “a contesti intuizionistici e lirici variamente motivati.”[338]  Quel richiamo alle mancate attenzioni filologiche venne plasticamente espresso in una delle didascalie a corredo del dialogo tra Carlo Bertelli e Giovanni Romano, pubblicato a mostra appena conclusa, in cui si segnalava  come fosse stato presentato come originale, datandolo al 1900 ca, un fotomontaggio relativo a Gli storpi  di  Michetti, che invece era stato eseguito nel 1968 a cura del GFN con fotografie tratte dall’archivio del pittore.[339]  Il giudizio dei due storici dell’arte sulla mostra torinese fu senza appello:  certo  –  ammetteva Bertelli – era doveroso riconoscere che gli organizzatori  avevano dovuto “impegnarsi in una battaglia non facile. Fra l’altro dovevano distaccarsi da (…) «Malerei nach Fotografie», pittura dalla fotografia [ma «Pittura dopo la fotografia»], allestita a Monaco due anni fa. Era una mostra d’una precisione infallibile nella ricostruzione puntigliosa delle relazioni segrete tra pittura e fotografia e soprattutto aveva il merito di far sentire con forza lo “scandalo” di questi rapporti”. I limiti però risultavano evidenti e ingiustificabili:  dall’assenza di alcune importanti figure come Signorini alla mancanza di una bibliografia di riferimento in catalogo, sino allo stesso allestimento, che sembrava fatto apposta per confondere le idee. “Che senso può avere – notava Romano –  un bruttissimo Renoir accanto alle fotografie di Nadar; il confronto è troppo ingeneroso, anche per chi non amasse l’impressionismo. Fino a che limite è credibile il confronto tra il commovente incunabolo di Niépce rifotografato, stampato, ingrandito, sgranato e un disegno di Seurat? Le domande potrebbero continuare (…). Si è tenuto troppo poco conto della qualità, che esiste anche tra i fotografi (…).” Ancor più perentorio il giudizio espresso da Quintavalle che riconosceva come “una volta fu di un certo interesse un grave errore di prospettiva storica, quello di costruire le vicende contrapposte della pittura e della fotografia che semmai, sono reciprocamente funzionali, sono una storia soltanto; l’errore fu proficuo, almeno da noi, perché mostrò il livello culturale degli interventi, perché chiarì come non si potesse far storia delle tecniche ma storia di queste legata alle ideologie. Chiarì anche la povertà metodologica, la disarmante ingenuità degli ‘esperti’.”[340] Alcune macroscopiche esemplificazioni di quel procedere vennero poi fornite da Piergiorgio Dragone, che  recensendo l’edizione italiana del volume di Scharf, notava come il lettore avrebbe potuto stupirsi “nello scoprire che questi casi [esposti in mostra] erano solo alcuni dei numerosi esempi illustrati  nel volume inglese e che invece nel catalogo della mostra torinese non si fosse neppure riusciti a citare Scharf (…) ma neppure Van Deren Coke viene mai nominato. (…) Se, dopo aver letto il libro di Scharf, andando a sfogliare il catalogo di Torino ci si sentisse quindi un po’ delusi, e quasi ingannati, ci si potrebbe però sempre consolare consultando quello curato da Erika Billeter (…). Si vedrebbe così come, lavorando seriamente, si possa approfondire davvero un problema col risultato di fornire una corretta informazione e un effettivo contributo critico, allargando anche le conoscenze sull’argomento con nuove scoperte filologiche ed originali osservazioni storiche.”[341]

 

Fotografia e ideologia

 

Tra i rari italiani a meritare una certa attenzione nel catalogo della mostra torinese compariva Anton Giulio Bragaglia, mentre solo alcuni fotogrammi di Luigi Veronesi potevano costituire un richiamo alla fotografia italiana del periodo tra le due guerre mondiali, poco considerato anche dai più attenti studiosi italiani[342] specialmente per la difficoltà di misurarsi con le forti implicazioni ideologiche che tale analisi comportava.

L’imponente produzione degli anni del fascismo era stata sino ad allora utilizzata prevalentemente per nostalgiche ricostruzioni iconografiche quali la Storia fotografica di Mussolini e del fascismo prodotta nel 1952 dal “Meridiano d’Italia”, settimanale fiancheggiatore del Movimento Sociale Italiano, o, nel 1961, la Storia del fascismo: rassegna fotografica dal 1914 al 1945, curata da Pietro Caporilli, già membro del Partito Nazionale Fascista sino alla Repubblica Sociale Italiana,  per la sua casa editrice Ardita[343]. Solo nel 1973 il direttore dell’Istituto LUCE, Ernesto G. Laura, avrebbe pubblicato un primo vasto repertorio di immagini del fascismo costruito quasi come un reportage; “una serie di immagini fotografiche, veri e propri emblemi per una lettura critica del periodo, accompagnate da brevissime didascalie esplicative che inquadrano storicamente l’immagine a cui sono sottese”[344], mentre negli anni immediatamente successivi vennero realizzate alcune mostre che a quella produzione facevano riferimento, tutte segnate da un preciso impegno politico sebbene diversamente manifestato.  Così la mostra dedicata alla colonizzazione del territorio[345] prodotta dai membri del gruppo fiorentino UFO (Carlo Bachi, Lapo Binazzi, Patrizia Cammeo, Riccardo Foresi, Titti Maschietto), tra gli esponenti di punta dell’architettura radicale italiana, con la collaborazione di Daniela Palazzoli, che trasse  dall’archivio del Touring Club Italiano la documentazione sull’Italia agricola negli anni del fascismo; la mostra curata da Luigi Crocenzi e Luigi Ricci sulle Marche dal fascismo alla Repubblica[346], organizzata dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione,  e quindi la prima iniziativa critica esplicitamente dedicata alla produzione di quegli anni: Fascismo 1922-1943: modi e tecniche di utilizzazione della fotografia al servizio dell’ideologia fascista, curata da Italo Zannier per la sezione culturale del SICOF ‘75[347]. La mostra fu successivamente esposta a Pordenone e alla Galleria d’Arte moderna di Bologna, qui in parallelo col ciclo pittorico di Renzo Vespignani Tra due guerre, rispetto al quale l’iconografia fotografica era ancora intesa come “un utile documento per meglio comprendere il clima ‘rivisitato’ dall’artista.”[348] “Quel maledetto ventennio – scriveva Zannier – incuriosisce, da un po’ di tempo, forse più del lecito, tanto da suscitare un diffuso interesse filologico e critico per tutto ciò che, in un modo o nell’altro, abbia avuto a che fare con il fascismo: moda o freudiana paura?” La risposta doveva rivelarsi tutto meno che semplice se  poco dopo lo stesso autore poteva avanzare alcune osservazioni che oggi possono sorprendere: “le immagini del fascismo fanno dunque ridere, tutte”; e inoltre: “questa fotografia fascista di cui vogliamo raccontare la storia, non è mai esistita, se non in tracce assai  deboli e sporadiche; è però un’assenza di cui vale la pena parlare.”[349] Tale affermazione, palesemente provocatoria, era un poco retoricamente giustificata dalla presunta contraddizione in termini tra la coercizione esercitata dal regime e la presunta libertà che avrebbe caratterizzato la  pratica fotografica in quanto tale, risolvendosi infine nel riconoscimento risolutivo di una costante azione mistificatoria. Un’interpretazione  che sembrava voler liberare i fotografi dalla responsabilità di adesione o connivenza al regime, riducendone molti a semplici “documentatori inconsapevoli (…) di un’Italia risibile e assurda”, mentre altri (i fotoamatori) si sarebbero rifugiati in un “atteggiamento aristocratico” di distacco dalla realtà, dimenticando però come fosse possibile ritrovare i nomi di molti autori in entrambe le categorie.

L’attenzione per la produzione di quel periodo si fece più ampia e sistematica specie per merito del CSAC, che in una serie di mostre successive presentò diverse produzioni emblematiche, quasi a indicare possibili tipologie. La prima monografia venne dedicata a Luigi Veronesi, tra gli artisti italiani più seguiti dalla critica senza soluzioni di continuità e ancora ben attivo in quegli anni, di cui si proponeva una sintesi del percorso artistico a partire dai primi lavori degli anni Trenta.  Già  Zannier[350]  aveva pubblicato nel 1966 un ampio intervento dedicato alla sua opera, posta sotto l’egida delle “arti della visione”,  segnalando come fosse stato il solo in quegli anni in Italia a praticare una fotografia “che impropriamente chiamiamo astratta”, sebbene il ricorso a quella tecnica fosse da  intendersi soprattutto come “un mezzo per esprimere la sua semantica figurativa al pari del disegno e della pittura”,  inserendo “le sue immagini fotografiche, quasi ad integrazione, in talune strutture pittoriche e specie nelle scenografie.” Notazione interessante, che non teneva però criticamente conto  della incommensurabile differenza tra segno grafico e impronta fotografica. Era quella una problematica che non si era ancora imposta alla considerazione critica e metodologica degli studiosi, come del resto indicavano anche altri contributi di poco successivi, quali la breve nota che apriva il catalogo della torinese Galleria Martano del 1970, in cui Maurizio Fagiolo parlava di “discorso parallelo tra le diverse tecniche”, suggerito con evidenza visiva dagli accostamenti pubblicati in catalogo[351], che riportava anche alcuni bellissimi esempi di grafica applicata all’editoria. Anche Paolo Fossati avrebbe chiarito in apertura del proprio testo critico  che sarebbe stato “inesatto” isolare le fotografie e i fotogrammi dal resto della sua produzione, specie  per evitare che una mostra dedicata a Veronesi fotografo corresse “il rischio di divenir equivoca, mentre è indispensabile e utile. Equivoca perché con la moda artistica della fotografia che ci troviamo oggi a misurare, lo scoprire un Veronesi ottimo fotografo assolve due compiti di cattiva coscienza: lo rende artista, in quanto fotografo degno di un capitolo sperimentale di grande impegno da Schad a Moholy Nagy e dintorni, e lo evacua dal fortilizio della pittura -pittura astratta, facendo così tornare i tormentatissimi conti.”[352]  Il bel testo di Fossati scandagliava criticamente il percorso e le opere di Veronesi confermandone i legami internazionali ma anche “la solitudine pressoché assoluta” rispetto alla scena fotografica italiana, tanto da risultare poco comprensibile e immotivata la sua adesione nel 1947 a La Bussola, a cui partecipò “con ben altro materiale”, chiamato da Cavalli e Vender solo alla vigilia della sua costituzione[353].

Quell catalogo per molti versi esemplare era però segnato da una impostazione storica (e quasi ideologica) che presentava più di un aspetto problematico, a partire dalla scarsa propensione a definire e considerare criticamente le relazione con altre importanti figure della scena milanese degli anni tra le due guerre come Boggeri, Grignani, Munari o Carboni, ed a interpretare la loro attività alla luce dei rapporti non occasionali con l’universo della comunicazione e delle ‘arti applicate’ durante il regime fascista; vale a dire, cioè, dei rapporti di quegli autori col fascismo [354]. Quasi l’effetto lungo di una pervicace rimozione.

In un decennio fortemente politicizzato come quello chiuso dal sequestro Moro sembrava quasi di cogliere, anche nei migliori tra gli studiosi, una certa forma di autocensura che rendeva difficoltoso, quando addirittura non impediva la formulazione di un giudizio in grado di comporre valutazioni critiche e condizioni storiche, superando fondamentali quanto inevitabili condizionamenti ideologici, quasi che – nonostante le esplicite dichiarazioni contrarie – sopravvivesse ancora una concezione idealistica dell’arte e del lavoro degli artisti, avulsi dal contesto sociale e liberi da condizionamenti che non fossero quelli di una espressione liberamente scelta.

Analoghe reticenze si potevano riscontrare nella monografia dedicata a un fotografo tout court come Bruno Stefani, tra i professionisti più attivi  in Italia a partire dalla fine degli anni Venti specialmente nell’ambito della fotografia di documentazione di luoghi e monumenti;  un autore tanto presente in periodici e volumi illustrati, come quelli del Touring Club Italiano, da  rinnovare e modificare i canoni rappresentativi definiti nel corso del XIX secolo dal ‘modello’ Alinari. L’analisi che ne fece Roberto Campari[355] adottava lo strumento interpretativo dei ‘generi’ – qui la fotografia turistica –  seguendo indicazioni metodologiche a suo tempo fornite da Quintavalle[356] per considerare gli stereotipi visivi e narrativi reiterati nel racconto per immagini realizzato da Stefani in decenni di lavoro. La consistenza del fondo recentemente acquisito dal CSAC (circa 150.000 fototipi) precludeva al momento “ogni possibilità di rassegna unitaria” e suggerì di presentare una selezione di immagini di soggetto milanese, distribuite lungo l’arco di poco più di un trentennio a partire dal 1925, sulle quali venne esercitata una puntuale e raffinata lettura critica, che individuava una serie ampia di riferimenti che spaziavano dagli annuari di “Luci ed Ombre” al cinema di Ruttmann e Ivens, e poi di Visconti, passando per Hokusai e Cartier-Bresson. Della complessa retorica fascista dell’immagine, a cui pure doveva sottostare un professionista con solide committenze pubbliche durante il Ventennio, neppure un cenno fuggevole, anche quando le immagini avrebbero più facilmente consentito di farvi riferimento, come nei due fotomontaggi con la ciminiera fumante e il Duomo in secondo piano.  A una ulteriore tipologia di produttori, lo studio fotografico, venne dedicato un altro catalogo dello CSAC, primo esito della donazione di circa centomila lastre dello Studio Villani di Bologna[357] favorita da Nino Migliori, all’epoca docente di Storia della fotografia al Corso di perfezionamento in Storia dell’arte dell’Università di Parma e curata da Paolo Barbaro.  Il  catalogo della mostra apriva con un ampio saggio di Quintavalle che  prima di entrare nel merito della produzione della ditta bolognese dedicava alcune dense pagine al rapporto tra archivi, storia e storiografia, interrogandosi – tra le altre cose – su quello che chiamava “spazio degli archivi (…) quello che modella l’ampiezza dei riferimenti, l’ampiezza delle aree che l’archivio stesso tocca; (…) Esiste uno spazio dei generi, ed anche, più sottilmente, uno spazio tra generi, che nasce dalla storia della loro organizzazione, dalla loro interna gerarchia, dalla loro trasformazione nel sistema della fotografia. Un grande studio è anche un sistema che vive in rapporto ad una società, non è morta gora di ombre trasparenti ma punto di riferimento per una cultura che vi si riconosce e vi si trova, appunto, come condensata, in nuce, o, meglio, in vitro.” [358] Per queste ragioni era indispensabile riconoscere nella loro produzione, nella “costruzione del sistema di segni dell’icona fotografica (…), icone fornite nell’ottica dei proprietari [committenti] che rispondono a modelli specifici, a modelli rigorosamente storicizzabili.” In quella sede Quintavalle riconosceva, certo, che dalle loro immagini degli anni Trenta emergeva “l’epica del lavoro per la patria”[359], ma come di sfuggita, quasi un incidente di poco conto in un percorso luminoso guidato dalle stelle di John Ford, del Bauhaus e ancora di Ruttmann, Visconti ed Eisenstein, pur ammettendo che questo “al massimo, agli operatori di Villani poteva essere noto indirettamente.” Notazione solo apparentemente marginale questa, e certo non sviluppata per evitare l’insorgere di contraddizioni interne, ma di cruciale importanza storiografica. La lettura del saggio di Quintavalle, come di quello precedentemente citato di Campari era allora, e rimane, un compito affascinante che lasciava però insoddisfatti: mentre si apprezzava l’esercizio funambolico del citazionismo – seppur ridotto a una circolarità di nomi –  si coglieva il limite di un’analisi non sostenuta da altro che non fosse la ricerca di analogie che  in mancanza di riscontri storico documentari rischiavano di essere solo superficiali. Risultava così eccessivo il ruolo assunto dal critico, che – certo involontariamente – colonizzava l’opera relegando ai margini la sua storia di produzione così come l’esistenza storica dell’autore; senza domandarsi mai come si potesse costruire, se e in quali condizioni poteva darsi, quella “cultura che vi si riconosce”; quali le condizioni di circolazione e ricezione di quei riferimenti, di quei modelli di cui l’intelligenza dello studioso  supponeva la funzione.  Al di fuori del metodo storico queste componenti e queste tracce correvano  e corrono ancora il rischio di ridursi a schemi applicati ex post, non ricostruzioni e verifiche del farsi di una cultura, anche visiva, personale e collettiva; dei suoi canali, occasioni, contesti.

Pur non adottando esplicitamente la categoria interpretativa dei ‘generi’, anche il lavoro condotto su parte dell’archivio di Giuseppe Pagano[360], coordinato da Cesare de Seta, considerava separatamente le singole voci di soggettazione da lui adottate; un lemmario che era “il derivato di una cultura tardo positivistica ancora viva ed operante al Politecnico di Torino negli anni di studio dell’immediato dopoguerra.”[361] E già il riferirsi alle aggregazioni operate dall’autore era una chiara e importante indicazione di metodo, essendo quelle riconducibili “ad alcuni interessi dominanti della sua cultura ed alle sue precise scelte di gusto.” Quale fosse, e come si collocasse la sua produzione fotoamatoriale (“ma questo,  sia detto subito ad evitare equivoci -avvertiva De Seta – non vuol certo diminuire la qualità della sua produzione”) in relazione alla sua formazione e professione di architetto fu il compito assunto dai numerosi collaboratori al volume. Così emerse che “tutto ciò che Pagano riprende viene fotografato in funzione dell’architettura (…) per cui tutte le foto del suo archivio sono in qualche misura foto di architettura”[362], destinate a entrare a far parte, come lui scriveva, “di un vocabolario di immagini che parlano dell’Italia a modo mio e per me”[363], insoddisfatto come molti architetti della sua generazione dei repertori di derivazione ottocentesca come della nuova iconografia  veicolata dalle pubblicazioni del TCI. Non minore attenzione venne mostrata per le fotografie che si riferivano al fascismo e alla guerra[364],  tralasciando però, forse per una malintesa forma di  pudore censorio, ogni esplicito riferimento al tragico percorso ideologico di Pagano,  dall’adesione al PNF sino alla morte in campo di concentramento a Mauthausen, così da ridurre a nulla più che una sensazione il fatto che “nelle immagini del covo [di via Paolo da Cannobio, sede del “Popolo d’Italia”] ci pare di cogliere qualche oscuro presagio.”

Il decennio che separava le monografie dedicate a Primoli ed a Pagano ha segnato un periodo importante di sviluppo della storiografia italiana, che in quegli anni mise a punto i propri strumenti e metodi registrando anche un mutamento di figura sociale dei propri attori. Si stava infatti passando dall’impegno quasi volontaristico (e politicamente connotato) dei fotografi, giornalisti e tecnici riuniti intorno a Crocenzi o al CIFe ai primi interventi di studiosi di formazione accademica, tra storia dell’arte e dell’architettura, con l’eccezione luminosa di un outsider come Vitali, che traeva il proprio magistero da una raffinata cultura collezionistica. In quelle variegate e determinanti produzioni due erano gli elementi che sembravano emergere al di là dei singoli esiti: il ricorso sempre più sistematico all’archivio e la lettura a più mani della produzione di un autore o di uno studio. Quasi un riconoscimento implicito della complessità della fotografia come campo d’indagine.

A più di dieci anni di distanza dalla monografia su Primoli e dopo la raccolta monografica dedicata a Nadar[365],Vitali pubblicava nel 1979 Il Risorgimento nella fotografia, dedicato alla moglie America Campagnani appena scomparsa. Un volume che fin dal titolo, nella scelta accurata della preposizione, affermava il prevalere della funzione documentaria, tradotta nella “volontà critica di stabilire legami quanto mai stretti con la cultura del medesimo periodo, [nella] lettura simultanea e comparata di fotografia e fonti letterarie”, la sola che riuscisse a soddisfare la sua volontà di restituzione del tema[366], ma rischiando troppe volte la pura reciprocità didascalica, illustrativa. Lo scopo era chiarito sin dalle prime righe dell’introduzione: “Questo libro si propone di dare un corpus delle fotografie risorgimentali, che documentano, cioè, fatti e personaggi di quel periodo”, modificando il giudizio espresso vent’anni prima a proposito dei “rarissimi esempi” di qell’epopea.  Vitali non si mostrava interessato a comprendere le funzioni assegnate o svolte dalla fotografia in quel contesto; non era nelle sue intenzioni la redazione di un saggio (neppure visuale) come indicava anche la mancanza di una bibliografia di riferimento. Semmai l’intento era di realizzare un album storico che fornisse anche l’occasione di mettere a punto un primo repertorio (poi vedremo quanto esauriente), con la segnalazione di alcuni nomi (Lecchi, Mehédin, il suo Sevaistre[367], Sommer) e brevi notazioni critiche a proposito del fenomeno della circolazione e al conseguente problema dell’attribuzione di molte di quelle immagini, specialmente ritratti, con cui di fatto terminavano le due paginette che aprivano il volume e ne costituivano la sintesi introduttiva. Che l’interesse risiedesse principalmente nel referente più che nella specificità delle immagini risultava chiaro sia dalla scarsa cura per le attribuzioni autoriali[368] sia dallo stesso impianto del volume, che relegava all’Indice delle fotografie  i dati concernenti autore, misure e collezione di provenienza, con rare indicazioni tecniche[369] riservate ai soli ‘calotipi’ ma senza distinguere tra originali e copie; per non dire di alcune indicazioni erronee quali la definizione di “stereogrammi” per le carte salate di Stefano Lecchi, già presentate nella mostra Immagini del Risorgimento. Le origini della fotografia in Italia[370], in cui era compresa anche la serie di fotomontaggi raffiguranti la fuga di Orsini[371]. Anche dal punto di vista più propriamente storico il saggio di Vitali si prestava a numerose riserve[372]: il suo era un Risorgimento oleografico e d’élite, fortemente ideologico, dal quale – ed era l’elemento più eclatante – era stato espunto ogni riferimento al fenomeno, anche fotografico, del cosiddetto brigantaggio[373], ormai ben noto e definito se Becchetti aveva potuto scrivere giusto un anno prima che “la inumana pagina del brigantaggio che insanguinò le provincie meridionali, disseminando lutti e rovine, ebbe una agghiacciante documentazione da parte di numerosi fotografi spesso anonimi.”[374] Su questo tema, e nonostante l’encomiastica valutazione espressa nel risvolto di copertina (“Col suo metodo di lavoro egli ha aperto una strada lungo la quale bisognerà cercare di seguirlo”), il contributo di Vitali non poteva reggere il confronto con le coeve considerazioni svolte da Giulio Bollati nel testo introduttivo agli “Annali” einaudiani dedicati alla fotografia, che merita riportare per esteso: “andrà ricordata la sua [della fotografia] partecipazione al moto risorgimentale e la sua non indifferente interpretazione di quei fatti (…) Il problema non è tecnico, ma politico e storico, e su questo piano la fotografia italiana ha una sua preziosa e autonoma verità da comunicare: l’immobilità, le lacune, sono elementi essenziali, non accidentali, del processo storico in questione. (…) non è difficile separare i ritratti autentici dalle effigi apologetiche o dai fotomontaggi e dalle fiorite composizioni grafiche influenzate dalla industria cattolica delle immagini. (…) I militari, solitamente così avari di immagini, rivelano un’improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio (…). Ecco che d’un tratto l’impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all’obbiettivo (…). Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione. (…) La guerra al brigantaggio segna, in campo fotografico, il primo esordio di una pedagogia unitaria destinata a crescere rapidamente diramando in ogni direzione.” [375]

Il confronto tra l’interpretazione di Bollati e la lettura delle fotografie risorgimentali avanzata da Vitali impone almeno di interrogarsi (e magari di provarsi a rispondere) sulle ragioni profonde che hanno portato a identificare in lui il padre nobile della storiografia fotografica italiana. Certo la sua militanza culturale, il suo attivismo di lunga data nell’organizzazione di mostre importanti; certo il lavoro dedicato a Primoli, che ha rappresentato un momento determinante per la formazione di una specifica considerazione culturale della fotografia storica in Italia, dovuto però più al prestigio della sua figura e all’autorevolezza della sede di pubblicazione che alla esplicitazione di un metodo storico che aderisse alla complessità della fotografia oltre il suo valore testimoniale. Un prestigio che gli derivava dall’essere un raffinato conoscitore d’arte, un fine studioso di pittura, come aveva acutamente notato Antonio Arcari, che aveva riconosciuto nel successo del volume dedicato a Primoli soprattutto un “avvenimento editoriale”[376].  Per queste ragioni non è condivisibile e risulta quasi incomprensibile una valutazione come quella ancora recentemente espressa da Antonella Russo, secondo la quale invece “le sue [di Vitali] analisi critiche erano volte alla descrizione e alla ricostruzione dell’œuvre di un fotografo, all’identificazione di simbologie e influenze artistiche, grafiche e letterarie. Vitali, infatti, tendeva a ricondurre la fotografia all’interno della tradizione umanistica attraverso una puntuale analisi filologica che rintracciava l’origine di ciascuna opera collocandola nell’ambito del sapere umano nel senso più alto del termine.”[377]

Se il Primoli di Vitali era stato a tutti gli effetti un buon esempio di equilibrio storiografico, certo significativo dal punto di vista del rapporto tra storia della e storia con la fotografia, in quegli anni molti altri ricorsero allo scandaglio del patrimonio fotografico per indagare aspetti diversi delle vicende italiane.  Non storia del mezzo e delle sue immagini e neppure, o non solo, storia attraverso le immagini ma raffigurazione e rappresentazione di un processo con forti intenzioni e implicazioni identitarie, socio antropologiche, inversamente proporzionali si direbbe alle dimensioni del territorio e delle comunità indagate.

Che in quegli anni l’interesse per la fotografia storica, se non proprio per la storia della fotografia[378], che è questione problematica ancora oggi, fosse ormai entrato a far parte (ma quasi come un esotismo temporale) della cultura diffusa, lo  testimoniava l’iniziativa del Touring Club Italiano Foto d’archivio: Italia tra ‘800 e ‘900, che prese corpo in due volumi editi rispettivamente nel 1979 e nel 1982, il primo dei quali corredato di due magistrali testi di intellettuali tanto distanti quanto potevano esserlo Cesare Zavattini e Paolo Monti[379]. “Credetemi – scriveva Zavattini traducendo nell’apparente bonomia del suo dire una questione su cui si interrogava anche Barthes – fino a poco tempo fa una stessa istantanea di me, immediatamente sviluppata, creava perfino nel mio cuore una diversità di me con me, malgrado il mio unico e imperturbabile nome e cognome”,  invece ora – proseguiva – con il “presente revival (…) passato e presente si uniscono nel mio animo. (…) Adesso mi identifico coi miei antenati e antenatissimi al punto da sentirmi ‘fotografato’ con loro. (…) Ora, ripeto, sento che costoro (…) mi assomigliano così inesorabilmente da avere i mie medesimi problemi morali e di gusto.” Che era un bel modo per sintetizzare una parte, superficialmente profonda verrebbe da dire, delle ragioni che stavano alla base di quella inedita e un poco spasmodica curiosità per la fotografia storica già a suo tempo riconosciuta da Carrieri e Vitali e che Zavattini identificava ora come un fenomeno sociale di gusto (revival) più che specificamente culturale. Monti invece si rammaricava del fatto che la cultura italiana “non si accorse” per tempo della fotografia, tanto che  “ci troviamo ora, dopo due guerre mondiali che hanno cambiato la faccia della terra, a chiederci come era prima l’Italia e solo poche sono le fotografie che ce lo dicono. (…) Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza, mentre all’estero la fotografia entra, a mio avviso di fotografo, fin troppo trionfalmente nei musei e nei quadri di tanti nuovi pittori rompendo limiti e tradizioni della loro arte, siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.”[380] Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli.

 

“La storia, il collezionismo, i maestri, le tecniche, i mercanti, i capolavori, i prezzi”

 

Intorno alla metà del decennio la casa editrice Bolaffi, la più importante impresa italiana attiva nell’ambito del collezionismo, dedicava alla Fotografia un numero speciale di “Bolaffiarte” [381], allora diretto da Umberto Allemandi, sintetizzando nell’ampio sottotitolo – qui citato in apertura – tutte le componenti che andavano a formare la fisionomia dell’inedito fenomeno che interessava il mercato internazionale dell’arte. Tra i due poli costituiti dalla storiografia e dal mercato, entrambi crescenti, gli interventi dei numerosi specialisti invitati (tra gli italiani: Castagnola, L. Colombo, Fossati, Gilardi, Palazzoli,  Quintavalle, Racanicchi, Schwarz, Settimelli, Turroni, Zannier) tracciavano i primi abbozzi di una situazione in profondo mutamento, delineandone le tendenze e i problemi a favore del pubblico italiano e in particolare dei lettori della rivista, storico punto di riferimento per il nostro collezionismo medio. Per quella ragione il numero si offriva quasi come un vademecum se non proprio come un manuale nel quale il lettore poteva trovare sintetiche risposte alla maggior parte delle curiosità e domande nate da un primo approccio al tema. Così l’editoriale di Racanicchi affrontava l’argomento, particolarmente pertinente alla sede, della fotografia come opera d’arte, illustrando “i nodi del confronto che da tempo oppone l’arte come categoria concettuale alla fotografia intesa come sottoprodotto dell’intelligenza”, mentre i contributi degli altri esperti spaziavano da una breve storia alla segnalazione dei grandi maestri (esclusi gli italiani, trattati a parte) e dei grandi libri, proponendo anche un “museo ideale” in circa centocinquanta immagini. Con intenti più immediatamente pragmatici si affrontavano poi i meccanismi di formazione del valore commerciale delle fotografie (coi più eclatanti risultati d’asta del periodo 1972-1976), corredati da un indispensabile glossario dei termini tecnici, non privo di macroscopici errori, e da temibilissime istruzioni per il restauro  fai da te di calotipi e specialmente dagherrotipi, che prevedevano anche il “ripristino” chimico della leggibilità dell’immagine.[382]

“Cominciano a parlarne un po’ tutti – scriveva Quintavalle in altra sede, quasi chiosando quella pubblicazione – anche se ne sanno generalmente ben poco, ma, soprattutto, cominciano a venderla in molti e, questi, ne sanno certamente qualcosa di più. Alludo alla fotografia, che sta ormai assumendo, nel contesto del mercato dell’arte italiano, la funzione di un volano possibile e, certamente, quella di una rassicurante riserva di caccia. Da noi, in Italia, di fotografia, salvo per gli studi pionieristici di Lamberto Vitali, si era parlato ben poco almeno fino a tre-quattro anni fa; esisteva infatti una frattura ben netta tra fotoamatori da un lato, con le loro riviste soprattutto tecniche, e storici della fotografia dall’altro. Questi ultimi erano, appunto, in Italia quasi inesistenti e cosi era ancora un enorme paesaggio senza ‘figure’, una eventuale possibile storia della nostra fotografia. In questo disegno ancora da colorire, o, meglio, in questo foglio ancora da disegnare, sono intervenuti rapidamente e stanno ancor di più intervenendo coloro che gestiscono il mercato”[383]. Un mercato che era quello dell’arte, certo, falcidiato dal crollo dei prezzi delle opere ‘maggiori’ determinato dalla prima grande crisi energetica conseguente alla guerra del Kippur  dell’ottobre 1973; sebbene poi quello mercantile non fosse il solo elemento a determinare e condizionare questo interesse inedito, almeno per la scena italiana, dove la necessità di disporre di strumenti e di conoscenze sistematiche era fortemente sentita e condivisa in vari contesti, e credo dovesse essere messa in relazione non solo con l’ambito del collezionismo e degli studi storici ma anche con l’inedito ruolo e posizione assunte  da certa fotografia contemporanea in relazione stretta con le altre ricerche visuali coeve, specie di area concettuale, che portarono a una ridefinizione profonda della consapevolezza di sé del fotografo come autore, sino al suo ribaltamento in autore come fotografo, contribuendo così anche al formarsi di un’esigenza più diffusa di comprensione storico culturale delle vicende della fotografia.  A questi elementi si doveva aggiungere, e non in posizione secondaria, il progressivo passaggio culturale, epistemologico (e poi giuridico), a cui qui possiamo solo accennare,dal concetto di opera, proprio di una storiografia artistica estetizzante a quello antropologicamente fondato di bene culturale, nel cui novero doveva essere inteso anche  il progressivo riconoscimento della fotografia quale componente imprescindibile del patrimonio culturale della modernità, per certi versi riconosciuto già al momento dell’istituzione del Ministero per i Beni Culturali[384] nel 1975, sebbene poi si dovesse attendere l’emanazione del Testo Unico D.L. 490/ 1999 per comprendere “le fotografie con relativi negativi e matrici, aventi carattere di rarità e di pregio artistico o storico”  (art.2, comma e) tra le categorie passibili di tutela.

In riferimento a quella sensibilità nuova andava intesa anche la nascita della collana di “Biblioteca di Storia della Fotografia” della casa editrice modenese Punto e Virgola, fondata nel 1977 da Giovanni Chiaramonte, Luigi Ghirri e Paola Borgonzoni con Ernesto Tuliozi, Ornella Corradini e Susetta Sirotti.  Il primo titolo fu il volume di Zannier 70 anni di fotografia in Italia, che forniva un inedito profilo sistematico della storia della fotografia nel nostro paese; una pioneristica “breve cronistoria”[385], quindi più descrittiva che interpretativa,  delle vicende novecentesche della nostra fotografia che si apriva con una crudele citazione da Roland Barthes: “L’immagine è ciò da cui sono escluso.”  L’avvio, come sarebbe sempre stato costume in Zannier, era privo di mediazioni e individuava il punto di partenza del proprio percorso in un articolo di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy del 1901 e nella questione cruciale che con andamento carsico attraversava tutto il volume, della artisticità della fotografia, qui posta immediatamente in relazione, e reazione, con la sua industrializzazione e conseguente massificazione. I consueti giudizi negativi venivano immediatamente confermati (“la granulosità di queste carte e l’implacabile ritocco, conducono a un irrimediabile kitsch, che a fatica oggi si tenta di rivalutare, nel vento del revival”[386]), ma risultavano qui più articolati e inseriti in un quadro interpretativo complesso, che teneva conto anche di un altro aspetto della diffusione della fotografia tra XIX e XX secolo, quello della sua moltiplicazione a mezzo stampa, in evidente consonanza con le posizioni espresse da Gilardi: “il destino della fotografia è di essere diffusa tramite il giornale, sulla carta stampata ad inchiostro; lo sfalsamento di tempi, tra il progresso tecnico della fotografia e la concreta possibilità di utilizzazione nel giornalismo, ha favorito il ‘pictorialism’, che tende così a cristallizzare la fotografia nell’immagine unica, irripetibile e perciò artistica”; fenomeno di lunga durata se ancora negli anni tra le due guerre mondiali le diverse manifestazioni della nuova visione avevano “per contro la ‘lux et umbra’ di un pictorialism deprimente e cimiteriale, dove al vedutismo oleografico, si alterna il ritratto ritoccato o la scenetta populista, in posa”. Qui, per Zannier, “l’equivoco della fotografia ‘artistica’ si fa esplicito, nell’assenza assoluta di immagini documentaristiche, che sino al secondo dopoguerra sono insistentemente, con varie motivazioni, messe al bando dai salon” poiché “i fotografi ‘creativi’ insistono nel non comprendere o nel non accettare la  ‘specificità’ del linguaggio fotografico, preferendo esercitarsi nelle raffinate alchimie del pittorialismo, che li identifica e sottrae alla ‘volgarità’ della fotografia diretta, quotidiana, che pare essere ormai alla portata di tutti.” L’elenco degli autori compresi in quell’ambito spaziava da Guido Rey a Domenico Riccardo Peretti Griva e Silvio Maria Buiatti[387] e comprendeva ancora l’improbabile “Giovanni Battista Silo [che] realizza a sua volta quadri fotografici nell’atelier”; evidente retaggio del fraintendimento proposto da Vitali nel catalogo delle mostra alla Triennale del 1957, mentre una serie di Tipi siciliani di Von Gloeden era visivamente accostata alle fotografie di Giovanni Verga. Altri argomenti e nuclei tematici risultavano più convincenti, come il breve richiamo alle prime vicende italiane di musei e archivi; la nascita e le successive trasformazioni del giornalismo fotografico; la descrizione dell’Italia contadina e delle tradizioni popolari in quelli che definiva, integrando le categorie di Vitali con un’ulteriore analogia pittorica, quella dei “fotografi naif (…) visualizzatori tanto spietati quanto magnificamente inconsci”: categoria nella quale accanto a un autore raffinato e colto come Luciano Morpurgo collocava l’orologiaio di Nismozza di Busana Amanzio Fiorini o l’oste di Marone  Lorenzo Antonio Predali, tanto amato da Giovanni Testori[388]. Più innovativa e utile  – considerata a distanza – era la ricostruzione dei punti salienti che portarono anche in Italia al rinnovamento espressivo avviato dalle fotodinamiche dei Bragaglia e poi dalla fotografia futurista, come, su di  un altro fronte, i progressivi avvicinamenti ai dettami della Nuova Visione a partire dagli interventi di Antonio Boggeri del 1929 su “Natura” e “Luci ed Ombre”, sino ai Concetti per fotografi moderni che Mario Bellavista pubblicò nell’edizione italiana di “Galleria”; tutti curiosamente posti sotto il titolo dubitativo di “Fotografia fascista?”. Una stagione che vide tra i principali protagonisti soprattutto i grafici e gli architetti con i loro periodici come “Campo Grafico”,  “La Casa bella” o  “Domus” e che per certi versi si chiuse con l’importante annuario Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che per Zannier rivelava “l’esistenza di una fotografia a livello europeo, insospettata (…), le immagini scelte per questo volume dimostrano l’intenzione di far dimenticare il grigio crepuscolo di almeno quarant’anni di pittorialismo fotoamatoriale e di epica fascista, ma soprattutto di suggerire i nuovi orizzonti di questo linguaggio.” Giudizio forse troppo generoso, che non considerava opportunamente le contraddizioni interne, evidenti nella scelta degli autori e delle immagini; i possibili condizionamenti, anche politici, posti da una realizzazione che cadeva in uno dei periodi più difficili di quei lunghi anni di guerra, ma certo una pubblicazione che ha rappresentato uno snodo e un  cardine nella storia della fotografia italiana[389].

Pur con i limiti critici che si sono detti il lavoro costituiva il primo tentativo di ricostruzione storiografica delle vicende novecentesche della nostra fotografia, supportato da un ampio ricorso a fonti bibliografiche coeve quando non a esperienze dirette dell’autore, ma nonostante quelle caratteristiche ci fu chi accolse quella sintesi come il lavoro di “un ‘professorino’ lontano dal mondo tumultuoso di chi produce immagini, dalla sua vivacità, dai suoi contenuti, e dico questo dopo aver letto il libro di Zannier, dove chiudendo l’ultima pagina si ha una sensazione di smarrimento, di pochezza di contenuti. Scrivere una storia della fotografia italiana, mescolando tutte le carte, significa anche prendere ‘posizione’, scrivere con una metodologia, inquadrare ‘la storia’ in un contesto più ampio (vedi per tutti la storia d’Italia edita da Einaudi). Invece che troviamo nella storia di Italo Zannier? Il fritto e rifritto, una sequenza di nomi per non far dispiacere a nessuno, scelte arbitrarie, mancanze vistose (…) e allora che senso ha questa operazione di giocare all’ammucchiata?”[390]  Zannier, in quegli anni primo titolare di corsi universitari dedicati alla fotografia allo IUAV di Venezia e al DAMS di Bologna, poteva allora essere compreso in quella categoria che Quentin Bajac ha definito dei “fotografi storici”, quelli che “attraverso testi, mostre, collezioni, interpretazioni e riscoperte di figure dimenticate hanno contribuito, accanto agli storici e ai collezionisti, a scrivere la storia della loro tecnica.”[391] Accanto a quella, che comprendeva anche autori come Cesare Colombo e Ando Gilardi, altre erano le tipologie professionali e i percorsi intellettuali che avevano segnato la formazione dei primi e per lungo tempo più importanti  protagonisti della storiografia italiana di quegli anni, che  nel loro insieme  costituivano un nucleo consistente per quanto variegato nella formazione e nelle esperienze:  alcuni provenivano dal giornalismo, non necessariamente di settore (come Racanicchi, Schwarz e Settimelli), altri avevano fatto nascere la ricerca storica  dalla loro passione collezionistica, come Vitali e Becchetti, mentre si affacciavano studiosi con una formazione accademica come Bertelli, Quintavalle, Palazzoli e Miraglia, ciò che dava ragione delle diverse metodologie e posizioni critiche espresse, fortemente condizionate dagli ambiti culturali e professionali di provenienza piuttosto che da posizioni epistemologicamente fondate.

Si assisteva in quegli anni a una crescita esponenziale di iniziative, tanto che l’ottava edizione della Sezione culturale del SICOF, del 1979, mentre prendeva atto che “anche gli enti pubblici cominciano ad assumere iniziative e ad organizzare mostre sull’argomento”,  riconosceva che era “necessario introdurre un certo rigore che consenta di impostare e approfondire correttamente l’argomento, per evitare che l’attenzione verso la fotografia si riduca solo ad una moda e che l’attuale, felice momento risulti, di qui a qualche anno una ‘occasione mancata’. Bisogna cioè impostare dei temi, dei filoni di ricerca, delle ipotesi di lavoro e presentare quindi dei materiali suscettibili di elaborazioni e di sviluppi successivi. In questa fase le ‘personali’ delle grandi ‘vedettes’ della fotografia non bastano più, a meno che non siano il risultato di una seria revisione critica e storiografica. L’obiettivo che si deve ora porre per la fotografia è infatti quello di ampliare e approfondire metodicamente le conoscenze della sua storia e di acquisire dei validi strumenti di analisi dei suoi risultati e delle attuali tendenze di ricerca.”[392] A questo impegno programmatico, così lontano da alcune grandi manifestazioni di quell’anno come Venezia ’79: La Fotografia,  corrisposero in particolare due delle sezioni principali della manifestazione milanese: quella dedicata alla prima messa a punto di una storia dell’utilizzazione della fotografia nei periodici italiani, curata da Angelo Schwarz[393], e quella sul ritratto curata da Piergiorgio Dragone[394], il quale – pur consapevole delle difficoltà insite nell’affrontare “un fenomeno che è ancora sostanzialmente sconosciuto” – ne illustrava le varianti fotografiche collocandole nel solco lungo della tradizione pittorica, a partire dalla considerazione che “la fotografia non è che un modo di produrre delle immagini e che quindi ogni analisi va riferita al contesto generale della cultura figurativa del periodo.”  Posizione forse eccessivamente connotata dall’assunzione del punto di vista dello storico dell’arte, ma che certo colpiva nel segno quando lamentava come la situazione fosse “sconfortante per quanto riguarda gli aspetti metodologici  [perché] prima che un metodo ampiamente impiegato per analizzare  la produzione degli altri settori  delle arti figurative venga utilizzato anche da chi si occupa di fotografia trascorrono di solito alcuni decenni.” Una condanna senza appello, ulteriormente ribadita nel descrivere i cultori di storia della fotografia “ancora legati ad un modo aneddotico o tutt’al più formalistico o vagamente ‘estetico’ di descrivere le immagini.”[395]  Ulteriori limiti storico critici erano individuati in apertura del contributo di Schwarz, il quale riconosceva con qualche ragione che “pure tra coloro che si sono occupati, più specificamente, di critica fotografica, è difficile rintracciare articoli, saggi e studi utili per valutare e ricostruire la storia del periodico illustrato. Spesso, costoro si sono limitati a trattare figure più o meno eroiche di reporter fotografi e non hanno studiato quando, dove e come le immagini vennero pubblicate. Ciò essenzialmente per due ragioni: (…) a causa dell’esigenza di riscattare la bistrattata qualità estetica dell’immagine fotografica (…) e la difesa della professionalità giornalistica del fotografo, misconosciuta dagli editori e dalla maggioranza dei loro colleghi di penna.” Una condizione che Schwarz si proponeva di correggere mostrando e commentando antologicamente le fonti, vale dire le pagine di quei periodici in cui le immagini vennero pubblicate, a partire dal torinese “Mondo illustrato” edito da Giuseppe Pomba dal 1846, ricorrendo ad ampie citazioni di testi relativi alle difficoltà produttive degli apparati illustrativi, nella convinzione che “in quel prodotto industriale che è il periodico illustrato dell’Ottocento sono già presenti molte delle situazioni tutt’ora caratterizzanti la fabbricazione degli attuali settimanali in rotocalco”, da integrare con ulteriori dati di carattere economico e culturale sulla composizione sociale del pubblico dei lettori, condividendo quella impostazione col “fotografo, storico e critico della fotografia Ando Gilardi.”

 

 

 

 

Intorno al 1979

 

 

Grandi mostre

 

La casa editrice Electa costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente e sorprendente di iniziative concentrate nell’anno 1979, in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali di interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o gli eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del  SICOF.

Quelle iniziative, che avevano lo scopo di  creare una domanda editoriale e magari collezionistica sino ad allora quasi inesistente, coinvolsero e coagularono  personalità di studiosi con formazioni variegate e interessi complessi (dal collezionismo al professionismo, dalla storia alla conservazione) e portarono alla realizzazione di una serie altrettanto ricca e variata di progetti espositivi che li videro a diverso titolo protagonisti, e di cui Electa si aggiudicò la realizzazione dei cataloghi, affidando contestualmente a Daniela Palazzoli la curatela della collana “Visibilia -Fotografia”, i cui primi titoli furono affidati proprio ai membri del Comitato tecnico scientifico di Venezia ’79[396]: la porzione più ricca e spettacolare  del panorama italiano di quell’anno mirabile [397].

La prima di quelle iniziative si caratterizzava per avere un programma di forte e per noi inedito impegno economico[398], che prevedeva ventisei mostre con cinquecento autori, per un totale di circa 3.500 fotografie, a cui si aggiungevano quarantacinque workshop di cinque giorni ciascuno tenuti da fotografi e studiosi di fama internazionale, specialmente statunitensi. Insomma, come dichiarava apoditticamente il titolo, Venezia ’79: la Fotografia. Nulla di meno.

La scelta di Venezia quale sede e la prima definizione della proposta si dovevano all’International Center of Photography di New York diretto da Cornell Capa, che nel 1978 aveva a suo volta coinvolto l’UNESCO, mentre i finanziamenti provenivano da numerosi sponsor privati, non solo di settore (Kodak, Polaroid e Philip Morris  tra gli altri) e dal Comune di Venezia, anche in previsione della costituzione a Palazzo Fortuny di un centro permanente per la fotografia, orientando in tal senso l’indicazione compresa nell’atto di donazione fatta al Comune nel 1956, che imponeva che fosse  “utilizzato perpetuamente come centro di cultura in rapporto con l’arte”[399].  La prima bozza di programma messa a punto negli USA venne discussa e modificata da alcuni membri italiani del Comitato tecnico scientifico (Daniela Palazzoli, Alberto Prandi, Italo Zannier)[400], ma anche nella sua versione definitiva esso venne fortemente criticato per una troppo marcata  tendenza mercantilistica e per l’eccessiva acquiescenza ai voleri degli sponsor.  Nel presentare il catalogo Carlo Bertelli[401] dichiarava che l’intento non era di “aspirare, nonostante l’insegna ambiziosa, ad offrire un’enciclopedia universale della fotografia, ma soltanto testimoniare l’opera di alcuni riconosciuti maestri e presentare alcune tendenze attuali nella fotografia. Venezia ‘79/ La Fotografia è un’impresa di grande impegno divulgativo che potrà essere il punto di riferimento per l’organizzazione di altre manifestazioni che documentino il significato della fotografia in ogni civiltà e cultura.” Tra i “riconosciuti maestri”, da Atget a Weegee, erano compresi anche gli italiani Michetti e Primoli, oggetto di due sezioni monografiche curate rispettivamente da Miraglia e Palazzoli, mentre agli autori della nostra contemporaneità era  riservata una sezione specifica, con catalogo proprio, curata da Zannier[402] che aveva disegnato un percorso che muovendo da Cavalli e Veronesi giungeva sino a Ghirri e Toscani. Anche i workshop, così come le mostre, erano prevalentemente orientati alla contemporaneità ma riservavano uno spazio non secondario a temi di carattere storico come  Storia, teoria e tecnica del fotogramma, tenuto da Luigi Veronesi; Storia della società e documento fotografico, di Settimelli e Storia della fotografia di Helmut Gernsheim[403], a cui era collegata la conferenza di Palazzoli Lineamenti della storia della fotografia italiana, anticipando così la collaborazione e la struttura del volume che lo studioso inglese avrebbe pubblicato due anni dopo con Electa nella collana diretta dalla stessa Palazzoli[404].

La “impostazione monografica intesa nel senso più elitario e fuorviante possibile”[405] era certo distante dal progetto degli “Annali” einaudiani a cui lavorava in quei mesi Bertelli, ma quella non era certo la sola contraddizione o il solo limite dell’iniziativa.  “Venezia – la fotografia è, secondo me, un gigantesco errore di prospettiva e un consistente affare finanziario soprattutto per la città che la ospita e che l’ha voluta a tutti i costi”, scriveva Piero Berengo Gardin[406],  mentre per Lanfranco Colombo, che aveva declinato l’invito a partecipare, “il problema della fotografia [doveva essere]  affrontato con ben altro impegno storico e scientifico soprattutto quando viene chiamato in causa il grande pubblico. Gli enti pubblici sono chiamati ad una attività di ricupero, di conservazione di questo patrimonio culturale che sta andando in malora e di catalogazione disponibile allo studio.”[407] Analoghe considerazioni vennero espresse  anche da Quintavalle il quale, partendo dalla fondamentale obiezione che il progetto non fosse stato “elaborato all’interno della civiltà fotografica del nostro paese [ma] calato dall’esterno, sopra le nostre strutture culturali”[408], si chiedeva quale dovesse essere “il compito del critico, dello storico, dello studioso, insomma dell’intellettuale di fronte a fatti del genere.” L’analisi che ne seguiva indicava compiutamente i limiti di quell’impresa a partire dal fatto che “il problema della fotografia non è di vedere semplicemente, anche se è importante questo, mostre in serie di grandi fotografi, ma di prendere coscienza e far prendere coscienza al pubblico dell’importanza dei singoli contesti, dell’importanza delle singole situazioni. Sinceramente mi fa molto poca impressione una mostra di un grande fotografo, o medio o piccolo che sia (quando si espone in mostra si suppone che il fotografo sia ‘grande’, la mostra infatti è un canale che media capolavori per antonomasia) ma mi interessa invece in che contesto culturale opera, perché opera, quando opera, mi interessa, insomma, non l’idealismo nascosto (la reazione nascosta) nella raccolta delle belle immagini ma la storia. Ebbene il problema è che manca proprio la storia, la nostra storia, e la storia della cultura fotografica occidentale, se si vuole meglio precisare, in questo programma. Manca un metodo, o, meglio, esiste un metodo che è ‘altro’, che è diverso. Un metodo che dovremo analizzare. Ma a che serve dunque una rassegna fotografica? Serve naturalmente a promuovere la fotografia; ebbene questa promozione rischia proprio di risolversi nel suo contrario; quando avremo una antologia di grandi nomi, una serie di maestri che necessariamente devono essere raccolti nei futuri musei della fotografia del nostro paese, avremo completamente perso di vista la funzione della fotografia che è quella di contesto, che è quella di struttura della comunicazione. Il punto è proprio questo, mancano ancora in Italia una analisi ed un censimento del patrimonio di immagini fotografico (un aspetto solo del problema), manca ogni e qualsiasi politica della conservazione (…) manca ogni e qualsiasi politica che non sia di semplice e sconsiderata raccolta di materiali reputati ‘esteticamente’ significativi da parte di Enti Pubblici. E neppure esiste, finora, un mercato reale[409] della fotografia.” Affiancavano la kermesse altre importanti iniziative comprese sotto il titolo comune di “Aspetti e immagini della cultura fotografica in Italia”[410], affidate a un comitato scientifico costituito da Miraglia, Palazzoli e Zannier, con Filippo Zevi, Michele Falzone del Barbarò  e Giuseppe Marcenaro.

Il nucleo principale era costituito dalla grande esposizione dedicata alla Fotografia italiana dell’Ottocento[411], con un importante catalogo che rifletteva e dava conto della complessità del fenomeno studiato, misurando l’enorme sviluppo delle ricerche, specialmente a scala regionale e soprattutto locale condotte dagli autori dei testi e delle schede monografiche, ma anche dei lavori pur disomogenei realizzati da altri cultori italiani nel corso del ventennio precedente e ampiamente citati in bibliografia. Si delineava così non solo una prima sommaria storia della fotografia in Italia nel corso del XIX secolo, ma anche una geografia degli studi e degli studiosi; frutto di una rete di relazioni anche personali in grado di connettere e interpretare i dati emersi dalle indispensabili  ricerche a scala territoriale,  spesso condotte nell’indifferenza se non nella perplessa ostilità degli studiosi di altre discipline e dei responsabili delle istituzioni, come mostrava bene questa testimonianza di Daniela Palazzoli a proposito delle ricerche condotte presso la Biblioteca Reale di Torino: “Entro in quella splendida biblioteca e domando se hanno album fotografici. No, mi rispondono con fastidio. Invece gli album c’erano. Centocinquanta, duecento album fotografici. (…) Compilo un elenco delle cose che mi interessano e poi chiedo i prestiti in vista della mostra. In prima battuta la Biblioteca rifiuta, adducendo come motivazione il valore delle opere. Alla fine il prestito fu concesso ma ciò che mi sconvolse era che prima non sapevano cosa avevano.”[412] Il catalogo apriva con una presentazione di Helmut Gernsheim, che sottolineava il legame ideale con la mostra per la Triennale del 1957, seguita da un estratto del bellissimo testo di Giulio Bollati di imminente pubblicazione negli “Annali” della “Storia d’Italia”, mentre la sequenza dei saggi affrontava la ricostruzione delle vicende italiane secondo una partizione cronologica articolata con accenti diversi a seconda degli autori. Così Palazzoli  dava conto di come La notizia dell’invenzione dello “specchio dotato di memoria” fosse arrivata in Italia; Miraglia trattava de L’età del collodio e Zannier affrontava il problema de La massificazione della fotografia. A questi tre interventi facevano seguito ampie schede regionali, cui corrispondeva una bibliografia di analoga ripartizione,  le schede biografiche dei fotografi e un opportuno indice dei nomi. L’apparato iconografico si presentava ricco, con alcune riproduzioni anche a colori, ma piuttosto sorprendentemente per una pubblicazione di quel livello, le didascalie alle immagini riportavano solo autore e titolo, senza alcuna indicazione di data né di tecnica, misure e collezione di provenienza. Mancava, infine, un pur striminzito glossario dei termini, tanto più necessario in una iniziativa espositiva ed editoriale destinata al grande pubblico in un momento in cui il lessico della fotografia storica non poteva essere certo considerato patrimonio comune neppure dei cultori più attenti.

Palazzoli[413] – come si è detto – ricostruiva puntualmente la sequenza degli annunci comparsi sulla stampa italiana, dei primi esperimenti locali e della produzione editoriale legata all’invenzione del dagherrotipo (dalla manualistica alle raccolte di vedute) e alla conseguente rivoluzione nella pratica del ritratto, per passare quindi alle vicende di Talbot e dei suoi ‘amici’ italiani, segnalando anche la presenza eccezionale di “tre disegni fotogenici firmati, se ho decifrato bene, Faggiarani”, che avrebbero rappresentato “con ogni probabilità il primo tentativo italiano in questa direzione”[414], ma di cui non venne fornita alcuna riproduzione in catalogo.  Diversa l’impostazione dello scritto di Miraglia[415], che si poneva immediatamente il problema dei rapporti tra tecnologia e “significato che, nella concezione ottocentesca, veniva attribuito alla fotografia come nuovo ‘medium’ nel campo della produzione e della riproduzione dell’immagine”, con una lettura dei fenomeni posta sotto il segno di Bourdieu e della Freund, da cui ricava anche le ragioni per formulare una risposta alle interpretazioni dell’amato Vitali: “manca in Italia una figura come Nadar perché manca quel contesto culturale, storico e sociale che caratterizzò il raffinatissimo ambito intellettuale in cui Nadar si mosse.” L’analisi proseguiva con l’identificazione dei generi più praticati  posti in relazione con le rispettive tradizioni iconografiche per sottolineare come “uno dei motivi che maggiormente contribuì all’affermarsi della fotografia fu (…) il suo carattere conservativo nei confronti della tradizione rappresentativa dello spazio.”  Un testo importante, che rivelava la formazione specifica e fortemente strutturata della storica dell’arte e che mostrava quanto fossero indispensabili strumenti raffinati e complessi per la lettura e la comprensione delle immagini, a partire da quello – precisamente posto – dell’autorialità, concetto che sarebbe stato sottoposto da più parti a profonde verifiche nei decenni successivi e radicalmente contestato in quello stesso 1979 da Franco Vaccari[416].   Il testo di Zannier trattava invece dello sviluppo della “diffusione delle immagini”, sebbene con generalizzazioni oggi non più condivisibili che accomunavano produzione e riproduzione, camera obscura e calcografia, ma sottolineando opportunamente che “la massificazione dell’iconografia fotografica nasce con la stessa fotografia; è latente nelle intenzioni degli inventori e implicita nel suo procedimento, che si riassume nella riduzione del tempo di produzione dell’immagine” [417]; un processo che contemplava tra le proprie conseguenze anche “una crescente illusione che l’immagine sia in effetti la realtà, una realtà che sbalordisce, perché è sempre più sconosciuta.” L’interesse per i processi comunicativi quali elementi morfogenetici e il richiamo implicito all’idea di simulacro – pur semplicisticamente posti – contenevano elementi di quella che nello stesso arco di tempo si andava definendo come interpretazione postmoderna della società e della cultura, in particolare per merito di Jean Baudrillard[418], e consentivano a Zannier di individuare la nascita  di un  “nuovo concetto di ‘qualità’ che obbliga a considerare anche la ‘quantità’”, ciò che conduceva inevitabilmente a un rifiuto, per quanto implicito, delle posizioni critiche espresse da Vitali: nell’accezione comune di “massificazione della fotografia” (…) vi è implicita l’accusa di decadimento, volgarità, banalità di un’ ‘arte’ che pare uscire da una vicenda storica irripetibile e sublime”, mentre si doveva riconoscere (riferendosi  a Primoli) che “le fresche, estrose immagini, a volte persino felicemente disordinate, libere dai rigidi condizionamenti compositivi della noiosa fotografia ‘ufficiale’ [rappresentavano] una positiva conseguenza di quella massificazione della fotografia che si insiste nel considerare deleteria.”

Ai tre saggi seguivano schede regionali di diversa ampiezza e impianto,  presentate come Appunti sulla fotografia nell’Italia dell’Ottocento. Così se per tutta l’Italia settentrionale e in parte centrale si procedeva su base geografica, con approfondimenti che nel caso del Veneto – trattato da Alberto Prandi – assumevano la forma di una vera e propria piccola monografia, per la restante parte della nazione il criterio di ripartizione era invece storico politico (lo Stato Pontificio, il Regno delle due Sicilie, entrambe redatte da Miraglia), con una suddivisone che solo in parte celava la difficoltà di disporre delle informazioni sufficienti a trattare in forma autonoma alcune regioni come le Marche, l’Umbria o lo stesso Lazio, poiché la trattazione dello Stato Pontificio considerava in effetti la sola città di Roma, “fra le poche che sia stata oggetto di studi approfonditi; essa rappresenta un’isola privilegiata che già da tempo ha rivelato la propria fisionomia sotto varie angolazioni.” Chiudevano il volume i profili biografici di più di duecento autori, compresi anche alcuni anonimi (tutti di area romana o meridionale)  ma escludendo editori come Baratti e Borlinetto (ma non Montagna) o un tecnico come Pizzighelli, mentre venne incluso Ignazio Cugnoni la cui responsabilità autoriale rispetto al fondo che portava il suo nome era stata messa in discussione da Piero Becchetti solo l’anno prima. Quella eterogeneità di impianto e di approcci rendeva evidente l’assenza di una metodologia storico critica aggiornata e condivisa e in molti casi il riproporsi, come scriveva Massimo Ferretti[419],  “di una storia scandita da singole istanze creative, da colpi d’ala, da maestri o da opere; in una parola la vecchia, non necessariamente spregevole, ma semplicemente diversa, storia dell’arte. Cresciuta, di necessità, dalle esperienze di un collezionismo raro e fascinoso, fra i comprensibili entusiasmi del pionierismo, la storiografia fotografica stenta talvolta a superare certi atteggiamenti che di quelle esperienze sono  tratti tipici.” Ancora più sferzante fu il giudizio di Arturo Carlo Quintavalle che comprendeva quella rassegna  fra “gli episodi più penosi” della recente storiografia italiana[420], non tenendo in conto le attenuanti prima considerate. Sebbene quelle non fossero sufficienti a giustificare le gravi lacune d’impianto né quelle redazionali, che lasciavano più che perplessi, non si può negare che la serie di mostre fiorentine e veneziane costituì un punto di svolta nella crescita, per quanto difficoltosa e necessariamente incerta, di una attenzione  diffusa per la fotografia storica in Italia che superasse gli opposti limiti della ricerca erudita e dell’amatorismo.

Una novità ulteriore e per certi versi più rilevante era costituita dalla mostra Fotografia pittorica 1889/1911,  coordinata da Alberto Prandi con testi in catalogo di Miraglia e Zannier e schede firmate da alcuni degli autori già coinvolti nel progetto maggiore. L’iniziativa affrontava in modo sistematico, per la prima volta in Italia, quel fenomeno che altri più correttamente chiamavano pittorialismo[421] ovvero, da noi e negli anni del suo massimo rigoglio, “fotografia artistica”[422], come ben precisava un autore coevo: “L’appellativo di ‘Pictorial’ che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’  non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione”.[423]  Una certa considerazione per quella stagione della fotografia, rifiutata da Newhall,  Gernsheim e Pollack, così come da Negro e Vitali, era stata espressa per la prima volta nell’immediato secondo dopoguerra da Raymod Lécuyer[424] in un testo che però ebbe rara circolazione in Italia,  quindi per certi versi rinnovata dallo stesso Gernsheim[425] che, messi da parte gli anatemi di appena un decennio prima, a proposito di “pittoricismo” ora scriveva di “malaugurata tendenza (…) anche se interessante”[426] e soprattutto ne pubblicava numerosi esempi, alcuni dei quali (Rejlander e Robinson, Stieglitz e il gruppo della Photo Secession) sarebbero poi stati meravigliosamente visibili nella discussa mostra torinese Combattimento per un’immagine: fotografi e pittori[427] del 1973, che aveva però altri presupposti e obiettivi. In Italia era stato  Giuseppe Turroni tra i primi a dedicare brevi articoli alla fotografia artistica nel 1960[428], a cui era seguito un intervento di J. A. Keim[429], per il quale “la Prima Esposizione di Fotografie Artistiche a Torino nel 1902, nel quadro della Prima Esposizione Internazionale delle Arti Decorative Moderne, costituì uno degli avvenimenti più importanti della storia della fotografia.”  Soprattutto importante era stato l’interesse per il fenomeno manifestato da Italo Zannier, che pure come fotografo proveniva dalla cultura ‘neorealista’ del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, il quale nella seconda edizione della sua Breve storia (1974) aveva rielaborato alcuni contributi sul tema già proposti su vari periodici nel decennio precedente, dedicando al pittorialismo l’intero primo paragrafo del capitolo intitolato Nasce un linguaggio; i giudizi lì espressi erano ancora  fortemente limitativi e in parte contraddittori[430], ma consentivano per la prima volta di delineare approssimativamente il fenomeno anche a scala internazionale.

“In genere gli studi e le mostre fotografiche che si sono prefisse di scandagliare questo specifico settore -scriveva Miraglia nel catalogo veneziano prendendo in parte le distanze dal presunto Combattimento  –  hanno sottolineato il contributo che la fotografia ha offerto o ha potuto offrire (…) alla pittura e alla sua espressione. Lo studio della ‘fotografia pittorica’ sottolinea invece un percorso inverso dalla pittura alla fotografia.”[431] Questo chiarimento implicava la definizione preliminare del più generale quadro di riferimento storico critico, sebbene con giudizi che oggi possono far sorridere, quale la definizione di Rejlander come “autore del più mostruoso quadro allegorico del pittoricismo, dal titolo Le due vie della vita”; un lavoro che Gernsheim si era limitato a definire “la più ambiziosa composizione allegorica dell’intera storia della fotografia”[432] e che la stessa studiosa di lì a poco avrebbe più correttamente definito “ambizioso e complesso” scrivendone per il saggio pubblicato da Einaudi.[433] Diversamente da quanto proposto da Bollati[434], che collocava il fenomeno nel più ampio contesto culturale e ideologico italiano, l’analisi del pittorialismo proposta dalla studiosa era circoscritta all’ambito propriamente fotografico, nel quale ritrovava le connessioni, e quasi la dipendenza dalla diffusione della fotografia amatoriale così come l’influenza contraddittoria (e, oggi lo sappiamo, fraintesa: “in termini apparentemente veristi”, scriveva Bertelli in quegli stessi mesi[435]) della Naturalistic Photography di Emerson, senza rilevarne invece le forti connotazioni elitarie di reazione a quella stessa massificazione amatoriale che le nuove tecnologie avevano consentito e determinato. Il saggio procedeva intercalando quelle che oggi possono apparire come semplificazioni con considerazioni critiche che invece segnarono un definitivo punto di svolta e ancora oggi mantengono tutta la loro efficacia. Mi riferisco all’assunzione in un’unica linea genealogica del “pittoricismo” di Rejlander e Robinson e del pittorialismo[436], oggi non più accettabile,  e per converso al riconoscimento del fatto che  “la fotografia pittorica abbia offerto la prima occasione per una riflessione critica sul destino della fotografia, anche nei suoi aspetti meno appariscenti, come quando, ad esempio, sottolinea e verifica, ai fini dell’espressione, l’importanza dei vari processi fotografici e dei segni che li caratterizzano”. Per queste ragioni – ribadiva Miraglia – va riconosciuto al fenomeno “il ruolo storico che esso giocò verso la definizione di una fotografia in senso moderno.”[437]  A queste precisazioni  faceva seguito quella che fu a tutti gli effetti la prima ricostruzione delle vicende della fotografia artistica in Italia, con una considerazione particolare per il ruolo di aggregazione e conoscenza del fenomeno svolto dalla rivista omonima di Annibale Cominetti, con un termine posto significativamente al 1911 non solo per il ruolo svolto dalle due mostre del Cinquantenario a Torino e a Roma, ma anche perché fu intorno a quell’anno, o poco prima, che le fotodinamiche dei Bragaglia avrebbero aperto le porte alla modernità[438].

Il compito di descrivere e analizzare i “processi fotografici e i segni che li caratterizzano” venne svolto da Zannier nel saggio successivo[439], da leggersi necessariamente in  parallelo con quello di Miraglia, con la quale condivideva l’opinione che “l’avanguardia in fotografia inizia, paradossalmente, con il kitsch del flou o della gomma bicromatata [ma] questo deprecato pittoricismo va inteso anche come un atto di fiducia nella fotografia quale prodotto culturale, sebbene d’élite”. Questa prima parte del saggio, seppur molto ricca di informazioni intese a connettere soluzione tecnica ed espressione formale, mancava però di rilevare con sufficiente chiarezza quanto quelle scelte corrispondessero e fossero manifestazione di un bisogno di unicità dell’opera, di una malintesa concezione della manualità come garanzia e quasi sinonimo di artisticità, in opposizione dichiarata alla riproducibilità consentita e quasi indotta dalle nuove emulsioni e, soprattutto, dai processi di stampa fotomeccanica. La seconda parte era invece composta da un susseguirsi mirabolante di descrizioni dei diversi processi, tratte dai manuali di Rodolfo Namias e Luigi Gioppi, con precisazioni e termini che non potevano che suonare esoterici in quel mitico anno (antracotipia; charbon-velours, “da non confondersi”  – ovvio –  col carbondir, e altri consimili), in una spensierata commistione testuale che la avvicinava alla pubblicistica per il fai da te, ma consentiva anche di intuire, se non proprio di scoprire quale fosse stata la ricchezza anche tecnica, la maestria artigianale che quelle superfici sensibili celavano, ben oltre l’apparente banalità e un’espressione di gusto discutibile e ormai datata. Insomma un invito a riconsiderare storicamente il fenomeno, ma drasticamente contraddetto dalla chiusa del testo: “Tutte queste tecniche -scriveva Zannier – sono state applicate in modo volgare nella produzione di immagini kitsch che oggi si è troppo spesso disposti a rivalutare, e che sono comunque un prodotto emerso da un concetto deformato della funzione della fotografia, intesa non nella sua autonomia di linguaggio, ma come concorrente della pittura e per giunta di una pittura provinciale e reazionaria.”[440] Un giudizio drastico, che sembrava cancellare l’opportunità e il senso stesso di quella mostra.

Tracce evidenti di quelle incertezze erano ben riconoscibili nella scelta degli autori, tanto eterogenea da collocare ad esempio Oreste Bertieri o Giuseppe Caravita principe di Sirignano e Mario Nunes Vais con Federico Maria [ma Pietro] Poppi, e questi con Guido Rey, ma anche Luigi Ceradini e Filippo Rocci[441] accanto a Wilhelm Pluschow e Wilhelm von Gloeden.  Non poteva essere maggiore la distanza dalle posizioni di Carlo Bertelli[442], il quale – rileggendo Von Gloeden attraverso Harald Szeemann – parlava invece di “realismo senza compromessi” che prevaleva sulla “ricostruzione abborracciata di un’antichità museografica” influenzata da Alma Tadema e Max Klinger; restituendo la natura con “turgida fedeltà”, in un percorso diametralmente opposto a quello della fotografia artistica, impegnata a “prendere le distanze dalla natura (…) a sottrarsi al suo assalto, a verificare anzi le proprie capacità di allontanarsene, di ricreare.” Il lungo percorso trasversale compiuto da Bertelli intorno a questo tema aveva un ben più lontano avvio: dal “fine artistico” di una “grandissima parte di queste immagini realistiche di tema apparentemente sociale” destinate ai pittori intorno alla metà del secolo XIX, coniugando pittoresco e verismo, ma anche dalla fotografia di nudo, che “poneva in modo perentorio il problema della fotografia artistica [poiché] la fotografia del nudo è la fotografia inventata per eccellenza.” Altre ancora erano le  feconde indicazioni critiche di quel testo, quali la precisa individuazione delle dinamiche che consentirono alla fotografia di “avere un oggettivo valore estetico soltanto [arrivando] a imporsi come stampa, e ciò poteva avvenire soltanto in un contesto di raffinato livello tecnico e dentro un sistema di scambi che desse un valore reale alla stampa d’autore”; per questo “il movimento dei pictorialists in fotografia assomiglia molto a quello degli artisti incisori”[443], poiché “i fotografi – artisti rivendicano la creazione contro la riproduzione; sanno che i tempi in cui le associazioni dei fotografi si occupavano di promuovere il progresso tecnico sono finiti dal momento che di questo si occupano direttamente le branche chimiche, ottiche e meccaniche delle grandi industrie fotografiche. (…) I fotografi artisti constatano l’enorme facilità della fotografia del loro tempo, l’indifferenza della stragrande maggioranza della fotografia che si produce verso problemi estetici; (…) la fotografia pittorica reagisce alla casualità meccanica per riaffrontare un lavoro fotografico consapevole.”  Anche l’origine della (s)fortuna critica di quella stagione era puntualmente individuata da Bertelli nel giudizio a suo tempo espresso dalle avanguardie, “così perentorio da convincere pressoché chiunque abbia tentato di avvicinarsi alla storia della fotografia che il periodo pittorico sia stato una deviazione aberrante, una non-fotografia. Si dimentica che cosa fosse la fotografia commerciale negli anni ’85-90, quanto falsate dai ritocchi fossero le fotografie che dovevano onestamente ‘documentare’ e come la fotografia ‘artistica’ fosse un passaggio obbligato per la stessa avanguardia, che è nata proprio all’interno della fotografia simbolista”, prova ne sia che “le fotografie di Bragaglia furono accettate subito e con molto favore dalla redazione della ‘Fotografia Artistica’ (…) Nessuno ne fu sconvolto, nessuno vi avvertì il pericolo di una rottura con un modo di pensare intorno alla fotografia, o intorno all’arte”  poiché “la fotodinamica non usciva dall’orizzonte della fotografia artistica italiana. Secondo la tradizione italiana, non si preoccupava di un rinnovamento dei temi, ma di una trasfigurazione di quelli noti, del ritratto specialmente.”[444]

  

 

La fotografia come bene culturale

 

Il convegno organizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di  Modena nei primi giorni di novembre del 1979 e  dedicato a La fotografia come bene culturale[445], venne messo a punto da un comitato scientifico costituito da Andrea Emiliani, Massimo Ferretti, Daniela Palazzoli e Italo Zannier e costituì la prima importante occasione di confronto sulle necessità conoscitive, sull’archivio fotografico (nelle sue più diverse accezioni) come fonte e come patrimonio da tutelare e valorizzare. Il dibattito venne orchestrato intorno a tre aree tematiche: il ruolo delle istituzioni, le funzioni culturali (insegnamento, editoria, mostre, associazionismo e professionismo) e infine “esperienze e metodi di ricerca storiografica”.  Fu quello l’esito di una prima stagione di elaborazione già sufficientemente raffinata, sebbene poi alle “grandi invocazioni, agli ottativi ormai un po’ stentorei dei conservatori” avesse corrisposto “ben poca vera attività”[446]. In quella progressiva presa di coscienza, anche politica, svolgeva un ruolo determinante la cultura amministrativa emiliana, espressa in particolare con la costituzione nel 1974 dell’ IBC – Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna (con Andrea Emiliani e Lucio Gambi tra i promotori), quale strumento della programmazione regionale e come organo di consulenza degli enti locali nel settore dei beni culturali. La Premessa dell’Assessore al catalogo della mostra Antiche fotografie nelle collezioni civiche modenesi[447] costituiva una  chiara testimonianza di quale fosse il livello di consapevolezza politica raggiunto, specie per quanto riguardava la necessità di “considerare il materiale fotografico non come corpo staccato dalle raccolte e dai materiali presenti negli Istituti, ma come parte integrante della documentazione più generale in essi conservata. (…) Questa considerazione metodologica generale risulta utile anche per affrontare tutta una serie di problemi relativi ai modi ed alle tecniche di archiviazione e divulgazione dei materiali. (…) Mentre da un lato si dovranno risolvere con urgenza i fatti propriamente tecnici della conservazione (…) è possibile ipotizzare come strumento conoscitivo unificante [il] ‘catalogo’ che insieme alla schedatura dei reperti dovrà consentire, con la riproduzione delle immagini, una utilizzazione delle medesime aperta e pubblica, rivolta a molteplici utenze.”   “È nel catalogo – ribadiva Andrea Emiliani nella stessa occasione – che le sapienti istanze dei conservatori dei convegni e delle tavole rotonde possono abbandonare l’enfasi per acquistare – se mai la possiedono – la fragranza di un atto finalmente pragmatico, finalmente operativo. È proprio nel catalogo, infine, che la sonda della microstoria mette a punto le sue possibilità, offrendosi al futuro.” Un programma di politica culturale quanto mai chiaro, ma di realizzazione quasi utopica in quei tempi di riproduzione inevitabilmente analogica, come rilevarono alcuni interventi al convegno e come purtroppo avrebbero dimostrato le vicende italiane dei decenni successivi.

La prima sessione di lavoro comprendeva gli interventi di Emiliani, Oreste Ferrari e Tea Martinelli dell’ICCD a cui si affiancavano le relazioni dedicate alla Francia di Jean Claude Lemagny, responsabile delle collezioni fotografiche della Bibliothèque Nationale di Parigi, e alla Gran Bretagna di Barry Lane, referente per la fotografia dell’Arts Council di Londra;  nella seconda a Paolo Lazzarin, Paolo Fossati e Settimelli succedevano i responsabili delle maggiori associazioni fotografiche italiane (Michele Ghigo; Maurizio Bizziccari; Fabio Simion). Più prossima ai nostri interessi attuali la terza parte con interventi di Helmut Gernsheim (Fondamenti e metodi delle ricerche inerenti a una storia della fotografia), di Giulio Bollati, che presentava gli esiti del lavoro realizzato per gli “Annali” einaudiani in corso di pubblicazione, di Maria Adriana Prolo, sui rapporti tra fotografia e cinema, e infine di Marina Miraglia, che illustrava Risultati e prospettive della ricerca storiografica conseguenti ai lavori per la mostra sulla ‘Fotografia Italiana dell’800’, un testo che avremmo volto leggere con grande curiosità e interesse.  Tra i relatori spiccava la mancanza di alcuni dei “nostri più brillanti e intelligenti studiosi come Arturo Carlo Quintavalle, Carlo Bertelli, Ando Gilardi, Lamberto Vitali, che potevano dare testimonianza delle loro originali e importanti ricerche sul tessuto storico della nostra produzione fotografica [che] hanno preferito disertare il convegno, in polemica col comitato scientifico che da alcuni anni monopolizza l’attività in questo settore”[448]. Assenze che per molti versi limitarono il giudizio positivo sull’importante iniziativa modenese,  rispetto alla quale  del resto risulta oggi  impossibile esprimere compiute valutazioni di merito poiché le vicende di quell’incontro per molti versi fondativo  si conclusero  con un vero e proprio atto mancato, non giungendo alla pubblicazione delle relazioni presentate, così che la sola traccia nota è costituita dalla trascrizione dell’importante intervento di apertura di Emiliani[449]. Un’accorata e alta riflessione di politica culturale, aperta con sconsolata ironia da una sintetica ricostruzione delle povere vicende italiane che avevano portato al riconoscimento della fotografia come bene culturale e da un’avvertenza sull’esito fallimentare a cui sarebbero stati destinati quei progetti di ricerca che si fossero proposti di “dare al mondo raccolte fotografiche e loro relativi cataloghi senza preoccuparsi di denotare e illuminare le circostanze di origine culturale, di committenza e dunque di economia”; anche per questo, esprimendo preoccupazioni analoghe a quelle di Quintavalle[450],  invitava a prendere coscienza del fatto che la spinta che aveva condotto al riconoscimento della fotografia come bene culturale proveniva essenzialmente da un “motore privato e mercantile”, mentre invece aveva bisogno di aprirsi e dilatarsi “verso l’orizzonte unificante del concetto di patrimonio (…) verso la più generale visione di un’idea di cultura.” Altre preziose informazioni si potevano ricavare da un resoconto a firma di Andrea Jemolo[451], a partire dalla constatazione che “solo ora che la fotografia si è ormai solidamente installata nella nozione di bene culturale, le amministrazioni locali si sono accorte di possedere un vasto patrimonio di immagini fotografiche e di dover procedere ad un suo riordino per poterlo utilizzare sistematicamente”, sebbene poi proprio tra i maggiori difetti del convegno vi fosse stato, a suo parere, “quello di non essere riuscito a indicare chiaramente che cosa si debba intendere per ‘Fotografia come bene culturale’. (…) Ma il convegno di Modena ha messo soprattutto in risalto l’estrema arretratezza della nostra cultura fotografica nei confronti di analoghe esperienze di altri paesi europei [dove] anche grazie ad ingenti sostegni statali, la ricerca storiografica è attiva e fertile già da vari decenni.” Proprio in quel senso numerosi interventi avevano auspicato che si potesse pervenire “attraverso l’Istituto Centrale per il Catalogo, ad un sistema di schedatura unica per tutti i reperti fotografici che sono conservati nel nostro paese”, ma come è noto quell’auspicio si concretizzò solo un ventennio più tardi e senza ottenere la necessaria adesione di tutte le istituzioni interessate.

 

Gli Annali della Storia d’Italia Einaudi

 

Da quella imponente serie di iniziative, ma certo non dal convegno modenese, prendeva neppure troppo implicitamente le distanze l’altra grande realizzazione editoriale di quell’anno: la pubblicazione dei due tomi de L’immagine fotografica 1845-1945[452], con l’affettuosa dedica “A Lamberto Vitali”. Secondo volume degli “Annali” della “Storia d’Italia” edita da Einaudi, curato da Carlo Bertelli[453] e Giulio Bollati[454] proprio nell’anno in cui si consumava la rottura tra l’editore e il suo prestigioso direttore generale.

La progettazione

Il precedente volume della “Storia d’Italia”, l’Atlante pubblicato nel 1976, era stato concepito come “una raccolta di materiali visivi attinenti alla storia non in forma meramente accessoria, ma come prolungamento del discorso ‘storico’ portato sui linguaggi della visione e della figurazione (…). Avremmo voluto già allora – scriveva Giulio Einaudi – dedicare un capitolo alla fotografia, ma la situazione provvisoria del settore – tuttora impegnato nella ricerca e nella sistemazione dei materiali e nella sperimentazione di autonomi criteri storici e metodologici – ci indusse ad allungare i tempi per ampliare lo spazio della trattazione e arricchire di inediti la documentazione, nello spirito di un contributo ai ‘lavori in corso’ che è tipico della Storia d’Italia.”[455]  Confermava quelle intenzioni, rivelando alcuni retroscena, una lettera di Bollati a Bertelli del febbraio 1977: “Non so se a quest’ora hai ricevuto e letto o almeno sfogliato l’Atlante (…). Se così fosse non ti sarà sfuggito che, mentre la prefazione insiste non poco sulla storia della percezione visiva, il volume difetta almeno su due fronti. Lasciamo il cinema, che pure meriterebbe un discorso. Ma la fotografia! Quale triste e lamentabile lacuna! Ti dirò in confidenza che il capitolo apposito era stato progettato e affidato. Malissimo affidato, tanto che si dové rinunciarvi. Allora a qualcuno era sembrato eccessivo ‘disturbare’ te, già bersagliato da altri impegni. Ma a cose viste, si è capito che quel capitolo non era dei minori, ma dei maggiori, e che l’autore andava cercato a livelli alti. Hai già capito che sto chiedendoti di farlo tu ora: cento immagini e quaranta – cinquanta cartelle di testo (salvo variazioni in più a tua discrezione). Potremo, inizialmente, distribuire il fascicolo come supplemento, in un secondo tempo, abbastanza ravvicinato, farlo rientrare in una ristampa del volume. Alla proposta, che Giulio Einaudi sottoscrive di persona, ci associamo noi tutti. Penso che per te potrebbe essere un lavoro non gravoso e ricco di ‘invenzione’ e ‘divertimento’.”[456] Bertelli accolse la proposta, indicando anche alcuni possibili ambiti d’indagine (le donne, città e paesaggio) così che nei mesi successivi il progetto prese corpo anche se tra indecisioni e incertezze come sembra indicare il passo di un’altra lettera di Bollati all’amico in occasione dell’uscita del primo volume degli “Annali”: “Guarda bene quel grosso tomo, e immagina come sarà importante il volume II a firma Carlo Bertelli, magari anche sdoppiato in due tomi.”[457]   Lettera di evidente lusinga, dalla quale risultava che a quella data il piano non prevedeva ancora la doppia curatela, come confermavano anche i verbali  di una riunione editoriale di poco successiva[458], nel corso della quale lo stesso Bollati  illustrando il “programma di libri fotografici”  citava fra gli altri “l’Annale di Bertelli che è l’Italia vista dai fotografi. Bertelli stesso ci ha segnalato due libri tedeschi: uno su Arte e fotografia di Otto Stelzer[459] e un altro che è una storia della fotografia.[460]”  Le difficoltà di realizzazione dovettero però essere non solo numerose e impreviste ma anche di diversa natura se in un Promemoria[461] all’editore Bollati arrivava a scrivere che  “la situazione resta acrobatica e impone uno sforzo notevole. Com’era da aspettarsi, man mano che la nostra ricerca procede, Bertelli deve rivedere le sue ipotesi di partenza, sulle quali non ha mai potuto riflettere con la concentrazione che un’opera così vasta richiede. Nell’incontro che gli abbiamo dovuto praticamente imporre, avvenuto a Milano giovedì 11 [gennaio 1979], abbiamo dovuto anche imporgli di ripensare il piano dell’opera, e di farlo subito, compitando insieme i temi intorno a cui organizzare la raccolta del materiale. Il risultato di questo lavoro si può vedere nell’allegato, che rispecchia una fase ancora provvisoria e disordinata, ma che, rispetto al niente di prima, è già una traccia per il completamento della raccolta di fotografie (condotta finora cercando di indovinare il pensiero di Bertelli, ma anche con molti contributi personali). La raccolta del materiale continua. Quando Bertelli vedrà le foto, dovrà probabilmente adattare il testo alle molte cose nuove trovate. Per il momento la situazione del testo è questa: Cap. I: L’obiettivo sugli italiani (…) Cap. II: La realtà trasformata (…) Cap. III:   (…) da scrivere. Il progetto prevede che a questo punto segua nel volume il materiale fotografico, diviso in sezioni tematiche (ho voluto una sezione ‘eventi’, se no troppe cose storiche sarebbero rimaste fuori). (Mi accorgo che manca ancora una sezione scienza e tecnica). Ogni sezione sarà introdotta da un cappello. Ovviamente nel libro, rispetto all’elenco allegato, il numero delle sezioni diminuirà notevolmente. Concluderà l’opera un’appendice di documenti sulla fotografia: testi critici, testi di ‘poetica’, testi insomma di interesse storico e tecnico o di riflessione teorica. La ricerca fotografica, dicevo, va avanti. Abbiamo finito l’importante esperienza dell’Istituto Luce (…). Questa settimana completiamo Torino: Museo della Montagna (fatto Sella e Rey); Fondo D’Andrade (quello del borgo medievale, il primo soprintendente italiano, grande disegnatore e fotografo di monumenti); le raccolte della Biblioteca Reale; quelle del Museo del Cinema; le minoranze etniche e culturali (ebrei, valdesi, occitani). Poi E.M. [Enrica Melossi] ha un programma emiliano, al quale mi unirò se necessario. Andrò di sicuro, invece, a Venezia, Trieste, Firenze. Non ho il coraggio in questo momento di organizzare un’indispensabile visita a Napoli. Qualcosa intanto ho trovato a Mantova. Rifiniture a Roma: è necessario ritornare al Gabinetto Fotografico Nazionale. Molte cose le sta mandando avanti E.M. da sola d’accordo con me. Malgrado l’apparenza, abbiamo chiuso i capisaldi – luoghi e cose – della ricerca, non navighiamo alla cieca. Pensiamo anche di poter chiudere a un segnale convenuto – dovrà venire da Bertelli – senza farci pescare con omissioni gravi. Anche entro febbraio, non è escluso. Se mai, si tratta di limare e integrare i singoli casi.” Alcuni capisaldi, infatti, erano delineati: la struttura del volume col testo separato dalle immagini, la presenza di una appendice di documenti, ma altri aspetti fondamentali risultavano ancora tutt’altro che chiari; in primis l’arco cronologico di riferimento, che a quella data prevedeva ancora un’estensione sin “dopo il ’45”, ma soprattutto l’articolazione tematica era ben lontana da una soddisfacente soluzione e la settantina di lemmi individuati richiamava più un soggettario che una struttura discorsiva[462].  L’altro dato rilevante e per molti versi inatteso che emerge da questi documenti è il ruolo svolto dai due studiosi: nonostante la competenza specifica e la lunga esperienza di Bertelli come direttore del GFN e dell’ING fu infatti Bollati a coordinare e svolgere in prima persona le ricerche iconografiche negli archivi italiani, pubblici e privati. Non solo: fu lui a definire l’orizzonte storiografico del progetto. Come scriverà anni dopo Bertelli ricordando l’amico scomparso  “Giulio Bollati si mise alla ricerca di quegli elementi che nei caotici archivi fotografici italiani permettevano di riconoscere linee di tendenza corrispondenti a una modernità che, malgrado tutto, premeva e infine s’imponeva. (…) Bollati era andato a cercare le tracce del cambiamento negli archivi delle società industriali più direttamente interessate alla concorrenza cosmopolita e, con notevole intraprendenza, in quel lembo d’Italia austriaca che erano state Trento e Trieste. (…) Eppure, nella ricerca a tappeto condotta in tutta la penisola, l’autore era consapevole delle lacune e dei silenzi. Macabre fotografie di banditi del sud ce n’erano (…) per contro quasi nulle le fotografie relative alla classe operaia.”[463]

Struttura e contenuti

“L’uscita di questo volume – scriveva Giulio Einaudi nella nota di apertura – cade, per una coincidenza significativa, in un momento di interesse particolarmente intenso per la fotografia, la sua storia, il suo significato, il suo legame con la vita italiana. Le origini del volume sono, comunque, autonome e risalgono al progetto culturale che sotto il titolo di Storia d’Italia ha dato luogo, a partire dal 1972, alla pubblicazione di un’opera di cui gli Annali costituiscono la continuazione e lo sviluppo. (…) I due autori dell’opera, Carlo Bertelli e Giulio Bollati, partono da premesse e da formazioni diverse, ma concordano nella necessità di collegare la fotografia, come sistema linguistico e produttivo, alle strutture e ai problemi della organizzazione della cultura.”[464] Una dichiarazione programmatica chiara, che collocava precisamente la nuova realizzazione nel progetto storiografico dell’intera opera, sinteticamente richiamato nelle righe finali e di cui si potevano trovare ampie tracce in molti dei volumi già pubblicati[465].  Il volume apriva con l’Elenco delle [676] illustrazioni, organizzato per temi che non trovavano immediata corrispondenza nell’articolazione dei saggi, costituendo così un ulteriore spazio discorsivo. Di ciascuna immagine erano indicati nell’ordine Soggetto, Autore, Data e Provenienza (collezioni pubbliche e private, ma anche da fonti bibliografiche), senza fornire però  – se non per alcuni calotipi assegnati a Tuminello, poi attribuiti a Caneva da Becchetti – alcuna indicazione tecnica, come se questa non appartenesse e non fosse anzi costitutiva del “sistema linguistico e produttivo” della fotografia. Seguivano i saggi dei due curatori e quindi quello che con discutibile scelta terminologica[466] venne definito  l’Apparato fotografico  sviluppato nei due tomi, il secondo dei quali chiudeva  con una importante Appendice di testi e documenti  e con l’Indice dei fotografi.

L’immagine contrastata fu il titolo emblematico scelto da Bollati per il primo paragrafo del suo saggio, qualificando così i nodi problematici, gli scenari e i contesti del proprio territorio d’indagine, segnato da un’apertura che invano avremmo cercato nelle altre produzioni coeve. “Questo libro non è una storia d’Italia attraverso la fotografia, né una storia della fotografia in Italia – scriveva in quel suo citatissimo incipit – (…)  Si situa di proposito in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista. Abbiamo del resto motivo di credere che la nostra scelta sia appropriata alla fase attuale della fotografia, questa ultima arrivata nella nostra lungamente estranea e diversa cultura.”  L’origine di quella estraneità era riconosciuta nella “persistenza di una tradizione culturale di antica ascendenza classica” e nel ritardato ingresso del nostro paese nel mondo industriale avanzato.  Per queste ragioni “la fotografia, riportando alla superficie[467] il tema primordiale dell’immagine e dei suoi rapporti col pensiero, si è trovata coinvolta in sommovimenti profondi della nostra eredità culturale [poiché] all’apparire del nuovo mezzo, la cultura figurativa tradizionale si sentì  in pericolo e diede l’allarme: con la pretesa di fare arte mediante una macchina e il sussidio di reazioni chimiche, il mondo dell’industria rompeva un antico confine e invadeva il territorio dei valori consacrati.” Da quella interpretazione storica del fenomeno Bollati faceva derivare una precisa posizione critica, considerando  un errore “mantenere la fotografia (…) dentro quella continuità estetico – figurativa che essa, appunto, ha interrotto, e nell’aspettarla alle prove di una annosa concezione dell’ ‘opera d’arte’ ”.  Non solo: facendo proprie una serie di suggestioni che muovevano da Benjamin sino all’ultimo Barthes[468], Bollati invitava a riconoscere che “malgrado l’educazione estetica che abbiamo ricevuto, il  nostro rapporto con la fotografia è più grossolano e affonda nell’indistinto dell’esperienza: tende a privilegiare come valore il contenuto, di più, inclina a confondere l’oggetto e la sua rappresentazione, scivolando inavvertitamente nella mentalità magica del cacciatore paleolitico. La fotografia ci fa regredire a uno stadio in cui l’immagine si sottrae al controllo del pensiero razionale (…) ha risvegliato l’arcaico e il demonico dormienti nel profondo”.  Questi alcuni dei nodi che per Bollati era indispensabile riconoscere  e sciogliere se si intendeva affrontare la presenza della fotografia nella storia della società italiana; l’elemento di continuità nel  rapporto dialettico “tra la risvegliata ‘naturalità’  della percezione (sedimentata da una precedente storia antropologica, psicologica, ecc.) e la cultura dominante, che cerca di non perdere il controllo del fenomeno”.  Si precisava così l’intenzione di “tracciare l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana, dedicato alla visione e con particolare riferimento alla fotografia”, recuperando “prescrizioni e divieti, minacce e lusinghe intesi a fissare la linea del vedere e le norme per la produzione di immagini visuali”. Un programma perfettamente coerente e rappresentativo di quella che allora si definiva ancora nouvelle histoire, nella specifica accezione di storia delle mentalità.

Nei paragrafi seguenti l’ipotesi interpretativa prendeva corpo intorno ad alcuni temi centrali quali l’industrializzazione; i rapporti con la tradizione estetica o lo stato e ancor più lo spirito dei luoghi,  le cui rappresentazioni avrebbero contribuito a definire L’inventario fotografico dell’Italia unita (come recitava il titolo del terzo paragrafo): “Un vasto campo di lavoro si apre alla fotografia come strumento di unificazione.  (…) Più in generale essa collabora alla creazione di una retorica nazionale didattica e celebrativa, traducendo in immagini i tòpoi derivati da varie fonti o producendone copiosamente di propri. (…) La raccolta di ‘bellezze naturali’ del Bel Pese sarà compiuta da un esercito di fotografi spesso di basso e infimo livello, capaci però di comporre un mosaico di stereotipi visivi tanto tenaci, che molti luoghi e paesaggi reali ne saranno ‘sostituiti’ per sempre.”[469]  Quelle immagini oleografiche e retoriche, ma anche  la retorica di quelle immagini e di quell’immaginario si riveleranno ben presto strumentali – ci ricordava Bollati – a quell’ “occultamento del reale” che avrebbe poi segnato una buona parte del modernismo del ventennio fascista e l’opera dei “nostri fotografi di ruralità artistiche”; un’ironica definizione che compendiava il giudizio su quel “pittorialismo ricchissimo di Kitsch e tuttavia capace in alcuni casi di sorprendenti riuscite.” Un fenomeno di cui Bollati individuava i riferimenti culturali non solo e non tanto nella più immediata aspirazione all’artistico ma – con sguardo più ampio e profondo –  in quel “neoidealismo italiano” già richiamato in apertura che aveva innalzato  “una barriera tra la cultura italiana e la cultura del mondo industrializzato, e al riparo di quel muro esteti di varia estrazione, letterati, moralisti scendono in campo contro il nemico comune: il materialismo.”

Con una lettura che appariva debitrice dell’interpretazione gramsciana del futurismo, sarebbe stata la Grande Guerra, scriveva Bollati, a gettare improvvisamente l’Italia in quella modernità industriale di cui costituiva una “violenta intensissima esperienza”[470]; occasione in cui “nel trionfo della demenza autoritaria, la fotografia scopre se stessa, la sua democraticità, l’assolutezza del suo rapporto con le cose. Le fotografie della Grande Guerra sono spesso ‘solitarie’, come se non dovessero essere viste da nessuno, neppure da chi ha premuto il pulsante della Kodak portatile”. Il successivo ventennio fu invece la “grande e infamante occasione per la fotografia italiana, chiamata a documentare la realtà dell’inesistente[471] mentre il reale viene sistematicamente occultato”, sebbene poi per la sua stessa natura la fotografia rivelasse  “tutto quello che le si ordina di nascondere. Basta ormai la faccia di un bambino, o una colonna di fumo sullo sfondo di una periferia per sfatare i colli fatati e i medioevi cristiani, cavallereschi e comunali.” Per Bollati la sola  produzione  dotata di una certa autonomia era stata quella “legata soprattutto a ricerche architettoniche, pubblicitarie, di design industriale. Si assiste come al formarsi di una grammatica e di una sintassi della visione moderna, che sul terreno della ricerca formale trova il contatto con esperienze internazionali d’avanguardia  [che] maturano anche il pittorialismo italiano di base a effetti di più aggiornata trasposizione letteraria del reale. (…)  Dopo una lunga sottomissione all’alta cultura aristocratica dei vati e dei moralisti, e dopo il confino fascista, con la fine della guerra la fotografia italiana esce finalmente dall’isolamento e raggiunge in breve tempo traguardi alti. Ma non diremmo che sia sicura di sé, né, del resto, che possa esserlo.”[472]

Diversi l’impianto e gli obiettivi del successivo saggio a firma di Carlo Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d’Italia fino al 1945, che si proponeva come inedita sintesi storica fondata sulla chiara necessità storiografica di collocare le vicende della fotografia in Italia nell’ampio e mutevole contesto storico del lungo periodo considerato e in un rapporto di scala che col progredire dei decenni necessariamente si ampliava.  “Lo sforzo di uno storico della fotografia – scriveva Bertelli – deve mirare a collegare il più possibile il documento fotografico  a una trama storica, assumendolo non come riflesso di una realtà storica ipotetica, ma come una parte, a seconda delle circostanze più o meno rilevante, della stessa.”[473]. Altre considerazioni di ordine generale erano poste in chiusura del saggio, a proposito delle ragioni industriali, commerciali ed economiche che avevano da poco suscitato “un nuovo e quasi inedito interesse verso il collezionismo fotografico estendendo fino ai livelli attuali la concezione di una fotografia destinata al libro, alla mostra, al museo. Il tipo di storiografia che ne è stato sollecitato, ricalcato sullo schema della storia dell’arte, conviene perfettamente allo scopo. Poiché in una ricerca di meriti, il problema di fondo di che cosa abbia costituito la fotografia nella storia della società italiana è rimandato alla speranza di scoperte successive che dimostrino, contro ogni evidenza, che l’Italia può entrare nel consesso dei paesi che hanno una storia della fotografia con gli stessi titoli. Quando si deve invece riconoscere che l’Italia è un caso diverso, che non ha gli stessi titoli e non ha nessuna ragione per cercare questo tipo di promozione fra i paesi industriali. Al contrario sarà proprio una più approfondita conoscenza della nostra storia industriale e dei suoi complessi intrecci con le industrie estere che potrà contribuire a conoscere la storia della fotografia in Italia, la storia cioè della forma di documentazione, di comunicazione e di riproduzione tipica della moderna società industriale. Sapremo così ascoltare anche il silenzio, e interpretarlo.” Lascia oggi qualche perplessità quella disposizione all’ascolto del silenzio degli innocenti in cui pare di cogliere ancora una traccia, se non proprio una consonanza, per quanto incommensurabilmente più articolata, con le posizioni a suo tempo espresse da Negro e Vitali.  Sono convinto che ormai da tempo (e fortunatamente) nessuno storico della fotografia italiana si applichi ai propri studi alla ricerca di un primato da verificare, ma nella consapevolezza, del resto enunciata dallo stesso Bertelli in apertura, che la fotografia e i suoi prodotti sono stati e sono parte della storia e della cultura di un Paese e che questa è la sola ragione, necessaria e sufficiente perché debbano essere studiati.

La varietà dei temi e la maestria con cui sono stati affrontati ha fatto di quest’opera un riferimento imprescindibile per ogni storico a venire, anche quando risultava inevitabilmente condizionata dai differenti livelli di conoscenza disponibili all’epoca, determinando attenzioni e approfondimenti di cui  a volte è difficile stabilire quanto fossero l’esito di scelte critiche oppure di condizionamenti contingenti. Pur senza pretesa di antologizzarla credo sia utile dare conto almeno di alcuni degli elementi più significativi, così come di quelle che ora paiono incertezze di comprensione da cui derivarono improprie considerazioni storico critiche: ne costituiva un buon esempio l’esclusione del calotipo dalla sequenza tecnologica significativa, senza cogliere la novità determinante, linguisticamente inedita del primo processo negativo/ positivo, del quale tutto ciò che ricordava Bertelli era che “anche la  nuova invenzione (…) del negativo su carta (calotipo) ha una sua fase accademica in Italia attraverso lo scienziato modenese Giovanni Battista Amici”. La cultura tecnologica, come già nei volumi da lui ispirati dedicati a Michetti e Cugnoni[474], doveva essergli sostanzialmente estranea se non proprio ostica se poco dopo possiamo leggere che “il calotipo ha una granulosità strana, che ricorda il disegno, ma che, per non dipendere dalla carta, bensì da una sospensione di materie meno fini nel pigmento stesso che forma l’immagine, lascia interdetti [i contemporanei, si suppone] e si risolve in una curiosa sensazione atmosferica, con una incertezza di definizione che si presta al racconto.”[475] Brano incredibile, che misurava concretamente la distanza tra inoppugnabili dichiarazioni di principio e competenze che (almeno in ambito fotografico) si rivelavano ancora incommensurabilmente lontane dalle necessità di comprensione dei processi propri di  una tecnologia di produzione che forse più di altre di questi viveva e da questi era determinata, anche e soprattutto nelle proprie possibilità espressive.

Meglio allora guardare alle più raffinate considerazioni critiche di lettura dell’immagine di Bertelli, molte delle quali ancora oggi efficaci sia in termini di definizione generale[476] che di interpretazione storicamente circoscritta, ricordando ad esempio che “attraverso la fotografia la medicina ottocentesca tocca una delle punte più appariscenti della sua immersione nell’individuo e nel contesto sociale cui appartiene.” Un richiamo che consente di sottolineare l’ampiezza e la novità dei temi proposti da Bollati e variamente scandagliati da Bertelli, che accanto ai generi  canonici di derivazione pittorica (la veduta, il ritratto, il nudo) ne affrontava di sostanzialmente inediti, suggerendo percorsi di ricerca tuttora validi: emigrazioni e catastrofi; gli scrittori e la fotografia; lo sport[477] e  la moda; la fotografia geografica e di montagna;  la fotografia di guerra e quella industriale; o ancora quella editoriale in rapporto alla grafica e al linguaggio cinematografico: “dal momento in cui la fotografia si trova a confrontarsi non più soltanto con la pittura, ma anche con il cinema, è costretta a una concentrazione di significato che dia alla singola fotografia una densità narrativa enorme, che ormai non può essere ottenuta con prestiti dai modi della pittura, ma si attua in una scomposizione della realtà, secondo le esigenze ottiche e meccaniche della fotografia, tale da estrarne immagini simboliche.” In questo ricchissimo excursus alcuni temi o contesti costituivano un terreno privilegiato d’indagine: autori come Michetti o Nunes Vais, ma anche le successive declinazioni della fotografia artistica e la politica dell’immagine nel ventennio fascista e sino alle prime reazioni del secondo dopoguerra. Sorprendeva invece  lo spazio marginale, poco più che un cenno, riservato alle funzioni e al ruolo della fotografia dell’arte, a proposito della quale rimarcava come “ancora più indicativa del dissidio fra fotografia e cultura è l’assenza di una riflessione sulla fotografia delle opere d’arte”, senza menzionare non dico alcune campagne ottocentesche allora forse sconosciute ma neppure il magistrale esempio del Piero della Francesca di Roberto Longhi[478] o i necessari antecedenti di Adolfo Venturi, Corrado Ricci e Pietro Toesca che pure dovevano essergli ampiamente noti, non foss’altro che per il ruolo istituzionale da lui svolto in quell’arco di tempo.

La ricezione dell’opera e la questione della fotografia come fonte

La rilevanza e il significato dell’impresa editoriale, così come le questioni metodologiche poste, sollecitarono un’ampia serie di riflessioni critiche da parte sia di storici contemporaneisti che di quelli di fotografia, anticipate però da una importante intervista allo stesso Bollati[479].   Quell’opera, chiariva, andava intesa come “il tentativo di acquisire finalmente alla riflessione storiografica italiana il linguaggio della fotografia. (…) Non c’è distanza fra i testi e le foto. Il mio saggio è nato insieme alla ricerca del materiale. Ne è scaturito l’abbozzo di un possibile capitolo dell’ideologia italiana dedicato alla visione, con particolare riferimento alla fotografia.” Per Mario Accolti Gil, che lo intervistava, le foto riprodotte non potevano però essere “un campione statisticamente attendibile di quello che è stato prodotto e consumato nel periodo (…) c’è una certa sfasatura fra la corposità dei testi e le foto che dovrebbero comprovarli”[480], ragione per cui  “un impianto statistico avrebbe dato maggiore consistenza alla sistemazione che questi Annali si limitavano a delineare con taglio saggistico.” Bollati riconosceva che “l’obiezione metodologica di una mancata scelta di campo” era stata messa in conto, ma si augurava che il libro potesse “contribuire a uscire da schemi  un po’ appartati che non portano molto lontano. (…)  Più in generale le dirò che in fatto di teoria e lettura della fotografia abbiamo ancora tutti molto da imparare e studiare (…) Se mai un libro è stato fatto con passione di scoperta è questo. Ho dovuto studiare, ricercare. Siamo partiti dai repertori classici (GFN, Bertarelli, Luce, IGM), ma poi abbiamo battuto campagne, la provincia, le case private. Non è un libro nato sull’onda della moda; è stato pensato anni fa nel quadro della Storia d’Italia Einaudi [ciò che era vero solo in parte]. Gli stessi difetti che lei sembra riscontrarvi lo dimostrano. Ma questo libro è anche, passata questa fastidiosissima voga che incontra oggi la fotografia nel nostro paese, un invito a lavorare seriamente a riordinare il patrimonio fotografico, che in Italia è profondamente dissestato, e a scandagliarlo ancora perché siamo appena agli inizi.” In quella stessa occasione Bollati si era dichiarato curioso di sapere “come giudicheranno questi Annali i Gilardi, i Colombo, i Settimelli, per parlare della vecchia guardia, o la Palazzoli e Quintavalle, per citare i più sofisticati, i novissimi”, ma le prime reazioni non vennero dal fronte fotografico, né furono immuni da distinzioni legate alle diverse posizioni ideologiche. Così Nicola Tranfaglia sottolineava l’interesse della fotografia come “fonte significativa per cogliere l’immagine che gli italiani vollero lasciare di sé stessi ma anche aspetto non marginale del rapporto tra intellettuali e potere”[481]; un elemento individuato anche da Paolo Spriano, che apprezzava “lo scrupolo e l’acume di scelta dei due studiosi italiani della storia attraverso la fotografia (e della fotografia attraverso la storia) (…) che ci hanno dato, per un secolo intero, un’immagine complessiva della borghesia”, ma con una notazione ulteriore a proposito di una certa “sensazione così sottile che finisce per prevalere: pare tutto così lontano, il 1845 come il 1940, ciascuna data con le sue tragedie ma anche ciascuna con la sua impronta di ‘tempo scomparso’. Insomma c’è un sottofondo permanente di Italia piccolo-borghese.”[482] Il nodo centrale, storico e storiografico, del rapporto tra identità nazionale e rappresentazione fotografica venne ripreso e sviluppato da Anne Marie Sauzeau Boetti, per la quale piuttosto che chiedersi “se si tratta più della storia della fotografia in Italia o di quella dell’Italia moderna (…) è meglio porre il problema in altri termini: come si inventarono gli italiani, intendiamo la neonata nazione italiana attraverso la fotografia? Oppure (ma si tratta della stessa cosa) come inventarono, gli stessi italiani, la grammatica progressiva di un tessuto di rappresentazione e di comunicazione, moderno per eccellenza, il linguaggio dell’immagine fotografica? (…) Il luogo mentale della raccolta è il confine fragile, ribollente di speranze e di nostalgie, tra antica e degradata cultura regionale e vocazione di potenza moderna, persino coloniale. Di questa mutazione, il testimone è stato un occhio nuovo, appunto la scatola nera del fotografo.”[483]

Altri recensori si soffermarono invece su questioni più squisitamente storiografiche: dopo aver tempestivamente segnalato l’uscita del volume, Rosario Romeo ritornava sull’argomento dichiarando preliminarmente di non voler seguire “i curatori nelle attente analisi che accompagnano questa raccolta di fotografie (…) per mancanza di competenza e un po’ anche di interesse”; preferiva semmai considerare la “questione dei rapporti tra fotografia e storia” rilevando che  “la raccolta sembra un po’ troppo orientata per costituire una documentazione convincente. Troppo poco essa offre di fotografia scientifica e di altri ‘generi’ per natura più ‘realistici’: e quasi nulla di momenti così riccamente documentati come le due guerre mondiali. (…) Nonostante i fieri propositi e gli intenti ideologici e politici enunciati nella presentazione, la raccolta sembra guidata più da criteri estetici che di documentazione storica: e questo ne diminuisce la significatività nella sede scelta per la pubblicazione. Certo, essa non reca molto sostegno a chi vede nella fotografia una fonte importante per la ricerca storica. Che la fotografia appaghi talune superficiali curiosità è evidente. Ma resta il fatto che i momenti della storia sono quelli che meno si prestano a farsi fotografare. (…) Questo andrebbe detto, mi pare, a evitare che si disperdano energie a caccia a base fotografica [sic] destinata a restare al margine dei veri problemi della ricerca.”[484] Una lettura meno condizionata ideologicamente e una critica meno radicale al progetto fu quella di Giuseppe Galasso, che richiamava in termini generali il permanere nella cultura degli storici  del pregiudizio della ‘oggettività’, della costante dicotomia oggettività/ costruzione, riproduzione/ espressione, documento/ arte; proprio per questo  apprezzava quella “indeterminatezza” su cui si apriva il saggio di Bollati, che costituiva “motivo di grande pregio sul piano di una storia della fotografia in Italia” sebbene potesse far nascere “qualche perplessità sul piano più strettamente storico-cronistico.”[485] Ancora al tema “della fotografia come documento, se vogliamo come fonte storica” era dedicata la recensione di Franco Cardini[486] che confermava come “gli italiani non hanno una buona sensibilità per le fonti iconografiche, e in particolare gli storici trascurano spesso di servirsene o le sottovalutano. È un errore a correggere il quale una pubblicazione di questo genere può senza dubbio servire egregiamente” nonostante qualche rischio di retorica.  Ancora sul contributo di Bollati si soffermava Cesare de Seta, per il quale “nonostante le sue reticenze, nonostante il suo discretissimo modo di presentare le sue analisi al lettore” esso costituiva  “il più asciutto ed originale scandaglio della complessa relazione che si istituisce tra cultura del testo e la cultura dell’immagine” [487]; opinione condivisa anche da Federico Zeri che considerava  “di non comune interesse il capitolo sull’ ‘immagine contrastata’, sulla polemica tra foto-documento e foto-opera d’arte, e sulle componenti storiche, sociali e culturali dalle quali vengono evidenziati o depressi certi temi di ripresa (sino all’ ‘occultamento del reale’)”. Il grande storico dell’arte liquidava invece in poche parole “il saggio di Bertelli [che] è di carattere storico”[488], molto apprezzato invece da De Seta per il quale rappresentava “la più sistematica ed ampia analisi attualmente disponibile sulla fotografia italiana: anche se naturalmente sono privilegiati quei momenti e quei passaggi che sono stati fino ad ora meglio indagati”; anche se, vale a dire, non presentava novità di rilievo. Più severo il giudizio di  Guido Bezzola che lo considerava nulla più che “una gradevolissima e azzeccata serie d’interventi su episodi della storia e del gusto fotografici in Italia”, segnalando nel contempo alcuni errori nell’identificazione delle immagini, elemento che qui interessa richiamare  soprattutto come indizio di un più ampio problema di metodo, che negli anni successivi avrebbe interessato in particolare gli storici con la fotografia, ponendo la questione cruciale  della corretta edizione delle fonti.[489]

La “indeterminatezza” apprezzata da alcuni era invece vista come un elemento di debolezza da parte di qualche esponente della “vecchia guardia” dei critici militanti: dalle pagine di “Phototeca” Roberta Clerici e Ando Gilardi segnalavano infatti “una nota di ‘insicurezza’, del resto caratteristica di tutti gli studiosi, pur di solida cultura visiva, quali Bollati e Bertelli, che si cimentano con la fotografia. La fotografia resta alla fine essenzialmente ‘un processo’ tecnico e industriale e si pensa di doverlo conoscere dall’interno, come tale, per trattarne in piena sicurezza. Ora i due autori non sono, e non pretendono di essere, tecnici esperti, e nemmeno storici dei procedimenti fotografici. È la ragione per cui si muovono con tanta circospezione.” Interpretazione certo riduttiva sia della fotografia come fenomeno storico sia delle scelte storiografiche espresse in quegli “Annali”, ma in certa misura supportata e giustificata sia dalla mancata considerazione delle tecniche fotografiche sia dall’analisi quantitativa condotta dai  recensori sui nomi citati nell’opera, dalla quale risultava che nel saggio di Bollati solo il 4% erano di fotografi e solo il 7% in quello di Bertelli.  Sarebbe però errato – scrivevano i due attenti recensori con intenti polemici – considerare questo “come un difetto dell’opera. È solo un modo di usare la fotografia fuori dai suoi confini. Entrambi gli autori intendono recuperarla alla cultura ‘vera’, alla  ‘buona’ cultura: la storiografia, l’arte tradizionale fatta a mano, la psicologia, la sociologia, la critica del costume e dei nuovi consumi intellettuali promossi dall’industria ecc. C’è, probabilmente, anche una ‘seria’ cultura fotografica [che] riguarda la fotografia ‘ancora da fare’, vale a dire le vicende delle industrie fotografiche: vicende produttive, commerciali e promozionali (…) fino a quando questa storia della fotografia non sarà stata scritta, o almeno definita nella sua impostazione, la ‘buona’ cultura potrà interessarsi alla fotografia, intesa come supporto interessante per la dotta speculazione. Ma la cultura fotografica resta da fare.”[490] Lo stesso Gilardi ribadiva queste posizioni in una successiva recensione[491] riconoscendo che i due tomi erano “più che indispensabili per chi studia fotografia. I fotografi debbono essere grati all’Einaudi perché la stampa di questi volumi segna, di per sé, il primo solenne ingresso della fotografia come forma di cultura particolare, nella forma generale della cultura accademica ufficiale. (…) i testi del Bollati, del Bertelli e del Gilardi, in fondo, li leggono con attenzione e sottolineandoli (come meritano) solamente il Gilardi, il Bertelli e il Bollati. Poi li legge Arturo Carlo Quintavalle, i testi del quale, anche per debito, proviamo onestamente a leggere, ma sia pure spingendo lo sforzo allo spasimo, non ce la facciamo. Per ragioni di limite esoterico. Continuiamo a scherzare, infantilmente.” In questi volumi, proseguiva con ironia affettuosa, “c’è dentro tanto lavoro, tanta ricerca, tanta intelligenza. E tanta modestia: Bollati chiama il suo scritto ‘note’ e Bertelli il proprio ‘schede’. Insieme all’editore si affannano a ripetere che non si tratta di una ricerca sufficiente, e nemmeno di un’analisi piena.” La chiusa era tutta dedicata a Bertelli, che aveva individuato “nel riutilizzo da parte di altre ‘cose’ (la pittura, la grafica, l’architettura, il tempo libero, l’antropologia eccetera) l’unica possibilità di dare alla fotografia uno scopo. Quando si esaurisce in sé stessa si esaurisce, appunto.  Chi scrive questa segnalazione è tristemente noto per una sua conferenza, troppe volte ripetuta, che ha per tema ‘La fotografia non è arte, non è comunicazione e, quel che è peggio, non è nemmeno fotografia, ovvero: meglio ladro che fotografo!’ però confessa che in fondo al cuore gli restava una speranza d’avere torto. L’amico Bertelli, con il suo fare timido da cobra rispettoso, gliel’ha tolta.”

Su alcune discordanti caratteristiche dell’opera insisteva anche Angelo Schwarz, ma avviando la propria trattazione con una notazione singolare:” C’è una cosa che va detta subito: la noia scorrendo i testi e guardando le immagini non ti sorprende mai. Non è cosa da poco per un’opera, anche, di storia della fotografia” [492], riconoscendo ai due autori l’abilità nel fornire ai dati storici “un contesto e una scrittura adeguata”; più in particolare considerava esemplare il contributo di Bollati per essere riuscito a “rompere l’isolamento della fotografia come storia particolare”, mentre agli “storici della fotografia, postulanti, canonizzati o da canonizzare” mancava una “adeguata metodologia storica (ancora da inventare)”. Da questo punto di vista anche il considerevole contributo di Bertelli restava, nonostante i riconosciuti pregi, “disperante” poiché  vi si toccava “con mano l’insufficienza di studi seri sulla fotografia, di una ricerca che non  può essere relegata a un gruppo di sparuti ricercatori”, conseguenza  – anche – dell’assenza di specifici corsi di formazione universitaria. Per questo “i rilievi (…) concernenti imprecisioni, dimenticanze presunte o reali (…) diventano marginali se non li si riconducono ai grossi vuoti di documentazione dispersi nelle memorie individuali.”[493]

Di genere più propriamente storiografico le riserve espresse da Quintavalle a proposito dello stesso saggio, che considerava “interessante” ma “discutibile”, essendo la predilezione per “alcune personalità ben individuate” espressa da Bertelli inconciliabile con la necessità di conoscere e considerare  un contesto come quello italiano che era ancora sostanzialmente insondato;  “in secondo luogo perché operare solo sull’insieme dei supposti artefici protagonisti, degli ‘artisti’, è certamente un’operazione di stretta marca idealistica, crociana; e ancora perché proprio il rifiuto di analizzare la fotografia come strumento della comunicazione preclude a chiunque la possibilità di comprendere la realtà della storia: una storia della fotografia per genii, per figure-guida appare essere contrapposta alle storie reali, al tessuto reale, quelle storie, quel tessuto che decenni di critica ci hanno insegnato a rispettare e a considerare come strutturante.”[494]

 

 

 

1980-1988

 

 

L’Italia nelle storie generali / Alcuni modelli storiografici

 

 

La risposta del pubblico alle molteplici iniziative del 1979 aveva sollecitato gli editori a considerare diversamente la cultura della fotografia e  la sua storia, tanto che in meno di un decennio si pubblicarono le maggiori sintesi storiografiche generali allora disponibili, sia contributi originali sia traduzioni, mentre si assisteva a qualche timido ma prezioso tentativo di riedizione delle fonti[495]. Il periodo, delimitato quasi esattamente dalla pubblicazione dei due volumi della Storia della fotografia di Gernsheim  (Le origini, 1981; L’età del collodio, 1987), vide nel 1982 l’uscita della Storia e tecnica della fotografia di Zannier e  nel 1984  la traduzione italiana dell’ultima edizione di quella di Beaumont Newhall, seguita due anni dopo dalla traduzione della Storia curata da Jean-Claude Lemagny e André Rouillé, che  proponeva un nuovo modello storiografico.

A chiudere editorialmente il 1979 era stato un volume di Settimelli dedicato alle origini della fotografia[496], che aveva il lodevole scopo di far sì che “il lettore, stufo di tante opinioni diverse [potesse] giudicare con la propria testa”. Così nel breve spazio di poco più che cento pagine venivano compendiati, come recitava il sottotitolo, I fatti, i pionieri, gli eroi, le polemiche, le tecniche e i documenti inediti dal 1820, con qualche riferimento alle vicende italiane. Nella breve Prefazione, e forse con qualche bonaria intenzione ironica, l’autore dichiarava di non avere “molto da dire” a proposito delle ragioni del libro e del tema (inteso ancora come controverso) dell’invenzione della fotografia, essendo però consapevole del fatto “che un libro in più non faccia male a nessuno.”  La narrazione delle vicende riprendeva l’andamento romanzato già adottato per il volume del  1969, compreso quel gusto nella titolazione dei capitoli improntato a criteri e modi da copywriter pubblicitario (“Daguerre e Niepce [sic] fanno impazzire il mondo”). Anche in questo caso l’aneddoto prevaleva sull’accuratezza delle informazioni fattuali e tecniche[497], così come sulle considerazioni storico critiche, tanto che uno degli assunti fondamentali, quello che distingueva tra dagherrotipia e fotografia in senso proprio era liquidato sommariamente notando che “si trattava, insomma, del principio del negativo e del positivo ancora oggi d’uso corrente” ed anche la dichiarazione che “i veri inventori della fotografia, così come noi oggi la conosciamo (…) furono in realtà Henry Fox Talbot e Hippolyte Bayard”  era quasi celata nel corpo di una semplice didascalia.   Ne risultava uno zibaldone di testi e immagini poco coerenti tra loro sia in termini strutturali che cronologici, tanto da far pensare a un instant book realizzato sull’onda della nascente curiosità per la fotografia storica piuttosto che all’esito di un meditato progetto di ricerca. Il solo merito di quel volume era rappresentato dalla pubblicazione di alcune fonti “a volte di faticosa lettura” (intendendo – credo – di difficile reperibilità), scarsamente utilizzate dai pochi che lo avevano preceduto  (come Federico Arborio Mella[498]) e che solo a partire dagli “Annali” einaudiani dello stesso anno avrebbero avuto in parte maggiore circolazione. La pubblicazione di quei testi, mai contestualizzati, assumeva però una dimensione preponderante e scarsamente giustificata nell’economia generale di un volume riccamente illustrato (trenta pagine su ottanta) che si chiudeva con una breve bibliografia ottocentesca tratta dal Manuale di Gioppi del 1887, ovvero una versione povera di quanto proposto da Gilardi nel 1976, e con un elenco altrettanto striminzito dei “principali fornitori italiani di articoli per fotografi”, desunto dalla stessa fonte ma impropriamente e improbabilmente datato al 1864 sebbene registrasse la presenza di Cappelli e di Dringoli, cioè dei primi produttori italiani di lastre alla gelatina bromuro d’argento.

Nella “Collana di fotografia” diretta da Daniela Palazzoli venne pubblicato nel 1981 il primo dei due  volumi in ottavo della Storia della fotografia di Gernsheim[499], dedicato alle origini,  che si segnalava anche per la particolare cura editoriale posta nella riproduzione dei dagherrotipi, molti dei quali stampati su fondo argento (in un caso anche in quadricromia) per evocare almeno la loro peculiarità percettiva, come già aveva fatto alcuni decenni prima Carlo Mollino. Com’era prevedibile il testo di Gernsheim non offriva esplicite indicazioni metodologiche ma entrava subito in argomento con un breve capitolo dedicato alla “preistoria della fotografia”, posto a capo di una sequenza argomentativa strutturata su base tecnologica (eliografia, dagherrotipia, disegno fotogenico, calotipia), con approfondimenti dedicati ad alcune aree geografiche, compresa l’Italia, affidata alla direttrice della collana, mentre gli apparati contenevano una biografia dell’autore, l’indice dei nomi e una “bibliografia essenziale, non sistematica, per chi volesse approfondire l’argomento”, da cui erano escluse quasi tutte le fonti a stampa citate nelle note ai capitoli. La ricostruzione delle vicende, sovente condotta su fonti inedite, era molto vivace e ricca di dettagli  ma condizionata – come era già stato notato per la sua prima Storia[500] – da una impostazione finalistica e da continui rimandi alle opere conservate nella propria collezione. Il secondo volume, dedicato all’età del collodio,  vide la luce nel 1987, con analoghe caratteristiche editoriali, ma la meritevole intenzione di offrire una “traduzione efficace dell’effetto visivo degli originali” ebbe in quel caso risultati poco soddisfacenti poiché la rinuncia alla stampa in quadricromia a favore di un uniforme color seppia, che avrebbe dovuto evocare “la colorazione media degli originali”, risultava inadatta quanto filologicamente insostenibile.  Operando su di un arco cronologico ristretto e un orizzonte tecnologico definito, l’articolazione del discorso si concedeva una struttura meno rigida del precedente, con capitoli dedicati ai generi che allora si andavano definendo (“d’arte”, istantanea, ritratto, paesaggio e architettura, montagna) così come a certe forme della sua diffusione commerciale, dalle carte de visite alle  stereoscopia, ma forse con entusiasmi non storicamente verificati, quali l’opinione che il procedimento al collodio avrebbe  fatto “finalmente della fotografia un hobby popolare”; affermazione insostenibile e contraddetta del resto dallo stesso autore nel momento in cui riconosceva che “la popolarità del procedimento al collodio non deve far pensare che avesse reso più facile la fotografia che, anzi, era diventata più difficile.” Prescindendo da quelli che a noi paiono dei limiti di interpretazione, il testo presentava la consueta leggibilità accompagnata da grande ricchezza di fonti e di dati, anche di tipo statistico sulla diffusione della professione fotografica, sul costo dei materiali e dei prodotti finiti e sull’uso delle varie tecniche, anche se purtoppo limitati alla sola Gran Bretagna. Nell’edizione italiana il sommario del primo volume prevedeva  – come si è detto – uno specifico contributo dedicato al nostro paese affidato a Palazzoli, che sulla scia di Vitali e poi di Settimelli svolgeva in estrema sintesi le vicende legate alle origini e rimandava per approfondimenti al testo da lei redatto per il catalogo della mostra del 1979. Tale vincolo  obbligava l’autrice a cenni anche interessanti, come il richiamo alla tradizione italiana della camera obscura e alle riflessioni di Francesco Algarotti[501], ma senza riuscire poi a trarne le dovute conseguenze in termini storici e storiografici, così che il testo non risultava essere altro che una sintesi cronologica dei modi della conoscenza italiana delle due magnifiche invenzioni: dalle relazioni personali di Talbot coi “savants Italiens” alla diffusione delle notizie intorno al dagherrotipo, tra stampa periodica e scientifica, sottolineando in particolare l’interesse di Macedonio Melloni per le possibilità insite nel processo di fotoincisione messo a punto da Alfred Donné, in un accenno di interpretazione che pareva  in forte debito con Gilardi. Seguiva una breve disamina della sola produzione vedutistica legata al dagherrotipo (Artaria, la raccolta Ellis) e un cenno alla pratica del ritratto, giudicata “assai standardizzata, finalizzata a conservare le memorie fisionomiche e ad abbellire grazie al ritocco la somiglianza [sic].”[502] Nel secondo volume lo spazio dedicato da Gernsheim alle nostre vicende fu di poco maggiore,  con una accentuazione per la documentazione del patrimonio artistico e architettonico, che riconosceva come una peculiarità della fotografia italiana; forse per questa ragione  l’opera non venne integrata da un capitolo generale sul nostro Paese. Anche in quella occasione, com’era caratteristica di Gernsheim, il punto di vista risultava quanto mai personale e collezionistico, così lo spazio maggiore della sezione italiana era destinato a Robert Macpherson,  un autore da lui studiato a partire dagli anni Cinquanta[503], che considerava “un vero artista (…) le cui fotografie sono descrizioni poetiche e non semplici trascrizioni di uno scenario classico”, mentre all’attività di Alinari, Anderson, Ponti e Sommer erano dedicati solo brevissimi cenni.

Uno spazio maggiore venne riservato loro nella nuova Storia e tecnica della fotografia che Zannier pubblicò nel 1982 con un corredo antologico di testi che consentiva anche ad un pubblico non specializzato di avvicinarsi alle fonti più significative della letteratura fotografica. Come già in Gernsheim, anche in Zannier la questione storiografica non era affrontata esplicitamente,  ma era possibile intuire un’impostazione che anche qui potremmo definire ‘evoluzionistica’: “l’occhio dell’uomo è diventato più versatile mediante la fotografia, come se questa fosse una protesi che alimenta la capacità di osservazione, integrando le carenze della percezione visiva, adeguandola quindi alle esigenze fisiologiche e psicologiche determinate dall’inarrestabile sviluppo tecnologico. (…) La fotografia, come strumento,  si  è realizzata attraverso una estenuante ma ineluttabile gestazione di un’idea (la memoria dello sguardo), che si è radicata nel grembo dell’umanità mentre stava formandosi il linguaggio, di cui si è preso coscienza lentamente, durante l’evoluzione storica.”  Dopo due capitoli dedicati  alla genesi ed ai suoi primi inventori, lo svolgimento proseguiva abbandonando la consueta scansione cronologica a favore di una serie di trattazioni per ambiti tematici (da “Fotografia e scienze” a “Linguaggio e avanguardie”) ciascuno trattato diacronicamente e intessuto di rimandi continui alla situazione italiana e ai suoi protagonisti, sottolineando analogie e differenze, ma non senza alcune disomogeneità che forse potevano essere intese come impliciti giudizi di valore, quali la succinta descrizione della diffusione della dagherrotipia o i brevissimi cenni alla stagione pittorialista, rispetto alla quale si limitava ad accostare  in forma di elenco, le “scene fiamminghe” di Guido Rey e le “scene di efebi” di Von Gloeden.

Accanto a queste fiorirono  altre iniziative che si proponevano, pur in modi e a livelli diversi, quali strumenti per una informazione di base che non fosse circoscritta ai puri aspetti tecnici[504]. Così in quegli anni l’editoria offriva al pubblico italiano anche la traduzione dallo spagnolo della Storia della fotografia[505] di Mauricio Wiesenthal, enologo e fotografo spagnolo, pubblicata nel 1983 e integrata da una sezione italiana curata da Giuseppe Bonini, già redattore de “Il Progresso fotografico”, e – nello stesso anno – la Storia della fotografia[506] edita da Jaca Book con un testo di Giovanni Chiaramonte illustrato da Paola Borgonzoni e Giuliana Panzeri, in coedizione con l’americana Aperture.

L’andamento del volume di Wiesenthal era canonico, con andamento cronologico al