Tempo / Materia: Fotografia (2012)

in Barbara Cattaneo, a cura di, Il restauro della fotografia. Materiali fotografici e cinematografici, analogici e digitali, Firenze, Nardini Editore, 2012,  pp. 9-14

 

L’assunto che ogni intervento di restauro non possa che darsi a proposito della sola “natura materiale delle singole opere”[1], costituisce ormai una posizione metodologica tanto consolidata da apparire ovvia e teoricamente aproblematica. Coerente a ogni rinuncia alla velleitaria intenzione di restituire qualsivoglia originalità originaria, nella consapevolezza che l’accessibilità storica e culturale al processo di produzione e di prima ricezione dell’opera non può che essere un’approssimazione alla continua ricerca del proprio limite[2]. Accanto a questa vive, indissolubilmente legata, la coscienza delle ragioni della sua permanenza, della sua presenza vitale nella cultura contemporanea[3]: ragioni su cui si fondano le stesse intenzioni di operare per la sua conservazione nel tempo, per la sua trasmissione alle generazioni future.

Stabilita l’inevitabile materialità dell’intervento di restauro[4], resta da comprendere cosa ciò possa significare quando si parla di fotografia. Sono almeno due le grandi classi di ragioni che è necessario considerare, qui per sommi capi, provando dapprima a chiedersi quali siano gli elementi costitutivi di questa particolare categoria di immagini che per più ragioni chiamiamo sensibili:

  • Il Tempo, che ne è l’elemento determinante, il vincolo assoluto in cui ogni fotografia accade, in cui l’immagine irreversibilmente si forma.
  • La Materia, il corpo tecnologico dell’oggetto, di volta in volta semplice ma non neutrale supporto fisico, componente espressiva o vero e proprio soggetto dell’operazione fotografica, ma anche presenza assente nella matrice digitale, che non si consuma.

Il tempo di ogni fotografia è molteplice: dalla produzione alla ricezione, per quanto dilatata, ma ciò che ora interessa maggiormente, ciò che più da vicino tocca queste riflessioni sono due altri ordini di problemi temporali. Restauro e Fotografia non solo sono stati definiti nel medesimo contesto storico, ma condividono un’analoga relazione col Tempo; anzi  – più in particolare, più intimamente – non con la condizione sostanziale o rappresentativa dell’accadere, bensì dell’accaduto, di ciò che è stato e che quindi, solo per questo, risulta inattingibile[5]. È questo l’orizzonte in cui è stata pensata, si può pensare anche l’analogia tra morte del corpo e fotografia: è qui e non c’è più è il pensiero che accompagna lo sguardo che si posa sul corpo privo di vita. Rimane una presenza nella quale riconosciamo, per certi gradi, sotto alcuni aspetti una somiglianza con una realtà che (forse) abbiamo conosciuto. Una certa relazione; un rapporto che è insieme traccia e memoria. Il corpo, la fotografia sono traccia e figura, simbolo a volte, di un accaduto di cui si ha memoria e ricordo. È proprio la Fotografia in quanto “oggetto di antiquariato istantaneo”, secondo la ben nota definizione di Susan Sontag, a illuminare, a certificare l’impossibilità del Restauro in quanto disciplina e in quanto teoria, quando questa pretende di volgere all’indietro non lo sguardo ma il percorso dell’angelo della storia. Ancor più problematica e incerta si fa la questione, ancor più improprio il ricorso a questo concetto quando accade, come per la fotografia, che proprio il corpo vitale dell’immagine, la sua materia signata nel tempo (non: dal tempo), la sua natura di traccia non possa essere sottoposta ad alcun trattamento che non sia di conservazione delle condizioni di esistenza del bene. Oltre quel “nulla di oggetto” che è l’immagine tutti i fototipi hanno una loro matericità che è tutto meno che indifferente, ma la cui considerazione non per questo risulta così ovvia e scontata. Se da un lato la materia e la tecnica che di volta in volta hanno contribuito a definire ogni immagine fotografica, dal punto di vista produttivo quanto linguistico e – in certi casi – in precisi termini di poetica e stilistici (si pensi alle tecniche pittorialiste, per esemplificare) sono oggetto di un’attenzione ampiamente condivisa, dall’altro la vicenda storica della fotografia ha solo in rari casi fatto i conti in modo esplicito con la sua corporeità, non limitandosi  a considerarla come mero dato o vincolo tecnico, ma quale territorio di possibile indagine ed elemento di espressione linguistica: dal cliché-verre ai frottage alla vasta categoria dei chimigrammi, ossidazioni e pirogrammi. Credo invece che una riflessione sul ‘restauro’ della fotografia non possa evitare di misurarsi anche con le implicazioni poste dal confronto con questi procedimenti e con le opere che ne sono derivate, alla ricerca di elementi di chiarezza che possano sostenere la consapevolezza critica necessaria a intervenire su questa particolare tipologia di beni. Ciò che mi pare strumentalmente interessante nell’accennare ai problemi posti da queste fotografie ‘pure’,  concrete[6], svincolate da ogni possibile, disorientante analogia per “liberare la forma sconosciuta della materia”[7],  è che qui processo, figura e materia coincidono al massimo grado, mentre il tempo continua ad essere quello della generazione dell’immagine stessa, sebbene liberata da ogni apparato ottico[8]. L’assoluta autoreferenzialità di queste immagini, dove la presenza dell’autore passa dallo sguardo al gesto, costringe ancor più a fare i conti con l’impossibilità di ogni ri-costruzione e  testimonia in modo inequivocabile quale sia stata l’incidenza dei materiali costituenti nella determinazione delle caratteristiche di ogni immagine fotografica, ben oltre il tempo dei pionieri. Queste particolari fotografie, che non possono trovare corrispondenza in ambito digitale, costituiscono a mio parere l’ulteriore conferma del fatto che è impossibile sostituire materia fotografica con altra materia fotografica dopo il suo trattamento (esposizione – sviluppo – fissaggio). L’atto fotografico che ha generato l’immagine non può essere ri-fatto; l’informazione registrata dal supporto fotosensibile non può essere sostituita. “Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta”[9]: è nell’irreversibile trasformazione dei materiali sensibili che avviene in quel momento che si definisce la fotografia; quando Tempo e Materia interagiscono facendo sì che ogni fototipo non possa darsi che quale esito di quel singolo e unico processo fotochimico, cioè materiale (e irreversibile, ma di questo diremo), accaduto in quel tempo. In ragione di questo processo ontologico diventa illusorio pensare di poter intervenire sulla materialità del bene quando questo è un fototipo: poiché nella Fotografia materia e tempo concorrono inestricabilmente a determinare l’opera, il solo elemento su cui pare possibile intervenire non può che essere il supporto. Il restauro della Fotografia è una contraddizione in termini[10].

Intorno alla questione fondamentale dei materiali fotosensibili si misura anche la distanza con le immagini realizzate con un dispositivo digitale, che condividono con quelle analogiche il solo momento della generazione ottica della traccia, essendo invece inconcepibile – come si è detto – ogni realizzazione off-camera. Quando il supporto fotosensibile manca (o diviene radicalmente altro, come nel digitale) credo non abbia più senso parlare di processo fotografico in senso proprio, mentre resta possibile e quasi ovvio parlare di pratica fotografica, ma solo in termini socioculturali, che qui non interessano[11].  Credo sia un errore grave sottovalutare le implicazioni che derivano dalle incommensurabili differenze tra paradigma analogico e paradigma digitale:  non è possibile assimilare le emulsioni fotosensibili, in cui l’energia luminosa determina delle modifiche strutturali stabili, di fatto irreversibili, a un sensore destinato a tradurre quella stessa energia in informazione codificata mantenendo immutata la propria struttura e a trasferire successivamente i dati a un supporto insensibile, in grado di registrare informazioni di qualsivoglia natura.  È la tecnologia dei materiali e dei processi che determina cosa sia o non sia un fototipo e allora, come già fu alle origini, credo che il problema sia sempre quello del fissaggio: può una sequenza numerica considerarsi ‘fissata’ così come la dimensione e la posizione di una molecola di argento o di gomma bicromatata dopo il trattamento? Tra agonia della stabilità analogica e definitivo sopravvento dell’instabilità digitale oggi pare che non si sappia bene che cosa sia, a cosa  dare il nome di fotografia (e a partire da quali condizioni), apparentemente incapaci di comprendere le differenze, e le conseguenze, tra irreversibilità del processo fotochimico e reversibilità indifferente del processo digitale. Questo però è un discrimine che è indispensabile riconoscere e su cui si deve riflettere anche – e forse specialmente – in termini di conservazione e restauro.

Posto che non è astrattamente in discussione lo statuto di bene culturale delle immagini digitali, ciò che qui interessa considerare sono le implicazioni connesse alle due tipologie di beni, le cautele necessarie per affrontare in modo criticamente attrezzato queste evenienze, a partire proprio dalla necessità di considerarne e comprenderne la diversa natura, oltre le apparenze formali[12].

L’immagine analogica, in virtù della sua natura di traccia fisico chimica non è restaurabile, ciò che invece risulta possibile con quella digitale, rispetto alla quale si può intervenire sui singoli elementi codificati, esattamente riproducibili, ripetibili all’infinito, in un processo che può portare l’intervento sino a sfiorare il limite pericoloso della copia perfetta, del rifacimento integrale e indistinguibile, secondo un iter sostitutivo che sovrappone l’identità nuova alla preesistente sino a cancellarla senza lasciare tracce[13]. Questa ‘disponibilità’, derivata dal sistema notazionale proprio della matrice digitale implica e comporta anche la trasformazione dello statuto di questi beni, che passano dal regime autografico proprio dell’analogico, per il quale aveva senso parlare di riproducibilità,  a quello allografico, più pertinente al digitale[14], in cui la stessa idea di replica perde di senso risultando ciascuna nuova occorrenza indistinguibile dal primo esemplare. È chiaro come questo ordine di problemi investa, anche in termini conservativi e di tutela, la questione della difficoltà nel definire – nei differenti ambiti – cosa si possa intendere per matrice originale, replica e copia così come sulla distinzione tra immagine e opera, tra il contenuto referenziale della prima, che possiamo pensare identico in ogni sua manifestazione, e il  significato e il valore individuale di bene  (senza voler affrontare questioni di valore artistico o estetico, qui ininfluenti) che contraddistingue, ma non necessariamente distingue ciascuna delle sue occorrenze, ognuna segnata da una particolare storia di produzione che può avere o non avere influito sulla sua determinazione attuale[15].

Da queste specificità del fotografico anche nel contesto del restauro è possibile far derivare conseguenze importanti, rese ancora più urgenti dall’avvento del digitale. Ribadita la necessità metodologica di fondare sulla consapevolezza critica del bene come documento/ monumento ogni programma di intervento sul manufatto, in prima approssimazione si può ritenere che:

  • In presenza di fotografie analogiche, cioè di fototipi si può procedere solo alla salvaguardia dello strato immagine, mentre l’eventuale intervento di restauro conservativo si applica alla materialità dei diversi supporti presenti, nelle più diverse accezioni e gerarchie.
  • In presenza di immagini digitali è possibile distinguere le modalità di intervento tra matrice e stampa. In presenza di un file danneggiato si può procedere a interventi di restauro richiamandosi alle metodologie classiche, integrando cioè eventuali lacune con elementi di identica natura (bit) senza alcuna perdita di informazione, a ulteriore dimostrazione dell’incommensurabile diversità intrinseca dei due media. Anche le stampe derivate, almeno quelle non realizzate con processo fotografico[16], possono essere restaurate mediante integrazione pittorica delle lacune, ma evitando accuratamente l’incauto riaffiorare delle lusinghe del restauro stilistico.

Non rientra nelle mie competenze illustrare né tento meno discutere le metodiche di intervento,  i loro limiti e i problemi connessi, ma qualche parola andrà ancora spesa per delineare almeno sommariamente altre implicazioni metodologiche  celate sotto la traccia delle prescrizioni e delle tecniche di intervento.

Oggi nessuno più potrebbe definire il restauro come il “procedimento tecnico volto ad assicurare la conservazione e a reintegrare gli aspetti compromessi [dell’opera]” [17], senza tener conto del fatto che i “photographic objects (…) owe their look and structure to commercial and cultural influences as much as they do to technological factors”[18]. Il doppio richiamo di Grant Romer ci pare ancora indispensabile per comprendere la natura storica dell’oggetto fotografico e per contribuire a stabilire i principi di intervento, specialmente se letto in relazione con la sua puntuale individuazione di due diversi e complementari accezioni del  concetto di permanenza dell’immagine: “Commercially, the image had to remain unchanging long enough to fulfill its initial consumer function. Culturally, the photographic image and its objective substance must survive as long as it has clear useful value to the culture that maintains it.”[19] La permanenza, ben oltre l’orizzonte pragmatico che tanto preoccupava i ricercatori ottocenteschi, oggi può distinguere tra immagine e materia, deve tradursi in “programma di esistenza” dell’opera, basato sulla consapevolezza del suo significato di bene culturale, obiettivo per il quale non può essere ritenuto sufficiente considerare i soli problemi che derivano dalla sua già complessa struttura fisica. Mentre il contenuto referenziale può essere preservato e duplicato ad libitum, diventa  indispensabile associare alla valutazione delle condizioni materiali la definizione storiografica delle sue condizioni di produzione e fruizione, in un più ampio processo di lettura storico critica che consenta di ri-definire le  modalità della sua ricezione, il suo impianto concettuale e culturale, nella consapevolezza che non solo la materialità del bene si modifica, e magari degrada nel tempo, ma anche il contesto di fruizione e comprensione in cui questo è inserito, in mutazione continua.

 

Note

[1] Carta della Conservazione e del Restauro, 1987, art.6/ comma a.

[2] Considerando il rapporto dialettico che deve essere posto in atto col bene quale testimonianza storica da interrogare, è necessario tener presente che la “verità storica [è] in continua ri-scrittura. Perciò è dall’inscrivere la problematica della passeità del passato nel grande cerchio della temporalità, che dipende in ultima istanza il destino di questa verità in sospeso, di questa veracità per sempre incompiuta.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, p.19. Pur senza addentrarci qui in una problematica troppo complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia. Particolarmente stimolante e produttiva risulta la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[3] Allora, non tanto e non solo All Art Has Been Contemporary, come recita il lapalissiano motto al neon di Maurizio Nannucci (1999), che tanta fortuna ha avuto in molti musei del mondo, da Berlino a Torino a Firenze. Semmai è contemporanea tutta l’arte, cioè tutta la cultura alle cui manifestazioni riconosciamo oggi un valore.

[4] Si utilizza qui il termine in senso lato e rischiosamente onnicomprensivo, non essendo questa l’occasione e la sede per procedere a ulteriori specificazioni dell’accezione teorica e metodologica del concetto. Quale riferimento generale può ancora essere utile la nuova edizione dello studio di Alessandro Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte.  Milano: Electa, 2002, con postfazione di Massimo Ferretti. Si vedano inoltre Chiara Piva, Ilaria Sgarbozza,  Il corpo dello stile: cultura e lettura del restauro nelle esperienze contemporanee: studi in onore di Michele Cordaro.  Roma: De Luca, 2005; Pasquale Gagliardi, Bruno Latour, Pedro Memelsdorff, eds.,  Coping with the past: creative perspectives on conservation and restoration. Firenze: Leo S. Olschki,  2010.

[5] “Parlare di trascorso non significa solamente vedere nel passato ciò che sfugge alla nostra presa, ciò su cui non possiamo più agire, ma significa anche voler dire che l’oggetto del ricordo reca indelebile la marca della perdita. L’oggetto del passato in quanto trascorso è un oggetto (d’amore, d’odio) perduto: l’idea di perdita è, da questo punto di vista, criterio decisivo della passeità.”, Ricoeur 2004, p.11.

[6] Per un’ampia e precisa definizione del termine si rinvia a Gottfied Jäger, Rolf H. Krauss, Beate Reese, Concrete Photography Konkrete Fotografie. Bielefeld: Kerber Verlag, 2005, mentre per sciogliere ogni ambiguità intorno alle pretese astrazioni fotografiche continua a essere di grande utilità l’Intervista a Massimo Cacciari, a cura di Paolo Costantini, “Fotologia”, v. 5, estate- autunno 1986, pp.74-79.

[7] Karl-Heinz Hargesheimer (Chargesheimer), dalla conferenza tenuta al Circolo Fotografico Milanese, 1950, citato in “European Photography”, n.57, 1995, p.46.

[8] Come ebbe a dichiarare Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Moholy-Nagy, “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, in Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup,  “History of Photography”, 18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86.

[9] Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi, 1980, p.6. L’affermazione non è meno vera per la fotografia concreta, sebbene questa nella sua unicità non provenga da una matrice infinitamente riproducibile.

[10] Prova ne sia – tra l’altro – il fatto che non può essere attuato ricorrendo alla stessa materia e tecnica, allo stesso medium con cui l’opera era stata realizzata, tanto che, ad esempio, si parla comunemente e correttamente di “integrazione pittorica delle lacune” per quei casi in cui è necessario riequilibrare percettivamente una porzione di immagine. Qui le disquisizione filologiche sull’autografia o sulla necessità deontologica della riconoscibilità degli interventi non hanno ragione d’essere: semplicemente non esiste ‘materia’ del contendere.

[11] Si vedano le considerazioni di segno opposto espresse da William John Thomas Mitchell, Realismo e immagine digitale, in Roberta Coglitore, a cura di, Cultura visuale: paradigmi a confronto. Palermo: :duepunti edizioni, 2008, pp. 81-99. In questo breve testo, che sconta forse l’occasionalità della sua redazione, Mitchell considera “riduttiva” ogni ontologia che si limiti a indagare intorno all’essenza, poiché “se l’ontologia è lo studio dell’essere, allora (…) l’ontologia della fotografia dovrebbe concentrarsi sull’essere nel mondo”, non tenendo conto – a mio parere – del fatto che  proprio l’essere nel mondo non può che fondarsi sulla sua essenza, perché sennò?

[12] Si potrebbe dire – parafrasando un’efficace formulazione di Marra, che pure non concorderebbe con questa distinzione – che l’immagine digitale “assomiglia” a una fotografia ma “di fatto funziona come” un quadro. Per l’origine della parafrasi cfr. Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Milano: Bruno Mondadori, 1999, p. 15.

[13] In ambito digitale la difficoltà è semmai costituita dalla rapidissima  obsolescenza dell’hardware e del software con cui un’immagine è stata realizzata, processata e stampata.

[14] Nelson Goodman, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis: The Bobbs-Merrill Company, 1968 (trad. it. I linguaggi dell’arte. Milano: Il Saggiatore, 1976) la cui distinzione fondamentale tra sistemi notazionali e non notazionali  “si regge sulla differenza tra discreto e continuo, o digitale e analogico”, cfr. Roberto Diodato, Estetica del virtuale. Milano: Bruno Mondadori, 2005, p. 76. Per quanto riguarda le implicazioni delle teorie goodmaniane in relazione ai concetti di copia e di replica si veda Luca Marchetti, Arte ed estetica in Nelson Goodman. Palermo: Centro internazionale studi di estetica, 2006 , in particolare alle pp. 103-104. I nessi con l’ambiente digitale, anche per quanto riguarda la fotografia, solo accennati da Marchetti, sono stati affrontati da Ilaria Boeddu, Nelson Goodman: uno sguardo analitico sull’arte contemporanea. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 138-141.

[15] A titolo esemplificativo si pensi agli estremi costituiti dalle diverse repliche di un file, per definizione identiche e indistinguibili, o alle diverse edizioni  tratte da uno stesso negativo sotto la diretta responsabilità dell’autore, che invece possono anche essere radicalmente diverse tra loro e quindi di fatto uniche pur essendo ricavate da una medesima matrice.

[16] Si vedano almeno. Richard Benson, The Printed Picture. New York: The Museum of Modern Art, 2008, Martin C. Jurgens, The Digital Print: Identification and Preservation. Los Angeles: Getty Conservation Institute, 2009.

[17] “Lessico Universale Italiano”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, ad vocem, citato da  Sergio Angelucci, Per una base teorica comune nel restauro di tutti i beni culturali, in Maria Regni, Piera Giovanna Tordella, a cura di, Conservazione dei materiali librari archivistici e grafici. Torino: Umberto Allemandi, 1999, pp.277-282 (277).

[18] Grant Romer, An Overview of the Current Development of the Field of Conservation of Photographs, in Regni, Tordella 1999, pp. 243-246 (243).

[19] Ibidem, corsivo di chi scrive.