Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Quoi? La Photographie  ovvero  La carriera di un dilettante fotografo (2006)

in Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo: (1841-1924).  Cinisello Balsamo: Silvana, 2006, pp. 14-29;  La biblioteca del fotografo, estratto da Francesco Negri e la Biblioteca civica di Casale Monferrato, “AFT – Rivista di Storia e Fotografia”, 6 (1991), n.14, pp. 61-63

 

La lastra fotografica è la vera retina dello studioso

Jules César Jansen, 1888

 

 

Cappello e soprabito sull’attaccapanni, forse appena appesi, come se fosse rientrato da poco in questo angusto spazio ricolmo di carte che fu il suo studio. Una fotografia disposta con noncuranza apparente sulla stufa in ceramica, una stampa di paesaggio se la nitidezza della ripresa non ci tradisce, ci consente di datare questa  stereoscopia all’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi certamente dopo il 1896, quando la consuetudine di Negri con la fotografia datava ormai da almeno un trentennio e la fase delle applicazioni e sperimentazioni più strettamente scientifiche poteva ormai dirsi conclusa.

Per quanto è possibile desumere dallo studio dei documenti fotografici e archivistici rimasti a costituire il fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, ambito necessariamente ristretto su cui è stata condotta la ricerca, possiamo far risalire  al luglio del 1862 il primo indizio certo del suo interesse per la fotografia.[1]  In quei giorni il giovane Negri, poco più che ventenne e appena trasferitosi a Casale, poneva un’annotazione a matita sulle pagine del volume di Eugène Disderi, L’art de la photographie[2], uno dei manuali più autorevoli dell’età del collodio, attento alle questioni poste dal ritratto fotografico, ad un esito di rassomiglianza che andasse oltre la pura resa fisiognomica, quella cui pure l’autore doveva la propria notorietà di inventore del ritratto in formato carte-de-visite.

Conosciamo ancora troppo poco la storia della fotografia a Casale Monferrato[3] per sapere se Negri avesse potuto trovare localmente suggestioni e sostegno alla propria passione nascente o se questi non gli provenissero invece dal soggiorno torinese, dove si era laureato in giurisprudenza nel 1861, ambiente in cui era stata precocemente praticata la fotografia sin dal fatidico 1839, divenuta ben presto attività fiorente e diffusa per la presenza di numerosi e qualificati studi professionali come di amatori colti[4], nobili o borghesi che fossero, coi quali certamente non possiamo escludere possibili relazioni legate all’ambiente universitario.

Ciò che risulta però chiaro è come l’attenzione fosse da subito sistematica e precisamente orientata se già nel 1864  il novello sposo[5] risultava abbonato non solo alla prima rivista italiana di settore, “La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia” diretta a Milano da G. Ottavio Baratti”, ma anche a prestigiosi periodici internazionali come “The Philadelphia Photographer”, mentre la sua biblioteca si arricchiva di  preziosi manuali[6].

Risaliva ai primi di settembre dell’anno precedente la sua più antica ripresa datata, una lastra al collodio[7]  che oltre all’indicazione del giorno (“1863 5 sett.”)  e alla sigla “N.F.” porta inciso il numero d’ordine «44», ad inaugurare una consuetudine tipica di molti fotografi coevi cui Negri restò fedele sino agli ultimi anni di attività[8]. È  l’immagine di tre figure in esterni, due donne e un uomo seduti, tutti con fucili da caccia, realizzata forse a Ramezzana, una delle grange dell’abbazia di Lucedio (Trino)[9]. Non si tratta quindi di un ritratto vero e proprio, anzi si potrebbe quasi parlare di un’istantanea ante litteram, ma per noi costituisce la testimonianza di come il suo primo interesse fosse rivolto alla figura umana, colta inevitabilmente nella  cerchia di relazioni personali, come fu per molti dei fotografi amatori delle origini.

Sebbene non datati, sono da collocarsi nello stesso periodo di tempo gli splendidi ritratti eseguiti in interni, fortemente influenzati dai coevi modelli professionali e in particolare fedeli alle istruzioni del già citato testo di Disderi,  che indicava come “la prima cosa che deve fare il fotografo che desidera ottenere  un buon ritratto, sia di penetrare (…) il tipo reale e il vero carattere dell’individuo; lo si deve studiare e conoscere [si deve] comporre il ritratto, in una parola. Comporre un ritratto, per noi, vuol dire scegliere le modalità di rappresentazione più adatte al modello e combinare tutti gli elementi visibili in maniera unica.”[10]

Questa ascendenza è ancor più evidente nelle riprese a figura intera, col soggetto disposto di tre quarti, in pose rigorose e ferme e un uso degli arredi che ricalca la disposizione tipica delle carte-de-visite del francese, con un tendaggio collocato come quinta di chiusura a sinistra, mentre in altri casi l’utilizzazione di elementi tipici quali la balaustra posticcia, farebbe pensare alla collaborazione di un professionista casalese per ora non individuato, lo stesso che potrebbe averlo istruito nella sua prima fase di formazione.

Non mancano neppure le riprese in esterni, forse di poco antecedenti, per le quali Negri ricorreva a un’improvvisata scenografia fatta di pochi elementi (un fondale uniforme appena mosso da un tendaggio poggiato, un tappeto, l’immancabile poltrona)[11], mentre altre  ne sono completamente prive e tutta l’attenzione è rivolta all’efficace rappresentazione della persona, traducendo in figura il rapporto di colloquialità che lo legava al soggetto, analogo a quello che emerge – seppure in maniera più sottile – dalla bellissima serie di ritratti in interni in cui la non convenzionalità della rappresentazione è testimoniata più che dalla posa dalla presenza di arredi non stereotipati, certamente appartenenti all’ambiente quotidiano del fotografo.

Sono ritratti che sembrano dar corpo ai più alti esiti attesi dal nuovo realismo del mezzo fotografico, a quella “ricerca di assoluto verismo” di cui ha parlato Carlo Bertelli[12]. Sono indizi certi di una fiducia tutta positiva nelle sue capacità di descrizione analitica, di traccia del reale, ma alcuni indizi ci orientano verso una convinzione più incerta. Penso alla coppia costituita dall’Autoritratto con lo stereoscopio  e dal Ritratto della moglie  con una rivista fotografica in grembo, che assumono un’evidente connotazione allegorica, ma soprattutto ai due autoritratti multipli come ‘fantasma’, che rivelano tutta la gioiosa sorpresa, il primitivo stupore per le possibilità narrative della nuova tecnica che avremmo ritrovato in Lumière e Méliès agli albori del cinematografo. La burlesca messa in scena  spiritista non solo rivela il giudizio sarcastico dell’uomo di scienza[13] su di un fenomeno allora in voga, ma costituisce una precoce, immediata intelligenza dell’illusoria obiettività e verosimiglianza della ripresa fotografica.  Se questa può mostrare ciò che non esiste, allora il suo stesso statuto di verosimiglianza documentaria – pur ampiamente fondato e giustificato – deve essere accolto criticamente, ma contemporaneamente usato per stupire. In questa latente contraddizione continua risiede il fascino fecondo dell’immagine fotografica, ribadito da Negri in modi ed occasioni diverse lungo tutto l’arco della sua produzione.

“La fotografia – ha notato George Didi-Huberman[14] – nasce in un tempo che considera sé stesso del sapere assoluto. La fotografia è certo uno strumento d’obiettività straordinariamente fecondo, [ma] è innanzitutto uno strumento di sperimentazione, cioè mette in evidenza la variabilità o la relatività dei fenomeni visibili, non la loro stretta ‘positività’ .” In particolare consente di fissare l’immagine di ciò che non appare: perché troppo piccino o troppo distante, o rapido come il momento di un gesto. Se mostrare l’invisibile (il ‘non visibile’) è una delle virtù riconosciute alla fotografia, allora Negri con questa messa in scena spiritista segna simbolicamente la propria adesione a questo credo positivista in modo affatto paradossale, proprio mentre si ingegna ad applicarlo in forme più canoniche,  dedicandosi in particolare all’esplorazione dell’universo dell’infinitamente piccolo.

Porta la data del 1866[15] la  Prima Prova Micrografica/ Gamba di Ragno, di poco successiva alla produzione dei pionieri italiani in questo settore, come Antonio Roncalli di Bergamo e Luigi Arcangioli di Arezzo che all’Esposizione di Firenze del 1861 avevano presentato “studi micrografici” e “fotografie rappresentanti oggetti al microscopio”, mentre due anni più tardi all’Esposizione provinciale di Reggio Emilia del 1863 anche il conte Luigi Scapinelli esponeva immagini di insetti ingranditi al microscopio[16]. Le sperimentazioni fotomicrografiche[17] di Negri proseguirono sporadicamente negli anni successivi, segnati però principalmente da significativi studi di fitopatologia, tali da renderlo immediatamente noto a livello nazionale.[18] L’estensione progressiva dei propri interessi alla fotomicrografia batteriologica è testimoniato da una serie di articoli comparsi sul fiorentino “Lo Sperimentale” a partire dall’agosto del 1882[19], uno dei quali – la Contribuzione allo studio dei bacilli speciali della tubercolosi – costituì l’occasione di un primo contatto con Robert Koch, lo scienziato tedesco che nel marzo dello stesso anno aveva presentato la propria scoperta alla Società Fisiologica di Berlino.   A queste prime significative applicazioni fece seguito nei tre anni successivi un’intensa sperimentazione rivolta alla messa a punto di opportune metodiche di colorazione dei preparati destinati ad essere fotografati, in molti casi “espressamente inviati al Negri” dallo studioso torinese Edoardo Perroncito[20], mentre in altre occasioni  – come il bacillo del colera fotografato nel 1884 – egli si era avvalso di campioni raccolti durante l’epidemia che colpì i due piccoli centri casalesi di Pontestura e Vialarda nell’autunno di quell’anno, guadagnandosi nel 1885 una medaglia d’argento concessa dal Ministero della Sanità, anche per le attività profilattiche poste in essere in qualità di  sindaco.[21]

Il riconoscimento ufficiale veniva a coronare vent’anni di studi e ricerche scientifiche e di fotografia applicata all’indagine microscopica, ma per Negri ciò non costituì motivo di ulteriore impegno, anzi dopo questa data la sua attività in questo settore si interruppe bruscamente  con la realizzazione nel 1885 di un’ultima bella serie di ingrandimenti di Diatomee, con inquadrature che a volte si rifanno esplicitamente alle tavole pubblicate nel 1866 da Albert Moitessier nel suo manuale –  posseduto da Negri – dedicato a La photographie appliquée aux recherches micrographiques.  Qui accanto all’interesse strettamente documentario emerge una palese attenzione compositiva, del resto non estranea anche ad analoghe produzioni di altri autori, ciò che impedisce di condividere le troppo categoriche affermazioni di Carlo Bertelli secondo il quale “l’aspirazione della fotografia era allora la rimozione di qualunque intento estetico, la ricerca di assoluto verismo.”[22]

Non diverso dovette essere il suo modo di procedere nel nuovo e per lui inedito ambito di indagine, quello della storia dell’arte. Henry Festing Jones, amico e biografo di Samuel Butler ricordava come la consuetudine tra lo scrittore inglese e Negri datasse al 1888, anno della pubblicazione di Ex-Voto[23], e proprio il convergere di interessi intorno all’opera di Jean de Wespin e più in generale sul Santuario di  Crea fosse stato il fondamento di un’amicizia intellettuale e di una frequentazione che si protrassero sino alla morte di Butler nel 1902[24].  In Negri, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890, doveva certamente essere viva già da qualche tempo l’attenzione per il Santuario negli anni successivi ai grandi lavori intrapresi per iniziativa del vescovo di Casale  Monsignor Calabiana[25], ma non può essere senza significato che le sue prime riprese datate risalgano al 1891 – da luglio a settembre[26] – cioè esattamente allo stesso periodo, agli stessi giorni quasi cui datano anche le poche immagini realizzate da Butler, poi inviate a Giulio Arienta il 31 ottobre successivo con una lettera in cui esprimeva tutta la propria stima per lo studioso casalese: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.”[27]

Fu proprio la cappella del Martirio di Sant’Eusebio, che Butler aveva definito“la più importante” di Crea, e di cui Negri denunciò la grave condizione di degrado ancora all’inizio del Novecento, a costituire il primo e principale soggetto delle sue riprese, sebbene il principale  argomento di ricerca fosse volto in quel tempo alla ricostruzione delle figure di Martino Spanzotti e di Guglielmo Caccia.[28]

La costante attenzione per la statuaria di quella cappella consentì a Negri di realizzare nel corso degli anni una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica dell’opera quanto della scena, evento restituito dalla doppia mediazione dei due linguaggi, con l’intenzione esplicita di celebrare quel “realismo così sano e spontaneo” che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti.  Attuava così quel rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico[29], entrambi impegnati a mettere in scena la memoria di una realtà, che riconosciamo anche nel modo di disporre le figure all’interno dell’inquadratura di una delle riprese relative alla cappella della Concezione della Vergine dove, ancora, l’interesse appare rivolto principalmente alla restituzione fotografica del dialogo fra le figure. Era questo un modo di  declinare l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione, che reinterpretava  e stravolgeva la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin) accogliendo le suggestioni della nuova sintassi visiva introdotta  dalla pratica dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita corrispondendo alla teatralizzazione  del gesto che apparteneva alla logica di rappresentazione del plasticatore.[30]

“How about your Tabacchetti?”  chiedeva Butler a Negri in una lettera datata 5 novembre 1900[31], con allegata copia della sua traduzione dell’Odissea e l’annuncio di aver iniziato la redazione di Erewhon Revisited,  a riconferma di una solida consuetudine e stima,  che si sarebbe concretizzata due anni più tardi coll’accollarsi le spese di pubblicazione dell’apparato illustrativo  (“i fototipi per le illustrazioni che ornano queste notizie”)  del lungo saggio da Negri dedicato a Il Santuario di Crea in Monferrato, summa degli  studi dello studioso e fotografo casalese[32] che sulla “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, aveva già pubblicato gli esiti delle proprie ricerche dedicate a Giorgio Alberini e a Guglielmo Caccia[33], occasione per avviare rapporti con altri studiosi come Carlo dell’Acqua[34], Gustavo Frizzoni[35]  e Diego Sant’Ambrogio, che il 27 giugno 1904 gli segnalava l’importante ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per l’abbazia di Santa Maria di Lucedio (Trino)[36].

Proprio il patrimonio artistico di questa importante abbazia cistercense costituì l’argomento delle sue ultime ricerche di storia dell’arte, estese al patrimonio pittorico del vicino centro di Trino, pubblicate nel 1914 in un volume firmato coi religiosi Evasio Colli ed Alessandro Rastelli, autore quest’ultimo del ricco apparato fotografico a corredo.[37] Non è questa la sede per valutare nel merito gli esiti delle ricerche di Negri, ma risulta semplice riconoscere come numerose sue conclusioni non abbiano retto alla prova del tempo e siano state radicalmente modificate dagli studi più recenti[38]. Sarebbe però ingiusto disconoscere la sua capacità di aprire gli interessi della cultura locale alla storiografia artistica su base documentale, seguendo percorsi che si discostavano significativamente dal prevalente interesse per la cultura tardomedievale espresso negli stessi anni dagli storici torinesi, mentre nel Piemonte settentrionale, dopo gli studi di Edoardo Arborio Mella l’attenzione era piuttosto rivolta alle scuole artistiche di matrice lombarda e alla produzione cinquecentesca in genere.

Nel ripercorrere questa diversa geografia culturale l’attività di Negri mostra notevoli analogie con quanto andava facendo nello stesso periodo l’amico fotografo vercellese Pietro Masoero[39], impegnato nella documentazione delle opere della Scuola pittorica vercellese, sebbene il suo progetto culturale  avesse una più precisa intenzione politica, orientata alla divulgazione,  all’istruzione delle classi popolari piuttosto che alla produzione storiografica. E diversa ancora era l’intenzione di Secondo Pia[40], cui lo legavano rapporti di conoscenza anche nell’ambito della Società Fotografica Subalpina, certo in quel periodo l’autore più sistematicamente impegnato nella formazione del catalogo visivo del patrimonio artistico e architettonico piemontese.[41] Pia si era recato a Crea il 15 settembre del 1885, ma in quella prima occasione aveva rivolto la propria attenzione al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo il punto di vista canonico[42], la più antica documentazione fotografica di questi luoghi a noi nota, realizzata da Vittorio Ecclesia nel  1878-1880, che aveva escluso le cappelle e il loro patrimonio statuario, allora in fase di profonda trasformazione, per rivolgersi alla sola facciata e all’interno del Santuario offrendo però una Veduta generale del Sacro Monte ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi.[43]

“Per godere di queste sensazioni [questo] misantropo così squisitamente sensibile (…) partiva da Casale a piedi (…) Sempre solo, poiché non aveva l’amico il cui spirito vibrasse all’unisono col suo; sempre taciturno, ma beato per gli spirituali conversari che lo intrattenevano (…) con le umili pianticelle che andava raccogliendo nel bosco. (…) Lo rivedo ancora nella buia cappella di S. Margherita, a rivelarmi le bellezze in essa rinchiuse mediante il lampo di magnesio che portava sempre con sé.”[44] Le parole del necrologio redatto da Luigi Gabotto confermano come Crea sia stata per molti versi il laboratorio di Negri, ma non convincono sino in fondo, fanno emergere nel lettore il sospetto delle stereotipo. Soprattutto non corrispondono all’impressione generale che le fotografie di Negri lasciano in chi le osserva.

Certo Crea fu luogo privilegiato di meditazioni e studi, ma non il solo. Le note autografe apposte alle lastre registrano le località di Pozzengo, Torcello, San Germano, Camino, Quargnento, Bosco Marengo, Fubine disegnando una mappa di destinazioni facilmente raggiungibili dall’amatissima Casale, cui dobbiamo aggiungere la Val Sesia con Riva Valdobbia e alcune località della Valle d’Aosta, Courmayeur in particolare. Sono le mete accessibili nel tempo concesso dagli impegni pubblici e professionali, sono i luoghi delle villeggiature. Scontati e pienamente comprensibili per l’attività di un amateur photographer, per quanto selettiva e qualificata. Così come non ci sorprende il calendario delle riprese, tutte scalate – tranne rare eccezioni – da maggio a ottobre, quando la luce è più calda e intensa, in grado di migliorare ancora le prestazioni delle già rapide emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento.

Né mi convince quell’accenno a una misantropica solitudine, a una subìta separatezza, radicalmente smentita dalla collezione  di sguardi che vediamo intrecciarsi nelle sue lastre, dal piacere giocoso e tutto dilettantesco della curiosità tecnologica[45], che lo portava a usare apparecchi “nascosti”.

La rivoluzione delle emulsioni alla gelatina  ebbe conseguenze enormi anche nel costituirsi della fotografia come pratica sociale. Il fotografo non professionista non fu più – o non solo – l’irregolare di rango, ma,  per onde socialmente sempre più ampie, omnicomprensive divenne dapprima dilettante e poi fotoamatore, ruolo culturale inedito, produttore e consumatore di quella che ormai molto avanti nel Novecento Pierre Bourdieu avrebbe chiamato “arte media”, o semplice praticante occasionale colonizzato dalle strategie dell’industria dell’immagine.

In questa traiettoria la figura di Negri si pone in maniera affatto singolare per la sua capacità di utilizzare la fotografia senza preconcetti, in grado di ricorrere alle migliori  e più aggiornate soluzioni applicative come di usarne quale strumento e testimonianza di relazioni sociale e affettive.

Anche per Negri la lastra fotografica era “la vera retina dello scienziato, che vede tutto, che analizza tutto e che addiziona le impressioni, senza fatica, senza parzialità, senza preconcetti”[46], sebbene questo  approccio positivista e analitico non gli impedisse poi usi diversi, privati e narrativi, spingendosi se del caso ben oltre i legittimi limiti della verosimiglianza per giocare con le esposizioni multiple sulla stessa lastra, dove – abbandonato il grottesco sarcasmo delle prime prove ‘spiritiste’ – l’espediente era destinato a inventare mondi possibili, verosimilmente fantastici,  abitati non a caso da bambini.[47]

L’accoppiamento tra nuove emulsioni e apparecchi gli consentì soprattutto di orientare diversamente il proprio sguardo, affiancando alle precedenti applicazioni strumentali – tra ricerca scientifica e storiografia artistica – il piacere di cogliere la realtà “nella verità della sua apparizione” (Gunthert 2001, p. 65), di collezionare ricordi istantanei senza alcuna premeditazione.

In questa nuova stagione, e inedita, un ruolo determinante giocò l’uso dagli apparecchi stereoscopici, dove grande maneggevolezza e rapidità di posa arricchivano l’affascinante promessa della futura visione tridimensionale e privata  così come accadeva con le detective camera.  Il loro uso letteralmente sorprendente dava corpo e immagine per la prima volta alla versione fotografica del voyeur[48], ormai dotato di un apparecchio[49] nascosto sotto al panciotto, con l’obiettivo sporgente da un’asola, che consentiva di ottenere su ciascuna delle lastre circolari di cui era dotato, sei immagini circolari di 40 mm di diametro e che Negri usò a partire dal 1888.

Paradosso della situazione: nel momento di più esplicito voyeurismo il fotografo nuovo delegava alla macchina buona parte delle proprie funzioni autoriali e posticipava il piacere del vedere riservandolo allo spazio sacrale della camera oscura. Si limitava a scegliere l’occasione e il momento. Affidandosi all’apparecchio per strutturare l’articolazione dello spazio e la composizione dell’inquadratura abdicava alla propria funzione di autore aprendo inconsapevolmente la strada alle estetiche del Novecento.

Anche in termini iconografici con questa possibilità nuova, nativa, offerta dall’istantanea[50], la fotografia si rendeva autonoma da ogni debito con la tradizione pittorica, giungendo progressivamente a definire un genere costituito da immagini articolate secondo sintassi inedite[51], che in Italia sarebbero poi state lucidamente individuate da Stefano Bricarelli, che per la buona riuscita delle “scene animate”  avrebbe indicato quale “condizione indispensabile (…) che il soggetto sia inconscio (…). Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata. [Per] fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro.”[52]

Le scene di strada erano un soggetto privilegiato e ampiamente frequentato già dalla prima maturità della pratica stereoscopica, intorno agli  anni ’70 del XIX secolo.  A questa si devono anzi i primi esempi di ripresa istantanea, ancora ai tempi del collodio, ma fu la pratica dilettantistica consentita dai nuovi dispositivi fotografici a determinare la vera e definitiva scoperta della scena urbana, a mutarne il senso della rappresentazione, che ora diviene piuttosto la registrazione di un’esperienza, la traccia del rapporto individuale tra il fotografo e la città, testimonianza del suo esserci in quanto componente della scena stessa.

La semplicità d’uso consentiva ormai di rivolgere l’attenzione alle banalità (più raramente all’eccezionalità)  del quotidiano; erano  proprio le nuove possibilità operative a consentire e definire nuovi soggetti, irriducibili ai canoni dell’artisticità, incommensurabili. Contemporaneamente si accresceva il valore testimoniale di traccia della fotografia, poiché l’apparente casualità dell’inquadratura certificava la veridicità di una ripresa non posata e simulata, “rendendo più profondo il nesso tra informalità e verità fotografica.”[53] È l’istantaneità che inventa i propri soggetti collocandoli in un diverso orizzonte espressivo e di valore, che si caratterizza  per la sua elevata autoreferenzialità[54]. Prende così progressivamente forma un modello di consapevolezza espressiva fondato sui nuovi elementi discorsivi apportati da questa pratica, ciò che consente per la prima volta di “piegare la rappresentazione al proprio ordine, di imporre al visibile la griglia della tecnica, di trasformare il soggetto della pittura nell’oggetto della fotografia”[55], di più ancora, come abbiamo visto nel caso di alcune riprese relative a Crea: di cercare l’istantaneità del gesto anche nella lettura delle statue di Tabacchetti.

Nell’opera di Francesco Negri questa libertà nuova ha assunto forme diverse, che riguardano aspetti compositivi non meno che narrativi, così come la scelta di specifici soggetti.

Quanto all’accogliere le suggestioni di nuove possibilità sintattiche, basti pensare a certe vedute urbane[56],  ai modi di orchestrare le figure nello spazio, congiunte da intervalli così silenziosi da far emergere a volte un sentimento di desolata solitudine, quasi disperata. Si produceva così un tempo che appare sospeso, immoto, il più lontano dal fermo immagine  proprio dell’istantanea comunemente intesa. In altri casi è la rimessa in discussione del punto di vista a costituire il centro di interesse, come nella bella ripresa delle lavandaie dall’alto, o la scomposizione – affidata alle ombre – dell’inquadratura di una scena di strada altrimenti al limite del bozzetto folklorico. In entrambe un soggetto ampiamente frequentato e ormai consunto venne  rivitalizzato in modi che anticipano soluzioni che saranno poi programmaticamente perseguite dai fautori della “nuova visione”.

Negri non escludeva alcun uso della fotografia. Non temeva la banalità del quotidiano, poiché la fotografia (gli) consentiva anche questo: di raccontare un gesto qualsiasi, cui si è legati anche solo da un fuggevole sentimento momentaneo, con grande e risolutiva economia di mezzi. Per questo – credo – non temeva neppure di misurarsi con qualcosa che noi oggi possiamo forse chiamare il qualunquismo delle ricorrenti pose goliardiche, dei piccoli gesti di pessimo gusto, di intere serie di “foto col colombo in man”. Non solo desiderava misurarsi con la fotografia, ma anche sottoporne a verifica le potenzialità, affidandosi al piacere sorprendente di estrarre il singolo gesto fugace dal flusso continuo dell’azione. Mi riferisco al velleitario tentativo di dimostrare come fosse possibile la “Abolizione della film (…) vantaggiosamente sostituita dalle comuni lastre sensibili”, condotto utilizzando il bizzarro apparecchio Olikos[57], ma ancor più alle due opposte serie delle scene di ballo e della brevissima, sorprendente sequenza del tuffo nelle acque del fiume, altro “soggetto istantaneo” praticato da molti fotografi il cui successo non era immune, secondo alcuni, da più o meno esplicite suggestioni della cultura omosessuale.[58]

Questa sindrome dell’istantanea fu immediatamente individuata e precisamente descritta da Albert Londe, direttore del servizio fotografico al cronicario parigino  della Salpêtriére col grande psichiatra Jean-Martin Charcot,  che nel suo saggio dedicato alla Photographie instantanée notava come “molti fotoamatori da quando possiedono un otturatore non sognano altro che di fotografare dei cavalli in corsa o dei treni espressi” , sebbene questo si rivelasse ben preso un compito ingrato, poiché “se la ripresa ottenuta è nitida il treno appare irrimediabilmente fermo e solo la dichiarazione del fotografo, ancor più del pennacchio di fumo che volteggia, garantisce l’istantaneità della posa.”[59]

Ciononostante l’attrazione per questo soggetto – in Negri come in altre decine di pittori e fotografi europei e statunitensi, ben prima delle celebrazioni futuriste – fu irresistibile, poiché la locomotiva rappresentava  la materializzazione di una velocità inumana, sino a prima inimmaginabile. Era e rimane per questo il simbolo più efficace e pieno della modernità della prima rivoluzione industriale, ma costituiva anche il banco di prova dell’istantaneità fotografica: velocità contro velocità, otturatore vs motore. Senza poter impedire che sfuggisse però – irresistibile – una scenografica massa cangiante di fumo e vapore bianco, come di nuvole fatte a macchina.

I diversi ambiti della sua attività, così come si sono  andati delineando ci consentono un’affermazione che può apparire sorprendente: sino agli anni Novanta Negri non fu un amateur photographer, ma uno studioso che usava in modo molto accorto e appropriato la fotografia, trovando in questo campo di applicazione specialmente motivi di interesse tecnologico. Basti pensare alla progettazione del teleobiettivo, che costituiva in quegli anni un rilevante problema ottico meccanico, già affrontato da Thomas Rudolphus Dallmeyer a Londra e da  Adolf Miete a Berlino sin dal  1891, quindi da Giorgio Roster e Innocenzo Golfarelli in Italia, e che lui risolse operativamente per primo nell’arco di poco più di quattro anni, a partire dalle sperimentazioni avviate nell’aprile 1892 sino alla messa in produzione da parte della ditta milanese Francesco Koristka nel 1896.[60]

Il profilo architettonico della città, insieme alle montagne lontane, era ciò che lo attirava per primo nella sperimentazione del nuovo strumento ottico, la possibilità di incidere nella veduta panoramica un percorso visivo di avvicinamento estremo, sino alla scala del singolo edificio o tenendosi un poco più largo per rivelarne le aguzze emergenze che lo distinguono, le più antiche torri e le ciminiere dei cementifici, mantenute significativamente in primo piano anche in un’altra ripresa in cui notava l’adagiarsi calmo della città nell’ansa ampia del fiume. Poco sembrano interessarlo invece le singole emergenze architettoniche. Non rientrava tra i suoi scopi la formazione di un repertorio visivo del patrimonio storico urbano; attento semmai agli spazi da vivere, tra le piazze, i giardini e il lungofiume. Poi le infrastrutture, forse anche in virtù della sua stessa funzione di amministratore pubblico. La sua è una città che appare scarsamente popolata, sebbene alcune tra le primissime riprese, ancora su lastra al collodio, fossero dedicate all’imprendibile animazione di piazza Mazzini in un giorno di festa, e ancora anni dopo avesse generosamente impiegato il proprio apparecchio stereoscopico per raccontare l’animazione di piazza Castello in occasione di qualche fiera, tra padiglioni e giostre.[61]

La città che sembra attirarlo di più è quella degli spazi vuoti, non di rado marginali, quella che appare  nelle giornate uggiose, con scarsi passanti, nell’elegante griglia dei giardini innevati, deserti.

Anche del fiume ciò che maggiormente costituiva per lui richiamo non era la vita sulle sue sponde, pur non esclusa, ma la sua relazione inscindibile con la città e col paesaggio che la circonda, letteralmente nato per erosione e accumulo, tra bordi collinari e pianura. Raccontare il fiume voleva dire per Negri reinventarne fotograficamente la maestosa ampiezza, minacciosa a volte; alzare panoramicamente il proprio  sguardo sino a cogliere il dialogo con la geografia dell’intorno o ridursi al breve orizzonte chiuso dagli argini, estendendo il proprio sguardo a tutti i paesaggi d’acque che circondano la città, sino alle più prossime risaie, fotografate forse per l’amico Angelo Morbelli.[62]

Quasi si potrebbe dire che solo nell’ultimo decennio del secolo Negri divenne un dilettante, aprendosi liberamente al piacere dell’istantanea, ma rivelandosi soprattutto un ritrattista di gran livello, così come sarebbe accaduto per un altro amateur della generazione successiva come Enrico Del Torso (Trieste 1876 – Udine 1955)[63]. È proprio in questa serie di figure che risulta dal dialogo serrato coi soggetti fotografati, tutti palesemente in relazione di stretta conoscenza, di familiarità col fotografo che emerge per la prima volta un esplicito impegno espressivo, scalato in una ricca serie di soluzioni linguistiche, frutto di uno sguardo innovativo e scarsamente condizionato dai modelli della fotografia pittorialista; immagini  destinate alla pura  fruizione privata. Come aveva già notato Marina Miraglia[64], Negri fu “tra i pochi fotografi amatori piemontesi che oltre all’immagine del territorio indagò, in toccanti istantanee, la propria quotidianità familiare”, riuscendo però a trascendere ampiamente questi angusti limiti sino a restituire l’identità visiva della borghesia casalese tra Otto e Novecento, a offrire esiti innovativi all’ormai lunga consuetudine del genere.

Dopo una pausa di circa un trentennio l’archivio di Negri si popola nuovamente di persone, spesso inseguite e colte nella relativa libertà del gesto quotidiano, in modi mantenuti volutamente lontani dalla prestabilita compostezza della ripresa in studio, a meno che ciò non costituisca quasi un esercizio di citazione. Gli sfondi, appena fuori fuoco, sono di interni borghesi, ma non mancano certo gli esterni, che anzi tendono a prevalere col procedere degli anni. L’attenzione è per la figura (non sono ritratti ambientati) anzi, ancor più, è concentrata sul volto e in questo sullo sguardo, che a volte emerge dall’ombra, con una modernità priva di inquietudine. Oppure si rivolge diretto alla macchina, al fotografo quindi, in segno di manifesta confidenza, o si ritrae pudico per analoghe ragioni. Anche qui ritroviamo esempi di sperimentazione linguistica condotti al limite della citazione, ma sempre con la levità quasi innocente del dilettante. Penso alla figura stante, di profilo, con lunga tunica bianca, in cui le suggestioni tra preraffaelitte e simboliste piuttosto che sublimare l’identità concreta e storica della persona ritratta – come accadeva circa gli stessi anni nelle fotografie di Guido Rey – contribuiscono a marcarne la connotazione. Penso anche alle due ieratiche figure di netto profilo, forse una coppia, di ancora più antiche ascendenze pittoriche ma certo di scarsa applicazione nella ritrattistica coeva: ad esclusione della segnaletica, certo.

I modi oscillano continuamente tra gli estremi opposti delle silhouette prefotografiche, alcune provate virtuosisticamente in esterni, e la vivezza dell’istantanea, in cui uno sguardo colto quasi al volo, un gesto rivelano improvvisamente qualcosa della persona ritratta, aprendo la strada che poi sarebbe stata ampiamente frequentata dalla fotografia degli anni della modernità.

Anche il tema del paesaggio – secondo le date autografe apposte alle lastre – non venne sistematicamente affrontato prima della fine degli anni Ottanta, quando però si trattava ancora, il più delle volte, di vedute di  località, non di paesaggi veri e propri[65]. Tra i primi soggetti con cui si misurava vi era la montagna, certo una nobile tradizione per la fotografia piemontese e per lui legata ai soggiorni in alta Val Sesia (Alagna e soprattutto Riva Valdobbia, dal 1888) e poi in Valle d’Aosta (Courmayeur, Châtillon, la Valtournenche tra 1897 e 1899). Sono prevalentemente vedute di ampio respiro, che restituiscono l’insieme del contesto alpino o si soffermano sui piccoli insediamenti di fondovalle. Negri non era un alpinista, solo di rado il suo sguardo veniva attratto dalle catene montuose o dai fronti di ghiacciaio, memore delle favolose immagini dei primi grandi fotografi di montagna, non più di trent’anni prima[66]. Non per questo però la qualità della sua produzione fu meno nota e apprezzata se Vittorio Sella[67], forse il più grande fotografo alpinista del XIX secolo, scelse alcune sue riprese per una mostra aostana dedicata proprio a questo genere, realizzandone in proprio una nuova stampa delle eccezionali dimensioni di 53,5×218,5 centimetri. Più interessanti ci sembrano oggi i paesaggi veri e propri, per quella sua capacità di sorprenderci con piccoli scarti improvvisi, inattesi; per la scelta di soggetti inconsueti e quasi marginali che gli consentono però di orchestrare l’inquadratura in modo dinamico, con la ricorrente presenza di elementi in primo piano con funzione di quinta e di scomposizione dell’inquadratura, oppure ricorrendo per analoghe ragioni alle amatissime ombre portate di elementi fuori scena.

La più costante attenzione fu però rivolta alla vegetazione nelle sue diverse forme, alle specie spontanee riprese in stereoscopia ancora nel 1899 con lo sguardo del naturalista e specialmente alle masse alberate che chiudono l’orizzonte dei campi, che segnano il margine delle lanche, al folto dei boschi. Tutti soggetti che ben si prestavano ad essere trattati col metodo della tricromia.

Paesaggio e colore in un qualche modo si sovrapponevano, e neppure la montagna faceva eccezione,  esito di una mediazione che era pittorica e tecnologica insieme. Com’era per l’istantanea, anche la tricromia[68] imponeva i propri soggetti, non solo per l’ovvio prevalere d’interesse della gamma cromatica sulle modulazioni tonali, ma anche e forse soprattutto perché la realizzazione distinta dei tre negativi di selezione imponeva la scelta di soggetti sostanzialmente immobili, la cui forma permanesse immutata per il tempo necessariamente lungo delle tre distinte pose.

Dopo le prime prove del 1890 (una ripresa di fiori in vaso, con filtro rosso, datata 8 luglio) Negri si dedicò con costanza a queste esperienze a partire dall’ottobre del 1899 (“Quando cominciai nel dicembre 1899 a tentare la tricromia..”  ricordava nel 1906, sbagliando di poco), forse sollecitato dalla pubblicazione dell’importante testo di Carlo Bonacini La fotografia dei colori (1897) e da quello di Alcide Ducos du Hauron, fratello del più noto Louis, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie che l’editore parigino Gauthier-Villars aveva pubblicato nello stesso anno.  L’interesse per il tema era però di molto precedente come dimostra la presenza nella sua biblioteca del testo fondamentale di Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objects colorés avec leurs valeurs réelles (1887), e confermata dalla presenza di periodici specializzati quali “La Photographie des Couleurs” e del più tardo volume di Ernst König,  Natural-color photography, del 1906.

L’attenzione non episodica per questo tema è oggi testimoniata dalle sessanta tricromie presenti nel Fondo[69], “sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori”; poi aggiungeva:  “di schermi ne ho fatti molte decine, di colori ne ho passati in rassegna più di un centinaio.”[70]

Gli esiti di questa metodica applicazione furono immediatamente noti e apprezzati, tanto da determinare la partecipazione nel 1902 alla grande Esposizione di Arte decorativa moderna e contemporanea che si tenne a Torino,[71] chiamato a rappresentare l’Italia nella sezione dedicata alla fotografia[72]. L’invito doveva certo essere giunto dallo stesso Presidente del Comitato promotore dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica Edoardo di Sambuy, che Negri aveva conosciuto in occasione dei due primi congressi italiani di fotografia a Torino (1898) e Firenze (1899). La condivisione dell’iniziativa con autori quali Guido Rey, Cesare Schiaparelli, Giacomo Grosso e Vittorio Sella, solo per citare i maggiori, consacrava Negri come uno dei più significativi autori a livello nazionale, sebbene il suo modo di intendere e praticare la fotografia poco avesse da condividere con le pratiche ‘artistiche’ allora dominanti, analogamente a quanto accadeva del resto anche per Vittorio Sella.

Pietro Masoero, commentando l’Esposizione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” segnalava le “magnifiche tricromie su pellicola di Francesco Negri di Casale, destanti l’ammirazione generale. E questa volta il pubblico giudicava bene. I saggi presentati dal Negri erano perfetti sotto ogni rapporto e per il primo credo, dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto.”[73]

L’ammirazione del pubblico era certo favorita dalla semplicità di queste composizioni, lontane dalle “inusitate forme” e dalla “esagerazione della ricerca” della più avanzata produzione straniera di gusto pittorialista, specialmente statunitense. La novità dirompente, assoluta, per noi oggi incommensurabile era però il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel al francese Gabriel Lippmann nel 1908, per la messa a punto del metodo interferenziale diretto di fotografia a colori; quello  che i fratelli Lumière, grandi sperimentatori e recenti inventori dell’autocromia, molto sottilmente definivano come “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce”, priva però di qualsiasi utilità pratica.

Come si è detto, non che Negri non avesse mai affrontato il tema del paesaggio prima di misurarsi con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedevano nei vincoli imposti dal procedimento e l’interesse per il genere assumeva una vitalità nuova. La scelta del tema ma anche quella del luogo, quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della città e che tante volte aveva  già descritto e studiato, forse non estraneo all’intenzione tutta positiva di annodare le fila delle trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviavano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[74]. Il soggetto (insieme, non a caso, alla natura morta) risultava quindi in certa misura imposto, quasi  ineluttabile, ma non per questo nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine non è possibile riconoscere suggestioni, stimoli visivi e culturali precisi  esito di sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali.  Mentre il trattamento dominante del paesaggio negli anni della “Fotografia Artistica” prediligeva i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entrava in gioco la luce, meglio ancora la luminosità densa dei tre strati policromi, restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per trasparenza.

Accanto ai paesaggi le sobrie nature morte,  eleganti studi condotti nella calma racchiusa del proprio studio.

Nella messa a punto di questi set di ripresa Negri  mostra un’attenzione e una sapienza nel trattare la luce che invano cercheremmo nelle altre fotografie. Il soggetto, perfettamente centrato, ripreso frontalmente, quasi affiora dal piano posteriore cromaticamente intonato oppure si stacca, netto, dal fondale scuro e indistinto, da cui i colori pastosi delle gelatine emergono con evidenza materica.

L’accuratezza di queste composizioni testimonia da sola le sue potenzialità, ma conferma anche il suo scarso interesse generale per le questioni estetiche, qui sollecitate dalla sfida della più efficace, spettacolare resa del colore e risolta applicando modelli compositivi direttamente desunti da analoghi  esempi pubblicati dalle riviste dell’epoca sotto forma di tavole fuori testo[75]  o comunque di ampia circolazione come gli Etudes de Feuilles di Charles Aubry, del 1864, ma ancor più la serie dei Fleurs photographiées realizzata da Adolphe Braun nel decennio precedente (1854-1856), che costituì a sua volta modello per innumerevoli autori successivi, tra fotografia e pittura.

La sua attività fotografica proseguì ancora per circa dieci anni,  le ultime annotazioni autografe datano le immagini al maggio 1915, ma certo l’incontro con le opere dei maggiori protagonisti della stagione pittorialista avvenuto a Torino non produsse in Negri alcuna velleità di confronto, alcuna suggestione.  Quando nel 1906 pubblicò sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana” e quindi ne “Il Progresso Fotografico” i suoi Appunti sulla tricromia, apparentemente l’unico suo testo dedicato alla fotografia, le notazioni erano esclusivamente di carattere tecnico[76];  invano si cercherebbe un cenno alla poetica o anche solo alle ragioni del fotografare a colori.

Il suo operare fu continuamente delimitato da  orizzonti puntualmente definiti e temporalmente circoscritti, dove la maestria nell’individuare di volta in volta i parametri applicativi più adatti alla più efficace soluzione del problema si coniugava e si confondeva col desiderio, con la necessità di un continuo confronto tecnologico propria dell’autodidatta, del fotografo dilettante che agli albori della modernità si appresta a divenire fotoamatore. Anche la sua connotazione di autore ‘locale’ sembrerebbe muovere il giudizio in tal senso, ma è indispensabile distinguere. Certo la scelta dei soggetti, la delimitazione geografica della sua area di lavoro fu fortemente radicata nel territorio casalese, luogo in cui si fondavano e si svolgevano le ragioni e le trame che legavano i suoi molteplici interessi. Ma la sua cultura, le ragioni i modi e gli esiti della sua pratica fotografica rivelarono, già ai contemporanei il suo valore sovralocale, la sua singolare figura di fotografo tra i più rilevanti degli ultimi decenni del XIX secolo in Italia, impossibile a ridursi a una tipologia che non sia quella di uomo del suo tempo, enciclopedico ed eclettico. Indifferente alle gerarchie di valore lui accoglieva e usava tutta la fotografia; ne coglieva e apprezzava l’infinito spettro di possibilità indifferenziate di puro e affascinante strumento, in grado all’occasione di divenire gioco raffinato o elegante problema da risolvere. Mezzo d’espressione cui concedere poco però, da cui lasciar trasparire quasi nulla di sé. Per questo non credo che Francesco Negri si sentisse ‘autore’, non almeno nel significato trasmesso dalla tradizione artistica e ancora oggi troppe volte accolto e usato senza cautele. La sua presenza più definita e personale riusciamo a trovarla, a leggerla con sufficiente chiarezza solo nella produzione più riservata e personale dei ritratti e delle istantanee, nascosta sino ad ora a sguardi che non fossero intimi. “Carattere complesso – lo ricordava il canonico Francesco Gasparolo nel 1925 –  davanti a cui (…) si rimane perplessi nel giudicare, se la difficoltà di misurare l’alto valore dell’uomo provenga dalla sua eccessiva modestia o da fierezza d’animo. Converrebbe probabilmente conchiudere che ambedue siano state le cause.”

 

 

Note

[1] È opportuno ricordare, e ribadire, che ciò che si mostra in questa occasione non è solo una inevitabile selezione, come necessariamente accade ogni volta che ci si propone di presentare criticamente l’intero ciclo operativo di un fotografo.

L’antologizzazione delle fotografie realizzate da Francesco Negri è, ancor prima, conseguenza di ciò che si è riusciti a mostrare, ma non rispecchia fedelmente l’insieme di ciò che si è conservato, per ragioni che credo indispensabile motivare almeno sinteticamente.

L’insieme dei materiali su cui abbiamo condotto le ricerche qui pubblicate, tutti conservati nel Fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, appartiene a quella porzione – crediamo prevalente – della sua produzione che è riuscita a superare il corso dei decenni sopravvivendo a dispersioni, vicende giudiziarie, incuria e non sempre opportuni e accorti interventi. In quasi totale assenza di stampe originali, forse disperse negli anni, la selezione  è stata condotta prevalentemente sui negativi, rinunciando comunque dolorosamente a presentare le lastre irrimediabilmente rigate, quelle la cui emulsione non si è negli anni gonfiata e parzialmente staccata, quelle su cui una mano tanto volonterosa quanto imprudente non ha incollato, solo pochi decenni orsono, micidiali etichette identificative. Come ha ben documentato Barbara Bergaglio, per troppo tempo il Fondo Negri è stato sfruttato come una risorsa di cui poco importava la conservazione nel tempo, ponendo in essere insufficienti cautele e attenzioni sia in termini di condizioni fisiche che di sicurezza. Non si spiega altrimenti l’attuale assenza di alcune immagini e documenti pubblicati nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969, ma anche di altri beni strumentali e immagini individuati da chi scrive alla fine degli anni ’80, confermati dalla schedatura condotta dalla Fondazione Italiana per la Fotografia e oggi non reperibili.

Per meglio identificare i forti limiti entro cui è stato costretto il presente lavoro è necessario ricordare che la committenza non ha ritenuto opportuno favorire l’ampliamento delle ricerche presso quelle istituzioni e collezioni private che notoriamente conservano immagini e documenti relativi all’attività di Negri. Non è stato così possibile, ad esempio, studiare e utilizzare la ricca e varia documentazione conservata presso il Sacro Monte di Crea, che fu l’amato laboratorio di una vita per Negri, né rendere note alcune eccezionali testimonianze della sua precoce fortuna critica, penso in particolare alle bellissime stampe fotografiche di panorami alpini che Vittorio Sella trasse da sue lastre negli anni Trenta del Novecento, i cui negativi sono oggi conservati presso la Fondazione Sella di Biella, mentre alcuni positivi in diversi formati, anche di grandissime dimensioni, sono conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e nei fondi Fotografici della Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta.

Sono infine convinto che le collezioni private, specialmente casalesi, avrebbero potuto riservare interessanti sorprese, offrire significative testimonianze di una consuetudine, certo sua, a concedere ad amici ed estimatori i migliori esemplari della sua vasta e poliedrica produzione, oggi tanto più preziosi in conseguenza della scarsità di stampe originali conservate nel Fondo.

[2] Disderi 1862, nota a p.169, accanto alla formula del “collodion pour l’été”.

[3] Escludendo Padre Vittorio della Rovere (1811 – 1863 ?), di nascita casalese ma vissuto prevalentemente tra Torino e Roma, ben noto per le sue rare immagini e gli studi sulla stereoscopia (cfr. “Atti dell’Accademia dei Lincei”, 8, 1854) e ancor prima sulla  dagherrotipia, per cui si rimanda a L’Italia d’argento, 2003, p. 246, scheda siglata “mfb” [Maria Francesca Bonetti], e stando alle poche notizie certe, negli anni intorno al 1860 a Casale si registrava la sola presenza di Antoine Valentin, di evidente origine francese, della Fotografia Sociale, Via della Posta n.6, e di un  “V. Casazza \ Geom.tra Fot.fo \ Casale” non altrimenti noto, sebbene l’interesse per la nuova invenzione dovesse essere stato molto precoce, come indica la presenza nel Fondo Negri di Buron 1841, che porta al frontespizio il timbro ex-libris della biblioteca della famiglia Vitta, di cui sono note le relazioni con la Francia in relazione alla costituzione del Crédit Lyonnais.

Nei decenni successivi furono attivi Virgilio Tamburini, 1879 – 1905 ca, Via Sant’Ilario 18 poi via Garibaldi 6, cui subentrerà E. Camurati ai primi del ‘900; Carlo Giovara, 1880 ca, Via Vittorio Emanuele II (Palazzo Treville) e piazza dell’Addolorata, Casa Cerinola, con succursale a Chivasso; A. Manfredi, attivo dal 1883 a Torino, Via Lagrange 15, poi dal 1893 al 1895 in Piazza San Carlo 4, che possedeva anche una succursale a Casale, Piazza dell’Ospedale di Carità, 6  ove subentreranno prima del 1899 Giuseppe Menzio e F. Rota (presente al Congresso di Firenze del 1899) prima di aprire ciascuno studio proprio. E ancora: Premiata Fotografia (Fotografia e Pittura)   Angelo Bensi, 1890 ca, piazza Carlo Alberto 2, cui succederà  Ezio Bensi, titolare dello Stabilimento Fotografico Arte Moderna, 1908, Viale Regina Margherita 2 e Via Ricovero (casa Ing. Masazza), citato all’Esposizione del 1909 per “gli ingrandimenti degli autopastelli” [sic] di Leonardo Bistolfi e dell’Archinti” (Ettore Archinti, 1878 – 1944).

Altri studi e fotografi seguiranno nei decenni successivi come A. Armani, attivo dal 1920, Battaglieri, Goffredo Calvi, con notizie nel 1907,  Colombino, La Fotoelettra, Foto Lori, dal 1925,  Melotti, C. Migliore e L. Piantone, mentre ancora più incerto è l’universo degli amateur photographers come quell’E. Morbelli (sotto cui potrebbe celarsi un refuso) di cui si pubblica un “superbo gruppo di piante” ne “Il Progresso fotografico” dell’ottobre 1898 o altri casalesi presenti all’Esposizione del 1909 come l’avvocato Silvio Montalenti, Felice Deambosi, il dott. Emilio Iaffe . “Bisogna però convenire – ricordava il redattore – che Casale e provincia, per quanto non sia un gran centro, ha però un forte nucleo di dilettanti che è ben difficile trovare altrove.” (“Il Progresso Fotografico”, 1909, pp. 126)

[4] Per una puntuale ed esauriente presentazione critica dell’ambiente torinese si veda Miraglia 1990.

[5] Nel 1863 aveva sposato la novarese Giulia Ravizza, con cui abitava in via Benvenuto San Giorgio “nella casa che fu dei Della Rovere di Casale” (Mattirolo 1925, p.10, nota 3), poi demolita nel secondo dopoguerra. La moglie era la prima figlia dell’avvocato Giuseppe Ravizza (Novara 1811- Livorno 1885), erudito cultore di storia e archeologia in stretta relazione con Theodor Momsen con cui redasse il Catalogo primo del Museo Patrio di Suno ed Appendice alle Memorie storiche.  Novara: Tip. Merati,  1877, più noto come inventore della prima macchina da scrivere a tasti, il  “Cembalo scrivano” del 1855, i cui cimeli “posseduti e custoditi gelosamente” da Federico Negri vennero esposti nel padiglione Olivetti dell’Esposizione agricolo-zootecnica di Novara del 1926, cfr. Aliprandi 1931, da cui pervennero al Museo della Scienza di Milano, che conserva anche un ritratto di Giuseppe Ravizza con la moglie Ernesta  Brosio e la seconda figlia Elisa realizzato da Francesco Negri nel 1864,  donato al Museo proprio dal figlio Federico nel 1931. Colgo l’occasione per ringraziare Paola Mazzucchi, responsabile della Biblioteca del Museo per avermi cortesemente fornito alcuni dati in merito alla provenienza di questi oggetti.

[6] Cfr. qui La biblioteca del fotografo.

[7] Quale ulteriore testimonianza della prima pratica fotografica di Negri segnaliamo che nella lastra 10B144 compare una camera oscura portatile per la preparazione di lastre al collodio, non dissimile da quella usata circa negli stessi anni dal pastore valdese David Peyrot e oggi compresa nelle collezioni del Museo nazionale del Cinema di Torino.

[8] Dopo i primi esempi riferibili all’avvio della sua attività fotografica, la consuetudine di annotare ai bordi della lastra i dati di ripresa e sviluppo con più rare indicazioni relative al soggetto fu riavviata intorno al 1885 per proseguire ininterrotta sino alle ultime lastre, datate maggio 1915.

[9] Henry Festig Jones ricordava come il padre di Negri (gran cacciatore, morto per la puntura di una zanzara) abitasse proprio a Ramezzana, avendo sovente come ospiti  Cavour e il principe Dal Pozzo della Cisterna, ma anche Vittorio Emanuele II, che volentieri coccolava il piccolo Francesco; cfr. Jones 1919, p. 113.

[10] Disderi 1862, ora in Frizot, Ducros 1987, pp.  36- 47 (39).

[11] Si confronti ad esempio il ritratto di un giovane prelato in piedi, poggiato alla spalliera di una sedia tenuta in equilibrio, [9C138] con l’identica posa del [Ritratto della moglie] di Giuseppe Alinari, 1870 ca, in Quintavalle 2003, p. 273.

[12] Bertelli 1979, p. 76.

[13] Ricordiamo come a questa data fosse già in relazione col botanico Vincenzo Cesati (Milano 1806 – Vercelli 1883), che gli dedicò uno Xantium, che lo stesso Negri aveva trovato per primo a Castell’Apertole (Livorno Ferraris), cui  secondo Oreste Mattirolo 1925, p.7 lo legavano anche “aspirazioni patriottiche comuni”. Ancora alla relazione con Cesati si doveva la conoscenza con Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891) [che definì Negri “distinto botanico”] segnalata ancora da Mattirolo 1925, p. 8 e poi ripresa da tutti i commentatori successivi, che Negri accompagnò  alle cascate del Toce, redigendo quell’elenco “delle specie crescenti nell’Alta valle del Toce” che fu pubblicato ne Il Belpaese, 1875.  L’immutato interesse per la botanica è documentato fotograficamente da una serie di stereoscopie datate aprile 1899. (R0096654- R0096658)

[14] Didi-Huberman 1986, p. 71, corsivi dell’autore.

[15] Allo stesso anno risale Moitessier 1866, un trattato molto noto che ben documenta la fase di massimo successo in ambito fotografico di questo genere di immagini, che consentivano agli studiosi di colmare il vuoto filogenetico tra organismi inferiori (dai batteri alle alghe) e superiori (l’uomo) in maniera compatibile con il gradualismo evoluzionista delle nuove teorie darwiniane ( Jeffrey 1999, p. 38). Lo stesso editore  aveva pubblicato nel 1845 l’Atlas du Cours de Microscopie Donné e Foucault, considerata la più antica pubblicazione di fotomicrografia. Già il 17 febbraio del 1840 Alfred Donné (1801 – 1878) professore al College de France, aveva presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi per il tramite di Jean-Baptiste Biot delle fotomicrografie su dagherrotipo ottenute alla luce ossidrica grazie ad un microscopio solare (Corcy 2003, p. 64). Quasi negli stessi giorni, il 4 marzo,  il medico e matematico viennese Andreas Ritter von Ettingshausen (1796 – 1878) aveva realizzato la fotomicrografia di una sezione di Clematis (Frizot 1994, p. 276; Marien 2002, p. 34), ma come è noto già tra gli esemplari fotografici di Talbot presentati da Michael Faraday alla Royal Institution il 25 gennaio 1839 si trovavano immagini di ingrandimenti, tra cui l’ala di un insetto (Frizot 1994, p. 276; Jeffrey 1999, p. 35).

[16] Zannier 1986, p. 171.

[17] Diversamente dall’uso ottocentesco, proprio anche di Francesco Negri, per le riprese fotografiche ottenute per il tramite del microscopio utilizziamo il termine “fotomicrografia” e non  “microfotografia” con cui più specificamente oggi si intendono i processi di miniaturizzazione delle immagini.

[18] Diresse il Gabinetto di crittogamia del “Giornale Vinicolo Italiano” dal 1869-1879 ed entrò in relazione di studio con importanti ricercatori internazionali come Felix von Thumen, che gli dedicò il micromicete Phoma Negriana . La sua produzione venne tempestivamente segnalata da Angelo De Gubernatis, che lo inserì nel proprio Dizionario del 1879 (II, pp. 1221-1222) come “scrittore piemontese, avvocato.”

[19] Negri, Pisolini 1882 Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, Agosto 1882.  Pisolini era il medico che gli fu vicino anche nel giorno della morte, il 21 dicembre 1924.

[20] Greco 1969, pp. 86-87, cui si rimanda per la descrizione analitica degli esiti fotomicrografici di Negri.

[21] Questa emergenza sanitaria costituì l’occasione per la pubblicazione di Negri, Cassone 1885.

[22] Bertelli 1979, p. 76; che considerazioni di ordine estetico potessero convivere con  intenzioni di accuratezza documentaria, non essendo di fatto in contraddizione tra loro è testimoniato non solo da buona parte della cultura ottocentesca, ma anche più in particolare da molta fotografia naturalistica e micrografica. Penso, per esemplificare,  ad un autore come Giorgio Roster, il cui percorso professionale e di ricerca ha più volte incrociato il cammino di Negri, per il quale rimando a Principe, Sensi, Casati 2004.

[23] Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore, che proprio a questo scopo aveva preso lezioni in Inghilterra nell’inverno del 1887, cfr. Jones 1919, p. 109.  L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea) ma con un apparato iconografico lievemente ampliato. L’archivio fotografico di Butler, oggi conservato alla St John’s College Library dell’Università di Cambridge, è costituito da circa 1600 negativi su lastra (databili 1888 – 1898) e da cinque album contenenti complessivamente circa 1700 stampe con una cronologia compresa tra 1891 e 1898. Cfr. https://archiveshub.jisc.ac.uk/search/archives/516c6af9-031d-3239-b4db-668ec60a0dcd?component=0a2d1de2-378b-3bd7-b37e-e891b3c16d39  (dicembre 2022). La sua produzione fotografica è stata studiata da Shaffer 1988 e presentata in Butler 1989. Butler era andato a Casale già nel settembre del 1887, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen, proprio per estendere le proprie ricerche su Tabacchetti, ma non pare che in quell’occasione avesse avuto modo di conoscere Negri.

[24] Mattirolo 1925, p.14 nota 1 ricorda che Negri scrisse il necrologio di Butler, non reperito in questa occasione né citato da altre fonti.

[25] Si vedano i diversi contributi pubblicati in Barbero, Spantigati 1998 e in particolare Maria Carla Visconti Cherasco, La nuova vita del Sacro Monte nell’ottocento fra ripristini e rinnovamento devozionale, pp.123-136.

[26] BCCM- Fondo Negri: Scat.42, 43.

[27]“Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, citato  in Durio 1940, p. 86. Le riprese si riferiscono  a un gruppo di pellegrini, alla cappella di sant’Eusebio (4 riprese di statue attribuite a Tabacchetti) e a quelle delle Nozze di Cana e della Natività, e portano tutte la data del 14 settembre 1891, mentre al giorno successivo risalgono un’immagine di bambini e il doppio ritratto di Don Minina e Francesco Negri, entrambe realizzate a Casale.

[28] Negri 1892  dedicato all’attività di Martino Spanzotti e della sua scuola, col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate (di cui si conservano i negativi), primo frutto delle sue ricerche di storia dell’arte condotte con rigoroso metodo di ricerca: “Da provetto legale quale egli era, applicò alle sue ricerche la severità delle regole procedurali, cercando di documentare ogni sua asserzione con riferimenti a contratti; a tavole testamentarie; a inventari, ecc. frugando negli archivi della sua regione per giungere a sbrigare le arruffate matasse che si riferivano alle biografie degli artisti casalesi”, Mattirolo 1925, p. 9.

[29] La possibilità di rendere efficacemente il gesto tradotto realisticamente da Tabacchetti venne affrontata da Negri anche in termini letterari nel saggio del 1902, in cui, dopo una notazione etico-politica sulla capacità del plasticatore di dare “al martirio l’impronta di una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sebbene ordinata da un potere costituito su regole determinate  e regolari”, procedeva ad una interpretazione verista della scena, sottolineando “la movenza [del santo]  così naturale da spingere a dargli aiuto, a sostenerlo”,  come la “triste malvagità incosciente [della vecchia] che sia alza sulla punta dei piedi e allunga il collo fra due soldati per ben vedere.” (Negri 1902, p. 36).

[30]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier 1991; Skulptur 1998.

Anche in altre occasioni lo sguardo di Negri procede oltre la pura documentazione per sottolineare la teatralità delle figure [740, Cappella del Paradiso] o cedere ad una bonaria ironia [361d, Cappella del Paradiso]. Diverso atteggiamento avrà nei confronti di opere bidimensionali come le vetrate o la grande Madonna col Bambino e Santi [48C] di Macrino d’Alba, ripresa più volte nella biblioteca del convento (?) forse anche per ottenerne una riproduzione in tricromia oggi non reperibile, ma che avrebbe potuto far parte delle “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” presentate da Pietro Masoero nel corso della sua conferenza Arte e fotografia tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi il 9 settembre 1901 (citato in “La Sesia”, 13 settembre 1901)

[31]Pubblicata in facsimile in Greco 1969 p. 24. Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.F. Jones e R. A. Streatfeild  donarono a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p. 22, nota 3).

[32] Negri 1902. Il casalese espresse a sua volta  “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65). Gli esiti delle sue ricerche avevano però portato alla  definitiva confutazione delle prime ipotesi formulate da Butler, tanto che al momento della riedizione dei suoi saggi, già comparsi in “The Universal Review”, il suo “esecutore letterario”  R. A. Streatfeild  decise di non ripubblicare la prima parte di A Sculptor and a Shrine. “Had Butler lived he would either have rewritten his essay in accordance with Cavaliere Negri’s discoveries, of which he fully recognized the value, or incorporated them into the revised edition of Ex Voto, which he intended to publish. As it stands, the essay requires so much revision that I have decided to omit it altogether.”, Richard Alexander Streatfeild, Introduction,  in Butler 1913. Per la prima volta nella storiografia artistica dedicata al Santuario, alle ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche, corredate da una articolata  analisi storico-critica delle opere, faceva da riscontro la documentazione fotografica intesa quale ulteriore e specifico strumento d’indagine ma anche – sebbene in misura ridotta per esigenze di economia editoriale – di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating”. Tra 1891 e 1900 le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea (Damonte 1891; Locarni 1900 ) si limitavano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese Negri, e ancora in Crea 1900, il numero unico pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani e altri, la sola cappella documentata era quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già da lui fotografata ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto De Amicis, cfr. Cavanna 1998.

[33] Gli studi sul Moncalvo (Negri 1895-1896) di cui nel 1893 fotografò gli affreschi nella chiesa di San Michele a Candia Lomellina, scat. 61,  figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, confluirono in parte negli scritti dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900.

[34] Carlo Dell’Acqua (1834-1909), Direttore della Regia Biblioteca Universitaria di Pavia dal 1879 al 1883, gli inviava il numero de “Il Ticino”, del 1 marzo 1899 in cui era pubblicato il suo articolo Di Ambrogio Volpi da Casale insigne scultore ed architetto alla Certosa di Pavia (1567-1576) poi recensito da anonimo (Francesco Negri?) ne “L’Avvenire. Gazzetta del Monferrato” del 7 aprile 1899.

[35] Gustavo Frizioni (1840-1919), con cui Negri era in relazione almeno dal 1891, anno in cui gli aveva inviato alcune riproduzioni di dipinti chiedendogli pareri, gli scriveva da Milano il 20 febbraio 1904 “Mentre conservo gratissimo ricordo del capolavoro di Macrino a Crea Le sono riconoscentissimo della fotografia nuovamente mandatami. Mi serve di ottimo riscontro per una grande tavola che è certamente di lui, passata in America sotto il nome di Ghirlandaio.”,  BCCM – Fondo Negri, Corrispondenza.

[36] La relazione epistolare con lo studioso milanese, tra i promotori nel 1901 con Luca Beltrami, Luigi Cavenaghi, Francesco Malaguzzi Valeri, Gaetano Moretti, Corrado Ricci e altri della “Rassegna d’arte”, datava almeno dal 1901 e divenne progressivamente più confidenziale, sino a un colloquiale “tu” nel 1905. Dopo una prima segnalazione dello studioso milanese ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Villata 2000, pp. 144-147) Diego Sant’Ambrogio dedicò a questo tema il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, pubblicato nel “Bollettino della Società per gli studi di storia, d’economia e d’arte nel tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906, cfr. Samek-Lodovici 1946.

[37] Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996. Il Canonico Prof. Colli,  in relazione di studio anche con Luigi Gabotto, aveva da poco pubblicato il volume Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913, e ancora nel 1926 sarebbe tornato a percorrere la scia degli studi artistici di Negri con un saggio dedicato a Il Moncalvo, pubblicato dal Comitato per le Onoranze a Guglielmo Caccia. Nello stesso 1914 Colli e Negri collaborarono a De Amicis et al. 1914. Il sacerdote vercellese Alessandro Rastelli (1883 – 1960), viceparroco a Trino dal 1915, fu il fondatore dell’OFTAL (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes). Le ventiquattro fotografie che costituiscono l’apparato iconografico del volume rappresentavano una novità significativa per l’editoria di soggetto trinese di quegli anni sia per la consistenza e la qualità complessiva sia per la figura dell’autore,  uno dei pochi sacerdoti a praticare la fotografia in quegli anni.  Sono prevalentemente immagini di architettura, complessivamente di buona qualità e tecnicamente ben eseguite, con inquadrature ordinate e precise, perfettamente in linea con i canoni della documentazione fotografica dell’architettura che si erano andati formando nel corso del XIX secolo. La loro precisa applicazione da parte di Rastelli lascia supporre un interesse ed una pratica non occasionali ed anzi ormai ben consolidati all’epoca della realizzazione del volume, e nella stessa direzione ci portano le nitide fotografie di interni, di ancor più difficile realizzazione. In assenza di dati precisi risulta quasi ovvio collocare la formazione fotografica di questo sacerdote proprio in quell’ambiente vercellese da cui proveniva, ricco di professionisti e dilettanti di buon livello quali Pietro Boeri, Pietro Masoero ed Andrea Tarchetti, ma evidentemente non è da escludere un ruolo di supporto e regia svolto dallo stesso Francesco Negri, cui Rastelli scriveva il 6 ottobre 1914, a poco meno di un mese dalla pubblicazione del volume,  per aggiornarlo sull’andamento della campagna documentaria: “Ho fatto invece quella del capitolo (interno) Non so però se potrà servire. Tutt’intorno sacchi e cesti di tagliarisi forestieri, e attorno alla colonna di mezzo trenta cent.[imetri] di paglia, il giaciglio dei medesimi”, ricordando che sarebbe andato “fra alcuni giorni” a fotografare il piccolo quadro dello Spanzotti a Trino, BCCM – Fondo Negri: Manoscritti, cartolina del 6 ottobre 1914. La foto dell’aula capitolare venne poi pubblicata (p.42) e costituisce ora un’importante testimonianza delle condizioni d’uso e soprattutto di vita nelle grange all’inizio del Novecento, mentre non venne utilizzata la riproduzione del “piccolo quadro”, cioè la Madonna col Bambino di Martino Spanzotti nella chiesa trinese di San Domenico, cfr. Cavanna 1996.

[38] Si veda a questo proposito quanto detto in Cavanna 1996, pp. XI- XII.

[39] Cavanna 1985.

[40] Nel Fondo sono conservate anche tre stampe all’albumina 18×24 ca di Secondo Pia, raccolte sotto il titolo Affreschi della Cappella di S. Margherita di Antiochia dell’Abbazia di Crea attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona.

[41] Cfr. Falzone del Barbarò, Borio 1989.

[42] Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, alcune riprodotte eccezionalmente a colori con la tecnica dell’autocromia (1909-1910). Va qui notato  come la serie relativa alla statuaria delle cappelle, realizzata a partire dal 1902, sia  verosimilmente debitrice proprio della pubblicazione del saggio di Francesco Negri.

[43] Le immagini di Crea facevano parte di una serie dedicata alle Chiese della provincia di Alessandria, poi presentata alla Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, cfr. Fotografi del Piemonte, 1977, pp. 29-30.

[44] Gabotto b  1925, p. 82, redatto poco dopo la solenne commemorazione di Negri tenuta a Crea da Oreste Mattirolo, con apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della chiesa. Un primo necrologio era già stato pubblicato nel febbraio dello stesso anno, Gabotto a, 1925.

[45] Come testimonia il pur impoverito Fondo fotografico, Negri ha utilizzato circa 20 formati negativi diversi, sovente corredati di notazioni autografe, dalle lastre 18×24 alle pellicole 17mm, ciò che fornisce indicazioni anche sulla ricchezza e varietà della strumentazione in dotazione, oggi presente nel Fondo in modo scarsamente significativo.

[46] Roster 1899, p. 25, che riprende in forma quasi letterale il concetto – del resto ampiamente condiviso da tutta la cultura di secondo Ottocento – espresso da Jansen dieci anni prima e posto in esergo a questo saggio.

[47] La quasi totale assenza di positivi impedisce – come già abbiamo notato – di valutare compiutamente gli esiti finali del lavoro fotografico di Negri, ciò che comporta l’assumersi il rischio di valutazioni a volte non documentalmente sostenute in modo soddisfacente, ma ci pare di poter ascrivere allo stesso piacere di reinvenzione del reale mostrato dalle esposizioni multiple anche il ricorrere di immagini stereoscopiche in cui la sovrapposizione dei bordi contigui dei due stereogrammi genera affascinanti paesaggi d’invenzione [8e16].

[48] Questo atteggiamento è efficacemente testimoniato dalla piccola serie di riprese ‘rubate’ col teleobiettivo [72A, 824B, 534].

[49] Brevettato nell’ottobre del 1886 dal tedesco Carl P. Stirn.

[50] È stata proprio la fotografia a contribuire a definire in senso moderno, visualizzandolo,  il concetto di istante. Quando nel 1886 Albert Londe – di cui Negri possedeva La photographie moderne, pratique et applications, 1888 – decise di intitolare il proprio volume Photographie instantanée, la comprensione di ciò che questo termine designasse era ancora incerta, tanto più la sua definizione, cfr. Gunthert 2001, p. 66.

[51] Alla definizione di questo nuovo genere che dapprima non prevedeva il riconoscimento di alcuno statuto, contribuirono non poco i milioni di immagini prodotte ad uso personale e destinate ad essere relegate nell’ambito della fruizione privata, da cui riusciranno a emergere e svincolarsi solo  in virtù  della loro natura essenzialmente quantitativa di fenomeno, giungendo poi a contribuire  significativamente all’accrescimento delle modalità linguistiche della fotografia del XX secolo.

[52] Bricarelli 1913, sottolineature dell’autore,  citato in Stefano Bricarelli 2005, p. 15, cui si rimanda per ulteriori riferimenti e citazioni.

[53] Marien 2002, p. 170.

[54] Penso allo Stieglitz newyorkese ad esempio, ma anche alle riprese di  Paul Martin a Londra, come alla sublime leggerezza di Jacques-Henri Lartigue.

[55] Gunthert 2001, p. 72, traduzione di chi scrive, corsivi dell’autore.

[56] Non mi pare che Negri intendesse invece raccontare i protagonisti della scena urbana, come faceva ad esempio Alessandro Perelli a Milano proprio nel 1910-1915, o più tardi Luciano Morpurgo, al di fuori della sua produzione più smaccatamente pittorialista.   Una familiare libertà presente in alcune immagini può semmai  avvicinarlo al Michetti delle foto al mare o all’operare di Giuseppe Michelini a Bologna.

[57] Si trattava di un “un apparecchio di cinematografia” messo in commercio in Italia a partire dal 1912, che consentiva di realizzare su ciascuna lastra  nel formato 9,5×9 84 fotogrammi cadenzati in sequenza a partire dall’alto secondo un ordine che potremmo definire bustrofedico e di cui si sono conservate nel Fondo 7 lastre negative e 40 positive.

[58] Secondo Rictor Norton ad esempio il successo di Bathing Boys, opera del pittore inglese Henry Scott Tuke (1858-1929) fu così folgorante che centinaia di amatori fotografi e pittori corsero a misurarsi con questo soggetto. Per questo due anni più tardi, nel 1890, la Amateur Swimming Association impose che tutti i concorrenti dovessero indossare i pantaloncini da bagno durante le gare,  cfr. Rictor Norton, The Beginnings of Beefcake, https://rictornorton.co.uk/beefcake.htm  (30 11 2022).

[59] Josef Maria Eder, Der Momentphotographie. Wien, 1884, pp.9-10, citato in Gunthert 2001, pp. 80, traduzione di chi scrive.

[60] È del 25 aprile 1892 la prima prova documentata, una veduta di Casale da Sant’Anna “m.1500 40 ist. 4 pom”, forse realizzata ancora con quel rudimentale dispositivo “formato di due tubi di cartone”  che venne poi  esposto all’ammirazione di tutti nella sezione storica della “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” curata da Annibale Cominetti, come si ricava dalla sua lettera di condoglianze inviata al figlio Federico, citata in Gasparolo 1925, pp. 9-19. Nel maggio del 1894 proseguirono le sperimentazioni per il formato 18×24 adottando diverse combinazioni di lenti, successivamente indicate come “Tel. I”, quindi “Tel. II” (lastra 246, 1895), e infine “Tel. III”, con cui riprese nel 1896 un panorama in cinque lastre del Monte Rosa visto dalla cima dello Zebion in Val d’ Ayas,  successivamente stampato da Vittorio Sella intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Due anni dopo la messa in produzione da parte di Koristka (Milano: via Revere 2, poi Piazza d’Armi Vecchia 59, angolo via Bersaglio 2) officina che produceva obiettivi su licenza Zeiss ed era la rappresentante italiana della ditta Haas di Francoforte (Contini 1990, p. 110), il nuovo teleobiettivo, “il primo in Italia, fra i primi nel mondo” (Masoero 1900), venne presentato dallo stesso Negri ai partecipanti al primo Congresso Fotografico Italiano, che si tenne a Torino nel 1898.

[61] Altre serie di immagini riguardano le esposizioni casalesi (1900) e torinesi (1898, 1902). Mentre alla locale esposizione vinicola documenta sistematicamente i padiglioni con i relativi addetti rigorosamente in posa, a Torino Negri si aggira liberamente tra quelle fantastiche e innovative architetture effimere. Qui è un visitatore anonimo, libero di orientare ovunque, inavvertito, la propria curiosità; là era l’avvocato Negri, già Sindaco, notoriamente fotografo.

[62] “Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie” rimproverava Giuseppe Pellizza da Volpedo all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi  in una lettera databile tra 1896 e 1897, citata da Luciano Caramel 1982. Non è escluso che quelle immagini fossero state realizzate dallo stesso pittore, dilettante fotografo, ma va almeno segnalata la presenza nel Fondo Negri, di cui sono note le relazioni di amicizia con Morbelli, di due immagini di risaia [573A, 575A] altrimenti inconsuete per la sua produzione, che potrebbero essere state realizzate proprio su richiesta dell’amico, di cui Negri documentò almeno tre opere: S’avanza (1896), Venduta (1897) e l’Autoritratto con modella (1900-1901). Chiunque ne sia stato l’autore, queste due riprese possono essere considerate le più antiche immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituiscono il primo momento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità, cfr.  Cavanna 2000. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati da  Marisa Vescovo 1982.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, esercitò la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli & Morbelli, 1995.

[63] Toffoletti, Zannier 1990.

[64] Miraglia 1990, pp. 91 nota 124.

[65] “ ‘Veduta’ e ‘panorama’ (…) sono due generi elaborati dalla tradizione manuale della pittura (…) in epoche fra loro diverse e distanti, ma ambedue nati, almeno nelle intenzioni, con l’intento di rappresentare le cose come realmente sono”, mentre il ‘paesaggio’ va inteso “come espressione del sentimento” individuale dell’autore, cfr. Miraglia 2006, pp.15, 19.

[66] Infinitamente 2004.

[67] Sella 2006. È verosimile che tramite della loro conoscenza fosse il Club Alpino Italiano, che nel 1879 aveva designato Negri membro della Commissione di un non meglio specificato “concorso per lavori sulle montagne italiane”, Gasparolo 1925, p. 8.

La stampa, recentemente ritrovata e segnalatami da Daria Jorioz, capo del Servizio Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che qui ringrazio, è una ripresa panoramica in cinque parti del Monte Rosa dal Zerbion (St. Vincent–Ayas), datata 1896 e stampata da Vittorio Sella da “Telefoto Negri Avv. Francesco”.  La versione a contatto di questo stesso panorama compare in una stereoscopia dello studio di Negri [23e29].

[68] Tricromia (detta anche eliocromia indiretta o analitica), metodo indiretto per la realizzazione di immagini fotografiche a colori messo a punto indipendentemente da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron tra 1867 e 1869, poi successivamente modificato. Di ciascun soggetto, di necessità statico, Negri realizzava su lastra tre negativi di selezione utilizzando ogni volta un filtro di colore primario: verde, rosso-arancio e bluvioletto, questo infine abbandonato “perché dannoso, producendo esso negative monotone anziché contrastate, quali occorrono per il monocromo giallo.” Ciascuna lastra veniva successivamente stampata a contatto su “pellicole rigide alla gelatina-bromuro della A.G.F.A. di Berlino, le uniche che non si alterano mai, stante la bontà della celluloide”, trattate con bicromato di potassio e quindi colorate nei tre colori complementari (rosso porpora/magenta, azzurro-verde/ciano e giallo). La sovrapposizione a registro delle tre gelatine colorate restituiva, per sintesi sottrattiva,  i colori del soggetto, perfettamente leggibili per trasparenza, cfr. Negri 1906.

[69] A queste vanno aggiunti gli esemplari conservati in collezione privata, ma le stesse vicende di costituzione del Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato lasciano intendere la possibilità di ulteriori futuri ritrovamenti, cfr. Cavanna 1991.

[70] Negri 1906. Il nove settembre 1901 alcune “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” vennero presentate da Pietro Masoero nel corso della conferenza dedicata ad “Arte e Fotografia”, tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi, cfr. “La Sesia”, 13 settembre 1901. Doveva trattarsi di riproduzioni di dipinti, di cui però oggi si conservano le sole riprese di selezione, non i risultati finali.  Per l’aspirazione al colore nella fotografia di documentazione d’arte cfr. Cavanna 1985.

[71] Cfr. Costantini 1994. Negri visitò l’Esposizione il giorno 23 maggio, realizzando con un apparecchio Vérascope una bella serie di vedute stereoscopiche destinate alla duplicazione in positivo su lastra (per proiezione quindi), cfr.  Cavanna 1994. Prima di questa occasione Negri aveva già preso parte  all’Esposizione Nazionale di Milano organizzata dal Circolo Fotografico Lombardo nel 1894, cui parteciparono anche Grosso, Sella e, tra i professionisti, Masoero e Pietro Santini. All’Esposizione Fotografica Internazionale tenutasi a Firenze in occasione del secondo Congresso Fotografico Italiano (1899) espose con Guido Rey nella sezione dilettanti,  presentando immagini scientifiche, per le quali  gli fu assegnato un “Diploma di medaglia d’argento” di III grado nella classe VI-VII (Scientifica). L’anno successivo prese parte all’Esposizione Fotografica Internazionale organizzata dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina di Torino, presentando “telefotografie e microfotografie”, poste “accanto ai lavori esposti dall’Istituto geografico militare. (…) Presenta il gruppo del Gran Paradiso in 4 pezzi 18×24, senza alcun ritocco e di tale bellezza e nettezza da ritenerlo una veduta diretta; il Ruitor (…) con un ingrandimento di 15 diametri ed a 30 chilometri di distanza. Vi si ammira uno splendido effetto di ghiacciaio. Un gruppo del Monte Bianco ed il Monte Rosa da Riva Valdobbia pure bellissimi.”,  Masoero 1900, pp. 138-139. L’assenza in lui di qualsiasi velleità artistica sembra confermata dalla partecipazione  – nella categoria “B” riservata agli abbonati – alla IV Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica che si svolse a Torino nel 1907, promossa dalla rivista “La Fotografia Artistica”. Qui non presentò alcuna immagine a colori, ma espose vedute di castelli valdostani (Fènis, Ussel, Verrès, Montjovet) e temi valsesiani (Riva Valdobbia, un dipinto nella chiesa di Valdobbio) ma soprattutto  fotomicrografie batteriologiche (polmonite, tubercolosi, tetano, tifo e colera asiatico “da preparazione avuta direttamente dal dott. Koch”), per le quali gli fu assegnato un diploma di medaglia d’argento.  Solo nel 1909, all’Esposizione Nazionale di Fotografia che si tenne a Casale Monferrato  dal 16 al 23 marzo in occasione della Fiera di San Giuseppe, nei locali dell’Accademia Filarmonica Negri presentò  “nove quadretti di fotografie a colori tra cui furono trovati stupendi senza esagerazione, un cespo di rose e tre paesaggi montani.” Ormai a suggello del suo  lungo e qualificato impegno, in quell’occasione gli fu assegnato il “Gran diploma e medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il contributo da lui portato all’arte fotografica.”,  “Il Progresso Fotografico”, 1909, pp.62, 126.

[72] A causa dell’elevata deteriorabilità delle gelatine le tricromie vennero esposte a rotazione, ma ciò nonostante alcune risultarono danneggiate irreparabilmente, verosimilmente per un incidente occorso durante  l’esposizione stessa (3C114 = “Carbonizzata”; 5C114 “Esposizione di Torino 1902. Da giugno a novembre”).

[73] Masoero 1902. La sua maestria in questo settore venne opportunamente celebrata ancora vent’anni più tardi nei necrologi: “Fin dal 1863 il Negri praticò anche la fotografia, sia scientifica, che artistica, nonché di paesaggio: occupò molto tempo, e con mirabili risultati, nella fotografia a colori.”, Gasparolo 1925. “Fotografo valentissimo, tentò, durante gli albori della fotografia a colori, di emulare i professionisti. Eseguì fotografie policrome magnifiche di fiori, frutta e paesaggi che destarono la meraviglia di chi li vide; ma, come per tante altre sue creazioni, una volta congegnate e perfezionate per suo intimo diletto e per la gioia di riuscire, vennero abbandonate nei polverosi scaffali.”,  Gabotto c 1925.

[74] Falcone 1914.

[75] Nel Fondo Negri se ne conserva una ricca collezione, tutte purtroppo separate dai fascicoli originali, ormai perduti.

[76] “Se pubblico queste mie esperienze (…) lo faccio colla speranza di rendermi utile ai colleghi che desiderano occuparsi dell’arduo problema della tricromia.”,  Negri 1906, p. 44. Nella stessa occasione consegnava  alla SFI “anche una serie di belle tricromie” di cui si è persa ogni traccia.

 

 

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Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Toffoletti, Zannier

Riccardo Toffoletti, Italo Zannier, a cura di, Enrico del Torso fotografo (1876 – 1955). Udine: Arti Grafiche Friulane, 1990

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea, periodico del Santuario di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

 

Vescovo 1982

Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  in Angelo Morbelli 1982, pp.21-32

 

Villata 2000

Edoardo Villata, Macrino d’Alba. Alba: Fondazione Ferrero, 2000

 

Warner Marien 2002

Mary Warner Marien, Photography: A Cultural History. London: Laurence King Publishing, 2002

 

Zannier 1979

Italo Zannier, La massificazione della fotografia (1880 – 1899), in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, pp. 85-118

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier, Costantini 1985

Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano: Franco Angeli, 1985

 

 

 

La biblioteca del fotografo

 

Vengono qui repertoriate le pubblicazioni appartenute a Francesco Negri conservate presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, sulla base di una ricognizione effettuata nel 1990-1991; a queste sono state aggiunte (segnalandole con un asterisco) tutte le pubblicazioni fotografiche conservate nella stessa sede edite prima del 1924, data di morte del fotografo, di provenienza diversa o di cui non è documentata l’appartenenza al Fondo Negri.

La consistenza complessiva risulta oggi essere di circa sessanta titoli e certamente non corrisponde pienamente allo stato originario della biblioteca di Francesco Negri non essendo ad oggi reperibili almeno due periodici ed un catalogo documentati da fonti diverse: “The Philadelphia Photographer” del 1869, che compare nel noto ritratto della moglie (FN, 12/B146), “Photographic News” del 1887 a cui Negri fa riferimento in un appunto citato da Fabrizio Celentano (in Colombo 1969, p.120), il catalogo di Joseph Bamfortp ricordato da Ando Gilardi nella stessa monografia ed ancora il fondamentale testo di Alcide Ducos du Hauron del 1869.

 

Anderson 1907

Domenico Anderson, Catalogo, III, Parte prima. Parte seconda.  Roma: Anderson,1907

 

Anderson 1911

Domenico Anderson, I.er supplement au Catalogue general. Première partie. Deuxième partie. Roma: Anderson, 1911

 

Apparecchio 1897

Apparecchio cronofotografico e Kinetoscopio Pasquarelli. Torino: Camilla e Bertolero, s.d.[1897?]

 

Association Belge 1884-1895

“Association Belge de Photographie: Bulletin”, II serie, 11(1884), 15 (1888) – 22 (1895)

 

Aubry 1903

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1903

 

Aubry 1907

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1907

 

Barreswil, Davanne 1854

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimica fotografica; versione del Prof. Giuseppe Ravani. Milano: Libreria Ravani, 1854

 

Barreswil, Davanne 1861

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimie photographique. Paris: Mallet-Bachelier, 1861

 

Blanquart-Evrard 1851

[Louis Désiré] Blanquart-Evrard, Traité de photographie sur papier. Paris: Roret, 1851

 

Bonacini 1897

Carlo Bonacini, La fotografia dei colori. Milano: Hoepli, 1897

 

Borlinetto 1868

Luigi Borlinetto, Trattato generale di fotografia. Padova: Stabilimento Nazionale di P. Prosperini, 1868

 

Bullettino SFI 1900-1911

“Bullettino della Società Fotografica Italiana”, Firenze, 12 (1900) – 18 (1906); 20 (1908) – 21(1911)

 

Buron 1841

[Noël François Joseph] Buron,  Description de nouveaux daguerréotypes perfectionnés et portatifs. Paris: Dondey-Dupré Imprimeurs, s.d. [1841]

 

Burton 1884

William Kinninmond Burton, A B C de la photographie moderne. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Camera Oscura 1864-1865

“La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia per G. Ottavio Baratti”. Milano: Tip. Giuseppe Redaelli, 2 (1864) – 3 (1865)

 

Camera Oscura 1865-1867

“Camera Oscura. Rivista universale dei progressi della fotografia per O. Baratti”, Milano, 3 (1865) – 5 (1866-1867)

 

Chapel d’Espinassoux 1890

Gabriel Chapel d’Espinassoux, Traité pratique de la détermination du temps de pose. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1890

 

Chevalier A. 1876

Arthur Chevalier, L’étudiant photographe. Traité pratique de photographie à l’usage des amateurs. Paris: Eugène Lacroix, s.d. [1876]

 

Chevalier C. 1846

Charles Chevalier, Nouveaux renseignements sur l’usage du daguerréotype. Paris: Chez l’auteur – Palais Royal, 1846

 

Clerc 1899

Louis-Philippe Clerc, La photographie des couleurs; prefazione di Gabriel Lippmann. Paris: Gauthier-Villars, Masson et C.ie, s.d. [1899]

 

Colson 1894

René Colson, La perspective en photographie. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

Corriere Fotografico 1920-1922

“Il Corriere Fotografico”, Milano, 17 (1920) – 19 (1922)

 

Coustet 1913

Ernest Coustet, La fotografia dell’infinitamente piccolo, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.12, dicembre, pp.9-10

 

Daguerre 1839

[Louis J.M Daguerre], Description pratique du procédé nommé le daguerréotype. Gênes: A. Beuf, 1839; allegato: Description des procédés de peinture et d’éclairage inventés par Daguerre, et appliqués par lui aux tableaux du diorama; Projet de Loi

 

Despaquis 1866

Despaquis, Photographie au charbon. Paris: Leiber, 1866

 

Disderi 1862

André-Adolphe-Eugene Disderi, L’art de la photographie. Paris: Chez l’auteur, 1862

 

Ducos du Hauron 1897

Alcide Ducos du Hauron, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie. Paris: Gauthier-Villars, 1897

 

* Egasse 1888

Edouard Egasse, Manuel de photographie au gélatino-bromure d’argent. Paris: Octave Doin, 1888

 

Esposizione Internazionale  1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica – Catalogo. Torino: La Fotografia Artistica, 1907

 

Fabre 1889-1902

Charles  Fabre, Traité encyclopédique de photographie. Paris, Gauthier-Villars et fils, 1889-1902, 7 voll.

 

                Matériel photographique, 1889

II                 Phototypes Négatifs, 1890

III                Phototypes positifs. Photocopies. Photocalques, Phototirages, 1890

IV                Agrandissements. Applications de la photographie,1890

A                 Premier Supplément, 1892

B                 Deuxième Supplément, 1897

C                 Troisième Supplément, 1902

 

 

La Fotografia 1902

La Fotografia e le sue applicazioni alle arti grafiche; supplemento artistico al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1 (1902), n.3/4, marzo-aprile

 

Il Fotografo 1922

“Il Fotografo”, Torino, 4 (1922), n. 11, Novembre

 

Fouque 1867

Victor Fouque, La vérité sur l’invention de la photographie. Nicéphore Niepce, sa vie, ses essais, ses travaux. Paris: Leiber, 1867

 

Girard 1870

Jules Girard, La Chambre Noire et le Microscope. Photomicrographie pratique. Paris: F. Savy, 1870

 

Girard 1872

Jules Girard, Photomicrographie en cent tableaux pour projection. Paris: Gauthier-Villars, 1872

 

Huberson 1879

Gabriel Huberson, Précis de Microphotographie. Paris: Gauthier-Villars, 1879

 

Klary 1888

  1. Klary, L’art de retoucher les négatifs photographique. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1888

 

König 1906

Ernst  König, Natural-color photography. London: Dawbarn & Ward Ltd., s.d. [1906]

 

La Blanchère 1862-1866

Henri de la Blanchère,  Répertoire encyclopédique de photographie: comprenant par ordre alphabétique tout ce qui a paru et paraît en France et à l’étranger depuis la découverte par Niepce et Daguerre de l’art d’imprimer au moyen de la lumière, I, II.  Paris: [Aymot],  s.d. [1862-1866]

 

Lefèvre 1888

Julien  Lefèvre, La photographie et ses applications aux sciences, aux arts et à l’industrie. Paris: Baillière et fils, 1888

 

Le Roux 1902

Marc Le Roux, dir., Annuaire Général et International de la photographie 1901-1902. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1902

 

* Liesegang  1864

Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana dalla quinta tedesca di Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864

 

Londe 1888

Albert  Londe, La photographie moderne: pratique et applications. Paris: G.Masson Éditeur, 1888

 

Lumière 1897

Augusto e Luigi  Lumière, Nozioni sul cinematografo. s. l. : s.n. [1897?]

 

Malley 1883

Abraham Cowley Malley, Micro-photography, including a description of the wet collodion and the gelatino-bromide process. London: H.K.Lewis, 1883

 

Meldola 1889

Raphael  Meldola, The chemistry of photography. London – New York: Macmillan and Co., 1889

 

Miethe 1896

Adolf Miethe, Optique photographique sans développements mathématiques a l’usage des photographes et des amateurs. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1896

 

Moitessier 1866

Albert Moitessier, La photographie appliquée aux recherches micrographiques. Paris: J.B. Baillière et fils, 1866

 

Monckhoven 1859

Désiré van Monckhoven, Répertoire général de photographie théorique et pratique. Planches. [Paris], [A. Gaudin et Frère], 1859

 

Monckhoven 1863

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie. Paris: Victor Masson, 1863

 

Monckhoven 1880

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie suivi d’un chapitre spécial sur le gélatino-bromure d’argent. Paris, G. Masson, 1880

 

Muffone 1887

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti. Milano: Hoepli, 1887

 

*Muffone 1892

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti, seconda edizione rifatta. Milano: Hoepli, 1892

 

*Muffone 1906

Giovanni Muffone, Come dipinge il sole. Fotografia per i dilettanti, sesta edizione riveduta e ampliata. Milano: Hoepli, 1906

 

*Namias 1912

Rodolfo Namias, Carte e viraggi per la fotografia artistica e la carta al pigmento o carbone.  Milano: Il Progresso Fotografico, 1912

 

Notizie Tensi 1913-1914

“Notizie della Società Anonima Tensi Milano”, 1 (1913), n.2;  2 (1914), n.1, suppl. al n.1

 

Paris Photographe 1891-1894

“Paris Photographe”, 1 (1891) 4 (1894)

 

Phipson 1864

Thomas Lamb Phipson, Le préparateur-photographe ou traité de chimie a l’usage des photographes.  Paris: Leiber, 1864

 

La Photographie 1908-1909

“La Photographie. La Photographie des Couleurs et la Revue des sciences photographiques et leurs applications réunies”, N.S., 1 (1908) – 2 (1909)

 

La Photographie des couleurs 1906-1907

“La Photographie des Couleurs: Revue Mensuelle”, 1 (1906), n.2, Août – 2 (1907), n.7, Juillet

 

Piquepé 1881

Paul Piquepé, Traité pratique de la retouche des clichés photographiques suivi d’une méthode très détaillée d’émaillage et de formules et procédés divers. Paris: Gauthier-Villars, 1881

 

Reichardt, Stürenburg 1868

Oscar Reichardt, Carl Stürenburg, Lehrbuch der Mikroskopischen Photographie. Leipzig: Quandt & Händel, 1868

 

Rivista Scientifico – Artistica 1893-1897

“Rivista Scientifico – Artistica di Fotografia”. Bollettino del Circolo Fotografico Lombardo, 1 (1893) – 6 (1897)

 

Roster 1893

Giorgio Roster, Note pratiche su la telefotografia. Firenze: Salvatore Landi, 1893

 

Roster 1899

Giorgio Roster, Le applicazioni della fotografia nella scienza. Conferenza, estratto dagli “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 15-19 maggio 1899). Firenze: Tip. M. Ricci, 1899

 

Rouillé-Ladevèze 1894

Auguste Rouillé-Ladevèze, Sépia-photo et sanguine-photo. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

*Sassi 1897

Luigi Sassi, Le proiezioni. Materiale – Accessori – Vedute a movimento- Positive sul vetro- Proiezioni speciali policrome, stereoscopiche, panoramiche, didattiche, ecc. Milano: Hoepli, 1897

 

Sassi 1905

Luigi  Sassi, La fotografia senza obiettivo. Milano: Hoepli, 1905

 

* Sassi 1912

Luigi Sassi, Immagini fotografiche a colori. Ottenute con sviluppi e viraggi su carte all’argento e su diapositive. Milano: Hoepli, 1912

 

* Sassi 1917

Luigi Sassi, I primi passi in fotografia. Milano: Hoepli, 1917

 

*Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tip. G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Spiller 1883

Arnold Spiller, Douze leçons élémentaires de chimie photographique. Paris: Gauthier-Villars, 1883

 

Sternberg 1883

George Miller Sternberg, Photo-Micrographs and how to make them. Boston: James R. Osgood and Company, 1883

 

*Thierry 1847

Jean Pierre Thierry, Daguerréotypie. Edition augmentée par l’auteur de la description rigoureuse duprocédé dit Americain et de son emploi facile avec sa composition d’iode. Paris: Lerebours et Secretan, 1847

 

*Valicourt 1851

Edmond de Valicourt, Nouveau manuel complet de photographie sur métal, sur papier et sur verre. Nouvelle édition. Paris: Roret, 1851

 

Vidal 1884

Léon Vidal, Calcul des temps de pose et tables photométriques. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Vidal 1885

Léon  Vidal, Manuel du touriste photographe, I, II. Paris: Gauthier-Villars, 1885

 

Vogel 1887

Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objets colorés avec leurs valeurs réelles. Paris: Gauthier-Villars, 1887

 

 

Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

Bibliografia di riferimento

 

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Annuario della fotografia artistica 1921: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1920

 

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Annuario della fotografia artistica 1922 – 23: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1921

 

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Anonimo, Un precursore italiano della stereoscopia,  “Il Corriere Fotografico”, 19 (1923), n. 12, dicembre

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L’Arte della fotografia alla terza Mostra internazionale delle arti decorative, catalogo della mostra (Monza,  Villa Reale), maggio – ottobre 1927. Milano: A. Rizzoli & C., 1927

 

Arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia : prima Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, Palazzo del Giornale al Valentino, primavera 1923). Milano – Roma : Bestetti & Tumminelli, 1923

 

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Berengo Gardin 1982

Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo. Dieci anni di “Occhio quadrato” 1938/1948. Firenze: Alinari, 1982

 

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Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, pp. 641 – 643

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, 1928-VII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1928, pp. XI-XVI

 

Bernardi 1954

Marziano Bernardi, Un po’ di Piemonte, Torino, S.E.I., 1954

Boggeri 1929a

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.8, agosto, pp.557- 564

Boggeri 1929b

Antonio Boggeri, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1929-VIII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1929, pp. XIV-XVI

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi.  Milano: Hoepli, 1935

 

Borhan 1998

Pierre Borhan, André Kertész. Lo specchio di una vita. Milano: Federico Motta, 1998 (ed originale, André Kertész. La biographie d’une œuvre. Paris: Editions du Seuil, 1994)

 

Brezzo 1924

Guido Lorenzo Brezzo, Sfogliando “Luci ed Ombre” 1924. Impressioni di un profano, “Il Corriere Fotografico”, a21 (1924), n. 10, ottobre, p. 151

 

Brezzo 1926

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1926-V annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico, 1926, pp. XI-IXX

 

Brezzo 1927

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp. 201-204

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.11, novembre, pp. 777- 780

 

Brezzo 1930

Guido Lorenzo Brezzo,, Luci ed Ombre 1930, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n.11, novembre, pp.774- 778

 

Brezzo 1931

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1931-X annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1931, pp. IX-XV

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1934-XIII  annuale. Torino:Edizioni del Corriere Fotografico, 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1988

Carla Bricarelli, Stefano Bricarelli, un’intervista, “Fotologia”, 5 (1988), vol.9, maggio, pp. 29-35

 

Bricarelli 1914

Carlo Bricarelli S.J., Ottica fisica e ottica artistica. Roma: Civiltà Cattolica, 1914

 

Bricarelli 1924

Carlo Bricarelli S.J., La fotografia è capace di estetica?, “Luci ed Ombre”, 1924, pp. 5-8

 

Bricarelli 1912

Stefano Bricarelli, La fotografia artistica all’Esposizione di Torino 1911, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 1 gennaio, pp. 1791-1797

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, a. X, n. 8 agosto 1913, pp. 172255 – 2260

 

Bricarelli 1920

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1920, pp. 26-27

 

Bricarelli 1921

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1921, pp. 30-31

 

Bricarelli 1922

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1922, pp. 31-32

 

Bricarelli 1923

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1923, pp. 22-23

 

Bricarelli 1924

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1924, pp. 19-20

 

Bricarelli 1925

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1925, pp. 20

 

Bricarelli 1954

Stefano Bricarelli, Foto Annuario Italiano 1954, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954). n. 18, marzo, pp. 25-28

 

Bricarelli 1955

Stefano Bricarelli, Guido Rey, “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 29, aprile, pp. 22-29

 

Bricarelli 1956a

Stefano Bricarelli, Dilettantismo e professionismo fotografico in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 39, aprile, pp. 21-23

 

Bricarelli 1956b

Stefano Bricarelli, Storia di un Laboratorio, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 44, ottobre, pp. 37-41

 

Bricarelli 1958

Stefano Bricarelli, Visioni di Torino. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1958

 

Bricarelli 1968

Stefano Bricarelli, L’auto è femmina. Vent’anni di stile carrozziero a Torino nelle fotografie di Stefano Bricarelli. Torino: Motor Italia, 1968

 

Bricarelli 1975a

Stefano Bricarelli, Quando sugli oceani si andava navigando, “Motor Italia”, 75 (1975), n. 100,  pp. 82-90

 

Bricarelli 1975b

Stefano Bricarelli, Ritorno al 1936, qualche flash-back in U.S.A., “Motor Italia”, 75 (1975), n. 101, pp. 56-65

 

 

Bricarelli 1976

Stefano Bricarelli, Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta. Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1976

 

Bricarelli 1979

Stefano Bricarelli, Gli occhi della memoria. Milano: Automobilia, 1979

 

Bricarelli, Brezzo 1923

Stefano Bricarelli, Guido Lorenzo Brezzo, La nostra parte, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1923- II annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico 1923, pp. V-VII

 

Buffa, Ortoleva 1994

Cristiano Buffa, Peppino Ortoleva, Lingotto. Luogo. Simbolo, in Olmo 1994, pp. 151-192

 

Callari Nestri 1955

Febo Callari Nestri, La nuova fotografia industriale; fotografie di Stefano Bricarelli,  “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 30, maggio, pp. 20-28

 

Campari 1976

Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976

 

Caorsi 1982

Gigi Caorsi, Stefano Bricarelli fotografo e giornalista [intervista], “Piemonte vivo”, 16 (1982), n. 2, aprile, pp. 44-49

Carafòli 1957

Mario Carafòli, «Ciociaria 1956», Lettera aperta a un giovane, “Il Corriere Fotografico”,  54 (1957), n. 52, luglio, pp. 19 -21

 

Cartier-Bresson 1952

Henri Cartier-Bresson, Images à la Sauvette. Paris: Éditions Verve, 1952

 

Cartier-Bresson 1955

Henri Cartier-Bresson, Les Européens. Paris: Éditions Verve, 1955

 

Castruccio 1922

Giuseppe Castruccio, Come riuscire in fotografia. Milano: Il Corriere Fotografico, 1922

 

Cavanna 2003a

Pierangelo Cavanna, “La Fotografia Artistica”, in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895 – 1920.  Milano: Unicredit, 2003, pp. 166-167

Cavanna 2003b

Pierangelo Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp.40-116

 

Circolo Sciatori 1941

Circolo Sciatori Torino, Annuario 1941. Torino: Impronta, 1941

Colombo 2003

Cesare Colombo, a cura di, Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Torino: Agorà Editrice, 2003

Colombo 2004

Cesare Colombo, a cura di, Ferrania. Storie e figure di cinema & fotografia.  Novara: De Agostini, 2004

 

Costantini 1987

Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

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Pierangelo Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858 – 1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837 – 1898, catalogo della mostra (Torino 2003 – 2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003, pp. 79-98

 

Ceresa, Mosca, Siccardi        2001

Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei Civici di Torino. Inventario 1862-1965. Torino: Città di Torino, 2001

 

Challe 1996

Daniel Challe, Eugène Cuvelier ou le légendaire de la forêt, in Gauss 1996, pp. 16-66

 

Challe, Marbot 1991

Daniel Challe, Bernard Marbot, Les photographes de Barbizon. La forêt de Fontainebleau. Paris: Hoëbeke – Bibliothèque Nationale, 1991

 

Chauvet 1901

Charles Chauvet, Le manoir des Comptes de Challant à Issogne (Vallée d’Aoste),  “L’Art pour tous. Encyclopedie de l’Art industriel et décoratif”, Paris,  40 (1901), n. 187, juillet

 

Collegio Architetti 1887

Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

La Contessa di Castiglione 2000

La Contessa di Castiglione e il suo tempo, catalogo della mostra (Torino, 2000), a cura di Martina Corgnati, Cecilia Ghibaudi. Milano: Silvana Editoriale, 2000

 

Corot 1994

Jean-Baptiste Camille Corot. Un sentimento particolare del paesaggio, catalogo della mostra (Lugano, 1994), a cura di Manuela Kahn-Rossi. Lugano – Torino: Museo Cantonale d’Arte – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Cox 1991

Julian Cox, ed., Ffotograffiaeth Cymreig Cynnar – Early Welsh Photography, “History of Photography”, 15 (1991), n. 3, autumn

 

Cremona 1946

Italo Cremona, Disegni di Vittorio Avondo. Torino: Collezione del Bibliofilo, 1946

 

Cristofari 1992

Roberta Cristofari, Poppi, Pietro (1833 – 1914), in Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografie fotografia a Bologna 1839 – 1900. Bologna: Grafis, 1992, pp.276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Franco Cristofori, Giancarlo Roversi, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia. Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of  édouard Baldus. New York – Montreal: Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

De Rosa, Trastulli 1988

Pier Andrea De Rosa, Paolo Emilio Trastulli, I pittori Coleman. Roma: Studio Ottocento, 1988

 

Di Macco 1997

Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-58

 

Dini 1997

Francesca Dini, Telemaco Signorini, l’uomo e l’artista, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra  (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 267-274

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del medioevo torinese fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra Medioevo e Rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale. Torino: Archivio storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Donghi 1891

Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891

 

Dragone 1973

Angelo Dragone, Lorenzo Delleani. La vita, le opere, il suo tempo. Biella: Cassa di Risparmio di Biella, 1973-1974

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865 – 1895. Torino: Banca CRT, 2000

 

Dragone 2001

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830 – 1865. Torino: Banca CRT, 2001

 

Esposizione  1880

IVa Esposizione Nazionale di Belle Arti, Catalogo degli oggetti componenti la Mostra di Arte Antica. Torino: Vincenzo Bona, 1880

 

Esposizione  1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione  1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Carlo Duroni. Banco di beneficenza, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna 1773 – 1861, catalogo della mostra (Torino, 1980), a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci. Torino: Regione Piemonte – Provincia di Torino – Città di Torino, 1980, II, sch. n. 1121, p. 928

 

Falzone del Barbarò  1989

Michele Falzone del Barbarò, La calotipia in Toscana: origini e protagonisti inediti, in Alle origini della fotografia 1989, pp. 31-56

 

Falzone del Barbarò  2000

Michele Falzone del Barbarò, Ambasciate e corti, in La Contessa di Castiglione 2000, sch. n. 1.34, pp. 132

 

Falzone del Barbarò, Borio  1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886 – 1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Ferro  1999

Francesca Ferro, Vittorio Avondo e la grafica, tesi di laurea in Storia dell’Arte moderna, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 1998 – 1999

 

Forrer  1896

Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassburg: Fritz Schlesier, 1896

 

Fotografi del Piemonte         1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Frisoni  1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte Sacra in San Francesco : recupero di una documentazione fotografica, in “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, a cura di Corinna Giudici. Bologna: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, 1998, pp. 35-41

 

Frizot  1994

Michel Frizot, Blanquart-Evrard éditeur de photographies, in Id., a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , p. 83

 

Galassi  1989

Peter Galassi, Before Photography: Painting and the Invention of Photography. New York: The Museum of Modern Art, 1981 (ed. Italiana, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia. Torino: Bollati Boringhieri, 1989

 

Galassi  1994

Peter Galassi, Corot in Italia. La pittura di plein air e la tradizione del paesaggio classico. Torino: Bollati Boringhieri, 1994

 

Gasparini  2005

Laura Gasparini, La raccolta delle carte salate della Scuola Romana di Fotografia dell’Istituto Statale d’Arte “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia, in Un Museo ritrovato. Il patrimonio dell’Istituto d’Arte Chierici restituito alla città, catalogo della mostra (Reggio Emilia, 2005). Reggio Emilia, Musei Civici / Litograph, 2005, pp. 81-89; 206-226

 

Gauss  1996

Ulrike Gauss, a cura di, Eugène Cuvelier 1839 – 1900. Stuttgart/ Ostfildern-Ruit: Staatsgalerie / Cantz Verlag, 1996

 

Gelao  1999

Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 33-47

 

Gentile  2001

Guido Gentile, Importazioni di opere e migrazioni di artisti lungo le vie delle Alpi, d’Alemagna e delle Fiandre, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Enrica Pagella. Torino: Museo Civico d’Arte Antica, 2001, pp. 114-116

 

Giacosa  1884

Giuseppe Giacosa, Notizie storiche intorno alla famiglia di Challant, in Castello d’Issogne 1884

 

Giacosa  1898

Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898

 

Giacosa  1968

Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968

 

Giudici  2004

Corinna Giudici, a cura di, C’era due volte. Fondi fotografici e patrimonio artistico. Bologna: SPSAD / Minerva Edizioni, 2004

 

Giusa  1995

Antonio Giusa, Fotografi e fotografie della S.A.F., “Immagine e cultura”, 2 (1995), n.2, marzo, pp.22-33

 

Grabaudi, Falzone  1979

Elisa Gribaudi Rossi, Michele Falzone del Barbarò, Carnet di ballo. Milano: Longanesi & C., 1979

 

Griseri, Gabetti  1973

Andreina Griseri, Roberto Gabetti, Architettura dell’eclettismo: un saggio su Giovanni Battista Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

Grohn 1971

Hans Werner Grohn, L’opera completa di Holbein il giovane. Milano: Rizzoli, 1971

 

Heilbrun  2004

Françoise Heilbrun, Paesaggio e natura. Milano: 5 Continents Editions, 2004

 

Heilbrun, Néagu  1986

Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Musée d’Orsay. Chefs-d’œuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers – Réunion des musées nationaux, 1986

 

L’immagine rivelata  1998

L’immagine rivelata. 1989. Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Invention  1989

L’invention d’un regard (1839 – 1918), catalogo della mostra (Parigi, 1989), a cura di, Françoise Heilbrun, Bernard Marbot, Philippe Néagu. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 1989

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento 1839/ 1859. Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Roma, Firenze, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Italien  1994

Italien. Sehen und Sterben. Photographien der Zeit des Risorgimento, catalogo della mostr (Colonia, 1994), a cura di Bodo von Dewitz, Dietmar Siegert. Köln: Agfa Foto-Historama, 1994

 

Jammes  1981

Isabelle Jammes, Blanquart- évrard et les origines de l’édition photographique française: catalogne raisonné des albums photographiques édités 1851 – 1855. Genève: Droz, 1981

 

Jammes, Parry Janis  1983

André Jammes, Eugenia Parry Janis, The Art of French Calotype. Princeton: Princeton University Press, 1983

 

Krauss  1996

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

In the Light of Italy  1996

In the Light of Italy. Corot and Early Open-Air Painting, catalogo della mostra (Washington, Brooklyn, Saint Louis, 1996 – 1997), a cura di Peter Galassi. Washington: National Gallery of Art, 1996

 

Maccaferri, Sergi  1986

Gianfranco Maccaferri, Fortunato Sergi, a cura di, 1870 – 1940. I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

Maggio Serra  1977

Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte 1977, pp. 17-20

 

Maggio Serra  1979

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Galleria Civica d’Arte Moderna. Acquisizioni 1971 – 1978. Torino: Città di Torino – Assessorato per la cultura – Musei Civici, 1979

 

Maggio Serra  1981

Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 19-43

 

Maggio Serra  1988

Rosanna Maggio Serra, Il vero e il paesaggio in Piemonte: vent’anni di polemiche e dibattiti, in Il Secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero,  catalogo della mostra (Milano, 1988), a cura di Renato Barilli. Milano: Mazzotta, 1988, pp. 90-104

 

Maggio Serra  1993

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  L’Ottocento. Catalogo delle opere esposte. Milano: Fabbri Editori, 1993

 

Maggio Serra  1994

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Repertorio delle opere su carta acquisite per la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino 1982 – 1992.  Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Maggio Serra  1997

Rosanna Maggio Serra, Qualche novità su Avondo pittore. Studi sul fondo di disegni e dipinti della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 61-93

 

Maggio Serra  2003

Rosanna Maggio Serra, L’arte in mostra nella seconda metà dell’Ottocento, in Umberto Levra, Rosanna Roccia, a cura di, Le esposizioni torinesi 1805 – 1911,. Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 297-322

 

Maggio Serra, Signorelli 1997

Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Nuova Serie – Atti – v. IV, 1997

 

Mallè  1970

Luigi Mallè, I Musei Civici di Torino. Acquisti e Doni 1966 – 1970. Torino: Museo Civico di Torino, 1970

 

Marbot  1991

Bernard Marbot, Les photographes oubliées de la  forêt de Fontainebleau, in Challe, Marbot 1991 , pp. 14-18

 

Margiotta  2003

Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, in Roma 1850 2003 , pp. 28-34

 

Mario Gabinio  1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Mario Gabinio  2000

Mario Gabinio. Valli piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2000

 

Mascia  2000

  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Un’astratta fedeltà: le campagne di documentazione fotografica 1858-1898 (2001)

in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898.Torino: Umberto Allemandi, 2001, pp. 79-98

 

 

Quando, nel 1865, Antonio Perini pubblica il suo album dedicato alle collezioni della Regia Armeria si premura di esplicitarne le ragioni e i modi: “Per far conoscere i pregi di tanti capolavori – afferma nell’introduzione –  la descrizione è inefficace, mentre nessun altro mezzo è più opportuno della fotografia, la quale con fedeltà pressoché matematica riproduce eziandio i meno spiccati dettagli.”[1] Questo richiamo ai pregi caratteristici del nuovo mezzo è interessante non tanto per la sua eccezionalità quanto, al contrario, per il suo essere conferma di un pensiero preciso e di un atteggiamento di chiara coerenza metodologica che era comune ai migliori esponenti della cultura fotografica dei decenni immediatamente successivi alla sua invenzione. La “fedeltà” cui si richiama Perini non è altro che la riproposizione pressoché letterale di quella  “precisione quasi matematica” di cui aveva parlato Arago[2] a proposito del dagherrotipo in occasione della sua presentazione nel 1839, ora confermata e accresciuta della consapevolezza che derivava ai fotografi dalla riflessione attenta sulle possibilità linguistiche offerte dalle diverse tecniche a disposizione, ben esemplificata dal lucidissimo testo che Benjamin Delessert[3] premette ai propri fascicoli di riproduzioni fotografiche delle incisioni di Marcantonio Raimondi, nel 1853.

La documentazione archivistica non ci ha restituito sinora le ragioni che portarono Perini a lavorare a Torino, impedendoci quindi di ricostruire appropriatamente la genesi, le motivazioni e le condizioni del suo operare: non siamo quindi in grado per ora di stabilire se si sia trattato  di un esempio precocissimo di strategia celebrativa e comunicativa da parte della Direzione dell’Armeria, attuato facendo ricorso ad una tecnologia più innovativa ma considerata ancora per certi versi inaffidabile, oppure – come appare più probabile – di un’iniziativa dello stesso fotografo editore; questa seconda ipotesi però, oltre a testimoniare l’ormai raggiunta notorietà della collezione sembra corrispondere meglio all’intenzione espressa dallo stesso Perini nella presentazione del facsimile del Breviario Grimani (1862), di voler operare “non tanto per servire alla dotta curiosità dei ricercatori, quanto perché se ne potessero giovare le arti del disegno”, proponendo armi e armature quali modelli d’arte, illustrati con una sequenza che risulta priva di caratterizzazioni tematiche o tipologiche sebbene sia aperta dall’efficace confronto visivo, di preciso valore critico,  tra la statua di Bartolomeo Colleoni che il Verrocchio realizza per Venezia e l’armatura equestre B5;  una proposta di lettura che rivela, oltre le analogie formali, il permanere del significato politico del monumento equestre, implicito anche nella sua forma apparentemente più neutra di puro artificio ostensivo. Tale suggestione sottile, verosimilmente da attribuirsi allo stesso Perini sebbene la statua del Colleoni non risulti compresa nel sommario delle figure, contrasta radicalmente con le scelte operate nella preparazione delle tavole successive, con gli oggetti collocati in uno spazio astratto, completamente scontornati, privi di sostegni o appoggi e senza alcuna traccia di sfondo, soluzione che concentra tutta l’attenzione sull’opera e ne cancella il contesto, lo spazio della Galleria Beaumont, la cui descrizione è demandata alla prima tavola, ancora fuori numerazione. Così facendo, con la mascheratura e con il ritocco il fotografo rifiuta di fatto il valore di traccia della fotografia e ripropone con nuovi strumenti la tradizione rappresentativa delle arti del disegno, solo apparentemente liberata da ogni intenzionalità interpretativa: accade cioè che l’autore si affidi alla fotografia per la sua riconosciuta possibilità di fedeltà oggettiva nella descrizione dell’opera, disconoscendo però le conseguenze del suo stesso operare nel trattamento generale della tavola, in quel vuoto assoluto intorno all’opera che costituisce l’elemento di continuità con le raffigurazioni precedenti. Sulla stessa pagina convivono lo spazio concreto, referenziale, del corpo dell’armatura e lo spazio astratto, disegnato, del segno manuale del ritocco, secondo una formula che ritroveremo ancora, sostanzialmente immutata, in altre rilevanti imprese successive.

Proprio la volontà di garantire la fedeltà al modello, piuttosto che la possibilità di “riproducibilità” offerta dal nuovo mezzo,  è ciò che porta a scegliere e poi a privilegiare sempre più la fotografia quale tecnica di “riproduzione”. è questa necessità di verosimiglianza che aveva indotto Primo Feliciano Meucci a disegnare nel 1860-61 “varii oggetti della Galleria (…) valendosi del prisma[4] attalché l’effigie ne riuscì più che perfetta”, ma anche ad adottare per alcune tavole una modalità descrittiva “a figure piene” e non a linee di contorno come era nella tradizione neoclassica, tanto da portare l’allora Direttore Actis a sottolineare come in quelle prove “la somiglianza al vero [fosse] insuperabile.”[5]

Nei lunghi mesi in cui Meucci lavorava a produrre le sue prime lastre incise, la fotografia aveva già fatto la propria comparsa quale tecnica di riproduzione degli oggetti dell’Armeria. Risale infatti al 1860 circa la prima documentazione fotografica, oggi nota dagli esemplari conservati all’Accademia Albertina: un insieme di trentasei riprese, integrate da altre non riferibili ad opere della stessa collezione,  in parte anonime e in parte realizzate da Francesco Maria Chiapella[6] da cui è stato ricavato un insieme di sessantuno stampe, verosimilmente commissionate o acquistate a scopo didattico, come lascia supporre la presenza di più copie della stessa lastra e la scarsa cura della presentazione e del montaggio, quasi sempre con supporti a profili irregolari. Esse costituiscono la prima testimonianza della fortuna fotografica del tema e dell’inversione di tendenza nella scelta del mezzo di traduzione, ulteriormente confermata, pur con accenti diversi, dalle copie fotografiche di alcuni disegni di Pietro Ayres, tra cui uno dell’armatura Martinengo B5, che Balbiano d’Aramengo[7] realizza negli stessi anni, riproduzioni alle quali sembra potersi riferire la lettera di Seyssel d’Aix ad Ayres del 15 aprile 1866 in cui richiede di verificare i tempi necessari all’esecuzione di 12 disegni per  la realizzazione “della prima parte dell’Album Fotografico per l’illustrazione della R. le Galleria”.[8]

In questa prima campagna fotografica di Chiapella e di autore anonimo l’elemento caratterizzante, specialmente evidente per confronto con le successive, è dato dalla scelta dei soggetti: vengono infatti fotografate molte armi da fuoco (un terzo del totale), con particolare attenzione agli aspetti decorativi in genere e in particolare per i due archibugi M12 e M11, quest’ultimo soggetto anche di un grande disegno acquerellato sostanzialmente coevo ora attribuito a Meucci,  la cui  ricca lavorazione a intarsio in avorio, argento e oro “di sorprendente bellezza, cioè fogliami, volute, animali, chimere, isolati o posti a contorno od ornamento di figure e di storie.”[9] costituiva un caso esemplare di modello didattico.

Mentre con Chiapella e poi Perini, e non considerando il progetto Seysell a cui collabora Balbiano d’Aramengo,  le opere si configurano come “illustrazione” delle eccellenze del patrimonio dell’Armeria, al più corredate di notizie tratte dal precedente catalogo, il lavoro di Isaia Ghiron, Iscrizioni arabe della Reale Armeria. Firenze: Le Monnier, 1868, con otto tavole con stampe all’albumina di sciabole, archibugi, armature ed elementi delle stesse, costituisce il primo esempio di studio analitico di un importante settore del museo corredato di sistematica documentazione fotografica, sulla scia di produzioni editoriali analoghe e ormai di una certa diffusione: basti pensare al volume  che nel 1865 Angelo Angelucci, aveva dedicato a Le armi di pietra donate da S.M il Re Vittorio Emanuele II al Museo Nazionale d’Artiglieria. Torino: Tip. Cassone & Comp., corredato da una tavola f.t. con 3 stampe all’albumina anonime.

Sono gli anni in cui si afferma la notorietà dell’istituzione: mentre la tavola di apertura dell’album di Perini con la veduta della Galleria Beaumont avrà funzione di contestualizzazione delle opere presentate nei fogli successivi, la ripresa dello stesso soggetto realizzata dal francese Charles Marville nel 1858-1859 è la prima a testimoniare fotograficamente l’inserimento della prestigiosa sede museale tra i luoghi rimarchevoli della città, insieme con Palazzo Reale e Palazzo Madama, piazza San Carlo, la chiesa della Gran Madre di Dio, il Monte dei Cappuccini e la basilica di Superga; scelta ancora anomala e suggerita forse dal concomitante impegno del fotografo francese nella documentazione del patrimonio artistico della Biblioteca Reale[10].

Quando nel 1874 si apre a Milano l’Esposizione Storica d’Arte Industriale la “Classe V – Armi e Armature”, curata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli (dalla cui collezione provengono molte delle armi esposte) e da Walter Craven[11], comprende numerosi esemplari provenienti dalle collezioni della Regia Armeria, per la prima volta esposti al di fuori della sede torinese. Scopo dell’iniziativa, legata all’istituzione a Milano di un Museo d’Arte Industriale, era quello di “formare il gusto degli operai”[12]  e di “accrescere il corredo di buoni disegni che devono essere la prima dotazione del Museo levando copia degli oggetti esposti più rimarchevoli e più degni di studio e d’esempio ai nostri artefici”[13], ragione per cui viene richiesta l’autorizzazione a riprodurre gli oggetti esposti “in fotografia o a matita”, con l’intenzione di vendere poi le fotografie a prezzo di costo[14]. Frutto di questa partecipazione e della concessione alla riproduzione delle opere è la realizzazione di una “stupenda collezione delle fotografie” costituita dalle “riproduzioni degli oggetti di quest’Armeria [e] delle fotografie delle altre armi e armature state costì esposte da altri proprietari”[15],  che risulta pervenuta in Armeria in data 2 maggio 1875, ma di cui si è perduta sinora ogni traccia.[16]

Di pochi anni più tarda deve essere la cartella dedicata A S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II Re d’Italia/ Omaggio/ di A. Pietrobon/ di/ Venezia[17], forse prodotta dal fotografo, già attivo a Firenze, per ottenere il privilegio regio di cui si fregiava nella città toscana, ma che il confronto ha consentito di verificare come realizzata con stampe ricavate dalle lastre realizzate da Antonio Perini per l’album del 1865.  In questa nuova versione, che comprende anche una Veduta generale della sala d’armi firmata in lastra all’angolo inferiore sinistro, “A. Pietrobon & C./ Torino”,  gli oggetti non sono identificati né con sigla né con numero, ma i cartoni riportano al verso un’identificazione più tarda corrispondente al catalogo Seyssel d’Aix del  1840, evidentemente assegnata dopo l’ingresso dell’album nelle collezioni reali; sebbene non si tratti di una produzione ex novo va rilevato come l’edizione Pietrobon oltre a confermare il prestigio e la notorietà della collezione, si segnali per la presenza di stampe di grande qualità ed efficacia, specialmente per il bel viraggio nero violaceo all’oro che valorizza l’uso  accorto delle luci che fu di Perini.

È questo il decennio che segna anche l’avvio del progetto del nuovo catalogo della Regia Armeria, affidato nel 1873 al maggiore Angelucci,  e proprio per la sua illustrazione pare riaprirsi il confronto, in forme più pragmatiche, tra incisione e fotografia, forse influenzato dall’esperienza della partecipazione all’Esposizione milanese. Sappiamo dalla corrispondenza tra Seysell d’Aix e lo stesso Angelucci che sin dal 1874 almeno si pensava ad un catalogo illustrato da tavole fotografiche fuori testo, sul modello di esempi noti e di precedenti realizzazioni torinesi di diverso impegno: da Ghiron allo stesso Angelucci al Le Lieure di Turin ancien et moderne, sebbene forti fossero le perplessità rispetto alla permanenza ed alla stabilità dell’immagine[18]  e soprattutto proibitivi i costi: “Anche in me nacque il dubbio ch’esse non sieno durevoli – scrive il Direttore – ma disgraziatamente v’è un male ben maggiore, cioè la spesa a cui montano di 200 fotografie per n.° 2000 esemplari al prezzo ristretto di otto centesimi caduna che forma la piccola bagatella di lire trentaduemila.”[19] Ecco allora farsi avanti l’ipotesi di utilizzare la fotografia non in forma diretta ma quale modello intermedio per la realizzazione delle incisioni, scelta che porta a commissionare a Giovanni Battista Berra, titolare dell’importante studio Fotografia Subalpina “di fotografare mezz’armatura di Antonio Martinengo riposta in una delle nuove vetrine ed  i moschetti a ruota di Eman.le Filiberto che proverò poscia di far incidere sul legno dal Salvioni o dal Monaret.”[20] Le riprese vengono realizzate nei giorni immediatamente successivi, decidendo però di sostituire i moschetti con “due dei nostri più ricchi elmi” e le stampe, giudicate “discrete” sono inviate all’incisore “Meunier di Parigi, quello stesso che fece i clichets [sic] dell’opera di Lacombe [Les Armes et les Armures] onde conoscere se bastano per bene incidere sul legno e quanto costerebbe cadun clichet.”[21] Pochi mesi dopo risultano spese L. 2500 per 400 incisioni su legno “da stamparsi nel nuovo catalogo” e L. 200 per “fotografie per l’esecuzione di dette incisioni”[22].

Successivamente a queste commesse Berra otteneva da Valfré di Bonzo “la facoltà di fotografare l’insigne collezione”, forse utilizzando in parte le riprese su lastra al collodio già realizzate, e nel settembre 1882 a compimento del proprio impegno offre “in attestato di omaggio la raccolta delle fotografie da me testè condotta a termine”[23], cioè i due volumi dedicati alla Regia/ Armeria/ di/ Torino[24], con stampe all’albumina[25], che il fotografo dona anche alla Biblioteca del Re. Non possiamo escludere che questa scelta sia stata dettata a Berra da un intento puramente promozionale, destinato a consolidare definitivamente il proprio ruolo di preminenza nell’ambito degli studi fotografici torinesi impegnati nella documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, ma va ricordato che questi soggetti godevano di ampio interesse in quegli anni e che le stampe relative erano commercializzate dal suo studio anche in forma non rilegata, come dimostra la raccolta completa proveniente dall’archivio di Adolfo Coppedé[26].  Mentre l’apertura del primo volume con la veduta della Galleria verso il Medagliere riprende modelli precedenti (Perini riproposto da Pietrobon), la sequenza successiva comporta una presentazione ordinata di armature equestri, viste quasi sempre di lato o in leggero scorcio, di riprese frontali di armature pedestri complete, corazze con elmi, alcune armi da fuoco e da taglio e finimenti, mentre il secondo volume è dedicato agli elmi, alle parti di armatura e infine agli scudi;  quasi a confermare il permanere di un interesse “neomedievale” e una scelta orientata dal gusto per i balli e le cerimonie in costume ancora presente nella società umbertina, solo due delle 130 tavole sono dedicate alle armi da fuoco.

La rappresentazione degli oggetti, identificati in lastra mediante iscrizione manoscritta su striscia in carta posta in testa all’immagine, risulta puramente documentaria, con evidenti intenzioni di oggettività descrittiva, senza il ricorso a suggestioni narrative di alcun genere, quelle che avrebbero consentito e imposto inquadrature di maggio effetto scenografico, riscontrabili in alcune delle riprese non utilizzate. Gli oggetti sono ripresi frontalmente su sfondo neutro ma visibile, comunemente costituito da un panno unito che separa dal contesto dell’Armeria anche le grandi armature equestri, combinato a volte ad un uso accorto del fuori fuoco e dei diversi valori di illuminazione, senza interventi successivi di scontornatura o mascheratura, che sono invece presenti sui negativi che saranno riutilizzati nel 1937; le luci sono morbide e ben controllate ad evitare i riflessi del metallo; i supporti sono mantenuti visibili, sino al chiodo a cui è appeso lo scudo: l’oggetto vive nello spazio reale in cui avviene la ripresa.

A testimoniare la fondatezza dei dubbi di Seysell in merito ai problemi di stabilità dell’immagine, alcune tavole dell’esemplare conservato in Armeria (es. I, 45) hanno una seconda prova, presumibilmente identica, sovrapposta alla prima, forse per ovviare a una debolezza intrinseca della stampa rilevata dopo la rilegatura, ciò che farebbe pensare ad una data di realizzazione lievemente posteriore all’esemplare conservato in Biblioteca Reale, in cui il forte sbiadimento generalizzato ha reso evidentissimi i pesanti ritocchi operati sui positivi, non visibili invece nell’altro esemplare.[27]

La realizzazione di queste fotografie si colloca in un momento in cui alle originarie spinte del revival neogotico si sovrappongono progressivamente  e si mescolano – come si è accennato – interessi antiquariali, collezionistici ed eruditi accanto a più generali questioni di gusto: pur non potendo qui affrontare il merito del problema, basti pensare all’interesse per le armature testimoniato dalle fotografie realizzate da Charles Clifford nel1850-1860 e conservate nella collezione di Mathew Digby Wyatt,  alle collezioni di  Gian Giacomo Poldi Pezzoli a Milano e di Frederick Stibbert  a Firenze naturalmente[28], ai già citati Coppedé così come alle raccolte veneziane di Mariano Fortuny y Madrazo, che aveva tra le proprie collezioni anche le fotografie di C. Chevaliers dell’armeria del castello di Pierrefonds (1870ca).  Per il Piemonte ricorderemo qui le armature della collezione reale  prestate per il ballo in maschera del Duca di Teano nel 1875[29] , le collezioni e i temi delle opere di Edoardo Calandra, ma anche la figura di Vittorio Avondo, collezionista poi donatore ai Musei Civici di armi da taglio e da fuoco, già dal 1865, e nel cui castello di Issogne erano presenti armature fotografate da Ecclesia[30] nel 1882,  appena prima dei personaggi in costume che animavano il Borgo Medievale. A queste  si ispireranno le fotografie ambientate realizzate dallo Studio di Riproduzioni Artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[31], effettivo tramite tra il gusto sabaudo dei caroselli e dei balli in costume e il nascente pittorialismo storicistico di Guido Rey.

Dobbiamo ritenere che proprio in virtù del lungo rapporto di collaborazione tra Fotografia Subalpina e Direzione dell’Armeria Raffaele Cadorna abbia poi deciso di affidare allo Studio Berra, il titolare era morto alcuni anni prima, nel 1894, la realizzazione del grande progetto celebrativo e documentario che prenderà corpo con i tre volumi editi nel 1898, pubblicazione fondamentale per definire visivamente l’identità delle collezioni avendo quale supporto identificativo il Catalogo pubblicato da Angelucci nel 1890, forse già prefigurata dieci anni prima, come lascerebbe intuire una lettera dello stesso Cadorna  a Berra, datata 1888, in cui il Direttore rileva come “a rendere più praticamente utile e ad un tempo più pregevoli i due volumi delle accurate fotografie (…) occorrerebbe che in qualche modo si facesse risultare quale oggetto rappresenti ogni singola fotografia”[32], lettera corredata da un’annotazione a matita blu, forse più tarda, che recita: “Fototipia Turati a Milano”.

Le indicazioni progettuali fornite dal Direttore sono estremamente precise e comportano la realizzazione di album con stampe in fototipia “interamente conformi a quelli stati recentemente pubblicati dal Museo d’Artiglieria di Parigi (…) Ogni serie di album si comporrà di una prefazione ed in media di 40 tavole di fototipia caduna[33]  oltre ad un indice delle tavole stesse recante le indicazioni corrispondenti alle classificazioni descritte nel catalogo Angelucci (…) è riservata al Direttore dell’Armeria la indicazione degli oggetti a riprodursi, il loro ordine e la composizione dei gruppi per ogni serie [mentre] la Fotografia Berra si assume l’incarico di provvedere sotto la esclusiva sua responsabilità, ad ogni lavoro e provvista occorrente alla compilazione di quella serie di album”[34], svolgendo di fatto il ruolo di editore.

Secondo questi primi accordi il progetto doveva essere compiuto per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino” e affidato per la stampa allo stabilimento torinese Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56. L’accordo prevedeva inoltre che le lastre realizzate in quell’occasione dovessero essere conservate dallo Studio Berra, ma ad esclusiva disposizione della Real Casa.

Di questa prima fase di produzione, non interrotta alla morte di Cadorna nel 1897, rimangono una prima serie di riprese realizzata da Berra nel 1896 e stampate da Alberto Charvet, che ci ha lasciato puntuali indicazioni di lavoro in cui tutta la sua esperienza di fotografo ed editore è rivolta alla determinazione della resa più efficace nella raffigurazione di oggetti complessi e difficili come le armature e le armi: “Pessima modellazione – Errore grave l’aver posto drappi bianchi sotto l’armatura – riflessi di luci secondarie”, commenta a proposito della prima ripresa delle armature C25 e C13, e l’annotazione rasenta addirittura il sarcasmo quando a proposito dell’armatura B6 parla di “Grave distorsione – ingrandimento delle parti più avanzate – Nessuna modellazione (Pennaccio [sic] uso baldacchino da letto).”[35]

La lettura di queste prime prove di stampa e il rinvenimento di alcune delle relative riprese, oltre a costituire un’importante testimonianza del livello qualitativo dell’editoria d’arte torinese allo scadere del XIX secolo, consente di valutare una soluzione formale di presentazione distante dai modelli precedenti e sostanzialmente diversa da quella finale: non solo, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Cadorna gli oggetti riportavano su etichetta “la indicazione della lettera di alfabeto col numero corrispondente al catalogo Angelucci”, fornendo un’utile indicazione che appesantiva però le immagini, ma soprattutto le parti di armature erano sempre presentate poggiate su supporti, a volte coperti di tessuti in broccato, secondo un gusto che risulta prossimo a realizzazioni di molto precedenti, quali ad esempio la raccolta di tavole dedicate a L’Arte Antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, che lo stabilimento dei Fratelli Doyen aveva pubblicato nel 1882[36].

Le pungenti critiche di Charvet determinano però l’incrinarsi dei rapporti con lo stabilimento Berra e in particolare col suo direttore Giovanni Assale, accusato dallo stampatore  di essere “privo di quelle cognizioni pratiche necessarie in un simile e non troppo facile lavoro. Questi dissidi richiesero l’intervento del Cav. Cantù. Ma per quanto le negative fotografiche fossero poi fatte sotto la direzione del prelodato Signore, non erano eseguite con quella perfezione e con quella cura prescritte e richieste dalla grave esigenza della fotografia e fototipia”[37], ragione per cui Charvet propone o di “fare le negative fotografiche per conto delli Berra” o di “rimediare alla imperfezione delle negative col ritoccarle, fare un positivo su vetro, ritoccare questi e fare altra negativa per contatto”, ma tali proposte non vengono accettate  e “Il Cav. Cantù d’accordo col fotografo  ha persuaso l’Onorevole Direzione Reale Armeria [sic] che io non ero capace di fare la buona fototipia.”

La divergenza si era infatti trasformata in causa civile e il direttore dell’Armeria Luigi Avogadro si era visto costretto a rivolgersi “ad alcune persone intelligenti nella materia e tra esse (…) al Sig. Cav.re Cantù, Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”[38], che firmerà anche  la litografia con l’immagine del cavaliere in armi in antiporta dell’edizione definitiva dei volumi[39].

Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione del lavoro sin dalla fase di ripresa ci rimane testimonianza nelle parole di Assale che  nel gennaio del 1897 conferma  che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”[40], ma anche nelle prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione dello stesso fotografo –  ricorda tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare si fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”[41],  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”[42]

Già dall’agosto del 1897 Luigi Cantù sottopone a verifica le prime prove di Charvet e le confronta con quelle dello stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, forse nel frattempo contattato dallo Studio Berra[43], prove che saranno  giudicate dal Direttore “assai superiori per merito artistico a quelle del Charvet le quali (…) sono sbiadite e difettose.”[44]

La verifica del nuovo ciclo di stampe avviene a ritmo serrato sino al luglio dell’anno successivo, mentre procede la causa tra fotografo e stampatore, che nel gennaio 1898 aveva presentato un memoriale difensivo direttamente al Re[45].

Avviandosi ormai alla conclusione del progetto, ma necessitando ulteriori finanziamenti per il suo compimento, Luigi Avogadro rileva come “Quantunque siasi limitato assai il lavoro delle riproduzioni fotografiche alle sole armi ed oggetti di maggior pregio artistico e storico qui conservate, raggruppandone anzi molti a guisa di trofei, si dovette tuttavia eseguire ben n.° 200 riproduzioni [sic] tavole mentre nel primitivo progetto erano state preventivate a calcolo approssimativo solo 120 tavole”[46] , rendendo così ragione di una modalità di presentazione delle opere e di impaginazione solo raramente adottata nei due volumi fotografici di Berra del 1882 e qui invece sistematicamente applicata nella presentazione di armi e di parti di armature. Forse anche in conseguenza di questo vincolo le nuove tavole con le immagini definitive ritornano a una concezione più astratta e didascalica, per nulla narrativa: armature e armi non sono mai ambientate e – ove possibile – neppure poggiate. Ancora una volta vince la presentazione astratta da ogni contesto, secondo la consuetudine illustrativa già adottata da Perini.

Le armi vivono in uno spazio assoluto, autoreferenziale, in cui solo la presenza dei piedistalli delle armature complete riporta alla pesante materialità dell’oggetto e anche la disposizione degli oggetti nello spazio di ciascuna tavola risponde ad una logica che è tutta compositiva,  mai referenziale. L’autonomia rappresentativa della fotografia sembra ancora una volta essere esclusa, lo strumento è trasparente, l’illusione è quella di accedere alla pura forma dell’oggetto nella sua essenza di opera: solo le frange delle rotelle cascano irrimediabilmente verso il basso.

La ripresa fotografica acquista invece tutta la sua potenzialità funzionale nelle tavole di apertura dedicate agli spazi dell’Armeria ed a loro allestimento, nel campo e controcampo della Rotonda come nella minuziosa sequenza delle vetrine e panoplie della Galleria Beaumont: per la prima volta la referenzialità fotografica registra le tracce dell’immaginario d’origine, “fatto per appagare la vista del visitatore”, ormai positivisticamente trasformato dal Maggiore Angelucci per consentire al visitatore “lo studio dei monumenti che gli si parano dinanzi.”[47]

 

Note

[1] Armeria Reale/ di/ Torino/ Venezia mdccclxv/ Stabilimento fotografico di Antonio Perini proprietario ed editore/ Calle largha S. Marco ponte dell’Angelo n.403, con 54 tavv. fotografiche all’albumina da negativi al collodio descritte nel testo + 3 tavv. non elencate:  1 veduta generale della Galleria Beaumont su carta salata, 1 monumento equestre a B. Colleoni e – in chiusura –  1 elmo figurato. Ricordiamo qui che anche Angelucci, nella presentazione del suo catalogo dichiarerà (pur optando per un mezzo diverso) di aver voluto “illustrarlo con numerose incisioni che valgano a mostrare l’esattezza delle descrizioni”, Angelo  Angelucci, Catalogo della Armeria Reale. Torino: Tip. Candeletti, 1890, p. viii, sottolineatura nostra. Come ha ricordato Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p.338, su segnalazione di Claudia Cassio: “Potrebbe essere un pagamento a saldo per il suo lavoro all’Armeria Reale, l’erogazione di 40 lire nel secondo quadrimestre del 1867, riportata nei registri contabili dell’archivio dei Duchi di Genova”, ma non è escluso che allo stesso acquisto si possa riferire l’imprecisa registrazione di una spesa di sessanta lire per un “Album fotografico del Sig. Pasini [sic] in Venezia”, ASAR, f.2, Corrispondenza … dal 9mbre 1856 al Xmbre 1877, n.119, 17 giugno 1873.

Antonio Perini, veneziano (1830-1879) era ben noto all’epoca per aver dato “impulso alla riproduzione de monumenti (…) di quadri, di opere antiche.” (G. Jankovic, citato da Alberto Prandi, nella scheda relativa al fotografo in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.171-172). In particolare fu il primo a pubblicare nel 1862 il facsimile del Breviario Grimani conservato alla Biblioteca Marciana, presentandolo all’Esposizione di Londra di quell’anno, e così avviando la fortuna editoriale del Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae appartenuto al cardinale Domenico Grimani, poi proseguita con la pubblicazione in facsimile realizzata sempre a Venezia da Ferdinando Ongania nel 1880, con 112 eliotipie e 4 cromolitografie, negli anni del monumentale impegno dell’editore per l’illustrazione della Basilica di San Marco. Perini pubblicherà poi, quasi alle soglie della morte, il Fac-Simile delle miniature di Attavante Fiorentino contenute nel codice Marciano Capella “Le Nozze di Mercurio colla Filologia” che si conserva nella Biblioteca Marciana. Venezia: Stabilimento fotografico di A. Perini, 1878, che si affianca ad altre analoghe imprese, ancora di Ongania, cfr. Paolo Costantini, Ferdinando Ongania editore veneziano e l’illustrazione della Basilica di San Marco, “Fotologia”, 1, giugno 1984, pp.4-10.

Nel 1915 Ulrico Hoepli scriverà alla Direzione per avere notizie del volume dedicato all’Armeria, che descrive composto di 61 tavole, del quale non riesce ad avere traccia neppure da altri librai specializzati e ne chiede eventualmente la disponibilità di una copia. A stretto giro di posta (4 gg.) la Direzione risponde identificando il volume con l’album Perini che però viene descritto formato da “55 fototipie”, cioè con una errata indicazione della tecnica e della consistenza (ASAR B1391).

[2] François Arago, Rapport sur le Daguerreotype. Paris: Bachelier,1839 (facsimile, Milano: Labor, 1964). Per il ruolo svolto dal fisico francese nella definizione stessa delle applicazioni e implicazioni connesse alla nuova scoperta si veda François Brunet, La naisssance de l’idée de photographie. Paris: Presses Universitaires de France, 2000.

[3] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa afferma: ” les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Mar-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches; tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine; ces  procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p.27. Sul dibattito in area anglosassone intorno alle questioni filologiche poste dalla riproduzione fotografica di opere d’arte si veda Anthony Hamber, “A higher branch of the art”. Photographing the Fine Arts in England 1839-1880. London – Amsterdam, Gordon & Breach, 1996, mentre un significativo esempio italiano è stato studiato pochi anni fa da Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp.41-47.

[4] Vale a dire della camera chiara o lucida, messa a punto da W. Wollaston nel 1807.

[5] Lettera del Direttore Actis, [10 ottobre 1861], ASAR f.73. Ancora una volta si confermano le ragioni del fascino esercitato dall’oggettività fotografica sulla cultura ottocentesca sin dalla prima comparsa delle nuove immagini; si pensi a quanto affermava già il “Messaggere Torinese” nel riportare la notizia del primo annuncio del dagherrotipo, nel numero del 23 febbraio 1839: “Il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli ” cfr. Miraglia 1990, op. cit.,  sottolineatura nostra, ma anche alle riflessioni a proposito della “mania di abbellire innata in ogni artista” che John Alexander Ellis antepone nel 1849 al proprio progetto di Italia in dagherrotipo (cfr. Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Colombo, 1983,p.12), o – per limitarci all’Italia – alle più tarde e analoghe riflessioni di Pietro Estense Selvatico, cfr.  Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96.  Risulta chiaro da queste testimonianze quanto fosse il valore di verosimiglianza piuttosto che quello della riproducibilità a far progressivamente preferire la fotografia alle tecniche calcografiche nella documentazione del patrimonio artistico e architettonico.

[6] Per la datazione di queste stampe si rimanda all’attenta analisi di Miraglia 1990, op. cit.,schede nn.124-125, p. 338, confermata e precisata dalle ricerche condotte da  Paola Manchinu – che ringrazio – per questa occasione: la concessione “d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.” fu infatti concessa a Chiapella il 15-9-1860, ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.23.  Dalla stessa fonte si ricava che “in Torino non possono essere concessi più di quattro Brevetti di R.o Stemma per ogni arte, mestiere, industria, ecc.”

Del fotografo va ricordato, oltre alle imprese note, l’album non datato A.S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II/Fotografie/ di Francesco Maria Chiapella conservato alla Biblioteca Reale di Torino, costituito da venticinque tavole con stampe all’albumina, che contiene, oltre alla riproduzione di un ritratto del re, una serie eterogenea di saggi fotografici che spaziano dalla riproduzione delle incisioni del ciclo decorativo di Paul de la Roche per il Louvre a sculture e dipinti di soggetto risorgimentale, dalle vedute dei dintorni torinesi (il Monte dei Cappuccini, Alpignano, Collegno) ad alcune residenze sabaude (Valentino, Moncalieri, Stupinigi), da porre in relazione con l’album richiamato in Miraglia 1990, op. cit.,scheda n.60. p.330, e databile 1857-1860.

[7] Appartiene alla nutrita schiera (F. Barbaroux, M. Beria d’Argentine, Edoardo de Chanaz, Radicati Talice di Passerano tra gli altri) di esponenti della nobiltà piemontese che si dedicano professionalmente (in modi ancora tutti da definire) alla pratica fotografica, specialmente nell’ambito del ritratto in formato carte de visite, ma evidentemente non solo, come dimostrano queste riproduzioni inedite e il suo album, su commissione del Duca d’Aosta, di riproduzioni di disegni del carosello storico realizzati dal pittore Cerruti Bauduc, prodotto nel 1864 alla vigilia della conclusione della sua breve attività professionale (1856ca-1865). Cfr. Miraglia 1990, op. cit., scheda p.354.

[8] ASAR, fasc.1, Nuova Direzione, n.7. La mancata realizzazione dell’opera non consente di verificare nel concreto la coerenza del progetto, ma basti qui ricordare che nell’accezione ottocentesca il termine “Album fotografico” poteva riferirsi anche ad una raccolta di disegni riprodotti fotograficamente, analogamente a quanto accadeva, ad esempio, con gli album della Società Promotrice delle Belle Arti. Va comunque sottolineata la coincidenza temporale e (parziale) di intenti tra l’edizione Perini e il progetto del Direttore. Sebbene l’album Perini risulti acquistato solo nel 1873 (cfr. nota 1), è inimmaginabile che la prima documentazione fotografica sistematica delle collezioni dell’Armeria non fosse nota al nuovo Direttore; non escluderei anzi che proprio dall’esempio di Perini si possa essere formata in Seyssel d’Aix l’intenzione di illustrare a sua volta le armature a cavallo con un “Album fotografico”, sebbene concepito ancora come raccolta di riproduzioni di disegni, forse per non rinunciare, come ipotizza Venturoli, alla “romantica” chiave interpretativa fornita dalle tavole di Ayres. Ringrazio Paolo Venturoli per la segnalazione di questo e di altri notevoli documenti conservati presso l’Archivio storico dell’Armeria.

[9] Angelucci 1890, op. cit., pp.410-414. Studio Bertieri di Torino realizzerà una serie di riprese del fucile M11 presentate all’Esposizione di Firenze del 1899, come testimonia una stampa conservata nell’Archivio fotografico dell’Armeria.

[10] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, s.d., [1859ca],citato  in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Miraglia 1990, op. cit., p.334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della notissima “Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie”. Potrebbero essere identificate con questa ripresa – oggi nota attraverso l’esemplare conservato presso la Biblioteca centrale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino – le dieci “Fotografie di Maggi della R. Armeria”, ricordate in un Quadro dimostrativo” datato 1 aprile 1888, ASAR, Strumenti, 47. Va ricordato che l’Armeria non sarà compresa – ad esempio – nell’album di Henri Le Lieure, Turin ancien et moderne, 1867ca, mentre verrà più tardi documentata da Brogi e quindi da Alinari. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, (circa 150 stampe di riproduzione in formati diversi edite nel 1864 ca,  che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese italiane potrebbe essere ulteriormente anticipata  alla metà del decennio precedente considerando che egli usava la definizione di “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, prima del 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori.

[11] Esposizione storica d’arte industriale in Milano, Catalogo Generale. Milano: Stabilimento Tipografico Fratelli Treves, 1874, pp.135 e segg., Le opere dell’Armeria occupano le vetrine dalla n. li alla n. lxv

[12] Antonio Beretta, presentazione al Catalogo Generale, 1874, cit. s.n. Il testo del Presidente dell’ Associazione Industriale Italiana costituisce una precisa testimonianza del progetto culturale sotteso a queste manifestazioni, ben sintetizzato dalla sua definizione dei Musei quali “raccolte pubbliche di buoni modelli.”  Per un utile confronto con le diverse strategie dell’analogo torinese si veda Carlo Olmo, L’ingegneria contesa. La formazione del Museo industriale, in Pier Luigi Bassignana, a cura di, Tra scienza e tecnica. Le Esposizioni torinesi nei documenti dell’Archivio storico AMMA 1829-1898.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1992, pp.103-122.

[13] Dalla lettera di richiesta di autorizzazione alla riproduzione degli oggetti esposti inviata al Direttore dell’Armeria dal Presidente del Comitato Esecutivo dell’Esposizione, ASAR, f. 892, Milano, 12 luglio 1874.

[14] ASAR, f. 1278, Esposizione 1874.

[15] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.140.

[16] ASAR, f.2, Nuova Direzione, nn.130,166, 167.

[17] 50 stampe all’albumina  montate su tavole sciolte che riportano in calce a destra la scritta litografata “A. Pietrobon – Torino. Alberto Pietrobon partecipò alla spedizione italiana in Persia del 1862 guidata dal ministro Marcello Cerruti, come assistente di Luigi Montabone (1827 ca.-1877), cfr. Michele Falzone del Barbarò, L’album persiano di Luigi Montabone, “Fotologia”, 3 (1986), n. 6, dicembre, pp. 24-33.

Di Pietrobon è nota anche una serie di N° XXV / Fotografie delle pitture di Gaudenzio Ferrari nell’/ interno della Chiesa della Madonna delle Grazie in / Varallo  realizzate nel 1887 ma che entrano a far parte delle collezioni reali “con foglio dell’Amm.ne R.C. [Real Casa] 3 marzo 88” ,BRT Y-31 (22).  Si tratta di stampe all’albumina di qualità palesemente inferiore alle tavole che costituivano il lavoro per l’Armeria.

Come risulta dal confronto tra fonti archivistiche e bibliografiche, prima della sede veneziana Pietrobon esercitava a Firenze in Via Solferino, 4 sotto l’insegna di “Arte e Natura”, potendosi fregiare del titolo di fotografo del Re, concesso in data 24 giugno 1865. Verosimilmente la produzione dell’album torinese era destinata ad ottenere la concessione anche per la nuova sede. Cfr: ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.24, Concessioni fatte da S. M. d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.; Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p.67.

[18] Sulle iniziative in merito alla soluzione del problema della stabilità delle stampe fotografiche dopo la metà del XIX secolo si veda Sylvie Aubenas, La photographie est une estampe. Multiplication et stabilité de l’image, in Michel Frizot, a cura di, Nouvelle histoire de la photographie.  Paris:  Bordas, 1994, p.224-231.

Esemplare dell’attenzione italiana per questi temi l’intervento di Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, iv, 1870, p.58, ora in Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p.130,   in cui celebra e descrive il “mirabile processo” messo a punto in Inghilterra nel 1864 da Woodbury (e non Woodburg, come recita il testo) “mezzo immediato e prontissimo di riproduzione dei lavori artistici e soprattutto degli oggetti di scultura i quali specialmente, per essere monocromi, non vanno soggetti a veruna alterazione di colore, di tinta”, così che l’opera risulta “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”. Con questo processo, noto anche come woodburytipia, si poteva ottenere “tutta la sfumatura graduata del modellato e dell’ombreggiatura proprio delle migliori fotografie, serbandone di più l’inalterabilità, epperciò preferibile a queste ultime soggette a svanire, come è notissimo.” (ibidem)

Ancora alla fine del decennio un acuto osservatore e buon fotografo come il biellese Domenico Vallino, così si esprimeva sulle  possibili applicazioni della fotografia alla stampa col sistema della fotolitografia, prendendo spunto dal recente testo di Lugi Borlinetto, I moderni processi di stampa fotografica. Milano: Pettazzi, 1878: “I miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci  sono una fanciullaggine rispetto alla moltiplicazione dei prodotti dell’ingegno a’ giorni nostri e la fede nella scienza la quale verrà a sostituire la fede teologica, riceve oggidì in questi miracoli il suo nutrimento. Dopo la stampa a mano, la stampa a macchina, la stampa celere, la litografia, l’incisione, ora si aggiunge un’arte novella per moltiplicare il pane eucaristico della nuova fede. Alludo alle recentissime applicazioni della fotografia alla stampa e queste si chiamano: fotolitografia, fotogliptia, foto-incisione, fototipia, eliografia ecc. ecc.”, D.Vallino, Un’arte novella, in “L’Eco dell’Industria”, 28 febbraio, 7 marzo, 10 marzo 1878.

[19] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.93, 3 febbraio 1874.

[20] Ibidem.

[21] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.95, 10 febbraio 1874.

[22] ASAR, f.2, Nuova Direzione,n.120, 24 giugno 1874.

[23] ASAR, f.1207, Lettera di G.B. Berra, Torino 25 settembre 1882.

[24] È questo in realtà il titolo dell’edizione conservata presso la Biblioteca Reale, mentre l’altra porta la dedica “Alla Direzione della Reale Armeria di Torino/ Omaggio dell’Autore Cav.re G. B. Berra Pittore e Fotografo” con una formula che ricorda quella dell’album realizzato dallo stesso fotografo per la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1880: “A S.M. Umberto I/ che più di tutti/ ama la grandezza/ della Patria/ Questo ricordo/ della IV Esposizione Nazionale/ di Belle Arti/ offre con riconoscente ossequio/ il pittore fotografo/ G.B. Berra/ Torino agosto 1880”. Ricordiamo qui che nella stessa occasione sei foto Berra di Rivara sono presentate da D’Andrade e viene realizzata la cartella a tavole sciolte in fototipia di Doyen in cui compaiono anche armi e armature.

Su Berra si veda Miraglia 1990, op. cit.,p.358, pur con imprecisioni  dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”: è infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che muore nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguito dalle due figlie.

Dopo essersi segnalato in occasioni diverse quale autore di riproduzioni di opere d’arte, nel 1882 Berra viene incaricato, con Vittorio Ecclesia, di fotografare i circondari di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Biscarra e da Crescentino Caselli, su incarico della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità, cfr. P. Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931,  “Architettura & Arte” , n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23. 

[25] Le stampe costituenti le due serie di volumi conservate rispettivamente in Armeria e presso la Biblioteca Reale si presentano in diverse condizioni di conservazione. A oggi si conservano 113 lastre al collodio 21×27; qualche lastra presenta ritocchi e mascherature non rilevabili nelle stampe coeve, segno certo di una riutilizzazione successiva per ora non precisamente identificata.

[26] Le foto Berra anche nel fondo Coppedè ora all’AFT, 15 album e oltre 170 fotografie sciolte acquisiti nel 1986, vedi la Scheda descrittiva del Fondo in “AFT”, 3 (1987), n. 5, giugno, p.12, che contiene anche due brevi saggi orientativi sul clima culturale e sull’attività della famiglia: Carlo Cresti, Eclettismo come costume di vita, pp.13-21, e Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, pp.22-31.

Gli album appartennero ad Adolfo e dovevano servire quali raccolte di modelli decorativi. Mariano, Gino, Carlo e Adolfo: Dinastia fiorentina di intagliatori (il padre Mariano), pittori (Carlo) e  architetti gli altri due, ma di humus di iperbolico virtuosismo artigianale fecondato dalle architetture effimere dei padiglioni espositivi e dalla scenografie del melodramma e del nascente cinematografo.

[27] Il volume secondo dell’esemplare BRT non solo è costituito da 65 (invece di 63) tavole, con titolo, manoscritto in calce che coincide alla lettera con le scritte autografe presenti sulle lastre conservate presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza, ma anche la sequenza presenta un ordine diverso: il volume si apre infatti con armature a piedi (tavv.1-22) ed  elmi (23-60) per chiudere con finimenti (61-63), il rostro romano (64) e l’elsa “di Donatello” (65).

La catalogazione delle lastre superstiti ha consentito in alcuni casi di analizzare anche le varianti di ripresa (laterale/ scorciata; fuori fuoco o con sfondo neutro) o la documentazione di oggetti poi non compresi nella versione  definitiva degli album, ma comunque messi in circolazione autonomamente (Zuccotto da parate E93, presente nell’esemplare conservato presso la Biblioteca Reale di Torino ma anche tra le stampe del Fondo Coppedè).

[28] Firenze: in occasione dell’inaugurazione della facciata del duomo nel 1887 Umberto I e Margherita giungono a Firenze, festeggiati tra le altre cose da un corteo storico e un gran ballo in costume medievale nelle sale di Palazzo Vecchio, organizzato da Frederick Stibbert, che si presentò vestito della copia di un’armatura inglese del 1370, proveniente dalla sua collezione privata (56.000 pezzi) ospitata nella villa di Monturghi, alle porte di Firenze, con un gusto che richiama piuttosto l’eclettismo imaginifico che sarà di Fortuny o e poi di D’Annunzio (del dandy insomma) che non l’attenzione filologica dello studioso, cfr. Frederick Stibbert. Gentiluomo, collezionista e sognatore, catalogo della mostra ( Firenze 2001), a cura di Kirsten Aschengreen Piacenti. Firenze: Polistampa, 2001. Il gusto della celebrazione in costume, al limite (a volte tranquillamente superato) della giocosità carnevalesca, ma certo intriso anche di celebrazione storicista. Si pensi agli analoghi torinesi.

[29] Ne da notizia in due successive lettere al marchese di Montereno, gentiluomo di corte di S.A.R. la Principessa di Piemonte, il Direttore Luigi Seyssell, chiedendo contestualmente l’invio delle fotografie realizzate in quell’occasione. ASAR, F.2, Nuova Direzione, nn.159, 161, 28 febbraio, 2 maggio 1875.

[30] Vittorio Ecclesia, Castello d’Issogne in Valle d’Aosta, con un testo di G. Giacosa. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1882 post], 20 albumine 27/27 (dell’opera esiste anche un’edizione con 18 stampe in formato 13/18).

[31] Cfr. P.  Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

[32] ASAR, f.1207, 7 marzo 1888.

[33] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898, in cui segnala la necessità di un ulteriore finanziamento connesso proprio al maggior numero di tavole realizzate.

[34] Convenzione tra Raffaele Cadorna, Direttore e Conservatore della Reale Armeria e le titolari dello Studio Berra, Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, Torino, 30 luglio 1896, ASAR C387.

Lo scambio di documenti e cataloghi col Museo d’Artiglieria di Parigi si era avviato all’inizio del decennio ed era proseguito sino al 1896, ASAR, B 1502, circa gli stessi anni in cui si realizzava anche il catalogo illustrato dell’Armeria Imperiale di Vienna (ASAR B1503), Wendelin Boeheim, Album Hervorragender Geganstande aus der Waffensammlung. Wien, J. Löwry, K.U.K. Hofphotograph, 1894 (I)-1898 (II).

[35] Su Alberto Charvet si veda Miraglia 1990, op. cit., pp. 371-372. L’archivio storico dell’Armeria conserva una cartella di Prove fotografiche e stampe di armature (…) da cui si ricava conferma della realizzazione di “nuove negative”, cioè del rifacimento parziale delle prime riprese. Di questa prima fase di produzione si sono conservate 19 lastre e 138 fototipie.

[36] In quell’occasione la Regia Armeria non aveva concesso alcun oggetto della propria collezione: Lettera del Ministro della Real Casa al Direttore, Roma, 11 marzo 1880, ASAR, f.895.

[37] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898; da questo documento, salvo diversa indicazione,  provengono anche le citazioni successive.

[38] Per le sinora scarne notizie su Luigi Cantù, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino dello stesso 1898, membro del Circolo degli Artisti, tra i futuri promotori della Società Fotografica Subalpina e vicino alla famiglia del Duca di Genova, si veda Miraglia 1990, op. cit., p. 368; Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra, (Torino, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997), a cura di Dario Reteuna. Torino: FIF,  1997, p.60; Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999, pp.14-16. Non si esclude che possa riferirsi ad una ulteriore fase intermedia la prova eliotipica di “Armi antiche” firmata da Carlo Bazzero e conservata tra le carte dell’Archivio dell’Armeria.

[39] Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino. Milano: Eliotipia Calzolari e Ferrario, s.d.  [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna; tre volumi per complessive 198 tavole in fototipia (1/69 – 70/129 – 130/198). Questa edizione si caratterizza per l’antiporta disegnata da Luigi Cantù e per le impressioni in oro al piatto anteriore e al dorso, mentre la successiva del 1902 è priva di immagine all’antiporta e di veline alle tavole, le impressioni sono in argento e il dorso è muto. Una collezione completa in tavole sciolte, da esporre, venne inviata nello stesso anno alla Esposizione di Bologna a favore della Cassa Soccorso Studenti (ASAR, B 1288). Altre copie delle stesse tavole venivano inviate a studiosi dietro richiesta (ASAR, B 1554) o vendute sciolte: ciò spiega la presenza del gran numero (100-150 esemplari) di copie sciolte e mute dei soggetti di maggior successo, quali le armature. Della campagna fotografica realizzata in questa occasione si sono conservate 216 lastre (comprese quindi le varianti) alla gelatina bromuro d’argento nel formato 24×30, per le quali nel giugno del 1898 si registra  il pagamento di L. 1480 “Con mille ringraziamenti e cordiali saluti (…) alle sorelle Berra, fotografe.”, ASAR,  B1554.

[40] ASAR, f. 1207, lettera di G. Assale al Direttore.

[41] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[42]ASAR, f.1207, nota di L. Avogadro del  2 giugno 1897.

[43] “nel restituirle vi unirò la prova del Calzolari”, scrive Cantù ad Avogadro il 3 agosto, ASAR, f.1207, biglietto di Cantù ad Avogadro,  3-8-1897. In vista della partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 lo Stabilimento milanese chiede l’autorizzazione a “esporre a Parigi qualche saggio delle eliotipie eseguite per la Reale Armeria” sotto forma di tavola composita, di cui inviano copia fotografica, costituita dal montaggio di differenti immagini dall’antiporta col cavaliere in armi disegnato da Cantù, a due armature equestri (tra cui la B3 Martinengo), la targa da parata F3, elmi ed armi varie; come si ricava dalla corrispondenza successiva, in quell’occasione la ditta fu insignita di Medaglia d’oro ASAR, f. 1210.

[44] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[45] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898. La vertenza venne chiusa il successivo 18 marzo col riconoscere allo stampatore un compenso complessivo a saldo di L.1500 e alle sorelle Berra la possibilità di rientrare in possesso delle lastre conservate da Cantù; ASAR, f.1207, Copia della transazione della vertenza giudiziaria tra il Sig. Charvet e lo Stabilimento Berra, 18-3-1898.

[46] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[47] Angelucci 1890, op. cit., p. viii.

Andrea Tarchetti, fotografo dilettante (1990)

 in Andrea Tarchetti notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo  Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990, pp.   19-45

 

Fotografi a Vercelli

Il vercellese “Vessillo della libertà” nel numero del 27 settembre 1860 cita per la pri­ma volta lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, senza indicarne la localizzazione, mentre pochi anni dopo, nel 1863, lo stesso periodico riporta la notizia che il fotografo “ha aperto or ora un elegante e comodissimo laboratorio sull’ameno Viale dei Tigli”.[1] Sono queste le prime notizie relative alla presenza di uno studio fotografico in città, né pare che vi fossero presenze precedenti ora dimenticate se lo stesso “Vessillo”, nel ricordare l’apertura del nuovo studio, sottolinea come “non si senta più il bisogno di ricorrere al di fuori per avere ritratte le nostre sembianze o quelle delle persone che ci sono care”.

Mancano per Vercelli – almeno sino a questo momento ed in attesa che venga portata a termine l’indagine sui Fondi Fotografici Locali – indicazioni relative ai primi anni di diffusione della tecnica fotografica, in particolare della dagherrotipia, quali invece risultano disponibili ad esempio per Biella, dove già dai primi anni ’40 sono operosi alcuni dagherrotipisti, per ora anonimi, mentre nel decennio successivo si registra la presenza di autori quali Fortin, forse un fotografo itinerante di origine francese, Bernardi e infine Adolfo, attivo anche a Torino prima di trasferirsi a Roma nel 1848.[2] La ritrattistica risulta essere l’attività prevalente dei primi operatori, sia a Biella sia ­più tardi a Vercelli, e solo dai primi anni ’60 si registra la presenza di fotografi attivi anche nel campo della documentazione d’arte e di architettura: se a Biella emerge la figura di Vittorio Besso, che apre il proprio studio nel 1859, a Vercelli è Giuseppe Co­sta, titolare di uno “Studio di Pittura e Fotografia” aperto forse poco oltre il 1862, ad occuparsi per primo di documentazione del patrimonio artistico, alternando l’attività di fotografo a quella di titolare della cattedra di Elementi presso l’Istituto di Belle Arti, a cui si devono aggiungere alcune collaborazioni con Edoardo Arborio Mella quali, in particolare, la realizzazione delle parti a figura durante i restauri della chiesa di San Francesco nel 1868.[3]

Allo stesso Costa si deve anche la prima realizzazione di una campagna fotografica espressamente dedicata alla documentazione del patrimonio artistico, che porta alla realizzazione di un album Ricordo dell’inaugurazione della Cappella di S. Eusebio, realizzato nel 1882, recentemente ritrovato nei fondi della Biblioteca Civica di Vercel­li, che documenta il rifacimento dell’apparato decorativo della cappella del Duomo ad opera dei pittori Francesco Grandi e Carlo Costa, fratello del fotografo.

Alla documentazione della città si dedica invece Federico Castellani, titolare di un avviato studio ad Alessandria in collaborazione col padre Luigi, operoso anche a Vercelli a partire dai primi anni ’70, il quale realizza nel 1873 un Album delle principali ve­dute edifizi e monumenti della città di Vercelli che non comprende però alcuna docu­mentazione del patrimonio pittorico, come sottolinea un articolo del “Vessillo d’Ita­lia” del giugno dello stesso anno in cui l’articolista, rivolgendosi a Castellani, ricorda come “Le opere di Gaudenzio e quelle di Lanino sparse nella nostra città invitano al­tresì la vostra camera oscura: invocano anche quella del vostro valente collega e pittore Giuseppe Costa e voi provvedete ambedue ad appagare il desiderio.”[4] Il tono dell’ articolo lascia supporre una campagna di documentazione ormai in atto e parzialmente nota ma si deve rilevare come a tutt’ oggi non ne sia stata riscontrata traccia. Solo nel 1886 il fotografo Pietro Boeri (già titolare di uno” Studio di Fotografia e Pittu­ra”) realizza, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, un album dedicato agli “Af­freschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli”, realizzato ve­rosimilmente sulla scia delle celebrazioni del IV centenario della nascita dell’artista, che risulta localmente un esempio insuperato di documentazione e lettura fotografica di un ciclo pittorico.

Negli anni ’80 risultano quindi presenti a Vercelli gli studi di Giuseppe Costa, di Federico Castellani e la “Fotografia Nazionale” di Boeri-Valenzani; probabilmente chiuso è ormai lo studio di C. Fontana, mentre per ora non è possibile sapere se fossero ancora in attività l’antico studio di Pietro Mazzocca e quello di Giuseppe Ferrero dei quali per altro non si conosce la produzione. Proprio nel 1880, proveniente da Alessandria, giunge a Vercelli Pietro Masoero impiegato dapprima come apprendista e quindi come direttore dello studio Castellani, per cui lavorerà sino al 1892, anno in cui apre il pro­prio studio nella casa Tricerri. La figura di questo fotografo risulta ormai sufficiente­mente delineata[5] perché qui se ne debba ulteriormente definire il ruolo; resta da sot­tolineare però come al suo impegno pubblico in campo fotografico quale segretario del primo Congresso Fotografico Italiano (Torino, 1898) e poi membro dei Comitati orga­nizzatori dei due successivi congressi di Firenze (1899) e Roma (1911) si debba una rinnovata attenzione in sede locale per le problematiche connesse alla fotografia, che si traduce immediatamente in una notevole diffusione della pratica dilettantistica.

 

Il dilettante fotografo

Riprendendo in parte il titolo di un volume edito a Torino nel 1890, autore il marchese Dionigi Arborio di Gattinara, Masoero pubblica nel 1901 sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” il Decalogo del dilettante fotografo[6], tema a cui dedica anche la conferenza dal titolo Arte e beneficenza, tenuta al Teatro Civico di Vercelli il 26 aprile 1902, per la quale Ambrogio Alciati disegna il biglietto d’ingres­so, pubblicata l’anno successivo a Firenze da Salvatore Landi, il tipografo del “Bullet­tino”[7].

La conferenza, che significativamente cade nel periodo di apertura della Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica annessa alla Prima Esposizione di Arte Decorati­va e Moderna di Torino, precede la proiezione di centossessanta diapositive realizzate da numerosi dilettanti vercellesi, di cui il giornale “La Sesia” fornisce un elenco par­ziale: Virginio Locarni, Vittorio Petterino, Nerina Masoero (tutti presenti anche all’E­sposizione torinese), il marchese Arborio di Gattinara, Vincenzo Canetti, Secondo Gambarova, Giuseppe Tavallini, Giulio Cesare Faccio, Andrea Tarchetti ed altri. Le immagini che costituiscono la proiezione, non reperite, hanno titoli quali “ultime luci”, “tramonto”, “nubi vaganti”, “effetto di neve”, “pecorelle” e simili, propri della voga allora imperante della fotografia pittorica o artistica, “quella che sola me­rita il nome di “Arte”[8], fenomeno culturale multiforme e contraddittorio, rifiutato in blocco e quasi rimosso dalla critica e dalla storiografia. fotografica sino ad anni molto recenti[9], che ha invece costituito, seppure confusamente, la prima occasione, il primo momento di riflessione sullo specifico fotografico, sintetizzabile appunto nella questio­ne “se la fotografia sia un’arte o non sia”, secondo l’espressione usata da Enrico Tho­vez in uno degli articoli di commento alla Esposizione di Torino del 1898, in cui per la prima volta in Italia la fotografia artistica era ospitata in un’apposita criticatissima sezione.[10]

Al problema posto da Thovez, corredato da un’analisi molto attenta delle caratteristiche dell’immagine fotografica che gli consente di affermare che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero” e, in quanto tale, può fornire “non una riproduzione, ma una vera interpretazione, per quanto involontaria, della realtà” possiamo accostare le opinioni espresse nello stesso anno da Masoero[11], verosimilmente avendo in mente le stesse immagini che hanno stimolato le riflessioni di Thovez. Dopo aver riassunto sinteticamente i temi più consueti del dibattito, già a questa data ampiamente discussi e ripetuti, stancamente ripresi poi da numerosissimi autori per tutto il periodo precedente il primo conflitto mondiale, Masoero afferma risolutamente: “per parte mia la questione se la fotografia è un’arte o no, mi è sempre parsa di nessun valore [poiché] se la fotografia è suscettibile di afferrare e rendere gli aspetti della natu­ra con potenza e verità allorquando è con abilità maneggiata, non è per avere una natu­ra artistica in sé, ma perché risiede in chi di lei si serve; tanto è vero che per pretendere a delle forme artistiche è obbligata ad assumere delle apparenze che non sono sue . Essa è un’arte che deve evitare un pericolo, essa che è la manifestazione più pura del vero, di cadere nel manierato. E manierati, checchè si dica, sono tutti questi nuovi prodotti artistici, perché abbagliati dal mezzo, dalla forma dell’ opera, perdono di mira la parte principale del loro compito: il vero … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”.

Il rifiuto delle tecniche di manipolazione in stampa non potrebbe essere più netto, ma l’opinione di Masoero è in questi anni sostanzialmente isolata, povera di riscontri nella pratica fotografica corrente; ormai la Naturalistic Photography di Emerson si è trasfor­mata per i più in Fotografia Artistica[12] in cui come “in ogni opera d’arte, se tale vuo­le chiamarsi, è necessario che il carattere della mano dell’artefice si manifesti chiaro ed evidente … perché l’essere soggettiva è in aperto contrapposto coll’obbiettività in­trinseca generale della fotografia; … la macchina fotografica, se riproduce fedelmente le immagini che le sono dinanzi e spinge la sua esattezza scrupolosa nella ricerca di particolari che all’occhio sfuggono, non può riprodurre sempre quel sentimento pro­fondo che molte volte spira in un soggetto e che lo fa amare da chi lo riproduce … Ma quando l’immagine riprodotta riesce ad acquistare ed a trasfondere in chi la vede, quel sentimento che la rese cara all’operatore, allora realmente il fotografo può dire d’aver fatta arte colla fotografia … Se a questa riproduzione l’autore aggiunge la sapienza tec­nica del metodo di stampa, da accrescerne l’effetto voluto, sia usando procedimenti co­me la gomma, il carbone o la fotocollografia, oppure interponendo tele o veli fra la negativa e la carta o la lastra da stampare, allora egli potrà ottenere dei risultati che per grazia o sapore nulla avranno da invidiare a delle vere e proprie opere d’arte.”[13] La lunga citazione, che racchiude e riassume il nuovo credo estetico, porta la firma autorevole di Arturo Alinari, nipote del fondatore della più nota dinastia italiana di fo­tografi, e mostra chiaramente quale divario esistesse tra la pratica fotografica profes­sionale e l’attività dei dilettanti, i veri protagonisti di questa stagione del gusto fotogra­fico. “La fotografia artistica, s’intende, non può fare appello a un commerciante … dunque è ai dilettanti che essa si rivolge con tutte le sue risorse, con tutte le sue incogni­te, con tutte le sue promesse.”[14]

Con essa compare nella fotografia italiana, in modo massiccio, il motivo, la scena, l’immagine stereotipa mutuata dalla coeva produzione pittorica; se per tutto l’Ottocen­to è proprio nell’assenza del ‘motivo’ “la novità, anche se riduttiva e freddamente tecnica,della fotografia italiana, che non dipende dalla pittura, anzi se ne distingue net­tamente”[15], col nuovo secolo la situazione si ribalta e la ‘pittura’, intesa sinonimicamente come arte, diviene il modello indiscusso, il termine di paragone, la pratica di riferimento. In un confronto esplicito con essa si gioca la riflessione sull’ estetica fo­tografica, sebbene i commentatori più accorti neghino credito a quello che sarà poi de­finito “combattimento per un’immagine”. Mario Tamponi, in un articolo di data or­mai tarda (1909) pubblicato in “La Fotografia Artistica” che assume quasi il tono di una riflessione, di un riesame, afferma: “Noi non abbiamo voluto, come molti credo­no, rivaleggiare colla pittura e batterla, né abbiamo voluto imitarla sotto altro punto di vista che sotto quello del criterio artistico di chi lavora alla composizione del qua­dro … La fotografia artistica è dunque cosa ben diversa da ciò che si intende sotto il nome di fotografia; essa è quell’arte che mettendo a suo profitto alcune proprietà o pos­sibilità della fotografia, tende a fini artistici, cioè a dire, tende alla produzione di quadri o composizioni artistiche”[16].

Se il confronto è con la pittura e se questa trova nella manualità il proprio strumento espressivo allora tutto quanto di meccanico risiede nel processo fotografico va posto in secondo piano, sminuito; la produzione di immagini “fotografiche” viene sottopo­sta ad una dissociazione schizoide, si instaura una cosciente dicotomia tra matrice ne­gativa, prodotto asettico di un processo ottico-chimico-meccanico, e stampa positiva, la sola a cui venga riconosciuto lo statuto di immagine, prodotto della creatività manua­le del fotografo artista. Ancora Tamponi sottolinea come “la negativa ben difficilmen­te è perfetta; vi è da togliere, da aggiungere, da oscurare, da illuminare, da tagliare, ma più di tutto da togliere … Una negativa racchiude quasi sempre pur troppo una nega­tiva artistica, cioè presenta troppi particolari; bisogna togliere le cose inutili, avvicina­re al centro l’oggetto a cui si vuole dare importanza, togliere troppi particolari che af­fievoliscono l’idea della suggestione artistica, e aggiungere qualche volta alcun’altra cosa che può essere necessaria. Tutto ciò, m’affretto a dirlo, quasi senza ricorrere al ritocco della negativa”[17].

Si riconoscono i segni, in queste riflessioni modeste, di un idealismo di maniera, che vive dei lontani riflessi di una concezione del fare artistico che affonda le proprie radici nella tradizione rinascimentale, incapace di analizzare compiutamente la novità costi­tuita dalla tecnica fotografica, modellato rigidamente sulle valutazioni espresse pochi anni prima dall’Estetica crociana, dove il filosofo riflette, marginalmente e senza offri­re contributi di rilievo, sull’eterna questione che aveva occupato pagine e pagine delle riviste fotografiche: “Persino la fotografia – afferma Croce – se ha alcunché di artisti­co, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di cogliere. E, se non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno inelimi­nabile e insubordinato: e infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena? a quale un artista non farebbe una o molte variazioni e ritocchi, non toglierebbe o aggiungerebbe? “[18]

Andrea Tarchetti

Poco sappiamo sino ad ora della sua vita: nasce a Stroppiana il 10 febbraio del 1854 da Giuseppe e Caterina Grignolio; la famiglia si trasferisce però ben presto a Vercelli, certo prima del 1864, anno in cui nasce la secondogenita Teodolinda, a cui seguiranno Luigi, Margherita e Giovanni. Il primogenito Andrea, seguendo le orme paterne ab­braccia la carriera notarile per entrare quindi in magistratura, divenendo Procuratore Capo al Tribunale Civile di Vercelli; “la sua voluta modestia che sempre lo tenne lon­tano dalla vita pubblica” come recita il necrologio pubblicato su “La Sesia” del 28 dicembre 1923, quattro giorni dopo la sua morte, impedisce di seguire più a lungo le tracce della sua vicenda biografica e di delineare meglio la sua figura, certo nota in città se le esequie celebrate il giorno di Santo Stefano risultano una “imponente mani­festazione funebre” a cui partecipa col proprio gonfalone anche la Congregazione di Carità, mentre l’orazione viene letta dall’avvocato Francesco Ferraris.

Ancora “La Sesia” ricorda che egli “fu anche animo di artista e come dilettante fotografo si ricordano di lui dei lavori, paesaggi, quadretti di genere, illustrazioni di avve­nimenti, documentazioni grafiche di antichi edifici scomparsi, che erano delle piccole opere d’arte”. La descrizione, per quanto sintetica, non si rivela un compito d’occasio­ne ed appare oggi precisa e circostanziata, segno di una buona diffusione almeno locale delle immagini del notaio Tarchetti, fotografo dilettante. Nulla risulta invece a proposi­to delle circostanze che hanno portato al deposito della maggior parte della sua produ­zione fotografica nei fondi del Museo Borgogna, sebbene si possa supporre che essa derivi da una precisa sua volontà, come dimostrerebbe la presenza sia delle stampe de­finitive sia dei negativi e di alcuni clichè tipografici da questi ricavati, mentre l’altro consistente fondo locale di immagini di Tarchetti, conservato alla Biblioteca Agnesia­na, proviene – come ricorda Mimmo Vetrò nel saggio in catalogo – da una donazione di Ernesto Gorini che le aveva acquistate dal fratello di Tarchetti, Giovanni, agli inizi degli anni ’60, ed è costituito da sole stampe fotografiche.

La sua attività di fotografo, almeno per quanto è possibile ricostruire sulla base dei ma­teriali conservati presso il Museo Borgogna, inizia negli ultimi anni del XIX secolo al­ternando immagini di paesaggio (Il lago di Viverone, la Valtournanche) ad occasioni maggiormente legate alla cronaca degli avvenimenti cittadini, ma certamente i temi che maggiormente lo affascinano, a cui dedicherà sin dal principio la sua attenzione, sono quelli propri della fotografia artistica, come risulta dalle due immagini comprese nella proiezione organizzata nel 1902 (verosimilmente la sua prima presenza pubblica) Ef­fetto di neve e Sant’ Andrea,  influenzata forse quest’ultima dalla campagna di rile­vamento del principale monumento vercellese che Pietro Masoero conduceva in quegli anni e che avrebbe portato nel 1907 all’edizione del volume dedicato alla basilica, rea­lizzato in collaborazione con Romualdo Pasté e Federico Arborio Mella.

Proprio a Masoero, che nel 1900 era stato delegato al Congresso Fotografico di Parigi con Rodolfo Namias, fondatore della rivista nel 1894, si deve forse la presenza delle opere di Tarchetti sulle pagine de “Il Progresso Fotografico / Rivista mensile di foto­grafia scientifica e pratica” che ancora oggi si pubblica a Milano sotto la direzione del figlio del fondatore, Gian Rodolfo Namias[19], presenza che permane costante per cir­ca un decennio e porta complessivamente alla pubblicazione di circa 100 immagini. Nel numero di dicembre dell’anno 1904 sono citate per la prima volta fotografie di Tar­chetti, non reperite, che saranno comprese nel supplemento” Arte Fotografica” per il 1905: Sulle rive del Sesia e Arriva il babbo stampate in fotocalcografia mentre Una partita interessante, fotografia di Tarchetti dipinta da Valeria Josz di Milano, viene stampata in tricromia, come accade anche l’anno successivo per una Marina. La presenza di proprie immagini sul prestigioso supplemento costituisce certo un rico­noscimento importante per il dilettante vercellese, di cui si riconosce che “i lavori … sono come sempre ispirati da un gran buon gusto e conformi alle esigenze della tec­nica. L’avv. Tarchetti è un gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce tal­volta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto. L’avv. Tarchetti ci ha inviato i suoi lavori fuori concorso avendo già avuto la prima onorifi­cenza lo scorso anno nel nostro concorso.”[20] Questo commento, datato 1906, forni­sce una prima messa a punto dell’attività di Tarchetti: i temi più frequenti sono costituiti dalle “scene di vita” , cioè da immagini che ricorrendo alle possibilità concesse dalle nuove emulsioni rapide al gelatino-bromuro d’argento, pretendono di essere “istanta­nee” pur non riuscendo ancora a nascondere, per imperizia, il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli “attori”. Ciononostante le fotografie di Tarchetti risultano vincitrici sia del concorso indetto dalla rivista sia di quello indetto dalla Ditta Fumagalli di Milano, editrice di cartoline in parte utilizzate anche da “Pro­gresso” quale servizio per i propri abbonati.[21]

L’organizzazione artificiosa degli attori in scena non risulta comunque così evidente come potrebbe apparire dalle osservazioni sopra riportate o meglio non caratterizza univocamente tutte le immagini: se alcune di quelle riprodotte in cartolina, oggi com­prese nella collezione Peraldo, non sfuggono a tale artificiosità, denunciata persino in titoli quali Partiamo!, Primi servizi o Nonna solerte, le fotografie pubblicate sulle pagine della rivista, certamente selezionate da un occhio esercitato e attento, co­stituiscono ormai delle prove soddisfacenti in cui l’indagine del mondo contadino sem­bra staccarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica per mettere a frutto almeno in parte le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico.

La fama acquisita sulle pagine della rivista milanese si riflette anche nell’ ambiente cit­tadino, come mostra il commento de “La Sesia”[22] alla sezione fotografica della Esposizione organizzata dall’ Associazione “Pro Emigratis” che si tiene nei locali del nuovo asilo Umberto I dal 19 al 29 maggio del 1906: tra i pochissimi fotografi presenti (“Non molto copiosa ma interessantissima la mostra fotografica”) al solo Tarchetti, autore di “una serie di istantanee e vedute panoramiche”, viene riconosciuta la “bella fama di dilettante valente”, di lì a poco impegnato – crediamo – in una revisione pro­fonda del proprio lavoro e soprattutto del proprio atteggiamento nei confronti degli “attori” con cui compone le “scene di vita”, protagonisti in quegli stessi giorni delle lotte per la conquista delle otto ore che dilagano in tutto il vercellese. Il 30 di maggio infatti “un altro gruppo (di mondine) con la bandiera bianca e rossa, ripeté la dimostrazione e si portò alla Camera del Lavoro … quindi al municipio e alla sottoprefettura”[23] ed il giorno successivo la cavalleria carica i dimostranti sulla strada per Olcenengo. Tarchetti dedica a questi avvenimenti una breve sequenza di tre imma­gini (Sciopero), mai pubblicate su alcuna rivista fotografica, in cui lo sguardo affa­scinato con cui riprende il corteo delle donne molto deve alla struttura iconografica de Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, esposto per la prima volta alla Quadriennale di Torino del 1902.

Non sappiamo quanto profondamente, nella realtà, l’inattesa tra­sformazione degli umili contadini in gruppo sociale con una precisa coscienza di classe, abbia mutato la percezione del mondo rurale in un personaggio quale Tarchetti, ma è innegabile il riconoscimento di una trasformazione nel modo di scegliere i temi e comporre le immagini che caratterizza gli anni successivi al 1906, sebbene il quadro di riferimento complessivo continui ad essere costituito da una produzione tendenzial­mente ‘artistica’ che trova le proprie radici tematiche ed espressive nella tradizione pittorica del secondo Ottocento italiano. “Questo valentissimo dilettante – recita una nota critica del 1907 – ci ha ormai abituato ai paesaggi animati trattati da maestro e che strappano esclamazioni ammirative anche ai pittori. Come sempre anche questa volta, si distingue, per la rara abilità con cui sa cogliere i motivi della vita nelle città, nelle strade, nei campi, ottenendo sempre dei veri quadri, dimostrando quanto sia vi­vissimo in lui il desiderio di perfezionare il suo lavoro, tenendo conto delle nuove con­quiste senza giungere alle esagerazioni di certa arte fotografica che oggi per alcuni co­stituisce il non plus ultra, ma che si potrebbe chiamare incomprensibile per chi non è arrivato nell’arte a simile pretesa evoluzione.[24]

La polemica su “certa arte fotografica” che ricorre quasi esclusivamente alla stampa ai pigmenti, risulta essere decisamente pretestuosa sulle pagine di una pubblicazione quale “Il Progresso Fotografico” che propugna, per bocca del suo direttore Namias, il ricorso ai processi alla gomma bicromatata coi quali “si fa strada l’intervento del sentimento e gusto artistico dell’operatore nella produzione della copia positiva”[25] e sembra essere destinata ad aprire la polemica con “La Fotografia Artistica”, la nuova prestigiosa rivista internazionale pubblicata a Torino a partire dal 1904 da Annibale Cominetti, vercellese di origine[26], unanimemente considerata la pubbli­cazione culturalmente più avanzata del panorama fotografico italiano di quegli anni; la sola in grado di poter essere confrontata con la mitica “Camera Work” fondata da Stieglitz a New York l’anno precedente, a cui del resto la rivista torinese più o meno esplicitamente si rifaceva, propugnando la causa comune della “fotografia come stru­mento di espressione individuale”, di cui presenta almeno nei primissimi anni, un pa­norama ampio e variegato di autori e correnti anche profondamente diverse tra loro, che vanno dalle immagini di derivazione simbolista di Puyo, Demachy o Marchi per l’Italia, ai “quadri religiosi” di Riccardo Bettini, di cui il primo fascicolo del 1905 offre un allucinante La Trasfigurazione, alle stampe alla gomma di Luigi Cavadini, già presente ne “Il Progresso Fotografico” , che diviene uno dei più assidui collabora­tori della rivista sia come titolare della calcografia veronese da cui escono alcune delle tavole fuori testo che corredano la pubblicazione sia quale autore di immagini, special­mente vedute e paesaggi, marcate a volte da un sentimentalismo esasperato.[27]  Corredano questo variegato apparato fotografico, arricchito da riproduzioni delle ope­re esposte nelle più importanti mostre d’arte quali la Quadriennale di Torino e la Bien­nale di Venezia, articoli di diverso impegno e levatura, alcuni per così dire di carattere eminentemente teorico, di estetica, altri di taglio manualistico, dedicati all’analisi delle basi della fotografia artistica, nel tentativo di mettere a punto una tecnica dell’estetica in grado di per sé di garantire il raggiungimento di elevati traguardi artistici o forse ritenendo che il pubblico di dilettanti a cui essi sono rivolti sia sostanzialmente digiuno anche delle più elementari nozioni di tecnica fotografica, negando così implicitamente il carattere elitario che la rivista pretende di avere. Diversamente da quanto accade sulle pagine del periodico milanese le “scene di vita” pubblicate ne “La Fotografia Artistica” risultano molto più evidentemente costruite, con scelta accurata della posa, controllo minuzioso delle luci in ripresa e virtuosistico uso delle più varie tecniche di stampa, manifestazioni queste di un concreto ed evidente intervento dell’ autore che proprio nella sapienza delle manipolazioni mostra le proprie potenzialità espressive di artista, in grado di “modificare l’immagine secondo il pro­prio sentimento”. Poiché in realtà non sono certo i temi ed i soggetti prediletti a distin­guere gli autori presenti nelle pagine delle due riviste, che anzi – soprattutto a partire dal 1907 – diventano relativamente intercambiabili sino ad operare addirittura un ribal­tamento negli anni dopo il 1910, quando “Il Progresso Fotografico” apre le proprie pagine alle stampe alla gomma ed ai bromoli, mentre “La Fotografia Artistica”, che cessa le pubblicazioni nel 1916, abbandona gradualmente il filone delle immagini ‘simboliste’ per presentare una quieta sequenza di paesaggi, ritratti, animali e scene di genere.

Ciò che continua invece a differenziare le due testate è l’atteggiamento di fondo nei confronti della lettura dell’immagine; così nello stesso anno 1909 una immagine di Tarchetti compare quale Quiete campestre  sulle pagine di “Progresso” per assume­re ne “La Fotografia Artistica” il titolo più rarefatto e astratto di Nuages et rizières e dell’autore vercellese, indicato come uno dei più apprezzati ed assidui collaboratori della rivista sebbene la sua presenza sia sporadica e limitata a poche annate, si pubbli­cano significativamente quasi solo immagini di paesaggio, rifiutando di fatto la vasta produzione delle “Scene di vita e di lavoro” che tanta ospitalità trova sulle pagine della rivista milanese e nella produzione di cartoline.

Sono questi gli anni in cui più assidua è la presenza di Tarchetti: dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” mentre dal 1909 al 1912 ne compaiono dodici in “La Fotografia Artistica”; tra queste andranno collocate anche le sette fotografie presentate alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre ed il novembre del 1912 in occasione della Esposi­zione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione[28] a cui partecipano artisti quali Follini, Reycend, Allason, Morbelli e Mazzucchelli oltre ad una nutrita schiera di esponenti locali quali Alberto Ferrero, Francesco Bosso, Francesco Porzio, Attilio Gartmann ed altri.

L’iniziativa dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, impegnato negli stessi giorni a sostenere le nuove lotte dei lavoratori agricoli per la conquista delle otto ore[29], è invece seguita in ogni dettaglio dalle pagine de “La Se­sia” che commentando la sezione artistica ripropone tra le righe il conflitto tra produ­zione pittorica e immagine fotografica; dopo aver rilevato che “non tutte le opere che fanno parte della mostra … rispondono alle esigenze del programma compilato dai pro­motori”, parlando di uno degli artisti presenti, il vercellese Ferrero, rileva come egli certo non sia uno “di quei pittori, dei quali si sospetta qualche confidenza eccessiva con la prospettiva del tutto meccanica e artificiale della fotografia istantanea: prospetti­va non rispondente cioè alla visione fisiologica dell’occhio umano, e alle leggi della geometria descrittiva, di cui la prospettiva normale è appunto un ramo”. Al di là della confusione tra psicologia della percezione e strutture rappresentative fortemente codifi­cate, si ritrova in queste righe una eco dei dettami imposti dalla pittura impressionista con il lavoro en plein air ma anche, e forse più prossimo, un ricordo delle riflessioni di P. H. Emerson che nel suo testo del 1889 si era soffermato a riflettere proprio sul contrasto, sulla contraddizione si potrebbe dire, tra fisiologia dello sguardo e visione fotografica, rilevando lo scarto che esiste tra la precisione indifferenziata con cui la lastra registra l’immagine e la selezione dei piani e delle relazioni prospettiche operata fisiologicamente dal sistema visivo, per giungere infine a proporre un uso attento di alcuni espedienti quali la messa a fuoco selettiva (che si trasformerà nella pratica corren­te dei decenni successivi in un uso sfrenato del flou) proprio per simulare un livello “naturalistico” di percezione e costruzione dell’immagine, rifiutando quindi le specifi­cità della visione fotografica, considerate allora pressoché unanimemente prive di po­tenzialità artistiche.

Sono queste le opinioni condivise anche dall’anonimo recensore de “La Sesia” che chiude “la rivista degli artisti vercellesi con un cenno alla magnifica raccolta esposta dall’ avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del calore [è da intendersi ovviamente colore, cioè autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore. Tanto la raccolta di Tarchetti quanto quella del Tournon, hanno un alto significato tecnico e artistico, poiché indicano fino a che alto grado di interpretazione del vero possa giungere la fotografia, quando la si utilizzi con piena scienza dei suoi mezzi materiali e con elevati intenti d’arte.”[30]

La presenza di questi due autori, a cui si aggiunge nella mostra il solo G. Bertucci di cui nulla ci è noto, risulta particolarmente significativa nell’ambito di questa manifesta­zione, e non solo in termini di storia della fotografia locale: sia l’ingegnere Tournon, che sarà presidente della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, sia Tarchetti, il cui fratello Giovanni è agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettigné presso Santhià, so­no legati a filo doppio alla grande proprietà terriera che esprime in quegli anni, partico­larmente a Vercelli, tutti gli esponenti di maggior rilievo della classe dirigente, econo­mica e politica; fortemente connotata da una precisa volontà di difesa dei valori rurali intesi quale fondamento etico ed economico, e quindi culturale, dei rapporti sociali, in cui la città, salvata dai pericoli dell’industrializzazione, è intesa ancora quale appen­dice gestionale di un territorio agricolo, in un rapporto sostanzialmente non dissimile da quello che connette il nucleo rurale della grande cascina a corte al proprio tenimen­to, alla terra; dove alle nascenti rivendicazioni del socialismo si contrappone quello che Castronovo ha definito “patriarcato georgico”, intriso di paternalismo sociale, che si manifesta nelle associazioni benefiche e di carità quali la già ricordata “Pro Emigra­tis” o la Congregazione di Carità ma anche, con declinazioni diverse, nelle associazio­ni di mutuo soccorso. Ecco allora che le due presenze sono in sintonia col carattere celebrativo dell’Esposizione, che cade in un momento di forte conflitto sociale; le im­magini dei due autori si prestano ancora al processo, ormai sempre più anacronistico, di mitizzazione del mondo rurale, alla celebrazione di un orizzonte sociale bloccato che rifiuta ogni industrializzazione che non sia subordinata allo sviluppo dell’agricoltura e vive le nascenti manifestazioni dei conflitti di classe in modo quasi prepolitico, come rottura di un equilibrio che è culturale ancor prima che economico.

Scene di vita e di lavoro

La produzione fotografica di Tarchetti è dedicata a due grandi temi, il paesaggio e le scene di vita e di lavoro, suddivise queste ultime, come vedremo, in ulteriori, successi­ve categorie che corrispondono all’ordinamento dato dallo stesso autore alle proprie stampe. La cronologia ricostruita a partire dalle immagini pubblicate sulle diverse riviste mo­stra come tutti questi temi siano da subito compresenti e permangano per tutto l’arco della sua produzione, variando però anche sensibilmente nel trattamento, ciò che si tra­duce in scelte diverse di composizione dell’immagine e dell’inquadratura e nella scelta di particolari condizioni di luce, senza ricorrere mai a manipolazioni né a tecniche par­ticolari quali le stampe ai pigmenti, fedele in questo alla lezione sopra ricordata di Ma­soero; unica concessione esplicita al modello pittorico è costituita, in alcuni casi, dall’impaginazione della stampa definitiva, sovente tagliata per essere riportata a propor­zioni tra i lati estranee ai moduli fotografici, prediligendo in particolare gli schemi for­temente orizzontali, ottenuti eliminando drasticamente ampie porzioni di cielo, utiliz­zati sia per scene urbane – quali i mercati in piazza Mazzini – sia per le immagini di greggi e mandrie in cui il richiamo alla produzione pittorica coeva assume le forme di una ripresa quasi letterale, del resto riscontrabile anche in esempi apparentemente meno diretti come accade in Lavori campestri (1907 c.), di cui si conosce una ripro­duzione non datata, da porre in confronto con opere quali Primavera, di Clemente Pugliese-Levi, del 1882, o Prateria presso Vercelli, dello stesso autore, presentata all’Esposizione d’Arte Vercellese Moderna del 1922.[31]

I richiami alla pittura piemontese del secondo Ottocento sono evidentemente molto for­ti e, nel caso degli epigoni, si può parlare tranquillamente di sorprendenti coincidenze in cui risulta difficile valutare a quale delle due parti assegnare il debito; ma certo i confronti si fanno coi maggiori e così “In certi effetti ricordava il Fontanesi” dice Masoero commentando le fotografie di Virginio Locarni presenti all’Esposizione di Torino del 1902, e l’artista costituisce certamente uno dei termini di riferimento ricor­renti insieme a Lorenzo Delleani, quest’ultimo presente numerose volte in giurie di concorsi ed esposizioni fotografiche, senza troppo sottilizzare sulle differenze o meglio ricorrendo di volta in volta al modello che più si presta all’occasione. Così in Tarchetti gli “Studi di piante” successivi al 1905, (nei precedenti si registra la presenza della figura umana quale misura del paesaggio secondo una consuetudine fotografica ancora fortemente ottocentesca), richiamano con evidenza le atmosfere del paesaggismo natu­ralistico velato di romanticismo, in parte mitigato qui da una perfezionistica ricerca del vero che lo porta ad utilizzare per questi soggetti solo lastre di grande formato (18/24) da cui trarre prevalentemente stampe per contatto, in grado di restituire al massimo li­vello la ricchezza di dettagli e di toni della scena.

Come accade anche in Francesco Negri e in numerosi altri autori contemporanei, scarse sono le vedute di ampio respiro, i paesaggi aperti della pianura; la ripresa si dedica al dettaglio (“Boschi e piante” e “Piante e acqua”), il centro di interesse è costituito dalla configurazione ambientale complessiva, priva di singoli elementi emergenti, pre­feribilmente illuminata da luci diffuse, date da cieli coperti. La prevalenza del dato at­mosferico, sottolineato da contrasti di luce, cieli nuvolosi e tramonti si ritrova invece in alcune immagini del 1909-1911: le marine (Poesia del mare, Maestosa tranquil­lità), le vedute del Sesia (Pescatore, Dopo il temporale) e alcune immagini di montagna quali Il Mucrone e Il castello di Ussel, a cui forse possono essere accostate cronologicamente le vedute di Vercelli dal campanile del Duomo, non datate, che Tarchetti intitola significativamente “Cieli”. Ancora un forte interesse per il dato atmosferico si ritrova nella serie intitolata “Inverno” (1908-1912) in cui il centro di attenzione è costituito dal fenomeno nel suo svolgersi e non semplicemente dalle possi­bilità pittoriche che l’immagine della città coperta dalla coltre di neve può offrire. Qui il riferimento è prevalentemente fotografico e richiama in particolare le opere di Alfred Stieglitz, note in Italia per essere state presentate fin dal 1894 alla Esposizione Fotogra­fica di Milano e poi ancora, negli anni successivi, a Firenze (1898) e Torino (1902).[32] Il richiamo a Lorenzo Delleani ed al bozzettismo della scuola biellese è invece partico­larmente evidente in immagini quali La locomotiva, pubblicata in “La Fotografia Artistica” del 1912, e nelle serie dedicate agli animali, realizzate dopo il 1908 (Pa­scolo, Dopo il pascolo, Ritorno dal pascolo) in cui comunque si riscontrano rimandi precisi, in termini di struttura compositiva, anche alla già citata Prateria presso Vercelli di Pugliese-Levi. Queste immagini, che Tarchetti classifica come “Varie: vacche, pecore, ragazzi, casolari, polli”, comportano anche, in alcuni casi la presenza di figure e rientrano nella più vasta categoria delle “scene di vita e di lavo­ro”, titolazione quasi certamente non autografa, dovuta forse ai redattori di “Progres­so” come sembra indicare sia la presenza di titoli diversi per la stessa immagine a se­conda che sia pubblicata come illustrazione del periodico o edita come cartolina sia la ricorrenza dello stesso titolo a corredo di immagini di autori diversi, culturalmente an­che molto lontani da Tarchetti, quali Wilhelm von Gloeden.

All’interno di questa grande categoria tematica compaiono immagini di soggetto diverso (bambini, lavori agricoli, scene di strada) ma tutte legate alla documentazione del mondo rurale, sebbene di questo venga fornita un’immagine assolutamente parziale, privilegiando quali soggetti le occupazioni marginali come il taglio del bosco, la rac­colta di fascine, la spigolatura, il “ritorno dalla fonte”. Se si esclude un’immagine di mondine (Il lavoro nelle risaie del 1911) la risicoltura, il più importante ciclo pro­duttivo dell’agricoltura vercellese, base pressoché esclusiva dell’economia locale, non rientra tra i temi maggiormente frequentati da Tarchetti che privilegia invece soggetti legati alla coltura del grano (Falciatori, presente anche in cartolina, L’aratura ed altre) e questa scelta, se può trovare qualche fondamento nella biografia dell’autore, che riprende molte di queste immagini proprio nei pressi della tenuta di Vettigné di cui il fratello era agente, risulta essere soprattutto di tipo culturale, una scelta di non coinvolgimento, che consente di mantenere una distanza netta nei confronti del sogget­to, ciò che ne permette ancora, appunto, una lettura mitologica, finalizzata alla compo­sizione del quadro, della scena, sebbene alcune scelte espressive quali l’uso molto pre­ciso e calibrato dell’inquadratura, in cui la presenza umana risulta sempre privilegiata e dominante, inserita in un ambiente che la connota, e la tecnica dell’istantanea, definitivamente padroneggiata da Tarchetti dopo i primissimi anni, possano suggerire anche ipotesi meno univoche, un approccio fotografico al tema sempre in bilico tra bozzetti­smo e documentazione.[33]

Che tale fosse ormai il suo modo di operare lo dimostra la presenza di numerose varianti, corrispondenti a momenti successivi della stessa situazione, che risulta quindi documentata mediante una sequenza successiva di scatti, secondo un modo di operare allora proprio di pochi fotografi (si pensi, in un ambito diverso, a Primoli), che diverrà pratica corrente solo dopo l’introduzione della pellicola in rullo perforato, di piccolo formato. L’interesse per la sequenza in fase di ripresa (mai però riproposta in stampa) è evidente anche nelle due immagini di giochi di bimbi presentate in catalogo, mentre una variante dello stesso procedimento, finalizzata però alla ricerca di costanti compor­tamentali o tipologiche si rileva sia in altre immagini di giochi in cui il soggetto è sem­pre il “girotondo” (Giochi felici, Nell’ora del riposo) sia nella serie dedicata ai carri, costituita dalla documentazione esaustiva di tutte le varianti tipologiche locali di questo mezzo di trasporto.

Anche le scene di ambiente urbano hanno una loro cifra singolare, un poco passatista: se escludiamo la cronaca, che costituisce una produzione minore e d’occasione, Tar­chetti rivolge prevalentemente la propria attenzione a mestieri o modi di vita già allora in declino, e questa potrebbe essere letta come manifestazione di una sensibilità acuta se non fosse, più probabilmente, ancora una volta il sintomo di un rifiuto più o meno esplicito dell’industrializzazione. Certo anche qui la qualità delle immagini è general­mente notevole, la realtà viene indagata senza apparenti infingimenti e costruzioni arti­ficiose, ma l’occhio del fotografo opera distinzioni drastiche, e le assenze risultano si­gnificative; l’attenzione principale non è rivolta alla città che cambia, alla “città che sale”, ma a quella che resiste al cambiamento, che è ancora legata alla tradizione. Non immagini di manifatture e opifici, non di operai né di borghesi. Anche nelle scene urbane la città è vista solo in relazione alla campagna circostante: il ritorno dai campi, i venditori ambulanti, ma – soprattutto – i mercati, il momento dello scambio, uno dei nodi fondamentali del sistema di relazione tra centro e territorio, a cui Tarchetti dedica una splendida serie di immagini, mai pubblicate su rivista, alcune edite in cartolina. Altre cartoline ancora, tutte edite dalla ditta Larizzate di Vercelli, sono poi dedicate alla illustrazione dell’immagine della città, di cui si sottolineano prevalentemente le permanenze medievali, indagata sia negli aspetti monumentali (Sant’Andrea, il Brolet­to, le torri) sia negli angoli minori (il passaggio di Rialto, la cosiddetta Casa degli Ele­fanti), in cui rispunta in parte il tema del pittoresco (“Vercelli che scompare”). Sono, tutte, immagini anomale; lontane per impostazione e gusto dalla produzione consueta di questo autore, e solo l’inequivocabile indicazione sul verso ci convince ad attribuirle al notaio Tarchetti, dilettante fotografo, che qui fa sfoggio di una consumata abilità tec­nica nell’uso di macchine fotografiche decentrabili e basculabili, indispensabili ad otte­nere un perfetto controllo dei parallelismi, che sale ai primi piani delle case più prossi­me per riprendere le torri o la Piazza Cavour, costruendo immagini assolutamente indi­stinguibili dalla produzione corrente di soggetto simile realizzate in ogni parte d’Italia, applicando alla lettera i moduli canonici di impaginazione dell’immagine e di ripresa che erano stati messi a punto e di fatto codificati nella vastissima produzione dei grandi studi fotografici che si dedicavano alla documentazione, primi fra tutti gli Alinari. Per concludere la rassegna delle opere di Tarchetti o, meglio, per esaurire la serie dei temi da lui affrontati non rimane che parlare delle immagini che hanno per soggetto i bambini; serie vastissima, presente come una costante lungo tutto l’arco della sua pro­duzione a noi nota, che compare sia sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” sia in numerosissime cartoline. Se escludiamo una delle prime fotografie realizzate, scatta­ta a Roma e pubblicata nel 1905, anomala rispetto alla produzione successiva e stretta­mente legata all’occasione[34], tutte queste immagini si servono del soggetto infantile per costruire piacevoli quadretti di genere, segnati da uno sguardo affettuoso, in cui il sentimento idilliaco non è mai sfiorato dal sospetto dell’ironia, corredati di opportuni titoli (Passatempi infantili, L’età felice, Senza pensieri, Ore d’ozio e simi­li) che non fanno che sottolineare retoricamente il contenuto dell’immagine, rafforzan­do l’idea di una visione pacificata, bucolica appunto, del mondo rurale, in cui la pover­tà delle condizioni materiali di vita -che pure emerge evidente- è riscattata nella visio­ne dell’autore da una condizione aurorale di innocente felicità. La stessa quiete dei la­vori campestri, dei buoi all’aratro, delle schiene ricurve dei falciatori sotto i grandi orizzonti padani, dei piccoli gesti calmi, consueti, della vita sulle aie dei cascinali in cui, ancora, ad accentuare l’intimismo della scena sono quasi sempre presenti i bambini.

Il migliore dei mondi possibili? Uno sforzo sovrumano per guardare e non vedere? Nulla può essere escluso, ma alcuni indizi lasciano affiorare una possibilità di lettura meno semplicistica, che consente di riconoscere, in un quadro complessivo fortemente segnato dalle tematiche della fotografia artistica, elementi diversi e in parte divergen­ti, in un equilibrio precario che oscilla tra l’aneddotica delle immagini di bimbi e la “riproduzione del vero” dei paesaggi, avendo al proprio centro la vastissima produ­zione delle “scene di vita e di lavoro”, cioè tutte quelle immagini che vanno a compor­re un affresco complesso del mondo rurale delle campagne vercellesi d’inizio secolo, in cui il documento si mescola con la scena di genere ed a volte emerge a fatica da essa ma non è mai definitivamente escluso, negato, e non solo per l’incapacità struttura­le dell’immagine fotografica di staccarsi dal reale.

Una conferma in tal senso ci viene dall’analisi del suo proprio modo di organizzare le copie fotografiche, modo che riflette immediatamente il percorso di analisi dei sog­getti e di selezione delle immagini da proporre alle riviste. Circa trenta sono le classi in cui Tarchetti suddivide i propri soggetti, rilevabili dalle scritte autografe che segna­no ciascuno dei raccoglitori (buste, cartelline, faldoni) in cui le stampe sono conserva­te; scompaiono qui i titoli dal sentimentalismo facile, e le “Scene di vita e di lavoro” ritornano ad essere indicate quali “Agricoltura”, “Fiere e mercati”, “Carri”, “Vac­che e pecore”, “Ragazzi”, “Dintorni di Vercelli”, “Sesia” ed altri. Ciascuna di que­ste classi, che corrisponde ad uno o più contenitori, certamente impoveriti rispetto alla loro consistenza iniziale, comprende numerose immagini, a volte decine, altre centi­naia, che sono risultato del lavoro condotto sul tema, ripetutamente indagato, appro­fondito mediante la registrazione di numerose varianti non semplicemente iconografi­che, cronologicamente anche distanti tra loro. Lo si vede nelle minute scene di vita ru­rale ma anche altre serie, apparentemente meno significative, quali le già ricordate im­magini di carri da traino animale, in cui la varietà di mezzi e situazioni documentate è tale da poter essere letta quale vera e propria indagine tipologica, compiutamente do­cumentaria. Non è possibile credere che questa cospicua produzione, queste ampie se­rie tematiche, fossero destinate solo a costituire un repertorio di prove fotografiche a cui attingere per la realizzazione della bella immagine finale, di una ‘fotografia arti­stica’, sebbene esista una obiettiva coincidenza di temi, di soggetti, che lo accomuna a molti rappresentanti di questo filone, di cui del resto Tarchetti è stato uno degli esponenti più noti, come dimostra il grandissimo numero di sue immagini pubblicate nel primo decennio del secolo, testimonianza di una consonanza di gusto ampiamente dif­fusa e consolidata.

Ma forse la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica è solo apparente; una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[35], per uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, ”l’art et le document peuvent, et même doivent, s’ entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[36] Certo le contraddizioni sono molte e la ventilata possibi­lità di ricorrere a “saggi di ricostruzione storica” o all’inserimento di personaggi (ve­rosimilmente in costume) – che porta alla mente un certo filone della cultura torinese che va dalla realizzazione del Borgo Medievale nel Parco del Valentino alle fotografie di Edoardo di Sambuy e poi di Guido Rey – può sembrare forse una concessione ecces­siva, un prezzo troppo alto da pagare alla possibilità di raccogliere, comunque, per quanto disturbate da impropri rumori di fondo, delle prove documentarie sotto forma di immagini, ma questo atteggiamento potrebbe rivelare anche una concezione molto avanzata del concetto di documento e l’appello finale, il valore anche civile della pro­posta, forse potrebbe essere stato sottoscritto da Tarchetti; l’impegno di conservare al­meno in immagine alcune testimonianze della storia locale (compito che in Masoero assume la forma di un progetto finalizzato), dimostrato indirettamente anche dalla deci­sione finale di donarle al Museo Borgogna, ci consente oggi di ricorrere ad esse quale fonte documentaria relativa alle condizioni materiali di vita delle popolazioni dell’agro vercellese di inizio secolo, e di riconoscere lo sguardo con cui la borghesia urbana le osservava.

Note

 

[1]  “Il Vessillo della Liberta”, Vercelli, 27 settembre 1860 e 30 aprile 1863. La data del 1863 è indicata anche in Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Edizioni Quasar, 1978, p. 126.

 

[2] Per le notizie relative ai dagherrotipisti biellesi cfr. Becchetti 1978,  p. 55-56 ed anche Michele Falzone del Barbarò, Schede, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 2 , pp. 903- 942.

 

[3] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1887, in Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa,  catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 149-158.  Per Giuseppe Costa cfr. Claudia Cassio, a cura di, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980,  pp. 212-214. Giusep­pe Costa risulta ancora presente all’ Esposizione del 1906 con un ritratto ad olio del barone  Vincenzo Cesati, cfr. L’Inaugurazione dell ‘Esposizione “Pro Emigratis” all’Asilo Um­berto I, “La Sesia”, 36 (1906), n. 61,  22 maggio .

 

[4] C. Cassio 1980, p. 202.

 

[5] Il primo studio relativo a Masoero si deve a Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973,. Per altri saggi sulla produzione di questo fotografo, in particolare sulle campagne di documentazione del patrimonio artistico ed ar­chitettonico vercellese cfr. LINK MASOERO 1985 . Cfr. anche LINK MASOERO 1986.

 

[6] Dionigi Arborio di Gattinara, Carnet del Dilettante Fotografo. Torino: Tipografia Editrice C. Candeletti, 1890;  Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901 quindi nel “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167.

 

[7] Cfr. Marcone 1973, p. 28. Per il testo della conferenza cfr. Pietro Masoero, Arte e Beneficenza. Firenze: Tipografia di Salvatore Landi, 1903. Nei primi anni del secolo ri­sulta a Vercelli una notevole presenza di studi fotografici, di cui si presenta qui un primo elenco in attesa di completare le ricerche tuttora in corso sui Fondi Fotografici Vercellesi, condotte, per incarico dell’Assessorato per la Cultura del Comune di Vercelli, da chi scri­ve in collaborazione con Domenico Vetrò. Oltre ai noti studi fotografici di Boeri, Castellani, Costa, Masoero e Valenzani risultano presenti anche E. Rosetta, già collaboratore di G. Costa, G. Orlandi, R. Vercellino , S. Gambarova, che passa al professionismo dopo le prime prove da dilettante, M. Pozzi, G. Borghello e L. Corona, il solo fotografo vercellese presente all’Esposizione di Torino del 1911, cfr. Esposizione Internazionale di Torino 1911: Catalogo Ufficiale Illustrato del­l’Esposizione e del Concorso Internazionale di Fotografia. Torino: Tipografia Momo, 1911.

 

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, pp. 4-5.

 

[9] Marina Miraglia, La fotografia pittorica, in Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979,  pp. 9-15.

 

[10] Enrico Thovez, Poesia fotografica,  “L’Arte all’Esposizione del 1898”, n. 9, pp. 67-70, ripubblicato in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 277-281.

 

[11] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171. L’opinione di Masoero viene ripresa quasi letteralmente in un articolo di Albert che compare più di dieci anni dopo: “L’arte fotografica deve restare nettamente fotografica. È solo a questa condizione assoluta che essa può esse­re ammessa come arte. Essa non deve cercare di imitare né il pastello, né lo sfumino, né la matita, né l’acquarello: è necessario che resti una fotografia e cioè una cosa che non si può visibilmente ottenere che con mezzi puramente fotografici”; Armand Albert, Cosa intendo per fotografia artistica, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), n. 10, pp. 292-95, citato in Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2, pp. 421-544 (503-504).

 

[12] Il termine “fotografia pittorica” a cui si fa comunemente ricorso in Italia per indicare questo fenomeno è in realtà una definizione piuttosto recente; al momento della sua massi­ma diffusione tale fenomeno fotografico era comunemente noto come “fotografia artisti­ca”. Si veda a questo proposito la precisazione contenuta nel già citato testo di Tam­poni del 1909 (cfr. nota 8): “L’appellativo di “Pictorial” che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione. Risulta evidente credo che non si tratta di una semplice precisazione filologica ma di una diversa concezione critica; per l’autore il termine “pittorica” sancisce una dipen­denza dalle “arti maggiori” che egli non è disposto a condividere.

 

[13] Arturo Alinari, Le Fotografie Artistiche. Appunti critici, “La Fotografia Artistica”, 3 (  1906),  n. 2,  pp. 25-26.

 

[14] Tamponi 1909, p. 4.

 

[15] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in  Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979,  p. 67.

 

[16] Tamponi 1909, p. 4.

 

[17] Ibidem. È necessario ricordare che in quegli anni non sempre risultava in modo così netto la distinzione tra fotografia artistica e documentaria. Anche per la fotografia di guerra “volendo copie fotografiche di bell’ effetto e stabili, da destinare ai musei del Risorgimen­to, si farà ricorso al processo al pigmento o ancor meglio al processo al bromolio che può permettere ad un operatore artista di rimediare alle manchevolezze della fotografia ed aumentarne l’effetto”, Rodolfo Namias, Per la documentazione fotografica della nostra guerra,  “Il Progresso Fotografico”, 22 (1915),  n. 6, pp. 161-166.

 

[18] Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione linguistica generale. Bari: Laterza, 1902. Il brano è citato in numerose storie della fotografia italiana e riportato in Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia. Bari: Laterza, 1982, p. 147.

 

[19] Colgo l’occasione per ringraziare il dotto Gian Rodolfo Namias che mi ha consentito di consultare le preziosissime annate della rivista che fanno parte della sua collezione priva­ta, fonte indispensabile per determinare, seppure approssimativamente, la cronologia delle opere di Tarchetti e per ricostruire il dibattito che si è svolto in quegli anni intorno alle valenze espressive dell’immagine fotografica.

 

[20] “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10,  p. 145.

 

[21] “II Progresso Fotografico”, 12 , (1905), n. 3. Le sole cartoline di Tarchetti sinora note sono conservate nella collezione vercellese di Giorgio Peraldo, che ringrazio. Già nel giugno del 1901 sulle pagine della rivista si annunciava la pubblicazione di cartoline, utilizzate quali immagini fuori testo, che saranno inviate separatamente agli abbonati. Nella stessa occasione si an­nuncia anche la pubblicazione, presso lo stesso editore, del periodico “La Cartolina”. L’anno successivo il reparto di fotocollografia di “Progresso” viene messo a disposizione degli abbonati per la stampa a pagamento di cartoline tratte da loro fotografie, cfr. “Il Progresso Fotografico”, 8 (1901),  n. 6:  9 (1902), n. 1. Oggi (2022) una significativa scelta di quelle cartoline, appartenenti all’Archivio Fornacca di Candelo (BI), è visibile all’indirizzo https://frafor.com/fotografo-tarchetti/.

 

[22] “La Sesia”, 36 (1906),  n. 64, 29 maggio. Alla sezione fotografica della mostra, intitolata” Arte e beneficenza” rifacendosi all’iniziativa promossa nel 1902 da Masoero, che risulta nel Comitato Ordinatore col pittore Ferdinando Rossaro e lo scultore France­sco Porzio, partecipano solo sette fotografi (Aldo Guallini, Luigi Caberti, Pietro Bellone, Carlo Gastaldi, Andrea Tarchetti, Cesare Grosso, “un intelligente operaio che si diletta di fotografia” e Ugo Graneri). Come si vede, a questa data Tarchetti è il solo rimasto del folto gruppo di dilettanti presentati da Masoero nella precedente proiezione del 1902.

 

[23] L’agitazione agraria nel Vercellese, “La Sesia”, 36 (1906),  n. 65, 1giugno 1906.

 

[24] “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), p. 163; 15 (1908), p. 329.

 

[25] Il Congresso Nazionale delle Arti Grafiche, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), pp. 156-157.

 

[26] Non è per ora possibile stabilire se esistessero legami di parentela tra Annibale e Giuseppe Cominetti, che nasce a Salasco (VC) il28 ottobre del 1882. Per Annibale Cominetti non sono state sinora effettuate indagini esaurienti, basti però ricordare che la madre, la nobil­donna Paola Cominetti era nativa di Vercelli, come si ricorda nel necrologio pubblicato in “La Fotografia Artistica”, 1913. Vercellese era anche Guido Momo, titolare dello sta­bilimento tipografico torinese che stampava la rivista. Anche Momo muore nello stesso anno, in febbraio, a seguito di un incidente occorsogli a Parigi.

 

[27] Per Luigi Cavadini cfr. La Fotografia Pittorica 1979, pp. 31-34, scheda a cura di Alberto Prandi.

 

[28] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione Mostra d’arte della campagna irrigua. Catalogo delle opere esposte, Vercelli, Gallardi e Ugo, s.d. (1912). Per i com­menti alla Mostra cfr. “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

 

[29] Inaugurando l’Esposizione Risicola, “La Risaia”,  13 (1912), n. 44, 26 ottobre: “L’Esposi­zione è dunque dei poveri e dei lavoratori e giova ai ricchi, ma non è forse così sempre?” Ed ancora: “il discorso del ministro Nitti” fu la glorificazione del grande assente, del lavoro, che era altrove e non lo ascoltava.”

 

[30] Cfr. “La Sesia” 1912. Le fotogra­fie a colori ricordate dall’articolista, più correttamente definite “diapositive” nel catalogo della Mostra, corrispondono verosimilmente alle autocromie oggi conservate alla Fondazione Sella di Biella, due delle quali sono state pubblicate in Miraglia 1981,  tavv. 679-680. A sottolineare il preciso interesse di Tournon per la fotografia occorre ricordare che nella Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tiene nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911, alcune delle pubblicazioni esposte, relative al primo periodo della storia della fotografia, sono appunto di proprietà del Tournon. Egli non compare invece tra i fotografi selezionati per il Concorso Interna­zionale di Fotografia che si tiene nella stessa occasione, mentre risultano presenti Vittorio Sella, nella sezione del CAI, Roberto Mosca ed il vercellese Luigi Corona. Cfr. Esposi­zione Internazionale di Torino, 1911. Catalogo.

 

[31] Per Clemente Pugliese-Levi cfr. Esposizione d’Arte Vercellese Moderna. Vercelli: Gal­lardi e Ugo, 1922. Angela Ottino Della Chiesa, Clemente Pugliese-Levi (1855-1936).  Mi­lano: Mondial Gallery, 1961.

 

[32] Per Francesco Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924. Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969. Sebbene una certa uniformità nel trattamento delle immagini di paesaggio fosse co­mune a molti dei dilettanti fotografi di inizio secolo (“vi sono nei paesaggi inanimati ca­ratteri di somiglianza anche se eseguiti da autori diversi in località diverse” rileva un arti­colo redazionale dedicato a L’esito del Concorso per le illustrazioni del “Progresso Foto­grafico” nel 1908 , “Il Progresso Fotografico” , 14 (1907), p. 162) il riferimento a Francesco Negri risulta, per i fotografi vercellesi, quasi obbligato. Le sue immagini so­no conosciute a Vercelli sia per il tramite delle proiezioni organizzate da Masoero, di cui Negri era intimo amico, sia per la sua presenza diretta in numerose occasioni quali la con­ferenza da lui tenuta alla Unione Eusebiana la sera del 27 gennaio 1906, dedicata alla illu­strazione storico artistica del Santuario di Crea, cfr. “La Sesia”, 36 (1906),  n. 13, 30 gennaio.

Per l’influenza di Stieglitz sulla fotografia italiana cfr. il saggio già citato di Miraglia 1981 e anche Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica. In Federico Zeri, a cura di,  Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 545-586.  Si veda in particolare la fotogra­fia di Federico Tensi, L’abreuvoir alla tav. 737 in cui, seguendo la lezione del grande fotografo americano, ciò che costituisce il soggetto della scena è la sua connotazione com­plessiva sottolineata dai dati atmosferici.

 

[33] Una attenzione per il mondo contadino sempre in bilico tra documentazione e scena di genere si riscontra già in molta produzione fotografica ottocentesca. Si vedano a questo proposito alcune delle immagini contenute in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979; Marina Mira­glia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bolletti­no d’Arte”, 70 (1985), serie VI, n. 33/34, settembre/dicembre, pp. 199-206; Bertelli,. Bollati 1979, tavv. nn. 32-33 ed anche, per un sommario panorama della produzione internazionale, Françoise Heilbrun, Philippe Néagù, Musée d’Orsay. Chefs-d’oeuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers- RMN, 1986. Ciò che cambia in Tarchet­ti, ed in altri fotografi dilettanti a lui prossimi, quali Giovanni Sanvitale di Parma, l’avvocato Umberto Beccuti di Moncalvo o il biellese Franco Bogge, è la modalità di approccio al tema, che in questi autori è programmaticamente quello dell’istantanea, di una tecnica cioè in cui costruzione della struttura compositiva dell’immagine (che porta tendenzialmente alla posa) e scelta dell’attimo fuggente (che è specifica delle possibilità tecnico-espressive della fotografia) faticosamente convivono.

 

[34] L’immagine viene pubblicata in “Il Progresso Fotografico”, 12 (1905), n. 5, luglio, col titolo  errato  Ciociari sulla scalinata del Campidoglio a Roma. Si tratta invece, come è facile verificare, della scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna. Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini, 1956, p. 246, commentando un’immagine di soggetto simile, dovuta a Giuseppe Primoli e datata circa il 1890, ricorda che i ciociari “veniva­no in particolare da Anticoli Corrado e Saracinesco. L’uso di star ad aspettare ingaggio [come modelli] sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui gradini della chiesa dei Greci, cominciò con la pittura di genere e finì con la prima guerra mondiale”.

 

[35] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n. 2, febbraio, p. 30.

 

[36] Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

La coda dell’occhio: Paolo Monti e la fotografia in Italia (2022)

Sommario

 

“Intenzioni fotografiche”   
Percorsi di formazione                                                     

Gli anni de La Gondola                                                                              

Le prime personali         

                                                            

Piccolo mondo antico                                                                 

“Fotografia inutile?”                 

                                                

“Non documento ma invenzione visiva”                            

Muri, Manifesti, Materie                                                          

Fotogrammi e chimigrammi                                                     

“Ritratti/ Artisti”                                                                          

A proposito di pubblicità     

                                                  

“Un certo Monti”                                                                          

Fotografare l’architettura contemporanea                        

La scultura                                                                                       

La pittura                                                                                          

I grandi architetti classici             

                                             

Storie,  luoghi, territori                                                                              

I censimenti emiliani           

                                                     

Note
Fonti archivistiche
Fonti bibliografiche

 

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“Intenzioni fotografiche”

 

Sulle pagine di un suo piccolo quaderno Paolo Monti registrava nel 1948 le proprie Intenzioni fotografiche[1], traendole in parte dall’edizione americana di “Popular Photography”; un chiaro indizio del ricercato, sistematico ampliamento dei suoi orizzonti culturali   e contemporaneamente della possibilità di accedere all’editoria straniera nella Venezia postbellica, quasi certamente per merito dei fratelli  Pambakian[2]. Le prime note riguardavano effetti di mosso e sfocato, cioè problemi espressivi e di linguaggio che molto avrebbe amato e approfondito nei decenni successivi. A  questi primi temi faceva seguito una serie di “soggetti fermi” da fotografarsi “con cavalletto e piccolissimi diaframmi”, tra i quali “vecchie porte e serrature (…) acciottolati (…) cortecce di vecchi alberi (…) grandi massi del Riale,” dei quali studiare il “peso architettonico delle varie forme – Ricordare le foto di Ansel Adams”. Seguivano poi indicazioni varie per la realizzazione di ritratti “con occhi completamente aperti e mossi” e “torsioni violente del viso”, che si direbbero poi non perseguite. E ancora: “gocce d’acqua su un cristallo” di volta in volta orizzontale o verticale e varie combinazioni di “sovraimpressioni” e “fotogrammi ottenuti per proiezione”.  Un elenco che mostra quanto le sue “intenzioni” fossero in quegli anni tanto eterogenee quanto sostanzialmente formali, anche per quanto riguardava  il confronto, importante, con la città di Venezia, da fotografare “a pelo dell’acqua (…) effetto di massa liquida omogenea mossa – con definizione del fondo (San Giorgio – Salute ecc.)”. Intenzioni  che avrebbe dovuto attendere almeno un lustro e un mutamento radicale di prospettiva per essere poste in atto. Almeno in questa preziosa fonte sopravvissuta (ma non possiamo sapere se vi fossero altri documenti analoghi, poi dispersi) non troviamo alcun cenno a una qualche possibile intenzione documentaria o narrativa della fotografia, così come il suo archivio risulta sostanzialmente vuoto di immagini che in un qualche modo – anche marginale – abbiano registrato i segni, gli eventi (o le loro tracce) del Ventennio fascista: quasi una rimozione se non proprio un’epurazione[3]. Del resto le pur ricche note biografiche fornite in più occasioni da Enrico Rizzi[4], che gli fu molto vicino e al quale si deve – con Giancesare Rainaldi – la costituzione dell’Istituto di Fotografia Paolo Monti, non offrono alcun elemento utile in tal senso.  Lo stesso dicasi per gli anni della Seconda Guerra Mondiale, trascorsi sempre in qualità di dirigente presso una società del gruppo Montecatini (nel quale era entrato nel 1936) nello stabilimento di Porto Marghera. Forse non in una raffineria, come si è detto altre volte, poiché il solo impianto di questo genere  era  di proprietà AGIP (già DICSA sino al 1934), ma più verosimilmente nella Società Veneta Fertilizzanti e Prodotti Chimici, ciò che renderebbe più comprensibile il successivo passaggio al ruolo di vice direttore del Consorzio Agrario Provinciale di Venezia nel 1945, proprio nei mesi (aprile, giugno, luglio) dei primi grandi scioperi di quel polo industriale.  Quali che fossero le ragioni di quel repentino distacco, il passaggio a Venezia si rivelò determinante in termini biografici, esistenziali. Il  1948 fu certo un anno per più versi cruciale sia  per la fondazione del circolo fotografico de  La Gondola (che segnava per Monti  il passaggio dal dilettantismo familiare, privato, alla pratica sociale del fotoamatorismo, certificata dalla prima pubblicazione di una sua fotografia su “Ferrania”[5],), sia per l’offerta culturale veneziana che in occasione della  XXIV edizione della Biennale d’Arte proponeva due mostre importanti come la retrospettiva di Picasso, presentata da Renato Guttuso  e quella dedicata alla Collezione Guggenheim, curata da Giulio Carlo Argan, nella quale erano esposte tra le altre  opere di Arshile Gorky, Mark Rothko e Jackson Pollock[6], mentre l’anno precedente a Milano, nella Sala delle Cariatidi,  si era tenuta la mostra Arte astratta e concreta[7], promossa  dagli artisti milanesi del gruppo Altana, che Monti potrebbe aver visto.

L’interesse per la fotografia pare si fosse manifestato per la prima volta in Monti ventenne[8] o ventiduenne (era nato a Novara nel 1908), a Venezia, “durante la notte del Redentore”[9], quando scattò le sue prime fotografie con una vecchia 3A Folding Pocket Kodak del padre Romeo, appassionato amateur. Venezia come destino verrebbe da dire facendo un poco di cattiva letteratura, ma il luogo della formazione fu per certo Milano, dove si laureò in Economia e Commercio all’Università Bocconi nel 1930 e rimase sino al 1934. In quel periodo  avrebbe quindi potuto vedere  la Mostra internazionale della fotografia curata da Antonio Boggeri e Luigi Poli per la V Triennale che si tenne nel maggio dell’anno precedente[10], la prima milanese, in cui accanto a fotografi stranieri provenienti da nove stati europei (Man Ray, Renger Patzsch,  Bayer, Maar e  Krull tra gli altri) esponevano quarantatre italiani tra i quali Balocchi, Bologna, Bertoglio, Leiss,  Peressutti e  Stefani[11].

Può quindi essere considerata  attendibile (pur con un qualche scarto cronologico) la testimonianza dello stesso Monti (1957) che collocava nel febbraio del 1934 la propria scoperta del fascino del formato quadrato e della fotografia modernista, vincendo anzi nel 1935 un premio al concorso indetto dalla società Ferrania, cui partecipò con alcune immagini scattate con una Rolleiflex da poco acquistata[12]. Se così è, devono essere retrodatate le sue prime fotografie note, dedicate proprio a Milano (tav. 003), realizzate ancora con la vecchia folding del padre e fatte sviluppare e stampare da Erberto Ruedi[13] o da G(iuseppe?) Mapelli. Solo l’ambiente veneziano avrebbe  poi offerto possibilità diverse: Silvia Paoli[14] ha ricordato una cartolina inviata a Mina Opizzi, legata a Monti dall’affettuosa amicizia di una vita, nella quale il fotografo scriveva di aver iniziato a stampare “il 31 maggio 1950”, smentendo così quanto avrebbe affermato nel corso di un’intervista concessa ad  Angelo Schwarz[15], nella quale assegnava quell’inizio al 1946, lamentando  anzi che allora “le conseguenze della guerra erano ancora pesanti e solo l’anno successivo furono disponibili materiali fotografici”[16]. In realtà sui portanegativi dei primi anni veneziani  compare più volte l’iscrizione “Foto Record/ San Marco 172 – Venezia / per Dott. Monti”, ciò che dimostra almeno che  la fase di  sviluppo era affidata al negozio dei fratelli Pambakian. Nel ricordo di Manfredo Manfroi “per stampare le centinaia di immagini che andava febbrilmente raccogliendo [Monti] si rivolse dapprima al laboratorio dei fratelli Mattiazzo, ma con risultati non soddisfacenti; la stampa era necessariamente di livello standard e non traduceva i ‘toni’ che Monti desiderava. La fortuita conoscenza dei Pambakian e degli altri di Fotorecord cambiò radicalmente le cose; per le stampe Monti si affidò a Bolognini[17] di cui aveva apprezzato la grande preparazione  e poi anche a Ferruccio Leiss”[18]. Nonostante la stima e l’ammirazione provata per questo “uomo solitario”, la sensibilità espressiva di Monti non poteva però corrispondere con quella di  questo maestro delle gradazioni intermedie: “Sono per natura, e forse per necessità psicologica spinto nella stampa fotografica a forti  contrasti dove il nero ha la sua parte, direi di rabbia. Leiss aveva capito, e quando gli diedi un negativo da stampare , malgrado le mie preghiere, mise tutto nei grigi, una musica di grigi. «Così va bene» mi disse gentilmente consegnandomi sorridendo la stampa. Aveva ragione, naturalmente, ma io non ne tenni conto e continuai con i miei neri, perché quello era il tono del mio vedere Venezia”[19]. Un nero che si poteva ritrovare però anche  in qualche notturno profondo nel libro di Leiss  dedicato alla sua città[20],  che nonostante le dichiarate differenze  doveva aver offerto a Monti non poche suggestioni.  In quella pubblicazione comparivano inoltre  alcuni  dei temi che avremmo ritrovato nella sua produzione: i riflessi dei palazzi sull’acqua,  le ombre portate che dialogano con la materia dei muri, le vere da pozzo[21], senza dimenticare che tra i suoi appunti di lavoro  ritroviamo anche le formule del rivelatore che  Leiss usava per i suoi “toni neri/ puri intensi”[22].  Accanto e più di Leiss sarebbero state però certe fotografie di Daniel Masclet a rivelare a Monti “per la prima volta, la bellezza del nero in una stampa fotografica”[23], poi confermata – anche come segno distintivo di un aggiornamento internazionale del gusto – dalle fotografie pubblicate sulle pagine degli annuari internazionali, specie statunitensi, oltre che da quelle raccolte da Steinert nelle prime due mostre della Subjektive Fotografie.  Alcune delle sue più precoci fotografie erano già caratterizzate da una composizione prospettica palesemente modernista (segno evidente di un aggiornamento non occasionale a quelle date[24], mentre quelle dell’amata Ossola (tav.004), come di altre località italiane, ormai ricavate dal 6×6, risultano molto accuratamente composte secondo le diverse  geometrie consentite e suggerite da quel formato,  ma – per certi versi – di più tradizionale impianto: quasi un ritorno all’ordine. Certo che il ricorso contemporaneo a due apparecchi  diversi sembra contraddire la considerazione retrospettiva di Monti a proposito del fatto che in quegli anni “il tempo della fotografia non [fosse] ancora venuto”[25].  Anche le fotografie riferibili con buona approssimazione a quel periodo sembrano contraddirlo: basti considerare le prime sfocature e Riflessi (tav. 005) o il gioco sottile dei Petali su fotografia (tav. 006),  che risalgono circa agli stessi anni, per comprendere come non ci fosse spazio alcuno per suggestioni tardo pittorialiste, affidandosi semmai alle specificità del mostrare fotograficamente, ciò  che suggerisce più di un legame con quanto andavano facendo  in quegli anni autori come Emmanuel Sougez (Fleurs et ombres chinoises, 1935ca),  Cesare Giulio (Dalia, 1932) e – a Milano – il coetaneo Franco Grignani (Fotogramma, flu [sic] oscillante (fiore), 1932)(tav. 008)[26].  Potremmo anche intendere questi esempi come testimonianza di tangenze occasionali, colte ex post dalla lettura critica, ma l’analogia tra la sfocatura (di ombre) di fiori di Monti (tav. 007),   e l’immagine di Grignani è talmente impressionante e puntuale, pur nella diversità delle tecniche adottate, da poter essere intesa almeno come segno della sua adesione a quel sentire nuovo che si andava appena diffondendo; senza dimenticare poi che proprio le sfocature sarebbero state per lui il tema ricorrente di una vita, assegnandogli addirittura lo statuto di “garanzia di autenticità”[27].  Non che tali fenomeni fossero del tutto assenti in certa produzione precedente:  basti pensare ad Aurora Umbrarum Victrix, 1930, di Stefano Bricarelli, o alla Pioggia d’ombre, 1933, di  Ferruccio Leiss e quindi di Giulio, o ancora  al loro utilizzo più aneddotico, con declinazioni  ‘romantiche’ da parte di Mario Bellavista (Tramonto, 1930)[28]; in ciascuno di quei casi però il riflesso e l’ombra non costituivano che una componente ‘astratta’ della scena e non – come accadeva in Monti – il tema principale della composizione, come mostra bene una fotografia quale Venezia, 1945-1950 (tav. 009 ): una piccola stampa ancora di formato cartolina, quindi realizzata con la folding paterna;  un’immagine molto potente e complessa dove l’ombra portata di un edificio sulla facciata di fronte costituisce la campitura  centrale e l’elemento principale della composizione; una fotografia che pur nella riconoscibilità dei suoi rimandi referenziali si rivela compiutamente astratta.

 

Percorsi di formazione

Il solo testo riferibile a quel periodo oggi conservato nella sua biblioteca personale, supponendo che ci sia giunta integra[29], è il manuale di Walther Heering, Le Rolleiflex: son principe, ses usages, ses avantages (1934), del quale Monti possedeva la seconda edizione, di tre anni successiva; il suo ‘primo’ libro fotografico forse.  Altro non troviamo. Nulla che ci possa orientare meglio nella comprensione di quegli anni formativi almeno sino all’Annuario Domus del 1943, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che è un bel segno di attenzione per la cultura fotografica italiana più contraddittoriamente in cerca di modernità. Considerando l’antologia di immagini lì pubblicate sembrano però poche quelle che avrebbero potuto interessarlo, delle quali  noi crediamo di trovare qualche traccia nelle sue fotografie (tav. 010). E sono Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti per i primi toni alti (tav. 011);  Solitudine di Giuseppe Vannucci Zauli per Donna di Pellestrina (tav. 012), ma soprattutto Casa a Ischia di Giuseppe Pagano[30], forse il richiamo più pertinente e più riconoscibile nelle fotografie delle architetture minori lagunari della fine degli anni Quaranta (tavv. 013, 014) e nella serie dedicata a Procida nei primi anni Settanta (tav. 215). Scelte eterogenee in quanto a poetica e soluzioni narrative, orientate ancora in direzioni diverse e magari divergenti. Sono testimonianze di un percorso di messa a punto dei propri mezzi espressivi che doveva essere particolarmente sensibile alle Considerazioni di Ermanno F. Scopinich[31] che aprivano l’Annuario, nelle quali auspicava che il  fotografo lasciasse “che la fotografia crei, sfrutti tutti i suoi mezzi ottici e chimici nella ricerca di nuove espressioni della forma e del colore”, accompagnate però dalla constatazione amara che “il fotografo italiano [e la sottolineatura era determinante] si dedica malvolentieri alla ricerca tecnica, sente ancora troppo poco la necessità della preparazione in questo campo.” Erano i temi intorno ai quali si dibatteva in quegli anni sotto l’egida dell’estetica crociana. Così  Alex Franchini-Stappo e Giuseppe Vannucci-Zauli in quello stesso 1943 ricordavano che “si tratta di stabilire se esistono  valori estetici in fotografia e quali siano. (…) in ogni vera fotografia deve essere l’illuminazione che parla, che esprime in primo luogo: l’oggetto fotografato un semplice sostegno materiale (scelto con riferimento al tempo) che permette alla luce di concretarsi in forme diverse che saranno la creazione del gusto e della fantasia dell’artista”[32]. La risultante “unità estetica” era data dal convergere di quegli elementi (illuminazione, momento, resa – intesa come “unità di stile”) che “non potrebbero esistere l’uno separato dall’altro, [e che] sono intimamente connessi l’uno con l’altro”.  A questi concetti si rifaceva  anche Il bello fotografico, 1945, firmato dal solo Vannucci Zauli, nel quale si  affrontava la questione del “documentario fotografico”, quello in cui “l’espressione dell’immagine non è legata a questi valori”, chiedendosi poi “se vi può essere il documentario artistico ed in cosa si distingue dal bello fotografico”, per giungere a questa conclusione: “Si dovrà perciò opporre al documentario non la fotografia artistica bensì la ‘fotografia’. Un’immagine potrà considerarsi fotografia (…) quando la tecnica usata, qualunque essa sia, ed il soggetto, si risolvono apprezzabilmente nei tre valori specifici nei quali viene a concentrarsi, se l’opera è riuscita, la sintesi: soggetto (l’artista), oggetto (fotografato), che è l’essenza del’arte. Nella fotografia documentaria invece, se un certo valore artistico vi è, esso non può essere che quello proprio della situazione che documenta”[33].

Come si è detto nella biblioteca di Monti non ci sono  (non c’erano ?) né l’Introduzione per una esteticaOtto fotografi italiani d’oggi, una raccolta che prefigurava gli orientamenti del gruppo fotografico La Bussola e che comprendeva  fotografie di alcuni dei suoi  futuri membri come Balocchi, Cavalli, Vender, Leiss e Mario Finazzi che ne fu il curatore. Ci sono invece le prime (e uniche) tre cartelle della collana “Immagini”, diretta ancora da Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, dedicate rispettivamente a  Giuseppe Cavalli, a Federico Vender e al tema delle Montagne,  con immagini di tono alto di Cesare Giulio, Antonio Piccardi, Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e Finazzi stesso[34]. Quasi un manifesto di quella fotografia chiara, luminosa, in tono alto[35], segnata da una grande attenzione per la geometria della composizione, che sarebbe stata la sigla stilistica dei “bussolanti” e che rispondeva pienamente alla poetica espressa nell’Introduzione per una estetica, per la quale, infine,  “l’oggetto fotografico deve essere un semplice sostegno materiale, un pretesto per creare una forma fotografica”[36], così anticipando le dichiarazioni programmatiche del Manifesto de La Bussola[37]. Erano quelle posizioni, quella  vera e propria genealogia[38] che sembrano perimetrare l’operare di Monti in quegli anni di direzione incerta, tra esercizi formali quasi calligrafici e interpretazioni delle architetture della Laguna, con immagini già in perfetto equilibrio tra geometrizzazioni di solidi volumi e fascinazioni della materia delle superfici che poco avevano in comune con la produzione di Cavalli e Vender. Fu  semmai Ferruccio Leiss a costituire  un riferimento, se non proprio un modello, anche se lo stesso Monti ricordava di aver visto “le sue prime fotografie nel 1948 quando a Venezia stava per nascere il gruppo La Gondola”[39], quindi in un momento seppur di poco successivo[40]  e quasi conclusivo di quella fase ricca di stimoli e suggestioni che furono i primissimi anni del secondo dopoguerra, quando  “dopo un anno di residenza a Milano, tornai a Venezia nel 1945 e incominciai a interessarmi della fotografia”[41].   Nell’interpretazione di Paolo Morello, “a Venezia, tra il 1948 e il 1949, Monti è rimasto a baloccarsi con vedutine da dilettante (…) [ma] è qui che comincia ad organizzare in modo nuovo lo spazio del fotogramma, a ricomporre i segni della città attraverso geometrie del tutto intellettuali.(…) È questa scoperta, all’inizio, della geometria come chiave di una decifrazione allegorica, come traccia visibile di un universo spaesante, a condurlo fuori dalle secche dell’impressionismo amatoriale”[42].

Sono gli anni che portarono alla costituzione del Circolo fotografico La Gondola e alla redazione di quelle  Intenzioni fotografiche che costituivano un primo schema di ricerca, quasi didascalico, fotoamatoriale, già  orientato però verso la  fotografia come specifica modalità espressiva: fotografia sulla fotografia quindi. Non sarà un caso allora che tra i suoi libri fosse presente anche Vision in motion di Lazlo Moholy-Nagy, pubblicato postumo giusto nel 1947[43]; un  libro bellissimo e pieno di suggestioni che dovette essere determinante per la sua formazione e per indirizzare molte delle sue scelte successive, dalla fotografia di architettura ai fotogrammi. Soprattutto direi che per Monti poteva essere importante quanto emergeva da tutto il volume, vale  dire la necessità di dotarsi di un metodo nella conduzione delle proprie ricerche, dalle sperimentazioni con gli sfocati, i mossi, il colore sino alle più tarde campagne documentarie sui centri storici. Le indicazioni dovettero però essere anche più immediate se proprio nelle Intenzioni comparivano spunti di ricerca che rimandavano direttamente al libro di Moholy-Nagy  (“negativo usato come positivo – fotogrammi ottenuti per proiezione”), nel quale era presente anche Billboard, 1941, di Frank Levstik: un manifesto corroso, trasformato in materia, pubblicato a piena pagina[44].

Riferimenti bibliografici e appunti personali di quel periodo rimandano a una ricerca formalista per larga parte contraddetta da altri  lavori coevi, tra fotografia umanista alla francese e neorealismo nostrano; segno evidente di quello che non possiamo non riconoscere come un periodo di (dis)orientamento, aperto a direzioni contrastanti. Ipotizzando che le date siano corrette, nella produzione di quegli anni convivevano infatti  i toni alti  di una fotografia come Controluce n. 13, 1948-1948, (tav. 015), che pare influenzata da Gino Bolognini più che dai formalismi de La Bussola, ai quali potremmo semmai riferire Conchiglia, 1948-1949 (tav. 016)[45], con le atmosfere rarefatte, dove gli “aspetti del reale si mutano quasi in immagini fantastiche”[46] di Ghetto nuovo, 1950 (tav. 017) e di Venezia: lo spazio notturno. Luna Park sul campo di Ghetto novo, 1951 (tav. 018), che richiamano alcune prove di Luigi Comencini o di Giuseppe Vannucci Zauli pubblicate nell’Annuario del 1943[47] e sembrano esemplificare proprio quello che Stappo e Zauli chiamavano il “Momento” (già quasi “decisivo”) ovvero quella “determinata fase del divenire del soggetto trattato [dove] lo Sviluppo nel Tempo  di esso viene considerato in funzione estetica”[48]. Appare invece incommensurabile la distanza con  le rivelazioni di Occhio quadrato, 1941, di Alberto Lattuada (incredibilmente, forse ideologicamente assente dall’antologia del 1943)  che pure usava il formato 6×6.  Troppo lontane, o forse solo incerte le posizioni di  Monti da quelle espresse dal futuro regista, che nella Prefazione chiariva come quello fosse  “il necessario momento di tornare ad esporsi in posizioni indifese, di abbandonare, sia pure per breve tempo, il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile, di rompere il guscio che fa da custodia a un preteso determinato modernismo e rinnovare il flusso d’amore che muove gli uomini verso l’unità” [49].  E ribadiva in chiusura: “Mi domando se sia il caso di ripetere che la fotografia è documento, è l’istantanea rivelazione della vita, è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale”.

Gli anni a cavallo del 1950 furono per  Monti  “l’inevitabile periodo delle domande e degli incerti tentativi”[50], delle oscillazioni del gusto quindi,  se possiamo immaginare che Trasparenze vivesse delle stesse suggestioni di Controluce n. 13 (un titolo tipicamente fotoamatoriale) o che in Livigno (tav. 019) avesse rimeditato le suggestioni offerte da Sul limite dell’ombra di Cesare Giulio  (tav. 020), l’autore a cui era stata dedicata una piccola sezione postuma (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) alla Prima Mostra Internazionale Scambi Occidente che si tenne a Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, dal 10 al 26 settembre 1949, alla quale Monti partecipò a titolo personale proprio con Trasparenze (n. 176) e Inverno ad Anzola  (n. 175), già presentata (n. 141) a giugno alla Prima Mostra Nazionale organizzata dalla FIAF nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[51]. Altri soggetti avevano caratteri più descrittivi, prossimi al modello TCI incarnato in quegli anni  da  un autore prolifico come Bruno Stefani; mi riferisco a Alpe di Siusi, della quale possiamo vedere il foglio di provini (tav. 021), una fotografia che forse non per caso  venne premiata a un concorso ENIT-Ferrania[52]. Al Giuseppe Cavalli di Gioco di grigi, 1948, rimandava esplicitamente (e citava quasi letteralmente) una delle Forme conservate in archivio, mentre altre prove della stessa serie (tav. 022) o Composizione con foglie e conchiglia,  1945-1950 (tav. 023) erano esercizi tonali tutti giocati su di una calligrafica composizione di forme che non rinunciava però a restituire la materia delle cose, delle superfici toccate dalla luce, mettendo in gioco quindi anche un primo conquistato virtuosismo tecnico nello sviluppo e nella stampa dopo la stagione delle collaborazioni (a volte insoddisfacenti) con gli amici fotografi veneziani; prove che sembrano tener conto dei lavori di  Emmanuel Sougez, tra i fondatori di Le Rectangle e poi del Groupe des XV, due dei sodalizi francesi più influenti sullo scenario italiano di quegli anni[53].  Altri riferimenti ancora si possono individuare in fotografie quali Il carrettino (tav. 024) , Giochi sulla neve o Zero gradi, 1951 (tav. 025)[54],  che  si affidavano alla consueta grammatica dei toni alti ma con un trattamento del soggetto e una sintassi che sembrano costituire una riflessione ulteriore sul postpittorialismo modernista di Cesare Giulio. Ma per Monti ( e sorprendentemente per noi) quelle fotografie avevano un significato metaforico: “Credi forse che un mondo più pulito non mi piacerebbe? Le uniche mie fotografie pulite sono quelle di neve e a queste va la mia simpatia”[55], scriveva a Ferruccio Ferroni nel 1954  e poi ancora , pochi mesi dopo:  “Ho poi stampato una lunga serie di negative di foto invernali che giaceva da almeno due anni negli archivi. Viste ora mi piacciono molto, sono ormai decantate e l’occasione dalle quali sono nate è talmente lontana che nessuna delle creazioni di allora è ancora viva, così che il loro valore attuale non può subire influenze personali”[56].

Su di un fronte che diremmo esteticamente opposto si collocavano Le astrazioni involontarie, 1950 ca, (tav. 026)[57] che non si direbbero tanto mediate dal movimento della Subjektive Fotografie quanto legate a suggestioni che provenivano direttamente dalle avanguardie storiche, mentre il titolo richiamava (se non rimandava) a quelle che negli stessi anni erano definite “astrazioni della natura”[58] da un autore come Minor White, che Monti avrebbe potuto considerare con un certo interesse. Immagini particolarmente felici e certo innovative per il panorama nostrano di quegli anni, che guardavano a  Man Ray [59] e –  credo – ancora più esplicitamente a Moholy-Nagy[60], ma che qui interessano ancor più per quel titolo (insistito, adottato più volte) che sembra sottolineare la (ontologica) contraddizione in termini della fotografia cosiddetta ‘astratta[61]’, ma anche  indicare un preciso programma di ricerca, un atteggiamento (fotografico) verso il mondo  se non proprio una poetica, che era quella dell’immagine ricercata e trovata, più di rado costruita in studio, com’era Composizione con metro metallico, 1949[62] (tav. 027), che si provava a coniugare geometria e materia delle superfici: una questione  che diremmo centrale per la ricerca di Monti in quel periodo.

Anche nella serie dedicata a Meme (alias Maria, Mariel, Maris, Muriel, Ingrid, Sonja ma anche Cinderella: un vero e proprio harem immaginario), insomma alla nipote Maria Elvira Cocquio, figlia di Carlo e di Augusta Binotti, sorella di Maria moglie di Monti, avviata quando era ancora bambina (nel 1944), negli anni della guerra, come una speranza, e proseguita sino ai primi anni Sessanta, le suggestioni, le prove, le soluzioni muovevano in direzioni diverse (e non sempre compiutamente controllate[63]), oscillando tra le riprese quasi da album ricordo delle prime prove e l’assunzione di una precisa funzione di modella da parte della ragazza (che compare quindi anche in fotografie non propriamente di ritratto, cfr. Uragano, Almanacco 1956),  specie a partire dai primi anni veneziani del fotografo, quando molti dei ritratti (termine da intendersi qui in una accezione molto ampia)  erano ambientati nella soffitta della casa ai Santi Apostoli (tavv. 028, 029), che fu anche il  luogo privilegiato dell’apparizione  ‘metafisica’ di una Venere in soffitta, 1950 ca, (tav. 031) che va letta in continuità con alcune riprese di Meme. L’insieme delle fotografie della nipote, distribuite lungo quasi un ventennio, “fatte anno per anno dai sei ai ventiquattro anni”[64], presentano una vasta e  variegata gamma di situazioni ed espressioni (tav. 030), ma in quelle del periodo adolescenziale si possono individuare almeno due serie anche psicologicamente distinte, ciascuna segnata da una precisa scelta tonale: nella prima – con ampi spazi concessi a un erotismo forte per quanto trattenuto – le immagini sono solari, chiare quando non addirittura in tono alto, e si presentano esplicitamente come ritratti non immemori del primo Weston pittorialista, mentre le seconde sono scure, inquietanti (ricordano le prove migliori di Maurice Tabard e di André Boiffard, tav. 034), con la figura vista attraverso un vetro deformante, irriconoscibile nella sua identità di persona (tav. 032) I titoli confermano a loro volta questa intenzione onirica e perturbante di ispirazione surrealista richiamando una  2a apparizione in un vetro del ‘700[65], ma anche offrendo un esplicito Omaggio ad E. A. Poe, 1950 (tav.033)[66]. Nessuna di queste suggestioni sarà però presente (o anche solo suggerita) nella prima occasione importante di pubblicazione di alcune immagini della serie, il portfolio sulle pagine di “Camera” dell’ottobre 1956, rispetto al quale in un primo tempo Monti aveva espresso alcune perplessità, poiché avrebbe preferito “essere presentato (…) come avvenne per Roiter con una scelta di fotografie varie dal ritratto al paesaggio, con particolari di natura, alberi ed altro e con qualche scena italiana che lei vide. Il fatto è che ad eccezione dei ritratti di Mariel io non so come lei ha valutato la mia opera di fotografo e questo mi mette in un certo imbarazzo anche per la serie dei ritratti  essendo io sensibilissimo a queste situazioni di incertezza. Non vorrei passare per il fotografo di un solo soggetto o meglio di una sola ragazza!!”[67] La pubblicazione su di una rivista così prestigiosa era “cosa talmente rara ed importante” e la scaletta del numero così interessante che Monti si prese qualche giorno di vacanza nella casa di Anzola d’Ossola, paese d’origine della famiglia, per scrivere l’articolo: “lunedì le spedisco le foto e lo scritto a Lucerna, massimo martedì perché dovrei stampare ancora due piccole foto della ragazza di molti anni fa che sono le prime della serie, quando ero un semplice schiaccia bottoni.”  Le immagini vennero così corredate da un ampio testo dell’autore e da un commento di Romeo Martinez,   che parlava di  “poétique du souvenir”, ricordando come  “le variazioni nel tempo su di un unico soggetto qual è  la serie dei ritratti di Mariel costituiscono un atto fotografico la cui realizzazione testimonia concetti visivi e segue da vicino l’evoluzione di un fotografo che teniamo in grande considerazione”[68].  Era proprio il testo di Monti a sottolineare il senso di indagine concettuale sul trascorrere del tempo di quel suo lavoro, richiamando la rivoluzione culturale determinata dalla fotografia in questo sforzo immane (e inane) di “dominarne il corso o almeno di rallentarne la marcia”.  Escludendo e quasi allontanando perentoriamente da sé ogni coinvolgimento (auto)biografico Monti presentava quel suo lavoro su (con) Mariel come “un’affettuosa testimonianza di quei momenti di ineffabile attesa; [lo] studio fotobiografico di un volto femminile e dei suoi aspetti nel tempo. Un po’ come un paesaggio di cui si fossero fotografate le variazioni stagionali in momenti e con luci diverse”[69]. Così posta, la vicenda biografica ridotta quasi a pura registrazione sembrava riguardare la modella e non lo sguardo voyeuristico del fotografo zio, che ne usava almeno per mettere alla prova le proprie capacità, espresse in diverse tonalità narrative. Una rimozione che Berto Morucchio pareva aver ben compreso quando riconosceva che l’oggetto della ripresa costituiva una “rivelazione – per via fantastica – del soggetto stesso” [70], cioè dell’autore.  Una rivelazione che Giuseppe Turroni  avrebbe colto nel momento in cui vedeva quei ritratti come “percossi da uno spirito corrosivo”, suggerendo infine che  “Monti scopre Venezia e Meme non è che un volto di questo tenero mistero”[71].  Un’interpretazione intrigante ma velata da una qualche omissione nel momento in cui non riconosceva il legame affettivo, parentale tra i due.  Una lettura che per molti versi risultava più semplicistica e superficiale di quella offerta solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”, quanto aveva riconosciuto che “Venezia è stata una tappa, una vita per Monti (…). Tentò, mi pare, un connubio tra impressionismo e astrattismo. Ne sortì, più tardi, una Venezia chiusa nella sua dolcezza dolente, nella sua mesta teatralità (Venezia è teatro, nelle strade nei gatti e nei volti biondi delle donne), quasi spenta, ristretta a un decadentismo che non era crepuscolare, non era romantico, non era quello della «morte» di Mann, non era, tanto meno, ‘italianisant’. Qualcosa, in Monti, aveva funzionato segretamente. La marcata tristezza ‘autunnale’ di Cardarelli aveva dato buoni frutti.” E qui tornano alla mente – quasi un ritratto per analogia – le parole che Portoghesi[72] dedicò alla venezianità di  Carlo Scarpa a pochi mesi dalla morte: “Venezia era per Scarpa un modo di guardare e di usare, un modo di connettere le cose tra loro in funzione di valori di luce, di tessitura, di colore, coglibili solo da un occhio abituato ad osservare (e osservando misurare) acqua, vetro e insieme pietre e mattoni esposti a una atmosfera inclemente che non consente alla materia di nascondere la sua struttura ma continuamente la costringe a scoprire, consumandosi, le proprie qualità più segrete.”  “Il mio destino di fotografo  – ebbe a dichiarare Monti – deriva dal fatto di essere venuto a lavorare a Venezia” e di aver compreso che la città non era ancora stata “vista in modo nuovo, in modo più che nuovo, in un modo intimo, in quello che ha di migliore”, perché gli autori che si erano misurati con quella città “non avevano visto certe cose”[73] che lui vedeva.  Forse però non di ‘cose’ si trattava, ma semmai di modi perché già nella Venezia dei primi anni Quaranta non solo Leiss aveva guardato alle presenze meno monumentali e – in ambito specificamente architettonico – Egle Trincanato aveva riportato per prima l’attenzione sulla Venezia minore[74], ma soprattutto Francesco Pasinetti[75] l’aveva raccontata ormai anche con la fotografia, rivolgendosi ad “alcuni aspetti, ignorati dai più, degli angoli più modesti e della vita popolare”, ampiamente illustrati nella monografia che il Touring Club dedicava a Venezia e la sua laguna giusto nel 1947, “in questa inquieta alba di pace che stiamo vivendo, tra il dolore delle passate  sventure e le trepide speranze di rinascita”[76]. Non solo la città però, come indicavano Laguna di Torcello (tav. 002)  e le successive Venezia, muro con bolzone, 1950 ca (tav. 014) e Pellestrina, 1950 ca (tav. 013), più direttamente orientate a una lettura per masse dell’architettura vernacolare delle isole, così come accadeva per le più tarde Porta murata  e Architettura lagunare, pubblicate su “Ferrania” nel 1955, mentre in Venezia, 1950 ca  e in Pellestrina. Laguna di Venezia. Muro di casa di pescatori, 1950 ca (tav. 035 )  si rivelava già matura quell’attenzione per la matericità delle superfici murarie che sarebbe stata  oggetto di importanti lavori successivi come Muro veneziano: disegno su un manifesto distrutto, 1950ca  o Muro con scritte, 1950 ca (tav. 036), dove risultano più marcate le suggestioni pittoriche provenienti dalle coeve ricerche informali, senza dimenticare i primi graffiti di Brassaï [77]. Di tutt’altra tonalità emotiva e conseguente trattamento stilistico una fotografia degli stessi anni come Reti e barche, 1948-1949  (tav. 037), che si potrebbe intendere come una prova tardo pittorialista giocata tutta sui toni alti, o la più veristica Chiatta (tav. 038), dove le nebbie lagunari che rendevano evanescenti figura e paesaggio costituivano pur sempre un dato di realtà. Dirompente, a loro confronto, e certo inattesa una prova come Venezia, 1950 ca (tav. 039[78];  uno spazio sventrato, un passaggio continuo esterno, interno e ancora esterno formato da una serie di inquadrature concatenate, racchiuse dalla materia sbrecciata dei muri, restituita per forti contrasti tonali, che deve certamente essere posta in relazione con Muro a Treviso, del 1947 (tav. 041); immagini  che – con poche altre[79] (tavv. 042, 043) – sembravano almeno fare i conti con le memorie della guerra. Per Monti, così come per la gran parte dei suoi compagni di strada, la tragedia che avevano appena attraversato non aveva lasciato tracce visibili nelle loro fotografie: si lavorava al presente e sul presente, non di rado estranei alla contingenza storica.

Se torniamo ad aggirarci per la sua biblioteca vediamo che al momento della fondazione de La Gondola i suoi acquisti, le sue letture erano quasi esclusivamente di manualistica tecnica e di genere,  orientate nei più diversi settori: dalla fotografia naturalistica  a quella pubblicitaria e di architettura[80]. L’aggiornamento culturale pare fosse demandato alla consultazione degli annuari che ereditavano la gloriosa tradizione di “Arts et Métiers Graphiques”, come Photographie 1947, che conteneva una fotografia di Brassaï (tav. 58) che potrebbe averlo interessato;  il ginevrino  Photo 49,  per certi versi il corrispettivo svizzero dell’Annuario di Domus del 1943, ma anche il  Photo Almanach Prisma 1948, più prossimo alla manualistica fotoamatoriale. A questi può essere accostato Photography and the art of seeing, che offriva numerosi esempi di fotografia modernista (Man Ray, Brassaï, Kertész, Laure Albin-Guillot, Sougez, Schall, Pierre Boucher) e prefigurava per certi versi quello che sarà identificato come  il “momento decisivo” alla Cartier-Bresson: “Né dobbiamo trascurare il fatto che il successo dell’operatore dipende in gran parte dall’aver scattato nel momento culminante della scena. Non si tratta però di un caso fortuito, ma di una capacità artistica che è il risultato di uno sforzo sintetico” [81]. Qualcosa  che nulla però avrebbe avuto a che vedere con la fotografia di Paolo Monti, che anzi ricordava semmai di essere stato a suo tempo molto attratto dalla “grande ondata del realismo assoluto, del neo-oggettivismo tedesco (…) un tipo di fotografia molto esatta, molto precisa, molto secca; un po’ la fotografia tremendamente a fuoco, incisa fino all’ultimo come quella di Weston”[82]. Alla manualistica, seppure d’autore[83], si affiancava in quegli anni una scelta eterogenea di titoli che spaziavano dalla fotografia umanista di Izis [84] a quella animalier di Ylla[85]; da La France de Profil di Claude Roy e Paul Strand, a Subjektive Fotografie di Otto  Steinert[86], che scavava nella più stretta contemporaneità, esattamente come faceva – sempre nel 1952 –  il numero monografico di  “Art d’aujourd’hui” dedicato alla fotografia. L’intento del  curatore  Paul Etienne [Paul Sarisson][87] era “di presentare […] in una Rivista per la difesa dell’arte non oggettiva, un’immagine che vorrebbe essere originale e che rispecchi fedelmente le possibilità attuali della fotografia al di fuori di certe ‘ricette’, come le sovrimpressioni o i fotogrammi, che pretendono di esprimere la soggettività con mezzi un po’ troppo facili[88],  ponendosi quindi in contrasto con una parte non secondaria di ricerche espressive della Subjektive, sebbene poi in quelle pagine trovassero ospitalità anche un muro di Masclet[89], movimenti di luce di Steinert, un oggetto ‘astratto’ di Bourdin e soprattutto la copertina di Denis Brihat a cui Monti deve aver guardato con un certo interesse. Di certo importante per la sua formazione fu il confronto con i lavori di Daniel Masclet, che dopo una prima stagione tardo pittorialista si era avvicinato alla poetica di Weston e poi progressivamente alla fotografia soggettiva. Masclet  compariva anche in un prezioso volume che attualmente brilla per la sua assenza dalla biblioteca di Monti, Il messaggio dalla camera oscura, scritto da  Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato a  Torino nei primi giorni del 1950. Frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi e costituì la prima vera sintesi storiografica prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti, sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo.  Come già in Film und Foto[90] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. “Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo” dichiarava Mollino, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sulla verifica stringente dei rapporti tra la fotografia e la cultura visiva in generale, e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[91], si mostrava sprezzante (ma “senza polemica”) nei confronti della produzione di quei fotografi che  imitavano in ritardo proprio quelle soluzioni tecniche ed espressive che gli stessi primi utilizzatori avevano da tempo abbandonato: “ Solarizzazioni alla Man Ray, chiarità di toni […] cominciano ora a imperversare” [92] scriveva, così che nessuna immagine dei bussolanti (che pure costituivano la ‘novità’ della fotografia italiana di quegli anni) fu compresa nel repertorio.

Tra i titoli dei primissimi anni Cinquanta posseduti da Monti spiccano per la loro eccentricità di argomento due testi di grande e diversa importanza  come Apologia della storia, 1950, di  Marc Bloch e  La scoperta del bambino, 1951, di Maria Montessori, ultima edizione di un testo pubblicato  per la prima volta nel 1909. Il saggio di Bloch, un  classico della riflessione storiografica  del Novecento,  costituisce per noi un indicatore prezioso dell’interesse non sporadico né superficiale di Paolo Monti per la storia e la storiografia, in una accezione che non è difficile riferire alla scuola delle “Annales” e più direttamente a Lucien Fevbre. Basti a questo scopo leggere quanto diceva a proposito delle fotografie che “possono essere documenti” nel corso dell’intervista concessa ad Angelo Schwarz nel 1978,  precisando immediatamente che “quando diciamo che la fotografia è documento il più delle volte crediamo di dire qualcosa di preciso [ma] c’è molta ambiguità in queste descrizioni (o definizioni?) (…)  Il documento allora, è la registrazione importante di una cosa a  cui noi siamo ancora interessati”, e poco oltre – quasi a voler chiarire ulteriormente  – richiamava il proprio interesse, la fascinazione esercitata dalla “bellezza di certe pietre come quella d’Istria che resiste attraverso i secoli, ma ci dice che gli uomini ci hanno camminato sopra e magari tanto l’hanno toccata con le mani che vi hanno lasciato i segni. E le scritte sui muri, la qualità di quei muri, le parti rovinate.”[93] Considerazioni riprese in uno scritto dell’anno successivo[94] che conteneva un’importante riflessione sullo statuto dell’immagine fotografica: “Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza (…) siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.” Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli. Un ‘documento’ nel quale la restituzione analogica del referente è inestricabilmente segnata da connotazioni sociali, storiche, culturali e non per ultimo tecnologiche, che concorrono a dare forma alla rappresentazione del reale, assegnando un senso più ricco e complesso al contenuto stesso[95].  La fotografia, una fotografia nutrita di suggestioni formali e materiche si rivelava essere lo strumento, quasi  un metodo storiografico per la comprensione delle culture di un territorio come quello che si rivelerà nelle grandi campagne documentarie della fine degli anni Sessanta, complice  (e regista) Andrea Emiliani, che a proposito  di Monti, parlava di “un grande disegno storiografico” [96] che avrebbe illuminato l’opera del fotografo nella seconda parte della sua vita. La presenza,  inattesa, de La scoperta del bambino potrebbe invece essere legata a un qualche tragico (e a noi ignoto) fatto biografico di Monti[97] se consideriamo che sono dello stesso anno La morte è una bambina (tavv. 047, 048), realizzata nel piccolo cimitero di Anzola d’Ossola, e  la serie comunemente nota come Angelo a Venezia (tav. 049)[98]. Immagini esplicitamente dolenti e tragiche quali non si ritrovano altrove nel lavoro del fotografo e consentono almeno di formulare l’ipotesi  che fossero originate da drammi esistenziali, rendendo meno convincente – per quanto legittima –  la lettura che le riconduceva alla  interpretazione montiana di Venezia come “figlia del terrore di gente in fuga disperata per la salvezza”[99].

Nel 1952  Monti aveva acquistato – come si è visto –  la prima antologia di Subjektive Fotografie, che proponeva certo riferimenti e modelli che furono importanti per orientare la sua produzione successiva, ma può essere interessante notare qui che molti dei presupposti di quel ‘movimento’  si ritrovavano già esplicitati in Perché fotografo. Come fotografo, 1948, di Mario Bellavista, Capo ufficio pubblicità e stampa in Montecatini negli stessi anni in cui vi lavorava Monti, che gli era quasi coetaneo[100]. Il libro (non presente nella biblioteca di Monti) era stato scritto nel 1947 (cioè l’anno de La Bussola) ma raccoglieva e sistematizzava riflessioni e proposte anticipate da lungo tempo sulle pagine di “Galleria” (Concetti per fotografi moderni, 1934-1936). Nel ricostruire la sua vicenda ‘artistica’ Bellavista indicava quali fossero i Nuovi orientamenti. Dal pittorico al fotografico, dai passaggi obbligati agli schemi liberi che potevano suonare ancora validi nel 1947-1948: “Libertà assoluta del soggetto (…) Libertà assoluta nella maniera di ritrarre il soggetto (…) Libertà assoluta nell’interpretazione personale (utilizzazione di qualsiasi mezzo, perfino delle manchevolezze tecniche negli strumenti e nel materiale fotografico, per conseguire l’effetto estetico più idoneo a rappresentare la sensibilità personale (…); Sintetismo (tendenza a esprimere con immagini di pochi segni nell’intento di conferire una nuova e maggiore potenza espressionistica al soggetto (…); Apologia del moto quale nuova bellezza (…); Surrealismo (…); Il soggetto in funzione realizzativa di visioni elaborate dallo spirito (…); Sincerità intenzionale (…); Contribuire a formare un nuovo volto alla fotografia (… ) favorire tutto ciò che consentisse alla fotografia di assumere caratteristiche proprie chiare, definitive, inconfondibili.”  Certo c’era di tutto e di più, comprese vaghe e generiche suggestioni dai diversi ismi delle avanguardie di inizio secolo, ma quel richiamo insistito alla “libertà assoluta”  era una indicazione importante e certo orientata a sollecitare la soggettività del fotografo, specie se confrontata col dogmatismo del Manifesto de La Bussola. Fotogrammi e solarizzazioni si accompagnavano in quegli anni alle indagini intorno alle possibilità espressive di quelle che nelle sue Intenzioni fotografiche  aveva chiamato  “istantanee lente”[101],  alcune delle quali – formalmente prossime a certe prove coeve di Franco Grignani[102] – sarebbe state utilizzate come copertine per “Domus” diretta da Gio Ponti[103] . Come avrebbe chiarito lo stesso Monti in un breve testo coevo[104], “è appena il caso di dire che parlando di natura morta non ci limitiamo al suo significato pittorico, ma intendiamo anche ogni genere di composizione ove entrino elementi siano o no tradizionali per giungere sino alla completa assenza di ‘oggetti ‘reali’, cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”. Un pensiero chiaro, una riflessione che all’epoca non riusciva a trovare interlocutori adeguati, viziata da disarmanti semplicismi dilettantistici[105] o apertamente polemici[106], mentre veniva riconosciuta (anche nei suoi esiti materiali, nelle opere) da un critico attento come  Berto Morucchio, che definiva “la sua evoluzione estetica (…)  come una dialettica, tormentata ma definita, dal naturalismo all’espressionismo, con vissute parentesi non oggettive (manifeste soprattutto nei fotogrammi e nelle esperienze espressive ‘sul particolare’)”[107].

Questa dialettica è ben riconoscibile nelle opere pubblicate o esposte in quell’arco di tempo[108], ancora prevalentemente orientate alle diverse accezioni del figurativo, con rare presenze di fotografia ‘sperimentale’[109], sebbene – come sempre in Monti – il confine fosse volutamente labile,  con le diverse “Astrazioni involontarie”, ritrovate e reinventate, a fare da cerniera, senza poter escludere che quella scelta prudente fosse anche la manifestazione di un segno – come dire – di sfiducia nelle possibilità di comprensione e accoglimento del mondo amatoriale, che certo guardava a lui ma al quale altrettanto lui si rivolgeva, trovando semmai più adeguato spazio sulle copertine di “Domus”. Monti lavorava caparbiamente  sulla fotografia con la fotografia, ma nelle occasioni pubbliche, compreso il suo affacciarsi sulla scena internazionale, pareva affidarsi a più rassicuranti soggetti. Non è dato per ora conoscere nel dettaglio  quali fossero quei quaranta “lavori anche professionali” spediti alla George Eastman House di Rochester nel 1957 su invito di Minor White, che dovevano comprendere però un vasto campionario della sua produzione, “dal ritratto ai fotogrammi passando per il paesaggio e le scene di vita italiana”[110] . È invece certo che delle tre opere selezionate  per la mostra del decennale curata da Beaumont Newhall nel 1959, due appartenevano al genere del  ritratto e vennero collocate nella sezione intitolata “Equivalents” (con esplicito richiamo a Stieglitz) che era definita dal curatore sulla base della potenzialità della fotografia di essere letta metaforicamente,  come un simbolo che può avere la capacità di “attivare un flusso di coscienza”[111].

Considerando la sua produzione di quegli anni, segnati dal passaggio al professionismo di cui diremo, e soprattutto pensando all’insieme delle opere presentate in pubblico, risulta tanto necessario quanto difficile porsi il problema delle influenze dirette e indirette, che appaiono altrettanto complesse e variegate. Certo l’esempio de La Bussola, non tanto in termini formali (se non sporadicamente) quanto di rivendicazione del valore autonomo della fotografia; poi i modelli internazionali, in un arco tanto ampio da comprendere i tedeschi di Fotoform e i francesi del Groupe des XV,  che per Monti rappresentavano “due tendenze che si possono ritenere esemplari della fotografia europea”[112], mentre sembra essere stata meno immediata e diretta l’influenza statunitense nonostante l’ammirazione per “la monumentale opera fotografica di Weston”[113]. Quindi, inevitabilmente,  le suggestioni e le poetiche espresse  dalle ricerche pittoriche più avanzate degli anni Cinquanta, cui non era difficile accostarsi a Venezia[114] come a Milano (senza dimenticare un canale di diffusione quale le riviste d’arte[115]). A ben considerare però si direbbe che per Monti questa gran messe di suggestioni visuali e culturali – specialmente europee, va sottolineato – sia servita soprattutto come occasione di riflessione e di analisi intorno a quei  problemi di interpretazione e restituzione visuale dei dati di realtà che gli erano propri. Da questo punto di vista risulta quindi piuttosto sterile e velleitario proporre accostamenti e filiazioni dirette, come pure è stato ampiamente fatto, per riconoscere invece una solida appartenenza a un contesto ampio di ricerche espressive, nelle quali Monti si collocava in maniera culturalmente e criticamente consapevole, non priva di un certo scetticismo di fondo, ben oltre le immediate (e magari superficiali) apparenze formali. Anche i possibili, inevitabili riferimenti a Man Ray (che considerava “uno dei fondatori della fotografia moderna”[116]) e ancor più a Moholy-Nagy  sono da intendersi in termini di modelli del fare, quasi metodologici, di apertura e coinvolgimento in molte se non in tutte le possibilità espressive praticabili con la fotografia (compresi gli sfocati, i movimenti di macchina), convinto che “le opere venivano prima delle teorie”[117]. Che dire poi del rapido e progressivo definirsi di una scelta orientata verso i toni bassi se non che questa oltre che corrispondere a un suo particolare sentire, e sentire del mondo, si era ormai affermata come lo stilema, il marchio inconfondibile della fotografia internazionale di quel periodo, celebrata e diffusa dalla maggior parte degli annuari fotografici internazionali che Monti possedeva in gran numero.

 

Gli anni de La Gondola

Gli anni della ricostruzione postbellica in Italia mostravano anche in ambito fotografico una vivace ripresa di iniziative variamente legate a forme associative[118] che si distinguevano per intenzioni e modi da quelle che avevano caratterizzato il ventennio precedente, seppure muovendosi in direzioni diverse e magari divergenti. Così tra 1947 e 1948 si collocarono la costituzione de La Bussola e poi de La Gondola, che nelle loro modalità aggregative sembravano guardare a modelli stranieri e specialmente francesi, ma anche al nostrano  Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che nell’inverno del 1921 era nato a Torino in seno alla Società Fotografica Subalpina con l’esplicita intenzione di essere “un fattore nuovo nella fotografia pittorialista in Italia, e suscettibile di esercitare una felice influenza sul suo sviluppo”[119],  riunendo gli autori del primo moderato modernismo, da Baravalle, Bologna, Bricarelli a Cesare Giulio e Francesco Agosti.  Certo sulla scia di quel primo sodalizio ma con aspirazioni culturalmente più modeste fu ancora a Torino, nella sede della Società Fotografica Subalpina, che nel dicembre del 1948 si riunirono le associazioni fotografiche che diedero vita alla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche – FIAF, a cui La Gondola avrebbe aderito quasi subito mentre La Bussola se ne sarebbe mantenuta lontana. Nel giro di poco più di un anno i due fronti contrapposti della “fotografia d’arte” e dei fotoamatori si erano ormai precisamente delineati.

Com’è ampiamente noto, fu dalle frequentazioni del negozio Foto Record dei fratelli armeni  Pambakian, che nacque per Monti l’occasione di conoscere Gino Bolognini e dare vita al  venezianissimo circolo de La Gondola[120], che al momento della sua costituzione comprendeva anche Alfredo ‘Giorgio’ Bresciani e Luciano Scattola. Di quel ristretto consesso piccolo borghese Monti venne nominato, di più, fu  riconosciuto come Presidente, nonostante fosse a tutti gli effetti un neofita, specie dal punto di vista tecnico; una scelta da attribuirsi verosimilmente alla sua solida formazione culturale.  Un sodalizio che condivideva “l’intenzione di dar vita a un nuovo circolo fotografico così come viene comunemente inteso”[121], ma rifuggendo quell’estetismo crociano ” cioè il soggetto non conta niente è il modo come lo si presenta che ha importanza, che aveva caratterizzato la Bussola stessa. Era venuto il momento di parlare con la fotografia anche ispirandosi ai paesaggi pittorici, tirandone fuori il sentimento drammatico, ed alla struttura urbana di Venezia: i muri, il colloquio tra le acque e le pietre che le corrodono, gli spazi attraverso le strettoie si prestavano a questo modo nuovo di vedere”[122]. Un circolo senza Manifesto quindi, ma con idee piuttosto chiare sia in termini di poetica che di politica culturale per la promozione della fotografia ovvero, come ebbe a scrivere Zannier a distanza di quasi un ventennio[123], “la Gondola è stato forse l’unico Circolo italiano a proporre con chiarezza un’avanguardia nostrana, da allineare accanto a quella europea, che per altro ha avuto il merito di farci conoscere attraverso alcune indimenticabili rassegne ospitate a Venezia.”  Se in termini di riconoscimento del valore estetico dell’immagine fotografica il confronto e – per una certa parte il modello – era costituito da Giuseppe Cavalli e dalla Bussola, in termini più ampiamente culturali l’esempio da seguire era certamente quello del Circolo Fotografico Milanese[124], poi dell’Unione Fotografica. Diverso l’intento della neonata FIAF, che aveva semmai tra i propri obiettivi quello di far conoscere la fotografia italiana in campo internazionale, come indicava la Prima Mostra Nazionale di Fotografia Artistica organizzata proprio nelle sale del Circolo Fotografico Milanese  nel giugno del 1949[125]. Anche i bussolanti avevano organizzato una serie di “mostre di ottimi francesi tedeschi italiani cinesi”[126] nel ridotto del Piccolo Teatro di Milano, ma il gruppo de La Gondola pareva avere una progettualità più strutturata, più precisamente orientata alla crescita culturale della fotografia italiana attraverso la conoscenza diretta delle opere più interessanti del panorama internazionale, specialmente europeo.  In questa volontà di progetto non doveva essere secondaria la funzione di Venezia, non tanto per le sue attrattive d’ambiente quanto per il modello costituito dalla Biennale d’Arte (1895) e dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, avviata per la prima volta nel 1932, ponendosi perciò tra il Festival Internazionale di Musica Contemporanea (dal 1930) e il Festival Internazionale del Teatro di Prosa (1934), mentre nei primi anni del dopoguerra (1948-1951)  si avviavano le attività veneziane di Peggy Guggenheim. Venezia città delle arti contemporanee. In quel contesto, e pur muovendosi in sedicesimo date le condizioni culturali ed economiche, sorgevano anche iniziative legate alla fotografia, come la Mostra Internazionale d’Arte Fotografica che si tenne nei padiglioni della Biennale ai Giardini, dal 14 agosto al 10 settembre 1947, in concomitanza con la Mostra internazionale della tecnica cinematografica. Una grande raccolta di immagini selezionate dai rispettivi circoli di appartenenza che suscitò più di qualche perplessità negli osservatori più attenti. “Una percentuale alquanto vasta di fotografie artisticamente e tecnicamente non valide” nel giudizio di Giuseppe Cavalli, che pure segnalava The Critic di Weegee, ma senza indicarne l’autore[127], mentre Alfredo Ornano[128] ammetteva di aver “provato un vero dispiacere percorrendo le sale (…): in locali così bene illuminati che in ogni angolo la fotografia vi si mostra in tutte le sue più delicate mezze tinte, si è radunato tutto il vecchiume d’Italia, tutte le fotografie che da 15 anni vediamo in esposizioni sociali e nazionali. E l’internazionalità è molto discutibile (…)”. Sola eccezione il gruppo di venticinque fotografie del gruppo de La Bussola, “le uniche in cornice e sottovetro”, precisava Cavalli.

Certo memori di quel precedente, la prima iniziativa pubblica de La Gondola, fu l’organizzazione nel 1951 della Mostra Fotografica Nazionale Retrospettiva 1940-1950[129],  alla quale sarebbe immediatamente seguita nella stessa Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian La prima mostra del paesaggio veneziano e lagunare[130].  Scopo della mostra retrospettiva – scriveva Monti nella presentazione – era di  “far conoscere a una larga cerchia di pubblico una severa e larga selezione di fotografie italiane dell’ultimo decennio, iniziando con questa un programma di periodiche manifestazioni che, riallacciandosi alle ultime degli anni precedenti la guerra, sia quasi di prologo alle mostre future”[131]. Si trattava insomma di “fermarsi a fare il punto della situazione e per non incorrere in giudizi affrettati, esaminare non tanto gli ultimi apporti dei vari autori quanto lo svolgersi nel tempo delle diverse tendenze [offrendo] in una rapida sintesi un’idea abbastanza precisa dell’attuale fotografia italiana. Diciamo ‘attuale’ e non ‘moderna’ perché molte opere risentono ancora di influssi che risalgono a molti, troppi anni or sono e per fotografia moderna noi intendiamo invece quella che è solo ‘fotografia’, mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative e tanto meno di imitarle nell’esteriorità del mezzo tecnico.”   Per quelle ragioni “più che premiare lavori singoli la giuria avrebbe voluto premiare interi complessi di opere [come poi avverrà a Castelfranco e altrove negli anni successivi] perché la personalità di un fotografo è data dal complesso del suo lavoro piuttosto che da opere isolate.  (…) In questa breve presentazione di proposito non abbiamo mai parlato di “fotografia artistica” e ci auguriamo che questa infelice espressione sia bandita ovunque si parli o si scriva di fotografia. Sulla questione se la fotografia sia arte o no, si è consumato fin troppo inchiostro – e sorte analoga ebbe più tardi il cinema – né noi vogliamo sciuparne altro”. La questione poetica al centro di quell’ impegnativo programma riguardava la rivendicazione della fotografia come “mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative”[132], vale a dire qualcosa di sottilmente diverso dai proclami de La Bussola  (“Noi crediamo alla fotografia come arte”)  e dalle posizioni di  Vannucci Zauli e Scopinich, e semmai prossimo a quelle avanzate  già a fine Ottocento da un fotografo come Pietro Masoero[133], segnando così una specie di ritardo sulle più avanzate posizioni critiche e sulle iniziative  di respiro europeo che caratterizzavano  in quegli anni il Circolo Fotografico Milanese e poi l’Unione Fotografica[134]. Considerando questo testo, oltre a notare l’accorto uso delle aggettivazioni (“una severa e larga selezione”)  bisogna prestare la dovuta attenzione alle intenzioni dichiarate dal titolo:  a pochissimi anni dalla fondazione dei due più noti circoli italiani e dalla nascita della FIAF  l’intento era unificante;  il tentativo era quello di fornire una rassegna critica dell’ultimo decennio, segnato per la gran parte dalla guerra e dalle sue conseguenze; voleva inoltre dire assumersi il rischio di fare i primi conti con la fotografia negli ultimi anni del fascismo. Evitare di far  tabula rasa delle esperienze del periodo bellico costituiva la condizione anche politicamente necessaria per proporre quella prima mostra come l’anello di congiunzione con le previste iniziative future, a partire dalla Mostra della fotografia italiana del 1952 e sino alle Biennali del 1957-1965, che furono l’occasione per far conoscere al pubblico italiano un  panorama ampio e variegato,  per molti versi mainstream, nel quale vennero mantenute sotto tono le esperienze europee legate alla fotografia astratta e concreta, più esplicitamente soggettiva.  I contatti e i confronti fattivi con la produzione fotografica internazionale si erano avviati per La Gondola con la I Mostra scambio “Le Club Photographique de Paris 30×40[135], a cui fece seguito nel 1955, sempre a Ca’ Giustinian, quella più opportunamente chiamata II Mostra Internazionale di Fotografia[136], che presentava “opere di famosi «cameramen » di Francia, d’America, d’Olanda e di Germania”[137], come Daniel Masclet, Otto Steinert e Martien Coppens. Tra gli scopi dichiarati vi era quello di “portare la fotografia alla Biennale Internazionale di Venezia”, ma la sua conduzione  venne aspramente criticata sulle pagine di “Ferrania” da Berto Morucchio, che stigmatizzava certe presunte “sofisticazioni della prefazione” (di Giorgio Giacobbi) e il ricorso a  “concetti frusti e mal articolati come questi, di autonomia e di individualità dell’arte [che]  è meglio tralasciare se non sono vissuti profondamente nella loro evoluzione storica”[138], ma soprattutto condannava la decisione di aver ristretto la partecipazione  italiana ai soli membri de La Gondola, “secondo la bonomia familiare che governa un club”. Una scelta che doveva però suonare come una rivendicazione se non come una piccola vendetta, datosi che i membri del gruppo veneziano erano stati esclusi sino a quel momento dalle più prestigiose occasioni internazionali.

Nella prima metà degli anni Cinquanta la fotografia italiana aveva goduto di  una buona circolazione internazionale, a partire dalla prima edizione (1952) di Fotografie als Uitdrukkingsmiddel, curata da Martien Coppens allo Stedeliijk Van Abbe Museum di Eindhoven, che in un prestigioso contesto  autoriale (Ansel Adams, Edward Weston, Fotoform, Magnum, gli svedesi del gruppo De Unga, tra gli altri) ospitava i fotografi de La Bussola e quelli dell’Unione Fotografica, compreso Roiter, addirittura  riservando la copertina del catalogo a Sul tetto di Federico Vender. Un panorama  qualitativamente diverso da quello  offerto dalla mostra londinese dello stesso anno organizzata dalla Royal Photographic Society (5-29 novembre) a cui pure parteciparono  “i tre maggiori enti che rappresentano oggi la fotografia italiana” , vale a dire la Bussola, l’Unione Fotografica e  la FIAF “che comprende quasi tutti i circoli d’Italia”. Purtroppo la presenza di circa cento lavori  ‘salonistici’ determinò un forte sbilanciamento dell’insieme, condizionandone negativamente la ricezione da parte del pubblico e dei critici britannici, più che perplessi dall’omogeneità e dalla scarsa qualità complessiva dei lavori presentati.  “Una serie di fotografie tutte di tonalità molto chiara, fissate su una parete bianca, diventa[no] una cosa strana assai all’occhio britannico” ricordava Harold Lewis  sollecitato in proposito dai membri dell’Unione Fotografica, che sentirono la necessità di prendere pubblicamente posizione in un articolo a firma collettiva pubblicato su “Ferrania”[139]. Anche nella Mostra della fotografia italiana che si tenne nel  maggio 1953 alla George Eastman House di  Rochester,  promossa dalla rivista “Fotografia” e curata da Beaumont Newhall[140], gli  autori presenti erano prevalentemente legati alla redazione della rivista milanese, così che l’iniziativa passò piuttosto in sordina nonostante la prestigiosa sede.  Non dissimile infine la compagine italiana nella quasi contemporanea  Post-War European Photography curata da Edward Steichen al MoMA (da 26 maggio al 23 agosto), con settantanove fotografi da undici paesi[141] e le presenze italiane  equamente suddivise tra i membri dell’Unione Fotografica e della Bussola, vale a dire molti degli autori  (Piero Di Blasi, Cavalli, Davide Clari, Donzelli, Vender e Veronesi) accolti da Steinert in Subjektive Fotografie 1, del 1951,  ancora una volta escludendo gli autori de La Gondola. La fotografia italiana fu poi l’argomento del numero monografico di “Camera” dell’aprile del 1956, per la cura di Romeo Martinez, che nei mesi successivi avrebbe pubblicato lavori di Paolo Monti[142] e di Mario de Biasi[143]. I testi introduttivi furono affidati a Fulvio Roiter[144] (del quale la rivista aveva ospitato immagini dal viaggio in Sicilia nel gennaio del 1954) e a Italo Zannier, entrambi concordando sul fatto che “l’arte fotografica italiana (…) è espressa quasi esclusivamente dalle opere dei fotografi dilettanti”[145],  ciò che aveva nociuto non poco al suo affermarsi. La selezione degli autori[146] era stata però piuttosto generica e inadatta a  fornire un quadro veramente significativo della produzione italiana sia in termini generazionali che di scelte espressive, ma l’occasione fu certamente importante, anche se il bilancio tracciato dai due autori era insoddisfacente. “A rigor di termini – scriveva Roiter –  dovremmo parlare solo di dilettantismo, perché è la sola forma di attività fotografica che, in questo paese, abbia  stimolato un ideale, definito una tradizione e incoraggiato una pratica i cui effetti sono tutt’altro che trascurabili. È strano, fuori dall’Italia il meglio della produzione fotografica viene dai grandi del mestiere che vivono di fotografia e per la fotografia.” Ciò detto e riconosciuto, i limiti determinati da tale situazione erano evidenti  poiché anche le “ intenzioni più meritevoli finiscono per insabbiarsi se viene a mancare  un sostegno indispensabile: l’energia che determina ogni piena realizzazione. (…) Non siamo contrari a questa forma di attività, né ai circoli fotografici; ci auguriamo solamente l’avvento in questo paese di un vero, onesto e proficuo esercizio professionale.” Quelle considerazioni (sarebbe troppo definirle analisi) suscitarono la risentita reazione di uno dei grandi esponenti della vecchia guardia come Stefano Bricarelli che dalle pagine del “Corriere Fotografico”, stigmatizzò la trasparente celebrazione autobiografica fatta da Roiter di quei “giovani dotati di ricca sensibilità e coraggio che si sono sganciati da queste istituzioni [i circoli] per affrontare, con successo, e da soli, una carriera così piena di rischi e difficoltà come quella del freelance fotografo”, convinto che “da questi semenzai esce anche la  più parte dei fotografi professionisti”.  Anche per “il suo degno epigono, Italo Zannier” non mancarono le critiche,  specie per l’aver considerato “Cavallli, Veronesi, Finazzi, Balocchi ecc.”  rappresentanti della ‘vecchia generazione’. Se così era – chiosava Bricarelli – “noi apparteniamo addirittura ai ‘primitivi’, e ci possiamo ormai considerare «au-dessus de la mêlée»[147] e quindi in grado di esprimere un parere spassionato che sarebbe il seguente. È  un vero peccato che un’occasione così favorevole per valorizzare la fotografia italiana – quale un Numero speciale ad essa consacrato da una Rivista dell’autorità di “Camera” – sia stata sprecata, non con le fotografie, che, la Dio mercé, un loro linguaggio positivo e persuasivo lo hanno conservato; ma con gli scritti che si direbbero fatti apposta per convincere, in quattro lingue, gli stranieri – già così propensi e pronti a sottovalutarci – che, dietro agli autori delle suddette opere, in fatto di fotografia in Italia nulla esiste o poco meno di nulla. (…) Diano retta a noi; continuino a produrre della bella fotografia e lascino l’impiccio e la responsabilità di scriverne a chi è in grado di farlo.” La tesi sostenuta da Bricarelli nel 1956 sarebbe stata condivisa e meglio articolata da Monti in occasione del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando (contro l’ironia  “facilissima” di Gilardi)  aveva sostenuto che “ l’unica salvezza della fotografia italiana è questo continuo passaggio di amatori al professionismo fin quando non ci saranno delle vere scuole che alleveranno dei veri fotografi [perché ] in mancanza di scuole fotografiche che siano veramente scuole fotografiche io mi domando che cosa sarebbe oggi la classe dei professionisti se non avesse avuto il continuo rincalzo di certi amatori. (…) Quanti sono gli amatori che hanno dato un certo lustro alla professione? Sono moltissimi”[148]. Ed era  certo lui la figura eponima di quelle vicende, il responsabile delle “rottura con un certo edonismo fotografico, nello stesso tempo è il suo passaggio al professionismo che ha   scosso le inibizioni di numerosi amatori dotati ma incapaci di passare il Rubicone. L’impresa di Monti ha significato per la nostra generazione l’emancipazione e la rivalorizzazione di un mestiere che era considerato socialmente ed economicamente inferiore.” (…) [ Monti]  resta comunque l’esempio di chi è riuscito a conservare la propria integrità a tutti i livelli della sua produzione, vale a dire che è riuscito a difendere in ogni momento la propria personalità di fotografo.”[149]  Fu ancora la Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian a ospitare la III Mostra Internazionale di Fotografia[150] organizzata dal Circolo La Gondola dal 24 giugno al 15 luglio 1956, con poche partecipazioni internazionali (solo Brett Weston, Erich Angenendt, Helmut Lederer, Toni Schneiders, André Thévenet, George Viollon e la Guilfond School of Art aderirono all’invito) e una discreta presenza italiana[151],  che escludeva però oltre al  nucleo storico dei  bussolanti (con l’eccezione di un atipico come Veronesi) anche i milanesi dell’Unione Fotografica, semmai attirando nella propria orbita alcuni giovani della MISA, quasi a voler certificare la fine del predominio di Cavalli[152]. Sulle pagine di “Ferrania” Zannier[153] ne offrì un’interessante recensione critica, segnalando in particolare “il numero eccessivo delle opere di taluni e sproporzionata in rapporto agli stranieri la partecipazione degli italiani, con una scelta non sempre giustificata[154]. Si notava l’assenza di nomi che in una selezione nazionale non avrebbero potuto mancare, mentre alcuni dei presenti mal figuravano in una Mostra cosi importante, di carattere internazionale.” Oltre i  giudizi espressi sui vari autori, più interessanti risultavano alcune osservazioni relative agli sviluppi futuri di quella “manifestazione (…) che certamente nei prossimi anni troverà una più valida giustificazione”, augurandosi che “ l’Ente Veneziano [la Biennale] non si limiti ad accordare all’Esposizione la meravigliosa sala di Palazzo Giustinian, ma partecipi soprattutto con il suo credito (e la sua carta intestata è forse sufficiente) (…)  al fine di concedere un panorama compiuto e selezionato della fotografia internazionale. Il suo interessamento donerebbe senza dubbio a Venezia la più bella mostra di fotografia del mondo.”  Se consideriamo poi la chiusa, solo apparentemente cronachistica, che “il giorno dell’inaugurazione, la sala dell’esposizione accoglieva molti nomi noti della fotografia nazionale ed internazionale: ospite di onore il direttore di una grande rivista svizzera [Romeo Martinez, in realtà redattore capo] che è parso essere per alcune ore il centro d’attenzione dei fotografi”, possiamo meglio comprendere come ormai il gioco fosse più che avviato e i presupposti per il varo delle Biennali di fotografia compiutamente definiti, resi poi subito concreti  con l’organizzazione della  I Mostra Internazionale Biennale di Fotografia[155] che si tenne nei mesi di aprile e maggio 1957 (negli anni dispari, per non sovrapporsi alle Biennali d’arte) a Ca’ Giustinian e al Museo Correr, organizzata da Martinez, Monti e Luigi Crocenzi[156]. La novità era rappresentata non tanto dalla sezione dedicata alla Fotografia europea,  con  partecipazioni esclusivamente a invito, ma da quelle riservate ai fotografi di Vogue e della Magnum[157], poiché scopo dichiarato era “fare di Venezia finalmente l’appuntamento mondiale dell’opera fotografica con il suo pubblico [per] mostrare (…)  che l’immagine fotografica non è solo un’operazione meccanica, ma anzi è il risultato di un arte molto sottile.”[158]  Una prospettiva e un obiettivo ribaditi da Monti che nelle pagine introduttive al catalogo si augurava che quella prima Biennale potesse “diventare il banco di prova per un giudizio critico molto aggiornato sulle  tendenze della fotografia attuale e sui risultati raggiunti. (…) Voglio esemplificare queste due principali tendenze della fotografia attuale in due nomi di grande prestigio: Otto Steinert e Henri Cartier-Bresson, per rappresentare polemicamente le due posizioni estreme del fotografo di fronte alla realtà”[159].  Era il  compimento di un progetto culturale già pienamente delineato nel 1952, quando Monti  nel presentare la Mostra della fotografia italiana  aveva  richiamato la necessità di “vedere, vedere e studiare le fotografie dei migliori fotografi del mondo in grandi Mostre internazionali a invito, possibilmente periodiche”[160], ma anche di “portare il nostro modesto contributo all’affermazione della fotografia italiana, finora quasi totalmente ignorata come arte figurativa nelle manifestazioni ufficiali”. Più interessante, e per certi versi inedita e sorprendente,  la speranza che la mostra  “fosse occasione, per la critica italiana, di un vasto studio sulla fotografia di reportage: essa ci porta una testimonianza della condizione umana nei più lontani paesi ed anche di quelli che noi crediamo di conoscere perché in essi viviamo.”  Una presa di posizione che diremmo programmatica essendo quel genere particolarmente inviso all’universo salonistico, nel cui ambito ci si lamentava che “la bella fotografia, che prima era in gran parte opera di dilettanti (…) è passata in forte proporzione nelle mani dei professionisti e specialmente dei foto-reporters”[161], mentre per molti versi il confronto con la realtà costituiva il fronte etico ed estetico della nuova fotografia italiana[162]. Non che mancassero riferimenti al reportage in precedenti testi di Monti, ma si trattava per lo più di riflessioni a margine ovvero di giudizi fortemente critici, specie nei confronti del “reportage giornalistico di tipo americano che, al di fuori dell’uso contingente cui è destinato, non può essere accettato senza qualche riserva anche nei suoi rappresentanti migliori, come Cartier-Bresson…”[163]. Ora invece in quelle immagini riconosceva “il fascino delle cose vere, delle cose viste, vissute, patite. La realtà e la vita ci vengono incontro perentorie, ci chiedono la nostra partecipazione, il nostro amore o il nostro sdegno, sempre la nostra comprensione di uomini. Tale è la suggestione di queste immagini che subito dobbiamo difendere il nostro desiderio di verità ed opporre la critica al sentimento: una domanda ci tormenta: “Cosa ha potuto vedere il fotografo e cosa non ha potuto? Fin dove è imparziale la sua verità?[164] Il problema cessa di essere tecnico ed estetico per diventare morale, sociale e politico perché è, infine, un problema di libertà (…) [ Cartier-Bresson] di fronte alla realtà attende che essa gli si riveli per darcene, secondo la sua definizione, «il momento decisivo», quello  che riassume un dramma umano, un aspetto sociale, persino una situazione politica”, mentre i reporter della Magnum appaiono “tutti riuniti nello sforzo di darci la più memorabile documentazione della nostra epoca.” Opinione condivisa da Zannier, per il quale “i reporters dell’agenzia «Magnum» [erano] venti artisti-fotografi di tutto il mondo destinati a scrivere la nostra storia più intima e fuggevole”, così che “se qualcuno sin’ora aveva dei dubbi sulle possibilità autonome e complete del linguaggio fotografico, nel visitare questa rassegna certamente è portato a rettificare le sue convinzioni”[165].  Quell’attenzione per il reportage rappresentava un altro segnale dell’affermarsi del fronte realista,  presentato a Spilimbergo nel 1957, giusto a dieci anni di distanza dai formalismi del Manifesto de La Bussola,  in una esposizione dedicata a 26 fotografi italiani[166] che di fatto concluse l’esperienza del Gruppo Friulano per una nuova fotografia.  A testimoniare le contraddizioni di quel momento il catalogo della mostra era introdotto da considerazioni critiche tanto autorevoli quanto di divergenti. Così all’entusiasmo di Bezzola che “la fotografia italiana – nella sua parte migliore s’intende – ha da tempo lasciato dietro di sé le battaglie per l’acquisizione delle varie esperienze tecniche ed estetiche; superata la pesante ipoteca delle arti figurative, superato il rischio del formalismo e del calligrafismo, essa va studiando i modi entro cui attuare una propria autonomia spirituale, affrancandosi da ogni dipendenza. (…) Oggi la nostra fotografia sta riscoprendo l’Italia e gli italiani”, si contrapponeva il disincanto di Monti:  “La presa di possesso di una certa realtà italiana sembra essere la principale preoccupazione di molti tra i migliori nostri giovani fotografi, e per realtà intendiamo anche alcune particolari situazioni sociali che particolarmente nel Sud d’Italia si presentano in aspetti molto allettanti come ‘occasione’ fotografica.  Non è un caso che il Mezzogiorno sia così spesso il soggetto di molte recenti fotografie, osservazione ché può ampliarsi nel constatare come le maggiori simpatie dei nostri fotografi vadano agli aspetti più mediterranei del nostro vivere. (…) Dovremo parlare di una acuta nostalgia per una civiltà remota ma tuttora viva che potremmo definire la civiltà dell’ulivo e del gregge? Un’altra evasione dunque della vita attuale, una fuga lontano dal fumo delle ciminiere? È  troppo presto per affermarlo, ma occorre pur dire che questa corsa verso il Sud può essere del tutto giustificata solo se servirà anche a farsi la mano per narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine.”[167] Insomma – chiosava Turroni – “una nuova morale fotografica è in atto; si  ricerca la verità in ogni settore della realizzazione artistica: dal réportage (influenzato dalla lezione nord-americana), all’astrattismo  e alla corrente lirica che, pur avendo dato in passato i migliori risultati (dico, storicamente attendibili) non s’è ancora esaurita e  può riservarci sorprese per il futuro, proprio dal fondo di quella provincia che, se sfrondata dall’abulia e dal conformismo, saprà sempre offrire nuove forze, verginità di intenti, freschezza di  risultati poetici, pregnanza di costrutti realistici.” Quel richiamo culturale  alla ‘provincia’ pareva un tentativo di mediazione con la produzione salonistica contro la quale si poneva coerentemente Zannier, che parlava di “gabbia d’argento che ha racchiuso i molti raccoglitori di etichette di partecipazione a mostre, di medaglie e diplomi (…). Certamente molti pregiudizi e dilettantismi sono scomparsi (…)  si è compreso che la funzione dell’immagine fotografica non trovava limite in sé stessa, nel rettangolo di carta emulsionata, ma la sua funzione –  specifica, vitale, necessaria – è di ‘comunicare’ con il grosso pubblico, di riproporre a quanti più uomini possibile, ciò che il fotografo aveva descritto visivamente in una inconfutabile rappresentazione della ‘realtà’. Ma gli ‘artisti fotografi’  troppo spesso disdegnano e rigettano uno dei mezzi più potenti a loro disposizione, il rotocalco, preferendo che la conoscenza delle proprie realizzazioni resti limitata nel loro stesso ambiente. Addirittura termini come «réportage»,  «fotoréporter», «documentarismo», ecc., vengono usati in senso del tutto dispregiativo e limitativo di un mestiere che si ritiene adatto e necessario solamente a tenere «aggiornato» il lettore. Ma quale altra funzione è da attribuirsi alla fotografia se non quella di «documentare», di «aggiornare»; perché temere o ignorare il vero significato di questi termini? «Documentare» non significa certo riprodurre «oggettivamente»; nessuna «obbiettività» è possibile se è l’uomo, con i suoi  mutevoli sentimenti, artefice dell’immagine. Se questo sarà poeta non potrà esprimersi fuori dalla poesia; come dimenticare sé stessi, la propria sensibilità e cultura? Così «aggiornare» non significa forse proporre la situazione, l’episodio, che il pubblico vuole conoscere, attraverso la propria personalità, la propria interpretazione? Perché negare quindi al réportage quella poesia di cui almeno potenzialmente può godere e ritenerlo succubo dei fatti, della cronaca più esterna e superficiale?”  Lucidissime considerazioni alle quali non corrispondeva però la selezione dei ventisei fotografi presentati in quell’occasione che comprendeva pochi reporter in senso proprio (De Biasi, Roiter, Berengo Gardin, Patellani), ma invece molti autori variamente ascrivibili al fronte ‘realista’ e quindi almeno potenzialmente prossimi alla funzione documentaria e civile del reportage, accanto a fotografi di diversa tradizione come Cavalli, Vender e Veronesi, mostrando così una concezione quantomeno incerta ed estensiva della definizione di quel genere. La questione è per più versi interessante e credo che per essere opportunamente compresa richieda una necessaria verifica terminologica storicamente collocata, poiché l’accezione allora utilizzata doveva avere un campo semantico più ampio e dai confini meno netti di quanto si intenda oggi se è vero che Monti qualificava come reportage alcuni  suoi lavori come quello “sulle città greche dell’Asia minore”, realizzato nel corso del  viaggio in Turchia con Martinez nel 1962, che noi collocheremmo più facilmente tra le fotografie di architettura o del patrimonio storico, ed  anche quello di “artisti nei loro studi”, ma non la serie milanese delle “domeniche degli altri”,  aggiungendo inoltre che “io dei reportage non ne ho mai fatti, ho fatto solo dei reportage su degli artisti, sui loro lavori, ma sono reportage un po’ diversi già combinati con loro eccetera”[168]Quindi non pare fossero sufficienti né  il soggetto né i modi dell’organizzazione strutturale del discorso a definire un lavoro come ‘reportage’, semmai una certa omogeneità tematica, mantenendosi così lontano dal “giornalista nuova formula” delineato da Federico Patellani nel 1943[169] come dai fotodocumentari di Zavattini e Aristarco e dalle foto storie  di Crocenzi,   per limitarsi infine “al racconto per immagini, e non importa se con una o più foto”[170]. A scorrere gli interventi italiani di quegli anni[171] si direbbe che la discussione intorno al valore e alla funzione del reportage fotografico non fosse altro che l’ennesima riproposizione sotto mentite spoglie dell’annosa questione del valore artistico della fotografia, qui centrato sul nuovo e quasi pervasivo genere, del quale Monti era particolarmente interessato a indagare gli aspetti problematici. Così riflettendo sul “facile senso universale di questa esposizione così tipicamente americana” che fu The Family of Man[172] riconosceva che “mentre ci dà una prova esemplare della forza documentaria ed emotiva della fotografia di reportage, ce ne indica i limiti insuperabili”, essendo necessario e urgente “indagare quali sono le vere, autentiche e autonome possibilità espressive e documentarie del reportage, sia in una teorica situazione di ideale e totale libertà di pubblicazione, che nelle varie situazioni politiche e sociali. Definire la posizione del reporter nel mondo attuale, i suoi rapporti con l’attività dell’editore, del redattore dei testi che accompagneranno le sue foto; necessità che il reporter intervenga nella impaginazione, cioè nella lettura successiva delle sue immagini, ecc. Problemi che non sono tecnici ma di fondo perché condizionano tutta l’attività del reporter quindi la sua validità e la sua efficacia come ‘testimone del nostro tempo’”[173], seguendo in questo i dettami fondativi dell’agenzia Magnum.  Per Monti quelle riserve riguardavano  le stesse “ambiguità della fotografia”  richiamate nel suo intervento a Sesto San Giovanni degli stessi mesi, quando riconobbe che “la fotografia ci dà soltanto l’oggi (…)  ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni, siano essi storici, sociali ecc., ci dà la fase presente, ci dà quello che è avvenuto ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente, non ci da mai quello che c’era prima”[174], ovvero, come avrebbe icasticamente notato in una serie di appunti degli anni successivi, “la foto può dare solo lo spessore della superficie”, considerando perciò “l’istantanea come menzogna e deformazione della realtà”[175]. Un buon esempio del pessimismo della ragione del nostro.

La successiva edizione della Biennale, ormai senza il CCF – Centro per la Cultura nella Fotografia di Crocenzi, fu segnata dalla presenza sempre più determinante di Martinez come curatore; ruolo  che si consolidò nelle successive edizioni, sino al 1965[176],  confermando l’obiettivo di “mostrare, in sintesi, gli aspetti e le funzioni della fotografia contemporanea, adottando una formula che escluda ogni competizione, lasciando questo compito alle migliaia di mostre legate o meno a dei concorsi, che riempiono il calendario fotografico mondiale. Così pure, per ora, non intende interferire nel campo dei dilettanti”[177]. Se la prima edizione intendeva offrire “un giudizio critico molto aggiornato sulle tendenze della fotografia attuale”[178], nelle edizioni successive l’attenzione per la fotografia “soggettiva” si ridusse sin quasi a esaurirsi,  mentre si confermava quella per la fotografia come mestiere. Quindi la moda (ancora “Vogue” nel  1959) e soprattutto il reportage (i fotografi di “Life” compresa la Bourke-White e i ‘realisti’ giapponesi nel 1959; la personale di  Robert Capa e una sezione dedicata al fotogiornalismo italiano nel 1961, ma anche l’archivio Publifoto nel 1963). A questi si aggiunse una particolare  attenzione, certo determinata da spinte industriali e commerciali, per il colore nella fotografia: “Life” nel 1959;  Ernst Haas , Arik Nepo e Magia del colore, dedicata alle tendenze della fotografia a colori in Germania, nel 1961[179], un’antologica nel 1963; La fotografia e la diffusione della cultura. Medio Evo Vivo, costituita da 300 fotografia a colori realizzate da Jacques Bauer e dedicate ai “tesori dell’arte Romanica e Gotica e in Francia”[180] e Applicazioni e funzionalità della fotografia, con le personali di  Paul Huf, John Bulmer, Horst Baumann e Franco Scheichenbauer nel 1965. Si distinguevano da questo panorama piuttosto compatto le personali di Man Ray e Albert Renger-Patzsch nell’edizione del 1961 e quelle di André Kertesz (ancora negli USA a quella data) e Arnold Newman (1963), accanto alla presentazione dei  Grandi Maestri di questo Secolo,  tra i quali va sottolineata l’inclusione  di due ‘pittorialisti’ come Alvin Langdon Coburn e Hugo Erfurth,  ma anche la clamorosa assenza di Alfred Stieglitz, Walker Evans[181] e Robert Frank[182]. Il notevole eclettismo di quelle scelte pareva corrispondere solo in parte alle intenzioni espresse da Monti nel testo introduttivo al catalogo[183]: “A questo servono le esposizioni di fotografia: selezionare per conoscere, giudicare e conservare il meglio”, avendo “la periodica necessità di fare confronti e di fissare qualche punto di riferimento, altrimenti l’invadente marea delle immagini destinate al consumo immediato ci impedirebbe di ‘vedere’ quello che merita di essere ricordato”, in un contesto come quello della nascente “civiltà dell’immagine destinata a sostituirsi quasi interamente e presto alla millenaria civiltà della parola.” Le produzioni della Biennale non erano però originali poiché la maggior parte delle mostre proveniva dalle diverse edizioni  della  Photokina di Colonia,  e quella carenza di elaborazione autonoma fu in parte  all’origine delle riserve espresse da Guido Bezzola[184], che  a proposito dell’edizione del  1959 parlava di “un insieme certamente interessante, ma non forse abbastanza organico per giustificare un titolo della risonanza di quello della Biennale di Venezia. (…) Secondo noi la Biennale è troppo esclusiva e astratta. Certamente è utile mostrare le opere di cui abbiamo parlato sopra, ma è nostro dovere rammentare a tutti che esiste anche una fotografia italiana” . Giudizio ben ponderato ma forse viziato dal suo proprio punto di vista di direttore di “Ferrania”, una pubblicazione che certo non poteva competere in termini di prestigio e notorietà internazionale con “Camera”. Soprattutto Bezzola non coglieva il senso generale di quel progetto, che non aveva mai inteso offrirsi come rassegna, anzi intendeva andare oltre le “questioni estetiche, (…) piuttosto insisteremo in qualche caso sulla utilizzazione delle fotografie che ne risultano condizionate nel loro crearsi. Non terremo conto delle varie sezioni della mostra – proseguiva Monti – perché molte considerazioni sono comuni ad autori di sezioni diverse” sebbene poi  (secondo il costume corrente) si dedicasse anche lui a giudizi puntuali ma sempre collocandoli in un contesto critico ampio. Era forse l’inevitabile consuetudine che gli derivava dal frequente ruolo di giurato avuto in molte, forse troppe, rassegne italiane di quegli anni,  a partire dalla presentazione della doppia personale di Carlo Bevilacqua e Fulvio Roiter al Circolo Artistico Friulano di Udine nel 1952, nella quale formulava un principio poi ribadito e sviluppato in occasioni successive, con un esplicito giudizio critico sui vari dirigismi: “Sulle riviste fotografiche si discute spesso del soggetto in fotografia e sulla pretesa necessità di abbandonarne alcuni a favore di altri. Secondo quei retori esisterebbero soggetti moderni e soggetti vecchi e superati, mentre una sola cosa può essere detta e cioè che qualsiasi soggetto è buono se l’opera è valida per virtù di stile”, distinguendo tra fotografia come “narrazione” [Bevilacqua] e come “immagine” [Roiter] per riconoscere infine a ciascuno di loro “una sicura intuizione delle possibilità del mezzo fotografico e il rispetto dei suoi limiti, entro i quali essi realizzano pienamente le proprie visioni”[185]. “La prima qualità che si pretende da un fotografo [è] di essere essenzialmente un visivo, cioè un uomo che vede dove tutti si limitano soltanto a guardare, e che costringe a vedere” , avrebbe poi ribadito nella presentazione di una successiva mostra in cui accanto a Roiter e Aldo Nascimben presentava i propri lavori[186].

 

 

Le prime personali

 Il  1952 fu l’ anno della sua prima personale, a Roma (e chissà perché non a Venezia o a Milano), corredata da una presentazione (il suo primo scritto edito)  che costituiva un chiara indicazione di poetica: “Nulla mi sembra più inutile di tante polemiche su cosa si deve o non si deve fotografare. Si può fotografare tutto, e con la più ampia libertà di intenti e di tecnica. (…) Tutto il mondo visibile mi attrae quasi senza alcuna gerarchia di valori, e non certo per farne un confuso inventario ma per tentare di scoprire, delle molte cose viste, un aspetto nuovo ed essenziale, quasi un segreto che volta a volta sarà umano, plastico o anche soltanto decorativo. Fotografare vuol dire creare delle immagini che staccate dalla realtà dalla quale trassero origine, mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova, conclusa nei limiti della inquadratura. E in questi limiti dell’immagine è indifferente che si rappresenti un volto sofferente, una radice corrosa o un fantastico riflesso d’acqua. (…)  Mi si potrà obiettare che alla varietà delle fotografie esposte si accompagna un certo grado di incoerenza formale: accetto la critica quale prezzo della mia libertà, non senza far rilevare però che per me è essenziale l’architettura interna della fotografia, e non il suo tono dominante, o la natura del soggetto”[187]. Difficile dire di più (o meglio) per illustrare e motivare le ragioni di una produzione ancora piuttosto  eclettica per  scelta di temi e per trattamento. La ragione non risiedeva però soltanto in quella rivendicata libertà espressiva e nella conseguente ‘liberazione’ da vincoli stilistici troppo rigidi, ma soprattutto dall’aver compreso che l’efficacia di ciascuna immagine  risiedesse nelle qualità della sua propria logica interna. Se quelli erano i termini,  allora si possono comprendere meglio, in modo più evidente e chiaro le fotografie della serie dei Muri e dei Legni (nella quale comprendere anche il lavoro condotto su di un Tronco bruciato, tav. 066, che ha suggestioni più scultoree però),  avviate negli anni immediatamente precedenti e proseguite per almeno un decennio, riconoscendo che “il carattere comune di questi lavori è il tentativo di raggiungere uno stile unitario anche attraverso quelle operazioni di  camera oscura che ad alcuni puristi della fotografia sembrano inammissibili manomissioni del negativo. A questo proposito dirò solo che io non sono un purista, ma unicamente un fotografo che accetta i limiti di questo entusiasmante mestiere”[188]. Quindi aggiungeva, in una lettera all’amico Ferroni dello stesso anno,  che “i momenti più emozionanti sono quelli della camera oscura. Lì, in quella luce da acquario, nel silenzio rotto solo dal contasecondi, è il vero nostro regno, dove nasce l’immagine creata. lo non credo, contro il parere di illustri come Cavalli e Cartier-Bresson, che la fotografia sia già tutta compiuta nel negativo. La fotografia è in noi, il negativo ci serve solo a disegnarla in fretta, col prodigioso concorso della chimica e dell’ottica”[189]. E già prima, in una lettera a Mario de Biasi in cui si complimentava per le attenzioni che gli aveva riservato Cavalli[190], scriveva di avere “delle foto che sono state macinate dentro per molto tempo e poi fatte finalmente ma non stampate. Dopo altri mesi, ecco che la stampa modifica ancora una volta l’idea primitiva. Ma quel che conta è poi il risultato finale. È per questo che tutte le discussioni sui soggetti e sui metodi di fotografare e sui famosi processi interpretativi (stupida espressione!) mi annoiano e mi irritano. Contano le opere sul tavolo, lucide e sode, e che da sole devono parlare e convincere.” Poi, a conferma, in una successiva lettera a Ferroni:  “Io talvolta stampo delle prese dopo un anno e oltre e dopo averli revisionati [i negativi] una decina di volte sotto l’ingranditore senza stamparli intanto penso e studio come dovrà essere la stampa, dove aumentare i neri, dove distruggere i particolari inutili per arrivare ad una sintesi dell’oggetto. Ed è qui che entra in campo la personalità diversa di ciascuno di noi, perché dove uno conserverebbe un tono, l’altro ne distrugge venti e dove uno ammorbidisce, l’altro contrasta”[191]. Poiché infine, “la stampa fotografica, immagine oggettiva ‘soggettivata’, è quindi una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà. Se ammettiamo, il che è innegabile, che con il suo ritaglio dello spazio, la sua messa in ordine delle forme, la sua resa dei valori tonali, la fotografia è molto diversa dalla realtà che l’ha generata ma di cui è comunque l’immagine, si capisce meglio cosa voglia dire astrarre”[192].  “Una riproduzione – rifletteva Monti – non può mai essere qualcosa di amorfo, c’è sempre una scelta. Le modalità attraverso le quali riprodurre una forma non sono così semplici da spiegare e tante volte bisogna stare attenti a non sostituire la forma,  diciamo così, della realtà con una nuova forma, invece di interpretarla. Per quanto mi concerne io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[193].  Significativo era qui il consapevole arrendersi all’evidenza del primo e fondante valore documentario della fotografia, che è quello relativo al rapporto  col soggetto messo in forma, ma anche la precisa coscienza di una strategia interpretativa che scomponeva l’atto fotografico nelle due fasi distinte della ripresa e della stampa, fasi che corrispondevano anche, con tutta evidenza, ad un mutare del rapporto stesso: se nella prima questo si instaurava col reale, nella seconda esso non poteva che darsi con la sua immagine; era mediato dall’atto fotografico primario e si inscriveva compiutamente nella autonoma elaborazione del fotografo, che “attraverso tecniche precise [offriva] una interpretazione, se non mentale, se non intellettuale, almeno tecnica”[194].

Cosa Monti potesse intendere con quella sua necessità di ricorrere alla fotografia per la messa in forma del mondo, quale potesse essere per lui il significato di quell’operazione, lo rivela la citazione (parziale) da un testo di Paul Claudel sulla metafisica della Creazione che nella sua forma più compiuta  recita: “Allora comprenderemo  il significato profondo di queste parole: caso, necessità, movimento, sviluppo, unità, diversità (…) poiché la materia non può sottrarsi al nulla che muovendo verso una forma”[195], come accadeva ad esempio nella stampa dal titolo un poco provinciale di Cubismo, pubblicata nel numero due del 1953 de “Il Progresso Fotografico” (tav. 067[196].  Quella drammatica possibilità venne poi identificata da Umberto Eco[197] come quella “intenzione formativa” che,  sulla scia di Luigi Pareyson (un percorso cattolico si potrebbe dire),  rappresentava l’elemento determinante per la definizione dell’opera.  Così posto il problema,  risulta evidente che il dato fondante non era rappresentato dal riconoscimento della  quidditas della cosa fotografata (muro, corteccia, manifesto o figura che fosse) ma dal processo di restituzione  operato dal fotografo;  vale a dire, generalizzando, dalla consapevolezza dell’atto fotografico quale operazione di astrazione di quella porzione di reale dal suo contesto, cioè nella sua trasformazione in soggetto e in opera come nuovo elemento di realtà, come realtà nuova non preesistente. A maggior ragione dovevano intendersi come oggetti nuovi quei lavori  che non erano in alcun modo ‘astrazioni’ ma semmai prelievi, rilevamenti di impronte come i fotogrammi;  una pratica lunga quanto la storia stessa della fotografia, già ampiamente ripresa dalle avanguardie storiche europee poi rinnovata e celebrata nel secondo dopoguerra anche in una serie di  iniziative espositive del MoMA di New York[198] . Tutte operazioni e pratiche che in quegli anni di feroce confronto col fronte realista erano fortemente, ideologicamente osteggiate,  tanto che nel presentare la Mostra della fotografia italiana a Firenze del 1953 Monti avrebbe ironicamente polemizzato con gli esponenti  dell’Unione Fotografica scrivendo:  “Ad alcuni insospettiti amici milanesi diremo che in questa mostra non ci sono solarizzazioni (…). C’è un solo fotogramma, dello scrivente, e speriamo che ci sia perdonato”[199].

La sua seconda personale venne allestita nel luglio del 1953 presso la Bottega “Il Ponte” di Venezia, a cura della Sezione Fotografica del Centro Studi Arte Contemporanea[200].  Nella presentazione Berto Morucchio  ne  riconosceva “il gusto sofisticato (…). Ecco nascere il suo mondo, con il suo alfabeto: racchiuso in un contrasto violento di luce e ombra, scarno di tristezza esaltata, da primitivo. Anche dove predomina la sollecitazione intellettuale sa essere umano, di un’umanità paradossale (…) così sa frenare il vecchio patetismo con l’intervento di una buona dose di scetticismo mentale che fa parte delle sue qualità oggettive. È una forza nuova della fotografia italiana”[201].  Qualche  mese più tardi Monti espose a  Lendinara[202] una serie di lavori (tra i quali il Ritratto di Fulvio [Roiter], tav. 068) introdotti dal testo redatto per la personale romana di due anni prima[203]; tra i più sensibili visitatori  vi fu Ferruccio Ferroni,  che subito ne scrisse  a Roiter: “Ho visto a Lendinara la mostra personale di Monti: un complesso di opere bellissimo e nuovo. Monti sa trascinarci nel suo mondo con irreprensibile genialità, mondo di allucinazione, che non sai se vivi nella realtà o nel sogno e, per uno strano gioco di prospettive, credi di aggirarti in piena coscienza fra le cose reali, ed invece proprio allora queste ti sfumano nell’irreale.”[204] E ancora, a Parmiani, “Mi sembra che sia una cosa magnifica, col suo mondo allucinato ed inquieto. Sotto la scorza di intellettualismo che un po’ traspare dai suoi lavori, si celano motivi lirici di bellezza incomparabile. Per me Monti è il poeta della inquietudine, in questo mondo in cui più nessuno sa vedere al di là di sé  stesso”[205]. Le ragioni di quel sentire erano esplicitate in una lettera dello stesso Monti a  Ferroni:  “Ma in segreto ti dirò – scriveva –  che molte mie fotografie io finisco per odiarle perché mi rimandano l’immagine stilizzata e quindi ben più evidente, di un mondo che io detesto nelle persone e nelle cose: direi che molte mie fotografie sono una reazione e una protesta e vorrei che arrivassero ad essere un insulto. Forse queste non sono le condizioni migliori per fare dell’arte, ma me ne frego proprio perché queste cose sono quelle che debbo fare, almeno per ora. (…) Chi guarda le mie foto non ha vie di mezzo: prendere o lasciare (…).  Molti non le possono vedere, ma ormai quando sono in giurie questi egregi signori non hanno il coraggio di scartarmi e devono digerire i miei rospi. Prosit!”[206] Inevitabile allora riconoscere quel disagio inquieto come la più radicata costante della sua espressione più personale e intima, per questo assente nei lavori professionali, ma anche una forte coazione a ripetere, una volontà di sfida quasi, se consideriamo che nel periodo 1952-1967 Monti prese parte a circa quattordici  mostre  personali e sessanta collettive[207], con opere che intendevano “partecipare [delle]  molteplici e divergenti esperienze attuali e anche proporre il semplice risultato di puri esperimenti tecnici che forse troveranno più tardi compiuta espressione”[208]. Il dato quantitativo[209]  indica in maniera netta la parcellizzazione, meglio la polverizzazione di quelle iniziative di livello eterogeneo e discontinuo, com’era nella buona tradizione del tanto vituperato salonismo fotoamatoriale, nella convinzione però che fossero “le uniche manifestazioni che possano indurre il pubblico, e specialmente i giovani, a farsi un’idea abbastanza precisa dei mezzi espressivi affidati oggi alla fotografia”[210].

Erano quelli gli anni in cui ogni borgo per quanto piccolo, ogni città per quanto grande ospitava o promuoveva  una Rassegna o una Mostra, certamente Nazionale e possibilmente Artistica,  a cui Monti – che pure stava affrontando l’impegnativo passaggio al professionismo – cercava di non mancare,  dimostrando una bulimia partecipativa non indifferente, non di rado gratificata dall’assegnazione del primo premio. Così a Spilimbergo nel 1954 per il Ritratto del pittore Gianni Dova, attribuito da una giuria composta da Elio Bartolini, Fulvio Roiter, Giannni Borghesan, Carlo Bevilacqua, Novella Cantarutti e Italo Zannier[211];  quasi una dichiarazione d’intenti  se consideriamo che i membri comprendevano alcune delle figure che di lì a poco avrebbero partecipato all’avventura del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia.  Certamente estranea a quel mondo, a quella compagnia di giro quasi, era Fiamma Vigo, che dirigeva la fiorentina Galleria Numero con Alberto Sartoris e che nel 1955  offrì a Monti una personale quale esito della selezione operata da una giuria costituita da Renzo Pavanello, “il più gran competente fiorentino in materia fotografica, il Dottor Baccioni e il signor  [Giovanni] Poggiali (tutti e due fotografi), il critico d’arte Alfredo Righi”[212], segretario dello  Studio Italiano di Storia dell’Arte diretto da Ragghianti e critico del “Nuovo Corriere” fiorentino, oltre alla stessa Vigo; un’iniziativa alla quale presero parte nomi estranei  al consueto e pur ampio panorama amatoriale nazionale.

 

Piccolo mondo antico

Nell’anno successivo alla fondazione de La Gondola Monti partecipò a titolo personale a due importanti mostre italiane che si tennero a  Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, e a Milano nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[213], che costituiva al momento la sede del più avanzato confronto critico intorno alla nuova cultura fotografica, specie per merito del gruppo di giovani riuniti intorno a  Pietro Donzelli che nei mesi successivi avrebbe proposto  mostre di Henriette Grindat, Chargesheimer e Fotoform. Come ha notato Zannier[214], fu proprio la mostra di Chargesheimer nell’estate del 1950 a decretare lo strappo che portò alla fondazione dell’Unione Fotografica nel dicembre di quell’anno, ma che ci fosse aria di fronda lo mostravano già  le recensioni dello stesso  Donzelli sulle pagine di “Ferrania”, molto critiche e pungenti nei confronti di  alcuni autori presentati  al CFM: la Hoepfner e la Heinrich ad esempio, ma anche gli autori de La Bussola, con l’eccezione di Veronesi.

Monti guardava con grande interesse a quegli autori e a quelle iniziative, riconoscendo, nel 1955, che “L’Unione Fotografica di Milano, appena costituitasi (1951), con una grande mostra fotografica  proponeva allo studio dei fotografi italiani le migliori opere europee, mai viste negli originali”. Il riferimento era alla Mostra della fotografia europea che si era tenuta a Brera, da pochi mesi riaperta dopo i disastri della guerra, nell’ aprile 1951[215], “al fine di dare un panorama abbastanza ampio della fotografia europea e del carattere di questi movimenti rinnovatori” [216], rappresentati da  significative presenze  internazionali quali  Bill Brandy, Bert Hardy, Boubat, Angenend, Hammarskiold, Maraini, Pim van Os, Ronis e Lorelle, Ortiz Echague, Fotoform e La Bussola, “oltre a una ventina di fotografi italiani”. Così Donzelli, che rivendicava il fatto che “tutte le tendenze e gli ismi sono stati esposti”[217] e che un’intera parete fosse stata dedicata “alle opere degli astrattisti e dei surrealisti. Opere non facili da comprendere per chi non ha, oltre una buona cultura, una naturale predilezioni per questi modi di espressione artistica [che con] il verismo ed il neorealismo (…) sono gli ismi meno accetti dalle giurie”, ancora orientate al gusto salonistico e tardo pittorialista. Nel luglio di quello stesso anno si apriva a Venezia, a Ca’ Giustinian, la Mostra fotografica nazionale retrospettiva 1940-1950, da intendersi quale primo momento di un più articolato e coerente percorso di messa in prospettiva storica della produzione nostrana, che quale tappa successiva prevedeva la Mostra della fotografia italiana che si tenne nella stessa sede nel maggio del 1952, presentando solo opere di autori de La Gondola e dell’Unione Fotografica (con l’esclusione quindi di quelli de La Bussola) [218]. Poiché “nessuna città come Venezia, ricca di rassegne d’arte di fama e importanza mondiale, ci sembra adatta a questo compito”, era inoltre indispensabile operare affinché Venezia potesse “diventare il più grande centro d’incontro dell’arte fotografica mondiale (…). Se non mancheranno iniziativa e coraggio il prossimo anno questa speranza può diventare realtà” [219].

Ancora a Ca’ Giustinian si tenne nel 1953 l’ecumenica V Mostra nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, organizzata sempre da La Gondola, con opere di 123 autori selezionati su 210 proposti. “Successo questo senza precedenti nel campo delle mostre nazionali italiane e che testimonia il crescente interesse per la fotografia in Italia, confermato anche dalla continua costituzione di nuovi Circoli fotografici (…). A questo proposito aggiungo che il Circolo Fotografico «La Gondola» non avrebbe avuto alcuna difficoltà a formare una giuria composta unicamente di propri soci, ma è sembrato più opportuno chiedere la collaborazione di due fotografi estranei al circolo a maggior garanzia per tutti di sereno ed obbiettivo giudizio, esigenza necessaria in qualsiasi mostra e quindi tanto maggiore in questa, che deve considerarsi la più completa rassegna annuale della fotografia italiana. (…) Per molti segni si può affermare che la fotografia in Italia desta un crescente interesse: ovunque si vendono come non mai libri di tecnica fotografica, riviste estere, annuari e libri di sole fotografie, pubblicazioni tutte nelle quali è assente purtroppo l’editoria italiana e persino nel campo dei volumi illustrati di interesse turistico. Le mostre nazionali sono in continuo aumento ed è solo da temere che il numero vada a scapito della qualità, si fondano anche nei centri minori nuovi Circoli, si tengono corsi elementari di tecnica fotografica. Anche l’attività all’estero, per opera della F.I.A.F., non è più limitata all’iniziativa di qualche isolato, ma prende rilievo da importanti manifestazioni collettive. Manca ancora – proseguiva Monti – l’interesse della critica d’arte e della stampa periodica che sembra ignorare la fotografia come arte, ma modificare queste condizioni attuali è compito soprattutto dei fotografi e delle loro associazioni. Mi sia permesso ora fare alcune brevissime osservazioni personali sulla fotografia italiana come mi è apparsa da oltre 2.000 opere recenti, esaminate in tre diverse giurie. La tecnica è quasi ovunque in evidente progresso anche nel senso che si ammette finalmente che una fotografia non deve essere altro che fotografia, cioè mezzo autonomo di espressione che non tollera sleali manomissioni. Un progresso più lento si può invece osservare nell’abbandono di quei modi espressivi che erroneamente si dicono «superati» e che fanno parte di una tradizione che si richiamava a modelli pittorici di nessun valore d’arte. Si vorrebbe poi vedere in molte buone fotografie una fantasia più risentita, direi più rischiosa e in molte altre un gusto più sorvegliato dell’inquadratura, una esattezza più raffinata e anche una più sicura intelligenza delle possibilità grafiche della fotografia. È  però indubbio che la fotografia italiana sta cercando le sue nuove strade, quelle dell’arte e della poesia, ed è mia convinzione che in questa ricerca la cultura sarà di grande aiuto, non la cultura libresca ma quella diventata vita e quindi mezzo di profonda comprensione e di continua scoperta del mondo e degli uomini. Nulla si addice meglio alla fotografia delle parole di Goethe a conclusione del suo saggio sull’occhio umano: «Non si vede che quello che si sa»”[220].

Una più selettiva Mostra della fotografia italiana (e la reiterazione del titolo è significativa) ebbe luogo a Firenze alla Galleria della Vigna Nuova, con trenta autori di diverso orientamento e appartenenza[221], che nelle intenzioni dei promotori doveva mostrare “quel che di meglio è stato possibile raccogliere nel campo recente della fotografia italiana d’arte[222], rispettando ed accentuando, beninteso, tutte le tecniche e tutte le tendenze, sempre che i valori estetici fossero vivi e presenti”[223]. Da qui  la selezione quantitativamente ridotta ritenuta indispensabile per consentire l’esposizione in una galleria d’arte, nella convinzione che “tutto debba essere tentato per portare la fotografia a contatto con gli ambienti artistici più qualificati a giudicarla alla stessa stregua e con la stessa severità delle altre arti figurative, cosa che all’estero si fa ormai da tempo”. Invece “in Italia sembra che la fotografia sia fatta esclusivamente per i fotografi, unica setta autorizzata a parlarne con competenza. E quanto profonda essa sia, molti articoli di riviste fotografiche stanno a testimoniarlo, tanto che verrebbe voglia di cavarne un’agile antologia che potrebbe avere una sua edizione nei classici del ridere”[224]. Si trattava di un’ulteriore conferma dell’esistenza di due fronti nettamente distinti e duramente contrapposti che vedevano collocarsi da un lato l’élite intellettuale (e fotografica, a prescindere dagli orientamenti personali) degli autori de La Bussola, della Gondola e dell’Unione Fotografica e dall’altro il persistente fotoamatorismo salonistico rappresentato dai circoli associati alla FIAF, sostenuto da riviste quali “Il Corriere Fotografico”. Qui venne ospitata una dura, acrimoniosa recensione critica della mostra fiorentina, esplicita sin dal titolo: La montagna e il topolino. “Noi (…) abbiamo trovato una bella piccola mostra, forse un tantino più curata delle solite, ma niente di più. (…) Insomma il torto è stato di aver voluto far tremare la montagna, e la montagna ha partorito un topo, lindo e grazioso fin che si vuole, ma sempre topo. (…) Particolarmente discutibili son i lavori presentati dai tre giudici [Cavalli, Francesco Giovannini, Monti], uno per ciascuno, tenuti ovviamente dagli autori per altrettanti do di petto. (…) Paolo Monti, che pure è uno dei nostri otto o dieci più valenti amatori e di cui abbiamo ammirato tanti pezzi magistrali, ha ceduto anche lui all’imperativo del ‘nuovo’ per forza, e ciò gli è costato una autentica stecca. Ha combinato – lo avreste mai creduto – un ‘Fotogramma’, cioè uno di quei vecchi giochetti, talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. (…) Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri”[225]. Insomma, niente che per Maurizio Nèvola potesse corrispondere al progresso riconosciuto da Monti, alla convinzione che “mentre qualche fama rapidamente declina, sorgono nomi nuovi di giovani e anziani che, più che promettere, affermano la loro personalità”[226], ed erano Roiter, Donzelli, Branzi.

Ulteriori occasioni di analisi, confronto e bilancio delle condizioni e  prospettive della fotografia italiana  vennero proposte da Monti in due articoli degli anni immediatamente successivi: quello dedicato a La Gondola, del 1954[227], e specialmente quello relativo al panorama più recente, del 1955. Nel primo, quasi prendendo a pretesto le caratteristiche del gruppo,  rifletteva col consueto scetticismo sulle possibilità della fotografia come “linguaggio universale”, e fatta salva la “conquista[ta] autonomia di questo linguaggio espressivo” ne rivendicava “la completa libertà di espressione”, considerandola elemento necessario soprattutto per l’attività di un club, poiché “in questo campo di sterminate esperienze, più che le enunciazioni teoriche valgono le opere singole nei loro concreti valori”, esprimendo così forti riserve culturali sui dirigismi de La Bussola. “Non mancano – proseguiva Monti – i continui inviti rivoltici nell’intento di farci accettare alcune posizioni particolari e mentre da destra ci sollecitano a fotografare bottiglie di latte proibendoci qualsiasi accenno narrativo, da sinistra si vorrebbe che i nostri obiettivi fossero giorno e notte puntati sull’uomo, questo innocente bersaglio di troppe indagini più o meno legittime e accettabili.” Si trattava insomma di rivendicare ancora una volta la propria libertà espressiva al di fuori di ogni imposizione anche minimamente e falsamente ideologica. Non che intendesse disconoscere (storicamente, criticamente) i meriti del gruppo riunito intorno a Giuseppe Cavalli, come del resto chiariva bene giusto in apertura del secondo articolo in questione[228], poiché “il merito di quel Gruppo sta proprio in questo: di aver diffuso una coscienza artistica che oggi fra i migliori è retaggio comune (…). Le critiche al preteso formalismo de La Bussola vennero naturalmente da coloro che confondono la verità dell’arte con la empirica bellezza della natura e il dramma della condizione umana con la sbracata retorica del verismo.”  Si trattava perciò di raccogliere “più che i modi espressivi, la lezione estetica” di quei lavori, come fecero appunto i membri della Gondola, che si diedero però – e qui la differenza era programmatica – al “continuo studio dei massimi fotografi stranieri, specialmente europei”, seguendo in questo piuttosto i modi dell’Unione Fotografica, anche se – proseguiva Monti – il loro era “più uno scopo di cultura (…) che non quello di una presenza costantemente attiva come produzione fotografica dei singoli”, esprimendo così anche un giudizio critico sulle opere degli autori di quel sodalizio.  Dopo una sintetica rassegna dei nomi a suo giudizio più significativi così concludeva, coerentemente: “Qualche critico ha creduto di vedere in questo fluido succedersi di movimenti una situazione piuttosto confusa della fotografia italiana. Ma qui saremmo tentati di scrivere un elogio della confusione perché tutto ciò che è vivo si accompagna naturalmente a un certo grado di disordine. E la fotografia italiana è certamente ben viva.” Un parere radicalmente opposto a quello espresso da  Pietro Donzelli[229] in un testo amaro e sconfortato, nel quale  parlava di “quella malata di noia e mancante di personalità che è la fotografia italiana” , scagliandosi contro “l’insolito fervore di mostre che si susseguono con confortante ritmo, incentivo di attività per i fotografi allettati da premi, anche cospicui, in denaro.” La critica proseguiva puntuale e impietosa lamentando l’ignoranza e il disinteresse di molti fotoamatori (rappresentati dalla FIAF) per la scena internazionale, da cui faceva derivare “la mancanza totale di opere degne come ritratti e paesaggio, espressioni chiave di una personalità.” E inoltre, a proposito di mostre e giurie,  “se i nostri amatori dimostrano poca fantasia la colpa è da attribuirsi anche alle giurie delle mostre e all’impreparazione della critica.[230] (…) A proposito delle giurie ricordiamo un fotografo che, per esperienza, quando deve preparare i lavori per una mostra li sceglie in funzione della giuria che dovrà esaminarli. Conosce i suoi polli perché ne segue da tempo l’attività e ne conosce i gusti. (…) È convinzione di alcuni critici [leggi Monti] che le giurie debbano comprendere anche letterati, pittori ecc. Non siamo dello stesso parere perché conosciamo l’opinione che questi generalmente hanno della fotografia, [ma] la fotografia, ormai riconosciuta come fatto artistico, deve avere una critica specializzata, precisa, documentata e costruttiva perché determinante ne sarà l’influenza nei confronti dell’evoluzione. (…) A giudizio dei nostri critici anche il neorealismo non è arte (…) perché lo ritengono uno strumento di propaganda al servizio di determinati partiti. (…) Se si è succubi di tali preconcetti non si deve quindi scrivere che l’arte non ha limitazioni per esprimersi. (…) Non possiamo affermare che la nostra fotografia sia in crisi perché nei confronti di altri paesi, che denunciano veramente una stasi creativa, non abbiamo ancora percorso il cammino da essi  compiuto nei confronti dell’evoluzione.”  La riflessione sullo stato della fotografia italiana venne ripresa da Donzelli in un contributo dell’anno successivo[231] – piuttosto pretestuoso e incerto nelle posizioni – nel quale si scagliava contro gli opposti manierismi dell’ high key  e della fotografia ‘sperimentale’ e la sostanziale mancanza di personalità e idee. Soprattutto però metteva in discussione l’eredità de La Bussola e il valore della “presunta scuola veneziana” attaccando duramente Monti,  pur senza mai nominarlo, per la sua avversione alla “sbracata retorica del verismo” [232].  Ciò detto (e forse non sorprendentemente) molte loro opinioni quasi coincidevano sia a proposito della validità dei principi del Manifesto del 1947 che delle due correnti della fotografia mondiale orientate secondo i poli opposti di The Family e Subjektive[233], minoritaria questa per la scena italiana secondo  Donzelli, che pure non comprendeva la retorica propagandistica della mostra di Steichen.  Anche per Tranquillo Casiraghi[234] “ancora non pochi sono gli autori di ottime opere che hanno il solo torto di essere fermi entro gli schemi di una fotografia di maniera”, mentre Alfredo Camisa parlava di “statico basso livello della massa della nostra produzione fotografica”[235]  presentata alle mostre e pubblicata sulle riviste di settore. Sebbene si trattasse di una tempesta in un bicchier d’acqua nell’ininfluente mondo della fotografia “d’arte”, ciò che quelle considerazioni lasciavano intravvedere era il maturarsi di un contrasto per più versi insanabile, pubblicamente giocato in punta di penna che si manifestava però in modo virulento nello spazio privato e protetto degli scambi epistolari.

Il 25 agosto del 1956 si inaugurava a Pescara la  I Mostra Internazionale di Fotografia Artistica, con  la presenza di quindici stranieri e venti italiani tra i quali molti autori della Bussola e della Misa. La novità risiedeva essenzialmente nelle modalità organizzative che prevedevano la chiamata per invito e quindi l’assenza di una giuria, sebbene poi emergessero anche in questo caso alcuni limiti strutturali, puntualmente evidenziati da Giuseppe Cavalli[236], per il quale “le Mostre ad invito devono (…) superare due ostacoli contro i quali non basta volere. Il primo si presenta ai promotori ed è la difficoltà di invitare tutti quelli che se lo meritano (…). Il secondo, anch’esso difficile, riguarda invece gli artisti, i quali, in questo genere di Mostre, fanno spesso constatare che non hanno mandato le loro opere migliori. (…) A cominciare da quelli della «Bussola», parecchi dei quali (non dico tutti: Veronesi e Giacomelli, per citarne due, sono saldamente omogenei ed efficaci) accanto a fotografie pregevoli ne espongono di evidente minor impegno.”  La disamina proseguiva nominalmente riconoscendo infine che, con l’eccezione di Steinert, “questo maestro di statura europea”[237], gli stranieri  apparivano “ in complesso qualitativamente inferiori, sia pur di poco, agli italiani”, che a loro volta “si sono battuti bene. Non dico capolavori, merce sempre più rara dappertutto, ma opere belle ce n’erano parecchie.” Un quadro quasi idilliaco e pacificato si direbbe, dal quale emergevano però indizi di tensioni diverse e non risolte, come mostra il commento riservato a Ferroni, che gli appariva “impegnato alla ricerca di una nuova cifra, [in] un periodo di incertezza. Ricerca disagevole, forse perché vien perseguita più subendo la suggestione di questo o quel «credo» che ascoltando con semplicità il sentimento proprio”, mentre Parmiani non solo “sembra che abbia osservato con simpatia i tedeschi”,  ma “richiama i surrealismi  cari ad alcuni fotografi germanici, meno cari alla nostra sensibilità latina. (…) In tono minore Paolo Monti; non entusiasmano molto le due foto naturalistiche, genere difficile, ove la magica resa della materia, che contribuisce a creare la suggestione di questi piccoli mondi misteriosi,  può essere raggiunta solo attraverso il dominio perfetto della tecnica (non è facile dimenticare, per es., certi risultati strepitosi del Weston). Bello, invece, il ritratto della vecchia seduta, anche se fa ricordare con insistenza l’altro, dello stesso autore, molto simile per costruzione e forse più efficace, di un prete”[238].   Più interessante il retroscena offerto dalla testimonianza di Giacomelli, il quale informava Camisa che  “Monti con Parmiani [erano] già a Pescara da diversi giorni in attesa della Mostra. Mi è stato riferito da alcuni amici di Pescara che il dott. Monti si è lasciato sfuggire alcune parole poco simpatiche e che il dott. Novaro, il quale ospita loro, va ripetendo con insistenza. Quando verrai a Senigallia ti racconterò tutto. In sostanza posso dirti per ora che ce l’hanno con noi due e faranno in modo che all’infuori di Branzi (questo non riesco a capirlo) finiremo per non figurare più alle mostre perché piano piano ci castreranno completamente.”[239]  Una questioncella sulla quale proprio Branzi avrebbe ironizzato anni dopo chiedendo all’amico Camisa “se Monti ha rifatto pace con quelli di Pescara, se quelli di Pescara hanno rilitigato con Monti, se è stato interpellato il Cavalli, se Finazzi abbia per caso strizzato sardonicamente gli occhi?”[240]. Di fatto un rivolgimento totale rispetto alla sintonia manifestata solo pochissimi mesi prima in occasione della II Mostra Nazionale di Fotografia promossa dall’Università popolare di Castelfranco Veneto (19 marzo – 3 aprile 1955) dove Giacomelli[241]  aveva ottenuto  il suo primo riconoscimento personale “per avere espresso in un complesso di opere un’alta manifestazione artistica della fotografia”. Ancora  molti anni dopo Monti avrebbe ancora ricordato la gioia e l’emozione provate per quella vera e propria “apparizione (….) perché di colpo la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato”[242], sebbene la sua opera fosse passata quasi inosservata ad un commentatore come Berto Morucchio, che in un quadro complessivamente poco soddisfacente (“dove è la voce nuova, il nuovo talento dai lineamenti ben spiccati?”)  lo segnalava semplicemente come un autore che “rivive con una sua sensibilità la lezione di Cavalli”[243]. Il legame di stima e rispetto che  legava Giacomelli a Monti era confermato in una lettera del primo a Camisa dell’aprile 1956 nella quale ricordava la propria partecipazione “alla Mostra Internazionale di Venezia (…). Mi sarebbe dispiaciuto immensamente se avessi dovuto assentarmi a tale manifestazione, anche per il sig. Monti il quale, mi ha sempre compreso dandomi le più belle soddisfazioni”. Poi  aggiungeva: “Di al sig. Monti di non volermene, perché io ho molta fiducia in lui, e lui già sa che a me piace andare d’accordo con tutti: è così bello! Se hai modo salutami tanto il dott. Monti e il dott. Morucchio”[244] . Qualche mese più tardi Giacomelli si sarebbe  però lamentato con lo stesso destinatario “dei cattivi apprezzamenti che il sig. Monti fa su di me. Ho sempre avuto fiducia in lui. L’ho sempre difeso. (…) Immagino che qualche suo pupazzo gli abbia riferito quanto a lui più gli giovava per vedermi disprezzato. (…) Vorrei dire al Sig. Monti che, se non sa dove attaccarsi, si attacchi al tram e non a me”[245]. Nel ricordo di Alfredo Camisa[246] “in giuria c’era Paolo Monti, che poi mi chiamò (…) Andai all’inaugurazione della mostra (non ero al corrente di certi rituali) e fu allora che scopersi che si era sparsa la voce che io non esistevo, che l’autore fosse un vassallo di Monti che prestava il suo nome per presentare opere di Monti stesso. Il mondo fotografico italiano si stava svegliando; fino ad allora, infatti, aveva dormito sotto le ali di Cavalli, ma si svegliò subito male, pieno di invidie e maldicenze.” “In cielo sfrecciavano due comete: quella un po’ stanca di Cavalli e quella inquieta di Monti – avrebbe ricordato Branzi[247] –  e noi giovani eravamo risucchiati dall’una o dall’altra coda. Di fatto interpretarono il ruolo di due sommi ‘pifferai’ caratterizzati da opposti accordi. Cavalli aveva una visione crociana dell’espressione artistica, una mentalità ed una cultura raffinate, ma anche un po’ contorte, da meridionale qual era. Monti, al contrario, in costante inquieta fibrillazione caratteriale, aveva una forte componente di espressionismo nordico e le sue immagini erano scarne, tendenti all’astratto e in qualche caso all’informale, con toni contrastati e fondi. Si muoveva in una dimensione culturale che potremmo definire calvinista, comunque più europea di quella forse un po’ provinciale di Cavalli.”

Lo scontro tra ‘montiani’ e ‘bussolanti’, con Cavalli ormai in posizione minoritaria rispetto all’emergere della figura di Monti e   in profonda crisi per le burrascose vicende della Misa, tra cui le dimissioni di Ferroni nel 1954[248],  andava progressivamente crescendo, come testimonia il passo di una lettera di Ferroni a Roiter del marzo 1955 a proposito della recente mostra di Castelfranco Veneto, nella quale aveva visto emergere  “la parola nuova che ci aspettavamo e che tanto fa pensare il Cavalli. La parola nuova di chi intende la fotografia liberamente, come mezzo di espressione del proprio mondo, libero ed alieno dalle astruse forme e dai toni più o meno alti”[249]. Il clima di quei mesi, le tensioni tra i diversi protagonisti di quelle scaramucce sono ben restituiti in una lettera di Monti a Ferroni del marzo 1955 nella quale scriveva: “L’ultima tua lettera dove leggo che praticamente sei stato messo all’ostracismo dai vari membri del Misa mi ha veramente nauseato: mai avrei pensato che Cavalli potesse giungere a tanta bassezza e se mi capiterà l’occasione vorrò parlarne e dargli una lezione come si merita. Ma anche quei quattro vigliacchetti del Misa mi fanno pena e se li incontrerò a Castelfranco il 19, alla inaugurazione della mostra, dirò loro che non basta essere buoni fotografi per essere considerati uomini e specialmente uomini onesti”[250]. Nei giorni della rivoluzione ungherese e della repressione sovietica (23 ottobre – 11 novembre 1956)  la disfida  assunse precise  connotazioni politiche; così in occasione della III  Mostra Internazionale di Fotografia Artistica di Ancona che si svolse in quello stesso novembre, Cavalli scriveva a Camisa[251]: “Perdonami se, per spiegarti le nostre idee, mi sono dovuto dilungare tanto, ma è bene che voi giovani da poco entrati nella Bussola sappiate quali sono i principi che hanno permesso al nostro Gruppo di esercitare tanta influenza sulla fotografia italiana. Si cerca oggi, anche con attacchi personali, di porre fine a questa influenza; ma la stessa guerra che viene fatta alla Bussola sta a dimostrare che siamo culturalmente vivi ed operanti; se fossimo morti perché dovrebbero prendersi la pena di combatterci? Passiamo dunque a Pedro Armendariz, pardon Martinez[252]. Tu ci hai fatto sapere che a Milano Monti se lo è lavorato per bene. Io posso dirti che dopo esserselo lavorato lo ha passato nelle mani di Parmiani il quale tra pranzi, cene e gite in macchina lo ha persuaso infine ad andare con lui ad una specie di riunione in Ancona. Tutto era stato accuratamente preparato. Da Pescara erano arrivati Novaro e Simoncelli i quali passando da Fermo avevano prelevato Crocenzi ed altri quattro o cinque comunisti[253] del CCF; da Milano era atteso Monti, da Bologna come ti dicevo giunse Parmiani con Martinez. Monti non si fece vedere. Il gruppo (al quale nel pomeriggio si aggiunse Ferroni) aveva in programma la ‘critica’ della mostra di Ancona; si recarono lì, infatti, e ad alta voce dissero peste e corna delle opere esposte a cominciare da quelle premiate (…)  conclusero tutti che la mostra era «da bruciare». Dopo di che andarono a pranzo e Crocenzi espose il suo progetto di fare un manifesto «realista» ecc.  A questo punto devo dirti che da qualche tempo il comportamento di Crocenzi mi lasciava molto perplesso; so che c’è stata una riunione a Cesena con lui, Monti, Parmiani e tutta la cricca la quale lo ha persuaso a mettersi in posizione a noi contraria; so da buona fonte, inoltre, che il CCF è stato dalla polizia schedato fra le organizzazioni comuniste (…)”[254].  E Giuseppe Möder in aggiunta: “La mostra in complesso può andare, sebbene più della metà delle opere sarebbe da togliere di mezzo. Mi ha detto Giacomelli che domenica scorsa sono calati come lupi famelici i vari Novaro, Simoncelli, Monti, Parmiani e hanno detto un sacco di male delle opere esposte. Novaro, che non ha avuto alcuna opera accettata, era il più furibondo. Andava dicendo che bisognava bruciare tutto. Con loro hanno portato il direttore di “Camera” e tu puoi immaginare che razza di terremoto. Hanno detto male di te, di me e di tutti. A me queste cose mi fanno ridere perché provo tanta pena per quella gente che invece di pensare a lavorare va facendo la donna di servizio. Mi stupisco poi quando pensano di passare per persone intelligenti e sapientone”[255].

Passato ormai al professionismo, Monti viveva comunque in pieno quel clima di scontri e scaramucce tipico della fotografia amatoriale e dei rapporti tra i Circoli, nel cui contesto sembrava ricercare una propria personale rivincita sui bussolanti, emarginando  (e prendendo il posto di) Cavalli come figura di riferimento. Quasi un conflitto edipico.  “E ora dovrei dirti della mostra di Salsomaggiore (…) – scriveva Camisa a Möder – A proposito di gesti polemici stupidi: hai saputo che Roiter aveva mandato, oltre che a suo nome, pure sotto falso nome e che ha fatto il diavolo a quattro accusando la giuria di settarismo perché gli hanno accettato e pubblicato sul catalogo una della foto sotto falso nome? Dimmi tu se una persona nella posizione di Roiter deve prestarsi a fare delle figure così cacine…)”[256]. Che quella prassi non costituisse un caso isolato è confermato anche da Giacomelli: “ Sì perché alcuni  lo facevano: mandavano le foto con il nome della moglie o del figlio. Dicevano «Vinco qua, vinco là» (…) quando gli ‘amici’ hanno visto che io vincevo dieci volte e loro una, quando erano nella giuria mettevano da parte le mie cose, mica le esponevano, le levavano, non le facevano accettare”[257].   C’era però anche chi si ritraeva da quei teatrini:  “Se mi sono appartato da qualche tempo e non partecipo troppo alla vita fotografica italiana – scriveva Möder – è perché ne sono nauseato.  Camorra dappertutto, beghe personali, gente che parla male del prossimo e via di questo passo. La fotografia italiana è diventata una giungla e un pessimo ambiente”[258]. Altri, infine, inevitabilmente esclusi da quel terreno di scontri incruenti, si lamentavano di quella “organizzazione burocratica” fatta di circoli e centri di studio della fotografia (leggi Crocenzi): “si diffondono manifesti, si tengono raduni e discorsi, chiamati lavori; si fa qualche mostra e si fotografa, anche” [259].  L’assenza di Monti dalla mostra Contemporary Italian Photography che l’Unione Fotografica era stata invitata a curare presso la George Eastman House nel 1957, ritenuta da alcuni “la prima presentazione in assoluto della fotografia italiana negli Stati Uniti”[260], credo debba essere letta in quel contesto: considerando che comprendeva ben 26 fotografi tra i quali De Biasi, Branzi,  Donzelli, Berengo Gardin, Giacomelli, Migliori, Roiter, Veronesi e Zannnier. Risaltava (in parte) l’assenza di Cavalli, ormai forse considerato meno ‘contemporaneo ’, ma ancor più quella di Monti (vicino a molti di loro) che avrebbe però avuto la propria rivincita l’anno successivo con la pubblicazione di alcune sue fotografie nella sezione Around the World in Fifty Photographs di  The picture history of photography from the earliest beginnings to the present day di Peter Pollack, che riconosceva l’appartenenza di Monti “a quella corrente di fotografi italiani che ha scoperto i valori del realismo sfrondato d’ogni sentimentalismo e ha rinnegato sdegnosamente la tendenza a presentare immagini magniloquenti di un’Italia esistente solo nei sogni. (…) Sue caratteristiche precipue sono l’ardimento con cui colloca le forme nello spazio e il contrasto con cui compone neri o grigi intensi e accenti di bianco puro. Monti non cede all’astrattismo totale (…)”[261].

Ora che i gruppi e i circoli fotografici erano in via di disfacimento si definiva un nuovo scenario, nel quale prevalevano le singole personalità e gli individualismi. Lo confermava, quasi tra le righe, anche Paolo Monti in un articolo per “Camera” firmato a due mani con Martinez, che costituì l’occasione per l’ennesimo bilancio della fotografia italiana del dopoguerra. Se era vero che  “La Bussola” si stava disfacendo dopo poco più di  dieci anni di esistenza, la sua influenza aveva “portato al desiderio di rottura manifestato soprattutto dalle giovani generazioni” e “il valore dei suoi insegnamenti non poteva essere negato nel suo insieme. Il conflitto tra la tendenza in corso di affermazione e quella che l’ha preceduta – antagonismo che ci sembra essere anche di ordine metafisico, sebbene questo aspetto della questione sia stato generalmente celato – non dovrebbe farci dimenticare che, senza il lirismo di Cavalli e Balocchi, il senso dell’astrazione e i grafismi di Veronesi, senza il mondo dei valori tonali di Leiss e Vender, la fotografia italiana avrebbe difficilmente superato l’impasse in cui si è trovata per troppi anni. In un’epoca in cui i successi di questo gruppo cominciarono a imporsi all’attenzione, così come nel campo delle competizioni, poco o nulla gli si poteva opporre”[262].  Nel preciso momento in cui ne riconoscevano storicamente la rilevanza, i due autori  decretavano la fine del ruolo egemone de La Bussola. Assegnandole un posto  nella storia indicavano la fine della sua attualità  di esperienza viva, ancora feconda.

 

“Fotografia inutile?”

Con questo titolo Guido Rey aveva presentato una propria conferenza al Teatro Carignano di Torino nel 1908, qualificando la fotografia come “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è  il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[263], ma considerando il dibattito che si svolse sulle riviste italiane nel secondo dopoguerra, e ancora ben avanti sino ai tardi anni Sessanta, pare che il modo di intendere la  pratica amatoriale non fosse mutato affatto.  “Gran parte della ‘fotografia italiana’ è il prodotto della giornata di festa di un medico, di un avvocato, di un ingegnere”, scriveva  Zannier[264] nel 1956, confermando da una posizione critica quanto ancora rivendicava  il Presidente FIAF Renato Fioravanti, che parlava di “piacevole connubio dell’arte con lo svago”[265]. Era ormai chiaro che quella fotografia vissuta  come hobby non poteva far altro che “relegarsi in un angolo per iniziati, per rimatori, per prosatori d’arte. (…) D’altronde, questo modus mentale rientra in un tenore di vita, e va riferito a un’intera classe sociale, quella della piccola borghesia, da cui proviene la maggioranza dei fotografi italiani, dilettanti o professionisti”[266]. Una concezione e una pratica che Piero Racanicchi avrebbe attribuito a  una specie di “domenicalismo”[267], contrapponendole a quelle adottate da coloro che intendevano l’arte “fondamentalmente [come] una ragione di vita. (…) Forse è proprio per questo inopportuno intendere l’arte come svago che oggi, in molti circoli fotografici, assistiamo al dilagare di un malcostume, che si identifica in un aspetto dell’intelligenza e dello spirito comunemente chiamato ‘incultura’. (…) I soci di questi circoli praticano purtroppo, nella maggioranza, la fotografia con uno spirito di avventura domenicale che sarebbe meglio impiegato in una  sana attività sportiva.”  Esito scontato di quei “sacri weekends  estetici” erano quelli che Cesare Colombo definiva  “ludi salonistici”[268], mentre Pietro Donzelli si chiedeva retoricamente quanto fossero “necessari i salon fotografici? Agli effetti commerciali e propagandistici senz’altro; un tempo lo erano anche artisticamente”[269].   Erano quelle  “le infinite mostre degli amatori fatte senza nessun particolare scopo” di cui scriveva Monti; quelle “che naturalmente finiscono in quel continuo concorso di vanità personale che noi conosciamo benissimo. Io devo dire  che per aver appartenuto molti anni alla categoria degli amatori non mi metto certamente la cenere sul capo; non ci penso nemmeno. Soltanto voglio aggiungere che l’ambiente amatoriale qualche volta è abbastanza antipatico; e le ambizioni assolutamente fuori luogo e le discussioni e le continue querele di quello che si fa e non si fa e i premi ecc, sono una cosa del tutto inutile. D’altra parte questa è la scorza che bisogna rompere per trovare dentro un midollo un po’ succoso”[270].  Monti si sarebbe provato a delineare una geografia culturale della nuova fotografia nostrana in una Lettera dall’Italia destinata al numero di marzo del 1959 di “Camera” poi rimasta inedita[271], nella quale lamentava innanzitutto gli esiti delle “regole internazionali della FIAP”, che con i loro vincoli danneggiavano molti dei partecipanti alle “molte e forse troppe” esposizioni  “nazionali ed internazionali (e perfino regionali)”, “senza avvantaggiare nessuno, obbligando i visitatori alla sopportazione di una morbida noia generale nella quale il giudizio critico lentamente annega.”  Oltre il letterario esercizio di stile, l’analisi critica di  Monti individuava due aree geoculturali nettamente distinte e contrapposte sul piano della qualità delle proposte: l’una che viveva ancora “il salonismo più convinto e convenzionale (…). l’altra la Lombardia, il Veneto, le Marche, Emilia Romagna e la costa adriatica fino a Pescara”, nella quale “la fotografia si è inserita o ha tentato vigorosamente di farlo,nelle correnti più vive della fotografia europea, e non è un caso se anche la miglior critica fotografica viene da quelle parti, e basti citare Morucchio e Turroni e i pittori Guidi e Breddo.” In quella geografia si collocava la produzione fotografica più attenta alle “scuole fotografiche europee”, da quella “impropriamente definita «soggettiva»” alla lezione dei grandi reporter conosciuti anche per il tramite della I Biennale internazionale di Venezia, nella quale – come si è detto – proprio Monti aveva avuto gran parte.

Con un duro giudizio retrospettivo Ando Gilardi[272] riteneva che  sulle pagine di “Ferrania” si fossero svolti “sfiancati dibattiti: grotteschi impasti di ingenuità e malafede, presunzione e, soprattutto, omertà intellettuale, per cui ciascuno fingeva di credere alla profondità dell’impalpabile discorso di un ‘inconciliabile’ avversario”, ma è esattamente per queste ragioni  che quella rivista costituisce la sede privilegiata in cui riscontrare limiti e meriti di quel momento culturale, specie a partire dal 1958 quando – accogliendo un suggerimento di Renato Fioravanti – “Ferrania” avrebbe dedicato il proprio numero di dicembre alla Fotografia italiana.  Gli editoriali del direttore Guido Bezzola costituiscono ancora oggi una guida efficace alla comprensione di quella produzione, segnata da un imperturbabile  conformismo (“anche in fotografia la moda impera”, 1958; “oggi come oggi spaventa un poco la diffusione del luogo comune fotografico”, 1959)  e dai rischi “del decorativismo inutile, del formalismo frigido ed esteriore, delle immagini fini a sé stesse” (1960). L’insoddisfazione si manifestava anche nel riconoscimento di un diverso statuto del numero antologico, che per Bezzola (1961) non poteva ormai essere considerato un annuario ma semmai “un censimento, un reperto, uno studio stratigrafico (…) Noi vorremmo che a un certo momento questi numeri natalizi assumessero il valore di fonte, di repertorio, di mezzo di consultazione per il futuro o i futuri storici della fotografia: e rammentiamo che le ricerche non si basano soltanto su ciò che le fonti dicono, ma anche su ciò che tacciono. Se domani, la grande fotografia italiana non troverà qui i suoi nomi maggiori, sarà anche questa una constatazione storica preziosa, a suo modo utilissima.”  Un giudizio senza appello si direbbe, seppur espresso con raffinata (e un poco perfida) eleganza; quella che avrebbe poi perso strada facendo se nella Lettera agli amici fotografi del 1962  riconosceva di trovarsi  “sull’orlo di una fase gravemente involutiva”, parlando senza mezzi termini di “panorama squallido”. “Vi assicuro – proseguiva – che la scelta è stata un lavoro improbo: i tavoli di redazione erano letteralmente neri, coperti di fogli tutti neri con poche macchie bianche, e da tanto nero emergevano i soliti, triti, logori, stanchi e ripetuti soggetti: il muro scrostato coi bambini poveri, le suore nere, le vecchie nere, i preti neri, il jazzista negro, le casine nere sulla montagna grigia, le piante grigio chiaro sulla montagna chiazzata di neve, i paesaggi contrastati alla giapponese, la ragazza con i capelli sugli occhi e così via”[273], tanto che – aggiungeva Turroni[274] –  “a occhi non smaliziati, non ‘iniziati’, le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.”  Considerazioni che richiamano alla mente quelle di poco precedenti formulate da Monti nel corso del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando riconosceva che  “la mostra che c’è qui a Sesto non si sarebbe potuta fare dieci anni fa (…),  forse bisognava farla, potendo, ancora più ampia, invitando tutti e facendo una specie di inventario generale della fotografia italiana, lasciando che tutti si sfogassero a mandare, senza giuria, quello che ritengono che sia lecito far vedere al pubblico. Avremmo avuto probabilmente uno spettacolo, un’alluvione veramente rivoltante di cose volgarissime.”  Considerazione interessante ma certo riduttiva poiché non teneva conto della presenza sempre più rilevante di figure nuove di professionisti che non provenivano dall’ambiente amatoriale né si sarebbero mai misurati con il piccolo universo agonistico di mostre e concorsi: non Gilardi, non quelli che nel 1954-1956 producevano i “fotodocumentari” di “Cinema Nuovo” come Mulas, Dondero, Pinna, Sellerio, Giancolombo, Cisventi, Bavagnoli e  Samugheo  (una protagonista  assoluta delle copertine di “ Ferrania”), né altri come Marirosa Toscani e Aldo Ballo, Giorgio Casali o Alfa Castaldi. Fu proprio a  Sesto San Giovanni che Gilardi si provò a delineare una possibile via d’uscita da quella situazione di stallo, a fornire una prospettiva culturale e politica che all’epoca suscitò più di qualche perplessità[275] sebbene le sue proposte fossero inserite in un discorso molto articolato e complesso, certo il miglior intervento di quei giorni, che solo in parte toccava la questione della fotografia dei dilettanti, rifacendosi semmai, ma in modo meno politicamente schierato, alle opinioni espresse nel 1954 da Albe Steiner in una famosa lettera a “Lavoro”, il settimanale della CGIL:  “L’osservazione attenta di quanto ci circonda – scriveva –  dal Sud al Nord d’Italia, in tutti gli aspetti di denuncia di quanto c’è di negativo e che va rinnovato, e di quanto c’è di positivo nella lotta e nella vita che i lavoratori conducono per questo rinnovamento, costituisce il nuovo soggetto, la fonte di ispirazione più fresca. (…) Il tipo di fotografia cambia se cambia il soggetto, cioè se cambia il contenuto. Pensare alla campagna nella forma solita cercando il bello, per esempio, nella ragnatela controluce o nella finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato (…) non è pensare alla campagna ma è rinunciare alla campagna. E non basta cambiare i titoli perché il più delle volte la fotografia parla da sé. (…) E ancora: i laghi non come sola poesia turistica di pochi mesi, non come salici piangenti e propaganda di grandi ville private, testimoni di tempi che furono e che oggi ancora si sfruttano come arma di dominio, non come le caratteristiche barche che ormai fanno acqua o come le Vecchie reti al sole, la Torre avita o Castello solitario o quel che è peggio Riposo al sole d’autunno. Ci sono paesi che hanno bisogno d’acqua, di case, di scuole, di strade, di luce, di asili, di ospedali, di pulizia, di fogne e si fotografano da decenni come se fossero il sogno e la quieta speranza dei cittadini. Ci sono città che si fotografano come nei film dei banditi come se fossero il miraggio di sempliciotti campagnoli. E a furia di fotografare così, c’è chi crede e chi fa confusione”[276].  A Sesto San Giovanni Gilardi si era rivolto a “coloro che fotografano non per sé stessi solamente, ma anche e soprattutto per la società in cui vivono: intendendo per società qualcosa più che un cenacolo, o una categoria più o meno numerosa di colleghi con i quali, intenzionalmente o meno, si giunge a stabilire una specie di omertà: ciascuno piglia terribilmente sul serio l’altro, anche quando fra di loro ferocemente polemizzano, trattando astrusamente di scuole correnti e tendenze, in una specie di reazione a catena intellettualistica. Dal punto di vista individuale è proprio il rompere quella tale reazione a catena chiusa che indica ai nostri giorni il passaggio dal dilettantismo al professionismo (…).  La società e il mondo in cui viviamo si offrono a varie scienze come immenso campo d’analisi e di registrazione: la fotografia rappresenta uno strumento ideale, moderno e inimitabile, per misurare l’uomo e la sua condizione servendosi delle immagini. Non si comprende perché il fotografo amatore qualificato debba trascurare anche una attività di questo genere, per limitarsi quasi sempre alla fotografia celebrativa. E ancor meno si capisce perché l’organizzazione ufficiale dei circoli e delle associazioni fotografiche non debba incoraggiare e organizzare attività di interesse sociale e scientifico. Probabilmente si fa grande confusione su ciò che si deve intendere per fotografia artistica e fotografia scientifica, almeno per quanto riguarda alcuni settori di quest’ultima: sociologico, etnografico, storico, eccetera. Ma proprio per questa ragione si isola il dilettantismo qualificato condannandolo ad una ripetizione senza fine di esercitazioni calligrafiche di sapore punitivo  non solo per chi le vede, ma forse anche per chi le esegue” [277].

Negli anni del boom economico e in un’Italia in profonda trasformazione,  “mentre sorgevano nuovi campi di attività fotografica (…) mentre nascevano nuovi mezzi espressivi (la TV ad esempio) (…) la fotografia del medio dilettante evoluto è rimasta ferma: ora, in un mondo che va avanti (o almeno si muove) molto in fretta, star fermi o andare adagio  significa retrocedere, il che è puntualmente accaduto” ricordava Guido Bezzola[278].   Il passaggio al professionismo di alcuni dei protagonisti della stagione amatoriale del secondo dopoguerra come Monti e Roiter e l’abbandono della pratica fotografica da parte di figure di primo piano come  Branzi , Camisa e Ferroni,   segnavano anche simbolicamente la fine di una stagione durata poco più di un decennio. Come ricordava Cesare Colombo[279], “le mostre dilettantistiche cominciano a essere disertate. (…) L’atmosfera FIAF non è più tollerabile” e l’ironia ormai si “esercita contro chi si ostina a collezionare entry forms ed ammassi di vermeille.”  Oltre alla diffidenza nei confronti dell’universo concentrazionario dell’associazionismo, era proprio quell’esitazione, il passo sospeso sulla soglia dell’impegno professionale (e magari artistico) il segno caratteristico del tempo e soprattutto della fine del ruolo attivo e propositivo dei gruppi, che nell’arco di pochi anni avevano perduto ogni loro funzione, sfaldandosi o ripiegando su sé stessi, mentre la scena fotografica si popolava sempre più di singole personalità autoriali, autonome. Sarebbe stato poi lo stesso Monti a rimettere ancora una volta in discussione la funzione culturale del fotoamatorismo proprio (e con una certa paradossale improntitudine) in occasione dell’ennesimo premio di fotografia, quando ricordava che “poche esperienze sono così noiose e mortificanti come il partecipare a giurie di mostre fotografiche (…). È impossibile parlarne senza rabbia quando per lunghe ore sfilano davanti agli occhi cento ritratti su fondo nero di donne, bambini, adolescenti, uomini (molti del genere vagamente jettatorio) e cento paesaggi funerei da pianeta morto”[280]. Fu quella una delle sue ultime occasioni d’incontro col mondo amatoriale[281]: quell’amaro sdegno era l’esito di una disillusione, della deriva che riconosceva in quel ristretto ambiente di circoli e consorterie, di dibattiti come di pettegolezzi e ripicche che pure era stato il suo e nel quale si era formata, anche per contrasto a volte aspro, la sua coscienza di fotografo. A quel  feroce giudizio, certo fondato su di una solida esperienza di partecipante e giurato, non era certo estraneo il duro scontro maturato tra i soci de La Gondola, opponendo i più giovani come Berengo Gardin[282], Giuseppe Bruno e Giancarlo Angeloni al segretario Libero Dell’Agnese;  in apparenza per questioni organizzative, in realtà per radicali contrasti sulla politica culturale e sulla concezione stessa della pratica fotografica.  “L’idea che qualcuno nutre –  scriveva Vittorio Piergiovanni a Monti[283] – di trasformare la rinnovata Gondola in un movimento di idee e di cultura fotografica non sarebbe tanto peregrina qualora si riuscisse a riportare il Circolo a quel livello di qualità, chiarezza e preparazione che dimostrava di possedere quando tu la lasciasti.”  In realtà – nonostante i soddisfacenti impegni professionali e alcune dichiarazioni apertamente contrarie – era Monti a guidare segretamente la fronda proponendosi nuovamente alla guida del Circolo, come ebbe modo di dichiarare Bruno in una riunione dei primi di gennaio del 1960 ripresa in un’allarmata e amara lettera di Dell’Agnese[284], che rivolgendosi a Monti  (si)  chiedeva “o Lei diffidando di me ha dato ordini precisi attraverso altre persone, ovvero diversi Soci ed un ex socio lavorano indipendenti al fine di presentarle il fatto compiuto e cioè che, per acclamazione, Lei è stato nominato Presidente (…). Ora, noi siamo gente pacifica che vede la fotografia come una distensione con rapporti di amicizia ma non una fonte di disgusti, di lotte, di ambizioni.” Più colorito un successivo resoconto di Bruno[285], secondo il quale “Quando il suo nome [di Monti] è stato proposto per la presidenza effettiva ed attiva della Gondola, ha fatto trasecolare parecchia gente, ed ha smosso la diarrea al vecchio presidente. Si sono fatte un sacco di congetture. Hanno agitato i fantasmi neri delle due dittature, sbandierato la sua fama d’iconoclasta, e volpi spelacchiate hanno sussurrato un interesse economico nascosto.”  In quel clima Monti venne nominato presidente ma a fatica e di strettissima misura, tanto che la votazione dovette essere ripetuta più volte sino alla definitiva del 26 gennaio 1960.  Congratulandosi in una nuova missiva[286] Piergiovanni  chiedeva però anche di “sapere (…) la buona notizia che tu e Roiter state per dare al nostro mondo fotografico.”  Ulteriori dettagli, forse non ancora sufficienti a svelare il mistero, erano contenuti nella diplomaticissima risposta di Monti a Dell’Agnese[287], nella quale gli riconosceva il merito di aver “salvato il salvabile con grande accortezza, evitando lo sfasciarsi completo e il naufragio della Gondola. Ora un grave compito, molto impegnativo attende tutti i responsabili della Gondola –  proseguiva Monti – e specialmente la presidenza qualunque essa sia. È  una manifestazione che è a conoscenza solo mia e di Roiter e sarà una grande affermazione in Italia: è soprattutto il riconoscimento da parte della cultura ufficiale di tutto il nostro lavoro dal 1947 al 1955, ma io desidererei che in essa figurasse anche la attività successiva fino al 1959 compreso. Posso dire che mai in Italia si è presentata una simile occasione ad un circolo fotografico; capirà quindi che di fronte a ciò tutte le beghe i pettegolezzi e le fessaggini di Tizio o di Caio non possono turbarmi. (…)  È  assolutamente assurdo dire che io voglia la presidenza, ma è vero che la desidero e che la accetterò se vi sarà una larga maggioranza e pertanto pongo la mia candidatura e ritengo che nessuno possa dimostrare che ciò sia illecito e fuori luogo.”

Quella  misteriosa “manifestazione” doveva verosimilmente essere l’iniziativa promossa da Carlo Ludovico Ragghianti che sul finire del 1959 aveva scritto a  Fulvio Roiter, anche come tramite per la Gondola, per segnalargli la costituzione da parte dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa di un Gabinetto Disegni e Stampe dedicato all’arte contemporanea italiana.  “È nota la nostra convinzione – scriveva Ragghianti – che la fotografia sia un’espressione artistica autentica e totale come le altre indicate. Sino ad oggi, in Italia, non esisteva nessuna raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica. L’Istituto, anche nell’intento di portare la fotografia nell’Università e nei musei, si propone di estendere le raccolte grafiche alla fotografia italiana.” Per la costituzione di quella raccolta Ragghianti sollecitava la generosa collaborazione dei fotografi ai quali garantiva:  “a) conservazione delle fotografie in una Sezione speciale; b) disponibilità per la consultazione degli studiosi e del pubblico; c) esposizioni permanenti e periodiche di gruppi e di artisti; d) pubblicazione di cataloghi scientificamente e criticamente elaborati, a cura dell’Istituto; e) eventuali manifestazioni d’arte fotografica, nel Gabinetto e nella sala di esposizione. Se questo programma è apprezzato nella sua obbiettiva utilità per il prestigio e per l’apprezzamento dell’arte fotografica rivolgo un appello ai Sodalizi fotografici ed agli Artisti fotografici, perché diano il loro prezioso contributo”[288].  A seguito del riscontro positivo di Roiter , Ragghianti ipotizzava che “nella prossima primavera, per esempio nel marzo o nell’aprile, l’Istituto mediante il suo Gabinetto potrebbe organizzare una mostra del gruppo La Gondola, vale a dire delle fotografie d’arte 1949-55 (e ulteriori, se ve ne siano di notevoli), destinate alle raccolte dell’Istituto; tale mostra sarebbe accompagnata da un catalogo critico illustrato a nostra cura e spesa; d’accordo che il formato medio delle fotografie d’arte dovrà essere di 30 x 40 cm almeno (noi possiamo predisporre un’incartonatura e una conservazione in mobili metallici adeguati); prevengo che la sala di Esposizioni (aperta al pubblico) del Gabinetto è capace di circa 100 pezzi montati in eleganti cornici vetrate.  Se Lei dunque ritiene di potere assumere la selezione delle fotografie d’arte, mi affido alla Sua sensibilità e al Suo discernimento. Il Catalogo critico verrebbe redatto, come d’uso, da un appartenente alla mia Scuola, ma ovviamente Lei dovrebbe mandare un breve scritto di motivazione e di presentazione. Sarebbe opportuno che tempestivamente ci fossero forniti anche i dati biografici, bibliografici, museali, espositivi degli Artisti, che potrebbero essere richiesti agli stessi. Sarebbe gradita anche qualunque nota di carattere estetico e tecnico relativo alle diverse elaborazioni visuali fotografiche. Per il momento non posso muovermi, ma probabilmente entro il mese dovrò venire a Venezia per la Commissione della Biennale (dove, come saprà, ho insistito perché accanto alle mostre di pittura e scultura vi sia anche una sezione destinata alla fotografia d’arte): in tal caso L’avvertirò della venuta e del mio indirizzo,e sarò lieto di conoscerLa personalmente e di prendere con Lei ulteriori accordi.”[289]  Le missive di Ragghianti vennero immediatamente trasmesse a Monti così che potesse farsi “un’idea precisa sul progetto. Spero molto che prima di Natale il prof. venga qui a Venezia: a tre ogni cosa prenderebbe una piega senza dubbio più interessante.”[290] Non abbiamo notizie di un eventuale incontro, ma il progetto venne condotto a termine e nel maggio del 1960 si aprì all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa la mostra dedicata a Il circolo fotografico La Gondola di Venezia. Nella sintetica scheda di presentazione Monti rivendicava il ruolo svolto dal gruppo nel superamento delle posizioni de La Bussola, anche attraverso l’organizzazione delle mostre internazionali, e indicava quali fossero stati gli autori  che ebbero maggiore influenza sul sodalizio:  “fra gli altri, i fotografi francesi Masclet, Thévénet, Ronis, Doisneau, Izis, Brassaï e soprattutto Cartier-Bresson; i tedeschi Steinert e Keetman; i nordici Hammarskiold, Hassner, Winsquit, Coppens, e lo svizzero Bischof; fra gli americani Weston, Smith, Strand e altri dello staff di Life[291]. Un insieme che nel suo eclettismo confermava l’assoluta libertà di orientamento nelle espressioni individuali che aveva da sempre caratterizzato il sodalizio.

Sarebbe stato Giuseppe Turroni ad assumersi il compito di tracciare un bilancio della Nuova fotografia italiana, riprendendo un progetto sviluppato da Mario Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo negli anni immediatamente precedenti, poi bruscamente interrotto per ragioni editoriali. Quell’ipotesi di lavoro, avviata nel 1956-1958 con la collaborazione di Alfredo Camisa, prevedeva la redazione di un volume antologico dedicato alla Nuova fotografia italiana; un titolo che  l’anno successivo sarebbe mutato in Fotografi italiani d’oggi prima che il progetto venisse affossato  dall’opposizione del Consigliere delegato Tito Legrenzi[292], poiché il materiale raccolto (e già impaginato in menabò) non era di suo gradimento: “io non ci arrischio sopra 5 milioni. Il libro non si fa”[293]. Al “tramortito” Finazzi il più pragmatico Camisa chiese di “avere in prestito per qualche giorno l’impaginato. Proprio in questi giorni un editore milanese [Arturo Schwarz]  ha preso in considerazione una analoga iniziativa (sia pure in forma e con intendimenti diversi: Fotografia italiana del dopoguerra), e l’Autore del testo [Turroni]  sta raccogliendo il materiale.”[294] Non è dato sapere se Turroni ebbe modo di studiare e profittare dell’impaginato (le foto erano nel frattempo state restituite ai rispettivi autori), ma è certo almeno che accolse il primitivo titolo modificando quello di lavorazione e Nuova fotografia italiana venne pubblicato allo scadere del 1959 quale decimo numero della collana “Enciclopedia di cultura moderna”, che sino ad allora aveva ospitato volumi dedicati prevalentemente alla poesia e in misura minore alla scultura, al cinema, al teatro e al jazz[295].  Le caratteristiche editoriali erano certo diverse[296] ma il profilo culturale e  critico era certamente analogo, con una selezione in cui non solo prevalevano i fotografi amatoriali (il doppio dei professionisti) ma che registrava assenze clamorose. Non solo Carlo Mollino, che col suo Messaggio dalla camera oscura aveva fornito un contributo fondamentale alla crescita della cultura fotografica italiana[297], ma anche tutti quegli autori che non erano mai transitati per mostre e salon, che con quel mondo non avevano mai avuto a che fare. Una prospettiva critica  amatoriale in sé, analoga a quella espressa da Monti,  che non sapeva liberarsi dal contesto  dei dibattiti e delle vicende salonistiche che tanta parte avevano avuto negli interventi al convegno di Sesto San Giovanni. Quindi non propriamente la “Nuova fotografia italiana”  pretesa dal  titolo, a meno di non voler leggere tra le righe (ma con una certa forzatura)  il tentativo di  dimostrazione dell’assioma sulla fecondità degli amatori come linfa che nutre, sebbene Turroni tracciasse poi un quadro tutto sommato sconsolante di quella stessa fotografia, nel quale “il ponte della forma è storicamente attendibile, e necessario. È la spia – proseguiva –  di tutte le sovrastrutture ideologiche e intellettualistiche, avallate dai tanti cenacoli e scuole e associazioni e unioni che pullulano nel nostro Paese e talora, coi loro manifesti e programmi, riescono persino a inibire la buona volontà creativa dei giovani (…). Comunque la storia della cultura – e anche della cultura fotografica – va avanti poco alla volta. (…) . Era tempo di morte per ogni sorta di dilettantismo. La forma diventava emblema di uno specifico fotografico che tendeva a farsi riflesso di un mondo, di un costume, di una cultura. La lezione di Monti sarà decisiva”[298]. In effetti il pensiero e la figura di Monti, al quale Turroni aveva dedicato un ben più sensibile ritratto critico solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”[299], costituivano un  riferimento costante per le sue riflessioni;  quasi un fil rouge che attraversava tutto il volume, nel quale (conseguentemente)   risultava l’autore più rappresentato, con ben venti fotografie che illustravano molta della sua produzione ma escludendo ogni suo lavoro professionale, con un solo esempio delle sue ricerche più sperimentali[300].  Non solo: il critico ne ricostruiva la vicenda artistica con omissioni che non possiamo che definire  tendenziose, non potendo immaginare che non conoscesse i primi lavori di questo autore tanto amato. Scriveva infatti:  “Notiamo [nelle prime fotografie] uno spirito razionale che rifugge dalle morbide contemplazioni dei cavalliani”[301], cancellando d’un sol tratto tutta la prima produzione a tono alto (tavv. 015, 023, 037).  Un’analoga mitografia sarebbe stata riproposta molti anni dopo da un critico e amico come Antonio Arcari,  che nel testo predisposto per il fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”[302]

 

“Non documento ma invenzione visiva”

Alla fine di maggio del 1959, con Romeo Martinez a fare da tramite[303],  Monti  incontrò il grafico svizzero Fritz Bühler per mettere a punto un progetto fotografico destinato a un volume  pubblicitario per la casa farmaceutica Sandoz di Basilea[304]; un incarico al quale doveva dare molta importanza, sul quale contava particolarmente tanto da redigere un vero e proprio Diario di lavoro, che ne registrava presupposti e tappe: un documento unico nella sua produzione sino a quella fase. Altri sarebbero seguiti, legati alle campagne emiliane, ma con intenti più programmatici e didattici, mentre qui troviamo riflessioni a un tempo tecniche ed espressive. Nelle settimane successive Monti si recò a Basilea per discutere il progetto coi referenti Sandoz e in particolare col Dott. W. Corti, che avrebbe dovuto essere  l’autore del testo, al quale  sembra riferibile il proposito di richiamarsi al  “Concetto della Metamorfosi: Empedocle, Ovidio ecc. – Magia della Chimica (…)”. Con Corti valutò anche le soluzioni suggerite dal volume di Gustav Schenk, Schöpfung aus dem Wassertropfen[305], nel quale si mostravano le infinite possibilità di restituzione visuale di un elemento liquido e semplice come l’acqua. Tra le sue fonti però doveva esserci anche l’opera di Georgy Kepes  (si consideri la stretta analogia tra  alcune immagini Sandoz e Fluid Forms, 1944[306]) e in particolare la selezione di fotografie per la mostra The New Landscape[307] che si tenne al Massachusetts Institute of Technology nel 1951, un’occasione per riflettere sulle corrispondenze formali tra la più avanzata produzione artistica e il nuovo universo visuale rivelato dalla strumentazione scientifica e tecnologica. La complessa elaborazione del progetto, puntualmente restituita nelle pagine del Diario, implicava la necessità di sondare  le risposte offerte da materiali e processi diversi sino a individuare la “possibilità di operare reazioni a colori nella glicerina – Comunque ci sono ottime occasioni di ottenere forme plastiche e lente[308],  ovvero di combinare “diversi fluidi nel liquido (…) con immissione di aria o gas, ecc. in modo da ottenere diverse formazioni sia cromatiche che morfologiche. (…) Non interessano solo le reazioni chimiche, ma i colori in quanto tali. Soprattutto non bisogna basarsi sulle possibilità dei soli colori fondamentali. Occorre agire con colori artificiali in concorrenza con quelli della natura. (…) coi cromogrammi su carta ottieni disegni astratti (…) sciogliere dei cristalli di alcuni coloranti in acqua- effetto fotografico? Da provare.”  Nel volgere di pochi giorni, già entro la metà di giugno, l’attenzione si concentrava soprattutto sull’uso di colori e coloranti (escludendo quindi altre materie e organismi come sangue, muffe, embrioni), in particolare per la possibilità che questi offrivano di “formare immagini astratte” e di sfruttare a tal fine “ tutte le possibilità del movimento-sfocato – movimento di macchina – doppie esposizioni – vetri deformanti – ecc.”,  mettendo quindi a frutto, qui con larga dovizia di mezzi, molte delle ricerche sperimentali da lui condotte in quegli anni Le prove svolte nel laboratorio fotografico dello stabilimento di Basilea proseguirono sino alla metà di agosto, quando Monti incontrò nuovamente Bühler, che si mostrò “in pieno accordo anche per quelle [foto] destinate alla copertina” del volume, che il fotografo aveva immaginato “parte negativa e parte positiva, a colori o solarizzata in stampa.” Poi accadde qualcosa: il 16 settembre  gli venne formalmente comunicato  il “divieto di fare per il momento nuove foto in fabbrica”. Forse la committenza non era soddisfatta di quanto prodotto sino ad allora,  forse era mutato l’organigramma interno e si attendeva un nuovo redattore scientifico che avrebbe potuto richiedere  “una nuova (o presumibilmente nuova concezione del volume) [che] comporta una revisione di tutte le foto eseguite. (…) COLLABORAZIONE MOLTO COMPLESSA E LABORIOSA – PARTECIPAZIONE DEL FOTOGRAFO – COME E QUANDO?  (…) 16/9 POMERIGGIO: FINITO IL LAVORO – ANNULLATO IL VOLUME/ FINE”.

Oltre lo smacco per la brusca conclusione di un’impresa affascinante, quel richiamo dubitativo al riconoscimento del ruolo del fotografo, al suo contributo autoriale, che forse Monti percepì come negato o almeno ridotto a  quello di semplice esecutore, dovette costituire un ostacolo insormontabile  per la sua etica professionale, per la sua deontologia. Monti si sentì relegato al ruolo di semplice esecutore, essendogli negata la “possibilità di formare”, di “divertirsi liberamente con questo mezzo straordinario di riproduzione, ma anche di creazione delle forme più varie e nuove. (…) Le fotografie professionali non possono che avvantaggiarsi dell’esperienza visiva di un fotografo che consuma almeno  una parte del suo tempo e della sua passione per l’esperimento, per la scoperta di nuove forme della visione”[309]. Non prelievi o astrazioni dalla natura quindi ma realizzazioni ex novo, sebbene qui il punto focale non fosse rappresentato dalla verifica delle operazioni fotografiche ma dalle variazioni sul tema delle combinazioni cromatiche sperimentalmente controllate, diversamente da quanto andavano proponendo altri autori italiani stimolati e sostenuti dalla produzione di pellicole fotografiche a colori da parte della Ferrania[310]. Si riferiva certo a quell’esperienza quando scriveva, nel 1963, di  “colore come nuovo mezzo espressivo (…). Il colore fotografico come favola, fantasia, invenzione (…) non documento ma invenzione visiva, da un realismo quasi magico all’astrazione”[311] (tavv. 072, 073). Quasi una didascalia a quelle lunghe sequenze di immagini realizzate per la Sandoz su pellicola di grande formato (9×12)[312] di fluidi a contrasto, di sfocature di vetri colorati, di colature di forte apparenza materica, di “melange di colori” di diversa natura e andamento, ma anche di più drammatiche diffrazioni ottenute fotografando fogli accartocciati di cellophane (1958-1959). Ne risultavano due distinti ambiti di indagine, come avrebbe lui stesso ricordato nella sua ultima intervista: “uno è il campo delle varie materie e l’altro campo è quello della diffrazione della luce, cioè il fenomeno della luce solare che si scinde nei suoi elementi passando attraverso delle piccole fessure. E così si possono fare delle fotografie che io metterei a livello della migliore arte astratta degli anni passati o dell’informale, con la differenza che non c’è niente di astratto, perché la fotografia non fa mai l’astratto, perché la fotografia fotografa sempre quello che esiste e quindi anche quando si fa una fotografia di una forma astratta si fa una fotografia reale perché non è che sia disegnata, è davanti all’obiettivo”[313].   Così chiudeva il cerchio, mostrando tutta la convenzionalità delle etichette e delle terminologie, e producendo immagini che solo per povera convenzione terminologica possiamo definire astratte, essendo consapevoli che l’atto fotografico implica sempre una registrazione. Ciò che quelle immagini mostrano (che è cosa ancora diversa da ciò che noi vediamo) è l’esito di una restituzione del dato reale mediata dall’ottica e dalla chimica (che qui è quella dello sviluppo cromogeno), mai un’invenzione pura come accadrà più tardi con i chimigrammi,  misurandosi direttamente con le superfici sensibili, andando alle origini del processo fotografico. Qui Monti lavorava con composti chimici e materie plastiche, con filtri colorati o polarizzati, si muoveva tra estrema prossimità e massima distanza dalla cosa fotografata, controllava luci e movimenti di macchina ed era dall’interazione tra tutti questi elementi – compreso il dato reale, esterno, così come la materia della carta fotografica  – che nascevano le figure. La sua cultura visiva, gli stimoli suscitati dalle correnti pittoriche più attuali (dall’astrattismo all’informale, all’espressionismo astratto) entravano in gioco al momento dello scatto e forse della selezione successiva. Una suggestione più precisa determinava poi il momento e i modi del taglio operato nel continuum spazio temporale per definire l’immagine finale, della quale erano preordinate le condizioni ma non gli esiti.

 

Muri, Manifesti, Materie

Ritornando a considerare il patrimonio bibliografico  posseduto da Monti relativo ai primi tre lustri della sua attività professionale, si nota una significativa trasformazione nelle categorie, nei generi che lo compongono:  nella manualistica prevalgono i testi specificamente dedicati alla pratica professionale[314], ma soprattutto aumentano i titoli propriamente fotografici, con molti volumi della Guilde du  Livre e delle edizioni Clairefontaine di Losanna[315], ben note per la qualità della loro stampa in héliogravure. A quelli  si aggiungono alcuni,  purtroppo inspiegabilmente pochi, tra i più noti titoli di quel decennio, come Les Parisiens tels qu’ils sont di Robert Doisneau, Da una Cina all’altra di Henri Cartier-Bresson, Le village des Noubas di George Rodger o The sweet Flypaper of Life di Roy de Carava e  Langston Hughes, mentre sorprendentemente mancano all’appello Un paese di Strand e Zavattini[316],  la New York di Klein (di cui possedeva Roma)  e Gli Americani di Frank, neppure nell’edizione italiana.  Un più utile indizio di un interesse sempre più consapevole e preciso per le ricerche sperimentali è la presenza non tanto dei volumi dedicati alla Subjektive Fotografie[317] quanto di quelli di autori tra loro tanto diversi quali Hayek Halke, Kepes e Brassaï [318].  Se col primo è più difficile cogliere analogie nella sua produzione più nota (tranne forse che in alcune doppie  esposizioni del ciclo dedicato a Meme, di certo tra le sue prove meno riuscite),  le sistematizzazioni di Kepes e la sua stessa opera  hanno costituito un punto di riferimento per le  sue  più analitiche sperimentazioni, mentre i Graffiti di Brassaï, pur nella diversità di presupposti e intenti non potevano non suscitare una eco suggestiva in un autore come Monti che si dichiarava, con un velo di ironia “un collezionista di foto di muri, di manifesti”[319].  Tra i libri della biblioteca di Monti c’è anche  Le paysage en photographie, 1947, di Daniel Masclet, con foto in cui muri, case sventrate e palizzate costituivano pretesti per la costruzione di composizioni sempre meno narrative, più ‘astratte’. Certo l’autore francese fu un importante punto di riferimento e non è difficile trovare analogie con il trattamento dei muri che connota alcune vedute veneziane o dei piccoli centri della laguna realizzate negli anni de La Gondola[320], quando la materia delle superfici aveva un ruolo ben definito nella strutturazione dell’immagine; ma si trattava ancora di un mero accidente, di un inevitabile accessorio del referente, sebbene trattato con particolare attenzione. “I  «muri» delle vecchie isole della laguna  (che ispirarono un mestissimo e vibrante cortometraggio a Michelangelo Antonioni, regista nato da una cultura non dissimile a quella del Nostro) – scriveva Turroni[321] –  si stagliano poveri e squallidi, pietra su pietra, ciuffo d’erba su fiori e graffiature.”  Turroni ritornava sul tema  in quello stesso anno con un articolo su “Ferrania” [322] nel quale ribadiva che “l’aspetto formale, è in Monti la visione stessa. (…) Il mondo di Monti (…)  si contorce, si intellettualizza vieppiù. Dal lirico naturalismo di prima egli trascorre a un astratto espressionismo. La lezione di più progredite culture straniere (…) in lui si macera nella visione formale, si cristallizza in una estrema e amara dialettica intellettualistica. L’oggetto non è più descritto ma interpretato come ‘occasione montaliana’, [così che]  una roccia, un lago, un muro, un po’ di neve, è come perdessero, per noi, la nozione elementare di oggetti quotidiani per diventare simboli di sé stessi, inchiodati alla forma irripetibile di una rabbiosa introspezione.” Una lettura che gli veniva dalle stesse parole di Monti citate nel testo:   “In sostanza è mia ferma opinione che  non c’è cosa più lontana dalla realtà fisico fenomenica di molte fotografie che ritraggono questa realtà alterandone tutti i rapporti per il solo fatto della trascrizione fotografica. Naturalmente questa trascrizione non è automatica, meccanica, frutto dell’ottica-chimica, ma è invece una particolare visione di mondo esterno che trova nel mezzo fotografico il modo di concretarsi. È logico che visione e tecnica finiscano col reagire l’una sull’altra. La prima costringe la seconda a adeguarsi a ciò che si vuole esprimere, ma la tecnica da parte sua può all’improvviso suggerire nuove soluzioni visive.” Più convenzionale  e semplicistica la lettura di quelle  particolari “espressioni riflesse di un dato realistico” offerta nel volume antologico del 1959[323], dove Turroni distingueva i muri veneziani che “sembrano fondali di palcoscenico”, dai successivi, milanesi, dei quali riconosceva che “non vengono scelti come fondali”  di un impossibile teatro, anzi in quelle fotografie “c’è molta tristezza (…) una tristezza  laboriosa ma non sorda”,  rinunciando a ogni possibile suggestione analogica o pittorica. Si potrebbe invece riconoscere, e dire, che poco alla volta era la materia di quelle superfici a diventare protagonista (Muro e albero, 1955 ca,  tav.075;  Treviso, 1949, tav. 076, progressivamente autonoma, liberata da ogni connotazione narrativa anche in casi quali Muro, 1950 ca, tav.077,  o Muro in Rio Terrà dei Pensieri, 1949, tav.  078,  in cui la presenza di parole o disegni graffiti avrebbe potuto riportare al racconto o almeno mostrare un qualche interesse per la connotazione semantica[324], consentendosi al più un esplicito gesto citazionista, come in quell’ Omaggio all’Informale realizzato a Milano nel 1953 che rimandava  esplicitamente a Franz Kline[325], o una reinterpretazione simbolica di una traccia gestuale, come La cometa, 1957 (tavv.079, 080)[326]. Ognuna di queste immagini ci appare  come un’epifania che mostra   “quello che è avvenuto, ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente”,  come in Muro e nuvola (tavv. 081, 082), che era scoperte di un attimo  reinventato in camera oscura, sfruttando positivamente quella che nel suo intervento al convegno di Sesto San Giovanni aveva identificato come “la limitazione della fotografia”[327]. Erano accidenti offerti dal caso all’interpretazione dell’occhio, come quelli quasi coevi di Aaron Siskind  e di Lucien Hervé[328], o quelli che aveva incontrato sulla sua strada Walker Evans[329], ricavandone una serie di “wry compositions” (composizioni contorte) certo lontane dall’espressionismo di Monti, così come lo erano (nelle intenzioni e negli esiti figurativi) i Muri di Nino Migliori, che in quegli anni, pur parallelamente  impegnato sul doppio fronte del racconto sociale e della fotografia ‘concreta’,  erano per lui non solo  “un modo di manifestare l’avversione al tipo di fotografia contemporanea, al pittorialismo, al salonismo fotografico, e anche alla foto detta realistica ma basata su una ricerca estetizzante e non su un’analisi del reale”, ma anche – e qui le analogie con Monti si facevano più forti –  un’occasione e un modo per cercare “il passaggio del tempo, cioè la disgregazione della materia-muro dovuta alle intemperie, alle piogge, agli sfregamenti, ma ricercavo anche il passaggio dell’uomo (…) registravo ciò che era successo”[330]. Una produzione che aveva immediatamente attratto gli osservatori più attenti come Alfredo Camisa, che a proposito della vittoria di Migliori alla  IV Mostra Nazionale Premio Città di Padova del 1958, che lo vedeva tra i giurati,  scriveva: “Sentiremo parlare dei muri graffiti di Brassaï, forse dei muri di Monti, ma crediamo egualmente nell’originalità di questi muri, di questi muri veri, che parlano più di tanti formali ritratti o di tanto reportage non sentito”[331]. A questi nomi ormai noti va ora aggiunto quello di un outsider come Catone Ramello, riscoperto da Zannier su segnalazione di Paolo Gioli[332], che nel 1958 partecipò con Silvia Brown e Giorgio Giacobbi ad una mostra alla Galleria dell’Opera Bevilacqua La Masa (22 febbraio – 15 marzo) con fotografie di “muri veneziani”, a proposito delle quali Giuseppe Marchiori riconosceva  che l’autore si era “fatto un occhio ‘moderno’ frequentando gli studi dei pittori e leggendo molti libri sull’arte (…). A lungo interrogammo insieme i muri della città, i cantieri, le piccole botteghe degli artigiani, i luoghi sconosciuti, gli atri, le scale, i cortili, i campielli, i canali, che nessuno ‘vede’, perché non sono nemmeno pittoreschi. (…) Ramello ha voluto fissare per sé quei momenti e, forse senza pensarlo, li ha fissati anche per gli altri. Chi vorrà, potrà stabilire una serie di rapporti ideali con le differenti espressioni  dell’arte contemporanea e riconoscere in esse i più caratteristici valori ‘simbolici’ della modernità.” Il critico in quell’occasione non chiamava in causa i lavori di Monti, che invece avevano “estasiato” Ramello, sebbene all’epoca fosse troppo “timido e apprensivo” per poter anche solo osare di  entrare nella sede de La Gondola, “nemmeno trascinato con la forza”[333].

Alla Mostra della fotografia Italiana del 1953 Ferroni aveva esposto una Architettura della materia (n.7), che era la ripresa ravvicinata di un ceppo tagliato a colpi di scure. Più che un indizio dell’influenza che su di lui ebbe Monti, che in quegli anni trovava nelle diverse configurazioni dei Legni infinite occasioni di ricerca personale, da affrontare secondo intenzioni diverse. Così nei due tronchi bruciati fotografati ad Anzola d’Ossola (tav. 066), immersi nel paesaggio da cui si distaccano con la loro presenza scultorea, la forma e la materia risultavano espressione di un dramma, come fu già in Snag Near Scotia, 1938 ca, di Ansel Adams.  Tutte rivolte all’indagine delle superfici erano invece altre fotografie dello stesso periodo (tav. 083) nelle quali la materia quasi era presentata di per sé, senza altre elaborazioni che non fossero già nell’inquadratura, come accadeva anche nelle Chiome di pioppi (tav. 084), la cui leggerezza argentea si trasformava in corpo mantenendo la sua levità. Più evidenti interpretazioni espressionistiche, frutto di precisi interventi in stampa che reinterpretano i provini (tav. 085),  sono riconoscibili invece in Legno (tav. 086), che rivela forti rimandi (o richiami) ai Legni e le Combustioni di Alberto Burri, tra 1956 e 1958[334], e soprattutto nella serie dedicata alla Natura del legno (1953-1957) della quale Turroni pubblicò un esemplare nel suo Nuova fotografia (fig. 150), quindi certamente con l’assenso se non con la supervisione di Monti, in una disposizione che col porre i due nodi chiari nella parte alta dell’immagine ne accentuava la connotazione antropomorfa, mentre altre versioni della stessa immagine presentano un’inversione alto/ basso che ne accresce l’effetto di astrazione[335]. Certo è che il soggetto da cui  era più attratto, sul quale ha lavorato più a lungo con presupposti diversi è stato quello delle Rocce (tavv. 087, 088, 089); la materia più antica, segnata dal tempo. Un repertorio di forme disponibili dal quale a volte faceva emergere un dialogo, magari aspro, tra organico e inorganico, tra vegetale e minerale; un’occasione per riflettere e restituire in sintesi il confronto tra tempo biologico e tempo geologico. Un affidarsi alla forma per innescare una meditazione  esistenziale[336]. Qui torna a proposito la notazione coeva di Turroni, che  riferendosi ad analoghi lavori scriveva di “forma di reminiscenze astratte mai sopite (la materia oggi pare a un artista moderno sempre la forma di un contenuto astratto, e viceversa: una macchia su un muro è una zona di colore; per un fotografo come Monti, è un «nero» concreto, intoccabile, immobile nello spazio)”[337], ribaltando infine la nota categoria critica statunitense per parlare invece – come si è visto – di “astratto espressionismo”. Questa interpretazione critica appariva però  incerta, forse non pienamente convinta, se solo due anni più tardi parlando de “l’ultimo periodo di Monti [che] è contraddistinto dalla serie delle rocce, delle pietre, delle muffe”, ne riconosceva le  derivazioni “dalla pittura informale, nucleare, concretista, che dir si voglia. (…)  [Monti] vuole trasmetterci la bellezza delle cose, che lo sguardo spesse volte non coglie, tanto è distratto dalle apparenze, dalle esteriorità”, per concludere infine – con una notazione che il fotografo non credo potesse condividere – che “in questo, Monti si avvicina – per una prestigiosa abilità tecnica – alla fotografia scientifica”[338].

Il dibattito relativo allo statuto estetico di quel genere di immagini era in quegli anni particolarmente vivo, polarizzato intorno a due opposte interpretazioni. Per  Umberto Eco  “l’artista che scopre la natura come formatrice è dunque in fondo un critico dalla intuizione sicura che scopre analogie tra i comportamenti dell’arte e quelli del caso, e carica i secondi delle intenzioni dei primi (…); il fotografo colto e sensibile, attento alle tendenze stilistiche della pittura contemporanea, gira per la strada e individua accadimenti materici di indubbia suggestività. E da un lato li trova, e inquadrandoli, scegliendoli li propone, dall’altro li costruisce effettivamente poiché fotografandoli completa le possibilità del materiale con la scelta di una angolatura, di un dato tipo di luce, di un maggiore o minore ravvicinamento all’oggetto”[339]. Opposta l’opinione di Giuseppe Marchiori, per il quale “a un certo punto, col gusto che corre, si rischia di scambiare un ‘oggetto trovato’ con una vera scultura. (…) L’informe assume una forma, che gli scultori del nostro secolo hanno rivelato, mettendone in luce l’armonia e la bellezza. (…).  Ma lasciamo le radici nei boschi e i sassi nei fiumi, nel loro ambiente più vero. Collocati nelle mostre alimentano assurdamente il paradosso della natura che imita l’arte”[340]. Certo il critico veneto non si riferiva alla fotografia anzi, con scelta per più versi ambigua, l’articolo era illustrato proprio da una serie di fotografie di “accadimenti materici” di Monti, che si direbbero selezionate quale ‘documento’, quale esempio possibile di “oggetto infernale, misterioso e simbolico, che eccita la fantasia, ma che non induce alla contemplazione”, senza tener conto del forte, intenzionale carico interpretativo dell’autore fotografo a cui invece si riferiva Eco. In anni a noi più prossimi è stato Claudio Marra[341] a sostenere che “non convince l’interpretazione naturalistica dell’Informale avanzata da Eco [ma che già fu di Francesco Arcangeli[342]], e soprattutto non funziona perché alla fine le fotografie di muffe, ruggini e quant’altro, pur nascendo secondo lo statuto anti-pittorico proprio del ready-made, finiscono per risultare apprezzabili in quanto del tutto simili alla superficie di un quadro informale.” Se è ammirevole l’intento di superare le più superficiali letture analogiche, questa tesi offre però nel complesso una plausibilità critica più apparente che teoreticamente fondata per almeno due non secondarie ragioni: a fronte di queste operazioni, di questi prelievi reinterpretati, pare improprio richiamare lo statuto specifico del ready-made, mentre sarebbe semmai più fecondo adottare quello di object trouvé rielaborato, come lascia facilmente intendere, considerando anche il significato e il senso della materialità delle cose, proprio l’incommensurabile distanza tra  la superficie di una stampa fotografica e quella di un dipinto informale.  E infine, e soprattutto, è da tempo venuto il momento di smetterla di porre la questione in questi termini riduttivi e schematici di ‘combattimenti’ tra arti visive per provare a misurarsi con le ben più complesse e osmotiche culture dell’occhio.

Poi, dalla metà degli anni Cinquanta, i muri divennero elemento e supporto di altre “astrazioni involontarie”, una locuzione a cui Monti ricorreva sovente in quel periodo, tanto da  far supporre un progetto di serie poi non realizzato, come sembra suggerire anche una delle categorie del suo soggettario per le pellicole in formato 6×6 che recita “Astratto nei manifesti”. Con quel titolo identificava quello che era  forse il suo primo esempio di fotografia di questo soggetto, del quale conosciamo almeno due varianti, diverse per inquadratura e contrasto tonale, a conferma ulteriore del suo costante processo di elaborazione nel passaggio dalla ripresa alla stampa finale[343]. In quelle prime immagini – ma anche in Manifesto strappato, 1955 (tav. 093) e Fine di un manifesto,1962-1965 (tav. 094) – l’oggetto era presentato decontestualizzato, esaurendo in sé  le ragioni dell’inquadratura ed era dotato di una sua elevata figurabilità.  Certo quella Astrazione involontaria (così la titolazione autografa) richiama irresistibilmente alla mente i lavori di Mimmo Rotella e di altri artisti che confluiranno nel gruppo del Nouveu Réalisme di Pierre Restany, presentato per la prima volta a Milano  alla Galleria Apollinaire nel 1960, ma il senso di questa “astrazione”  appare lontano dalle ragioni di quei décollage, a proposito dei quali  Restany  parlava  di “moralità intrinseca del gesto dell’artista (…) ancor più dell’emergere, nel manifesto lacerato, di nuove forme direttamente scaturite dalla realtà sociologica, capaci solo per questo di trasformare radicalmente la nostra visione dell’universo che ci circonda (…); in una parola, ancor più di questa efficace e poetica ricarica della realtà, Rotella ci trasmette un messaggio di cultura, di umanità e di speranza”[344]. La visita alla personale dell’artista alla Galleria del Naviglio[345] di Milano nel 1955  poteva aver  confermato a Monti le possibilità  di questi soggetti come materiale artistico, ma vanno considerati due altri aspetti di non secondario rilievo. Come accade per le architetture, anche la maggior parte delle sue fotografie di manifesti strappati è in bianco e nero[346]; non si presentano quindi come un  prelievo, come  un object trouvé ricontestualizzato e risemantizzato, ma come l’esito di un processo di astrazione che libera l’oggetto dal contingente preservandone la sola natura di traccia di una ‘cosa’, senza alcuna intenzione o funzione emblematica, esistenziale. Non va dimenticato inoltre che i manifesti di spettacolo (dal vaudeville al cinema e al circo), specie nella loro condizione degradata da strappi e lacerazioni casuali (quasi l’esito di una scrittura automatica) avevano costituito un tema non così inconsueto nella produzione fotografica di molti maestri statunitensi, da Edward Weston (Pulqueria, 1926) a Walker Evans (Torn Movie Poster, 1930); da Frederick Sommer (Orminda, 1947; Venus, Jupiter and Mars, 1949) al Willian Klein di New York, (1956) e Tokyo (1961). Autori che si confrontavano con un paesaggio urbano più precocemente segnato dalla grafica di comunicazione di massa, quella stessa che si sarebbe imposta in Europa solo negli anni del secondo dopoguerra. Della genesi ‘realistica’ di quelle immagini avrebbe parlato lo stesso Monti, ricordando che “quand’era di moda l’astratto e l’informale, espressioni che ancora altamente stimiamo, le soddisfazioni non mancavano e sono molte tutt’ora. Macchie, manifesti strappati, lebbre preziose di colle e umidità varie e anche immagini surrealiste uscite dagli strappi multipli di manifesti sovrapposti. Collages o meglio décollages di alta qualità e grandi dimensioni per la delizia dei solitari camminatori notturni”[347].  Da questo brano  emergono molte suggestioni  e rimandi a una possibile genealogia iconografica, ma soprattutto riecheggiano ancora le parole di Eco a proposito della  macchina fotografica, che “ora viene invitata a trovare occasioni informali, macchie, graffiti, tes­siture materiche, colate, graffi, scrostature, secrezioni, gromme, stria­ture, lebbre, escrescenze, microcosmi di ogni specie approntati dal caso sui muri, sui marciapiedi, nella fanghiglia, sulla ghiaia, sui legni di vecchie porte, sulle massicciate o nelle colate di catrame non anco­ra steso, variamente calpestato e rappreso” [348], innescando un processo di riconoscimento ben descritto circa gli stessi anni da Ernst  Gombrich nel momento in cui riconosceva che ” l’arte è una fonte frequente di nuovi interessi. Artisti contemporanei come Rauschenberg sono rimasti affascinati dai motivi e dalle trame dei muri degradati, con i loro manifesti strappati e le macchie di umidità. Sebbene non mi piaccia Rauschenberg, devo ammettere con disappunto che non posso fare a meno di notare questi elementi in modo diverso da quando ho visto i suoi dipinti. Forse se la sua mostra non mi fosse così dispiaciuta, il ricordo sarebbe svanito più rapidamente. Poiché il coinvolgimento emotivo, positivo o negativo che sia, favorisce sicuramente la memoria e il riconoscimento”[349]. Diverse nella concezione e nel senso erano invece altre riprese milanesi tra anni Cinquanta e Sessanta nelle quali il manifesto pubblicitario veniva  letto come elemento costitutivo della scena urbana;  quasi che Monti avesse voluto realizzare un reportage dedicato a quell’ “aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino” di cui diceva Argan[350], attento specialmente a sottolinearne la funzione di controcanto (Manifesti a Milano, 1957, tav. 097), secondo una linea genealogica  rintracciabile in  alcune riprese di Giuseppe Pagano[351] come dei fotografi della Farm Security Administration.

Tra incarichi professionali e ricerche personali  si dipanava in quegli anni tutto l’arco dell’attività montiana, dalla fotografia di  architettura alla grafica editoriale e pubblicitaria, di cui è ottimo esempio quella Sovrimpressione d’un albero, 1953 (tav. 098)[352], che nel 1962 venne utilizzata come copertina per il disco della Capitol dedicato alla Sinfonia concertante di Joseph  Jongen (tav. 074) . L’immagine presenta forti analogie con  Multiple Exposure Tree, Chicago, 1956, di Harry Callahan (tav. 099)[353] sia per quanto riguarda le modalità di realizzazione – ottenuta per mascheratura e rotazione in fase di stampa – sia nel titolo, che risulta una traduzione quasi letterale nelle due lingue della stessa operazione. Non sussistono ad ora elementi per comprendere se si sia trattato di  un interessante (e certo non nuovo) caso di ‘migrazione’ iconografica, senza che sia dato comprenderne la direzione, ovvero dell’esito sorprendentemente coincidente di ricerche condotte parallelamente dai due autori, come sembra indicare l’appartenenza di ciascuna di queste immagini a serie più ampie e variate, che in Monti comprendevanoanche esemplari a colori, sebbene dai risultati meno convincenti.

Era stata proprio quell’ostinata capacità di non disgiungere urgenza espressiva e pratica professionale che lo aveva di fatto imposto come modello per molti e come la figura più autorevole della fotografia italiana, a partire almeno dal 1959, anno dell’edizione italiana del volume di Pollack, della partecipazione alla mostra Photography at Mid-Century[354],  e della celebrazione fatta dall’amico  Turroni, sebbene poi in quelle occasioni fossero proprio le esperienze più innovative ad essere taciute o almeno poco considerate. Fu la pratica sperimentale a costituire l’elemento di continuità dell’operare di Monti, a segnarne la volontà continuamente ribadita di mettere alla prova le proprie competenze come di verificare le potenzialità linguistiche che potevano scaturire dalla  “violazione di tutte le consuete norme tecniche”.  Ciò che  mi pare  gli studi precedenti hanno indicato in modo meno chiaro, presentandoli quasi come due aspetti schizofrenicamente separati, è però il fatto che quelle ricerche oltre ad avere una valenza autonoma erano strettamente collegate alla pratica professionale. Si trattava di “fotografia sperimentale in bianco nero e colori per associazione alla grafica e alla pubblicità”, come lui stesso scriveva nella breve nota biografica redatta per la mostra a Il Diaframma del 1967. E poi, basti considerare le date: se escludiamo alcune solarizzazioni variamente trattate, debitrici del Veronesi più ‘naturalistico’ degli anni de La Bussola[355], vediamo che le prime verifiche sperimentali (stampe in negativo[356], fotogrammi, sfocature e movimenti di macchina con effetti di mosso controllato) risalivano tutte agli anni successivi al suo passaggio al professionismo ed anzi si concentravano particolarmente nel periodo che chiuderà proprio con la mostra del 1967, sebbene già le sue prime Intenzioni fotografiche del 1948 indicassero varie  tecniche sperimentali. Una serie di verifiche che per Monti dovevano comprendere le “nature silenti”, quel genere di composizioni  “ove entrino elementi, siano o no tradizionali, per giungere sino alla completa assenza di oggetti ‘reali’ cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”[357]. Definizione tanto sottile quanto dirimente, specie rispetto alla genericità del dibattito di quegli anni, perché si fondava su di  una chiara riflessione sulla stessa ontologia fotografica, ribadita in un contributo di quasi un decennio più tardo nel quale riconosceva come fosse “in un certo modo, impossibile parlare di fotografia astratta senza cadere in contraddizioni”[358], specificando semmai (in perfetto accordo con quanto scriveva Arcari circa gli stessi anni, ma certo con echi di Minor White) che è proprio del fotografare (del fotografico diremmo oggi) attuare sempre un processo di “astrazione”, portato alle ultime conseguenze poi in quella “immagine oggettiva ‘soggettivata’” che è la stampa fotografica finale, pienamente convinto (con citazione balzachiana) che “Far concorrenza allo stato civile delle cose, competere con la realtà sottomettendosi ad essa ma con lei rivaleggiando, è uno dei più grandi privilegi della fotografia”[359].  Questi, esposti con la sua consueta lucidità, i termini della questione, gli elementi che gli consentivano di precisare  quel processo da cui originarono immagini che trattenevano un qualche legame col reale da cui erano derivate (come i muri, i legni, gli stessi manifesti strappati), distinguendole dalle fotografie che diremo concrete, determinate dal misurarsi con due elementi fondamentali del linguaggio fotografico come la luce e il tempo, nelle quali – come scriveva Arrigo Orsi – “si arriva a sopprimere il soggetto, a farne a meno”[360]. Meno disposto alla comprensione critica di quei lavori era in quegli anni un esponente della generazione precedente come Guido Pellegrini, che deprecando le  “tendenze astratte oggi di moda”, parlava di “figurazioni ermetiche, oscure concezioni di riflessa introspezione”[361], mentre Pietro Donzelli – che pure apprezzava un autore come Chargesheimer – considerava “la fotografia astratta [come] un modo per eludere il problema sociale, per spersonalizzare la cultura; un modo di isterilire la necessità creativa del realismo”[362].   Se la scena fotografica italiana si mostrava ancora restia (quando non apertamente ostile) ad accogliere le ricerche sperimentali, riconoscendone la ‘legittimità’ quasi al solo Veronesi e alla attività dei grafici,  in ambito internazionale la situazione era sostanzialmente diversa: la Subjektive Fotografie certo, ma anche le iniziative promosse  dal  Department of Photography del MoMA[363], mentre in Europa un periodico come “Art d’aujourd’hui” nel già citato numero del 1952[364] pubblicava una serie di fotografie alle quali Monti deve aver guardato con profondo interesse. Era però “Camera”, un suo punto di riferimento importante in quegli anni, a prestare un’attenzione crescente[365]  a quella che veniva variamente definita come “fotografia sostanziale” (Fritz Gruber, 1956), “fotografia pura” (Grignani, 1957) e infine “fotografia creativa” (Monti, 1964). Una definizione apparentemente dotata di  minor precisione ed efficacia, giustificata però dalla necessità di non qualificare come “sperimentale” ogni fotografia astratta, distinguendo “l’astratto estetico dall’immagine astratta funzionale, in altre parole: distinguere tra ciò che procede dall’espressione e ciò che è il risultato di un’indagine”[366]. Negli anni in cui si diffondeva l’interesse sociologico per la fotografia come “arte media” (Calvino 1955-1958; Bourdieu 1965) furono proprio le pratiche  ‘sperimentali’ a sollecitare  le riflessioni di alcuni intellettuali europei di formazione strutturalista e semiotica, da Roland Barthes a Hubert Damish e Umberto Eco. Ne è buona testimonianza il numero de “L’Arc” del 1963 che raccoglieva, insieme ad alcuni saggi critici, una lunga intervista multipla a dieci fotografi europei particolarmente attivi nell’ambito di quella che i francesi chiamavano “photographie de composition”[367]. Le dettagliate risposte di Monti (forse le più articolate) accoglievano ampiamente le suggestioni delle domande poste da Frantz-André Burguet, considerando già qui il ruolo svolto dal caso, che “viene in aiuto di chi se lo merita (…); per tutti quelli che ne comprendono l’importanza può fornire degli esiti suscettibili di divenire in seguito motivo di ricerca sperimentale.” Esemplari in tal senso i movimenti di macchina (con oggetti, con luci) e  gli sfocamenti, che furono certo il contributo più personale di Monti alle ricerche sulle modalità espressive del linguaggio fotografico. Prove forse non immemori delle insegne luminose in movimento che Lucio Fontana aveva predisposto nel 1952 per le trasmissioni sperimentali della sede RAI di Milano e che avrebbero dato origine al Manifesto del movimento Spaziale per la televisione[368], ma ben distinte per modalità ed esiti da quelle dei fotografi che negli anni ’50 si dedicavano alla produzione di “Luminogrammi” e “Lichterspuren” (scie luminose), che presentavano invece analogie – e non solo formali – con la pittura gestuale di Hans Hartung e soprattutto di Georges Mathieu.  Queste sue verifiche, linguistiche ed estetiche a un tempo,  avevano scarsi riscontri anche nella fotografia che andava variamente sotto il nome di ‘soggettiva’ [369] e piuttosto che alla scena europea, da Otto Steinert a Pim van Os o Joachim Lischke o persino Raul Hausmann, mostrano corrispondenze con le sperimentazioni di derivazione Bauhaus della scuola di Chicago, da Henry Holmes Smith a Harry Callahan, ma qui con un di più di fenomenologico e visualmente ricco di suggestioni formali, certo debitrici della pittura non figurativa europea di quegli anni.  Mi riferisco in particolare alle immagini utilizzate per due copertine di “Domus”[370]  del 1961 ma realizzate alcuni anni prima e per l’occasione sottoposte a una rielaborazione grafica a colori, nelle quali la stampa in negativo, riduceva ulteriormente l’originario carattere di traccia di quel segno letteralmente fotografico che già aveva affascinato Paul Klee all’inizio del ‘900[371]. Erano, quelli, momenti di verifica che Monti avrebbe sempre considerato fondamentali: scivendo a Martinez nel 1956 si era complimentato per “le nuove rubriche [di “Camera”] sulla fotografia sperimentale e quelle sul movimento in fotografia e sui piccoli particolari mi sembrano molto opportune per  sviluppare in tutti, fotografi e non, il senso della visione. È un campo che mi interessa moltissimo e dove ho fatto qualcosa anch’io e che intendo sviluppare anche per ragioni professionali”[372]. Ancora nel 1981 avrebbe dichiarato che “la fotografia (…) è molto interessante soprattutto se si entra nel campo della sperimentazione; cioè se si cerca di usare quest’apparecchio e questi prodotti chimici nel modo più vario, al di là di tutte le regole (…). Vedere cosa avviene, per esempio, facendo le fotografie muovendo la macchina (…). Fare degli sfocamenti, delle sovraimpressioni, dei fotomontaggi, eccetera. Io sono del parere che la fotografia è sì un documento, ma è anche più del documento, cioè è anche un prodotto della fantasia, dell’immaginazione, di tecniche nuove che si possono anche inventare, ognuno per sé”[373].

Tra i primi esempi noti di sfocature comparivano le due versioni di  Cardo sulle rovine, 1954 ante (tav. 044; tav. 046);  immagini dolenti nelle quali ogni elemento era fuori fuoco, quasi a esprimere una constatazione muta della distanza da cui ormai si guardava alle tracce lasciate dalle distruzioni dell’ultima guerra, incommensurabilmente più efficaci della variante di ripresa caratterizzata da una maggiore profondità di campo  (tav. 045) [374]. Circa degli stessi anni era anche la serie dei nudi[375] (tavv. 104, 105, 106), uno dei quali presentato a Padova nel 1956 col titolo di Nudo trasfigurato, nei quali la massa corporea perdeva di riconoscibilità e si offriva quale generatrice di forme a cui le ombre davano una solidità quasi scultorea. Ancora nel 1965, quando un’immagine della serie venne esposta al Worcester Art Museum insieme ad opere di Bill Brandt e Lucien Clergue, Stephen B. Jareckie,  notava come “il dorso e il braccio sinistro della figura nella stampa Nudo  sono leggermente fuori fuoco e la texture della pelle è ridotta al minimo. Quando si vede questa fotografia per la prima volta sembra una composizione astratta, ma da uno studio più attento emerge la forma della figura”[376].  Una procedura di astrazione che connotava anche riprese di poco successive come quella utilizzata per la copertina del numero di giugno 1967 di “Roto C”, il magazine aziendale della Ciba destinato ai medici, che mostrava due ginocchia femminili accostate, nelle quali la diversa pigmentazione della pelle rimandava  ai pregiudizi razziali discussi in quella stessa sede da Silvio Ceccato[377].   Quelli del 1956 furono i soli nudi a destinazione pubblica, mentre altri, più corporali e intimi, erano riservati all’intimità complice; a quel gioco di voyeurismo erotico tra fotografo e modella che ha una tradizione lunga quanto l’intera storia della fotografia (e una diffusione di analoga ampiezza); un gioco destinato a passare dal buio della camera oscura a quello dell’archivio personale per essere poi (forse) votato alla distruzione, sino a che gli esiti della ricerca storica trasformano quelle immagini in sguardi privati consumati in pubblico[378]. Le altre prove di quegli anni rientravano più specificamente nell’ambito delle ‘invenzioni’ linguistiche, a partire dagli Alberi (tav. 109, da accostare ai più tardi Riflessi di un albero, 1969[379]),  nei quali si instaurava una tensione dialettica tra i due piani della rappresentazione e della restituzione dell’oggetto, con la conseguente determinazione di uno spazio che risultava reinvenzione ottica di quello fisico, del referente; una modalità di costruzione dell’immagine che mostra forti analogie coi lavori  del belga Julien Coulommier, tra gli organizzatori della mostra di Bruxelles del 1957 dal problematico titolo di Images Inventées, alla quale prese parte anche Monti[380]. In alcune prove più tarde (Fiore sfocato, 1971, tav. 110; Felci, riflessi deformati, 1974, tav. 111)  l’applicazione di mosso e fuori fuoco portava invece all’invenzione di nuove forme, che è quanto già accadeva nelle diverse varianti degli Effetti di diffrazione e sfocamento del 1959 (tavv. 112; 113) realizzati in studio con pellicola a colori e forse non immemori dello Studio per film  astratto, 1943, e delle proiezioni a luce polarizzata, 1958, di Bruno Munari[381], mentre tutte le prove condotte con elementi naturali (molte delle quali realizzate ad Anzola d’Ossola) erano in bianco e nero. Una differenza che sembra rimarcare quella distinzione tra invenzione e reinvenzione che possiamo riconoscere anche nella costante attenzione riservata al tema dei Riflessi, inaugurato da Edward Steichen con Late Afternoon – Venice, 1907[382] e sempre più frequentato a partire almeno dagli anni  Quaranta (Harry Callahan e Siegfried Lauterwasser tra gli altri) come fenomeno generatore di forme graficamente astratte. Una serie di lavori che Paolo Morello ha interpretato come  l’avvio di fatto della “serie delle Astrazioni involontarie”[383], senza considerare appieno, direi, la rilevanza dell’aggettivo: la distinzione fondamentale tra immagini trovate (e quindi  “involontarie”)  e immagini costruite a partire da un elemento di realtà per quanto effimera come un riflesso. La ricezione di quelle immagini da parte del nostrano pubblico delle mostre e delle pubblicazioni fotografiche dovette però essere più che problematica e ciò spiega forse la scarsa diffusione di quelle sue prime sperimentazioni[384], orgogliosamente presentate però come sole protagoniste della mostra inaugurale de Il Diaframma nel marzo del 1967, quando Lanfranco Colombo scelse  una serie di lavori recenti (la sua prima personale dal 1958) per inaugurare la propria galleria milanese[385]. Una  scelta che dà l’esatta misura della considerazione di cui allora godeva Monti e – di riflesso –  di quanto potesse valere il suo nome (quasi un imprimatur) per avviare quell’inedita impresa della cultura fotografica italiana.  Non un’antologica quindi  né tantomeno un’occasione celebrativa, ma la presentazione di lavori in corso, ricerche personali di un autore che con grande coerenza  non intendeva troppo distinguere né tantomeno separare la propria attività professionale dalle sperimentazioni più spinte.  Tutte prove recenti a colori, frutto di doppie esposizioni, filtraggi cromatici e sfocature; ultimi esiti di una ricerca che datava da almeno un decennio.   “In questo vario e affannoso operare [dettato dalle urgenze del lavoro professionale] diventa difficile trovare il tempo per pensare alla fotografia non come mestiere ma come mezzo per esprimere qualcosa di personale. Eppure – scriveva Monti[386] – è necessario: l’unica strada per progredire è fotografare non solo per i committenti ma anche per sé stessi, per amore della fotografia, usando tutte le possibilità della tecnica e tutte le emozioni dell’animo.” “Nella fotografia l’immagine è ‘dentro’ il supporto, dentro come in uno specchio e la carta lucida, quasi metallizzata, contribuisce a questa illusione; così il mezzo più preciso, scientifico di riproduzione della realtà fisica delle cose, ce le presenta spesso come illusorie apparizioni ricche però di una più precisa esterna apparenza. (…) Molte di queste fotografie registrano in parte l’azione del caso (…). Altre fotografie sono il lavoro di ogni giorno”[387].   Spazzati via d’un colpo i sofismi delle iniziative amatoriali, erano ormai altri e più impegnativi i compiti e più raffinati gli strumenti di cui poteva disporre la migliore cultura fotografica italiana, ben testimoniati dalla citazione di Umberto Eco posta in esergo al testo per Il Diaframma, fatta a memoria:  “anche l’utilizzazione del caso ha un’apparenza di atto formativo autentico.”[388] A quella che il semiologo aveva definito come “estetica dell’oggetto trovato” Monti aggiungeva altri elementi, celebrando le “possibilità di questo prodotto scientifico industriale che è la carta fotografica, materiale che io considero vivo come gli alchimisti parlavano del mercurio quale argento vivo. La carta fissa le immagini, registra le tracce, rivela le impronte e i segni e qui sono sperimentate queste varie possibilità e l’ultima, quella del chimigramma, ci riconduce all’esemplare unico uscito dalla cosciente violazione di tutte le consuete norme tecniche.” Il ricorso insistito a termini quali traccia, impronta, segno, conferma le suggestioni culturali di quegli anni, mentre il richiamo esplicito, quasi un appello alla violazione delle regole imposte da quello che Vilém Flusser avrebbe più tardi definito l’apparato fotografico[389], segnava la distanza con le  coeve Verifiche di Ugo Mulas[390].

 

Fotogrammi e chimigrammi

L’interesse di Monti per la fotografia off-camera traspariva già dalle sue prime Intenzioni fotografiche, tra le quali erano compresi anche i “fotogrammi ottenuti per proiezione”; una modalità espressiva poi costantemente praticata nel decennio successivo (tavv. 062, 102,  114, 115) come indicano anche gli esemplari presentati in alcune mostre o inviati a Minor White nel 1957.  Non risulta invece che in quel periodo si dedicasse alla produzione di chimigrammi, che risalgono quasi esclusivamente agli anni Sessanta, come si può desumere da un confronto con i pochi esemplari datati. Quando, nel corso della già citata intervista pubblicata ne “L’Arc” del 1963, venne chiamato a rispondere se “si possa fare della fotografia che sia solo di camera oscura, senza oggetti né materiali (…)? E se sì, che differenza vedrebbe tra fotografia e pittura?”  Monti rispose confermando (ma la domanda a quella data era ormai retorica) che “bisogna dire che è comunque possibile creare immagini di laboratorio che si possono definire astratte utilizzando solo la luce, la carta sensibile e gli agenti chimici, senza alcun intervento ottico o meccanico. Queste immagini sono ‘uniche’ allo stesso modo di un quadro e sembrano dipinti, ma non sono ‘fotografie’. Sono risultati grafici ottenuti con l’ausilio del materiale fotografico e il loro valore artistico dipende dalle capacità dell’autore.” La tipologia di  immagini a cui si riferiva era quella del  “fotogramma [che] è la semplificazione estrema del processo ottico-chimico che dà origine all’immagine fotografica. Nel fotogramma, infatti, viene eliminato l’intervento della fotocamera e nei fotogrammi per contatto viene eliminato anche l’obiettivo dell’ingranditore.” È così possibile comprendere meglio  il senso della negazione precedente e della messa tra apici del termine fotografie, col quale sembrava indicare solo le immagini convenzionali realizzate con un apparecchio fotografico. “Ma esiste ancora una possibilità estrema – aggiungeva – di creare immagini che, almeno etimologicamente, possiamo qualificare come fotografiche, operando solo con l’ausilio della chimica sulla carta sensibile. (…) Naturalmente queste immagini non sono riproducibili: sono monotipi eseguiti con tecnica fotografica”[391]. Erano i chimigrammi o “chimigravure”, come le chiamava Pierre Cordier, di cui Monti possedeva un esemplare della serie Visage, 1966 (tav. 116).

Stabilito che si tratta di immagini per definizione uniche (e fanno amaramente sorridere le tirature commerciali di ‘fotogrammi’), resta indispensabile chiarire le differenze sostanziali, ancor prima che estetiche, tra fotogrammi e chimigrammi, precisando meglio le distinzioni ancora approssimative indicate da Monti. L’elemento determinante è da ricercarsi nella eventuale presenza del referente, dell’oggetto matrice del quale nel fotogramma la luce traccia la presenza contingente,  segna il contatto con la superficie sensibile senza altre mediazioni. Nella grande famiglia dei chimigrammi invece il referente materiale quasi sempre scompare (tavv. 117, 118, 119) . Qui la sola traccia che permane (perché permane, certo, ed è costitutiva) è quella del gesto compiuto dall’autore: gesto che si manifesta nel tracciamento di segni, nelle manipolazioni e nei trattamenti fotochimici e fisici applicati. Sebbene per Monti “il legame indissolubile del fotografo col mondo esterno” rivestisse una “forza morale”[392], nei chimigrammi operava sulla specifica materialità e potenzialità delle emulsioni, senza rimandi ulteriori. Senza alcuna narrazione, senza porre in atto alcuna ‘astrazione’ dalla realtà; senza nessuna intenzione né possibilità di registrare un tempo che non fosse il qui ed ora della sua realizzazione. Qualcosa che li avvicinava (al di là delle apparenze) proprio alla pittura informale, che “conosce solo la dimensione del presente, non cerca un prima e un dopo alla fisicità cruda e alienante della materia e del gesto”[393].  Per questo le fotografie che ne risultarono non possono definirsi altrimenti che concrete, poiché “il concreto è il non astratto”, come scriveva Max Bense[394]. Stampe materiche, sebbene la materia sia forse difficile da discernere di primo acchito, compressa com’è nello spessore infinitesimale dell’emulsione, emergendo solo (semmai) in aree distinte per diversa diffrazione della luce, dove i prodotti chimici l’hanno più fortemente incisa o condensata d’argento. Opere che implicano e ci impongono una relazione diversa per poterle comprendere appieno; che obbligano al confronto diretto e certo impoverite da ogni operazione di riproduzione, per quanto inevitabile per la loro diffusione e conoscenza. Il numero sette di “Imago” (1965), il bellissimo periodico pubblicato da Bassoli Fotoincisioni con la direzione artistica di Michele Provinciali,  conteneva tra altre cose una cartellina con otto tavole fotografiche a colori, poste sotto il titolo Chimigrammi (Paolo Monti tra fotografia e pittura), così presentate da Antonio Arcari: “Sulla scia delle proposte avanzate da Weston e Siskind, Moholy-Nagy e Man Ray, Heinz Hajek-Halke e la Subjektive, il fotografo-pittore ci presenta 8 immagini nuove, uniche, irripetibili, preziose”[395], corredate da un breve testo dell’autore[396] che riproponeva concetti e considerazioni già espresse nell’intervista citata. Esito inevitabile dell’incongrua congerie di riferimenti avanzati da Arcari era la lettura equivoca di quei lavori, testimonianza evidente della difficoltà di maneggiare criticamente questa categoria di immagini, rivelata del resto anche dalla loro collocazione “tra fotografia e pittura” e dalla sorprendente qualificazione dell’autore come “fotografo-pittore”[397], per certi versi avallata  dallo stesso Monti. Era la stessa difficoltà mostrata pochi anni prima da Turroni nel presentare analoghe opere di Migliori[398], quando piuttosto singolarmente sosteneva che “per vedere e analizzare queste foto astratte di Antonio Migliori nella loro giusta luce, non occorrono né una cultura né una intelligenza speciali”. Concezione quantomeno curiosa, che riduceva quei lavori a semplici “esperimenti (…) al di fuori di ogni considerazione critica o estetica”, accostandoli alle opere dei fratelli Pomodoro,  “che sono i meccanici e i fabbri della pittura”, e al dripping di “Pollock che, come un imbianchino impazzito, spruzza colori e vernici su tele enormi (…). Sono figure di artisti moderni che (…) intendono esprimere il gusto d’oggi incerto e caotico, sfuggente e allarmante, in bilico tra l’indifferenza morale alle voci dello spirito e l’ossessione di nuove forme, nuove strutture, nuovi esperimenti. (…) Consideriamo ora queste foto di Migliori. Ne dobbiamo dare un giudizio estetico? Preferiremmo di no. Ci interessa, per contro, la testimonianza di questo esperimento, e la dimostrazione di un duplice scambio: pittura-fotografia, fotografia-pittura”, che è  quanto avrebbe rimarcato Arcari alcuni anni dopo. Di quello scambio presunto potrebbe essere testimonianza un raro esempio di disegno di Monti riferibile ai chimigrammi (tav. 120), ma  credo invece che esso  debba essere inteso come elemento di un procedere, di un processo di progettazione e previsualizzazione all’interno del quale era anche possibile  “controllare almeno al settanta per cento i diversi toni di colore, anche in termini di ripetitività in sperimentazioni successive”[399].  Una pratica – non sappiamo quanto sistematica – che riduceva in parte l’aleatorietà del processo e che trovava riscontro (certo solo come procedura) nella progettualità di Hans Hartung[400]. Una modalità operativa che pare confermata da un gruppo di chimigrammi non datati (tavv. 121, 122, 123) che per la ricorsività dello schema compositivo si presentano come vere e proprie variazioni sul tema, come esiti di un’indagine specifica sulle possibili metamorfosi dei materiali che già aveva improntato il lavoro per la Sandoz nel 1959, ottenuti adottando specifiche modalità di intervento, sulle quali sarebbe tornato in una più tarda intervista[401]. “Brucio la carta – spiegava Monti  a proposito dei chimigrammi – esponendola migliaia di volte più del necessario. Una esposizione di mezz’ora al sole provoca evidentemente delle trasformazioni nei sali d’argento perché poi, toccandola appena con un rivelatore, si generano delle tinte color ruggine, bellissime. (…)  è necessario alternare l’uso del rivelatore con quello del fissaggio, tamponare l’uno con l’altro. I migliori risultati sì ottengono così. (…)  si possono ottenere tinte ruggine, bluastre, rosate. (…)  Esponendo i fogli a sorgenti di calore si hanno grossi fenomeni di ossidazione. I colori più straordinari compaiono sulle carte lucide normali (…), non finirò mai di meravigliarmi nel vedere come possano apparire così belle tonalità cromatiche su materiali concepiti per il bianconero. (…)  Una strada da tentare è quella di una rielaborazione di immagini stampate tradizionalmente, secondo tutte le regole, ma fissate solo parzialmente: un supporto nuovo per operare un chimigramma. È  una avventura fatta di spugnature sullo sfondo, di batuffoli di cotone imbevuti di rivelatori a concentrazione e temperatura diverse, di acidi molto densi oppure magari corretti con coloranti.”  L’esito di quelle prove costituisce un corpus di immagini, datate tra il 1960 e il 1970[402], in cui (specie tra le prime) chimigrammi puri si alternavano a loro combinazioni con fotogrammi di elementi naturali (fiori, le amatissime felci di talbotiana memoria) che lui chiamava significativamente “impronte” (tav. 124), figure che ricordavano “quasi un fossile” (tav. 125). Quelli successivi erano privi di elementi referenziali, e quindi figurativi, e certo vivevano di infinite, possibili analogie con molta produzione pittorica coeva (da Jean Fautrier a Toti Scialoja, per fare solo due nomi), ma senza quella drammaticità esistenziale e concettuale che le era propria. Altri esemplari più tardi, intorno o dopo il 1965, erano invece decisamente gestuali (tavv. 126, 127): pure esplosioni di segni e colature tracciate dai chimici sulle superfici sensibili. È in questo misurarsi con la materia della fotografia più che nella loro apparenza che possiamo comprendere le possibili analogie con le diverse declinazioni della pittura informale, da confrontare (in una futura indagine) con quanto – almeno in Italia[403] – andavano facendo autori come il già citato Migliori  o Pasquale de Antonis, più noto come ritrattista e fotografo di moda, ma autore anche di fotografie astratte e chimigrammi che vennero presentati a Roma, presso la Galleria L’Obelisco, nel 1951 e nel 1957, sebbene con modalità che certo ne sminuivano il valore e la forza, se Leonardo Sinisgalli poteva descriverli come “divertissement photographyques (…) un passatempo dentro la sua fatica, l’hobby dentro il suo job”[404]. A questi nomi va certamente aggiunto quello di Enrico Genovesi, che fu  direttore di “Diorama”[405] e autore di una serie di notevoli fotogrammi pubblicati in Nuova fotografia italiana (pp.103-109), di cui curò anche l’impaginazione e progettò la sovracoperta.  A proposito di questi lavori Turroni parlava di “sperimentalismo che non ha nulla di schematico (…).  Questo interesse per l’informale’ è mutuato dalla pittura più che dalla subjective photographie; anche in questo caso l’esempio di Monti appare decisivo. Da esso peraltro Genovesi si discosta con modi e forme autonomi (…),  ci restituisce in un ambito immediato il sapore di una nuova visione della realtà, di un più acceso interesse della fotografia verso la sensibilità contemporanea. I fotogrammi di Genovesi sono in tal senso degni di nota. Pensate a una fotografia spuria, che abbia perduto le ragioni del proprio operare  ‘facile’, commerciale o emotivo, e che al tempo stesso abbia incontrato le sorgenti di significati assolutamente liberi, svincolati dalla ingenua trafila dei giochi astratti. Pensate a un ‘informalismo’ che esula dai limiti dell’immagine e si arricchisce di introspezioni delicate. Siamo di fronte a una ‘materia’ che respira, che si riverbera in incanto cosmico, di plastica e ‘naturale’ bellezza”[406]. Una chiusa ‘poetica’ che mostrava ancora una volta l’incapacità di accogliere il senso di quelle operazioni, che muovevano semmai dalle ragioni esplicitate da Chargesheimer nella conferenza milanese del 1950: “l’uomo ha scoperto il caos e segue l’impulso creativo per dargli forma. Il caos lo costringe verso la  pura forma, verso la forma primaria delle cose. Allo stesso modo mi ha spinto a liberare la forma sconosciuta della materia. Il mio sforzo era quello di produrre coscientemente questa contingenza e di esercitare un preciso controllo sul suo andamento. (…) una composizione libera di linee e superfici, e per includere tutte le occasioni del caso in queste composizioni. Gli strumenti sono diversi e possono solo essere utilizzati intuitivamente: agitare, strofinare, graffiare, raffreddare, riscaldare, utilizzo di acidi, basi (…) solo per citarne alcuni”[407].  In una testimonianza di molto successiva[408] Monti avrebbe assunto una posizione più incerta, quasi revisionista, dapprima rivendicando orgogliosamente di aver esposto alcuni fotogrammi  “a Venezia che hanno avuto un certo successo e di cui ha parlato abbastanza bene Carluccio” (“ Le macchie, le corrosioni, gli strappi sono momenti attivi del caso che trovano nei chimigrammi precise rispondenze e una profonda rigenerazione”[409]), per ridimensionarne  drasticamente poi il senso e il valore, ricordando che  “questi fatti che sembrano lontani dalla vera fotografia fatta con la macchina fotografica, invece non lo sono  perché tutti questi esperimenti servono poi a stampare meglio, a comporre meglio sia nel quadrato che nel rettangolo che nelle altre forme; creando queste forme anche a mano s’impara poi a farle attraverso la macchina fotografica, attraverso un mirino”. Un’altra manifestazione di understatement montiamo diremmo, essendo difficile ridurre al rango di semplice esercizio il migliaio di prove che ci sono pervenute o la stessa loro pubblicazione su “Imago”, ma non si può neppure – come ha fatto Valtorta[410] – parlare  di “ ‘provocazione’, probabilmente, alla radice delle esperienze astratte e delle sperimentazioni (…) iniziate da Monti per gioco ma comunque condotte sempre con lo stesso rigore tipico della produzione professionale e di ricerca.” Né provocazione né gioco, ma neppure realizzazioni strumentali “che poi rivende all’industria, in ragione del forte impatto visivo, del potere di evocazione, ed anche di una certa disponibilità che queste immagini hanno ad accogliere grafica ed iscrizioni”[411].  Consultando l’archivio Monti è facile verificare che quando ciò è accaduto si trattava sempre di fotogrammi (le posate di Ponti, tav. 128) o di doppie esposizioni, né si può accostare a quelli il lavoro condotto nei laboratori Sandoz, che fu tutt’altra cosa in termini sia tecnici che concettuali. Non appare neppure plausibile l’ipotesi che i chimigrammi fossero legati “a quella distruzione della forma che ha avviato già nei primi anni a Venezia”[412]. Si trattava semmai – all’opposto –  di costruzione di nuovi  oggetti visuali, di generazione di inedite porzioni di realtà, non di distruzione condotta “per strappare un segreto alle cose”[413].  Più pertinente e centrata la notazione critica, anonima ma verosimilmente attribuibile ad Arcari, contenuta nella bozza di progetto di mostra dedicata a Paolo Monti, poi non realizzata, in cui si riconosceva che le “ricerche e sperimentazioni (…) non sono state solo un modo di provare strumenti e materiali, di collaudarne le qualità, di conoscerne la duttilità, ma di verificare la possibilità del proprio mezzo linguistico nell’adeguarsi alle tendenze artistiche del nostro tempo: astrattismo, ricerca materica, informale”[414].

 

“Ritratti/ Artisti”

La presenza di questa categoria nel soggettario di Monti conferma la rilevanza che riconosceva a quei lavori ben oltre il semplice incarico professionale, come testimonia anche la loro ricorrente presentazione in mostre nazionali e internazionali, da Spilimbergo a Bordeaux  e Rochester, e la  ricca antologia che ne fece Giuseppe Turroni per il suo volume del 1959[415].  Al suo arrivo a Milano Monti aveva potuto contare su di un’importante conoscenza, un altro membro della diaspora veneziana attratto dalle possibilità milanesi come Carlo Cardazzo (a sua volta possibile tramite di conoscenza con Carlo Scarpa[416]) che nel 1946 aveva aperto in città la Galleria del Naviglio  per estendere l’impresa avviata con la  veneziana Galleria del Cavallino (1942), poi diretta dal fratello Renato[417]. Primo frutto di quella collaborazione fu il volume del 1954 dedicato a  Capogrossi, con testo di Michel Seuphor, che originava dalla mostra alla galleria milanese dell’anno precedente. Negli anni successivi, in un momento in cui il ricorso alla fotografia si avviava a costituire la privilegiata strategia di comunicazione del mercato dell’arte,  i contatti si estesero ad altre gallerie come la milanese Galleria del Milione, per la quale documentò specialmente lavori di scultori (Milani, Minguzzi, Negri), la filiale romana della Marlborough o la  De’ Foscherari a Bologna per le quali Monti realizzava non solo riproduzioni delle opere destinate ai cataloghi e alle riviste d’arte, ma anche cronache degli allestimenti, dei vernissage (tav. 129) e ritratti ambientati negli studi degli artisti.Non considerando la lunga serie dedicata alla nipote, fondata su presupposti diversi, Monti si misurava col genere del ritratto dichiarando che le sue simpatie, quindi le sue intenzioni e motivazioni andavano a quello “psicologico”[418], sebbene precisasse poi (ma molto più tardi) che “quando faccio delle foto sono molto cinico, per me una testa è un oggetto, quel che mi interessa quando riprendo un personaggio sono i rapporti di luce, poi considero l’uomo: senza un certo distacco non si riesce a fare i ritratti”[419]. Un’impostazione convintamente  “soggettiva” si direbbe,  sebbene poi proprio quelle fotografie  non incontrassero l’approvazione di Steinert che per Subjektive Fotografie 2[420] del 1954 scelse “tre Venezia e nessun ritratto”, “ ciò che – chiosava Monti – mi ha messo un sospetto e cioè che voglia restar solo a esporre ritratti steineriani”[421], ammesso e non concesso che quelli di Monti avessero qualcosa a che fare con quelli del collega tedesco. “Nel complesso non mi pare che a Saarbrücken sarò neppure rappresentato con quelle cose che io ritengo più alte.” “Hai visto il nuovo Subjektive? Anche questo inferiore al primo perché Steinert sta spingendo le sue tendenze grafiche alle estreme e quindi false conseguenze”[422]. Cosa potesse intendere per e come potesse coniugare indagine psicologica e composizione formale lo si può meglio comprendere studiando proprio i ritratti di artisti, caratterizzati da soluzioni ogni volta diverse ma accomunate in una formula che prevedeva la compresenza di un’opera a fare da sfondo, da contesto o da interlocutore muto, allo scopo di connotare precisamente il soggetto.Significativo in tal senso quello di Umberto Milani[423], ridotto ad un’ombra portata sulla Plastica parietale da lui realizzata per il Padiglione del Soggiorno alla X Triennale (1954); quello “nucleare” e quasi disintegrato di Enrico Baj (tav. 132) o quello di Arnaldo Pomodoro al lavoro[424] (quasi un’eccezione nella produzione di Monti), mentre erano alcune irriconoscibili forme evanescenti a caratterizzare quello del compositore e direttore d’orchestra Bruno Bogo (tav. 133). Una soluzione non lontana da quella adottata per il ritratto di Bruno Contenotte, (tav. 134), il volto ridotto quasi a maschera disposto su di uno  sfondo nero attraversato da scie  luminose, richiamando così la specificità dei suoi lavori[425].  “Quando fotografo uno di questi tanti pittori  – scriveva all’amico Ferroni – posso dimenticare che ho davanti a me un arrivista con la testa vuota, il cuore secco, un animo da pezzente che raccatta i rifiuti di Picasso e di Klee per essere ‘moderno’? E allora li faccio uscire come si meritano con quelle facce da semidegenerati che sembra essere la maschera di almeno il cinquanta per cento del milanese medio. E faccio loro ancora un onore perché li idealizzo in una maschera, mentre potrei accontentarmi di farli reali come fantocci. Per questo a loro i miei ritratti piacciono, qualche volta invero un po’ a denti stretti, ma non hanno il coraggio di dirmelo”[426]. Dichiarazione tanto sincera quanto sottilmente compiaciuta se è vero che proprio quello era considerato il genere in cui raggiungeva “una più compiuta espressione (…).  Non sono i suoi i soliti ritratti decorativi che sollecitano la vanità del soggetto, ma piuttosto stati d’animo presentati con una potente trasfigurazione realistica”[427], ovvero –  come scriveva  Turroni, fraintendendo in parte – “Monti non voleva accontentare questi artisti bensì mostrarceli in una luce positiva, vera, senza finzioni e sovrastrutture”[428]. Quel suo giudizio tremendo e certo ingeneroso nella sua generalizzazione risultava poi quasi incomprensibile se pensiamo che quasi negli stessi giorni si augurava “che nelle giurie fotografiche entrino anche artisti, collezionisti, critici d’arte e poeti”[429]. Un giudizio forse non estraneo a una concezione, a una dinamica culturale e sociale che ancora collocava il fotografo ad un livello di puro servizio, della quale Monti doveva essere dolorosamente consapevole:  “Insomma – scriveva a Parmiani [430] – la fotografia intesa come Dio comanda è una grandissima e degnissima e bellissima cosa, alla faccia di quella innumerevole legione di pittori e scultori stronzi, che ancora guardano a noi come ai servi sciocchi del vero e del reale.” E ancora, in uno dei suoi più tardi Appunti e disappunti  era costretto a constatare che “non vediamo mai ritratti scattati da fotografi italiani fatti con quel minimo di cattiveria che spesso assicura un buon risultato: più o meno c’è sempre un ossequio al personaggio. (…) Si teme il vilipendio del personaggio? Forse la ragione è diversa; il fotografo da noi non ha ancora lo status sociale che gli permetta di essere almeno moderatamente insolente. Guadagna bene ma se ne stia buono e tranquillo; resta però il fatto che senza acido non si fanno acqueforti”[431].  Credo sia stato Cesare Colombo[432] a riconoscergli per primo quella “ben nota costante di amarezza… quasi un risvolto di una personale posizione nei confronti della vita stessa”, tale che “il calore degli incontri è sempre serrato in certe mediazioni espressionistiche”, suggerendo nel contempo che nelle sue figure fossero presenti “la ritrattistica rinascimentale, e l’ottocento fotografico franco-inglese”, sebbene – credo – queste non possano esaurire l’orizzonte della specificità dei suoi ritratti, sempre lontani  dalla “messa in scena dell’artista in azione”[433] com’era invece in Mulas. A considerarli nel loro insieme si colgono suggestioni provenienti da fonti diverse, da Florence Henri[434], in particolare i suoi ritratti di Jean Arp e di Robert Delaunay della metà degli anni Trenta, alle fotografie di scena pubblicate da una rivista come “Ferrania” e magari al “cinema d’arte di Eisenstein e Dupont, [essendo Monti] lettore provveduto di scritture e cifre ermetiche (accolte nella loro motivazione polemica)” come scriveva  Turroni[435], seguito in questo da un altro sodale come Anche Emiliani[436], che lo ricordava   “divoratore cinematografico, così come digeriva ogni forma del visivo e del figurativo, sfogliando libri con quell’aria di mestiere – sempre interessata, talvolta appena perplessa – che io avevo già visto sulla faccia assorta di Roberto Longhi.” Non aiutano a comprendere meglio la poetica dei suoi ritratti neppure le riflessioni sul tema che espresse nel 1963 sulle pagine di “Camera” celandosi sotto lo pseudonimo di Paul Bergen[437], con una selezione di immagini che nulla avevano a che vedere con la sua produzione ritrattistica e rimandavano semmai ai più convenzionali ritratti da studio. Qui  Monti intendeva semmai  indagarne le caratteristiche dal punto di vista storico culturale e sociale più che esplicitamente estetico, “perché bisogna rendersi conto, se necessario, che limitare il ritratto ai soli aspetti estetici, tecnici ed economici del lavoro in studio equivale a rinchiudersi in uno schema tradizionale, estraneo all’evoluzione estetico-tecnica della fotografia e alle sue dimensioni sociali e commerciali. (…) Lungo tutta la storia della fotografia si osserva la correlazione tra le forme socio-economiche e le forme estetiche di una data epoca, tanto è vero che tutte le società tendono a considerare le proprie funzioni sociali nelle arti.  E sebbene questi elementi sociali siano antiestetici, estranei all’arte, agli occhi di chi vuole creare un’opera che sia individuale nell’essenza e singolare per definizione – e hanno ragione nella misura in cui ci riescono – è riferendosi ai fattori tempo, ambiente e moda che cercheremo di circoscrivere la questione del ritratto. Tempo, ambiente, modalità, abbiamo detto; vuol dire già parlare di ‘stile’. E sappiamo tutti che il periodo della ricerca, il periodo dell’affermazione e il periodo di esaurimento di uno ‘stile’ sono ben più rapidamente transitori in fotografia che in qualsiasi altra forma espressiva. Inoltre, la permanenza di uno ‘stile’ è legata alla sua funzionalità, che a sua volta dipende strettamente dal gusto dell’utente e anche dalle esigenze utilitaristiche che il ritratto soddisfa in quanto rappresentazione nell’attuale circuito socio-economico.” Una lettura socioculturale e materialista, forse influenzata dal saggio di Arnold Hauser pubblicato in Italia qualche anno prima[438].

 

A proposito di pubblicità

Era “agli uomini del mestiere” che si rivolgeva in quell’occasione, quindi le ragioni di poetica furono  messe da parte a fronte delle più prosaiche e impellenti questioni poste dalla pratica professionale, e in particolare dalla sua qualificazione. Come ha ricordato Cesare Colombo[439],  “la battaglia di Monti alla guida dell’Associazione Professionale AFIP era rivolta a contrastare l’antica condizione subalterna del fotografo verso il committente. Egli sapeva contrapporre la propria erudizione personale a quella degli editori, degli architetti, dei dirigenti pubblici con cui operava (…). I committenti del suo lavoro professionale, che frequentavano il suo Studio 22 a Milano[440], in corso Sempione, riconoscevano in lui un interlocutore particolare. Egli padroneggiava il sistema tecnico di ripresa e di laboratorio (di quegli anni) come molti colleghi… ma sviluppava una dialettica, una personale cultura della comunicazione visiva come nessun altro.”  È stato lo stesso Monti a illustrare il contesto in cui si svolgeva l’attività professionale, a Milano e non solo: “Ho fatto dei lavori per agenzie pubblicitarie che hanno proprie sedi, propri laboratori fotografici e anche che non ne hanno affatto” – notava nel 1959 – “Qui il problema è sempre la serietà dell’agenzia. Ci sono delle agenzie serie le quali non accettano per esempio di fare un cartellone in dodici ore, ma ce ne sono di quelle che accettano di farlo anche in sei; e qui è questione di concorrenza, è questione anche di un malinteso spirito di milanesismo per cui il dover fare in fretta sarebbe la tipica dote di Milano, mentre la tipica dote di Milano è quella di fare molte cose in fretta e anche male, e di farne molte con il tempo dovuto e anche benissimo. Se dovessi fare una critica all’attività fotografica pubblicitaria milanese, dovrei essere piuttosto acerbo: in complesso mi sono visto sempre presentare del lavoro da fare in poche ore, il che dimostra fra l’altro che la famosa organizzazione milanese commerciale non è affatto organizzata. Perché quando una campagna pubblicitaria si deve improvvisare in pochi giorni, e quindi si deve dare pochi giorni al grafico, pochi giorni a quello che fa gli slogan e poche ore al fotografo, vuol dire che non si è arrivati in tempo a prevedere il programma commerciale con il dovuto anticipo; il che vuol dire una cattiva organizzazione.  Ora, quando si pensi che una campagna pubblicitaria può costare ad esempio mezzo miliardo, e poi, dopo aver speso mezzo miliardo, si vuole che il fotografo faccia fotografie per venti o trenta mila lire, si capisce subito la stupidità di una impostazione di questo genere, che deriva non tanto dal mal volere delle agenzie, dal mal volere dei servizi commerciali delle grandi società, quanto dall’infantilismo con cui viene considerata la fotografia. La fotografia è solo una cosa che si può fare in fretta, la fotografia non ha niente di difficile, la fotografia è la macchina che la fa, è una cosa meccanizzata; aspettiamo il can barbone che faccia fotografie o lo scimmione organizzato a far fotografie in tempo rapidissimo, e poi molti milanesi saranno soddisfatti. Non saranno soddisfatti i fotografi”[441].  Questa risentita descrizione delle condizioni di lavoro, formulata in occasione del Convegno di Sesto San Giovanni del 1959, era stata sollecitata dall’intervento di Cesare Colombo dedicato alla fotografia pubblicitaria[442]  e in particolare alla spinosa questione del  “ grande problema morale della pubblicità”. “Mi era sembrato di capire – affermava Colombo – che alcuni componenti della Giuria qui alla Rassegna avevano espresso delle riserve sulla «moralità» appunto delle foto pubblicitarie esposte, con particolari accuse al clima artificioso. E credo allora doveroso chiarire che se è ineliminabile il senso fondamentale di ottimismo, forse di retorica euforia, presente nelle foto destinate ai messaggi propagandistici, vi è tuttavia da porre l’accento sulla sincerità essenziale di tali atteggiamenti. Le figure femminili che oggi presentano i prodotti più disparati (…) ridono, sorridono; ma questa forma di esagerazione euforica, possiamo dire anche di incoscienza, che alcuni ritengono colpa del pubblicitario, non significa necessariamente una evasione colpevole dalla realtà, una menzogna. Il problema verità-bugia (…) può essere in verità ben risolto dal mezzo fotografico. La presenza concreta della realtà alla base della fotografia dovrebbe garantire una certa pulizia morale al messaggio… È vero che una ragazza o un giovane abbronzato ci presentano saponette, lame da barba, minestrine, con faccia stereotipata, con espressione fasulla, fastidiosa magari: ma questo non è imbroglio, perché insomma se la fotografia sorriderà è perché la realtà ha sorriso in quel modo; i modelli sono esistiti così davanti all’obiettivo, sì sono comportati così… ci può quindi essere uno sbaglio loro o del pubblicitario, ma non mai una totale contraffazione.” Un esempio da manuale di falsa coscienza ideologica diremmo, subito contestata da Monti con un fare tanto sornione quanto radicale: “Sulla fotografia pubblicitaria non avrei molto da aggiungere a quello che ha detto Colombo tranne alcune osservazioni di carattere marginale. La prima è questa, che non è poi tanto marginale. Sulla moralità della fotografia pubblicitaria ci sarebbe molto da dire. Indubbiamente molta fotografia pubblicitaria oggi si basa su dei riflessi condizionati di natura freudiana: quando si arriva a far propagandare le lame da barba da una bella ragazza che ci fa vedere le gambe evidentemente non siamo più nel campo della moralità, nel campo in cui ci dice Colombo, anche se le gambe sono realmente esistite, anche se la ragazza bella ci sorride volonterosamente”. Non si trattava di riflessioni astratte ma derivate dalla sua esperienza professionale, da quei lavori “di pagine pubblicitarie dove la possibilità di solleticare l’estro e le meningi è molto forte” [443] che tanto lo avevano attratto nei primissimi anni milanesi ma che potevano anche riservare diverse sorprese. Mi riferisco alla messa in fotografia della “sceneggiatura” predisposta nel 1958 per una campagna pubblicitaria della J. W. Thompson di Londra relativa a una saponetta, da sottoporre a Monti,  considerato dai pubblicitari  “un tale artista e una persona di tale gusto e cultura che spero possa dare ad una fotografia di questo genere un sapore e una qualità molto interessante”[444]. Gli abbozzi di sceneggiatura della posa fotografica scambiati tra il referente inglese [Willie]  e il suo corrispondente italiano, l’architetto  Giancarlo Pozzi[445] prevedevano tra le altre “un bagno nel mezzo di un giardino? Una fontana di marmi colorati con piante?”, ovvero una “Inquadratura astratta, della ragazza immersa in acqua, realizzata fotografando dall’esterno in una vasca di cristallo”, senza escludere la possibile “ambientazione con una foca che gioca con la ragazza, o che tiene la saponetta (eventualmente ingrandita) in equilibrio sul muso”. Accanto e prima della questione morale però si poneva per Monti quella della scarsa qualificazione professionale  (“Si diventa fotografi in Italia senza nessuna preparazione; si può fare il fotografo come si potrebbe fare il venditore ambulante”)[446], certificata anche dal mancato invito all’Associazione artigiana dei fotografi italiani a partecipare alla prima assemblea generale di Europhot (The Council of the Professional Photographers of Europe) dell’ottobre del 1959. Fu quello il fattore scatenante che indusse alcuni professionisti milanesi[447] a fondare nel 1960 l’AFIP – Associazione Fotografi Italiani Professionisti,  negli stessi mesi in cui  “Camera”  diveniva l’organo ufficiale dell’istituzione europea, modificando la testata in “Camera Europhot”. Su quelle pagine Monti avrebbe poi pubblicato  un lungo articolo sul tema[448] che  dopo un sintetico richiamo alla situazione statunitense, dove “la fotografia è entrata a far parte delle abitudini e delle scuole sino a divenire una delle  materie obbligatorie dell’istruzione tecnica e degli studi specialistici” e “le condizioni di lavoro in un paese altamente industrializzato con un’ economia di massa non potevano avere che effetti favorevoli sul livello socio-economico della professione”, affrontava in veloce sintesi storica le conseguenze sul piano della cultura fotografica che “la grande emigrazione provocata dall’ascesa di Hitler che svuotò la Germania dei suoi migliori talenti a favore di altri paesi, compresa l’America, che accogliendoli trassero vantaggio dalla loro considerevole contributo. Se ci si chiede cosa stesse succedendo in Italia mentre altrove si ‘reinventava’ la fotografia, la risposta non può che essere negativa. Solo alcuni ritrattisti, come Sommariva, e una manciata di fotografi documentari o di architettura sfuggirono al clima di sterilità che si era instaurato. Per quel che riguarda la ricerca sperimentale, i lavori di A.G. Bragaglia a sostegno del suo manifesto della “fotodinamica futurista” è stato l’unico fatto degno di attenzione. Ma questa impresa, pur anticipando di vent’anni alcune idee e realizzazioni del Bauhaus, non figura in nessuna storia della fotografia [449]. (…) Quindi potremmo sorvolare sul periodo fino agli anni Cinquanta, quando si fecero sentire gli effetti derivanti dai grandi cambiamenti nella vita politica, sociale, economica e culturale del Paese. (…) Tuttavia, se questa fase di transizione è stata superata rapidamente nonostante il peso del passato, ciò è dovuto agli sforzi di aggiornamento  estetico e tecnico dell’intera professione, nonché all’ingresso di una generazione di ‘dilettanti’ molto evoluti in termini di cultura visiva.[450] Da questo punto di vista, Milano ha svolto il ruolo di catalizzatore. (…) È in questo contesto che l’AFIP (Associazione Italiana Fotografi Professionisti), membro di Europhot, è stata fondata a Milano da un gruppo di fotografi professionalmente qualificati. Il suo scopo è di operare per elevare il livello della professione e difenderla, per definire una deontologia[451], per promuovere iniziative culturali e scambi con l’estero. Programma ambizioso, difficile da applicare.” Nella redazione originale[452] il testo si concludeva analizzando  la questione dei costi: “Si può dire che si conosce il prodotto ma non il suo costo. Nel costo generale di una campagna pubblicitaria, la percentuale di spese destinate alla fotografia si può valutare da un terzo a oltre un decimo delle percentuali americane. Questi squilibri sono inevitabili in una economia di recente e rapido sviluppo, dove il gioco competitivo falsa i rapporti di prezzo dei vari fattori che concorrono alla produzione e alla vendita. Bisogna peraltro riconoscere che negli ultimi tre anni, la situazione è molto migliorata: merito comune di committenti e fotografi ma soprattutto di questi ultimi, che non hanno esitato a investire molti capitali in studi e laboratori che oggi sono fra i migliori d’Europa e che possono soddisfare più che largamente i bisogni di oggi e di domani. Condizione evidente  [sic] molto vantaggiosa per una industria in espansione e per una pubblicità che naturalmente tende a diventare sempre più efficace e differenziata.” Grandi petizioni di principio convivevano con la razionale consapevolezza che quelle fotografie, che rappresentavano “il lavoro di ogni giorno” non fossero altro che “ il materiale di consumo dell’industria e della editoria per l’appagamento dell’universale e inesausto voyeurismo[453] dell’epoca: lavoro fatto di tecnica e di intuito formale, di esperienza e di improvvisazione, con la certezza che a castigare la nostra vanità, questi rettangoli di carta andranno veramente al consumo, alla distruzione”[454].  Forse era proprio la consapevolezza della ineluttabile consunzione consumistica e finale che lo portava a non andare oltre una corretta, convenzionale definizione di questa tipologia di immagini, a volte consentendosi però una qualche suggestione Pop (tav. 136), specie quelle destinate alle pagine dei periodici,  che facevano variamente ricorso alla presenza della figura umana, come quelle per la Lavanda Bertelli (tav. 137), per i nastri magnetici Agfa (tav. 138) o le macchine da cucire Singer (tavv. 139, 140): tutti casi nei quali  la messa in pagina prevedeva un semplice accostamento per sommatoria al messaggio testuale, confidando – ma certo in modo piano e quasi familiare – su quei “riflessi condizionati di natura freudiana” ai quali aveva fatto riferimento nel suo intervento a Sesto San Giovanni: “un fatto di carattere commerciale che si affida soprattutto a quella specie di magma indifferenziato che è nell’interno dell’uomo comune per cui si vede sempre sollecitato quando, o per le lamette da barba, o per una cravatta o per altro, c’è questa immagine femminile che si rapporta a una specie di erotismo più e meno qualificabile e che è comune a tutti gli uomini. Ora qui ci sarebbe da fare uno studio di psicologia di massa e probabilmente si arriverebbe a questo risultato. Che si tratta in sostanza di una grande frustrazione (…)”. Analoghe riserve dovevano riguardare la sua modesta produzione di fotografie di moda: niente a che vedere con quella dei suoi colleghi ‘milanesi’ come Gian Paolo Barbieri o Ugo Mulas o persino Gianni Berengo Gardin[455]. Forse una questione di committenza (quelle di Monti non appartenevano all’universo delle  grandi firme) ma anche di scarsa sensibilità per il genere, che pure conosceva bene non fosse altro che attraverso le Biennali di Fotografia. Monti non era tra quei fotografi che “ora in possesso di uno stile personale, di un mondo espressivo da far vedere e ammirare, abbiano, nella loro prima giovinezza o comunque nello stadio di preparazione tecnica e formale, guardato ai fotografi di «Vogue» come un modello irripetibile (diciamolo pure: la parola si usava dieci anni fa), come una linea di bellezza fotografica difficilmente raggiungibile, come una prova di raffinatezza e di gusto. E non solo per le belle fotografie in sé ma per quello che le fotografie implicavano di idee, di critica a un costume, di dialettica insomma”[456]. Senza scomodare le prime analisi sul sistema della moda di Roland Barthes, che proprio sul finire degli anni Cinquanta avanzava “l’idea di una vera e propria semiologia del vestito”[457], si potrebbe dire che troppo era il razionale disincanto di Monti rispetto a quell’universo, forse anche per ragioni etiche, insufficiente quindi la sua adesione (anche solo superficiale) per consentirgli di andare oltre un onesto mestiere. Quando si trattava di arredi (Arflex, Tecno), nella più parte dei casi le sue fotografie poi non si discostavano dall’ampia produzione realizzata per le varie edizioni della Triennale; non riuscivano a possedere un’identità connotativa come accadeva tipicamente nei lavori dello Studio Ballo o di  Giorgio Casali. Quelle  che oggi ci appaiono come le sue prove più convincenti in questo settore, anche per le relazioni strette con le sue ricerche più personali, sono  i fotogrammi e i fotomontaggi, che si inserivano in una ‘tradizione’ lunga della grafica milanese: da Luigi Veronesi a Max Huber[458], che fin dal primi anni del dopoguerra aveva curato l’immagine coordinata della società Braendli, per la quale lavorò Monti negli anni Sessanta realizzando anche due cataloghi a colori[459]. Più proficuo e lungo il rapporto con Albe Steiner[460], al quale fornì tra le altre le fotografie per una pubblicazione dedicata al Vetrotessile (tavv. 141, 142)[461], dove la bella impaginazione accostava immagini dei materiali, di forte impatto grafico, con riprese degli stabilimenti e dei cicli di produzione. Certo fu quella l’occasione per sviluppare anche proprie ricerche personali (tav. 143), tra le quali un Fotogramma da fibre di vetro (tav. 115), che rientrava però in una piccola serie di analoghe soluzioni adottate in occasioni diverse, quali  il già citato fotogramma ottenuto con le posate disegnate da Gio Ponti, 1958 (tav. 128) [462] o le due ambientazioni di gioielli di Arnaldo Pomodoro, del 1955, per le quali utilizzò in sovrimpressione una parte della Grande roccia solarizzata (tav. 144)[463].

 

 “Un certo Monti”

Quella sua volontà caparbia, profondamente motivata di coniugare lavoro professionale e sperimentazione che tutti riconoscevano quale sua specifica caratteristica, quel suo “interesse indiscriminato per immagini tra loro differentissime”[464] emergeva chiaramente anche dalla selezione delle opere presentate alle personali.  Così nel 1954 a Roma,  accanto alla riproposizione di fotografie già note comparivano due evidenti novità legate alla sua recente attività professionale come Copertina per uno scultore (n.31) e Pagina pubblicitaria (n.32). Una scelta che aiuta ancora una volta a comprendere come  sin da subito  per Monti non si trattasse di muovere da una condizione all’altra, non si trattasse mai di ‘passare’ lasciandosi alle spalle qualcosa, ma di far convivere e dialogare due aspetti altrettanto rilevanti per la propria definizione autoriale. Anzi: se consideriamo la cronologia delle mostre e delle pubblicazioni sulle riviste di settore vediamo che la figura di Monti si è definita e ha assunto crescente autorevolezza proprio a partire dal 1953. Quando sul numero di  “Ferrania” del  novembre di quell’anno venne pubblicato il primo saggio critico a lui dedicato, a firma di Berto Morucchio [465], Monti  aveva appena deciso di abbandonare la carriera di dirigente per fare della fotografia il proprio mestiere[466]; scelta e data che lo accumunavano ad altri  autori come Mario de Biasi e Fulvio Roiter, che avrebbero però orientato i propri interessi in ambiti diversi.  Conseguenza necessaria e inevitabile fu il trasferimento a Milano, dove il due ottobre costituì la Fotogramma Studio Laboratorio Fotografico[467]; una s.r.l. in cui aveva come socio la Color Record di Hrant e Vasken Pambakian, i fratelli armeni titolari del negozio veneziano in cui solo cinque anni prima si era formato il gruppo de La Gondola[468].  La lucidità della scelta, del momento e del luogo, gli dovevano derivare proprio dalla sua lunga esperienza di dirigente industriale, dalla consapevolezza che “con la ricostruzione dell’economia italiana, si presentano nuovi bisogni che la fotografia deve soddisfare e in primo luogo la pubblicità”[469],  anche se poi non fu quello il suo primario settore di attività. Milano era ormai “la città più attiva e aggiornata, perché in essa la fotografia professionale ha maggiori e più varie possibilità di utilizzazione (giornalistiche, pubblicitarie, industriali, ecc.) e quella degli amatori più varietà e stimoli di interessi culturali”, anche per il ruolo svolto da “Lamberto Vitali, critico d’arte e collezionista di antiche fotografie italiane”[470]. “Qui hanno sede le più grandi industrie, le agenzie pubblicitarie  italiane e straniere, le maggiori case editrici, la stampa periodica illustrata (quindici periodici settimanali esclusi quelli per la donna), in una parola i più forti utilizzatori di immagini. È quindi naturale che Milano sia il centro della produzione di immagini (…). Negli anni dal ’50 al ’60 la pressione delle nuove esigenze del mercato fotografico provocava un deciso adeguamento prima delle attrezzature tecniche e poi, almeno parzialmente, delle capacità professionali dei migliori fotografi. (…)  In questo decennio si aprono i migliori studi fotografici e altri rinnovano metodi e attrezzature e, fatto nuovo, entrano nella fotografia professionale uomini che non provengono dalle scuole fotografiche o dal lavoro subalterno, ma da altre attività e da varie esperienze culturali ed estetiche”[471].  Il richiamo tanto  implicito quanto chiaro era alla sua stessa esperienza, al proprio percorso di formazione, a quel passaggio osmotico che riuniva in Monti  fotoamatorismo e professione, Venezia e Milano.  In un’intervista tarda avrebbe ricordato che per interessamento di Roberto Crippa ebbe l’opportunità di presentare le proprie fotografie ai membri del comitato per la X Triennale (1954), “i quali mi vollero subito prendere come fotografo (…). Soprattutto perché avevano visto come io avevo interpretato le architetture maggiori, ma soprattutto le minori, quelle quasi popolari, di Venezia e anche delle isole”[472]. Abbiamo conferma di quel primo, importante impegno anche da una lettera di Monti a Giulio Parmiani nella quale scriveva:  “lo sto accanitamente lavorando per la Triennale e forse prenderò molto lavoro per architetti, artigiani e riviste tecniche come ‘Domus’ e ‘Stile e Industria’, dove esigono foto molto originali, grafiche talvolta e che mi attirano molto. Anche il lavoro industriale per grandi stabilimenti incomincia a funzionare e ti dirò che i successi migliori li ho avuti facendo delle foto che mi piacevano come dilettante, come se quelle inquadrature non avessero nessuno scopo pratico, ma mi dovessero piacere solo in quanto tali” [473]. Monti era ben consapevole che la cultura visuale acquisita nella pratica amatoriale e la capacità di superare i vincoli imposti dal lavoro su committenza costituivano l’elemento determinante della propria offerta professionale.  In quell’occasione ebbe modo di misurarsi con un’ampia gamma di soggetti, dagli ambienti ai gioielli  alla gran parte delle architetture, ma anche l’allestimento della Mostra della pubblicità e della estetica stradale, curata tra gli altri da Albe Steiner, col quale avrebbe poi lavorato per almeno un ventennio realizzando “moltissimi lavori in perfetta collaborazione [perché]  Steiner è un grafico che rispetta la fotografia nel modo più assoluto e soprattutto lascia la libertà al fotografo, la libertà più completa”[474]. Una parte di quella documentazione – realizzata sotto la sigla dello studio[475] –  venne pubblicata in un numero monografico di “Domus”  che portava in  copertina un  lavoro di Monti molto diverso: un affascinante fotogramma  intitolato Composizione di foglie e neve  (tav. 059), ma non tutte le fotografie realizzate per quella Triennale e attualmente conservate nel Fondo Monti e nell’Archivio dell’Ente[476] sono della stessa qualità. Non poche risultano sciatte, così come appaiono modeste in termini di  composizione e di  realizzazione tecnica quelle relative a prodotti realizzati da aziende di secondo piano; caratteristiche che non solo consentono di ipotizzare l’intervento di operatori diversi, ma soprattutto di rimarcare quanto il lavoro professionale fosse per gran parte costituito di produzioni routinarie o anche eccentriche rispetto agli ambiti più consueti. Monti avrebbe lavorato alla Triennale anche nelle successive edizioni del 1957 e del 1960, sempre nel ruolo di professionista indipendente come dimostrano non solo le richieste di autorizzazione di volta in volta sottoposte all’Ufficio Stampa, ma anche una lettera di Bruno Alfieri, all’epoca direttore di quell’ufficio, indirizzata  a Mrs. Ruth Lee, redattrice della rivista americana “Design for Living”: “Per quanto riguarda le fotografie,  noi disponiamo di un certo numero di ‘fotografie ufficiali’ che forse non sono molto adatte per  «Design for Living». Comunque siamo in grado di procurarle un fotografo. Ce n’è uno molto bravo, Paolo Monti, che è considerato uno dei migliori in Europa. (Credo che chieda circa quattro dollari per fotografia 30×24[477]). Ce ne sono anche altri meno cari, che sono pure ottimi professionisti. Se le interessa Paolo Monti me lo faccia sapere in tempo in modo che sia possibile prenotarlo per sabato 14 ottobre”[478]. L’opinione di Alfieri era certo lusinghiera e mostra quanto la figura di Monti si fosse imposta nell’arco di pochi anni negli ambiti specializzatissimi della fotografia d’architettura e di design in un contesto come quello milanese che vedeva attivi alcuni dei migliori professionisti italiani.

 

Fotografare l’architettura contemporanea

Sin dalle primissime collaborazioni Monti si era segnalato per l’elevata qualità del suo lavoro, come testimonia eloquentemente il brano di questa lettera inviata da Franco Albini a Caterina Marcenaro nel settembre del 1956: “Tutti i fotografi di Milano da noi sperimentati non vanno bene. Ultimamente i BBPR si sono serviti per il Castello di un certo Monti, che pare sia il migliore di tutti”[479]. Sotto la sigla “Fotogramma”, ma anche firmate “Paolo Monti”, erano le fotografie di soggetto italiano pubblicate ne  Il museo oggi di Michael Browne, edito nel 1965 per le olivettiane Edizioni di Comunità. Una sintesi analitica della nuova museografia[480] che si era sviluppata nel clima fecondo della ricostruzione del secondo dopoguerra, anche in Italia: dai fondamentali interventi genovesi di Albini (1949-1961) agli Uffizi di Gardella, Michelucci e Scarpa  (1956) passando per la nuova Galleria d’Arte Moderna di Torino (Bassi e Boschetti, 1954-1959)[481]. La collaborazione del fotografo con Franco Albini e Caterina Marcenaro datava appunto dal 1956, risolvendosi in un dialogo che pur nel rispetto delle istanze progettuali e storico critiche del progettista e della direttrice storica dell’arte[482] gli consentiva una propria evidente autonomia interpretativa. Dopo Palazzo Bianco e il Tesoro di San Lorenzo  (tav. 145)[483] la collaborazione proseguì per celebrare la riapertura di Palazzo Rosso con la pubblicazione di un volume dedicato agli affreschi; un soggetto che imponeva l’uso del colore per produrre un “materiale illustrativo” che la curatrice considerava  “il più completo e il più fedele tra quello pubblicato a tutt’oggi”[484]. Nonostante ciò in nessuna parte del volume Monti o altri eventuali fotografi responsabili delle riprese ante restauro meritarono l’onore di una citazione; valga quindi il riscontro con l’Archivio a certificarne la paternità: tra le numerosissime riprese realizzate tra  1961 e 1963 e poi ancora  il 31 ottobre 1964, si distinguono per il loro affascinante rigore compositivo le poche fotografie di ambienti, in particolare quelle relative alla grande specchiera collocata nella Sala di Fetonte, realizzate sia a colori  che in b/n (tav. 146), affidando di volta in volta allo specchio il dialogo tra gli elementi dello spazio interno o il rapporto con l’esterno, secondo una formula ricorrente nel procedere di Monti.  Furono quelle prime prove a consentirgli di avviare fruttuose collaborazioni non solo con architetti e designer ma anche con numerosi periodici italiani e stranieri come “L’architettura: Cronache e storia”[485], “Casabella Continuità”, “Domus”, “Metro” e “Zodiac”, “L’Oeil”[486] e “Architectural Forum”,  solo per indicare  i maggiori,  tanto che il senso complessivo del suo operare si può cogliere solo nel confronto lungo, nel diverso ritornare sulle opere degli architetti con cui ebbe maggiori frequentazioni, ma senza che allora gli fosse riconosciuta una vera preminenza. Anzi, ormai nel 1967, Allan Porter e l’amico Martinez  non scelsero alcuna sua immagine per  il numero di  “Camera” dedicato alla fotografia di architettura[487], avvalendosi del solo  Pepi Merisio per i soggetti italiani.  Scelta piuttosto sorprendente sia per la figura di Merisio, solitamente impegnato e noto per ben altri temi, sia perché a quella data Monti era forse il più autorevole fotografo italiano impegnato nel settore della documentazione della nuova architettura come del patrimonio storico. Le collaborazioni coi periodici di settore gli offrirono anche le prime occasioni di confronto con l’opera di Carlo Scarpa, a partire dal negozio Olivetti a Venezia, restituito in una bella serie di fotografie (tav. 147), di grande sensibilità e certo non immemori dell’esempio di Ferruccio Leiss, costruite come sono su di una incessante restituzione delle relazioni spaziali tra elementi architettonici e invaso, tra interni ed esterni, che ben si accordavano con “l’emozione profonda” espressa dal testo di Carlo Ludovico Ragghianti[488] su “Zodiac”, nel quale il critico riconosceva  che le fotografie di Monti riuscivano a ridurre al massimo, se non proprio a superare le difficoltà di lettura dell’opera[489].  L’allestimento ancora in corso del Museo di Castelvecchio a Verona  (tavv. 148, 149) venne invece pubblicato su “Domus”,  restituendo  “l’equilibrio fra lo spazio, gli oggetti, la luce”[490] proprio dell’intervento scarpiano, con un rigore compositivo di precisione assoluta, che vi aderiva perfettamente rivelandone anche la notevole fotogenia.  Poiché il tema era strettamente museografico,  Monti escludeva dalle proprie inquadrature quella presenza di visitatori che aveva connotato la serie dedicata all’allestimento BPR del Museo del Castello Sforzesco a Milano (1956), nella quale accanto alla sua già matura e raffinata capacità di restituire i rapporti spaziali (e in particolare le relazioni interno/ esterno, (tavv. 150, 151), sviluppava piccole sequenze narrative interpretate da figure solo in parte occasionali (tavv. 152, 153)[491] nelle quali risulta però impossibile ritrovare qualcosa che lo avvicini “alle poetiche humaniste degli scatti ‘rubati’ di Robert Doisneau”[492].  Bastano a rendere improbabile quel confronto alcune  imbarazzanti messe in scena con comparse femminili, come quella relativa alla Pietà Rondanini nella sala degli Scarlioni, nella quale un’improbabile interpretazione drammatica  – certo debitrice dell’iconografia dei fotoromanzi dell’epoca – si associava a un uso malaccorto delle luci  al fine  di evocare una inverosimile sindrome di Stendahl (tav. 154).

Il rapporto con le architetture di Scarpa  sarebbe proseguito nel tempo, mostrando una corrispondenza che andava ben oltre la qualità delle opere; quasi un rispecchiamento dovuto all’esistenza  di valori comuni (le possibilità espressive dei materiali, la cura compositiva, il dettaglio raffinato). Così Monti sarebbe tornato più volte a fotografare Castelvecchio e gli altri suoi allestimenti museali, ma anche il Padiglione del Veneto per Italia ’61 a Torino[493], il negozio Gavina a Bologna e la Fondazione Querini Stampalia a Venezia.  Erano prevalentemente sue le immagini comprese nei diversi contributi critici pubblicati in “Zodiac” sino alla metà degli anni ’60, sempre sottoposte alla rigorosa verifica dell’architetto[494], e sue avrebbero potuto essere le fotografie per la progettata monografia di Pier Carlo Santini per le Edizioni di Comunità, se ancora nel maggio del 1974 Monti poteva offrire a Scarpa una documentazione completa della sua opera, auspicando “che si faccia presto un libro su tutto il Suo lavoro”[495]. Anche in quell’occasione – come ricordava Guido Pietropoli, che gli fu assistente – Scarpa intervenne sulle stampe di Monti “tracciandovi sopra linee e diagonali, per isolare parte delle immagini che meglio corrispondevano al suo punto di vista”[496], sebbene per noi, dal considerare le stampe oggi conservate nell’Archivio Monti risulti quasi impossibile immaginare un impianto compositivo in grado più di queste di restituire con assoluta chiarezza le qualità delle realizzazioni scarpiane e degli altri protagonisti di quella stagione dell’architettura italiana. Il dialogo serrato, vitale, tra intervento museografico e contesto architettonico, tra le opere esposte e l’intorno, con invenzioni continue che legavano visivamente sala con sala, esterno con interno[497]  come nello splendido esempio della ripresa della statua equestre di Cangrande della Scala a Castelvecchio[498] (tavv. 156, 157), inquadrata dall’interno e posta in dialogo con la Preghiera nel Getsemani dal polittico della Passione di Paolo Morando, all’epoca con un diverso ordinamento tra le parti, documentato anche in uno schizzo progettuale dell’architetto (tav. 158)[499]. Una perfetta restituzione di quelle che Manfredo Tafuri aveva definito le “raffinate soluzioni di continuità poste da Scarpa in forme sempre variate” al fine di “isolare, letteralmente, i differenti pezzi”[500], pur senza negarsi le fascinazioni degli accostamenti visuali.

Innovativi progetti museografici e nuove realizzazioni architettoniche connotavano l’attività dei migliori professionisti e studi di architettura di quegli anni, puntualmente interpretati da Monti in una sempre più estesa area di intervento che da Milano e dall’Italia settentrionale in genere si estese ben presto  sino al centro sud e in particolare a  Napoli, qui lavorando per architetti quali  Luigi Cosenza, Giulio de Luca,  Carlo Cocchia e Michele Capobianco, impegnati a ridefinire  coi nuovi quartieri di edilizia popolare una parte significativa delle nuove periferie[501]. Architetture e luoghi documentati in quegli stessi anni anche da un architetto fotografo come l’americano George Everard Kidder Smith, che mostrava però un approccio più sentimentale al patrimonio architettonico di  quel “paese favoloso e romantico”[502] che per lui era  l’Italia, sebbene poi il modo di leggere il contemporaneo restituito dal suo Italy Builds[503] doveva certamente aver costituito un termine di confronto per Monti.

Il dibattito intorno alla fotografia di architettura era in quegli anni particolarmente vivo, specie in Italia, a partire dalle note riflessioni di Bruno Zevi, per il quale “risolvendo in notevole misura i problemi della  rappresentazione di tre dimensioni, la fotografia assolve il vasto compito di riprodurre fedelmente tutto ciò che c’è di bidimensionale e di tridimensionale in architettura, cioè l’intero edificio meno il suo sostantivo spaziale”[504],  poiché nella sua concezione dell’architettura era solo l’esperienza diretta a consentirne una “adesione integrale e organica”,  datosi che “dovunque esiste una compiuta esperienza personale da vivere, nessuna rappresentazione è sufficiente.”  Osservazioni interessanti, e da allora infinite volte citate e riprese, ma per certi versi ancora debitrici della concezione originaria e ingenua dell’oggettività della rappresentazione fotografica, come se questa (oltre che essere convenzionale) potesse veramente coincidere con, sovrapporsi a l’esperienza del soggetto, e non solo in termini di rappresentazione architettonica[505]. Non dissimili le considerazioni di Ernesto Nathan Rogers quando ammetteva che “fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza stessa del fenomeno architettonico che, pur realizzandosi nella precisa determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente ne mutano le relazioni con noi”[506].  Sarebbe stato poi Italo Insolera[507] a riprendere queste analisi introducendo però due elementi di fondamentale importanza come la  ricezione, ovvero la capacità di lettura dell’immagine di un edificio già mediata dall’interpretazione fotografica, ma soprattutto la necessità – già espressa da Edoardo Persico – di definire “una critica che consideri l’architettura come un fatto non necessariamente figurativo (…). Una critica che abbracci tutto il mondo dell’architettura e non ne isoli con una vivisezione solo una parte su cui poi esercitarsi con facili discorsi (…), una critica cioè che non si limiti alle conseguenze formali e alle ragioni culturali dell’architettura.  Io penso che la fotografia possa essere strumento adatto per questa nuova critica.  (…) la fotografia può essere il punto d’appoggio per avviare un discorso critico che si avvicini all’ideale di Persico di «una storia dell’architettura che si identifichi con quella stessa dell’uomo moderno»”.  Considerando l’insieme della sua opera mi pare che non si possa  definire in modo univoco  quale sia stata l’idea di fotografia di architettura che apparteneva a Monti, quale fosse quella che lui esprimeva; quale fosse la misura della sua eventuale prossimità alle posizioni di Insolera. Credo invece che accanto a una costante attenzione tettonica e materica  si possano riconoscere in lui momenti e modi cronologicamente e funzionalmente distinti; strettamente dipendenti dall’occasione e – ancor  più – dal progetto e dall’oggetto delle sue attenzioni, del suo guardare e mostrare attraverso la fotografia. A volte parrebbe di poter definire Monti fotografo di volumi e non di spazi; orientato alla  restituzione formalmente innovativa e rigorosa, alla catalogazione anche (e più tardi), ma non alla restituzione di un’esperienza che non fosse quella sua propria; a un’interpretazione dell’oggetto e magari della sua materia ma non dello spazio architettonico. Bastano però le fotografie dedicate alle opere di Scarpa, agli allestimenti di Albini e del gruppo BPR per smentire questa eventualità: in ciascuna di quelle occasioni riconosciamo lo spazio di relazioni definito dal progetto (e dalla sua messa in opera) che il fotografo rivelava e faceva proprio; verrebbe quasi da dire che condivideva, riconducendolo alla propria sensibilità personale. Accanto allo spazio, a certi spazi forse, i volumi. Quelli che avevano da sempre fatto parte della sfera di interessi di Monti, come mostra la sua costante attenzione per l’edilizia minore, da quella della laguna veneziana a Procida, sino alle case del lago d’Orta. L’avvio della professione imponeva però il confronto con le architetture contemporanee e coi loro autori, con le riviste di architettura quindi. Poneva cioè un problema non solo di interpretazione ma anche (e per certi versi soprattutto) di comunicazione, di messa in scena per la messa in pagina, coniugando fotogenia dell’edificio e comprensione del contesto in cui la nuova realizzazione si andava a collocare, a volte ridefinendolo radicalmente.  Si considerino a questo proposito le fotografie relative alle nuove costruzioni nell’area di via Melchiorre Gioia a Milano, non di rado giocate sulla contrapposizione netta (e un poco retorica) tra i ruderi e i resti lasciati dalla guerra e “la città che sale” (tav. 159), così come accadeva nell’area adiacente di Piazza Duca d’Aosta con la realizzazione del Grattacielo Pirelli (tavv. 160, 161, 162, 163), di cui Monti restituiva con grande efficacia sia la rilevanza di inedito segno urbano sia  le specifiche qualità architettoniche, fedele al principio che “l’architettura è un’arte che si scopre, si conosce e quindi si documenta camminandovi dentro e fuori lungamente” (come avrebbe voluto Zevi), della quale è indispensabile considerare anche “la quarta dimensione” costituita dal suo intorno[508] . Ne nacque  una serie giustamente famosa,  in parte pubblicata qualche anno dopo su “Camera” quasi a certificare l’affermazione di Richard Neutra[509] che solo una sequenza poteva almeno avvicinarsi a restituire “la nozione  di ‘continuità’ organica” di un edificio, dato che  “le ottiche fotografiche si oppongono in un certo modo alla fisiologia della nostra percezione visiva e alla chimica della nostra retina poiché le nostre facoltà sensoriali sono essenzialmente movimento mentre l’occhio dell’apparecchio fotografico è per sua natura statico.”  Non era però quello il nodo principale affrontato dal grande architetto, quanto semmai quello del rapporto  tra le due figure coinvolte,  rivendicando la regia sostanziale al progettista, all’autore dell’opera fotografata, che doveva far comprendere le proprie intenzioni al fotografo, farlo entrare “letteralmente nell’ «universo» della propria opera”. Per Neutra infatti  la fotografia di architettura doveva avere” uno scopo funzionale” e non liberamente espressivo, anzi doveva limitarsi a “interpretare correttamente le intenzioni dell’architetto”. Posizione nettissima e nella sostanza non lontana dalle riflessioni di Zevi e Rogers ma certo non pianamente condivisa da  Monti, che su questo aveva opinioni diverse[510]. In quegli stessi mesi, nella lunga intervista pubblicata ne “L’Arc”,  rifletteva sul senso stesso e sui limiti del significato ‘documentario’ della fotografia: ““Bisogna rendersi conto che fotografare e vedere non vuol dire comprendere. Ammessi questi limiti, sono convinto che il legame indissolubile del fotografo con il mondo esterno assuma nei migliori fotografi una forza morale: impossibilitati ad evadere dalla realtà, ne devono interpretare o approfondire il significato o, almeno, farne emergere soggettivamente il peso e l’intensità”[511].  Un imperativo morale da cui derivare una poetica, ben riconoscibile in buona parte della sua produzione dedicata all’architettura contemporanea e specialmente nel racconto della nuova  museografia,  dove la capacità di interpretare e restituire gli spazi di relazione ridefiniti da quelle strutture discorsive[512] confermava la centralità, la necessità  del dialogo tra presente e storia. Il racconto dell’architettura in quegli anni era per  Monti quasi esclusivamente in bianco e nero; una scelta che gli consentiva una restituzione più astratta e strutturata, meno episodica e contingente di quegli spazi e di quegli edifici. Le necessità editoriali imponevano però di ricorrere anche al colore, con esiti certo meno convincenti, quando non addirittura ordinari[513], come risulta particolarmente evidente in certi servizi dedicati all’architettura di interni e all’arredamento;  puntuali esempi di quello che lui stesso condannava come “eccessivo e noioso verismo (…) immagini che nulla aggiungono alla nostra esperienza visiva”[514]. Il colore ‘naturalistico’, descrittivo,  non era nelle sue corde e certo non era su quella tipologia di immagini che si fondava la sua fama di fotografo, tanto che Caterina Marcenaro nel distribuire gli incarichi per l’illustrazione del volume dedicato al Museo del Tesoro della Cattedrale di Genova[515] scelse di affidarsi a Monti per il bianco e nero ma a Mario Carrieri per il colore.

Il raffinato formalismo di quella stagione della fotografia professionale di Monti era in parte mitigato (se non contraddetto) dalla prevalente attenzione per il contesto e le persone che caratterizzava le sue coeve serie domenicali e milanesi (tavv. 164, 165, 166). Fedele all’intento (quasi un’etica) di non separare professione e ricerca, ma anche per sottoporre a verifica la propria visione di “una Milano in parte immaginaria”[516], mentre documentava le architetture dei grandi protagonisti di quella stagione Monti decise di fotografare “le domeniche degli altri” e la città minore e quasi nascosta tra il confine dei Navigli e i sempre più risicati prati di periferia. Una Milano scrostata e nebbiosa, che portava ancora i segni della guerra, a cui il fotografo  si volgeva con uno sguardo non dissimile da quello che aveva dedicato alle case della laguna, ma ora fatto più cupo e catramoso; un  tono che contrastava volutamente con la chiara, ottimistica  leggibilità delle fotografie d’architettura. Era la stessa città già indagata da Alberto Lattuada[517] e che ora faceva da sfondo ai “Segreti di Milano” di Giovanni Testori; quella su cui si esercitavano negli stessi anni anche Ugo Mulas, Mario de Biasi e Pietro Donzelli (per non dire di Ernesto Treccani[518])  o i più giovani Cesare Colombo (misurandosi anche col colore) e Mario Carrieri, che la leggeva attraverso il filtro e le suggestioni della New York di William Klein, provocando la vivace reazione di Monti, perché – diceva – “ il milanese, quando apre questo libro, ha l’impressione di essere preso a schiaffi (…).  La Milano di Carrieri potrebbe essere allo stesso modo Pittsburgh o Chicago. Ora Milano, per quanto sia una città industriale attivissima, è ancora una provincia in parte, non possiamo mai dimenticarlo. La città industriale esiste, siamo d’accordo, ma Milano ha dei lati estremamente provinciali che sono, d’altra parte, i lati più simpatici, i più vivi. Milano è ancora, in parte, ottocentesca, è ancora stendhaliana. Non si può presentare il Naviglio come se fosse una fogna di Chicago, è assolutamente assurdo”[519].  Non rientrava tra i progetti di Monti quello di raccontare la città in cui aveva deciso di vivere, sebbene considerasse necessario “narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine”[520]. Di fatto non  esiste una Milano di Monti intesa come racconto organico e forse neppure come sommatoria: troppi erano gli aspetti che non richiamavano la sua attenzione,  che confliggevano con la sua visione pessimistica, per questo esclusi dai suoi interessi. Basti a questo proposito  confrontare la sua produzione con l’immagine della città restituita dal volume curato da  Luigi Crocenzi [521] per Electa nel 1967: un racconto organizzato “per mezzo di blocchi di immagini collegate fra loro (…) su moduli di avvicinamento nello spazio e nel tempo”, dal quale erano programmaticamente tralasciati proprio quei “lati provinciali” che tanto affascinavano Monti ‘fotografo della domenica’ e che dovevano apparirgli per molte ragioni più accettabili della condizione attuale di una  “città [che] sta ogni giorno di più diventando noiosa, arruffata, violenta e gli uomini sadici, interessati, imbastarditi. Posso ignorare tutto questo?”[522]

 

La scultura

 

“Allo scopo di fornire una documentazione obiettiva dei complessi plastici e delle singole opere qui riprodotte – indica l’avvertenza alle tavole in un volume del 1972 dedicato alla scultura in Emilia nell’età barocca[523]– ci si è attenuti ad alcune elementari ma rigorose norme di regia fotografica: tutte le riprese (eccettuate pochissime per le quali si è dovuto per inderogabili necessità tecniche, far uso di illuminazione artificiale) sono state effettuate a luce ambiente, in modo che le sculture risultassero riprodotte nelle condizioni di chiaroscuro previste dall’artista; di ogni complesso si è presentata per prima una visone generale, ripresa dal punto di vista ottimale rintracciato in seguito all’analisi della ragione prospettica dell’insieme; i particolari infine sono stati fotografati senza ricorrere all’impiego di ponteggi, e collocando sempre l’obiettivo ad altezza d’uomo nei punti di vista individuati ancora come ottimali nell’ambito del reticolo prospettico del complesso.” Troviamo in questo testo, non firmato e quindi da attribuirsi ai tre autori del volume ( Monti, lo storico dell’arte Eugenio Riccòmini e il fratello di questi Corrado, fotografo a sua volta) una summa che si rivela essere ideologica ancor prima che metodologica, derivando questa coerentemente da quella. A fondamento del tutto si poneva il riferimento alle caratteristiche di oggettività della rappresentazione fotografica, alla concezione montiana di documento da cui erano fatte derivare le prescrizioni relative al rispetto delle condizioni di illuminazione e di registrazione dei particolari;  quindi – ben chiara- la definizione della campagna documentaria come progetto analitico di individuazione e restituzione delle ragioni e condizioni prospettiche e più generalmente spaziali, ambientali dell’opera[524], certo memore delle prescrizioni wolffliniane sui problemi posti dalla restituzione fotografica delle sculture[525],  che qui prendeva  forma di   serie o sequenze di immagini, secondo un procedere caro a Monti. Ciò che rendeva specialmente significativa questa breve avvertenza era però la comparsa – sorprendente nella sua disarmante semplicità – dell’accettazione di una sostanziale coincidenza tra occhio e apparecchio, tra percezione sensoriale e registrazione ottica e fotochimica. Questa concezione ‘ illuministica’ della fotografia come finestra, come schermo trasparente (da qui l’obiettività)  e non come sistema complesso di trascrizione appariva in palese contrasto con le sue dichiarazioni di poetica e col suo stesso operare, quale risultava (anche qui)  da alcune immagini in cui combinando opportunamente punto di vista e ottica fotografica, l’autore operava una modifica radicale e antinaturalistica delle figure risultanti, ricche di  eccezionali fascinazioni formali,  quasi surrealiste e certo non immediatamente documentarie[526], analoga a quella adottata nella serie dedicata agli Angeli di scuola berniniana del romano  ponte Sant’Angelo. Realizzata nel maggio del 1966 nel corso dei lavori per la Storia della Letteratura Garzanti[527],  questa serie costituisce una perfetta testimonianza del Monti più visionario, sollecitato dal confronto con un reale qui più che mai ricco di suggestioni. L’architettura barocca, scriveva,  “ha una tale ricchezza di movimenti che io preferisco fotografarla in ombra, perché altrimenti a tutte le forme – già oscillanti, contorte – si sovrappone un’ombra che, cadendo in certi punti poco opportunamente, le deforma (…). Contemporaneamente ho fotografato però le sculture di tipo berniniano del ponte degli Angeli a Roma con il sole, perché in quel caso la ‘confusione’ barocca delle forme era tale che le ombre – e soprattutto le macchie nere che sono venute fuori con il tempo – non facevano altro che aggiungere altro movimento al movimento che c’era già”  (Angelo con la corona di spine, part., tav. 167)[528]. Il contrasto netto tra superfici esposte e sottosquadri, certo, ma anche una magistrale interpretazione dinamica, antinaturalistica di quelle forme scultoree di cui è esempio paradigmatico la ripresa dedicata all’Angelo con la colonna della Flagellazione  (tavv. 168, 169), che mostra una sorprendente analogia con quella di Giuseppe Pagano[529], successivamente riproposta con leggere varianti da Giorgio Vasari sotto la regia di Luigi Moretti (e la condizione si ripresentò anche per la Fontana dei Fiumi) quale episodio di Forme astratte nella scultura barocca[530], offrendo suggestive letture critiche e visuali che si collocavano cronologicamente negli anni immediatamente precedenti alla collaborazione di Monti con l’architetto[531].

Più articolato e complesso il rapporto e la lettura offerta della Fontana di Trevi[532]  (tavv. 170, 171, 172), celebrata nel 1960 da Fellini ne La dolce vita, per non dire  di Totòtruffa ’62  di Camillo Mastrocinque.  Le prime fotografie, pubblicate a corredo di un articolo di Mario Praz (1960), erano ancora descrittive, quasi cronachistiche[533], ben diverse dall’indagine serrata condotta nel 1966, ritornando più volte sul tema per misurarsi con l’articolazione dei volumi, la resa materica delle scogliere e i rapporti con l’intorno, sino a produrre quello che immediatamente venne riconosciuto come “un capolavoro, per il quale hanno concorso tutti quei fattori che in altri professionisti raramente compaiono uniti (…): gusto, cultura, esperienza tecnica di parecchi anni, insomma tutto ciò che con altri avrebbe fatto diventare la fontana di Trevi un monumento visto da Negulesco[534] e acquistato in cartolina da un turista medio, con Monti diventa espressione, continuità di lavoro, trattato critico, sotto forma di fotografia, sulla costruzione di questo splendido monumento italiano”[535].  Lo stesso fotografo era ben consapevole della complessità e ricchezza di quel lavoro, che presentò  con un testo specifico[536] nel quale  sottolineava il “falso disordine delle rocce che simulano un ambiente naturale con una continua invenzione di forme che secondo la nostra esperienza attuale potremmo definire informali ed astratte”. La  storicizzazione della sua lettura si estendeva così sino a riconoscere “sulla sinistra (…) un complesso di forme che ricordano i primi piani delle acqueforti piranesiane”, aggiungendo poi che anche “nella stampa mi sono ricordato di Piranesi,  delle sue magiche caverne d’ombra e delle sue luci che non vengono dal sole ma escono come fosforescenti emanazioni da zone d’ombra”[537]. Il lavoro sulla Fontana di Trevi, come e più del successivo dedicato alla Pietà Rondanini, ci permette di considerare anche un altro aspetto determinante della sua fotografia, che diremmo intesa come forma espressiva nel tempo (anche storico) ma non del tempo, se non come effetto di sedimentazione di una lunga durata. Mai come accadimento, poiché  quando ciò accadeva, come nei movimenti di macchina (tavv. 051, 052), il prezzo da pagare era l’azzeramento della verosimiglianza analogica,  la sua trasformazione in figura altra, autonoma. È quanto si ricava anche dalle sue prime riflessioni sulla fotografia, fatte “da uomo che non è soltanto fotografo”, nelle quali riconosceva che “la limitazione della fotografia è proprio questa: che ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni (…) ci dà la fase  presente”[538]. Se questa variante ‘realistica’ dell’hic et nunc benjaminiano costituiva per Monti il dramma esistenziale della fotografia, allora assume un senso più profondo e compiuto la sua predilezione per le forme sedimentate dei muri corrosi e graffiti, delle materie sottoposte all’agire del tempo, per le testimonianze del patrimonio storico che portano in sé, nel fotografabile presente, i segni del tempo passato, di una durata altrimenti inattingibile. C’è però anche un altro aspetto che concerne il rapporto col tempo ed è quello implicato dalla strutturazione degli aggregati discorsivi, concettualmente distinti, delle sequenze e delle serie, da non confondersi però con insiemi semplicemente distribuiti negli anni come i ritratti della nipote.  Nelle sequenze (riconoscibili in parte nei lavori dedicati ai centri storici) la relazione tra le immagini implica (e vive di) uno scarto temporale, di una diacronia che diventa meccanismo narrativo, istituendo necessariamente un prima e un dopo tra le sub unità che la costituiscono, mentre le serie, pur contenendo in sé (inevitabilmente) uno scarto temporale, vivono percettivamente in una sincronia, essendo infine tutte leggibili mediante relazioni reciproche tra le immagini, senza che la consequenzialità  giochi ruolo alcuno. Si consideri il lavoro sulla fontana di Trevi, che certo implica il tempo dell’indagine ma nel quale la disposizione finale delle fotografie non risponde ad alcuna necessità descrittiva né di andamento cronologico. Si presenta anzi come sincronica,  pur esprimendo differenti e distinte durate: quelle della lettura e della restituzione montiana e, infine, quella della ricezione del lettore[539], non vincolata ad alcun ordine prestabilito poiché non era fissata dall’impaginazione editoriale come accadeva invece nel caso della Pietà Rondanini, alla quale Monti dedicò il solo libro fotografico pubblicato a suo nome[540].

Dopo le prime fotografie realizzate nel 1956 nell’ambito della più ampia documentazione dei riallestimento museale del Castello Sforzesco di Milano progettato dallo studio BPR[541], Monti sarebbe ritornato a fotografare il gruppo scultoreo ancora nel 1966 (tav. 176) per concorrere all’affidamento dell’incarico – poi non ottenuto – per l’apparato fotografico della grande opera Electa sulla scultura italiana[542], quindi ancora nel 1977, forse su suggerimento dell’editore e libraio Peppi Battaglini, realizzando in una settimana di lavoro alcune centinaia di riprese (tavv.177, 178, 179, 180), tra le quali vennero selezionate le centonove  pubblicate in volume. Il  percorso interpretativo mostrava un avvio canonico, con una serie di inquadrature a figura intera solo lievemente scorciate dove, come in tutto il lavoro, era il mutare dell’illuminazione che contribuiva a determinare la necessità di ogni scatto, restituendo ogni volta aspetti e immagini diverse di quella scultura. La lettura procedeva con una circumnavigazione lenta[543], antioraria, ferma ad altezza d’occhio nelle prime dieci fotografie, per poi salire scorciando le figure che incominciavano ad apparire corrose dalla luce, assorbite dall’ombra piena. Quando lo sguardo si spostava al fianco destro, il profilo a contrasto sullo sfondo tenuto alternativamente scuro o chiaro diventava un segno dinamico che esprimeva tutta la tensione corporale e simbolica del gruppo. Poi compariva lo specchio, ad offrire una simultaneità altrimenti impossibile, per questo straniante: dapprima appariva altro, rivelandosi solo progressivamente come doppio, quasi una moltiplicazione corale. Infine lo scarto dei particolari, le forme e i modi dello scolpire e della scultura, interpretati con tutta la sapienza che gli derivava dal confronto decennale con pietre e rocce; le tracce lasciate dagli attrezzi che incisero sulla materia[544] per mutarla in carne e corpo dolente, esprimendo un senso forte di tragicità.  Un sentimento che avremmo ritrovato anche nella lettura del Crocifisso ligneo del Museo Civico di Rimini, in cui la sequenza finale non solo suggeriva “inesauribili e legittime possibilità di lettura e aiuta[va] concretamente a guardare fuori dagli inibiti schemi ortogonali in cui si fissa usualmente il ricordo di oggetti scultorei” ma, col proprio andamento dall’alto verso il basso, dal volto ai piedi, proponeva una interpretazione simbolica favorita dall’eliminazione di ogni dettaglio di ambiente, conclusa significativamente con la suggestione di movimento, di spinta ascensionale del corpo del Cristo ormai staccato da terra dell’ultima immagine[545].

Svanita la vivacità dionisiaca con cui erano stati resi gli Angeli berniniani come le evocazioni  piranesiane della Fontana di Trevi, affiorava qui, prepotente, una eco drammatica che non pare di poter attribuire alla sola sacralità del soggetto[546] e che risentiva forse di una stagione della vita di Monti che lo aveva spinto al ripensamento, al bilancio esistenziale:  “L’incidente dello scorso anno – scriveva a Paolo Fossati giusto nel marzo del 1977 – mi ha gravemente danneggiato, non nel mio lavoro ma nel mio modo di pensare su quello che faccio e soprattutto su quello che ho fatto in passato. Ormai sono 30 anni. Tutto l’interesse che la fotografia ha provocato anche in persone così poco serie, i saggi (ma sono proprio saggi?) pubblicati dai nuovi proseliti, dagli scopritori di genii incompresi, le rapine continue da parte di nuovi pittori e tutti gli ottusi entusiasmi che la fotografia sta provocando solo per scopi commerciali, mi hanno stancato (…). In verità solo il lavoro mi eccita ancora e soprattutto le cose che prima del mio passaggio al professionismo mi hanno portato a pensare alla fotografia come una cosa degna di un uomo serio. Questa piccola scoperta, come Lei sa, mi ha spinto ad abbandonare il mio lavoro e a passare al professionismo con tutti i rischi di quel tempo ormai così lontano”[547].

L’occasione per quel bilancio era il progetto einaudiano di una pubblicazione monografica a lui dedicata, avanzato da Fossati nel 1973 sulla scia di quella di Ugo Mulas, uscita nello stesso anno.  Dopo una serie piuttosto lasca di scambi epistolari, fu solo nell’aprile 1975 che la casa editrice sottopose a Monti il relativo contratto editoriale, comprensivo di indicazione del titolo Dall’architettura al paesaggio. “Caro Fossati – rispose Monti a settembre – tutte le volte che vedo in vetrina un libro Einaudi o che in casa me ne capita uno sottomano, e ne ho molti, mi viene un nodo di coscienza e quasi mi vergogno. Purtroppo quest’anno è stato pieno di lavori (…). Quintavalle mi assilla da molto per una mostra molto complessa ed anche a lui ho dovuto dire di pazientare, tanto più che io non sono d’accordo su alcune sue idee sulla fotografia, mia e di altri[548]. Vedremo. La terrò al corrente dei miei movimenti (…).” La risposta non poteva essere più attendista e pare aver determinato un’interruzione nell’elaborazione del progetto, ma l’incidente occorso non dev’essere stata la sola ragione se nel gennaio 1977 Fossati scriveva a Monti lamentando con un poco di amarezza che “non ci siamo più parlati del suo libro e la cosa mi dispiace. Non l’ho più importunata perché sono dell’idea che questi libri bisogna che siano sentiti anche dai loro autori senza troppe spinte esterne, seppure dell’editore.” Nella lettera del marzo ’77 sopra citata, la loro ultima, Monti lo invitava a un incontro a Milano per “vedere assieme il massimo numero di foto di questi passati 30 anni. Negli ultimi tempi ne ho ristampate molte, alcune degli anni ’50, e mi sono convinto che il mio lavoro [cioè: il fotografo] era proprio questo. L’importante ora è saper dire le cose giuste. Spero di farlo col suo aiuto.” Monti certamente lavorò al progetto imbastendo un lungo e articolato schema[549], ordinato per capitoli, più enciclopedico che antologico,  che spaziava dalla “Storia del vedutismo architettonico e ambientale”, da realizzare con Andrea  Emiliani, a “qualche considerazione sulla fotografia di architettura e di ambiente che dovrebbe essere la parte più importante e anche più nuova del libro”[550], passando attraverso tutti i suoi temi più noti e cari per soffermarsi infine, con intenti più didascalici, quasi manualistici, su  “metodologia e tecnica” o “il formato e la composizione”.  In coerenza col titolo però nessuna traccia delle sue produzioni più ‘sperimentali’: né sfocati né mossi; né rifrazioni o chimigrammi  nelle foto di quei “passati 30 anni”, quasi fossero stati  un continuo esercizio segreto. Quel progetto einaudiano non andò in porto, come altri di quel periodo, e la prima occasione per presentare antologicamente anche quelle “ricerche e sperimentazioni”  avrebbe potuto essere la mostra di Reggio Emilia dell’ottobre del 1979, già esposta a Mantova,  nominalmente curata dallo stesso Monti con un testo in catalogo di Giuseppe Turroni[551]. L’uso del condizionale è però d’obbligo di fronte non tanto al ridotto numero di stampe presenti, circa un centinaio, quanto a una lettura ancora troppo debitrice della scena dei circoli fotografici, ormai inadeguata a restituire la complessità di una carriera tanto lunga e complessa. Non era però quella la sola lacuna: altre risultavano tanto macroscopiche da apparire incomprensibili, non comparendo né i due cicli romani dedicati alle statue di ponte Sant’Angelo e alla Fontana di Trevi, né il più recente lavoro sulla Pietà Rondanini. Più interessante e utile, per chi l’avesse voluta leggere, l’antologia di scritti che precedeva le “Illustrazioni” e poteva aiutare in parte a comprenderle, sebbene poi  alle puntuali note dedicate al rilevamento del centro storico di Bologna non corrispondesse neppure un’immagine in catalogo. Sola testimonianza dei censimenti condotti in Emilia Romagna erano infatti quattro fotografie del borgo appenninico di Ramiseto di Gazzolo, in provincia di Reggio Emilia[552].

“Penso che sia giunto il momento di dedicare una mostra a  Paolo Monti –  scriveva Piero Racanicchi ad Arcari nel 1982 –  il problema, come già ti ho scritto, è quello del tema: mostra antologica, con ampio catalogo storico-critico, o mostra di argomento circoscritto (…)?  Ti suggerirei di parlarne con lo stesso Monti”[553]. Il progetto non poté avere seguito per la morte del fotografo,  avvenuta appena due mesi più tardi, ma non fu del tutto abbandonato se ancora nei primi mesi dell’anno successivo, nel presentare alla vedova Maria Binotti un progetto di mostra e volume per Jacka Book, Giovanni Chiaramonte, Maria Antonietta Crippa  e Marina Loffi Randolin chiedevano garanzia formale che “per l’84 e l’85 non siano organizzate mostre su Paolo Monti fotografo di architettura. A questo proposito un chiarimento con Torino è indispensabile”, mostrandosi però nel contempo disposti a collaborare “eventualmente per una sezione specifica dell’esposizione antologica”[554].  Neppure questi progetti ebbero seguito concreto, e sebbene nei decenni successivi si svolgessero più di venti mostre tematiche dedicate ad aspetti specifici della sua produzione, si dovette attendere il 2016 per avere la prima grande mostra antologica che affrontava per la prima volta i diversi aspetti della sua produzione mettendone in evidenza i reciproci nessi profondi, potendosi finalmente avvalere della catalogazione completa del suo fondo fotografico, condotta per serie[555].

 

La pittura

 

“Non mi piace fotografare i quadri – affermava Monti in un’intervista del 1980 – Mi interessano i particolari: lì esce l’abilità del fotografo. Nel particolare si deve vedere che il quadro continua, ma l’immagine deve essere equilibrata. Come si fa?  Dipende dal taglio che si sceglie. Il particolare dovrebbe essere così completo da sembrare un quadro. Non sempre si riesce”[556].  Quelle modalità d’indagine, fatte di scomposizioni analitiche per sequenze, vennero adottate a partire dall’audiovisivo realizzato nel 1975 in occasione della mostra dedicata a Federico Barocci[557], poi proseguite  in modo più stringente  con l’indagine condotta sull’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, realizzata dopo il restauro (1976-1979) voluto da Cesare Gnudi e pubblicata postuma in occasione della mostra bolognese del 1983[558].  Quella “memorabile ricognizione” costituiva, come scrisse Emiliani[559], “un modello di prassi conoscitiva, che si rifiuta infatti a eleggere ‘particolari’ che non siano tecnici e dunque chirurgici in quella non sezionabile bramantesca formula che celebra il cerchio entro la perfezione del quadrato”. Nell’impaginazione finale l’andamento si sviluppava canonicamente dal generale al particolare, con una prima serie di movimenti centrati sull’asse principale, rivolti alla parte alta del dipinto (il gruppo dei santi, gli angeli, santa Cecilia) per aprirsi poi lateralmente e proseguire  per fasce orizzontali prive di scarti, parzialmente sovrapposte e successivamente approfondite (dalla figura intera al  dettaglio, dagli oggetti al particolare degli stessi) in un rilevamento quasi topografico dell’opera, nel quale ciascuna immagine conteneva elementi che la legavano indissolubilmente alla totalità del dipinto. Il percorso si chiudeva con la serie di riprese dedicate agli strumenti musicali che ne occupano il primissimo piano, mai ridotti a ‘motivo’ però, nello sforzo perfettamente controllato di non guardare all’opera di Raffaello come pretesto (prova ne sia la marcata assenza di immagini dei volti, che troppo rischiosamente avrebbero potuto tradursi in ritratti) per votarsi invece completamente all’analisi, per fornire strumenti utili ad un approfondimento della lettura senza concedersi  gratuite reinvenzioni formali.

È quanto accadeva, esemplarmente, anche nel lavoro di ricognizione di Fiumana e di Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, condotto su richiesta di Mercedes Garberi in previsione di un audiovisivo a corredo alla mostra alessandrina del 1980, poi non realizzato[560]. Fin da una prima, rapida osservazione dei  provini si nota come Monti avesse lasciato per ultimissime proprio le riprese dei due totali dei quadri; la registrazione del dato referenziale costituiva  quindi l’ultimo gesto del fotografo, puramente strumentale. Il percorso di avvicinamento era diverso, non rispecchiava i canoni della comunicazione finale; il confronto che ne risultava ci  appare individuale, diretto; esperienza intima da cui far nascere un progetto critico.

Seguendo la cronologia delle opere, il loro stesso rapporto genetico Monti si rivolse per prima a Fiumana, muovendo l’apparecchio da sinistra a destra, secondo il modo consueto dell’osservare, con pause e soluzioni di continuità, seguendo un percorso visivo non lineare, dove approfondimenti e sottolineature di certi elementi attraenti si alternavano a momenti di ripensamento. Da questi emergeva una prima intuizione forte della possibilità di restituire fotograficamente il moto, l’azione delle figure maschili al primo piano.   Nel secondo rullo questa venne estesa a tutta la superficie del quadro, e della scena, con una serie di immagini strette all’avanzare compatto delle figure, ridotte alle diverse posture dei corpi in moto, privati del volto, quasi a ribadire e sottoscrivere la volontà di Pellizza di “far nascere l’illusione di trovarsi davanti non ad una tela ma ad una vera massa di popolo”[561]. Il passaggio al Quarto Stato era brusco, non implicava la conclusione della ricognizione sull’opera precedente che anzi pareva fosse servita a mettere a punto una strategia di avvicinamento più che un metodo; ogni ipotesi  di lettura  generalizzata venne messa da parte per affrontare immediatamente, con la bella sequenza dei gesti,  l’approfondimento di un altro tema caro a Pellizza[562], per passare quindi allo studio dei vari blocchi di figure, ritagliando porzioni secondo modi che rimandavano all’estetica del reportage con inquadrature che suggerivano l’immobilizzazione dell’atto, quella monumentalizzazione dei comportamenti e delle posture che è propria  dell’istantanea fotografica, linguaggio non estraneo – come sappiamo – agli stessi interessi di Giuseppe Pellizza[563]. Il tema del moto, del lento avanzare si trasformava poi in una lettura approfondita delle soluzioni pittoriche, per scoprire nella meditata precisione  del disegno, della composizione l’efficacia dell’insieme: dal particolare al generale. In mezzo, riscontro necessario, un ritorno improvviso a Fiumana: una verifica. La lettura del Quarto Stato proseguiva per scomposizioni e riaggregazioni del terzetto centrale,  rivolgendosi quindi alle singole figure, ancora sempre immerse nella tensione collettiva della scena di massa (tavv. 182, 183). Solo avviandosi alla fine di questo viaggio di scoperta Monti si dedicava ai dettagli, alla fascinazione della grafia pittorica di Pellizza, alla sapienza colta dei panneggi e dei singoli gesti[564], alle suggestioni che nascevano dalla diversa stesura delle due opere (tav. 184), per chiudere infine con le viste generali dei due quadri, un gesto che comportava l’allontanamento definitivo.  La lettura condotta da Monti quale è possibile ricostruire seguendo l’ordine delle riprese sembra essersi svolta secondo due percorsi, due logiche diverse: analisi del quadro come dipinto e come scena. Il fotografo passava dall’uno all’altro registro cercando nelle loro ragioni reciproche il senso e il valore dell’opera di Pellizza, ricorrendo per questo  al gesto fondante dell’agire fotografico, quello che comunemente chiamiamo “taglio”, ma che qui più opportunamente definiremo “inquadratura”.  Se il primo infatti incide contemporaneamente sul tempo e sullo spazio, isola e separa inesorabilmente l’immagine dal mondo trasformandola in figura, nella fotografia di un dipinto il continuum temporale, la durata da cui prelevare un istante non esiste, è data una volta per tutte, predeterminata e immutabile come lo spazio complessivo in cui si svolge. Per questo l’azione qui consentita al fotografo può essere solo  l’inquadratura: non “tagliata dal vivo”[565] però, ma nella sua trasfigurazione e trascrizione, della quale nulla mai può essere definitivamente perduto o escluso, continuando a esistere in immagine oltre il momento dello scatto. Anche il tempo dell’arresto e della perpetuazione dell’azione sono già definiti per sempre e il fotografo non può che misurarsi, a volte, con un tempo reinventato, leggendo il dipinto come scena (appunto) o come materia.  Ripensando alla lettura degli Equivalents di Alfred Stieglitz fatta da Philippe Dubois scopriamo che anche in questa ricognizione montiana non c’è messa in scena dell’oggetto in funzione di un progetto di creazione estetica: “c’è solamente un gesto di ritagliare, di fare a pezzi il tessuto continuo dello spazio (…) Ed è solo questo gesto che, qualunque siano le intenzioni, genera sempre degli effetti di composizione”[566]. Sono quegli stessi intorno ai quali lavorava Monti considerandoli strumenti fondanti della propria possibilità di lettura, di traduzione dell’opera, del proprio agire intellettuale e critico.  è la comprensione profonda di quegli elementi che gli consentiva, misurandosi  con le opere d’arte, di esplorare  i confini della fotografia.

Ancora un’occasione emiliana, la sua ultima, fu la lettura del Sigismondo Malatesta in ginocchio davanti a San Sigismondo di Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano di Rimini, realizzata nella primavera del 1982 in occasione della mostra Dipinti di antichi maestri restaurati[567]. Qui il percorso di lettura mutava radicalmente andamento e, direi, scopo: appare piuttosto l’esito di un incontro e di una ricerca. Non più sequenze dal particolare al generale ma investigazioni insistite su ciascuna delle figure che abitano lo spazio sospeso di questo affresco, isolate, con particolare attenzione al linguaggio gestuale delle mani  (tav. 185)[568].  San Sigismondo dapprima, indagato minuziosamente alla ricerca di segni autografi e nuove tracce fuoriuscite dal trascorrere del tempo nella materia dell’opera, evocazioni dei Muri; poi il Malatesta, in progressione ravvicinata sino a tentarne il ritratto, la sottolineatura dell’espressione del volto, così strutturalmente ed emotivamente distante da quello del santo. Monti  muoveva poi alla parte destra, ai “due veltri oppostamente accosciati [ove] par che l’inversione della posa porti seco l’inversione del colore”[569]; al castello di Rimini che appare oltre l’oculo aperto nella parete illusoria, misurandosi infine con la sinopia. Come era doveroso attendersi, Monti non applicava schemi precostituiti; si confrontava ogni volta coi problemi di lettura critica che ciascuna opera impone,  in questo mostrando di aver meditato non tanto sulla tradizione pur ricca della storia della fotografia italiana di documentazione d’arte, sostanzialmente estranea a questo procedere[570],  quanto di essersi confrontato con la lezione offerta dalla monografia di Roberto Longhi su Piero della Francesca, pubblicata nel 1927 poi  ristampata con un corredo iconografico ampliato nel 1946. Nella prefazione a questa seconda edizione l’autore sottolineava la novità e la rilevanza di quell’antico “materiale illustrativo, che fu anch’esso esemplare a tante altre scelte e diede, involontariamente, fin troppo l’avvio alla smania, spesso sbadata, dei ‘particolari’ e dei ‘particolari di particolari’ ”, che per la prima volta comparvero in quell’opera a formare nel loro insieme un compiuto testo critico,  un saggio per immagini costruito a partire dalla riproduzioni di Anderson e Brogi, Alinari e Giraudon, presentate e impaginate con tagli arditi nei quali la sottolineatura del dettaglio superava l’immediata funzione didascalica per farsi veicolo di ipotesi critiche ad ampio raggio, che suggerivano derivazioni e legami lungo tutto il percorso storico dell’arte, sino a comporre figure dotate di forte autonomia, condotta sino ad una reinvenzione compositiva nella quale non è difficile intravvedere suggestioni derivate dalle coeve ricerche artistiche.

 

I grandi architetti classici

“Fotografie per volume Borromini. Stampe millimetrate su inquadrature desunte da prove contatto o ingrandimenti di miei negativi – eseguite da Dino Sala su vostro ordine” riporta una fattura del 15 febbraio 1968 indirizzata alla casa editrice Electa, con riferimento al volume di Paolo Portoghesi pubblicato l’anno precedente[571]. È questa una delle prime (forse la prima) indicazione documentaria dell’impegno di Monti nel confronto specifico con i grandi architetti del passato; letture monografiche che si distinguevano quindi per obiettivi e metodologia dalle indagini tipologiche come quelle condotte sulle ville genovesi (1963-1964) o sulle architetture gotiche veneziane (1970). Se la partecipazione al progetto editoriale di Portoghesi fu ancora relativamente episodica, essendo la più parte delle fotografie pubblicate dovuta all’autore stesso[572], il successivo confronto con le architetture di Leon Battista Alberti, destinate alla mostra romana per il cinquecentenario della morte, fu realizzato in gran parte da Monti, e molte di quelle fotografie confluirono nell’apparato fotografico del volume curato da Franco Borsi[573]. Frutto del consolidato rapporto con Electa fu l’affidamento nel 1976 della realizzazione di tutto l’apparato fotografico del volume di Eugenio Battisti dedicato a Brunelleschi, un autore col quale si era già misurato circa dieci anni prima  per quello di Eugenio Luporini[574], pubblicato in un periodo di rinnovato interesse per quel maestro. Nel presentare le ragioni della sua profonda revisione critica Battisti ricorreva a un’analogia fotografica: “Man mano che si sfogliano le pagine, scompare, infatti, come in una fotografia mal sviluppata, la tradizionale immagine di lui suggerita dai cento studi generici sul Rinascimento (…). In alcuni casi il divario è tale che ne potrebbe nascere un profondo scetticismo sulla validità d’ogni critica verbale rivolta all’analisi dei fatti architettonici, se altrettanto colpevoli non risultassero i rilievi tradizionalmente usati e le fotografie d’archivio”[575]. Da qui la necessità di realizzare un’apposita e innovativa campagna documentaria, molto articolata nei modi e nelle soluzioni di ripresa, per la cui conduzione si può ipotizzare se non proprio una rigida regia almeno un confronto serrato tra studioso e fotografo, confermato anche dalla presenza di Monti alla performance dedicata  alla riproposizione  dell’esperienza della tavola prospettica brunelleschiana nel giugno del 1975 (tav. 189)[576]. Assecondando il taglio monografico del saggio, Monti fotografava anche le opere di Brunelleschi scultore (l’altare di San Jacopo nella cattedrale di Pistoia, la formella col Sacrificio di Isacco al Museo del Bargello, con un’analisi dettagliata dei gesti delle figure), ma naturalmente la più parte del lavoro era dedicata alle architetture. Qui confermava la sua grande maestria nella restituzione dei rapporti spaziali[577], adottando punti di vista coerentemente prospettici (tav. 191), che davano evidenza plastica alla nota riflessione di  Wittkower[578] e  gli consentivano di restituire  compiutamente la misurata armonia di quelle costruzioni. Alle riprese con asse prospettico centrale ne accostava altre di impianto perfettamente ortogonale o zenitale,  per  corredare e puntualmente riflettere i rilievi grafici degli edifici (si veda il modulo compositivo della facciata dell’Ospedale degli Innocenti),  rivelando così la precisa adesione alle necessità del committente, altrettanto evidente in quei casi in cui lo studioso richiese al fotografo di mostrare “la mano dell’architetto” o di restituire la tessitura muraria della cupola di Santa Maria del Fiore, con riprese degli interni che i forti contrasti di luce rendevano drammatiche (tav. 192). La verifica condotta in archivio conferma che tutto il lavoro fu realizzato utilizzando il formato 35 mm, con apparecchio a mano e obiettivo decentrabile;  un procedimento certo speditivo ma non sempre adeguato, così che in alcuni scatti relativi ai dettagli della trabeazione o al sistema delle coperture la ripresa risultava eccessivamente scorciata,  generando effetti di distorsione ottica che non poco ne disturbano la lettura. Un prezzo da pagare a parere di Monti, poiché “importante è non generalizzare: la deformazione prospettica va bene solo in certi casi. La vista d’interno di una chiesa a tre navate deve essere corretta, le linee devono essere diritte, anche se si dovesse perdere un terzo di arco. Se dobbiamo invece far vedere cosa sostiene il tetto, quante cupole ci sono, quanti archi e come sono collegati fra loro, ecc. possiamo esagerare la deformazione prospettica con le linee che corrono verso uno stesso punto”[579]. Ritroviamo qui qualcosa più di  una eco delle prescrizioni di John Ruskin, che aveva a suo tempo suggerito di  cogliere “ogni opportunità offerta dalle impalcature per avvicinarsi ad essa,  collocando l’apparecchio in qualsiasi posizione imposta dalla scultura, senza alcun riguardo per le risultanti distorsioni delle linee verticali; tali distorsioni  possono essere tollerate  quando  si siano ottenuti compiutamente i dettagli”[580].

Nella stessa collana di Electa usciva nel 1977 il volume dedicato a Mauro Codussi[581] per la cura di Loredana Olivato e Lionello Puppi, che Monti aveva già conosciuto nel corso delle campagne di rilevamento appenniniche. L’occasione ebbe per Monti un significato speciale poiché veniva dopo alcuni mesi di forzata inattività: Dopo tanto far niente – scriveva a Paolo Fossati – ora incomincerò a lavorare molto e quello che più mi attira è un volume per l’Electa su un architetto veneziano poco noto. L’architettura, e la scultura bisogna dirlo, restano i miei due punti forti del lavoro professionale: il resto, ed è molto, sono i capricci sulla tastiera. La natura, il ritratto e la scoperta di una tecnica che mostra il suo fascino per le cose inutili. Nei prossimi giorni otto ore al giorno di riprese, all’aperto quasi tutte, penso mi rimetteranno di nuovo in forma e sarà l’architettura a stimolarmi come avvenne a Venezia e unendo l’ambiente eccezionale”[582].  Come ricordavano i curatori nella Premessa, il progetto storiografico prevedeva di operare sui due livelli  complementari “dell’analisi contestuale e del ragionamento obiettivo dei dati d’informazione (…).  A rendere, poi, tanto più ricco e dinamico il dialogo tra i due livelli di scrittura, è stato indirizzato l’uso dei repertori illustrativi, dove i materiali più propriamente di documentazione iconografica vengono ad integrare l’amplissima sequenza delle immagini espressamente eseguite a capo di un fertile dibattito intrattenuto fra il fotografo e gli autori.” Come già nella predisposizione dell’apparato fotografico per Venezia gotica (1970), Monti doveva affrontare un plurimo  ordine di sollecitazioni, provandosi a coniugare le indicazioni storico critiche con le  suggestioni,  le lunghe frequentazioni e le specificità urbanistiche e ambientali veneziane; qualcosa che metteva in gioco la sua stessa biografia personale ed espressiva.  Le riprese delle facciate vennero risolte con vedute frontali o fortemente scorciate (a volte accoppiate nell’impaginazione di Diego Birelli), che in molti casi rivelano il ricorso ad un filtro per scurire lievemente i cieli e far risaltare i rivestimenti in pietra d’Istria e di Verona (tavv. 193, 194, 195),  conservando quell’ampia scala di gradazioni di grigio che era mancata in altre pubblicazioni degli stessi anni.  Lo scorcio ritornava nella restituzione dei sistemi voltati, quasi esprimendo  l’intenzione ‘naturalistica’ di restituire  un punto di vista corrispondente allo sguardo dell’osservatore: una posizione (forse una postura) percettiva e quindi soggettiva oltre che tecnica. Da questo rigore descrittivo quasi manualistico si distaccava l’illusionistico gioco della facciata delle ‘vecchie’ Procuratie[583] riflessa in un’ampia pozza d’acqua; una fotografia di alto gusto amatoriale,  tanto affascinante però da essere accolta dagli autori e valorizzata dal grafico, che le concesse una pagina destra al vivo.

Quasi a chiudere un ciclo, quasi a costituire una non dichiarata monografia di Monti fotografo e un omaggio al suo continuo travaso tra ricerche personali e pratica professionale, Andrea Emiliani pubblicava nel 1979 una selezione di un centinaio di fotografie di repertorio, certo realizzate per incarichi precedenti  ma qui selezionate anche per la loro particolare autonomia compositiva. Un corredo che mostrava  nella scelta delle immagini come nella loro articolazione in sequenza tutta la complice sintonia intellettuale tra lo storico dell’arte e l’amico fotografo, dove la funzione documentaria lasciava emergere e conviveva con tutte le ansie sperimentali della ricerca personale. Si consideri a questo proposito la fotografia di uno stucco decorativo di Galeazzo Alessi in Villa delle Peschiere a Genova (Tav. 196) [584] che in una versione radicalmente rielaborata in fase di stampa (ribaltamento orizzontale, mascherature e bruciature)  venne presentata come Natura, 1960,  nella monografica di Reggio Emilia (tav. 197)[585], confermando ancora una volta con questo mutamento  di statuto da documento a opera,  indifferente ai dati referenziali e cronologici, che per Monti la stampa finale, “immagine oggettiva ‘soggettivata’” era il vero compimento del processo fotografico; ” una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà[586]. Altre suggestioni ancora emergono dalla ripresa  della Cotta aprettata del Conservatorio del Baraccano di Bologna[587] (tav. 198), nella quale si riconosce  quel fascino per le grafie pure della trama che si ritrova anche in  Felci, riflessi deformati, 1974 (tav. 111).  Qualcosa di ben diverso da quella “ricognizione fotografica dell’esistente” condotta da Monti e celebrata qualche anno più tardi dallo stesso Emiliani, che le riconosceva “un ruolo determinante proprio in quel movimento di conoscenza e di riappropriazione che unisce, in uno sforzo, un doppio risultato”, concludendo infine che “assai più che non la scuola e la stessa ricerca specifica, la ricognizione fotografica, attivando processi di comunicazione immensi attraverso la stampa, ha giovato al patrimonio artistico una costante dinamica dei suoi confini, quasi tornando ad imporre all’occhio quella funzione organizzativa e classificatoria che sta alle origini stesse dell’opera storica di tutela artistica e della proposta operativa rappresentata dal museo”[588].

 

Storie,  luoghi, territori

Oltre a Venezia, della quale negli anni de La Gondola aveva raccontato specialmente l’edilizia minore, fu Roma il luogo del suo primo confronto con l’architettura storica, verosimilmente in occasione della sua prima personale all’Associazione Fotografica Romana del 1952. Accanto ad alcune veloci notazioni di carattere bressoniano (tavv. 174, 175), non per caso poi premiate con la copertina di “Ferrania”, il tema principale, quanto mai prevedibile, fu l’archeologia dei Fori, ripresa con le luci radenti dell’estate filtrando i cieli per ottenere stampe dai forti contrasti tonali, palesemente ‘irreali’ (tav. 199)[589]. “Bianchi frammenti di marmo, splendenti colonne imperiali, pietre levigate da secoli –  scrisse poi Giovanni Chiaramonte[590] – rilucono nella Città Eterna tra la cupola oscura del cielo e la caotica tenebra di scavi e rovine, sopra lo squarcio raggiato di una antica volta in mattoni che s’apre, attraverso il geometrico buio d’una porta, alle profondità della terra”, ma la scrittura immaginifica del curatore non riusciva a celare l’approccio dilettantistico al tema, diametralmente opposto a quello che solo pochi anni più tardi avrebbe adottato per realizzare la  campagna fotografica su Castelseprio (1957)[591]  e quella sui  Sacri Monti, a corredo di un articolo di Rudolf Wittkower[592].  Alla prima occasione sistematica di confronto col patrimonio architettonico italiano, avviata nel 1963-1964 col catalogo delle ville genovesi, fece seguito  nel 1965 l’incarico di realizzare l’apparato iconografico per la Storia della letteratura italiana, diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno.  L’idea di affiancare ai saggi “una sorta di storia iconografica della letteratura italiana”[593] era stata di Cecchi, ma Livio Garzanti non intendeva avvalersi del patrimonio fotografico storico  consueto (e anche un poco consunto);  occorreva “un fotografo colto e sapiente, capace di discutere e indiscutibile, che comprendesse le ragioni generali dell’impresa di dare per la prima volta illustrazione compiuta alla nascente Storia[594]. Andrea Emiliani è ritornato più volte sulle feconda fatalità di quell’incontro  “nei corridoi della Casa editrice Garzanti”, dove lui era impegnato con Vanna Massarotti[595] nella ricerca iconografica. “Il fotografo – ricordava  Emiliani[596] – era già noto per la sua conoscenza, spesso straordinaria, del segreto rapporto che regola il legame tra i luoghi e la loro storia. Monti veniva infatti da un mestiere che a Venezia s’era, per così dire, caricato quanto mai di sensi e anche di sentimenti della storia: viveva in sostanza la forma italiana con la coscienza e con la poesia di chi sa bene come in questo paese esista un così lontano e continuo universo formale da rendere quasi impossibile rimuoverne la storia. Paolo Monti stava ore e giorni davanti alle foto Alinari e, bofonchiando come era solito fare, finiva per ammettere che sì, di più era impossibile fare. E che i confini erano già tracciati, cosicché bisognava variare l’intensità, piuttosto, caricare le tensioni conoscitive dell’immagine fotografica. E non illudersi troppo. Di queste varianti di tensione interne, l’opera di Monti è un registro continuo.”   Giusta l’osservazione critica di Emiliani resta però da chiarire su quali basi, allora, si fondasse la fama della “sua conoscenza, spesso straordinaria, del segreto rapporto che regola il legame tra i luoghi e la loro storia” se la sua più nota attività professionale era legata all’architettura contemporanea, a meno che non fossero state proprio le sue magistrali letture della nuova museografia a rivelarne le potenzialità a un osservatore attento. Le campagne fotografiche per Garzanti, eseguite tra luglio 1965 e dicembre 1967 con brevi appendici nei due anni successivi, segnarono “una specie di reintegrazione dell’immagine evocativa entro quel pensiero letterario italiano che, in fondo, legava al luogo nel tempo le più ampie possibilità di comprensione. Monti organizzava il suo viaggio prima mentale e poi fotografico. Ritornava con scatole di fotografie perfette, inattese e indiscutibili, raccomandando al grafico di non operare tagli. La foto di Monti era assolutamente la stessa dal negativo alla stampa. Questa perfezione di taglio e inquadratura resisteva così nelle foto operate con il cavalletto a terra, che in quelle prodotte con la macchina in mano. Fu proprio da questa capacità, che Monti mostrava, mettendo a punto i primi apparecchi decentrabili, che nacque il coinvolgimento nelle attività sul territorio dell’Emilia e Romagna e in seguito una vera amicizia”[597].  Nei ricordi di Emiliani precisione del dettaglio e mitografia si mescolavano[598], contribuendo a definire un’immagine di Monti che si discosta in parte dalla dimensione storica ed è piuttosto indizio del forte legame intellettuale e affettivo tra i due, che congiuntamente vissero quell’impresa e ancor più i successivi progetti in Emilia Romagna, che in parte a quella si sovrapposero cronologicamente[599].  Tra le figure retoriche più forti di quella mitologia troviamo il tema dell’indipendenza decisionale del fotografo nei confronti di  committenti e curatori, rispetto al quale Monti era molto netto ed esplicito, dichiarando di non andare “quasi mai a vedere e poi fotografare i miei soggetti insieme agli autori di quei libri di architettura i quali pur si avvalgono delle mie immagini, perché a volte non sanno guardare bene neppure loro, ed essi necessariamente non guarderanno, non scopriranno quello che andrò a scoprire e guardare io”[600]. Può darsi che la perentorietà dell’affermazione fosse fatta ad usum Delphini, vista la pubblicazione in una rivista fotoamatoriale, ma altre  testimonianze lo contraddicono o almeno relativizzano quelle affermazioni.   Non solo era consuetudine che  l’autore o il curatore del volume fornisse un elenco delle “fotografie da fare sul posto, e vale come indicazione di massima, essendo necessario un adeguato incontro con il fotografo da voi designato per finalizzare strettamente le fotografie alla interpretazione critica data nel testo”[601], ma anche l’analisi dettagliata di alcuni lavori pubblicati mostra  evidenti segni di regia storico critica. Mi riferisco tra gli altri alla campagna pugliese del 1970 finanziata dall’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, certamente condotta sotto la guida di Maria Stella Calò Mariani[602] o alla “analisi fotografica delle opere albertiane [che] è stata appositamente eseguita, nel corrente anno, (…) con la regia di Agnoldomenico Pica”[603], come rivendicava esplicitamente il curatore. Più verosimile allora pensare a confronti e “stimolanti scambi di idee”, come  scrivevano Olivato e Puppi nella Premessa al loro studio su Codussi.

Alle campagne fotografiche per Garzanti si affiancarono, forse occasionate da quelle, le prime ricognizioni regionali per il Touring Club Italiano. Mentre le presenze nei volumi dedicati alla Puglia (1967) e alla Liguria (1969) furono poco più che episodiche e derivate da incarichi precedenti[604], per quello relativo all’Umbria (1969) le foto vennero “espressamente eseguite” da Monti e da Manfredi Bellati, all’epoca più noto come fotografo di moda, ma anche da  Gianni Berengo Gardin. L’incarico, datato 1967,  non conteneva precise indicazioni da parte della committenza,  come sembra  indicare una lettera a Monti di Giuliano Manzutto, redattore  del volume, nella quale si augurava “che nel frattempo avremo finalmente avuto modo di incontrarci e di parlare di molte cose (…). Il lavoro che io ho fatto è pessimo e si sente tutta la mia svogliatezza causata dall’ambiente nel quale il volume si concretizzava. Mi spiace molto che questo possa aver danneggiato le Sue fotografie eseguite invece con tanta partecipazione ed entusiasmo”[605]. Come sempre accade in questo genere di pubblicazioni, le peculiarità di ciascuno degli autori coinvolti tendono ad essere riassorbite dal progetto generale del volume e dall’impaginazione, così in molti casi risulta difficile distinguere Berengo Gardin da Bellati[606]  o da Monti, il cui  specifico magistero è però riconoscibile nella fascinazione per la materia di strade ed edifici (tav. 200) come nella restituzione prospettica perfettamente ortogonale della facciata del Tempio di Minerva ad Assisi (tav. 201) o ancora quella del Duomo e soprattutto di San Felice di Narco a Spoleto, nelle quali l’uso sapiente del teleobiettivo e il controllo perfetto dei parallelismi rimandano quasi a una restituzione fotogrammetrica, mentre la notissima ripresa scorciata del Duomo di Orvieto (tav. 202) ne sottolineava lo slancio gotico; una soluzione che avrebbe poi adottato nella restituzione affilata come una lama dello sperone del Castello de L’Aquila per il successivo volume dedicato a Abruzzo e Molise   (tav. 203)[607].

Parallelamente  Monti ebbe l’occasione di tornare a misurarsi con le amate architetture veneziane per illustrare il volume di Arslan sulla Venezia gotica[608], del quale condivise la responsabilità dell’apparato fotografico con Diego Birelli, art director di Electa e fotografo formatosi con Zannier al Corso Superiore di Disegno Industriale di Venezia. I crediti fotografici non distinguono tra i due autori, così che solo  il lavoro di riscontro in archivio consente di  identificare Monti, ciò che sembra confermare il forte ruolo registico  di Arslan, che muoveva per approfondite analisi comparative di elementi tipologici quali le finestre e le scale (Palazzo Papafava alla Misericordia, giugno 1968, tav. 204;  Palazzo Contarini della Porta di Ferro, particolare della scala scoperta, tav. 205). Accanto a ciò fu sicuramente la particolarissima condizione urbanistica di Venezia a determinare modalità di ripresa in cui alle inquadrature frontali si alternavano o si affiancavano (nel dinamicissimo impaginato di Birelli) foto nelle quali lo scorcio è accentuato da un uso del teleobiettivo collocato su di un piano quasi tangente alla facciata, come nel caso del loggiato al primo piano di Palazzo Ducale (tav. 206) o del prospetto su Riva degli Schiavoni, dove il gruppo scultoreo dell’Ebbrezza di Noè  venne plasticamente inteso come cardine di passaggio visuale verso il Rio di Palazzo, in una efficacissima sequenza[609] che comprendeva anche una terza fotografia (tav. 207, non pubblicata in Arslan) nella quale Monti riuniva e comprendeva in una sola, calibratissima inquadratura il gruppo scultoreo dell’Ebbrezza di Noè, la balaustrata del ponte della Paglia e il Ponte dei Sospiri, collocandosi in una serie iconografica storica che da Carlo Ponti, Giorgio Sommer (1870 ca) e Tomaso Filippi (1895 ca) giungeva sino a Francesco Pasinetti negli anni Quaranta[610].  Il teleobiettivo era indispensabile anche per riprendere certe facciate da una lontana distanza obbligata, trasformando il rio in un cannocchiale (Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande, tav. 208). Ne risultava una città che pareva magicamente fatta solo di finestre, nella quale la lettura attenta delle sue pietre mostrava (ancor prima delle varianti) una condizione di degrado diffusa, che la stampa catramosa del volume, con neri chiusi e privi di profondità rivelava impietosamente, senza che fosse possibile distinguere se ciò era dovuto ad una specifica scelta connotativa (una specie di sottotesto parallelo al racconto architettonico) o più immediatamente a ragioni di cifra compositiva della pagina, tipiche delle soluzioni grafico editoriali di quegli anni[611].  Dopo le architetture il topos per antonomasia della città lagunare: la gondola; ancora una volta una produzione più o meno direttamente legata alla comunità armena[612]. Nella struttura tripartita del volume le fotografie di Monti possedevano una forte autonomia, certo non illustrativa del saggio storico di Butazzi né illustrate da quello. La sequenza apriva con una ripresa in controluce di gondola e gondoliere simile a quella utilizzata per l’elaborazione per la sovracoperta (tavv. 209, 210), per procedere poi alternando dettagli, scene d’ambiente e vedute urbane, sovente realizzate secondo un ritmo di compressioni e dilatazioni prospettiche, mentre l’analisi del dettaglio era condotta sia in vivo che in studio, come nella bella sequenza dedicata alla forcola, ripresa su fondo bianco uniforme, quasi una scultura contemporanea[613].   L’itinerario in gondola attraverso la città si svolgeva avvalendosi di nuove fotografie ma anche di immagini realizzate decenni prima[614], da cui emergevano come un’autocitazione alcuni lacerti di muri o di legni ma anche omaggi o  evocazioni di autori antecedenti[615], chiudendo in modo piuttosto sorprendente col retorico controluce di “vibrante lirismo” di gondoliere e gondola[616]; una riproposizione della più vieta tradizione oleografica tardo pittorialista, qui (almeno apparentemente) priva di ogni ironica distanza. L’apparato fotografico qualificava quell’impresa piuttosto come un volume sulla città, su Venezia, obbligando quindi  al confronto coi precedenti più prossimi e noti:  da Leiss (1953) a Roiter (1954), da Mulas[617] (1952) a Berengo Gardin (1965) e Giorgio Lotti (1970). Solo gli ultimi due titoli di questa piccola serie sono ancora compresi nella biblioteca di Monti, a conferma ulteriore di un processo di depauperamento non altrimenti documentabile, ma sufficienti ad indicare una condizione strana, quasi un disagio di Monti nel restituire a quella data un profilo meditato e personale della città che fra tutte gli era la più cara. Quasi un ritrarsi dall’inevitabile confronto che si sarebbe posto con quegli autori a lui per molti versi vicini, non cogliendo ( o rinunciando a) l’occasione per fare (anche) un bilancio della lunga storia personale che lo legava a quel luogo[618].

Non considerando per ora l’enorme lavoro svolto in Emilia Romagna, sul quale torneremo, il progetto più interessante di quegli anni rimane quello dedicato a Procida, realizzato su invito di Giancarlo Cosenza,che l’anno precedente aveva firmato il Piano Paesistico Territoriale dell’isola. Non un’indagine strumentale e propedeutica quindi, e neppure una campagna documentaria in senso proprio, ma la lettura autoriale di quelle architettue spontanee che già erano state oggetto di ampie attenzioni e di ricca documentazione fotografica a partire almeno dalla metà degli anni Trenta,  in particolare ad opera di Giuseppe Pagano (tav. 010) e di Roberto Pane (tav. 214). Già Arcari aveva rilevato che “certe affinità con Giuseppe Pagano (…) meriterebbero un approfondimento”[619] che resta ancora da fare, verificando ad esempio quali possibilità avesse Monti di conoscere certi suoi lavori[620]. Nella presentazione critica che ne offrì alcuni anni dopo,  Quintavalle riconosceva come Monti avesse compreso quale fosse “la vera chiave urbanistica di Procida che sono le scale: il rapporto reale è proprio tra il sistema delle scale (tavv. 215, 216, 217, 218), che traversano anche differenti proprietà, e la vita su questi sovrapposti livelli, che è collettiva. (…) L’intenzione del servizio è cogliere non ciò che stacca un singolo elemento dall’altro, ma ciò che unisce; l’idea è mostrare la continuità tra strutture architettoniche e funzioni,  gesti e modelli di esistenza” [621]. Il critico leggeva così la peculiarità urbanistico architettonica di quell’insediamento restituita dalle fotografie senza soffermarsi peraltro sulle loro ulteriori specificità e neppure accennando al tema del colore, quasi fosse un elemento secondario di quel luogo e del suo racconto, mentre per Monti Procida era “una delle poche isole del Mediterraneo che sia a colori, un po’ come Burano, mentre tutte le altre isole del Mediterraneo si sa che sono bianche. E quindi è un’isola interessante anche sotto questo aspetto (tavv. 219, 220). Ho già i testi di un architetto e di un ingegnere; le fotografie sia in bianco e nero che a colori, i disegni, le sezioni e tutto quanto: ne uscirebbe un bel libro, ma non si è ancora trovato l’editore, anzi probabilmente tenterò di fare qualcosa in Germania o in Svizzera su questa cosa che meriterebbe senz’altro di essere fatta perché è [un] eccezionale ambiente che merita di essere conosciuto”[622].  L’ingegnere a cui Monti si riferiva era per l’appunto Cosenza,che pur “sempre escludendo una settaria valutazione estetica” aveva già riconosciuto che“tra le varie componenti climatiche e sociali, ha interesse come preesistenza ambientale in cui affrontare la ricerca, la scala cromatica realizzata nell’abitazione dell’isola. (…) La tinta di tono appropriato è anche essa sintesi in una continua ricerca di un giusto valore. La tecnica del colore quindi si dimostra fondamentale nella composizione architettonica, per la sua applicazione sulla parete esterna dell’edificio; anche questa non risulta per nulla una astratta ricerca di proporzioni” [623]. Una interpretazione storico culturale del fenomeno che certo deve aver sollecitato e molto influito sulla lettura che ne diede Monti, reduce in quegli anni dal confronto con le architetture rurali dell’Appennino Emiliano Romagnolo e con il centro storico di Bologna.

 

I censimenti emiliani

L’incarico ricevuto dalla sezione ligure di Italia Nostra per la compilazione del catalogo visuale delle ville genovesi[624] costituì per Monti  la prima occasione per misurarsi con le necessità metodologiche imposte dall’indagine sistematica di una tipologia architettonica; quelle che di lì a poco sarebbero state ampliate e meglio strutturate nello svolgimento delle indagini appenniniche e bolognesi, di poco successive. L’incontro nel 1965 tra Monti e Emiliani, neodirettore della Pinacoteca Nazionale di Bologna, non impedì a quest’ultimo di affidare a Ugo Mulas la documentazione del nuovo allestimento del museo che Leone Pancaldi  aveva appena terminato e Michael Brawne non aveva considerato nel proprio saggio[625]. In archivio si conservano però alcune riprese delle nuove sale eseguite da Monti nell’estate dello stesso anno, quasi una conseguenza della sua sostanziosa presenza sulle pagine del volume dell’architetto e critico inglese e certo l’avvio di una lunga e fruttuosa collaborazione con quella istituzione, che negli anni immediatamente successivi si sarebbe affiancata alle Campagne di rilevamento dei beni artistici e culturali dell’Appennino, nelle quali la restituzione del rapporto tra edificio e contesto richiamava  ancora una volta in modo significativo gli esiti delle indagini fotografiche di Pagano del 1936.   “La prima campagna fu posta in atto, e non casualmente, in un anno denso di significato come il 1968. Il territorio scelto per il primo esperimento fu quello di un’area geografica delimitata attorno al centro di Porretta Terme (tav. 221). Sulla base di quella prima esperienza si affinarono due dei principali mezzi d’indagine, sottoposti poi a verifica nei successivi interventi: la scheda inventariale e, soprattutto, la fotografia, adottata in modo il più possibile estensivo così da tener conto non solo dei singoli oggetti ma anche dell’ambiente che li circonda”[626]. In quel contesto le ricognizioni generali erano affidate a Monti, mentre la successiva schedatura fotografica intensiva, coerentemente condotta “senza stabilire una gerarchia né di valore né di qualità” era affidata a altri fotografi[627] come Marco Baldassari, Corrado Fanti,  Augusto Viggiano, Riccardo Vlahov, Pino Guidolotti[628] oltre a Raffaele Biolchini, Adriano Boni, Elio Celone, Attilio Foresti, Cesare Mari, Enrico Mulazzani, Piero Orlandi, Franco Ragazzi e Mario Scarpa[629]. Ricordava anni dopo Corrado Fanti: “Penso a qualche breve e intenso momento vissuto con Paolo Monti camminando su una costa dell’Appennino per fotografare insieme a lui il paesaggio. Non ci scambiavamo neppure una parola, eppure comunicavamo nel breve contatto dei nostri sguardi silenziosi, attraverso il digradare dei colli. Le parole venivano poi, magari in una lunga serata a Milano, guardando le immagini, parlando di forme e di tecniche”[630].   “Le ‘campagne’ – ricordava Emiliani[631] – furono proprio un’offerta di normalità, un invito alla frequentazione consueta che interveniva nel bel mezzo della migrazione umana che aveva spopolato la montagna, e che aveva lasciato ancora in piedi le strutture di un vivere secolarmente lentissimo o povero. La lettura che Monti diede per quattro anni – tante furono le Campagne – fece rifluire sulla groppa di un Appennino certo più dolce delle montagne dell’Ossolano, e tuttavia a volte spettacolare, la sua esperienza di interprete ben addestrato a quel misto di carattere e di amore che proprio la montagna esige di mettere in campo. Per esser brevi, Monti lavorò su alcuni temi, vere e proprie esercitazioni a soggetto.”  Quel progetto coniugava le istanze della geografia storica di Lucio Gambi con le indagini sulle specificità dei beni architettonici e artistici di quei territori proprie di una storiografia artistica che si impegnava nel confronto fattuale con la tutela, così determinando una prassi che si fondava metodologicamente sul superamento del concetto di monumento come emergenza a favore di quello di patrimonio culturale inteso quale tessuto di elementi inscindibili. (tavv. 222, 223), mettendo a frutto tutte le soluzioni espressive maturate in circa un ventennio[632].Ne nacquero ricognizioni  interdisciplinari di grande rilevanza, proseguite poi sino al 1971, nel corso delle quali Monti mostrò di avere “la sequenzialità dei grandi censitori, come fosse uno Scheuermeier che avesse ripassato roccia su roccia, faccia su faccia Ombre rosse di John Ford, ma parlando di contadini italiani”[633].  Le quasi duemila fotografie che ne risultarono costituiscono “una sorta di commento visivo al diario di lavoro pubblicato nei Rapporti dell’allora Soprintendenza alle Gallerie [tanto che] la loro migliore espressione, di metodo come di contenuti, va ricercata più nell’insieme che nella pur elevata qualità della singola prova. Non si tratta di foto d’architettura, poiché su nessun edificio, in quanto opera d’arte o d’autore era significativo soffermarsi (…) Non si può parlare di foto di paesaggio (…) perché, soprattutto, lo sforzo documentario di queste immagini vale più della attenzione vagamente contemplativa cui si associa di frequente la nozione stessa di paesaggio [sebbene poi] i soggetti di queste foto tendono ad allontanare (…) gli elementi di disturbo, siano essi ‘restauri’  brutali o paesaggi troppo modernamente compromessi”[634]. Ciò non tanto per una specie di manipolazione ideologica o di nostalgia illusionistica, ma perché – come ricordava Lucio Gambi – “qualsiasi operazione di cartografia e di fotografia non può dare una riproduzione globale dei patrimoni o ambientali o culturali di una data area, ma implica soluzioni e scelte fra le cose da mettere a fuoco e cose da lasciare in ombra”[635].

Negli anni immediatamente successivi (ma anche sovrapponendosi in parte, tav. 226) quella metodologia venne adottata, con opportuni aggiustamenti,  anche per il centro storico di Bologna, a partire dalle valutazioni emerse dall’indagine settoriale condotta da Leonardo Benevolo e Paolo Andina nel 1963-1965, avvalendosi di un gruppo di collaboratori che comprendeva anche Pier Luigi Cervellati, già all’Università di Firenze come assistente di Benevolo[636], che nel 1970  sarebbe diventato assessore all’Edilizia Pubblica e Privata nella nuova giunta di Renato Zangheri. Certo non era la prima volta che Monti si misurava con soggetti bolognesi, come indicano alcune riprese del 1965 realizzate per la Storia Garzanti, né le sue frequentazioni erano circoscritte all’ambiente della tutela e della pianificazione urbana, ma certo ora obiettivi e impianto del progetto erano radicalmente diversi e innovativi, suscitando non poche perplessità. Come avrebbe ricordato Cervellati, “allora, la domanda ricorrente era: «A che cosa serve un censimento fotografico del centro storico?  Perché incaricare Paolo Monti di fare centinaia, forse migliaia di fotografie di una realtà consolidata, presente e destinata a rimanere tale per scelta di cultura e volontà politica?» Furono in molti a non capire il significato – anche progettuale, come adesso si ama ripetere – di quell’operazione intrapresa sul finire degli anni ’60. (…) Monti aveva dimostrato (sicuramente per ‘influenza’ di Emiliani) di saper interpretare – e restituire – lo spazio architettonico e l’ambiente naturale e costruito in modo completamente diverso rispetto agli altri fotografi”[637]. Gli aspetti metodologici e le conseguenti scelte tecniche del progetto vennero esplicitati da Monti in una serie di Appunti per il censimento poi pubblicati nel volume a corredo della mostra del 1970 a Palazzo d’Accursio (tav. 227)[638]. Lì vennero indicati  gli scopi generali, le Esigenze particolari del rilevamento, le Norme di lavoro e principi informativi e infine l’indicazione dei Mezzi impiegati per il lavoro fotografico. La necessità di un rilevamento “il più completo possibile e nelle migliori condizioni ambientali, quindi in assenza di automobili[639] (…) e col minimo di segnaletica stradale visibile in primo piano (…) di documentare il centro storico come è,  vedere fino a una parte che generalmente è nascosta che è la base dei palazzi e delle case, che viene coperta da queste file di automobili che coprono completamente”[640], mostrando “questa quarta dimensione dell’architettura che è il piano di appoggio e il suo contiguo ambiente urbano”[641],  imponeva la “ripresa di intere strade con foto dei due fronti e di tutte le case, palazzi e monumenti, cortili, giardini, ecc. perché tutta la città storica sia documentata in modo completo e facilmente identificabile.” A quella si aggiungeva la “documentazione di particolari architettonici (…), arredo urbano, particolari ambienti e soluzioni urbanistiche anche minori o minime, ecc.  Degrado dell’ambiente del centro storico per posteggi, affissioni, insegne, negozi, pavimentazioni non originali (…) ecc.”  Il rilevamento doveva essere condotto con “rapidità e completezza (…) per giustificare pienamente le spese (…) e il dispendio e il disagio provocati dal blocco del traffico”, rendendo visibile (e qui risiedeva una delle più forti indicazioni progettuali) “il percorso umano della città e il suo possibile godimento pedonale”, ciò che comportava una “molteplicità dei punti di vista e delle inquadrature, vicine e lontane ed effetti prospettici vari, come appunto accade osservando mentre si cammina, con tutto il tempo disponibile al vagare dell’occhio (…). L’insieme delle fotografie deve insomma rendere visibile un ideale e lunghissimo vagabondaggio su vari itinerari urbani, con fermate nei cortili e su per le scale, passeggiate nei giardini, ecc.” Quasi il pedinamento di un utopistico flaneur al quale fosse concesso di ignorare i rigidi confini delle proprietà private.  La strumentazione più adatta venne individuata in un apparecchio fotografico Linhof di medio formato (10×12) “per le foto dei palazzi e monumenti più importanti (…) nonché per le vedute generali di strade e piazze” e un Nikon 35 mm dotato di obiettivo grandangolare a correzione prospettica, cioè decentrabile[642], messo in commercio dalla casa giapponese nel 1968 in sostituzione di una prima versione del 1962. “Si può affermare senza esagerazioni – concludeva Monti –  che solo la disponibilità di questo obiettivo permette di realizzare nei tempi voluti il rilevamento progettato.”  Le prime riprese, necessarie alla messa a punto della metodologia di lavoro, datavano al 30 marzo 1969 e riguardarono i due isolati compresi tra Via Santo Stefano e Via  San Petronio Vecchio con la casa  di Cesare Gnudi[643], per riprendere poi la mattina dell’8 agosto “quando finalmente si passò al programma preciso di fotografare tutta via Galliera e qualche strada attigua”,  lavorando “sei ore filate – dalle otto alle quattordici – ora di riapertura al traffico. (…) Direi però che Via Galliera non fu documentata al livello delle altre strade perché, malgrado tutto, un certo sforzo e qualche incertezza si vedono. Il risultato migliore l’ebbe, direi di diritto, Via Castiglione: percorsa passo a passo con tutte le sue curve e i suoi dislivelli, cortili, muri e colonne, gradini e selciati. E quei salti d’ombra e di luce che, a una stereometria così complessa e a così varie prospettive, aggiungono il fascino magico di certe antiche scenografie (tavv. 228, 229). Ma se la fotografia d’architettura di così largo respiro era già un lavoro appassionante, quella di particolari ambienti riportati al silenzio e alla naturalità dei loro spazi, quando l’automobile non esisteva (Bologna, via Zamboni coi  portici di San Giacomo Maggiore e di palazzo Malvezzi, tav. 230; Bologna, via del Pratello angolo via Pietralata, , tav. 231), fu esperienza ancora più eccezionale. Così come la sorprendente rapidità con la quale gli uomini, e più di tutti i bambini e i ragazzi di quegli spazi si impossessavano godendo subito nei modi più vari e giocosi. Un lavoro eccezionale che difficilmente potrà ripetersi, per quanto quasi tutte le città italiane abbiano un tale debito verso i loro centri storici, che sarebbe da attendersi che questa impresa fosse soltanto la prima di una lunga serie”[644].  La partecipazione anche civile di Monti a questo progetto era bene espressa in una lettera a Cervellati del novembre 1969 nella quale riferendosi ai conteggi (e quindi ai conti) relativi “al lavoro fotografico eseguito finora per il Centro Storico di Bologna” sottolineava di aver “considerato tre fattori: l’importanza del lavoro affidatomi, il suo scopo di interesse collettivo e il contributo di collaborazione datomi dal Comune”[645].  Le difficoltà dovute al ritardo nei pagamenti[646] si protrassero sistematicamente, ma ciò  nonostante in due anni vennero  realizzate più di 4.000 riprese di spazi urbani provvisoriamente liberati dalle auto, di singoli edifici e di loro dettagli architettonici e decorativi, sino a produrre quello che Emiliani definì una “specie di inventario urbanistico della città (…) Ed era con un respiro grandioso, potente che, per un attimo, la città storica si mostrava a noi. Un vero capolavoro nascosto [fatto] più di tessuto artistico che non di monumenti singoli e isolati” [647]. La strategia politica di costruzione del consenso intorno al Piano prevedeva l’utilizzo della fotografia anche come mezzo di comunicazione rivolto al pubblico generico, per “contribuire alla migliore conoscenza della vasta problematica, in via di sviluppo, sul centro storico bolognese” [648]. Così nel giugno 1970 aprì a Palazzo d’Accursio la mostra Bologna – Centro Storico[649], con un volume di corredo che mostrava  un approccio visuale alla città caratterizzato da un  andamento spaziale e ottico insieme, partendo da viste panoramiche per giungere sino alla scala degli elementi decorativi minimi delle facciate, suggerendo inediti percorsi di lettura della realtà urbana nella quale i visitatori erano quotidianamente immersi. Il capitolo centrale e progettualmente portante del volume, La scoperta della città vuota, si apriva con due testi programmatici e metodologici di Monti, L’avventura del fotografo e i già citati Appunti per il censimento, seguiti dall’introduzione alla campagna di rilevamento firmata da Andrea Emiliani: Una lettura critica e storica. Il titolo del primo contributo di Monti richiamava quello di un breve racconto di Italo Calvino pubblicato nello stesso anno[650]. La bulimia del protagonista (il “non fotografo” Antonino Paraggi, che a sua volta sembrava dar corpo a una nota riflessione di  Julio Cortázar: “Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie”) poco aveva però a che fare con la lucida sistematicità del rilevamento bolognese, con quella  “rapacità dell’occhio [alla quale] deve opporsi un ordine razionale, tanto più necessario nella fotografia d’architettura dove è sempre necessario un intendimento critico inteso a ‘far vedere’  quello che un largo pubblico si limita normalmente e nel migliore dei casi a ‘guardare’ ”[651]. Il senso d’avventura era comunque  ben presente: “il rilevamento del Centro Storico di Bologna – proseguiva Monti – resterà certamente una esperienza unica della mia professione di fotografo; solo una città così sensibile ai problemi urbanistici, e quindi umani, poteva darmi questa grande occasione, venuta dopo anni di esperienze varie, ma sia pure in diverso modo, quasi tutte convergenti a questo ultimo fine: la fotografia di architettura e di ambiente. Quando se ne parlò la prima volta, continuava a sembrarmi un progetto quasi impossibile. E anche dopo il saggio di rilevamento (…)  e persino dopo la Mostra campione a Palazzo d’Accursio, questa possibilità di lavoro non prendeva dentro di me il peso delle cose concrete, da farsi.” Al suo compimento quella campagna documentaria costituì  “la più straordinaria operazione di censimento fotografico che una città italiana abbia mai registrato”[652], segnata da “un ritmo espressivo che non soffre delle accentuazioni tecnicistiche così consuete al fotografo ‘artista’, ma pare davvero  un sensibile diaframma interpretativo fra l’immagine reale e l’obiettivo che scruta. Un diaframma che, necessariamente, ha il nome di lettura critica e storica della complessa città in cui viviamo”[653].  Aderendo alle intenzioni dei committenti, quelle fotografie non si limitavano a mostrare lo stato attuale e come temporalmente  ‘sospeso’ (ma non  astorico) di quei luoghi, ma ne prefiguravano il possibile assetto futuro, divenendo così contemporaneamente rilievo e progetto della città:  “Le foto riproducono quanto si può cogliere (vedere) osservando direttamente i luoghi fotografati ma, nello stesso tempo, indicano il possibile assetto futuro di quegli stessi luoghi”[654], scriveva Cervellati.  Da qui la scelta ideologica di Monti, e dei suoi committenti ancor prima, di escludere dalle proprie riprese non solo quei brani di città moderna e contemporanea che non potevano appartenere al progetto ma anche le presenze occasionali, le azioni contingenti, tanto da restituire l’immagine di una città vuota. Vuota come  la Parigi di Atget letta da Walter Benjamin: “Tutti questi luoghi non sono solitari – aveva scritto  – bensì privi di animazione; in queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”[655].  Non si trattava infatti di realizzare un reportage sulle condizioni di vita nella città, ma un rilevamento del contesto urbano e architettonico, secondo un’intenzione che avrebbe informato di lì a poco – pur con motivazioni in parte differenti – anche il progetto poi non realizzato di Ugo Mulas di un “archivio per Milano”. “Quello che vorrei fare – scriveva Mulas – è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci colpisce di più quando entriamo in un luogo, è il fatto che esso sia frequentato, è la gente. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse, che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo città, una struttura inarticolata, che porta una folla anonima, che si ricambia ogni giorno, che ogni giorno passa, che ogni giorno è destinata a passare”[656]. Già all’epoca molti criticarono quei censimenti fotografici[657],  ma la mostra del 1970 a Palazzo d’Accursio ebbe 200.000 visitatori stupefatti nel vedere le loro case “trasformate in monumento”, innescando così un processo culturale nel quale alla fotografia e a ciascuna delle fotografie nel loro insieme era assegnato il ruolo di “agenti di storia”, con il compito di sollecitare la presa di coscienza (dei luoghi, dei loro valori storici, delle loro potenzialità) da parte di abitanti e osservatori, innescando così delle reazioni, e quindi delle azioni, che altre modalità di comunicazione non sarebbero state in grado di ottenere. Una funzione analoga a quella adottata anni dopo da progetti di altrettanto ampio respiro quali la DATAR francese o l’Archivio dello spazio della Provincia di Milano, sebbene a partire da presupposti profondamente diversi e contrastanti, incentrati sull’interpretazione autoriale.  Anche nel più circoscritto ambito della cultura fotografica italiana molti non compresero (e ancora accade) le ragioni  e le conseguenti specificità  di quel progetto. Così, oltre a rimarcarne la presunta “atemporalità” (ciò che pare quantomeno improbabile trattandosi di fotografie) o lamentando la riduzione della scena urbana a una “scenografia teatrale”[658], sulla scia lunga di antiche considerazioni di Italo Zannier non pochi commentatori hanno creduto di poter riconoscere in Monti  “il più moderno interprete della tradizione degli Alinari”[659], ribadendo anzi che  “da questo punto di vista, il caso del rilievo (…) per il piano di Bologna nel 1969 risulta paradigmatico. Nonostante la raffinata cultura visiva del fotografo e l’articolato quadro teorico del progetto, la reinvenzione di un centro storico senza storia ottenuta mediante la materiale obliterazione del rumore visivo della città contemporanea costituì di fatto un ritorno all’ordine della tradizione Alinari”[660].  Doppio piano di incomprensione si direbbe,  poiché il programma (commerciale e culturale) della ditta Alinari (a sua volta interpretato come monolitico, ciò che di per sé già costituisce un evidente stereotipo storiografico) è letteralmente incommensurabile col progetto (culturale e politico) emiliano, ma anche perché  nello specifico di quegli interventi non vi fu né una selezione di emergenze significative né alcuna “materiale obliterazione”, come del resto mostrano esplicitamente le immagini esposte e pubblicate in Bologna Centro Storico.  Anche nel considerare le modalità narrative il paragone con quell’ingombrante antecedente storico non regge, essendo il lavoro di Monti strutturato per “serie e sequenze nelle quali l’intenzionalità discorsiva del fotografo [è] leggibile con un minor grado di soggettività” [661]. Anzi fu  proprio quella rinuncia, adottata “con grande modestia, alla sua inesauribile creatività visiva”[662],  quel suo “nuovo, definitivo abbraccio alla realtà … condotto deliberatamente ‘senza stile’. Un estremo atto di vita, piuttosto”[663],  a segnare i rilevamenti fotografici emiliani “recuperando l’understatement dello stile documentario e la dimensione progettuale del lavoro”[664]; qualcosa che risuonava anche nella poetica di un autore per certi versi tanto lontano quanto Walker Evans, che ricercava “la non-visibilità dell’autore, la non soggettività. Questo è applicabile alla lettera al modo in cui io voglio usare e uso la fotocamera”[665]. Nell’impresa bolognese si trattava semmai di intendere la  fotografia  “come memoria attiva, strumento di democratica gestione della città. Le indagini compiute da Paolo Monti in più di un centro della regione  – ha scritto Massimo Ferretti[666] –  prima di rilevare inedite visuali e aspetti segreti riscoperti nella città deserta, suggeriscono un diverso modello di presenza, una riappropriazione collettivamente possibile; costituiscono una memoria che non è nostalgia, ma coscienza, attenzione, volontà di decidere.”  Ciò che mi pare da molti non sia stato colto è proprio il ruolo di pubblico servizio svolto da Monti, la sua organica adesione ai principi di quel progetto urbanistico. È la validità di quello e della connessa “escalation culturale e soprattutto politico-culturale”[667] che ne conseguì  a dover essere eventualmente rimessa in discussione criticamente e storicamente, non le  pratiche fotografiche che coerentemente ne derivarono. Certo ne sortì un “ingente repertorio di immagini, che mostrava una città monocroma pietrificata nel tempo, in una manifestazione quasi metafisica di spazi architettonici e complesse strutture urbane”[668], ma quelle sequenze di immagini, lontane dal voler celebrare “l’immagine nostalgica di una città non toccata dalla modernità, piena di segreti nascosti e di sorprese architettoniche, una città che solo lo sguardo del flâneur poteva apprezzare appieno”[669], erano funzionali allo scopo non solo di rilevare ma anche e forse soprattutto di rivelare le potenzialità dell’intervento conservativo a scala urbana.

Quella modalità descrittiva venne adottata anche in altre campagne coeve, come quelle del 1970 dedicate a Tarquinia e alla Tuscia romana[670], ma producendo esiti differenti; ciò che  mostra quanto potesse mutare il senso del procedere narrativo in relazione al progetto ed eventualmente al contesto editoriale. Qui la ricercata assenza di persone e di segni della contemporaneità produceva infatti una  indeterminatezza del tempo della ripresa, uno sguardo che diremmo anacronistico, che richiama quello dei pionieri della fotografia di architettura (Tuscania. Chiesa di San Pietro, novembre 1970, tav. 232), mentre la modernità dello sguardo si rivelava solo in qualche bell’episodio come la ripresa della Loggia del Palazzo Papale a Viterbo[671] . La consolidata collaborazione con Anna Maria Matteucci, che aveva fatto parte dei gruppi di lavoro delle Campagne di rilevamento promosse dalla Soprintendenza bolognese nel 1968-1970, segnò altre produzioni di quel decennio, che si concluse con la realizzazione dell’apparato fotografico per il volume dedicato nel 1979 ai Palazzi di Piacenza[672]. Come in altre occasioni analoghe a Monti vennero affidate le riprese in bianco e nero mentre quelle a colori erano di Antonio Guerra,  a sua volta conosciuto nel corso delle campagne promosse dalla Soprintendenza alle Gallerie di Bologna. Questo lavoro  apparteneva per committenza,  intenti e modi a  un universo lontano dagli altri progetti di quegli anni, consentendo forse una più ampia libertà d’azione specie nel confronto con gli spazi barocchi (Palazzo Baldini-Radini Tedeschi, la scala, tav. 233; Palazzo Anguissola d’Altoè, la scala, tav. 234)[673] che generava una  qualità interpretativa sovente valorizzata dall’impaginazione delle fotografie a piena pagina. In occasione del suo ultimo rilevamento Monti sarebbe poi  tornato a confrontarsi con le proprie radici, lavorando nella zona compresa tra Lago d’Orta, valle Strona e Ossola Inferiore per incarico della Fondazione Arch. Enrico Monti, con  sede nella sua Anzola, e in particolare del suo direttore scientifico Enrico Rizzi. Un’iniziativa che si poneva nel più ampio contesto di un programma regionale che prevedeva il “censimento del patrimonio storico, artistico, archivistico, iconografico e bibliografico cosiddetto minore e attinente la storia locale, l’etnologia, le tradizioni popolari, il recupero e la catalogazione del patrimonio fotografico locale inteso come bene culturale”[674]. Parte di quelle immagini venne pubblicata postuma in due volumi[675] segnati da un forte senso di heimat,  di sentimento del luogo originario, nelle quali Monti adottava registri diversi restituendo in modo rigoroso il dialogo tra architettura e ambiente naturale (Sacro Monte di Orta, Madonna del Sasso a Boleto) o rilevando le dense qualità materiche di vecchi tronchi e antiche case, ma concedendosi anche qualche veduta di gusto più oleografico, quando non elegantemente fotoamatoriale  (tav. 235)[676].  Ciò che più sorprende in Monti, e certo non è scoperta nuova, è la sua capacità di rendere le architetture riflettendo ogni volta sulle loro specifiche caratteristiche storiche e stilistiche, instaurando ogni volta un confronto vero, che rifiutava l’applicazione meccanica e stereotipa di formule prestabilite. Forse potremmo dire, osando un piccolo gioco verbale, che Monti non è stato fotografo di architettura ma di architetture: da Brunelleschi e Codussi alle case dell’Appennino e dell’Ossola, passando per Procida. Architetture ogni volta diverse, fotografie ogni volta differenti.

Gli esiti di quelle campagne di rilevamento vennero ampiamente pubblicati ed esposti in quegli anni ma  non sappiamo dire se e in quale misura influirono sulle politiche urbanistiche e sulla stessa percezione dei luoghi da parte dei loro abitanti, se non – almeno in parte – per quelli emiliani. Certo è che in ambito strettamente fotografico  costituirono un modello senza immediate filiazioni o eredità[677], specie per quanto riguardava la disponibilità del fotografo a porsi al servizio di un progetto pubblico rinunciando a lasciare ogni volta la propria riconoscibilissima impronta autoriale. Su questa soluzione di continuità influirono certo i profondi mutamenti di orizzonte politico e culturale che hanno segnato il passaggio agli anni Ottanta[678] e  il faticoso emergere, anche in Italia, di una connotazione del ruolo e della figura del fotografo che si avviava a caratterizzarsi  per una sua elevata riconoscibilità in termini culturali e commerciali, mercantili. Qui – credo – in questa ostinata e meritoria ricerca di affermazione culturale delle generazioni successive va cercata la causa primaria di quelle mancate filiazioni; nel rifiuto di quell’apparente anonimato fotografico  e non certo nell’emergere di “una nuova generazione di fotografi che si confrontava con la realtà nella prospettiva dell’attivismo politico, dell’intervento partecipato, dell’urbanistica dal basso, della contaminazione fra rurale e urbano”[679].

Le frequentazioni bolognesi di Monti datavano dai primi anni Cinquanta, segnate dai rapporti di amicizia e collaborazione coi membri del Circolo Fotografico Bolognese, e in particolare con Giulio Parmiani[680], ma le relazioni avviate nel decennio successivo, in primis quella con Andrea Emiliani[681], gli offrirono importanti  occasioni di intessere nuovi rapporti personali e professionali, che si tradussero quasi in un radicamento bolognese del fotografo. Così dalla collaborazione con la Galleria de’ Foscherari  nacquero rapporti duraturi con artisti quali Luciano de Vita[682] o Germano Sartelli, per il quale realizzò la documentazione delle opere presentate in galleria nel 1969 e ancora nel 1974. In quei lavori ritrovava suggestioni (in)formali più che evidenti, tali da trarre in inganno anche un occhio criticamente esercitato come quello di Carlo Bertelli, che presentando l’opera del fotografo confuse la riproduzione di un’opera di  Sartelli (tav. 236) con “quella che sembrerebbe una fotografia dello stesso Monti ingrandita e chiusa in un telaietto di legno. La fotografia incorniciata ritrae un groviglio di reti e una penna caduta a un uccello, ma l’effetto di superficie è tale che di primo acchito penseresti piuttosto di trovarti di fronte a una combustione di Burri. L’ambiguità è data dalla fotografia che ritrae un’altra fotografia, evidenziandone la collocazione sulla parete come un quadro”[683]. Anche nell’attività didattica, dopo le esperienze alla Scuola del Libro dell’Umanitaria di Milano coordinata da Albe Steiner intorno alla metà degli anni Sessanta[684], la stagione bolognese si rivelò importante. Così dopo l’incarico all’Accademia di Belle Arti, dove tenne il corso di Tecnica della Fotografia dal 1969 al 1971, venne chiamato da Ezio Raimondi al  neonato DAMS[685] per insegnare  Tecnica ed estetica della fotografia, partecipando anche  ai seminari  interdisciplinari di Museologia e Urbanistica con Emiliani e Cervellati.  “Una proposta formativa innovatrice che tuttavia non ebbe lunga durata”[686],  così come la complessiva esperienza universitaria di Monti che si rivelò frustrante a causa della mancanza di condizioni  organizzative e culturali  sufficienti a svolgere correttamente l’insegnamento, tanto da portarlo alla rinuncia all’incarico nel 1974, consigliando di assumere Zannier,  “cosa che fu accettata e che mi ha fatto molto piacere perché mi fido molto di questo amico”[687]. A testimoniare il suo impegno per la didattica restano una serie di appunti e i numerosi volumi oggi presenti nella sua biblioteca, con date di edizione comprese in quell’arco di anni[688];  un insieme che costituisce un quarto del suo intero patrimonio librario. Tra le note di lavoro è di particolare interesse un dattiloscritto del 1971 nel quale precisava la sua intenzione di articolare il corso in due parti, “la prima come tecnica della ripresa, sviluppo e stampa della fotografia e la seconda (…) sulla fotografia come linguaggio, anche attraverso il suo sviluppo storico e le sue implicazioni sociali”[689]. Questo interesse per temi di storia della fotografia, quale risulta anche da numerosi puntuali riferimenti sparsi nei suoi scritti e che avrebbe preso forma in un progetto editoriale per Electa  specificamente dedicato alla Storia della Fotografia in Italia [690], costituiva un segno concreto dell’accrescimento dell’attenzione culturale per il tema (e per il patrimonio) che si era faticosamente fatta strada in una cultura (non solo fotografica) come quella italiana a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, quando un critico militante come Zannier poteva ancora ironicamente scrivere di “quelli che si sforzano di riesumare fotografi ‘primitivi’, i quali d’altro canto possono interessare solamente un amatore d’anticaglie o, al massimo, uno studioso di tecnica fotografica”[691]. L’implicito riferimento a Lamberto Vitali era tanto evidente quanto critico e tragicamente anacronistico, ponendosi alla soglia della tappa milanese della mostra dedicata a  Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim[692] nell’ambito della XI Triennale di Milano del 1957. Richiamando la mostra e confutando indirettamente quelle posizioni Piero Racanicchi si lamentava invece “di come, a diecine di anni dall’avvento della fotografia in Italia, si vada perdendo una documentazione fotografica nazionale la quale, oltre agli innegabili interessi artistici, di costume e tecnici, sarebbe di indiscutibile aiuto nella ricostruzione della storia della nostra fotografia, dalla sua nascita ai tempi odierni. La raccolta di antiche foto, allestita in appendice alla Collezione Gernsheim, nella recente Triennale, a cura di Lamberto Vitali, ha dimostrato chiaramente come vi sia per noi l’effettiva possibilità di intessere un discorso storicamente compiuto sulla fotografia italiana. Una fototeca ove esistesse, sia in forma di Mostra permanente (…) che di archivio, darebbe l’avvio a una revisione e ad una interpretazione storico-critica di tutto il ciclo della nostra fotografia, determinando una fioritura di studi e di interessi di cui oggi, non si può non avvertire la mancanza”[693]. In quel clima di nascente attenzione per la storia della fotografia e in un contesto come quello milanese che costituiva il centro più vivo della nuova cultura fotografica italiana[694] si muoveva Monti, ricevendone stimoli e suggestioni che molto avrebbero contribuito a precisare la sua sensibilità per le questioni storiche, nutrita anche – come si è visto – dalla conoscenza diretta di fondamentali testi della nuova storiografia quali Apologia della storia  di  Marc Bloch. Della necessità di porre in prospettiva storica i propri contributi critici, con costanti richiami ad autori storicizzati si trovano tracce già in uno scritto del 1955[695] per farsi poi sempre più articolati negli anni successivi, come in quello già ricordato relativo all’attività professionale in Italia[696], accompagnati da una crescente consapevolezza della fondamentale importanza di questo patrimonio storico, poiché “negli archivi immensi da cui sono state estratte queste immagini giacciono i documenti per gli storici futuri”[697]. Il progetto per una Storia della Fotografia in Italia dal 1839 al 1939, databile alla  fine degli anni Settanta se non addirittura ai primissimi anni di quello successivo,  venne redatto per Electa, la casa editrice che costituì il punto di riferimento produttivo ed editoriale di una serie imponente di iniziative concentrate nell’anno 1979[698], in grado di cogliere e sviluppare i numerosi segnali del crescente interesse recentemente manifestati da altre case editrici come Einaudi o dagli esiti di eventi espositivi di grande richiamo quali la mostra Alinari del 1977 o le sezioni culturali curate da Lanfranco Colombo nell’ambito delle varie edizioni del  SICOF – Salone Internazionale di Cine Ottica Foto.  Per quanto possa apparire singolare che tale progetto storiografico fosse affidato a un fotografo, ne vanno segnalate alcune peculiarità che sembrano dovute proprio alle particolari competenze del curatore, quali l’intenzione di riprodurre le stampe “nel colore originale del tempo – seppia – seppia oscura – bianco e nero freddo e b/n caldo – ecc. (…)  in modo da rispettare i valori tonali delle opere originali” [699]  per assicurare “il carattere di autenticità dell’immagine”, vale a dire la sua apparenza materiale di oggetto e non solo il suo contenuto iconico. Altrettanto interessanti le implicazioni storiografiche sottese al titolo: “La ragione delle parole (…) «in Italia» è causata dal fatto che non vogliamo ignorare l’influenza dei fotografi inglesi e francesi che hanno esercitato la loro professione in Italia” scriveva Monti introducendo una precisa distinzione, quasi polemica, rispetto al titolo della grande mostra fiorentina (poi veneziana) del 1979 dedicata alla fotografia italiana, che pure aveva ospitato esemplari di quegli autori. L’attenzione avrebbe dovuto estendersi “dalla fotografia archeologica a quella di montagna, dalla foto di costume alla fotografia scientifica, dal ritratto alla foto di guerra (dalla Tripolitania alla 1a guerra mondiale). In altre parole, dalla fotografia come fatto estetico alla foto come documento (di cronaca, scientifico ecc). Questo piano di lavoro comporta una seria ricerca in Italia e all’estero sia delle opere che dei diritti di riproduzione, sia delle fotografie professionali che amatoriali.” Un progetto ambizioso, che per estendersi sino ai primi decenni del Novecento consentiva a Monti di ribadire ancora una volta il ruolo svolto dalla fotografia amatoriale (e  non solo nella contemporaneità), convinto che “una storia della fotografia italiana non potrà farsi senza lunghe ricerche fra i vecchi archivi dei dilettanti: vedremo allora che oltre agli Anderson e ai Brogi, ai fratelli Alinari, c’erano molti altri fotografi che hanno lasciato le loro nitide tracce”[700].

 

 

NOTE

[1] #  Monti 1948. N.B. Il segno “#” anteposto alle intestazioni rimanda al repertorio delle  fonti archivistiche.

[2] Si veda più oltre nel testo.

[3] Quasi solitaria traccia visiva del Ventennio una piccola stampa relativa ai Littoriali della Cultura e dell’Arte nell’edizione romana del 1935 (tav.001).

I numeri di tavola  rimandano prevalentemente al repertorio catalografico consultabile all’indirizzo  http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=paolo+monti, che fornisce anche i dati relativi a materia e tecnica delle fotografie citate. Le eventuali differenze di definizione del soggetto e di datazione rispetto a quanto indicato nelle schede sono l’esito delle ulteriori ricerche condotte in questa occasione. Nei casi in cui l’immagine appartenga a un insieme più ampio  sarà possibile consultare le schede relative a quella specifica serie o servizio digitando la parola chiave nella schermata di ricerca del sito.  Si ricorda che nei casi in cui il rimando è costituito dal repertorio https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Photographs_by_Paolo_Monti  i negativi lì pubblicati sono stati invertiti per favorirne la leggibilità, vanno quindi considerati soprattutto per soggetto e matrice dell’inquadratura. Altri ulteriori rimandi si riferiscono a tavole illustrative redatte ad hoc che contengono i dati identificativi minimi di ciascuna immagine.

[4] Rizzi 2010. Dopo la morte del fotografo (29 novembre 1982), il 26 marzo1985 la Fondazione arch. Enrico Monti di Anzola, Enrico Rizzi e Giancesare Rainaldi acquisirono dalla vedova Maria Binotti l’intero archivio,  costituendo a Milano l’Istituto di Fotografia Paolo Monti, con cui collaborò anche Roberta Valtorta dal 1992 al 2000. Nel febbraio 2008 la Fondazione BEIC (Biblioteca Europea d’Informazione e Cultura) acquistò l’archivio Monti dall’Istituto depositandolo quindi presso il Civico Archivio Fotografico di Milano.  Nel 2008-2010, finanziato dalla stessa  Fondazione venne realizzato il  progetto di riordino, catalogazione scientifica e  digitalizzazione del fondo fotografico, coordinato da chi scrive e da Silvia Paoli, Conservatore del Civico Archivio Fotografico; cfr. http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/fondi?nome=Paolo%20Monti.

[5] Laguna di Torcello, “Ferrania”,  2 ( 1948), n. 10, ottobre, p. 11, tav. 002.

[6] Zannelli 2016.

[7] Arte 1947. A Max Huber, che già  nel 1942 aveva partecipato alla mostra Abstrakt+konkret alla Kunsthaus di Zurigo, vennero affidati la progettazione del catalogo e del biglietto di invito. Lanfranco Bombelli Tiravanti e Max Huber, con  Eugenio Gentili Tedeschi avrebbero poi curato l’allestimento della Mostra internazionale fotografica dell’architettura per l’VIII Triennale di quello stesso anno, mostra da porsi in relazione alla mancata partecipazione di Max Bill alla stessa Triennale; cfr. Fabbri 2009, in particolare alle pp. 70-75.

[8] Valtorta 2008, p. 70.

[9] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[10] Una sezione fotografica era presente già nelle precedenti edizioni monzesi, a partire dal 1925, cfr. Arte della fotografia 1927. Va comunque ricordato che la nuova sede di lavoro di Monti sarebbe stata Cressa, in provincia di Novara e quindi, dal 1936 nello stesso  capoluogo, ciò che avrebbe favorito le frequentazioni con Milano.

[11] Pelizzari 2011, p. 148.

[12] Nel 1934 Monti aveva convinto il padre all’acquisto della Rolleiflex.

[13] Herbert Rüedi (Berna 1888 – Milano  1949), attivo a Lugano sino al 1932 (lo studio sarà gestito dalla moglie Frida sino al 1936 per poi passare a Vincenzo Vicari), dove ebbe come assistente Walter Bosshard, fu autore di noti manuali dedicati alla pratica della fotografia in 35mm  (Come si lavora con la Leica. Milano : Stucchi, 1934; La fotografia e la Leica. Milano : Igis-Ind. Graf. Ital. Stucchi, 1938)  oltre che dell’apparato fotografico di numerosi volumi d’arte e di paesaggio, tanto che un suo Paesaggio, a colori, venne pubblicato in Scopinich 1943b, p. 124. Cfr. G. P 1949; per ulteriori notizie si veda Paoli 2016, p. 36 nota 5. 

[14] Paoli 2016, p. 36 nota 11.

[15] Schwarz 1978.

[16] Monti 1980b. Gli scritti di Monti sono stati successivamente raccolti in Bertolini 2004 e Valtorta 2008, a cui si rimanda solo nel caso di materiali precedentemente inediti.  Testimoniano quegli anni di apprendistato di Monti una serie di manuali tecnici ancora conservati nella sua biblioteca personale,  come quelli di Ornano 1945, Cuisinier 1949 e di De Zitter 1949 e i quaderni contenenti Appunti di lavoro e Appunti e formule conservati nel suo archivio (AM-FA, s.1, b.1, reg. 2; s.1, b.1, f.3).

[17] Nell’archivio de La Gondola si conserva  una fotografia di Torcello fatta da Monti e stampata da Gino Bolognini nel 1949; Morello 2010, p. 28.

[18] Manfroi 2005a.

[19] Monti 1979a. Leiss, tra i promotori della Sezione fotografica del “Centro Studi d’Arte Contemporanea di Venezia” avrebbe poi promosso la mostra di Monti alla Galleria Il Ponte, nel luglio del 1953.

[20] Si veda Leiss 1953 con testi di Jean Cocteau (L’autre face de Venise, ou Venise la gaie)  e di Filippo de Pisis (Venezia, o la consolazione della pietra).  Nelle Note tecniche (p. 115) che corredano il volume Leiss si dichiarava esplicitamente “nemico del ‘documentario’ “ nella buona tradizione dei bussolanti, e  semmai orientato “a realizzare la trasfigurazione della realtà” servendosi  però “di mezzi strettamente fotografici” e dichiarando – con un certo ritardo ideologico – di voler “rinunciare  deliberatamente ai processi interpretativi” tipici della produzione pittorialista per operare strettamente con le possibilità specifiche del mezzo (inquadratura, valori luminosi, scelta dell’obiettivo, profondità di campo e simili) , poggiando infine sul “carattere analitico” della fotografia. Segnalo qui che una Venezia scura e catramosa si trova in alcune immagini di un bussolante atipico come Mario Bonzuan (1904-1982,) quale Venezia triste, 1955 ca (in Zannier, Weber, 1997, p. 77).

[21] Quest’ultima categoria di soggetti godeva di una lunga fortuna fotografica, a partire almeno da Ongania 1889.

[22] Citato in Paoli 2016, p. 36 nota 11.

[23] Morello, 62.

[24] A quella corrispondeva l’apprezzamento per la “candida pulizia” delle stampe che vide nel 1934 (Monti 1957b; Paoli 2016, p. 14).

[25] Monti 1957b.

[26] Per la fotografia di Emanuel Sougez cfr. Sotheby’s 1999, lotto 267;  per Cesare Giulio cfr. Sul limite 2007, p. 143. Il Fotogramma di Franco Grignani è stato presentato da Bolaffi 2016, lotto n.67.

[27] “ Ambiguità della tecnica fotogr. moderna – lo sfocato il mosso la grana come garanzia di autenticità”, notava in una sua schematica serie di appunti della prima metà degli anni Sessanta, cfr. Monti s.d. [1965 ca].

[28] Le tre immagini, a suo tempo pubblicate in “Luci ed ombre”, sono state riproposte in Costantini, Zannier, 1987, pp. n.n.

[29] Romeo Martinez (1983), lo ricordava a un anno dalla morte come “Lettore accanito, la sua biblioteca è certo una delle più ricche d’Italia quanto alla storia della fotografia e più in generale dell’arte”,  ciò che oggi risulta difficile comprendere davanti a quelli che possiamo considerarne i resti. Alcune clamorose lacune fanno infatti supporre che il patrimonio librario a lui appartenuto sia stato ampiamente  depauperato, e forse non incautamente: basti pensare ai libri di Paul Stand, di cui sono presenti La France de profil (1952) e Paul Strand: a retrospective monograph. The years 1950-1968 (1971), ma non Un paese (1955), di cui pure ebbe modo di analizzare criticamente le ragioni dell’insuccesso editoriale (cfr. Dal Bo [1981]1997). Nella stessa occasione Martinez aveva ricordato l’ammirazione di Monti per “Werner Bischof, fotografo che stimava molto, di cui raccolse tutti i libri”, dei quali però oggi rimane solo la tarda e striminzita antologia di Flüeler 1973.

[30] In Scopinich 1943b, p. 204. Segnalo che in De Seta 1979, p. 148 questa fotografia è indicata – credo correttamente –  come “Procida (vuoti e pieni, ombre e volumi luminosi), vol.34, n.44”; come in tutto quel volume, le immagini sono prive di qualsivoglia indicazione cronica ma si può supporre che essa sia stata realizzata entro il 1936, durante le campagne fotografiche dedicate all’architettura rurale italiana.

[31] Scopinich 1943a.

[32] Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943, p. 7 passim; i concetti fondamentali sarebbero stati ripresi in Vannucci Zauli 1945.

[33] Citato in Colombo C. 2003, pp. 3-4.

[34] Quell’impresa editoriale venne richiamata nello stesso manifesto de La Bussola, ricordando che  il gruppo non intendeva limitare la propria “attività ad una platonica affermazione culturale di principio, ma hanno in animo di esplicarla anche con mostre collettive in Italia e fuori, e con pubblicazioni affidate ad editori importanti. Come la recente collana «IMMAGINI» che ha incontrato largo favore nel pubblico e, ciò che più importa, ha suscitato interesse nei circoli della cultura e dell’arte; collana nata, appunto, dalla iniziativa di alcuni componenti del gruppo.”, Cavalli et al. 1947.  Zannier 1997 collocava invece al 1950 la data di pubblicazione della serie, considerandola quindi erroneamente come un esito e non un antecedente dell’attività de la Bussola e non comprendendo che l’ultimo fascicolo non conteneva solo immagini di Finazzi.

[35] In un suo repertorio di Foto per Mostre e Pubblicazioni (# Monti 1950ca) tra i soggetti elencati (“architettura, paesaggi, composizioni, riflessi, ritratti”) etc. compariva anche “toni alti”, inteso quindi come categoria in quanto tale, indipendentemente dal  soggetto ritratto. Ricordiamo che proprio i riflessi, insieme alle “pecore al pascolo” erano considerati tra gli esempi più diffusi di quel “cattivo gusto fotografico” proprio del “tradizionale romanticismo” foto amatoriale condannato da Scopinich 1943a, p. 8.

[36] Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943, p. 106.

[37] Cavalli et al. 1947.

[38] Un critico e amico come Antonio Arcari avrebbe poi addirittura negato quelle influenze.  Nel fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”, Arcari 1983, p. 5.

[39] Monti 1979c, p.6.

[40] Essendosi stabilito a Venezia solo nel 1945 forse non ebbe modo di vedere la prima mostra personale di un fotografo tenutasi in città, alla Piccola Galleria di Roberto Nonveiller, aperta nell’aprile del 1944 e dedicata a Leiss, ma certamente vide la successiva mostra di questo autore, alla Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo, nel 1951 (25 aprile – 4 maggio), preceduta nella stessa sede da quella dedicata agli autori de La Bussola (dal 14 al 24 aprile), mentre nessuna iniziativa venne dedicata a La Gondola. Solo nel 1953 (7-16 febbraio) la galleria ospitò  Toni del Tin, Mario Bonzuan e Leiss , cfr. Morucchio 1953a.  Il regesto complessivo delle mostre è consultabile all’indirizzo https://edizionicavallino.it/pages/galleria_cavallino/cardazzo_cavallino_1950.html (25 11 2020).

[41] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[42] Morello 2010, p. 70.

[43] Moholy-Nagy 1947b, basato essenzialmente sulla sua docenza statunitense, mentre il precedente Moholy-Nagy 1947a, rimandava ai corsi Bauhaus.

[44] Moholy-Nagy 1947b, fig. 233. Levstik (1908-1975), era il tecnico di laboratorio del Light and Advertising Workshop della School of Design di Chicago, coordinato da  Georgy Kepes, nel quale i  primi esercizi assegnati agli studenti riguardavano proprio l’esperienza fondamentale del fotogramma, cfr. Orosz 2019.

[45] La fotografia, già pubblicata in un numero de “La lettura del medico”, edita dai Laboratori Biochimici Fism del 1949,  venne premiata al concorso indetto dall’Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo nel gennaio 1950, cfr. Verbale 1950. In giuria, accanto a Tito Legrenzi, Consigliere delegato dell’Istituto, sedevano Federico Vender e Mario Finazzi. Il primo premio assoluto fu assegnato a Luigi Veronesi (vincitore anche di un premio del “Gruppo industriale”), per Biancheria al sole; tra gli altri premiati Giuseppe Cavalli, Emanuele Cavalli, Fulvio Roiter e Riccardo Moncalvo, al quale vennero assegnati ben tre premi per il “Gruppo industriale”.

[46] Monti 1955c. Il breve testo venne riproposto anche in occasione della monografica genovese del 1956 (Panorama 1956, con elenco delle opere esposte) e della collettiva del 1957 a Senigallia (Monti 1957c).

[47] Luigi Comencini, Attesa;  Giuseppe Vannucci Zauli, Solitudine, in Scopinich 1943b, p. 175 e p. 182.

[48] Finazzi 1942. Franchini-Stappo indicava poi quali fossero i “tre aspetti dell’immagine [che] reputo siano di capitale importanza: «l’illuminazione», variando la quale un identico soggetto può suscitare impressioni diversissime (e dunque è necessario che l’autore «senta» che solo con quella illuminazione «vive ed esiste» il soggetto nell’ambito della sua concezione); la «resa», vale a dire l’atmosfera che, con i mezzi tipici della fotografia, si vuole creare attorno al soggetto trattato; infine – fattore squisitamente fotografico – «il momento». È certo che con queste abbastanza ingenue indicazioni non si comincia neppure a risolvere il problema di giudicare una fotografia sul piano estetico; esse tuttavia aprono una possibile strada.”

[49] Alberto Lattuada, Prefazione, in Lattuada 1941, p.n.n. Monti era lontano da “Corrente”, da quella cultura e dalla rivista omonima, sulla quale Giulia Veronesi aveva recensito America Photographs di Walker Evans (2 (1939) n. 19, 31 ottobre), cfr. Sabastiani 1998, p. 52.

[50]  “l’inévitable période des interrogations et des tâtonnements”,  Martinez 1956a.

[51] FIAF 1949, che costituiva il “Catalogo” della mostra. L’opera di Monti non venne né pubblicata né premiata.

[52]  Paoli 2016, p. 38, nota 35.

[53] Masclet 1949, che si richiamava alla “grande tradizione dei D.O. Hill, Streglitz [sic], Renger-Patzsch, Nadar, Guido Rey e Weston”. La stima di Masclet per Rey è confermata dalla dedica autografa posta in antiporta a una copia de  La beauté 1933.

[54] La prima venne esposta nel 1953 alla Internationale Fotoaustellung Bochum, alla quale Monti partecipò come membro de La Gondola; della seconda si conserva in archivio (AM-FF, S.021.34.06_06) una variante di stampa di diverso formato, con inquadratura più ampia in alto, datata 1951 e intitolata Paesaggio innevato.

[55] Lettera a Ferroni datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 105.

[56] Lettera a Ferroni datata 28 11 1954, citata in Morello 2010, p. 107.

[57] Più altra dello stesso titolo pubblicata in Turroni 1959, t.155, ma va considerata anche  Abstraction, 1949, pubblicata in  Zannier 1986a, p. 54, ma di datazione incerta, tant’è che nel testo è indicata  “1947”, sebbene debba essere verosimilmente più tarda. Si veda infra Nota 338.

[58] “The spring-tight line between reality and photograph has been stretched relentlessly, but it has not been broken. These abstractions of nature have not left the world of appearances; for to do so is to break the camera’s strongest point: its authenticity. (…) The transformation of the original material to camera reality  was used purposefully; the printing was adjusted to influence the statement (…). For techical data,  the camera was faithfully used.”, White 1950, traduzione e corsivo di chi scrive. Il fotografo americano era quasi sconosciuto in Italia ma ben presente sulle pagine di “Photography Annual” e nelle esposizioni della Subjektive Fotografie. Risaliva al dicembre del 1957 un contatto epistolare tra i due, cfr.  Zannelli 2016, p.78, 88 nota 32.

[59] Abstraction – lines, 1928, gelatin silver print, 37.8 × 28.1 cm, un fotogramma oggi conservato nelle collezioni del Getty Museum di Los Angeles, inv. 84.XM.1000.64.

[60] Si veda ad esempio Wire Sculpture, 1946, pubblicata in Moholy-Nagy 1947a, p. 87.

[61] “Il fatto che sia, in un certo modo, impossibile parlare di fotografia astratta senza cadere in contraddizioni (…) non ci deve impedire di accostarci a questo ambito particolare”, Monti 1964a.

[62] Un metro metallico con analoga configurazione ma con ovvio trattamento grafico sarebbe stato utilizzato alcuni anni dopo da Albe Steiner per il pieghevole della mostra L’estetica nel prodotto, 1953  (1954a).

[63] Mi riferisco a una prova imbarazzante quale il ritratto in doppia esposizione, 1950 ca (AM-FF, RC 2906)  visibile all’indirizzo https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Maria_Elvira_Cocquio_photographed_by_Paolo_Monti#/media/File:Paolo_Monti_-_Serie_fotografica_(Anzola_d’Ossola,_1950)_-_BEIC_6336955.jpg.

[64] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. La vicenda presenta più di una qualche analogia con quella di Alfred Stieglitz che per più di un decennio a partire dal 1911 ca fotografò la nipote Georgia Engelhard (1906 –1986), figlia di George e di Agnes Stieglitz, la sorella più giovane del fotografo, cfr. Herbert 1996.

[65] Cavanna, Paoli 2016, t. 60.

[66] Ed anche La finestra di Poe,  “Ferrania”, 7( 1953), n. 11, p. 7.

[67] Lettera di Monti a Martinez datata Milano 26 luglio 1956, conservata alla Bibliothèque Roméo Martinez della Maison Européenne de la Photographie  di Parigi.  Ringrazio Silvia Paoli per avermela fatta conoscere al tempo della redazione del catalogo.

[68]  “les variations dans le temps sur un sujet unique qu’est la série des portraits de Mariel est un acte photographique dont l’accomplissement témoigne des concepts visuels et suit de près l’évolution d’un photographe que nous tenons en haute estime.”, Martinez 1956a.

[69]  “en dominer le cours ou au moins en ralentir la marche (…) un témoignage affectueux de ces moments d’ineffable attente” ;  un “essai photobiographique d’un visage féminin et de ses aspects dans le temps. Un peu à la manière d’un paysage dont on aurait photographié les variations saisonnières à des heures et des lumières différentes.”,  Monti 1956. Una fotografia di questa serie era già comparsa sulla copertina di “Ferrania” del settembre 1954 (Monti 1954b).

[70] Morucchio 1956a, dove era pubblicato anche un ritratto di Meme che, in una sua variante, sarebbe poi stato utilizzato da Albe  Steiner per illustrare la copertina di Solinas Donghi 1959.

[71] Turroni 1959, pp. 47-48.

[72] Portoghesi 1979.

[73] Monti, in Dal Bo [1981]1997.

[74] Trincanato 9148. L’attenzione per l’architettura minore veneziana era già ben presente in Bettini 1953, scritto però  nel 1940.

[75] Dopo l’ampia produzione cinematografica di argomento veneziano realizzata a partire dalla metà degli anni Trenta, Pasinetti si sarebbe avvicinato alla fotografia progettando nel 1943 una guida fotografica della città. Quel progetto non vide la luce ed è stato solo recentemente edito per la cura di Alberto Prandi e Carlo Montanaro (Pasinetti 2017), ma molte di quelle fotografie vennero pubblicate in TCI 1947.

[76] Presidenza del TCI, Prefazione, in TCI 1947, pp. 3-4.

[77] Ricordo che nel 1951 (18-31 luglio) si era tenuta a Venezia,  nella Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, La Mostra Nazionale del paesaggio veneziano e lagunare, che certo poteva aver costituito occasione di produzione e confronto su questo tema; tra i partecipanti anche Giuseppe Cavalli, Ferruccio Leiss e Gualberto Davolio Marani.

[78] Strutturalmente più semplice la variante di ripresa pubblicata in Chiaramonte 1993, fig. 34 come Sestiere Castello, s.d., tav. 040.

[79] Muro a Milano, 1954 appartiene alla stessa serie di Ricordo del 1943, 1950 (?) (Chiaramonte 1993, fig. 40); Cardo sulle rovine, 1954 ante (tav. 044), che è variante della ripresa di tav. 045,  indicata come Muro a Treviso, 1949 in Zanzi 2012, p.166. Si veda anche l’ulteriore variante di tav. 046.

[80] Pike 1947; Bovis 1948; Lorelle, Langelaan 1949.

[81] “Nor must we overlook that the operator’s success largely depends upon his taking his shot at the moment when the interest of the scene culminates. This is not a matter of lucky chance, but of artistic skill which is the outcome of synthetic effort.”, Natkin 1948, p. 12.

[82] Paolo Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[83]  Ronis 1951; Windisch 1951; ricordo che questo autore era stato il curatore della prima edizione di  « Das deutsche Lichtbild » (1927).

[84] Izis 1950; Izis  1951.

[85] Ylla 1950a; Ylla 1950b;  Ylla 1952; Ylla 1954.

[86] Steinert 1952; Steinert 1955; I lavori del fotografo tedesco del resto erano ben noti anche per le numerose presenze in varie esposizioni italiane a partire almeno dal 1949, cfr. Eskildsen 2000.

[87]  Etienne 1952. Paul Etienne, detto Paul Serisson, fotografo e grafico legato al “Groupe Espace”, fondato nel 1951 da Félix Del Marle e André Bloc.

[88]  “de présenter […]dans une Revue de défense de l’art non-objectif, une image qui voudrait être originale et qui soit le fidèle reflet des possibilités actuelles de la photographie en dehors de certaines ‘cuisines’, telles que surimpression ou photogrammes, lesquelles prétendent atteindre le subjectif par des moyens un peu faciles,”, citato in Girieud 2011, p. 146, corsivo di chi scrive.

[89]  Nel 1949 Il Circolo Fotografico Milanese aveva dedicato una mostra a Daniel Masclet; il suo Omaggio a Edward Weston, pubblicato  nel  numero monografico di “Art d’aujourd’hui” dell’ottobre 1952, poi in “Diorama”, 6 (1956), n. 8, marzo-aprile, p.30, presenta forti analogie con Finestra di Campo del Milion, 1949, di Monti (AM-FF,E063.25.02_02).  Più stringente il rapporto tra l’immagine di copertina di “Art d’aujourd’hui”, ancora firmata Masclet, e certe riprese più tarde di Monti dedicate al tema della mano (e del pugno), cfr. Ansia e aggressività 1971, p. 71.

[90] Internationale Ausstellung 1929.

[91] Il solo possibile confronto coevo, sebbene su scala più ridotta, è costituito da Boni 1944, che offriva al ristretto pubblico della collana diretta da Enrico Prampolini, oltre a quelle dell’autore, anche fotografie di Drtikol, Moholy-Nagy, Weston, Man Ray e altri, ma un significativo antecedente – almeno sul piano critico – può essere individuato  nel contributo pubblicato su “Emporium” da Lo Duca 1939.

[92] Mollino 1949, p. 122 nota 27. In particolare si direbbe che la selezione di fotografie di Erwin Blumenfeld avesse (anche) come bersaglio polemico l’opera di Mario Finazzi.

[93] Schwarz 1978.

[94]  Monti 1979b.

[95] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite; a questo proposito mi permetto di rimandare a Cavanna 2012.  Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; Tagg 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso si veda  Liégard  1905.

[96] Emiliani 1983, p. 13.

[97] Potrebbe essere letto in tal senso quel riferimento alla “sua cruda espressione intellettiva, difesa forse al dolore che investe qualsiasi aspetto della vita”, formulato da Morucchio 1956b.

[98]  La prima pubblicazione risulta essere stata su “Diorama”, 1953, n. 3, maggio-giugno, p. 6  come L’Angelo a Venezia (1951), poi in “Fotografia”, 1955, n.5, p. 17 come quindi in Pollack 1959, p. 629, come La gondola della morte, 1956, e ancora come La morte a Venezia nella versione presentata in una serie di mostre del 1956 (a Genova, n.31);  poi come Un angelo è sceso a Venezia in  Gerbi, Polastri 1960, t.38. In realtà le varianti del titolo (l’indicazione manoscritta “L’angelo della morte. 1951” al verso di AM-FF, 6342929 è di attribuzione incerta) corrispondono a due significative varianti di ripresa che si distinguono per la differente contestualizzazione del soggetto principale, cfr. Zanzi 2012, p. 237. Un’ulteriore variante, certo meno efficace e drammatica, venne pubblicata (e non per caso) in Chiesa Butazzi 1974, p. 95 (tav.  050).

[99] Monti 1979a; per il commento si veda Morello 2010, p. 70.

[100] Bellavista fu anche il titolare dell’agenzia fotografica Studio Sigla, presso cui ebbe il primo impiego Cesare Colombo (Colombo, Guerra, 2014, p. 18).

[101] Fiori mossi, 1952, tav. 051Movimenti , 1955-1960, tav. 052; Composizione fotografica, 1957-1961, tav. 053.

[102] Si confronti ad esempio Foglie e macchie di sole (tav. 054), con Interferenze dinamiche su curve. Sperimentale di sub percezione, 1954, di Grignani (Scimé1993, p. 59), come dichiarano i titoli, le intenzioni dei due lavori erano però diametralmente opposte.

[103]  Le prime copertine di Monti comparvero nel  1954: n. 300, novembre: La poltrona Martingala di Marco Zanuso, disegnata da Marco Zanuso proprio per la X Triennale, per la quale erano state studiate significative varianti (tavv. 056, 057, 058);  n. 301, dicembre: Composizione di foglie e neve (tav. 059);  nel 1957, n. 332, luglio, la solarizzazione di una Composizione in soffitta (tavv. 060061) e poi ancora nel 1961: n. 374, gennaio: Foglie e macchie di sole; n. 378 maggio: Composizione fotografica (tav. 055). Ricordo che altre copertine ‘astratte’ per la rivista vennero realizzate da György Kepes, Franco Grignani e soprattutto da William Klein, tra il 1952 e il 1960.

[104] Monti 1955a.

[105]  Cfr. infra NOTA 109.

[106] Donzelli 1956 faceva proprie le parole di un riconosciuto nume tutelare:  “La Subjektive Fotografie, come la si intende oggi, è un modo di esprimersi fine a sé stesso, che si serve di determinati principi estetici presi a prestito dalle altre arti (lettera di Steichen agli espositori della P.W.E.P. – [Post War European Photography, da lui curata]”.  Per l’immediata controreplica cfr. Turroni 1956. Segnalo inoltre che un’ampia selezione delle opere in mostra venne pubblicata in “ The 1954 U.S. Camera Annual”.

[107] Morucchio 1956a. Già alcuni anni prima, in quello che fu il primo testo critico dedicato al fotografo, l’autore aveva sottolineato “le variazioni sentimentali del suo spirito irrequieto” e la “ vita rivelata a sé stessa per quella parte d’incubo ch’essa significa a un occhio per naturalità metafisico.”, Morucchio 1953b. Meno lo convincevano invece le sperimentazioni off camera: “E così P. Monti perviene a un livello di buon gusto con il procedimento del fotogramma che, a mio avviso, ha in sé troppo  evidenti limiti decorativi e intellettivi.”, Morucchio 1953d. Se dobbiamo prestar fede alle parole di Finazzi, pare che Morucchio, nonostante gli apprezzamenti pubblici, “dicesse malissimo del dott. Monti (…) quand’era con noi, mentre in presenza di Monti era tutto «latte e miele» (…) ma Vender mi precisò che il dott. Morucchio era un eroe del doppio giuoco.”, cfr. lettera a Alfredo Camisa, pubblicata in  Morello 2003a, p. 178.

[108] Tra le opere più ‘sperimentali’ ricordo Meme 1 e 2 (tav. 061)  una doppia esposizione pubblicata in  “Ferrania”, 1951, n. 9, p. 9; due Riflessi esposti alla Mostra della fotografia italiana a Venezia, 1952; due Fotogrammi, pubblicati in “Fotografia”, 1952,  luglio-agosto e Fotogramma n. 1 e Fotogramma n.3 (una numerazione significativa) presenti alla sua  prima personale a Roma nello stesso anno; Fotogramma (tav. 062), presentato alla V Mostra nazionale FIAF a Venezia, ancora nel 1952 e quindi alla Mostra della fotografia italiana di Firenze, 1953; quindi altri (pochi) fotogrammi sino al 1956, dopo di che questa modalità espressiva pare scomparire da mostre e pubblicazioni periodiche.

[109] Si vedano a questo proposito Orsi 1956 da confrontare con Pellegrini 1955, che pur definendo la “fotografia sperimentale” come “arte moderna per eccellenza” la identificava (e la restringeva) a “realizzatrice d’immagini tipiche di un dinamismo (…) se invece surrealismi e astrattismi e concezioni similari si limitano a usare il procedimento fotografico per realizzare immagini statiche (…) allora il procedimento fotografico non sembra il più adatto per simili esercitazioni.” Questa antologia brevissima di citazioni non si può chiudere senza ricordare  ciò che scrisse  Gherardo Gentili (giornalista per “Grand’Hotel”, “Confidenze” ed altre testate femminili, dal 1957 a “Bolero Film”), per il quale  “La fotografia sperimentale non ha ambizioni d’arte; quella astratta sì, tante. Alcuni fotografi astratti, come i loro colleghi pittori, vorrebbero creare immagini e forme che in natura non esistono, inventare addirittura una realtà al di fuori di quella naturale.”, Gentili 1963. Anche un giovane critico cinematografico come Francesco Bolzoni, 1960b, p.24, nel recensire su “Ferrania” la Storia di Pollack scriveva dello “sperimentalismo di Harry Callahan e di Aaron Siskind, i cui sterpi e macchie di vernice sul muro poco ci interessano”.

[110] Da una lettera di Monti a Luigi Crocenzi, datata Milano, 8 febbraio 1957, citata in  Zannelli 2016,  p. 88, nota 32. Non è da escludere che l’iniziativa non avesse seguito poiché proprio in quell’anno White avrebbe lasciato la George Eastman House per trasferirsi al Rochester Institute of Technology. Nel maggio del 2016, su richiesta di Manfredo Manfroi che qui ringrazio per avermene segnalato l’esistenza e il testo, George Tatge contattava Ross Knapper, Collection Manager – Department of Photography al George Eastman Museum, che a proposito di questa mostra così rispondeva: ” Based on our exhibition records, it appears the museum organized an exhibition of Paolo Monti’s photographs in December of 1957. Unfortunately, there is very little information about the exhibition. In checking with the Registrar Department there does not appear to be any record of receipt or return of the photographs for the exhibition.” Segnalo inoltre che in un suo curriculum del 1967 (# Monti 1967) collocava al 1960 una sua mostra a Rochester, riferendosi verosimilmente a Photography at Mid-Century.

[111] Beaumont Newhall, [Introduction], in Photography at Mid-Century: Tenth Anniversary Exhibition, citato in Malazdrewich 2011. In particolare si trattava del Curato di campagna 1954 ca. tav. 063, (ma Parroco di campagna, 1956, in Turroni 1959, t. 156, ovvero Milano: 1880, alla III Mostra internazionale di fotografia di Venezia, 1956),  e del Ritratto di Gianni Dova, 1954 ca. [1953], in una variante di ripresa della versione pubblicata in Turroni 1959, t.154, attualmente inventariate ai numeri  1971:0140:0014 e 1971:0140:0013. Turroni 1962, p. 78, avrebbe definito il Parroco di campagna “senza dubbio una delle foto più belle della fotografia italiana dal 1945 in avanti.”  Il solo altro italiano tra gli autori esposti fu Alfredo Camisa.  Monti fece anche una serie di  ritratti a colori di Dova (tav. 064) ben noti all’epoca, come risulta da una lettera di Mario Finazzi a Camisa, citata in Morello 2003a, p. 186, relativa alla alla preparazione del volume Fotografi italiani d’oggi, poi non realizzato; cfr. infra.

[112] Monti 1954a.

[113]  Monti 1955a.

[114] Basti pensare alla forte presenza veneziana di un autore come Emilio Vedova, che pure non pare rientrasse tra le frequentazioni di Monti.

[115] Cinelli et al. 2013; Cinelli, Serena 2013.

[116] Monti 1953a.

[117]  Monti 1964b.

[118] Il fenomeno andrebbe considerate a livello internazionale, sebbene le differenze di intenti e di prospettiva fossero incommensurabili; basti pensare alla fondazione di Magnum nel maggio del 1947, mentre è all’istituzione della FIAP – Féderation Internationale de l’Art Photographique nello stesso anno che va connessa la fondazione della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche.

[119] “a new factor in pictorial photography in Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development”, Bricarelli 1922.

[120] La storia del sodalizio è stata attentamente ricostruita da Clera 2011.

[121] Cavalli et al., 1947. La ritrovata vivacità di pensieri e iniziative di quel dopoguerra aveva gia stimolato altre iniziative, come quella del Centro per la Cultura nella Fotografia–CCF di Luigi Crocenzi, che era nato da un gruppo di amici che sin dal 1946 avevano iniziato a “raccogliere e studiare libri di fotografia e di cinema, riviste e settimanali per studiare i fotoreportage”; lettera di Crocenzi a Zannier datata 24 aprile 1959, in Zannier 1986b.

[122] Monti, in Basaldella 1975.

[123] Zannier 1965.

[124] Dopo le iniziative del Circolo  Fotografico e dell’Unione sarebbe stato Lamberto  Vitali a proporre per la XII Triennale (1960), piccole mostre monografiche su altri importanti autori contemporanei –  tra gli italiani  De Biasi, Giacomelli, Monti, Mulas e Roiter –  mostre che non ebbero però alcuna risonanza in quanto relegate “in un ambiente angusto e introvabile del Palazzo dell’Arte”, Regorda 2010, p. 46.

[125] FIAF 1949.

[126]  Lettera di  Giuseppe Cavalli a Fosco Maraini datata 20 giugno 1951, citata in Weber 1997, p. 21.

[127] Cavalli 1947. La foto era compresa nella selezione curata dal “New York Times”.

[128] Ornano 1947.

[129] Vennero esposte 130 fotografie di 88 autori, frutto di una selezione assai severa da parte della giuria presieduta da Federico Vender con Gino Bolognini, Paolo Monti, Fulvio Roiter e Giuseppe Ferruzzi. Vinsero premi Giulio Parmiani, Luigi Veronesi, e Gualberto Davolio Marani cioè autori appartenenti o prossimi la gruppo de La Bussola.

[130] Monti 1951. Le due mostre non vennero segnalate né recensite su “Ferrania” ma solo su “Fotorivista”, cfr. Clera 2011, p. 41.

[131] Monti 1951. L’elenco degli espositori è stato pubblicato in Clera 2011, p. 91.

[132]  Monti 1951.

[133]  “L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”, Masoero 1898.

[134] Sull’attività dell’Unione Fotografica si veda la sintetica scheda informativa in Regorda 2010, p. 65, nota 28 e il capitolo The Photographic Union di Russo 2021.

[135] Venezia, Ca’ Giustinian 5-19 settembre 1954; a questa corrispose la mostra del Circolo Fotografico La Gondola, ospitata l’anno successivo al Musée Guimet di Parigi per iniziativa del Club Photographique de Paris 30×40.

[136] Cfr. 2ª Mostra Internazionale 1955. L’iniziativa sembrava rispecchiare ancora una volta la Mostra internazionale dell’Unione fotografica (Mostra 1954); la presentazione che ne fece Donzelli 1954 segnalava presenze di grande rilievo quali Angenend, Brandt, Hajek-Halke e Chargesheimer e, tra gli italiani, Roiter, Veronesi e Monti, indicato tra i nuovi soci, che espose Sogno a Milano. Non risulta però che fossero presenti fotografie di autori della Farm Security Administration, come vorrebbe la tradizione. Molto duro il giudizio di Morucchio sulle opere esposte a Milano, espresso in una lettera  a Mario Bonzuan del maggio 1954: “Ho visto la Mostra Internazionale di Fotografia: gli stranieri ci mangiano vivi. Rimasto che Roiter si sia presentato discontinuo. Del Tin un disastro […] eppure col nostro Centro si può fare meglio. Bisogna organizzare ‘la rete’ internazionale. Noi abbiamo idee più chiare di quelli dell’Unione.”, citata in Milozzi 2017.

[137] Morucchio 1955b. Il regesto delle partecipazioni è stato ricostruito da Clera 2011, pp. 91-100.

[138] Del gruppo di “pacifici amatori fotografi, pieni di pregiudizi accademici” de La Gondola  si salvavano appena “Berengo Gardin, il cui merito sembra quello d’essersi francesizzato” e “Monti,  con ricerche notevoli di tecnica” (Morucchio 1955b), confermando con quelle scarne segnalazioni la sostanziale  insoddisfazione di fondo.

[139] Unione Fotografica 1953. Poche le eccezioni positive segnalate dai recensori; Harold Lewis, editor di “Photography Year Book”, dichiarava di essere stato “felice di rivedere per esempio Meme di Paolo Monti: una composizione di testa e spalle di ragazza veramente interessante ed originale”, ibidem. Poco soddisfacente risultò anche la successiva edizione veneziana, nella quale “nessuna opera (…) racchiude[va] in sé quella completezza di carattere richiesta dall’arte.”, Morucchio 1953d.

[140] Russo 2011, p. 132.

[141] Un’ampia selezione delle opera esposte venne pubblicata da Steichen 1953, ma senza concedere alcuno spazio agli autori italiani.

[142] Martinez 1956a; Monti 1956; non un’antologica quindi, ma un progetto sviluppato “nel tempo”.

[143] Martinez 1956b.

[144] Roiter 1956; l’articolo è riportato integralmente in Dolzani 2008, pp. 120-121.

[145]  Italo Zannier, Due generazioni, “Camera”, 1956, n. 4, aprile, citato in  Colombo C. 2003, pp. 97-98.

[146] Balocchi, Berengo Gardin, Bevilacqua,  Branzi, Del Tin, Di Blasi, Ferri, Finazzi, Giacobbi, Giacomelli, Leiss, Orsi, Persico, Roiter e Veronesi.

[147] Bricarelli 1956a. La formula riprendeva il titolo del notissimo manifesto pacifista di Romain Rolland, pubblicato a Ginevra nel settembre del 1914. “Il Corriere Fotografico”, dopo quasi dieci anni di silenzio dovuti alle restrizioni belliche e alle successive difficoltà economiche, aveva ripreso le pubblicazioni col numero di gennaio del 1952.

[148] Monti 1959c, p. 47. Già Donzelli 1955-1956, aveva proposto a modello quei professionisti, come Roiter, Monti e De Biasi, che “divennero dei professionisti mantenendosi però amatori nell’animo.”

[149] Colombo C. 1963a, “c’est avec lui que s’amorce la rupture avec un certain hédonisme photographique, de même que c’est son passage aux activités professionnelles qui a secoué l’inhibition de nombreux amateurs doués mas incapables de prise de franchir le Rubicon.  L’entreprise de Monti signifiait pour notre génération l’émancipation et la revalorisation  d’un métier que l’on tenait pour socialement et économiquement inférieur. (…) Monti reste toutefois l’exemple de celui qui réussit à conserver son intégrité à tous les niveaux de sa production, c’est-à-dire qu’il réussit à défendre à tout moment sa propre personnalité de photographe.”

[150] III Mostra Internazionale 1956. Una selezione delle opere esposte venne pubblicata in “Diorama”, 6 (1956), n. 10, luglio – ottobre.

[151] Berengo Gardin, Bevilacqua, Branzi, Camisa, De Biasi, Del Tin, Ferroni, Giacomelli, Monti, Parmiani, Roiter, Veronesi tra gli altri.

[152] Il clima di tensione in cui nacque la mostra è testimoniato anche dal rifiuto a parteciparvi di Mario Bonzuan, che in  una lettera a Giacomelli diceva motivato “da divergenze accennate nella mia stessa lettera del 18 Marzo e dall’esclusione voluta, fra gli altri, dei tre promotori del Gruppo “La Bussola” (Cavalli, Finazzi, Vender) e da altri spiacevoli retroscena Montiani e Roiteriani.”, lettera di Bonzuan a Giacomelli, datata  Venezia 28 marzo 1956,  con trascrizione del carteggio intercorso tra Bonzuan e Bruno Bruni, Segretario de La Gondola, citata in Millozzi 2017. Ad ulteriore riprova di una crisi senza ritorno, nel marzo 1957 Guido Bezzola, peraltro sostenuto da Veronesi, si sarebbe rifiutato di pubblicare su “Ferrania” le foto inviate dai membri de La Bussola, cfr. Morello 2010, pp. 444-446.

[153] Zannier 1956b.

[154] Per Morucchio 1956b si trattava più esplicitamente di “un maldestro criterio selettivo circa gli inviti che generò giusti risentimenti in ambienti qualificati e la rinuncia ad esporre da parte di due autorevoli rappresentanti della fotografia italiana.” Per quel che riguardava gli espositori aggiungeva: “A Monti forse nuoce il cattivo allestimento (frittata di pannelli e cornici). Tuttavia il suo occhio ‘mordente’ e la sua cruda espressione intellettiva, (…) creano rappresentazioni scattanti per una evoluta coscienza linguistica visiva. Oggi, tra i presenti, è il più completo fotografo.”

[155] La mostra della  Magnum proveniva dall’edizione 1956 della  Photokina di Colonia, mentre  alcuni degli autori compresi nella sezione della fotografia europea parteciparono nel 1957 a Fotografie als uitdrukkingsmiddel curata ancora da Coppens allo Stedelijk Van Abbe Museum di Eindhoven (Fotografie 1957). In quella occasione l’Italia era rappresentata da Paolo Monti (nn. 171-180: Vetro sporco, Ritratto in ombra, Roccia nr.1, Roccia nr.2, Il pittore Baj, Composizione insolita, Scultore Umberto Milani, La cometa, Natura barocca e Lichene, che apriva le tavole in catalogo) e da Fulvio Roiter (191-200, con fotografie dalle serie Sicilia, Andalusia e Sardegna e sei opere Senza titolo).

[156]  Il modello era la Biennale de la Photo et du Cinema di Parigi, che aveva avuto la sua prima edizione nel 1955 vedendo coinvolti a diverso titolo sia Martinez che Monti. I rapporti tra Crocenzi, che era buon amico di Ferroni e in contatto con Monti,  e Martinez furono però di brevissima durata e solo pochi mesi più tardi si giunse a una rottura, cfr. la puntuale ricostruzione di Paolo Morello, 2010, pp. 447-451.

[157] Va ricordato che dal luglio 1957 avrebbe fatto la sua comparsa in edicola l’edizione italiana del mensile “Popular Photography”, con Fedele Toscani tra i consulenti tecnici, cui si affiancò sin dal secondo numero Pietro Donzelli, aprendo immediatamente al grande reportage internazionale con ampi articoli dedicati alla Magnum e un’intervista ad Henri Cartier-Bresson (settembre 1957). La rivista riservava un’acuta attenzione critica anche agli autori della fotografia italiana contemporanea, quelli che un articolo di Cesare Colombo definiva Gli eroi complicati, dotati di “una grande sensibilità umana e [di] parecchie inquietudini intellettuali” (Colombo 1958), da leggersi in parallelo col suo testo dedicato ai ” poeti con lo stipendio” (Colombo 1959b)

[158]  Martinez 1957, citato in Dolzani 2008, pp. 151-154.

[159] Monti 1957d. Di diverso avviso era Turroni 1956, che bollava di “semplicismo dell’argomentazione” l’ipotesi critica di  operare una “distinzione tra due ‘correnti’ – la «Family of man» e la «Subjektive Fotografie » – che rappresenterebbero, o meglio dovrebbero rappresentare i vertici della tensione artistica contemporanea, anche di casa nostra. Nessun dubbio ‘teorico’, forse, su tale enunciazione, che però ci sembra un poco semplicistica, dato che, a voler guardare per il sottile, le correnti sarebbero più d’una, e a volte tanto confuse tra loro da non saper certo districarle con una definizione appioppata a cuor leggero.” Quella volontà di rappresentazione aperta anche alle ricerche meno convenzionali non avrebbe però segnato i programmi espositivi delle Biennali di fotografia, certo utili per l’aggiornamento della cultura fotografica italiana ma di impianto più istituzionale.

[160] Monti 1952a; tranne diversa indicazione le citazioni successive sono tratte da questo testo.

[161] Corinaldi 1956.

[162] Si vedano a questo proposito Turroni 1959 e Arcari 1961.

[163] Versione originale in italiano di Monti 1954a, in Valtorta 2008, pp. 53-55; per la  versione francese cfr. Bertolini 2004, pp. 43-45. Resta singolare l’assegnazione di Cartier-Bresson al “reportage giornalistico di tipo americano”, distinguendolo però dagli altri autori Magnum.

[164] La questione etico politica ed  espressiva, e questi ambito sono necessariamente connessi, avrebbe interessato Monti lungo tutto l’arco della sua produzione e della sua vita se ancora molti anni dopo,  riflettendo su “Cos’è la fotografia”   introduceva la dicotomia “Esattezza o verità”, anche nella variante “Esattezza e verità”, posta in relazione a un ipotetico “Osservatore/ Fruitore”, cfr. rispettivamente Monti 1978-1979; Monti 1960-1965. L’affermazione  “L’exactitude n’est pas la vérité” si doveva a Henri Matisse 1947, che a sua volta riprendeva e sintetizzava una riflessione contenuta nel diario di  Eugène Delacroix alla data del 17 ottobre 1853, cfr.  Delacroix 1893-1893, p. 246. Per quanto riguarda la datazione Monti 1978-1979, assegnata da Valtorta 2008, p. 193, “agli anni Settanta”, ritengo vada collocata alla fine del decennio per il riferimento a Cristofori 1978 e per altri elementi che sembrano rimandare al progetto einaudiano e a  Paolo Monti 1979.

[165] Zannier 1957c. Considerazioni non dissimili, e un corrispondente riconoscimento degli esiti più che positivi della manifestazione veneziana vennero espresse anche da Bezzola 1957.

[166] Bezzola et al. 1957; se ne veda il ricordo in Zannier 2019.

[167] Analoghe cautele erano state espresse da Donzelli, secondo il quale molti fotografi correvano il rischio di confondere “il realismo propagandistico con la poesia e crediamo di fare opera d’arte nel fotografare i diseredati con uno stile documentaristico che ha i suoi maestri negli oscuri reporters  delle varie agenzie Associated Press o Wide World.”, Donzelli 1955-1956.

[168] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Restava singolarmente esclusa da questo brevissimo elenco la ben nota serie di foto della jam session nell’appartamento newyorchese di William Eugene Smith, realizzata nel corso del viaggio negli Stati Uniti fatto in compagnia di Romeo Martinez nell’aprile-maggio 1965 (tav. 065) . Su quella mitica serie di incontri e registrazioni si veda Stephenson 2009. Alcune di quelle fotografie, provenienti dall’Archivio Romeo Martinez, sono state pubblicate in Dolzani 2019.

[169] Patellani 1943.

[170] Arcari 1961, p. 76. Per un’ampia ricostruzione delle variate posizioni italiane in quegli anni si vedano Regorda 2010; Russo 2011.

[171] Arcari 1961 e la sintesi della discussione successiva in Atti 1959 1961, pp. 85-89.

[172] Monti 1959a. La discussa mostra curata da Edward Steichen aprì a New York nel 1955 avendo poi ampia circolazione anche in Italia, dove venne esposta  a Roma nel 1956 quindi a Firenze, poi  al PAC di Milano dal 18 febbraio al 22 marzo 1959 per iniziativa di Lamberto Vitali; fu poi a Torino, Palazzo Madama, dal 28 aprile al 17 maggio successivi. Poiché Monti la collocava a gennaio si può supporre  che questo scritto venne redatto a  qualche mese di distanza, forse in occasione della II Mostra Internazionale Biennale di Fotografia di Venezia, che si tenne tra ottobre e novembre, con una sezione dedicata a “Life”. Sulla ricezione italiana della mostra si veda Russo 2011, pp. 175-178. A qualche anno di distanza, nel 1964,  un pool di istituzioni internazionali produsse una mostra itinerante di analogo argomento e respiro, ma di non altrettanto successo, sul tema Was ist der Mensch? per celebrare il centoventicinquesimo anniversario dell’invenzione, con 515 opere di 266 fotografi di 29 paesi; tra i promotori vi furono anche i Musei Civici torinesi ma non risulta poi che l’esposizione venisse ospitata in città.

[173] Monti 1959a. Pochi anni dopo quella stessa definizione retorica sarebbe stata messa in forse, poiché “purtroppo molti balbuzienti e reticenti testimoni hanno resa sospetta questa qualifica.”, Monti 1963c.

[174] Monti 1959c, p. 42. Si veda anche infra p. 108, NOTA 538.

[175] Monti 1960-1965.

[176] Quella fu l’ultima edizione, poiché nel 1967, per ragioni anche economiche, l’Amministrazione Comunale decise di non sostenere oltre l’iniziativa, che sarebbe poi stata ripresa, con caratteristiche non troppo dissimili ma come unicum, con le manifestazioni di Venezia ’79 La Fotografia. In quell’occasione un suo Manifesto del 1971 venne compreso nella sezione dedicata alla Fotografia italiana contemporanea (Zannier 1979b, p. 15), mentre – pur invitato – Monti non prese parte alla serie di workshop organizzati tra luglio e settembre.

[177] Martinez 1959 citato in Dolzani 2008, p. 141 nota 3.

[178] Monti 1957d.

[179] Strettamente connessa a questo contesto la presenza a Venezia nel 1961 di Walter Boje, fotografo tedesco specializzato nella tecnica del colore e capo dell’Ufficio Pubblicità delll’Agfa, al quale si deve una bella foto di gruppo con Fritz Gruber, Man Ray, Ugo Mulas e Paolo Monti al caffè in Piazza San Marco, cfr. Paoli 2016, p. 25.

[180] V Mostra Biennale 1965. Quest’ultima edizione, sempre per la cura di Martinez, era in tono decisamente minore anche se presentata come “un naturale completamento delle precedenti, volta com’è ad illustrare determinati aspetti fotografici che si distaccano da quelli puramente artistici o fotogiornalistici, sui cui precipui valori espressivi sì era finora posto l’accento” (ibidem). In quella prospettiva si collocava anche la sezione dedicata all’AFIP, nella quale di potevano trovare “fotografie utilizzate esclusivamente nel campo editoriale e pubblicitario”, ma il vero obiettivo generale, sostenuto e confermato dalla presenza produttiva di Agfa e Kodak, era la presentazione e valorizzazione “dei progressi della tecnica del colore per la quale una perfetta riproduzione è un elemento indispensabile di valorizzazione del fattore espressivo.”, ibidem.

[181] Nonostante i suggerimenti di James Thrall Soby (che lo definiva “very fine”) Walker Evans non sarebbe stato selezionato neppure da Lamberto Vitali per la Triennale del 1960, cfr. Paoli 2015.

[182] Il lavoro di Frank, ampiamente celebrato da Steichen nella mostra Post War European Photography del 1953, dove gli era stata dedicata un’intera “parete con esempi del suo lavoro che è più esteso di quello di ogni altro espositore” (Red. 1953b) e ben presente in The Family of Man,  era stato segnalato da Zannier 1957b ma non citato da Arcari 1961 né da Tedeschi 1967 nella sua pur ampia rassegna sui libri fotografici pubblicati in Italia dal dopoguerra, sebbene l’edizione italiana di The Americans (Frank 1959) fosse stata oggetto di una recensione sulle pagine di “Ferrania” nella quale si rilevava che “la luce e l’angolazione dell’inquadratura sono sfruttati con finezza. Puntando sul montaggio interno degli elementi a disposizione, più che abbandonandosi senza calcolo all’ispirazione delle cose, Frank si compone uno stile rigoroso e meditato, che mai sfuma nel vago illudendo e deludendo. Chè la sua cultura di estrazione europea lo aiuta a sistemare il materiale lungo una linea precisa; ma non a violentarlo. Gli americani di Frank non sono inventati.”, Bolzoni 1960a.

[183] Monti 1963c; tranne diversa indicazione le citazioni seguenti sono tratte da questo testo.

[184] Bezzola 1960b. Come ha notato Dolzani 2008, p.207, “Non ci sarà sulla rivista altro riferimento a questa edizione o alle Biennali che si terranno negli anni successivi.”

[185] Il testo venne riportato integralmente in Red. 1953a. Non corrispondere quindi al vero che “la sua [di Roiter] prima mostra” fosse stata quella di Treviso del 1953 (Morello 2002, p. 18).

[186] Monti 1953a. Roiter si sarebbe ricordato di quella definizione, facendola propria senza indicarne l’autore originario, nel testo di  presentazione di Roiter 1977, pp.n.n.  La Galleria, aperta nel 1950 da Celio Perazzetta venne chiusa definitivamente nel 2009.

[187] Monti 1952b, poi ripreso in Monti 1952c.

[188] Monti 1954d; anche in quella occasione avrebbe rivendicato il suo “interesse indiscriminato per immagini tra loro differentissime.”

[189]  Lettera a Ferroni datata 25 agosto 1954, citatata in Morello 2010, p. 105. Ancora nell’intervista rilasciata a Maurizio Capobussi (1975), sintetizzando i diversi trattamenti necessari per le stampe a tono alto o a tono basso avrebbe concluso che “in definitiva ogni stampa è unica.”

[190] “Sono contento che Cavalli scriva di te sul “Progresso fotografico” tu te lo meriti perché hai molta passione e soprattutto perché hai già raggiunto ottimi risultati come ‘cacciatore di immagini’ (…). Io, personalmente, sono tiranneggiato da due diverse tendenze, quella del cacciatore e quella del costruttore.”, lettera di Monti a Mario de Biasi datata 5 novembre 1952, citata in  Morello 2003b, p. 20. Monti adottava qui le due categorie utilizzate da Cavalli nella lettera a De Biasi, ma come è noto la definizione di sé quale “cacciatore di immagini” risaliva a Pagano 1938, che avrebbe potuto trarla dal giudizio leopardiano sullo stile di Ovidio, cfr. Battaglino 2018.

[191] Lettera a Ferroni datata 21 ottobre 1954, citata in Morello 2010, p.107.

[192] “l’épreuve photographique, image objective ‘subjectivée’, est alors une représentation qui retient seulement certains aspects, certaines relations de la réalité. Si l’on admet, ce qui est indéniable, qu’avec son découpage de l’espace, son arrangement des formes, son rendu des valeurs tonales, la photographie est bien différente de la réalité qui lui a donné naissance mais dont elle est cependant l’image, on saisit mieux ce qu’abstraire veut dire.”,  Monti 1964a.

[193] Da una intervista di Angelo Schwarz a Monti (Schwarz 1978), poi raccolta in un volume che l’autore dedicava allo stesso Monti e a Luigi Crocenzi. Da rilevare, quale nota marginale, ai limiti del pettegolezzo, che l’uso reverenziale del “lei” dell’intervista originaria venne sostituito dal più colloquiale “tu” nell’edizione collettanea.

[194] In Schwarz 1978. Oltre all’understatement montiano, che lo induceva a proporsi quasi come un semplice artigiano nonostante la consapevolezza del ruolo da lui svolto e della sua opera, va sottolineato come tra queste diverse interpretazioni ‘tecniche’ Monti assegnasse grande importanza proprio alla fase conclusiva della stampa, nella quale il dialogo col materiale sensibile si faceva particolarmente serrato. Una diversa e contrastante testimoniaza sul suo modo di operare è stata fornita da Andrea Emiliani: “E qui imparammo subito a vedere una cosa per me eccezionale, e cioè che la foto che Monti operava era fin dal negativo – e cioè dalla sua vera imprimitura – assolutamente la stessa che ne discendeva nella stampa.”,  Emiliani 1983, p.11.

[195] Appunto manoscritto non datato, pubblicato in  Valtorta 2008, p. 187; la citazione di Monti – qui evidenziata in corsivo – è tratta da  Claudel 1933: “Alors nous comprendrons le véritable sens de ces mots: hasard, nécessité, mouvement, développement, unité, diversité (…) car la matière ne se soustrait au néant que par le mouvement vers une forme”.  Segnalo qui che un breve testo di Claudel dedicato alla fotografia (Claudel 1947) era stato pubblicato su “Ferrania” nella traduzione di Giulia Veronesi.

[196] Cfr. Serena 2013, t.2 e p. 119. Il precedente numero portava in copertina uno dei più noti ritratti di Meme (tav. 029). La consuetudine di riprendere panni stesi al sole quale pretesto di composizione grafica e tonale era piuttosto diffuso in quegli anni, come mostrano alcune fotografie dei Fratelli Pedrotti, di Giuseppe Cavalli, Federico Vender e Vincenzo Balocchi, cfr. Bianco su bianco 2005, pp. 113-115, 117.

[197] Eco 1961.  Si veda anche il testo corrispondente alla NOTA 340.

[198] Già nel 1942 il Department of Photography del MoMA aveva curato la circuitazione di How To Make a Photogram, con opere  realizzata da docenti e allievi della School of Design di Chicago sotto la direzione di Moholy-Nagy, George Kepes e Nathan Lerner, mentre una delle mostre del 1951 fu Abstraction in Photography (nessun italiano presente) e nel 1960 The Sense of Abstraction in Contemporary Photography  (17 febbraio – 10 aprile 1960)  (nessun italiano presente). Anche in Postwar European Photography, 1953, tra i lavori degli italiani (Giuseppe Cavalli, Davide Clari, Piero Di Blasi, Piero Donzelli, Federico Vender)  riscossero particolare interesse le “abstract photographs” di Luigi Veronesi.

[199] Monti 1953b. Per il fotogramma cfr. tav. 062. Come suggerisce più che esplicitamente il richiamo agli “amici milanesi”, era Piero Donzelli l’interlocutore privilegiato di quella polemica, non certo  Morucchio, come riteneva Morello 2010, p. 82.

[200]  La Sezione era nata in quello stesso 1953 per iniziativa di Ferruccio Leiss, Virgilio Guidi, Berto Morucchio e Carlo Cardazzo e faceva riferimento alla galleria di quest’ultimo, tanto che le mostre fotografiche entrarono organicamente nel calendario espositivo della Galleria del Cavallino,  cfr. Millozzi 2017. Restano quindi da comprendere le ragioni per cui la personale di Monti venne allestita in una sede diversa.

[201] Morucchio 1953c.

[202] Paolo Monti 1954.  La personale era compresa nell’ambito della IV Rassegna Nazionale di Arte Fotografica, 1-15 settembre 1954,  organizzata dal locale club fotografico “Foto 0-23”, molto attivo per gran parte degli anni Cinquanta.

[203] Monti 1952b, poi ripreso in Paolo Monti 1954 .

[204] Citato in Morello 2002, p. 21.  Roiter avrebbe risposto ricordando la consuetudine quasi quotidiana con Monti ma mantenendosi ben lontano da ogni sospetto di filiazione:  “Ci siamo formati a vicenda, fotograficamente”, ricordava in una lettera del 29 settembre 1953, citata in Morello 2002, p. 39, nota 2. Analogo il senso della dedica autografa posta alla copia di Venise a fleur d’eau: ” A Paolo Monti/ e agli anni che ci/ hanno visto ‘fotograficamente’ / e felicemente insieme./ Meolo 4 dic. 1954”.

[205] Lettera di Ferroni a Giulio Parmiani datata  17 settembre 1954, citata in Morello 2010, p. 106. Un’interpretazione analoga sarebbe stata fornita anche da Camisa 1958 che riconosceva nei lavori di Monti “una aspirazione quasi simbolistica: una fuga dalla realtà entro le regioni della visione, un rifiuto o una trasfigurazione della realtà dopo averne ricavato quanto in essa v’è di legato all’uomo o alla natura in un dato momento.” Morello 2002, p. 21, ha rilevato opportunamente che “la dimensione onirica delle fotografie di Monti è un fatto oggi trascurato, ma del tutto evidente agli occhi dei contemporanei.”

[206] Lettera di Monti a Ferroni, datata 25 agosto 1954, pubblicata in Morello 2010, pp. 105-106. Quella sua insofferenza, quasi scostante nella propria orgogliosa consapevolezza,  era ribadita nel testo di presentazione della sua personale romana dello stesso anno: “Persuaso che le mie fotografie non a tutti possono piacere, ammetto subito che gli eventuali dissenzienti sono pienamente giustificati; vorrei però aggiungere che non a tutti la natura appare arcadica, gli uomini felici e Venezia una divertente città turistica.”,  Monti 1954d.

[207] Se ne veda il regesto in Cavanna, Paoli 2016, pp. 292-299.

[208] Monti 1955c.

[209] Negli stessi anni due fotografi della generazione successiva come Giacomelli e Migliori parteciparono rispettivamente a 18 e 3 personali ma a 138 e 137 collettive.

[210] Monti 1954c.

[211] Zanelli 1954. Nella testimonianza di Zannier “la mostra fece subito scalpore, anche per i criteri nuovi di giudizio, al di fuori delle combriccole fotoamatoriali”, cfr. Neorealismo e fotografia 1987. Il ‘manifesto’ del Gruppo venne pubblicato in Gruppo friulano 1956. Si vedano anche le notazioni autobiografiche contenute in Zannier 2000.

[212] Lettera di Fiamma Vigo a Monti, datata 3 settembre 1955, su carta intestata “Numero arte e letteratura”, (#  Vigo 1955).  Non corrisponde quindi al vero la ricostruzione a suo tempo proposta da Lenzi 2003, che ipotizzava in quella vicenda un ruolo attivo di Berto Morucchio. La storia della Galleria è stata ricostruita in Fiamma Vigo 2003.

[213] FIAF 1949, che costituiva il “Catalogo” della mostra. L’opera di Monti Inverno ad Anzola (n. 141) non venne né pubblicata né premiata.

[214]  Citato in Turroni 1959, p. 37; si veda anche Donzelli 1950a, mentre a p. 7 dello stesso numero si pubblicava Spiel, una delle stampe di Chargesheimer tratte  da pellicole termicamente manipolate. Si sarebbero dovuti attendere ancora molti anni prima che “Il Corriere Fotografico” (Bricarelli 1956b) pubblicasse quelle fotografie su una testata più tradizionalista,  ospitate nella rubrica  Fotografi d’oggi, seguite da quelle di Édouard Boubat e Otto Steinert (settembre 56), Jean-Pierre Sudre (dicembre 1956) e René Burri (maggio 1957).

[215] Mostra 1951. L’iniziativa aveva avuto il sostegno dell’Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, dell’Accademia e degli Amici di Brera, quindi di Lamberto Vitali.

[216] Donzelli 1951.

[217] Ibidem.

[218] Monti 1952a.  Il pieghevole dichiarava esplicitamente che “Il Circolo della Gondola presenta l’Unione Fotografica, Associazione Internazionale Manifestazioni Fotografiche”. “L’Unione Fotografica – indicava la scheda – non è né un Circolo né un Club che desideri fare proseliti, e neppure un gruppo chiuso col proposito di imporre un proprio gusto artistico. In effetti le opere esposte in questa  Mostra (…) vogliono essere una dimostrazione di larghezza di vedute, obbiettività e spirito aperto alla più ampia libertà di espressione, sempre però sulla base di quell’elevato contenuto artistico che anima i fondatori della Unione Fotografica ed i suoi corrispondenti scelti fra i maggiori cultori della fotografia;  Monti vi espose  Temporale a sinistra, Gondola, Ghetto nuovo, Meriggio bianco e due Riflessi.

[219] ibidem.

[220] Monti 1953c.

[221]  Balocchi, Bolognini, Bonzuan, Branzi, Cavalli, De Biasi, Del Tin, Donzelli, Ferroni, Finazzi, Leiss, Monti, Orsi, Parmiani, Persico, Roiter, Scattola, Vender e pochi altri.

[222] Va qui segnalata la novità della locuzione “fotografia d’arte”, che nelle intenzioni avrebbe dovuto sostituire – ideologicamente – la frusta e vituperata categoria “fotografia artistica”.

[223] Cavalli 1953. A questa iniziativa la RAI dedicò due trasmissioni con interviste a Cavalli, Monti, Parmiani e Balocchi. Come ha ricordato Santoro 2019, la Galleria era stata diretta dal fratello di Giuseppe, Emanuele Cavalli, e nel 1951 aveva già ospitato una mostra de La Bussola.

[224]  Monti 1953b.

[225] Nèvola 1953, cr. Nota 199 Monti 1953b. Per il fotogramma cfr. tav. 062.

[226] Monti 1953b.

[227] Monti 1954a, da confrontare con il dattiloscritto originale in italiano pubblicato in Valtorta 2008, pp. 53-55.

[228] Monti 1955b, con traduzione in inglese del testo, posta a scorrere al piede della pagina. Poiché l’impaginazione si doveva a Monti risulta interessante, e certo con significato critico, considerare sia la sequenza che il dimensionamento delle immagini, come nel caso di Pietro Donzelli (t.48), sottodimensionato rispetto ad altri autori, tra i quali risultava anche Dino Sala, all’epoca collaboratore di Monti e registrato allo stesso indirizzo di studio.

[229] Donzelli 1955-1956.

[230]  Il livello insoddisfacente della critica fotografica italiana venne stigmatizzato anche da Camisa 1956.

[231] Donzelli 1956.

[232]  La formula era stata utilizzata in Monti 1955b.

[233] Quella distinzione troppo semplicistica venne contestata da Turroni 1956.

[234] Casiraghi 1956.

[235] Camisa 1956.

[236] Cavalli 1957; analoghe riserve furono espresse anche da Fumo 1956, per il quale “Da Paolo Monti ci si attendeva di più. La sua opera migliore è Perpetua, ottimamente realizzata nella composizione e nei toni.” A partire dal 1958 la mostra si sarebbe denominata Biennale internazionale della fotografia ovvero Biennale Fotografica Internazionale, ma anche, per # Monti 1958,  “Biennale Intern. della Fot. d’Amatore, che nel volgere degli anni, alternandosi con la Biennale di Venezia dedicata ai professionisti, potrà completare il periodico panorama della fotografia mondiale.” L’edizione del 1958 sarebbe stata condotta in collaborazione con “Camera”; con l’Unione Fotografica quella del 1960, che venne successivamente esposta anche a Milano, alla Galleria d’Arte Moderna, dal  4 al 18 dicembre 1960.

[237] “Anche Steinert era atteso per l’inaugurazione, ma poi non venne”, cfr. la lettera di Giacomelli a Camisa del 22 luglio 1956, citata in Colombo C. 2007, p. 24.

[238] Cavalli si riferiva verosimilmente a Curato/ Parroco di campagna, 1954 , tav. 063.

[239] Lettera di Giacomelli a Camisa datata Senigallia, 5 agosto 1956, in Morello 2003a, p. 36.

[240] Lettera di Piergiorgio Branzi a Camisa datata Firenze, 26 agosto 1959, in Morello 2003a, p. 207.

[241] Cfr. Guerra 2008, p. 43.

[242] Monti 1966. Con tutta evidenza il conflitto doveva essersi da tempo ricomposto, a testimonianza della volubilità e della contingenza di quelle diatribe.

[243] Morucchio 1955a, che a proposito di manovre eticamente discutibili aggiungeva: “E dobbiamo concludere che quel timore ventilato da più parti circa la parzialità del giudizio dei fotografi componenti la giuria, e che ha spinto qualche buon autore a inviare sotto mentite spoglie, aveva qualche fondamento?  Poiché penso che anche nel campo fotografico assieme al talento conviva la vanità e il gusto del predominio, per cui, molto spesso, invece di Gruppi di studio e di tendenza estetica si costituiscono Gruppi di clientele manovrabili, mi sembra che la critica, oltre a non essere panegirico, debba intervenire, pur col suo margine di approssimazione, a riequilibrare l’azione discriminatrice delle varie iniziative in detto campo.”

[244] Citata in Chiti 2001.

[245] Lettera di Giacomelli a Camisa datata Senigallia, 21 gennaio 1957, in Morello 2003a, p. 68. Erano anni di contrasti anche con Camisa, che Branzi designava ironicamente come “tuo ex-amante (leggi Monti)”, ivi, p.109. Nel dicembre 1957 Giovanni Massara aveva scritto a Camisa, pregandolo di contattare informalmente Monti per proporgli di far parte della giuria del IV Concorso Internazionale Fotografico Orso d’Oro di  Biella, 26 ottobre-9 novembre 1958 (cfr. Morello 2003a, p. 114). La giuria, costituita da Massara, Monti e Martinez assegnò poi il primo premio a Camisa,  per questo preso in giro da Branzi (“Ma cosa gli farai a Monti!”, ivi, p. 130).

[246] Citato in Tani 2007, p. 19. Nel 1956 Camisa aveva affidato al “dott. Monti”, per la stampa 50×60, due sue fotografie (Apparizione e Siesta, 1955), da presentare alla III Mostra internazionale di Venezia, a giugno (Morello 2003a, p. 25). Tale pratica non era certo rara, come si ricava anche da Zapponi 1956: “ la personalità di Monti [presente in giuria], vivissima nel nostro campo fotografico, traspare nella scelta delle opere, tanto da far sospettare che molti autori avessero già pronta la fotografia ‘alla Monti’ per qualche eventualità che ora si è presentata.” A proposito di competenza dei  recensori merita leggere Pazienti 1958, che parlando della giuria di quella edizione la descriveva “composta da eminenti personalità del campo dell’arte quali il pittore Gastone Breddo, il fotografo Gualtiero Castagnola, lo scultore e fotografo Paolo Monti, il critico d’arte Guido Parmiani  ed il giornalista Mario Rizzoli.”

[247] Branzi 2001.

[248] Al di là delle burrascose vicende associative i legami e le influenze reciproche tra i diversi componenti del gruppo rimasero ben salde se Mario Giacomelli fu portato a realizzare una letterale riproposizione a colori della notissima Scala di Ferroni, del 1950. La fotografia di Giacomelli, con una improbabile datazione al 1984,  è stata resa nota da Serge Plantureaux, I went to the Moon: Pages From Mario Giacomelli’s Colorful Notebook, “Weekly Transmission”, N°50, Thursday 15th December 2016, online www.plantureux.fr; il documento non è più accessibile al nuovo indirizzo https://sergeplantureux.blog/.

[249] Lettera di Ferroni a Fulvio Roiter datata 21 marzo 1955,  in Morello 2003c, p. 33.

[250] Citata in Morello 2004, p. 232. In quel contesto va collocato anche il passaggio di Mario Bonzuan da La Gondola a La Bussola. In quella occasione  gli scriveva Cavalli, “ci deve essere qualcuno che semina zizzania, certo che i veneziani non sono da qualche tempo molto cortesi nei miei riguardi.”, lettera di Cavalli a Bonzuan datata Milano 8 luglio 1955, in Millozi 2017.

[251] Lettera di Cavalli a Camisa, data  Senigallia 21 novembre 1956, in Morello 2003a pp. 61-64.

[252] L’ironia di Cavalli lasciava affiorare tutta la sua passione cinematografica, qui venata di una buona dose di cattiveria: l’attore messicano Armendariz, che condivideva con Martinez un bel paio di baffi e qualche tratto somatico, aveva partecipato in quello stesso anno alla lavorazione del film The Conqueror,  prodotto da Howard Hughes con John Wayne nel ruolo di Gengis Khan, poi considerato uno dei cinquanta peggiori film di tutti i tempi. Così  Branzi descriveva Martinez: “L’impressione che ne ho avuta non saprei definirla in poche parole. Certo loquace e leggermente fanfarone lo è. Ma non è uno stupido, e quello che ha di bello è che le cose le capisce prima che gli si dicano.”, Lettera di Branzi a Camisa, datata 15 novembre 1956, in Morello 2003a, p. 59.

[253] Quel clima da guerra fredda toccava anche il piccolo mondo della fotografia, come conferma un commento di Carlo Stucchi a proposito del fatto che “La fotografia esigerebbe un impegno totale, anzi totalitario, esigerebbe serietà e tetraggine, così da chiudere gli occhi alla realtà buona e gioconda per vedere, nei campi, non le primule ma lo sterco. (…) Ma (…) è pur necessario dire una buona volta la verità: tutto questo agitarsi è il cavallo di Troia che serve a introdurre la propaganda marxista fra la moltitudine disattenta degli utili idioti. Esagerazioni? Niente affatto. Per convincersi basta esaminare certe mostre o certi concorsi (…) e leggere certe riviste, magari edite da complessi capitalistici. Noi – e dico noi perché siamo in molti a pensarla così – amiamo la fotografia, amiamo l’arte fotografica, ma non amiamo il neoconformismo della fotografia né quello dei carri armati.”, Stucchi 1957a, p. 28.

[254] Quanta distanza con le cortesie di soli due anni prima: “A te tanti saluti carissimi come pure a don Peppino amatissimo” scriveva Monti a Ferroni il 19 maggio 1954 (Morello 2010, p. 81), mentre risaliva solo all’anno precedente il bel ritratto di Monti fatto da Cavalli a Pellestrina, con dedica “Al «Dottor Sottile» molto caramente”, (tav. 070). Il sorprendente (o “esilarante”, per Monti) avvicinamento tra il cattolico Cavalli e il comunista Crocenzi era durato solo pochi mesi.

[255] Lettera di Giuseppe Möder a Camisa datata Pescara 22 novembre 1956, in Morello 2003a, p. 65. Nella testimonianza fornita da una lettera di Alessandro Novaro a Martinez dell’11 ottobre 1957 (Zannier 2006, p. 16) relativa alla II Biennale internazionale di fotografia per invito, patrocinata da “Camera” di Pescara, Möder su consiglio di Novaro avrebbe “rinviato indietro le opere dei componenti della Bussola, salvo quelle di Branzi e di Giacomelli dietro consiglio di Monti, e le ha sostituite con quelle di Monti, Parmiani, Ferri, Migliori, Giovannini, Piergiovanni, Cantelli”.  Ricordo che Giovannini, Migliori e Parmiani appartenevano al Circolo Fotografico Bolognese.

[256] Lettera di Camisa a Möder, datata Milano 31 ottobre 1956, in Morello 2003a, p. 56.

[257] Guerra 2008, pp. 67-70. Si veda anche Baracchini Caputi 1998 che confermava la consuetudine di alcuni di inviare la stessa fotografia a vari concorsi, ma con titoli diversi, da qui la condizione posta in molti casi di presentare opere inedite, ciò che dimostra quanto le iniziative fossero rivolte agli addetti ai lavori, in un circolo chiuso e vizioso. Per il pubblico di sedi diverse quelle fotografie sarebbero state necessariamente inedite, per definizione.

[258] Lettera di Möder a Camisa datata Pescara  19 novembre 1958, in Morello 2003a, p. 143.

[259] Stucchi 1957a.

[260] “the first ever presentation of Italian photography in the United States”, scriveva  Pelizzari 2011, p. 127 ma l’informazione non corrisponde al vero poiché una Mostra della fotografia italiana si era già tenuta nella stessa sede nel  maggio del 1953, cfr. Russo 2011, p. 132.

[261] Pollack 1959, p. 628. Fotografo, curatore e storico della fotografia, nel 1962 Pollack, sarebbe diventato consulente del Worchester Art Museum  dopo essere stato per dodici anni il “Curator of Photography” all’Art Institute di Chicago. Nell’edizione originale del volume (1958) la sezione comprendeva, per l’Italia, foto di Del Tin, Monti (Lago alpino, 1954; La gondola della morte, 1956; Asfalto, 1956, già pubblicata in “Fotografia”, 11, 1956, p. 6) e Roiter, ai  quali si aggiunsero nell’edizione italiana Grignani, Mulas e Pozzi Bellini. In particolare Asfalto (tav. 071) ebbe lunga fortuna critica: venne pubblicata nel “Foto Annuario Italiano” del 1963, (CFM  1963, p. 198), edito anche come La fotografia oggi quale edizione fuori commercio per gli abbonati alla “Rivista dell’arredamento” dello stesso editore. Il volume di Pollack venne recensito con ampie riserve da Newhall 1960, per il quale “For its wealth of illustrations, The Picture History of Photography should be on the shelves of every art historians library. Nothing like it has been published since the long out-of-print Histoire de la Photographie of Raymond Lécuyer, a folio volume which it greatly resembles. Both books admirably illustrate 19th century contributions; both are weak in their treatment of the 20th  century. (…) It is not our purpose to catalogue the errors which have crept into the text and captions; we understand that they have been corrected in a second printing. Although we are disappointed that the text does not measure up to the standards of scholarship which the art historian expects, we are grateful to Mr. Pollack for making available a superb corpus of well-reproduced illustrations. If the field of the history of photography is to attract scholars, there must be abundant material available for their study outside the walls of the few museums which have collections. For that purpose, Mr. Pollack’s book is indispensable.”  L’edizione italiana ebbe un’attenta e ampia recensione di Francesco Bolzoni, 1960b, mentre fu molto critica quella di Donzelli 1960, così come il commento, tardivo ma per altri versi interessante, di Turroni 1961. Ancora in occasione della pubblicazione di una nuova edizione ridotta (New York: Harry N. Abrams, 1977) Colombo L. 1979 dichiarava che “la qualità di storico di Peter Pollack non ci ha mai convinto.” Buon ultimo venne Carlo Bertelli, 1993, che avrebbe ricordato il volume di Pollack ma citando il titolo in forma assolutamente fantasiosa (History of Photography from Antiquity to Today [sic]) e fornendo un’errata data di edizione (1961).

[262] “Bien qu’il soit prématuré d’établir dans quelle mesure et par quel choc en retour les idées dominantes introduites par ce groupement aient abouti à la volonté de rupture manifestée surtout par la jeune génération, on peut croire que sa doctrine n’est pas périmée dans tous ses aspects, de même que l’on ne peut nier dans son ensemble la valeur de ses enseignements. Le conflit entre la tendance qui est en voie d’affirmation et celle qui l’a précédé – antagonisme qui nous semble être aussi d’ordre métaphysique, même si cet aspect de la question a été généralement escamoté – ne doit pas nous faire oublier que, sans le lyrisme de Cavalli et de Balocchi, le sens d’abstraction et le graphisme de Veronesi, sans les définitions typiques dans le domaine des valeurs tonales de Leiss et de Vender, la photographie italienne aurait difficilement franchi l’impasse dans laquelle elle se trouvait depuis de très longues années. A l’époque où les réussites de ce groupement commencèrent à s’imposer à l’attention comme sur le terrain des compétitions, peu ou rien ne pouvait lui être opposé.”,  Martinez, Monti 1958.

[263] Rey [1908] 1925.

[264] Zannier 1956c.

[265] Citato in Racanicchi 1958. Segnaliamo qui che questa concezione – si direbbe fondamentale e fondativa – sarebbe rimasta caparbiamente immutata nel tempo se ancora nel 1998 Michele Ghigo, a sua volta Presidente onorario FIAF,  avrebbe parlato di fotografia come “intelligente passatempo” (Russo 2011, p. 274 nota 49). Da quel duro articolo di Racanicchi derivò l’incontro con Pietro Donzelli e la collaborazione del critico torinese con “Popular Photography Italiana”, cfr. Red. 1975.

[266] Turroni 1959, p. 25. L’analisi sarebbe stata confermata da Bezzola 1963, per il quale la fotografia “delle mostre, dei dilettanti evoluti, dei semidilettanti, nel suo complesso rispecchia abbastanza bene la classe da cui esce, vale a dire ciò che gli inglesi chiamano lower middle class, piccola e piccolissima borghesia di città e di provincia.”

[267] Racanicchi 1958, p. 8. La definizione categoriale ebbe immediatamente successo e il termine venne ripreso da Zannier 1958.

[268] Colombo C. 1959b.

[269] Donzelli 1959.

[270] Monti 1959c, p. 47. In una lettera datata Ancona, 23 novembre 1959 Piergiovanni  scriveva  a Monti a proposito della “inutilità (anzi pericolo per il fotografo) di farsi prendere la mano da questa mania delle continue personali. C’è gente che tiene una personale al mese; sempre la stessa insalata condita con lo stesso olio! Stufi dei saloni, non contenti delle troppo numerose mostre che si tengono con ritmo quasi quindicinale, si buttano alle personali con tale affanno che rischiano di coprirsi di ridicolo – Fatico a capirli!”, # Piergiovanni 1959.

[271]  #  Monti 1958. Per la datazione del testo all’ottobre-novembre 1958 cfr. Paoli 2016, p. 34.

[272]  Gilardi 1976, p. 37.

[273] Bezzola 1962.

[274] Turroni 1959, p. 36.

[275] Ancora dieci anni dopo Gilardi sarebbe stato tra i protagonisti del Primo Incontro Nazionale di Fotografia,  organizzato dal CIFe – Centro Informazioni Ferrania, che si tenne a Verbania, dal 31 maggio al 2 giugno 1969 in concomitanza col XXI congresso della FIAF. Nel corso del ‘vivace’ dibattito che si svolse in quell’occasione, specificamente dedicato – ormai fuori tempo massimo – a La funzione del fotoamatore, si consumò l’ennesimo, ulteriore duro scontro tra l’universo FIAF e il fronte dei fotografi ‘impegnati’, orientati verso una nuova concezione della pratica fotografica, fortemente connotata in senso politico. Si vedano Colombo L. 1969; Russo 2011, pp. 261-264; Cavanna 2019.

[276] Steiner 1954, ora in Steiner 1978, pp. 80-81. Certo quel riferimento alla “finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato” evocava irresistibilmente certi lavori di Monti.

[277] Gilardi 1961.

[278] Bezzola 1966. Per una ricognizione delle condizioni generali dell’attività fotografica in Italia si rimanda a Russo 2011 e D’Autilia 2012.

[279] Colombo C. 1959b.

[280] Monti 1966b, curiosamente pubblicato in Valtorta 2008, pp. 96-98, come “dattiloscritto non datato, databile alla metà degli anni Sessanta”. Allo stesso contesto va riferito  Monti 1966a.

[281] Verso la fine degli anni Sessanta avrebbe partecipato come giurato a iniziative in parte diverse, che si provavano a coniugare (anche come occasione di stimolo reciproco) mondo professionale e amatoriale quali Fotografi 1967 a Trento ed Europa 1968, promossa dalla Azienda Autonoma di Turismo di Bergamo, sostenuta da “Camera”, “Popular Photography Italiana”, “Foto Film”, e da “Sovetskoje foto” di Mosca e “Fotografie” di Praga. All’invito risposero 302 fotografi inviando 2.503 opere. La giuria composta da Antonio Arcari, Vaclav Jiru, direttore di  “Fotografie”, Monti, Alla Porter, redattore di “Camera”,  e Piero Racanicchi, scelse 295 fotografie e  assegnò quattro premi, oltre a celebrare Josef Koudelka, a cui venne dedicata la copertina del catalogo (Straznice, 1965, dalla serie Cikàni). Koudelka faceva parte del gruppo di sette fotografi invitati a esporre da “Camera” (10 foto della serie) e fu quella per lungo tempo una delle sue rare occasioni espositive, poiché il suo reportage fotografico sull’invasione russa di Praga dell’agosto precedente lo avrebbe obbligato all’anonimato e poi all’espatrio nel 1970.

[282] “Ad ogni modo le assicuro, egregio dottore, che la parte migliore ed attiva della Gondola è incondizionatamente con Lei, e quindi per questi soci e per il nome della Gondola, La prego calorosamente di aver un po’ di pazienza e di non abbandonarci”, scriveva Gianni Berengo Gardin a Monti, lettera datata Venezia Lido, 22 gennaio 1959, (#  Berengo Gardin 1959).

[283] Lettera di Vittorio Piergiovanni a Monti datata Ancona, 23 novembre 1959 (# Piergiovanni 1959).  Da Ancona Piergiovanni, che era stato socio de La Gondola, teneva le fila coi giovani veneziani ma anche con Parmiani a Bologna.

[284] Lettera di Libero Dell’Agnese a Monti, datata Venezia 7 gennaio 1960 (# Dell’Agnese 1960).

[285] Lettera di Giuseppe Bruno a Monti, datata Mestre 14 01-1960 (# Bruno 1960).

[286] Lettera di Piergiovanni a Monti datata Ancona, 17 gennaio 1960 (# Piergiovanni 1960).

[287] Lettera di Monti a Dell’Agnese, datata Milano, 18 gennaio 1960 (# Monti 1960).

[288] La lettera, datata Pisa, Museo Nazionale, Istituto di Storia dell’Arte, 15 novembre 1959 (# Ragghianti 1959), riprendeva i contenuti dell’appello pubblico rivolto da Ragghianti ad artisti italiani e stranieri da cui scaturirono le collezioni oggi conservate al Museo della Grafica di Palazzo Lanfranchi a Pisa. A quanto consta questo progetto innovativo, specie per il contesto italiano, non ebbe l’esito sperato per quel che riguardava l’ambito fotografico, e si dovette attendere  il 1973 per assistere alla nascita, a Parma, del “Museo della Fotografia”, poi Centro Studi e Museo della Fotografia, quindi CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, voluto da Arturo Carlo Quintavalle nell’ambito dell’Istituto di Storia dell’arte di quella Università con un’impostazione sostanzialmente distante da quella espressa da Ragghianti, sebbene simili fossero gli intenti di valorizzazione e tutela. Come ricordava Quintavalle 1978, “Quando, una decina di anni orsono, occupandoci di fotografia, cominciammo a raccogliere presso l’Università di Parma decine di migliaia di immagini, non avevamo ancora chiara l’idea dei modelli da impiegare, ma, certamente, avevamo quella che si doveva uscire dal gioco delle personalità e quindi della fotografia intesa come ‘arte’, uno strumento interpretativo ormai usurato e quindi da negare per le palesi implicazioni idealistiche.”

[289] #  Ragghianti 1959.

[290] Lettera  di Roiter a Monti, datata 14 dicembre [1959] (# Roiter 1959).

[291] Monti 1960. La mostra pisana era stata preceduta da analoghe iniziative a Padova (gennaio) e Venezia (febbraio-marzo): chiari segni di una volontà di storicizzazione che marcava la chiusura di un ciclo.

[292] Dalla corrispondenza intercorsa risulta che Monti propose per la pubblicazione anche alcune sue foto più sperimentali, ma Finazzi gli rispose che prevedeva “difficoltà per le fotografie astratte da parte del [suo] Consigliere Delegato” e che non sapeva neppure come avrebbe preso “le fotografie dell’arch. Grignani (…), quelle di Veronesi e di Migliori.”, citato in  in Morello 2003a, pp. 186-187).

[293]  Lettera di Finazzi a Camisa datata Bergamo 7 aprile 1959, in Morello 2003a, p. 189.

[294] Lettera di Camisa a Finazzi datata Milano 16 aprile 1959, in Morello 2003a, pp. 190-191. Anni dopo Camisa ne diede una versione in parte differente: “A compenso di tutto l’impegno profuso io chiesi (…) le bozze del progetto, affinché potessi magari trovare qualcun altro interessato alla pubblicazione. Parlando con Turroni lui si dichiarò disponibile a rifare il testo e sottopose il tutto a Schwarz al quale l’idea piacque molto.”, in Busoni Thompson 2007, p. 22.

[295] Turroni 1959. Mentre Bezzola 1960a recensendo il volume su “Ferrania” lo aveva giudicato “eccellente panorama delle tendenze attuali”, Cavalli 1961 rilevava che “fra le opere esteticamente valide ne mancano diverse importanti che era opportuno includere in una rassegna completa”, ma – soprattutto – contestava l’approccio critico di  Turroni, che  passava “da un ordine estetico di considerazioni e relativi giudizi (Bello + Brutto) ad un ordine, in modo precipuo, morale (Buono + Cattivo); e dico morale nell’accezione completa del vocabolo, ossia intendendo anche Utile – Inutile, Sociale – Non sociale etc.: tutte qualificazioni e distinzioni che, come lei sa, sono pertinenti alla morale. Eccoci dunque al punto su cui è necessario mettere i concetti bene in chiaro; non si mettono, sono convinto, in chiaro abbastanza. Il critico d’arte ha per definizione il compito di giudicare ESCLUSIVAMENTE se in una determinata opera c’è arte oppure non c’è.”, corsivi nel testo.

[296] Il progetto originario, più contenuto, prevedeva anche una sezione a colori mentre nel nuovo volume erano comprese ben 220 fotografie, ma tutte in bianco e nero.

[297] Va ricordato che il volume non venne neppure registrato tra i “libri ricevuti” di cui dava conto la rivista “Ferrania”.

[298]  Turroni 1959, p. 30 passim.

[299] Turroni 1957b illustrato significativamente (quasi solo) da foto di muri e manifesti strappati.  Il paragrafo che gli dedicò in Nuova fotografia italiana (Turroni 1959, pp. 47-51) derivava certo da questo scritto precedente, ma sottoposto a una specie di revisione divulgativa e più specificamente ricca di rimandi alla scena fotografica di quegli anni, come del resto richiedeva la sede di pubblicazione.

[300]  Turroni 1959, t. 166; Cavanna, Paoli 2016 p. 51.

[301] Turroni 1959, p. 47.

[302] Arcari 1983, p. 5. Non è solo la presenza materiale delle stampe conservate in archivio a smentire Turroni e Arcari, ma la precisa competenza dimostrata da Monti nello spiegare le tecniche di stampa da utilizzarsi in quei casi: “Con il riscaldamento di carte e rivelatori – precisava – i risultati variano notevolmente: il calore influisce molto sui processi di ossidazione, si potrebbe ricordare che qualcosa di simile accade quando si opera con la tecnica dei toni alti. Per questi ultimi, infatti, si ottengono i migliori risultati quando, completata l’esposizione sotto l’ingranditore, si sviluppa la stampa e, prima di procedere al fissaggio, la si immerge – anche per un quarto d’ora o più – in un bagno di acqua calda a circa 40° c. L’alta temperatura agisce sulla piccola quantità di rivelatore rimasta nell’emulsione e ciò si traduce in un aumento notevole della leggibilità dei dettagli delle zone high key, in tono alto. Per interventi con l’impiego del calore non si deve però dimenticare che spesso sensibili variazioni si ottengono semplicemente sfregando ripetutamente la copia con le dita, alitando su di essa e così via: interventi dunque che possono essere anche ben localizzati.”, in  Capobussi 1975.

[303] Tutte le citazioni  che seguono sono tratte dal Diario lavoro Sandoz (#  Monti 1959) che il fotografo tenne  dal 31 maggio al 16 settembre 1959.  Dopo le collaborazioni per le Biennali veneziane e nell’ambito di “Camera”, Martinez e Monti erano stati incaricati dalla Kodak di curare a Parigi una mostra di dodici fotografi italiani, con opere a colori. Gli autori, oltre a Monti, erano: Berengo Gardin, Branzi, Bruno, Camisa, De Biasi, Donzelli, Giacomelli, Migliori, Novaro, Parmiani e Roiter. L’iniziativa, già prevista per maggio 1959, venne  poi spostata a ottobre; cfr. Morello 2003a, pp. 188, 206.  La collaborazione tra Bühler e Martinez risaliva invece  ai tempi della  rivista svizzera “Monsieur” (1951), curata da Martinez.

[304] La Sandoz, dal 1996 Novartis per fusione con  Ciba-Geigy, era attiva nella produzione di coloranti ma anche in campo farmaceutico, nonché produttrice dell’acido lisergico (LSD), i cui effetti psicogeni vennero scoperti nel 1943 da Arthur Stoll e Albert Hofmann proprio nei suoi laboratori, dove questa ammide era stata sintetizzata pochi anni prima (1938).

[305] Schenk 1954, ancora presente nella biblioteca Monti, era stato a sua volta prodotto in collaborazione con un’altra industria chimica, la Böhme Fettchemie di Düsseldorf.  Ventotto fotografie di Schenk erano state esposte alla quarta edizione di Diogenes with a Camera (3- aprile – 3 giugno 1956) al MoMA, ancora sotto la direzione Steichen, che sottolineava come dalle tensioni provocate in una goccia d’acqua nascessero “Forms, patterns, shapes which leap and dance (…) Unsuspected rhythms are brought into being.”, citato in  # MoMA 1956.

[306] Si veda György Kepes 1978, pp.n.n.

[307] Botar 2010. Monti possedeva la ristampa del 1961 del volume derivato da quella mostra: Kepes [1956] 1961.

[308] Corsivo dell’autore. Ricordo che già nelle sue prime Intenzioni fotografiche (#  Monti 1948), aveva indicato la possibilità di “fotografare acque, correnti o cascate, con istantanee lente”.

[309] Dal testo di presentazione della sua mostra a Padova, Galleria Spazio Visivo, 30 giugno-15 luglio 1982, citato in Arcari 1983, pp. 7-8, che riprendeva – rielaborandolo in parte  – Monti 1981b. Alcune delle fotografie realizzate nei laboratori Sandoz ebbero poi utilizzazioni diverse: la copertina di un fascicolo pubblicitario per Nora International, 1962, la già citata tav. 073; la copertina del long playing Pathé-Marconi (Plaisir Musical – FCX30207) dedicato a Sheherazade di Rimsky-Korsakov diretta da Issay Dobrowen (1962,  tav. 074),  una illustrazione a corredo di Mascioni 1967, alla quale fanno riferimento alcuni documenti conservati in AM-FA, S.6, Fatture di vendita: Monti aveva lasciato in visione alla Fratelli Fabbri Editori 22 foto a colori e 8 in b/n  e  l’Ufficio Autorizzazioni Fotografiche, in data 21 novembre 1969, gli comunicava di aver scelto “la foto a colori riportante la seguente didascalia: fotografia pubblicitaria per una società di coloranti (colori versati)”. L’originale venne poi rispedito a Monti, con le altre fotografie non utilizzate.

[310] Alcuni esempi di quella produzione vennero utilizzati per le copertine dell’omonimo  periodico aziendale. Dicembre 1957: Luigi Veronesi; agosto 1959: Elio Luxardo; agosto 1960: Eugenio Petraroli;  dicembre 1961: Nino Migliori; aprile 1962: Arno Hammacher; maggio 1962: Alfredo Pratelli.

[311] Monti 1963a.

[312] Un’ampia selezione degli esiti di quel lavoro è consultabile all’indirizzo       http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+sandoz.

[313] Monti, in Dal Bo [1981] 1997]. Gli aspetti tecnici di quelle riprese vennero illustrati da Monti, cfr.  Capobussi 1975. Da questo universo di sperimentazioni cromatiche erano evidentemente escluse alcune convenzionalissime composizioni naturalistiche pubblicate su “Ferrania” nel 1967, quali Sottobosco,  “Ferrania”, 21 (1967), n.7, p. 20, e Contrasti, “Ferrania”, 21 (1967), n.11, p. 17.

[314]  Segnalo almeno Pinney 1962 e diversi numeri di “PMI Photo Methods for industry”, l’importante repertorio pubblicato a New York dal 1958.

[315] A quella casa editrice, che aveva pubblicato con notevole successo Ombrie: Terre de Saint-François di Roiter, avrebbero guardato con attenzione non disinteressata anche Branzi e Camisa, che in quello stesso anno proposero all’editore svizzero un volume dedicato a Firenze, ma senza successo, cfr. Morello 2003a, p. 24.

[316] Di quel volume, per nulla apprezzato da Turroni, Monti aveva realizzato anche alcune riproduzioni, verosimilmente a scopo didattico (http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=paolo+monti++2523L029A-36a). Attualmente la sua biblioteca conserva solo Roy, Strand 1952 e il secondo volume dell’antologica Paul Strand 1971.

[317] Steinert 1952;  Steinert 1955;  Otto Steinert 1959.

[318] Hayek-Halke 1955; Kepes [1944] 1959; Brassaï 1961.

[319] Monti 1967d.

[320] Cfr. Cavanna, Paoli 2016 cat. 20, 24.

[321] Turroni 1957b. Turroni 1959, p.15, ne indicava esplicitamente il titolo come Isole della laguna, che corrisponde però a quello del  lavoro  di Luciano Emmer ed Enrico Gras del 1948, che vinse il Nastro d’argento come miglior documentario nel 1949.

[322] Turroni 1957a.

[323] Turroni 1959, pp. 48-49.

[324] Più esplicito l’interesse  per le “immagini di graffiti presentate come esempi di “poesia trovata”(Russo 2011, p. 382 nota 31)  nel primo libro di  Franco Vaccari,  1966.

[325] Chiaramonte 1993, t. 96. Questa fotografia, insieme alle Astrazioni involontarie e Muro a Milano (ivi, t.41) corredava Turroni 1957b.

[326] Sebbene sia consuetudine pubblicarla in verticale (Zanzi 2012, p. 51; Cavanna, Paoli 2016, t. 126 ), per corrispondere al titolo e quindi alle intenzioni di Monti la stampa è da leggersi ribaltata in orizzontale di 90° a sinistra, come ben si vede nella ripresa che documenta la sua mostra alla Libreria San Babila di Milano nel 1958, in Paoli 2016, p. 29.

[327] Monti 1959c, p. 42.

[328] Le fotografie di Siskind vennero pubblicate anche in Pollack 1959,  pp. 466-477; per Lucien Hervé si veda Hervé 1962.

[329] Evans 1958.

[330] Quintavalle 1977, p. 25, poi ampiamente ripreso in Quintavalle 1993,  pp. 90-99; si veda anche Paoli 2012, p. 278. Ricordo qui che lo stesso Migliori, secondo quanto indicava la sintetica scheda biografica pubblicata in Red. 1961a, “tra i fotografi italiani [riteneva] suo maestro Paolo Monti”, ma resta ancora da condurre in modo storiograficamente accorto la verifica di quel rapporto.

[331] In Morello 2003a, p.252; Camisa si dimostrava aggiornatissimo: il volume di Brassaï sarebbe uscito in Germania solo nel 1960, ma c’erano già state una mostra al MoMA nel 1957 e una a Londra dal 25 settembre al 25 ottobre 1958 all’Institute of Contemporary Arts: Language of the wall: Parisian graffiti / photographed by Brassaï.

[332] Zannier 2004.

[333] Testimonianza raccolta in Manfroi 2005b.

[334] Legno e bianco I, 1956; Combustione legno, 1957;  Legno Sp, 1958.

[335] Cfr. Chiaramonte 1993, t. 117 e Morello 2010, t. 48, più chiara nei toni e con una datazione al 1954; per altre immagini della serie si veda Valtorta 1985, p. 62.

[336] Un piccolo cenno a parte merita una fotografia che mostra in ripresa ravvicinata un Peperone sezionato (tav. 090), ricavata per stampa parziale di un negativo 10×12 (tav. 091), realizzata nel 1963 nell’ambito del progetto di comunicazione pubblicitaria per il primo magazzino “a libero servizio” a Reggio Emilia, COOP 1 firmato dallo studio LAS (Lica e Albe Steiner), che – certo – guardava ai modelli inarrivabili di Weston (Halved Cabbage, Red Gabbage Halved, entrambe del 1930) qui interpretati con una vena che diremmo ‘padana’, tra surreale e grottesca, che è raro trovare in Monti. In Zanzi 2012, p. 215 la stampa è pubblicata con datazione errata al 1956.

[337] Turroni 1957b.

[338] Turroni 1959, p. 50. Un riferimento possibile, e forse condivisibile, poteva essere il lavoro critico di estetizzazione esplicitato da Kepes nel curare la mostra (e il volume) dedicato ai ‘new landscapes’ offerti dalla fotografia scientifica, mantenendo però ben distinti gli ambiti, cfr. Botar 2010.

[339] Eco 1961.

[340] Marchiori 1960.

[341] Marra, Revisione dell’Informale, in Marra 1999,  pp. 127-134.

[342] “La natura è profondamente e amorosamente angosciata, e quasi medianicamente intuita”, scriveva Francesco Arcangeli nel 1954 riferendosi al gruppo degli ‘informali’ padani da lui identificati come gli “Ultimi naturalisti”, cfr. Rovati 1999.

[343] Tav. 092, che appartiene alla stessa sessione di ripresa di Manifesto strappato; la foto è stata riproposta in Chiaramonte 1993, fig.116 ma ribaltata verticalmente, con titolo errato (Manifesto strappato) e una datazione al 1955 che non corrisponde a quella della variante di stampa pubblicata a fig. 95  (1956) dello stesso volume. Ricordiamo che un’altra Astrazione involontaria, era stata realizzata da Monti nel 1950 ca (tav. 026).

[344] “moralité intrinsèque du geste de l’artiste (…) plus encore que l’émergence, dans l’affiche lacéré, de formes nouvelles directement issues du réel sociologique capables de ce fait de transformer radicalement notre vision de cet univers qui nous entoure (…); plus encore en un mot que cette recharge effective et poétique du réel, Rotella nous transmet un message de culture, d’humanité et d’espoir.”, Restany  1962.

[345] Zannelli, 2016, p. 81. La pervasività di questo soggetto come ambito di ricerca espressiva in quell’arco di anni (e limitandoci alla scena italiana) credo debba ancora essere studiata in modo approfondito, ma ricordo che anche Arno Hammacher, appena arrivato  a Milano, tra il 1956 e il 1961, rivolgeva il suo sguardo sui muri della città coperti da cartelloni pubblicitari, scritte e insegne, sebbene con una impostazione pianamente descrittiva.

[346] Tra le poche eccezioni Manifesto strappato e albero, 1960-1961 (tav. 095), Manifesti strappati, 1960 ca (tav. 096) e la fotografia utilizzata per la copertina di “Camera”, 36 (1957), n. 6, giugno.

[347] Monti 1967a. Già nell’intervista a Burguet 1963, p. 32, aveva detto, “Que nous le voulions ou non, nous appartenons tous à notre temps et je suis sûr que, sans l’expérience abstraite, je ne serais jamais parvenu à certaines recherches photographiques. Actuellement, après la leçon donnée par l’art, le «non-figuratif», nous regarde sur les murs des villes où les affiches arrachées nous émeuvent comme des Pollock, des Klein, des Soulages. Je  collectionne les photos d’affiches et de placards publicitaires, comme des formes ‘abstraites ‘ diverses de la nature, et je dis ‘abstraites’ par analogie formelle (ou plutôt informelle).”

[348] Eco 1961.

[349]  “art is a frequent source of such novel interests. Contemporary artists such as Rauschenberg have become fascinated by the patterns and textures of decaying walls with their torn posters and patches of damp. Though I happen to dislike Rauschenberg, I notice to my chagrin that I cannot help being aware of such sights in a different way since seeing his paintings. Perhaps if I had disliked his exhibition less, the memory would have faded more quickly. For emotional involvement, positive or even negative, certainly favours retention and recognition.”,  Gombrich [1965] 1982, p. 31.

[350]  Argan 1970, p. 372, che a proposito dei “cartelli pubblicitari strappati” di Mimmo Rotella e Raymond Hains, parlava di “processo di décollage che si contrappone alla costruttività implicita del collage cubista. È ovvio il senso di reportage urbano: i cartelli pubblicitari sono un aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino; e come effimeri e scaduti vengono dati, infatti, con trasparente allusione al rapido mutare del volto della città. Anche qui si hanno i due momenti: appropriazione e distruzione.”

[351] Cfr. Milano, in De Seta 1979, p. 47.

[352] La datazione è fornita da Turroni 1959, t. 166. La fotografia venne poi  pubblicata in “Popular Photography Italiana” (C.C. 1965), in apertura di un articolo dal significativo titolo di L’obiettivo drogato.

[353] Pubblicata anche in Pollack 1959, p. 462.

[354] Cfr. supra NOTA 111.

[355] Piume solarizzate, 1951, tavv. 100, 101; Piuma e semi solarizzati, 1951, tav. 102, mentre la più precoce  Composizione in soffitta, 1947-1949, tav. 060, venne utilizzata come copertina di “Domus”, n. 332, luglio 1957, tav. 061,  sottoponendola  al trattamento  che Mario Finazzi chiamava “Hot Line”, basato sull’applicazione controllata del cosiddetto “effetto Herschel”.

[356] Ricordiamo, a titolo di esempio, Legno, (stampa in negativo), 1953-1954, tav. 103. Allo stesso decennio, e in particolare al 1958-1959 risalivano le più sistematiche ricerche sul colore, mentre i chimigrammi appartengono al decennio successivo.

[357] Monti 1955a.

[358] Monti 1964a, che richiamava sin dal titolo Arcari 1963, che a sua volta notava – proprio in apertura – che “parlare di fotografia astratta può sembrare a tutta prima una sorta di contraddizione in termini.”

[359]  “Faire concurrence à l’état civil des choses, faire concurrence à la réalité, tout en s’y soumettant mais en rivalisant avec elle, c’est un des plus beaux privilèges de la photographie.”, Monti 1960, mentre  Arcari 1963, dopo aver  tracciato una linea genetica che originando dalla Bauhaus giungeva a Weston, indicava come determinanti per Monti, “le componenti vitali di un rinnovato realismo”. Per il rimando balzachiano si veda  Smaniotto 2020.

[360] Orsi, 1956; il contributo costituiva la recensione di Hajek-Halke 1955, che Monti possedeva, e offriva l’occasione a Orsi, a sua volta autore di interessanti luminogrammi (cfr. Madesani 2008), di sintetizzare una breve ‘storia’ di questa pratica, riservando una citazione anche per Luigi Veronesi, ma non per il nostro.

[361] Pellegrini 1955.

[362] Donzelli 2006, p. 207.

[363] # Chronology 1964, cfr. supra NOTA 198.

[364] Etienne 1952.

[365] Si veda Dolzani 2008.

[366] “l’abstrait esthétique de l’image abstraite fonctionnelle, en d’autres mots: faire la distinction entre ce qui procède de l’expression et ce qui est le résultat d’une investigation”, Monti 1964a.

[367] Burguet, 1963; gli autori coinvolti furono Bill Brandt, Denis Brihat, Lucien Clergue, Pierre Cordier, Julien Coulommier, Antoine Dries, Henriette Grindat, Livinus [Van de Bundt], Monti e Jean-Pierre Sudre mentre ad Otto Steinert venne chiesto un autonomo contributo testuale, pubblicato accanto a quelli di Hubert Damisch, Umberto Eco e Paul Valery tra gli altri.

[368] Crispolti 1986, p. 37.

[369] Penso ad esempio alle radicali differenze concettuali e processuali rispetto a esiti ancora connotati da una certa figuratività,  come in Peter Keetman o Arrigo Orsi, che producevano volumi virtuali di luce per generazione geometrica di tradizione Bauhaus.  Questo tipo di lavori, realizzati in studio, va poi distinto dalla più vasta produzione di fotografie notturne a lunga posa di luci e di riflessi vari, testimoniate da una grande e variegata produzione che data a partire almeno dai viaggi americani di Fritz Lang e Eric Mendelsohn negli anni ’20 (Wollner 2012), che ricadono invece nella categorie di quelle immagini ‘astratte’ dal reale di cui prima si è detto.

[370] Foglie e macchie di sole, 1959 (tav. 054); Composizione fotografica, 1957-1961 (tav. 053), ma già il numero di dicembre  1954 di “Domus” aveva in copertina una Composizione di foglie e neve. (tav. 059),   cfr. NOTA 103.

 

[371] “Ricordo l’effetto assolutamente convincente del nero come luce nella negativa fotografica”, scriveva nel  dicembre 1910; cfr. Klee 1990, p. 181.

 

[372] Lettera di Monti a Martinez datata Milano 26 luglio 1956, conservata alla Bibliothèque Roméo Martinez della Maison Européenne de la Photographie  di Parigi.  Cfr. NOTA XX (66)

[373] Monti, citato in Dal Bo [1981] 1997.

[374] Pubblicata in Zanzi 2012, p. 167 come Muro a Treviso, 1949.

[375] Anche Arcari 1980, p. 157, pubblicò uno dei nudi di Monti in una doppia pagina che conteneva immagini di Weston, Steinert, Clergue e Hajek-Halke, ma senza particolari commenti. I volumi conservati nella biblioteca del fotografo testimoniano invece un interesse non marginale per il tema, concentrato specie negli anni Sessanta. Se escludiamo Perspectives of nudes di Bill Brandt, di cui possedeva l’edizione francese del 1961, gli altri autori presenti appartenevano però ad un universo di gusto apparentemente lontanissimo dai suoi modi espressivi: da Sam Haskins, Five Girls, 1962 e Cowboy Kate, 1965 a Wingate Paine, Memory of Venus, 1966 e Ica Vilander, La femme vue par une femme, 1967. Allo stesso genere rimandavano anche le due antologie Meister der erotischen Fotografie: Paare. München: Wilhelm Heyne Verlag, 1971 e Bill Jay, Views on Nudes. London: Focal Press, 1971, che potrebbero aver influito su alcune prove a colori, certo tra le sue meno riuscite (tavv. 107, 108).

[376] “The back and left arm of figure in the print, Nudo, are softly focused, and the skin texture is minimized. When this photograph is first seen, it appears to be an abstract composition, but after closer study, the form of the figure emerges.”, Three European Photographers 1965. L’iniziativa doveva essere stata di Peter Pollack, allora consulente del museo, ma i contatti vennero presi nel 1964 da Stephen Jareckie, allora “Associate in Photography”, che aveva invitato Monti  a partecipare alla collettiva, prevista per la  primavera del 1965 e – se interessato –  a inviare quindici stampe tra le quali ne sarebbero state selezionate dieci per la mostra, che avrebbe perciò presentato un totale di 30 fotografie (# Jareckie 1964). Alla fine dell’esposizione il Museo si impegnava ad acquistare tutte le stampe esposte, che sarebbero così entrate a far parte della più antica collezione fotografica museale statunitense. Le stampe prescelte furono  Inverno n.1, Tronco corroso, Still life, Cinderella, Silvia Tofanelli, Gianni Dova, Venezia, La Barca dei Morti, Two Pelicans e Nudo (nn. 21-30 del catalogo) tutte non datate, al contrario di quelle presentate dagli altri autori. Attualmente sul sito del museo (http://www.worcesterart.org/collection/ ) sono indicate come presenti in collezione solo:  Still Life, 1950;  Silvia Tofanelli, 1955, Inverno No. 1, 1959 e Nudo, 1961 (Inv. 1965.389-390; 1965. 403.404).

[377] Ceccato 1967. Le pagine interne ospitavano altre fotografie di Monti: tre dettagli di un pugno maschile chiuso che sembrano avere qualche debito con Autoportrait,  1951 di Denis Brihat  (ora nelle collezioni del Centre Pompidou di Parigi, inv. n. AM 1981-672), pubblicato in copertina del già citato numero di “Art d’aujourd’hui” dell’ ottobre 1952 (Etienne 1952),  tuttora presente nel suo fondo librario. Le foto di Monti vennero ripubblicate  in “Roto C” nel 1971, a corredo di un redazionale dedicato all’aggressività e quindi riprese in Ansia e aggressività 1971.

[378] Alcune di quelle riprese si inserivano come momenti particolari del lungo rapporto sentimentale di Monti con Mina Opizzi, dalla quale proveniva anche la raccolta di stampe acquisita da La Gondola nel 1998, in parte esposte nel dicembre del 2004 allo Spazio Antonino Paraggi a Treviso col titolo Paolo Monti: Col cuore, con l’anima, con la ragione. Ritratti 1947-1955, cfr. Manfroi 2004.

[379] Cavanna, Paoli 2016 t. 120.

[380] Berghmans 2011.

[381] Una delle composizioni per proiezione a luce polarizzata di Munari, presentate in anteprima proprio a Milano, cfr. Munari 1961, venne utilizzata per la copertina dell’Almanacco Letterario Bompiani 1959 (Bompiani, Zavattini 1958) che a sua volta conteneva molte fotografie di Monti, comprese sia nel Vocabolarietto dell’Italiano (Femminismo, Pace, Pubblicità, Vecchiaia) sia nella serie di ritratti di artisti e letterati (Campigli, Capogrossi, Cardarelli, Cassinari, Carlo Levi, Marini, Moravia).

[382] Dalla stampa al carbone, oggi nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York (Accession Number 33.43.50), venne tratta la matrice per la duogravure poi pubblicata in “Camera Work” 10 (1913) , n.42-43, aprile-luglio t. XIV.

[383] Morello 2010, p. 72.

[384] Alcuni chimigrammi erano stati pubblicati nel 1965 in “Imago”, periodico tanto raffinato quanto di ridottissima circolazione, cfr. Arcari 1965; Camuffo 2021 e infra nel testo.

[385] Ricordava Lanfranco Colombo 2010, p. 107, che attraverso Roberto Mutti aveva potuto riavere “il libro delle firme dei visitatori” di quella memorabile mostra.

[386] Monti 1967c.

[387] Monti 1967d.

[388] La citazione esatta recita: “anche lo sfruttamento del Caso ha una sua fisionomia di genuino atto formativo”, Eco 1961.

[389] Flusser 1987.

[390] “Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé”, scriveva Ugo Mulas, Le verifiche 1971-1972, in  Mulas 1973, p.145. In questo senso è significativo anche il confronto  tra la gestualità fenomenologica dei chimigrammi di Monti e la concettualità analitica di “un’operazione priva di ogni emozione e di una estrema secchezza e chiarezza”, quale la Verifica n.5 di Mulas, dedicata a Herschel.

[391]  “on puisse faire de la photographie qui serait uniquement de laboratoire, sans objets ni matières (…)? En ce cas, quelle différence verriez-vous entre la photographie et la peinture ?  (…)  il faut dire  qu’il est malgré tout possible de créer des images de laboratoire que l’on pourrait qualifier d’abstraites en n’utilisant que la lumière, le papier sensible et les agents chimiques, sans intervention  optique ou mécanique. Ces images sont ‘uniques’ au même titre qu’un tableau et elles ressemblent à de la peinture, mais ce ne sont pas des ‘photographies’. Ce sont des résultats graphiques obtenus à l’aide du matériel photographique et leur valeur artistique dépend des capacités de l’auteur. (…) photogramme [qui] est la simplification extrême du processus optico-chimique qui donne naissance à l’image photographique. Dans le photogramme, en effet, on élimine l’intervention de l’appareil-photo et dans les photogrammes par contact, on supprime également l’objectif de l’agrandisseur. (…) Mais il existe encore une ultime possibilité de créer des images,  qu’on peut qualifier, du moins étymologiquement, de photographiques en opérant seulement à l’aide de la chimie sur le papier sensible. (…) Naturellement, on ne peut pas reproduire ces images : ce sont des monotypes exécutés selon une technique photographique.”, in Burguet 1963.

[392] Ivi,  p. 27.

[393] Argan 1977.

[394] Bense 1965. Per Jäger 2005, p. 15, “The photographic means thus become the object of photography, and the medium itself the object. (…) Its works are pure photography: not abstractions of the real world, but rather concretions of the pictorial possibilities contained within photography.” Contrariamente a quanto ritiene Jäger (ibidem), e nonostante l’analogia terminologica,  la fotografia concreta non ha concettualmente nulla a che vedere con la musica concreta così come è stata definita da Pierre Schaeffer e Pierre Henry, né tantomeno con le diverse declinazioni artistiche del Novecento da Van Doesburg a Dorfles.

[395] Arcari 1965.

[396] Monti 1965, tratto dall’intervista pubblicata in Burguet 1963.

[397] Forse non sgradita a Monti in questo caso, se poniamo mente a ciò che rispose alla più volte citata intervista di Burguet 1963, pp. 32-33: “In tutta sincerità credo che molti, e io in particolare, dovrebbero ammettere che sono diventati fotografi per necessità di esprimersi e per incapacità di farlo diversamente.” Anche Dorfles 1967 cadeva nell’equivoco pittorico “ammettendo (…) che la fotografia possa atteggiarsi a pittura, possa eventualmente prescindere dallo stesso apparecchio fotografico, essere cioè solo fotogramma creato dalla pellicola o dalla carta sensibilizzata esposta allo stimolo luminoso; e possa, allora, diventare uno qualsiasi dei tanti «materiali da costruzione» della pittura d’oggi (al pari d’un collage, d’un décollage, d’un brandello di stoffa, di sacco, di giornale).” Considerazione analoghe erano già state espresse in Dorfles 1958, a proposito di Grignani.

[398] Turroni 1958. Considerazioni non dissimili, anzi ancora più ingenue, erano moneta corrente in quegli anni  in cui si riteneva che “l’astrattismo non è da capire ma da sentire. (…) E nell’astratto assoluto bisognerebbe piuttosto, in mancanza di un sentimento profondo, possedere una fantasia agilissima e un rigore formale, un dominio del mezzo tecnico non meno assoluti.”, Gentili 1963.

[399] Cfr. Capobussi 1975.

[400] L’opera di Hartung era ben nota in Italia;  ricordiamo inoltre che Monti ebbe occasione di fotografarlo nel suo studio parigino nel 1959 in compagnia di Giuseppe Marchiori (Marchiori 1961). Nessuna relazione può invece essere riconosciuta tra le astrazioni di Monti e la ricerca fotografica di “pureté abstraite” dell’artista, per la quale si rimanda a Hartung 1974; Damez 2003.

[401] Capobussi 1975.

[402] Alcuni chimigrammi e altre elaborazioni fotografiche vennero pubblicati da Colombo A. 1975, consultato in estratto. La pubblicazione doveva essere in relazione con la  mostra alla Galleria 291 di Daniela Palazzoli nel giugno-luglio dello stesso anno, dove vennero esposti cinquanta chimigrammi, datati 1960-1965. Come si ricava dal  comunicato stampa, nella serata del 6 giugno Monti proiettò “due sequenze di sue fotografie astratte e Gillo Dorfles parlò degli sviluppi della fotografia astratta e sperimentale degli anni ’50 e ‘60”.

[403] A partire dalla necessaria distinzione critica tra i diversi procedimenti andrebbero poi storicamente verificati i debiti con un gruppo di autori cechi come Frantisek Povolny, Josef Istler, Miroslav Hak (che produsse anche una serie di fotografie di manifesti strappati) e Milos Korecek, tutti autori di notevoli chimigrammi intorno agli anni Trenta, ma anche con le ricerche materiche, condotte però su pellicola e quindi stampate (e non è differenza da poco) da  Chargesheimer negli anni ’50, cfr. Holzinger 1990, così come con  i lavori Henry Holmes Smith, già collaboratore di Laszlo Moholy-Nagy al New Bauhaus di Chicago, connotati però da titoli evocativi come Giant o Mother and Son, cfr. Eisinger 1994.

[404] Sinisgalli 1957; la precedente esposizione era stata presentata da Corrado Cagli sotto il titolo di Fotografie astratte di De Antonis, cfr. Schiaffini 2017.

[405] La figura di Genovesi è sempre ricordata solo in relazione alle vicende di “Diorama”, cfr. Brandani 2013,  mentre  resta ancora da conoscere, e da considerare appropriatamente, la sua produzione di fotografo e grafico. In particolare è totalmente sconosciuta – almeno a chi scrive – la sua produzione ritrattistica, “che ha un valore deciso e insieme dimesso e penetra nei tessuti limpidi di un sentire realistico che cominciava a scuotere, intorno al 1950, le coscienze estetiche.”, Turroni 1959, p. 52.

[406] Ibidem.

[407] Chargesheimer 1950; si veda anche Gewehr, 1951,  in cui si illustrava l’uso didattico della tecnica del fotogramma nell’ambito della scuola “Bi-Kla” (Studio für Bild und Klang) di Düsseldorf con opere di Chargesheimer e dei suoi allievi.

[408] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Erano antecedenti le Ossidazioni di Nino Migliori, “un altro esempio di sperimentazione sui materiali: carte, pellicole, lastre fotografiche.”, cfr. Paoli 2012. Resta ancora da approfondire criticamente, né questa è l’occasione per farlo , la scena delle ricerche off-camera in Italia nel secondo dopoguerra.

[409] Carluccio 1981 aveva notato inoltre che  “I chimigrammi sono (…) delle immagini che affiorano dallo spazio misterioso del l’inedito.”

[410] Paolo Monti 1985, p. 11.

[411] Morello 2010, pp.500-502.

[412] Ibidem.

[413] Lettera di Monti a Ferroni, datata 28 novembre 1954, in Morello 2010, p. 109.

[414] # Coop. Il Libro Fotografico 1970. La cooperativa, nata per iniziativa di Antonio Arcari, Cesare Colombo e altri (cfr. Zannelli 2010), si era costituita a Bergamo il 14 aprile 1966 e venne posta in liquidazione il 30 giugno 1971 (cfr. Ministero 2004). Lo scopo statutario era di “pubblicare libri che rispondano a certe esigenze di ordine ‘ideologico’, non nel senso politico certamente, ma nel senso di un nostro particolare modo di intendere la fotografia”(# Coop. Il Libro Fotografico 1966). Accanto alla pubblicazione di volumi storico fotografici era prevista una “attività marginale, di minor impegno economico, ma di più precisi interessi culturali (…) rivolta all’attuazione di due ‘quaderni’ di 60-80 pagine che trattino problemi di storia e di cultura fotografiche, soprattutto nelle sue relazioni con il mondo della pittura e della grafica” (# Coop. Il Libro Fotografico 1965-1966). In tale contesto va collocata l’ipotesi poi non realizzata di dedicare un titolo a Paolo Monti.

[415] Cfr. in  Turroni 1959, Lo scultore Marino Marini, t. 147; Lo scultore Milani, 1957, t. 153; Il pittore Gianni Dova, 1953, t. 154;  Il pittore Bruno Cassinari, t. 158; Moravia, t. 162.

[416] L’architetto aveva progettato la sistemazione delle due successive sedi della galleria veneziana e fu sempre Carlo Cardazzo a commissionargli il progetto per il Padiglione del Libro ai Giardini della Biennale nel 1950.

[417] https://it.wikipedia.org/wiki/Galleria_del_Cavallino  (17/03/2022).

[418] Monti 1955d, poi ripreso in Monti 1955c; Panorama 1956; Monti 1957c.

[419] Monti, in Basaldella 1975. Una buona esemplificazione di quell’atteggiamento si riscontra nella serie di ritratti ‘casalinghi’ del cognato Carlo Coquio (tavv. 069, 131).

[420] Dopo la prima edizione del 1951 quella chiamata costituiva un blasone per i partecipanti, specie italiani: La Bussola al completo;  Spadoni  del Circolo Fotografico Milanese; Gioia, Orsi, Donzelli e Clari per l’Unione Fotografica.  Per Morello 2010, p. 108-109, fu quella  l’occasione della “consacrazione ufficiale” della “scoperta del nero”  e dell’esteso utilizzo del mosso da parte della fotografia europea.

[421] Lettera di Monti a Ferroni, datata 28 novembre 1954, citata in Morello 2010, p. 109. Per i ritratti di Steinert cfr. Eskildsen 2000, pp. 131-165.

[422] Lettere di Monti a Ferroni rispettivamente del 2 marzo 1955 e del 12 gennaio 1956, in Morello 2010, pp. 109-110.

[423]  Cavanna, Paoli 2016, t. 68. Monti avrebbe poi fornito gran parte dell’apparato fotografico della monografia curata da Valsecchi 1962. Anche nel primo titolo della serie, Gnudi 1962, vennero pubblicate molte sue fotografie e il suo rapporto con Mario Negri proseguì nel tempo.

[424] Si veda Gualdoni 2013, p. 12.

[425] In più di un’occasione Monti avrebbe a sua volta utilizzato le opere di alcuni di quegli artisti, specialmente scultori, per realizzare quelle ‘nature morte’ che tanto lo attraevano; quelle che aveva incominciato a realizzare già nei primissimi anni Cinquanta nello studio del cognato pittore Carlo Cocquio, sempre in delicato equilibrio tra ragioni compositive e attrazione per la materia delle cose (tav. 130). Segnalo che la stampa con il ritratto del cognato,  pubblicato in “Photography Year-Book”, 1952  come Sculptor (tav. 131) porta al verso più varianti del titolo: “Candid Shot/ Painter Carlo Cocquio”, “Ritratto di pittore”; “ Ritratto di pittore/ N.”.

[426] Lettera  di Monti a Ferroni datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 105.

[427] Barigelli 1956. In tal senso forse potrebbero essere letti il già citato ritratto di Carlo Cocquio o quello di Giorgio de Chirico, 1955 ca (Piovani 1983, p. 23), mentre appare meno evidente in altri casi.

[428] Turroni 1959 p. 49. Per Arcari 1983, p.10 “la lunga serie dei ritratti di artisti (…) sta a testimoniare (…) la spontaneità dei rapporti che egli riesce a stabilire con la cultura milanese”, ma nella realizzazione della serie di artisti contemporanei illustrati da fotografi (Casiraghi, Merisio, Frisia, Colombo, Nicolini, Mulas, Masotti, Zannier) per i  “Quaderni di Imago”,  pubblicati tra il 1964 e il 1970 da Bassoli Fotoincisioni e da lui curati, non  venne mai coinvolto Monti.

[429] Monti 1954c.

[430] Lettera di Monti a Parmiani, datata 26 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 106. Ancora in uno dei suoi Appunti e disappunti rievocava tristemente le opinioni correnti di quegli “artisti di giusta notorietà e nel novero dei migliori del tempo”, Monti 1967b.

[431]  Monti 1967a.

[432] Colombo C. 1963b.

[433] Quintavalle 2010.

[434] Il nome della fotografa francese sarebbe stato evocato da Carlo Bertelli  a proposito della sua “colta rivisitazione della fotografia storica [che] troviamo nella figura drappeggiata stante presso un’edicola funeraria romana, che ci rammenta il modo di rendere personaggi chiusi nel loro mistero le statue del Foro Romano, che fu la scoperta, negli anni 30, di Florence Henri.”, Bertelli 2010, poi ripubblicato con minime varianti in Id., Paolo Monti, lirismo e ricerca, “Corriere della Sera”, Cultura, 10 giugno 2011. https://www.corriere.it/cultura/11_giugno_10/elzeviro-bertelli-paolo-monti_da95bf2c-9333-11e0-aa50-3c890fd936ef.shtml.

[435] Turroni 1957b.

[436] Emiliani 1995, p. 8. Nella testimonianza di Cesare Colombo, invece i fotografi di quegli anni “al cinema non andavano”, Colombo, Guerra 2014, p. 55.

[437] Monti 1963b.

[438] Hauser 1955-56. Quella interpretazione storiografica era stata formulata da Giséle Freund nel 1936, poi sviluppata ulteriormente nel 1974, ma appare improbabile che Monti conoscesse la prima edizione di quel testo, né la successiva risulta presente nella biblioteca del fotografo.

[439] Colombo, Guerra 2014, p. 56.

[440] Nell’aprile del 1962 veniva liquidata la società Fotogramma, a suo tempo costituita da Monti e Vasken Pambakian,  che aveva chiuso ogni sua attività giusto un anno prima, il 31 marzo 1961, licenziando l’ultimo dipendente rimasto su tre effettivi  (# Fotogramma 1961). Dal 20 marzo 1961 risultava però iscritta al Registro delle Ditte della CCIA di Milano una società Fotogramma S.r.l. Foto Cine TV, con sede in piazza Velasca, 5, cfr. Paoli 2007, p. 328, nota 1. Contestualmente si apriva una nuova configurazione professionale tanto che alla stessa data del 31 marzo  risale  una bozza di scrittura privata tra Monti e Vincenzo Carrese che stabiliva (punto 5) che “La gestione dello “Studio 22” [forse già di proprietà di Carrese] spetta al Dr Monti il quale avrà diritto alla retribuzione di lire 300.000 (trecentomila) mensili per tredici volte l’anno a compenso delle sue quotidiane prestazioni” (# Carrese, Monti 1961),  ma l’accordo non dovette aver seguito, se non per quel che riguardava la cessione del nome,  poiché dall’iscrizione alla CCIA di Milano (n. 583.893, in data 9 giugno) risulta invece “Foto Studio 22 di Paolo Monti”, sede Milano via Tasso 15, data di fondazione 01.06.1961 (…) proprietario unico Monti Paolo”. Anche  la carta intestata di quel periodo riporta la dicitura “Foto Studio 22/ Paolo Monti fotografo”, con sede in Corso Sempione 14 e abitazione in via Tasso 15. Il 18 ottobre il Questore di Milano concedeva inoltre licenza a Monti “per esercitare l’arte fotografica, con un massimo di cinque dipendenti, in Milano, Corso Sempione 14, e con la rappresentanza del sig. Giglio Francesco (…) e la direzione tecnica del sig. Fanti Ennio” (# Licenza 1961). In data 6 settembre si registrava ancora una fattura per lavori fatti alla Triennale intestata Fotogramma, via Colonna 9, nel cui “seminterrato n. 4 locali uso studio laboratorio” erano affittati a Vasken Pambakian (# Inquilini 1961). La conduzione dello studio (con dipendenti in gran parte fotoreporter come Fanti e Pietro Zonta ) fu certo complessa e poco soddisfacente se già  nel 1963 Monti lo chiuse preferendo lavorare da solo “vale a dire senza laboratorio, senza dipendenti, senza niente. (…) Mi ritrovai da solo col mio stampatore, che era venuto con me a tredici anni e aveva cominciato a stampare benissimo, e che stampa ancora per me oltre a fare il fotografo.” (Monti, in Dal Bo [1981] 1997, p. 40) Restava però immutata la denominazione della ditta, che solo col primo gennaio 1976 sarebbe divenuta Paolo Monti Fotografo con trasferimento della sede in Corso Sempione 28.

[441] Monti 1959b, pp. 63-64.

[442] Colombo C. 1959a.

[443] Lettera di Monti a Parmiani datata il 26 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 106, corsivo di chi scrive.

[444] # Willie 1958; # Pozzi 1958; le citazioni sono tratte da queste due fonti.  Le sole fotografie verosimilmente riferibili a quel progetto attualmente conservate nell’Archivio Monti sono le riprese in b/n di una modella che si insapona (tav. 135).

[445] Pozzi, collaboratore di Gio Ponti e poi di Achille Castiglioni, era stato redattore di “Stile industria” dal 1954 al 1957. Alcune notizie su questo professionista sinora poco studiato sono contenute in Ferrara 2020; un ritratto dell’architetto è in AM – FF,  R05048.

[446]  Monti 1959c, p. 45. Nella prima redazione del testo (Monti 1964b), aggiungeva : “Bisogna riconoscere che la cultura dei grafici era molto superiore a quella dei fotografi, molti dei quali non conoscevano affatto non diciamo le tendenze dell’arte moderna che ha enormemente influenzato il nostro modo di vedere, ma nemmeno le migliori opere dei loro colleghi stranieri.”

[447] Aldo Ballo, Davide Clari, Mario Dainesi, Edoardo Mari, Paolo Monti, Italo Pozzi, Alfredo Pratelli e Gian Sinigaglia, che ne fu il primo presidente; va quindi corretto l’affettuoso ricordo di Colombo più sopra citato. In occasione della V Biennale internazionale di fotografia del 1965 il sodalizio si presentava accresciuto con le nuove presenze di Alfa Castaldi, Gian Colombo,  Angelo Cozzi, Attilio Del Comune, Gianni Della Valle, Luciano Dinelli, Luciano Ferri, Ugo Mulas, Roberto Zabban e Pietro Zonda. Già nel   1950, in occasione della III Mostra internazionale della tecnica fotografica, si era costituita a Bologna l’Associazione artigiana dei fotografi italiani, “con un  comitato promotore composto dai sigg. Bonori, Villani, Pasquini di Bologna; Pogna di Milano; Gramaglia di Torino; Pedrotti di Trento; Biancini di Firenze e Parisio di Napoli. Tale comitato ha a sua volta incaricato la già esistente ed efficiente Associazione autonoma fotografi professionisti di Bologna di curare l’organizzazione dell’Associazione nazionale che verrà sancita da un prossimo convegno deî rappresentanti di tutte le regioni d’Italia.”, cfr. Associazione 1950. Ricordo che nel 1965 Martinez curò per la V Biennale Internazionale di Fotografia, con il supporto dell’AFIP, una mostra dedicata agli aspetti della fotografia professionale italiana intitolata Applicazioni e funzionalità della fotografia (Dolzani 2008, p. 313), che dovette avere però scarso riscontro e non venne neppure segnalata da “Ferrania”.

[448] Monti 1964c;  “la photographie est entrée dans les mœurs et dans les écoles jusqu’à faire partie des matières obligatoires dans l’enseignement technique et les études spécialisées (…) les conditions de travail dans un pays hautement industrialisé avec une économie de masse n’ont pu avoir que des incidences favorables quant au niveau social-économique de la profession (…) la grande émigration provoquée par la montée hitlérienne vida l’Allemagne de ses plus beaux talents au profit d’autres pays, dont l’Amérique, qui en les accueillant bénéficièrent de leur considérable apport. Si l’on demande ce qui se passait en Italie pendant qu’en d’autres lieux on ‘réinventait’ la photographie, la réponse ne peut être que négative. Seuls quelques portraitistes, tels que Sommariva, et une poignée de photographes documentaires ou d’architecture échappaient au climat de stérilité qui s’était installé. Sur le plan de la recherche expérimentale, les travaux de A.G. Bragaglia pour appuyer son manifeste ayant trait à ‘la photodynamique futuriste’ ont été le seul fait digne d’attention. Mais cette entreprise, bien qu’anticipant de vingt ans quelques idées et réalisations du Bauhaus, ne figure dans aucune histoire de la photographie (…) Aussi, pourrait-on survoler le temps jusqu’aux années 50, lorsque les effets découlant des vastes changements intervenus dans la vie politique, sociale, économique et culturelle du pays se firent sentir. (…)  Or si cette phase transitoire a été surmontée rapidement malgré le poids du passé, cela est dû aux efforts de réadaptation esthétique et technique de toute la profession, ainsi qu’à l’accession au métier d’une génération d’ ‘amateurs’  très évolués en matière de culture visuelle De ce point de vue, Milan a joué le rôle de catalyseur. (…) C’est dans ce conteste que l’AFIP (Associazione Italiana Fotografi Professionisti), adhérente à Europhot, a été fondée à Milan par un groupe de photographes professionnellement qualifiés. Son but est de travailler à l’élévation du niveau du métier et à la défense de celui-ci, d’établir une déontologie de promouvoir des initiatives d’ordre culturel et des échanges avec l’étranger. Programme ambitieux, difficile à appliquer.”, La copertina di quel numero di “Camera” era dedicata a una fotografia di Aldo Ballo, mentre le pagine interne ospitavano immagini realizzate dai fondatori dell’AFIP ma anche di Ugo Mulas, Luciano Ferri e Gianni Della Valle, che avrebbero aderito al sodalizio pochi mesi dopo. Alcuni mesi più tardi Martinez avrebbe abbandonato la redazione del periodico per essere sostituito solo due anni più tardi da Allan Porter.

[449] La fonte per la conoscenza del volume di Bragaglia avrebbe potuto essere Ragghianti 1959 o forse Racanicchi 1963, che riprendeva alcuni temi già accennati nell’intervista con Carlo Ludovico Ragghianti del 1958.  Altre riflessioni sui rapporti tra pittura e fotografia vennero esposte da Racanicchi 1963a in occasione della II Mostra nazionale di fotografia La figura umana,  che si tenne a Bergamo nell’ottobre del 1963, un’iniziativa a cui partecipò anche Monti come giurato, accanto ad Arcari e Cesare Colombo.

[450]  Monti ribadiva qui la sua nota interpretazione del ruolo storicamente rilevante della migliore fotografia amatoriale nel nutrire quella professionale. Anche Turroni 1966 avrebbe di lì a poco confermato come  “quella consapevolezza culturale, quel gusto delle buone letture e di una visione estetica il più possibile vicina alla nostra esperienza di vita, tutto ciò, insomma, che determina la misura e la statura di un vero fotografo, di un fotografo che cerca di andare oltre la moda di una stagione e di dire qualcosa di positivo. mi pare si siano trasportati, negli ultimi anni (grosso modo, dopo il ’60), dal piano dilettantistico a quello dei professionisti: dal mondo della provincia, non chiuso ma certo aristocratico e un po’ snob, a quello dei professionisti, dei ‘pubblicitari’.”

[451] Anche Arcari 1966, richiamando l’intervento di Monti pubblicato nel numero di luglio (Monti 1966c),  sottolineava come l’aspetto interessante del progetto AFIP fosse il rapporto fra professione e “impegno culturale”. Un rapporto che si doveva basare “sulla responsabilità – e quindi su un piano che è pure di ordine etico – che il fotografo ha non solo verso il committente ma anche e prima di tutto verso il pubblico.” Monti avrebbe poi ripreso sinteticamente analoghe riflessioni nella breve presentazione a Fotografi 1967 (Monti 1967c).

[452] Monti 1964b.

[453] Era stato Emilio Servadio (1967), all’epoca presidente della Società Psicoanalitica Italiana, a parlare di “voyeurisme” e di “impulsi esibizionistico-narcisistici”.

[454] Monti 1967d.

[455] Una foto di moda di Berengo Gardin venne pubblicata in Turroni 1967a p. 17,  che generalizzando su questi “raffinatissimi dell’arte fotografica” si concedeva  queste imbarazzanti considerazioni: “Su alcuni di loro circolano quelle voci che circolano sui bravi parrucchieri per signora, sui bravi sarti, sui bravi registi di teatro, eccetera. Il culto della dea-donna esige questi sacrifici sul piano sessuale. Si rinuncia alla donna, per capirla meglio. È  una forma letteraria che oggi piace. Fa anche ridere, dopo tutto. Penso sarebbe piaciuta a Flaubert, mentre Proust ci sarebbe stato troppo dentro, per poterla esprimere bene”. Una boutade certo; forse, allora, dolorosamente necessaria per nascondere la propria omosessualità, cfr. Colombo, Guerra 2014, p. 25.  Ai fotografi di moda, specie milanesi, era dedicato il successivo articolo Turroni 1967b.

[456] Turroni 1967b.

[457] Barthes 1959.

[458] Si veda ad esempio il progetto pubblicitario Calci Ostelin per la Glaxo realizzato da Max Huber per Studio Boggeri nel 1941.  “Mi interessava sempre l’arte astratta così provavo con fotogrammi e forme geometriche semplici delle composizioni”, ricordava Huber in una sua biografia in parte pubblicata in Max Huber 1991.

[459] La notizia (“due cataloghi a colori di arredamento per la Braendli”) si ricava dalla breve scheda biografica redatta da Monti per la mostra a Il Diaframma del 1967.  Tra le loro collaborazioni anche Coray, Scheiwiller 1979, con grafica di Huber e fotografie di Monti.

[460] Segnaliamo qui le principali occasioni di collaborazione: 1956: Logo dei magazzini La Rinascente e logo del Premio Compasso d’Oro. 1956-1960: pubblicità per la casa farmaceutica  Pierrel, anche per il farmaco Granulovit. 1957: Premio La Rinascente Compasso d’Oro per l’estetica del prodotto. 1958: Allestimento del padiglione del Cotonificio Cantoni. 1958-1962: copertine per Feltrinelli: Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa, Manlio Cancogni, Cos’è l’amicizia, Beatrice Solinas Donghi, L’estate della menzogna; Max Frisch, Andorra.   1959: ditta Aurora di Torino. 1959-1960: Abecedario realizzato per la XII Triennale – Mostra della Scuola. 1962 Fascicolo di presentazione della nuova sede della Riunione Adriatica di Sigurtà  a Milano. 1963: Coop Reggio Emilia. 1968: pubblicità  Atkinsons. 1971: rivista “ENIT”. 1972: grafica e copertina di Steiner per Riccòmini 1972. 1973: Museo Monumento al Deportato di Carpi. A queste si aggiunga la collaborazione nell’ambito della Scuola Umanitaria di Milano nei primi anni Sessanta, dove Monti insegnava Tecnica fotografica. Ancora a Steiner Monti avrebbe affidato il progetto del logo per il suo Studio 22.  Alcune tracce di quella collaborazione sono registrate – senza citare opportunamente il ruolo del fotografo – nel fascicolo monografico Albe Steiner 2016.

[461] Vetrotessile 1960. La pubblicazione non riporta i crediti fotografici, ma l’attribuzione è confermata dal confronto con le immagini conservate nel Fondo fotografico.

[462] La fotografia di quel set, realizzata con un apparecchio Linhof, venne pubblicata nel portfolio a corredo di Mannheim 1967.

[463] Anche Pomodoro era giunto da poco a Milano insieme al fratello Giò, nel 1954.

[464] Monti 1954d.

[465] Morucchio 1953b. Il critico aveva firmato anche la breve presentazione della seconda personale di Monti, alla “Bottega Il Ponte”, nel luglio dello stesso anno, cfr. supra NOTA 201.

[466] La rischiosa scelta de “l’existence économiquement aléatoire et socialement peu considérée de photographe”, sarebbe poi stata adeguatamente riconosciuta da Martinez 1956a, trascritto integralmente in Dolzani 2008, p. 133.

[467] # CCIA Milano 1953. Tra gli operatori vi era Dino Sala, già dipendente dei Pambakian, che negli anni successivi avrebbe poi aperto un proprio laboratorio. La società, già in liquidazione dal dicembre 1960, cessò ogni attività al 31 marzo 1961 (# Fotogramma 1961).  Va messa in rilievo la singolarità della denominazione societaria, che rimandava a quelle pratiche off camera, lontane dal professionismo, che gli appartenevano come amateur. Da rilevare inoltre  la separazione netta tra denominazione commerciale e definizione autoriale: sebbene in quegli  anni  quello di Paolo Monti fosse un nome di assoluto prestigio, questo venne adottato come ragione sociale della ditta solo dal gennaio 1976. Non solo, come risulta dai crediti fotografici in Brawne 1965, la documentazione della nuova museografia italiana era  svolta sia come Fotogramma sia come Paolo Monti, e si davano casi, come il Museo del Castello Sforzesco a Milano o della Galleria d’Arte Moderna a Torino, nei quali era presente  documentazione assegnata ad  entrambe le identità.

[468] I fratelli Pambakian si erano trasferiti nel 1948  a Milano, dove successivamente fondarono la  Color Record (1950), forse il principale laboratorio milanese di trattamento colore, del quale si servivano anche altri professionisti come Giorgio Casali,  e quindi l’Union Foto Market.

[469]  Monti 1964b, da cui sono tratte tutte  le citazioni successive.

[470] #  Monti 1958.

[471] Monti 1964b.

[472] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Dalla documentazione disponibile presso l’Archivio della Triennale  non risulta però alcun incarico ufficiale, ma invece una più semplice autorizzazione a eseguire fotografie nell’ambito dell’esposizione, analogamente a quanto accadeva per altri professionisti. La procedura di autorizzazione adottata dall’ente per tutti i fotografi che richiedevano l’accredito implicava l’impegno a sottoporre in visione all’Ufficio Stampa tutte le riprese eseguite, cedendone gratuitamente due copie. (# Triennale 1957).

[473] Lettera di Monti a Parmiani datata il 26 agosto 1954, citata in Morello 2010, p. 106, corsivo di chi scrive.

[474] Monti 1959b. Pur lasciando al fotografo “la libertà più completa” è però vero che Steiner non gli riconosceva alcuna corresponsabilità nella progettazione e realizzazione dei progetti; basti considerare la serie di copertine per Feltrinelli, realizzate a partire da fotografie di Monti ma firmate dal solo Steiner, cfr. supra NOTA 460.

[475] La stessa sigla compariva tra i crediti di Pica 1959, che costituisce anche un buon repertorio dei migliori fotografi italiani di architettura di quegli anni: da Aldo Ballo a Giorgio Casali, da Davide Clari a Oscar Savio, per la gran parte attivi nel nord Italia e specialmente a Milano.

[476] https://triennale.org/risultati-archivio?archiveId=archivio-fotografico&freeText=fotogramma&timerange=1954 .

[477] Corrispondenti a circa 33 € attuali.

[478] # Alfieri 1960.

[479] cfr. Dezzi Bardeschi, Gioffré 2015. Come si ricava da Pica 1959, a quella data Monti non aveva però alcun rapporto di esclusività con i maggiori, anzi. Sue erano le fotografie dell’intervento BPR per il Castello Sforzesco a Milano, ma nonostante quei lusinghieri apprezzamenti l’intervento di Albini a Palazzo Bianco a Genova  venne documentato da Giorgio Casali, il Museo Correr di Scarpa ripreso da Ferruzzi di Venezia mentre le fotografie del Tesoro di San Lorenzo a Genova portavano la firma di Farabola. Le foto di Monti erano state pubblicate in Red. 1957a  e furono successivamente utilizzate per la presentazione dello stesso lavoro nella Mostra di Architettura della XII Triennale, dove il Tesoro venne illustrato in una serie di ingrandimenti firmati da Monti. (# Triennale 1960). Quella serie era stata già esposta alla prima Biennale veneziana del 1957 suscitando l’ammirazione di Zannier, che nel recensire la mostra segnalava “le suggestive fotografie della Cripta di San Lorenzo a Genova, [che] ci presentano un Monti come al solito intelligente e raffinato; la fotografia d’architettura ha trovato in lui un nuovo interprete e in Italia si sentiva veramente il bisogno di un serio rinnovamento in questo settore”, Zannier 1957c, p. 16.

[480] Una prima occasione di confronto si era avuta con la mostra dedicata alla museografia in occasione della XI Triennale di Milano del 1957, con progetti, maquette e fotografie di quattordici allestimenti  italiani. A quella rimandava la rassegna critica di Russoli 1960,  con foto Monti.

[481] Su quella campagna si veda ora Villa 2003. Ancora dieci anni dopo lo studio Bassi Boschetti scriveva a Monti  per richiedere copia delle fotografie della Galleria d’Arte Moderna di Torino:  “Come certamente Lei immagina il materiale ci serve con una certa urgenza per un concorso che ci scade fra 10 giorni.”, # Bassi Boschetti 1969. Dalla successiva fattura del 31 ottobre (ibidem) si ricava che furono realizzati “168 ingrandimenti 24×30 – 14 stampe dalle foto 1/3/6/4/9/12/13/14/19/20/21/22.”

[482] Spesso, Porcile 2019. Come ricordano gli autori (ivi, p. 193) Monti sarebbe tornato ancora a fotografare un allestimento genovese in occasione dell’apertura del museo Chiossone: “Pur nello spazio limitato di due pagine le immagini che accompagnano il testo forniscono una lettura critica approfondita e convincente dell’edificio. Il Museo appare letto criticamente sotto due aspetti: la sua apparente semplicità (la grande immagine dello spazio centrale) e la reale complessità (le quattro piccole immagini composte nella prima pagina a fianco del testo). (…)  Proprio in virtù della profonda conoscenza dell’argomento, la serie fotografica da lui realizzata nel 1971 resta una delle letture più convincenti del Museo Chiossone appena completato.”;  si veda anche Pica 1972.

[483]  Dopo le prime campagne datate  1956-1957 e ancora  nei primi anni Sessanta, nuove riprese vennero appositamente realizzate per Marcenaro 1969, cfr. infra.

[484] Marcenaro 1965, p. 26.

[485] Anche Gianni Berengo Gardin e specialmente Italo Zannier collaborarono poi assiduamente con il periodico fondato da Zevi nel 1955. Secondo la testimonianza di Ennio Puntin Gognan (riportata in Manfroi 2016; si veda anche Ennio Puntin Gognan 2016), fu lui a segnalare Monti a Bruno Zevi, allora docente allo IUAV, che a sua volta avrebbe invitato il fotografo a tenere una serie di lezioni, ma di quegli incontri e di eventuali contatti tra i due non si trova traccia né nell’Archivio Monti né in quello di Zevi, cfr. De Meo 2006.  Costituirono comunque occasione di collaborazione sia la  pubblicazione del primo  volume di  Renzi 1969, con prefazione di Zevi e foto di Monti, sia la realizzazione di fotografie a corredo di articoli per  la rivista, in parte conservati nella biblioteca Monti.

[486] Si segnalano di seguito alcune delle collaborazioni con  “L’oeil”:  Lamy-Lassalle 1958; Wittkower 1959; Russoli 1960; Praz 1960; Habasque 1960; Hoctin 1963. Segnalo che nel n. 85, gennaio 1962, pp. 88-91, vennero pubblicate anche sue  fotografie di moda femminile (b/n e colore) per Ava Golf e per Falconetto,

[487]  Panoptique 1967.

[488] Ragghianti 1959b. In un suo curriculum (# Monti 1967) si presentava come “Fotografo permanente nello staff di Zodiac e Metro”.  Sui rapporti tra l’architetto e l’azienda di Ivrea si veda Tinacci 2018. Forse in quell’occasione lo studioso e il fotografo non ebbero però occasione di conoscersi se sul finire dell’anno Ragghianti volle scrivere a Roiter per invitare i membri de La Gondola a partecipare al suo progetto di costituzione di  una “raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica” di cui si è detto.  Monti ebbe successivamente occasione di collaborare con la Società Olivetti anche come studio Fotogramma, cfr. https://archividigitaliolivetti.archiviostoricolivetti.it/.

[489] Ricordava Gianni Berengo Gardin (in Scimemi 2004b, ): “Io ero affascinato dagli allestimenti di Scarpa che vedevo ritratti nelle fotografie di Monti. In particolare ricordo il suo lavoro sul negozio Olivetti in piazza San Marco (…). Sicuramente ne parlammo insieme, anche perché io lavoravo a quel tempo per Olivetti, della quale documentavo con fotografie la catena di montaggio delle macchine da scrivere, le architetture delle fabbriche e delle sedi degli uffici, sia in Italia che all’estero.” Alla lunga collaborazione tra Berengo Gardin e la Società di Ivrea è stata dedicata nel 2020, presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia di Torino, la mostra Gianni Berengo Gardin e la Olivetti,  curata da Margherita Naim e Giangavino Pazzola in occasione dei 90 anni dell’autore.

[490] Red. 1960, p.48. Come avrebbe ricordato anni dopo Fulvio Roiter, che ebbe l’occasione di accompagnare Monti realizzando anche una serie di fotografie in proprio, l’incarico di fotografare il restauro delle sale e il nuovo allestimento gli era venuto dal direttore del Musei Civici di Verona Licisco Magagnato, cfr. Scimemi 2004a.  Il rapporto di stima si mantenne immutato nei decenni successivi come mostra una lettera di Magagnato a Monti, datata Verona 28 aprile 1977, nella quale il Direttore confermava che gli avrebbe fatto “molto piacere di fare una mostra monografica della sua attività di fotografo, con degno catalogo” (#  Magagnato 1977), ma l’iniziativa non ebbe seguito.

[491] Una variante di ripresa di t. 139 venne pubblicata in Museo d’Arte Antica 1956, p . 15. Il 20 aprile 1956 la Società Fotogramma richiedeva di poter effettuare riprese fotografiche nel Museo per un servizio destinato a illustrare BPR 1956.

[492] Maffioli 2014, p. 51. Dalla verifica condotta sui materiali d’archivio e da quanto pubblicato in Museo d’Arte Antica 1956 risulta il ricorso a modelli femminili e maschili, oltre che la messa in scena molto connotata di alcune riprese con persone.

[493] In quell’occasione Monti fu presente anche in veste di coautore del padiglione Ferrania, che costituiva la  decima sezione del settore italiano, denominata Conclusioni, curata con Guido Bezzola e Mario Motta  su  progetto di Ludovico Quaroni. (tav. 155) Il padiglione si presentava come una versione in sedicesimo ma più drammatica e meno consolatoria di The Family of Man, con un allestimento  “di una impressionante severità. Nude strutture metalliche, pareti oscure che si alzano altissime, concentrano l’attenzione del visitatore sui documenti di dolore e speranza che sono registrati su grandi strisce di pellicola fotografica, liberamente pendenti ed ondeggianti nello spazio: una folla di fantasmi, di ricordi, di rimorsi, di speranze che sembrano sorgere dalla coscienza stessa del visitatore.” cfr. Red. 1961b.

[494] Su queste vicende si veda Carlo Scarpa 2004 e più in particolare Tinacci 2013 p. 62, in cui si confermava che “le fotografie conservate nell’Archivio Carlo Scarpa mostrano anche il lavoro di taglio e inquadratura delle immagini destinate alla pubblicazione.”

[495] Lettera di Monti a Scarpa, datata 16 maggio 1974, citata in Tinacci 2013, p. 62, nota 79.

[496] Testimonianza citata in Beltramini 2004.

[497] Oltre a Cavanna, Paoli 2016 si vedano le testimonianze raccolte in Brawne 1965.

[498] L’invenzione montiana si distaccava nettamente per concezione e impianto dalle riprese delle stesso soggetto realizzate da altri autori nel corso del tempo, da Ugo Mulas a Guido Guidi, cfr. Friedman 1999;  Carlo Scarpa 2004.

[499]  # Scarpa 1962-1964.

[500] Tafuri 1984, p. 79.

[501] Bertoli 216, p. 587.

[502]  “fabled and romantic country”,  Maloney 1955.

[503] Kidder Smith 1955. La campagna documentaria venne condotta nel corso del 1953 e il volume (quarto di una serie che già comprendeva Brasile, Svezia e Svizzera) fu pubblicato contemporaneamente negli USA e in Italia; alcune di quelle immagini vennero poi pubblicate in Kidder Smith 1962. Oltre alle fotografie dell’autore, il volume – non presente tra i libri di Monti –  conteneva anche immagini di Fotocelere, Crimella, Farabola, Riccardo Moncalvo, Oscar Savio, Bruno Stefani, Vasari e Villani  Sulla genesi del volume si veda Maggi 2017.

[504] Zevi [1948] 1970, pp.46-47.

[505] Analogo, ormai inconsueto atteggiamento sembra di cogliere in uno studioso molto raffinato come Geoffrey Batchen quando scrive che “the photograph does not really prompt you to remember people the way you might otherwise remember them – the way they moved, the manner of their speech, the sound of their voice, that lift of the eyebrow when they made a joke, their smell, the rasp of their skin on yours, the emotions they stirred. (Can you ever really know someone from a photograph?)”, Batchen 2004, p. 15.

[506] Rogers 1955. Analoghe furono le riflessioni di Luigi Ghirri 1988 nel confronto con le architetture modenesi di Aldo Rossi: “La realizzazione delle fotografie fu tra le più interessanti, non tanto per i risultati poi ottenuti, quanto perché (…) sembrò che mi si rivelasse il segreto per un approccio all’architettura ed alla sua rappresentazione fotografica. Più il lavoro procedeva, e più paradossalmente non ne vedevo la fine, anzi mi restava ancora più lavoro da svolgere, mi restavano da vedere e inquadrare nuovi angoli, nuovi punti di vista per ogni piccolo movimento nello spazio, le prospettive appena riprese si ripetevano dopo pochi minuti con un aspetto rinnovato, la luce continuava incessantemente a modificare il senso e l’aspetto, a colorare diversamente volumi e superfici. (…) e questo  chiarì in maniera definitiva anche tutti i dubbi e sospetti che nutrivo da tempo nei confronti della fotografia d’architettura.”

[507] Insolera 1956. Nell’intestazione l’autore si presentava come membro del  C.C.F. – Centro per la Cultura nella Fotografia di Fermo.  Di qualche anno successiva sarebbe stata la redazione del testo per il volume Il quartiere barocco di Roma, con fotografie di Italo Zannnier (Insolera 1967).  Sul suo appassionato rapporto con la fotografia si veda ora Valentinelli 2017.

[508] Monti 1981a. Nella stessa occasione ricordava come “la fotografia di un grattacielo può inarcarsi su una diagonale a 45° che esprime la sua fuga verso il cielo e crea nuove forme”, rifacendosi (senza citarla) proprio a una sua notissima ripresa del Grattacielo Pirelli pubblicata in Neutra 1963. Dal 1958 al 1961, su incarico della prestigiosa rivista aziendale “Pirelli”, anche Arno Hammacher eseguì alcune centinaia di immagini del cantiere del grattacielo di Ponti, Fornaroli e Rosselli,  dai primi scavi ad ogni fase della sua costruzione, in parte pubblicati nella rivista. L’assoluta autonomia dal testo di accompagnamento lasciava libero il fotografo di osservare dal proprio specifico punto di vista il procedere dei lavori, soffermandosi spesso su suggestioni formali e particolari suggeriti dagli stessi materiali edili o dall’opera delle maestranze, piuttosto che su inquadrature rigorosamente dettate dalla necessità di documentazione aziendale. Le riprese di Hammacher, ciò nonostante o forse appunto per quello speciale punto di vista, compongono uno straordinario reportage di quell’impresa edilizia, tecnologica e progettuale, costituendone la maggiore documentazione visiva per quantità e qualità fotografica. Altre foto di quel cantiere, purtroppo senza indicazione dei relativi autori, sono state pubblicate in  Crippa 2017.

[509] “la notion de «continuité» organique (…) les optiques photographiques s’opposent en quelque sorte à la physiologie de notre perception visuelle et à la chimie de notre rétine en ce que  nos facultés sensorielles sont essentiellement mouvement alors que l’œil de l’appareil est par sa nature même statique. (…) que l’architecte ne l’introduise littéralement dans «l’univers de son œuvre (…)  la photographie d’architecture à laquelle nous nous référons est réalisée dans un but fonctionnel (…) interpréter valablement les intentions de l’architecte.”, Neutra 1963, corsivo nel testo, traduzione di chi scrive  dire una sola volta alla prima occasione.

[510] Si veda infra NOTA 573.

[511] “il faut bien sentir que photographier et voir ce n’est pas comprendre. Ces limitations admises, je suis persuadé que le lien indissoluble du photographe avec le monde extérieur revêt une force morale chez les meilleurs photographes : ne pouvant sortir de la réalité, ils doivent en interpréter ou en approfondir la signification ou, au moins, en faire ressortir subjectivement le poids et l’intensité ”, citato in Burguet 1963, p. 27. In quello stesso anno Monti realizzò anche una serie di riprese per il numero monografico Il Novecento 1963.

[512]  Si veda Brawne  1965, nel quale “circa un terzo di tutte le foto sono dello scrivente, in pratica tutta la sezione italiana”, come scriveva Monti in un suo breve curriculum (# Monti 1967). Studiando quelle serie di immagini risulta – diciamo così – difficile concordare col giudizio di  Vittorio Savi,  per il quale Monti  “restò un autore esistenziale; il fotografo del tempo, si direbbe del tempo domenicale e pomeridiano della città. Non si trasformò nel fotografo dello spazio dell’architettura. Non lo diventò mai […] il che non impedì che fosse onorato come il maggiore fotografo italiano di architettura”, Savi 1990.

[513] Si veda a titolo di significativo esempio l’apparato fotografico di Koenig 1968: una serie di riprese a colori professionalmente corrette ma che certo appaiono prive di ogni empatia coi soggetti fotografati, ciò che accadeva sovente con le sue riprese a colori, tanto affascinanti in sede sperimentale quanto anonime nel lavoro professionale. Anche le sue fotografie pubblicitarie, se escludiamo le campagne condotte per e con Albe Steiner, risultano nulla più che corrette applicazioni tecniche: penso alle fotografie dei sanitari Ideal Standard pubblicate in “Domus”, (1968), n. 458, gennaio, p. 26 che non portano traccia alcuna delle contrapposte suggestioni  di Marcel Duchamp o Edward Weston.

[514] Monti 1963a, ora in Valtorta 2008, pp. 78-79.

[515] Marcenaro 1969.

[516] Monti 1977a.

[517] Si veda l’attenta analisi di Frongia 2018.

[518] Nicolini 2010.

[519]  Monti 1959b. Opposta la lettura di Turroni 1959, pp. 63-64, per il quale “il libro (…) potrà forse spaventare gli ultimi arcadi, ma è comunque originale, e scopre una Milano nevrotica, in serie.”

[520] Monti 1957a.

[521] Vergani, Crocenzi, Birelli 1967. La maggior parte delle fotografie pubblicate si doveva – oltre che a Diego Birelli – a  Mimmo Castellano, Cesare Colombo, Gianfranco Mazzocchi, Toni Nicolini, Piero Raffaelli, Ferdinando Scianna; di Monti si pubblicava solo una foto della serie dedicata al Grattacielo Pirelli (tav. 163), mente non erano presenti altri importanti autori quali Mario de Biasi o Ugo Mulas, né Carlo Orsi, che solo due anni prima aveva firmato in collaborazione con Giulia Pirelli un bel volume sulla città (Orsi, Pirelli 1965). Un’aggiornata rassegna critica delle letture fotografiche delle principali città italiane nel secondo Novecento è stata fornita da  Frongia 2013, in particolare Crisi e immagine della metropoli: il caso Milano, ivi, pp. 128-142.

[522] Lettera di Monti  a Ferroni, datata 25 agosto 1954, citata in Morello 2010,p.  105.

[523] Riccòmini 1972, con fotografie di Paolo Monti (anche a colori) e Corrado Riccòmini. La stessa avvertenza comparirà nel volume successivo Riccòmini 1977, con fotografie degli stessi autori.

[524] In un’intervista rilasciata nel 1980 (V.P. 1980) così rispondeva alla domanda “E per la scultura: come si può interpretarla? Con le posizioni di ripresa. Ad esempio una statua che è stata scolpita per stare a tre metri di altezza, se la fotografo da terra la presento come l’autore l’aveva pensata. Se invece mi innalzo di quei tre metri la prospettiva cambia. Dunque è meglio avvicinarsi o riprendere la statua dal basso? Da dove la gente la vede abitualmente: la prospettiva è quella prevista dallo scultore.”

[525]H. Wölfflin, Wie man skulpturen aufnehmen soll (Come si devono fotografare le sculture), pubblicato in due parti nella “Zeitschrift für Bildende Kunst”, 1896, 1897 quindi ripreso circa venti anni dopo sulle stesse colonne e con lo stesso titolo, cfr. Wölfflin 2008.  Le relazioni complesse tra scultura e fotografia sono state oggetto di crescente interesse negli ultimi decenni; si vedano almeno Pygmalion Photographe 1985;  Sculpter-Photographier 1991; Skulptur in Licht der Fotografie  1998; The original copy 2010. Johnson 2013; Hamill, Luke 2017.

[526] Si veda la doppia lettura  delle figure della Penitenza, Giustizia, Sapienza e  Misericordia di Angelo Piò in Sant’Agostino a Imola (Riccòmini 1977, tavv.51-59) che derivava dalle precedenti ricerche di Monti condotte sulla Fontana di Trevi, 1962, e sugli angeli di Ponte Sant’Angelo a Roma, 1966 (in Paolo Monti 1983, pp.107-111). Per il lavoro condotto sulla Pietà Rondanini cfr. infra, testo corrispondente alla NOTA 542 e successive.

[527]  #  Monti 1969b.

[528]  Monti 1981c Quale pura suggestione e stimolo a ulteriori  riflessioni, ricordo quanto scriveva André Bazin:  “La fotografia, portando a compimento il barocco (…)”,Bazin [1945] 1973, p.6. Una Angelo berniniano di Monti venne pubblicato anche in Emiliani 1979, t.206.

[529] Cfr. De Seta 1979, p. 54, t. 106, a suo tempo pubblicata anche in Mollino 1949, p. 306.

[530] Moretti 1950,  che nella copertina di Angelo Canevari presentava il dettaglio dell’ala di uno degli angeli, cfr. Duranti 2010, p. 256.   Per approfondimenti si rimanda ai saggi contenuti nel catalogo della mostra Luigi Moretti 2010,  e in particolare al contributo di  Letizia Tedeschi. Anche le fotografie dei  dettagli di certi  paramenti marmorei  (tav. 173) possono essere interpretate quali Trasfigurazioni di strutture murarie, per richiamare il  titolo di un altro noto saggio di Moretti del 1951.

[531] Maggi 2010, p.234, che analizzava anche la produzione fotografica giovanile dell’architetto.

 [532] L’insieme delle riprese dedicate alle fontane, agli Angeli di Ponte Sant’Angelo e al Foro Romano, ma forse anche  fotografie come Madama Lucrezia (tavv. 174, 175)  facevano parte della “Documentazione per il progetto Pietre di Roma”,  che avrebbe dovuto essere pubblicato dalle Edizioni Alfa di Bologna.

[533] Più turbolente e barocche quelle dedicate alla Fontana dei Quattro Fiumi, di cui un esemplare venne pubblicato in Praz 1960, p. 52.

[534] Il riferimento era a Tre soldi nella fontana, diretto nel 1954 da Jean Negulesco.

[535] Turroni 1966.

[536] Monti 1967e, erroneamente datato 1973 in Monti 1983, p. 129. Arcari 1980, pp. 48-49, avrebbe poi pubblicato affiancate una fotografia di montagna di Frisia e una dalla serie di Monti dedicata alla Fontana di Trevi.

[537] Ibidem. È sufficiente confrontare la morbida gamma tonale dei negativi con quella aspra e contrastata delle stampe per comprendere quanto fosse determinante l’interpretazione della matrice condotta in camera oscura. Ricordiamo che ancora in una serie molto articolata di appunti riferibili alla sua progettata monografia per Einaudi, cfr. infra, uno dei capitoli doveva essere dedicato a “Una interpretazione piranesiana. Saggio fotografico sulla fontana di Trevi”, indicando come ancora da “FARE/ Foto dall’alto e possibilmente dentro l’acqua.”, cfr. Valtorta 2008, p. 202. Anche per Emiliani 1983, p. 13, “quando stampava le straordinarie immagini romane della fonte di Trevi, andava a memoria sull’antico mestiere dell’acquafortista”, né si può negare che Piranesi fosse stato per Monti un nume tutelare, e non solo in  quell’occasione.

[538] Con una lettura certamente superficiale, le idee espresse in questo intervento al I Convegno Nazionale di Fotografia di Sesto San Giovanni del 1959 (Monti 1959c), sono state considerate “sorprendentemente arretrate”  da Paolo Morello 2000, p. 21. In una serie di appunti databili alla fine degli anni Settanta, pubblicati in Valtorta 2008, pp. 208-209, Monti ne avrebbe individuato un ulteriore limite strutturale ricordando che “La CODA dell’occhio manca alla  fotografia.”

[539] Scriveva Minor White nel colophon della sua  Fourth sequence (White 1950): “A sequence of photographs is like a cinema of stills. The time between photographs is filled by the beholder, first of all from himself, then from what he can read in the implications of design, the suggestions springing from treatment, and any symbolism that might grow from within the work itself. (…)  The meaning appears in the mood they raise in the beholder; and the flow of the sequence eddies in the river of his associations as he passes from picture to picture.” Già Orlandini 1967 aveva rilevato che per Monti “la fotografia non può raccontare o meglio non può porgerci un racconto completo che tenga conto degli stati mediani dell’oggetto. (…) Quindi è la serie fotografica, il numero dei fotogrammi di una realtà che può consentirci di articolare un discorso mobile e consecutivo.”

[540] Monti 1977b.  Per realizzare l’insieme (cfr. schede all’indirizzo http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+rondanini )  Monti lavorò sette sere al Castello nel giugno di quell’anno, producendo circa 500 negativi 24×26 (Paoli 2007, p. 316). Peppi Battaglini, che nella sua Libreria San Babila aveva ospitato una personale di Monti nel febbraio-marzo 1958,  ebbe un ruolo, in quanto manager di Görlich, anche nella pubblicazione del saggio fotografico compreso nel libro dedicato a Venezia e la sua gondola (Chiesa Butazzi, Monti 1974). Cfr. NOTA XXX

[541] Paoli 2007; vedi tavv. 150, 151, 152, 153.

[542] Scultura italiana 1966-1968.

[543] Presentando questo lavoro Quintavalle (1979) rilevò come la lettura di Monti “muove dalla tradizione della macchina da ripresa”, distaccandosi nettamente dalla convenzione documentaria per porre il “problema della successione temporale [che] presenta alcune difficoltà. Infatti il tempo delle fotografie non è il tempo dell’opera, il cui ritmo viene letto (…) secondo un procedimento critico (…); rilettura, interpretazione dunque, del modello qui michelangiolesco, ma confrontati con la nostra cultura, con la cultura del fotografo.”

[544] Della assimilazione tra attenzione materica propria dell’estetica dell’informale e interpretazione del non finito come pertinente all’immagine delle sculture michelangiolesche avanzata da Cesare Brandi  ha parlato Silvestra Bietoletti 2014, p. 33, ma in questa occasione risulta interessante e istruttivo confrontare queste immagini con quelle appositamente eseguite da Giuseppe Pagano per illustrare l’articolo di Pietro Toesca 1939; altre immagiini dell’opera vennero pubblicate pochi mesi dopo da Emilio Cecchi 1940. Anche nelle successive riprese di Monti dedicate alle sculture di Medardo Rosso (1978) emergeva a volte la fascinazione della materia e del non finito (tav. 181), esprimendosi in una lettura ravvicinata delle cere e dei bronzi, mentre in tutti gli altri casi le opere erano riprese predisponendo un fondo neutro con un punto di vista che abbandonava volentieri la posizione frontale per cercare soluzioni più scorciate, quasi al limite del profilo. La densità delle ombre risultava molto controllata e varia, in dipendenza del materiale, e l’inquadratura era totale. In questa occasione Monti non si concesse mai uno scarto rispetto alle richieste della committenza.

[545] Cfr. Pittura a Rimini 1979,  tavv. 84-89 [16 fotografie].

[546]  Già Silvia Paoli 2007 aveva notato che Monti era stato particolarmente attratto dalla ‘tragicità’ di questa Pietà michelangiolesca.

[547] # Monti 1977. E aggiungeva: “Una certa stanchezza mentale spesso mi tormenta e anche una mancanza della mia eccellente memoria di prima del maggio ‘76”, quando in seguito a una caduta durante una campagna fotografica, fu costretto a interrompere la sua attività per qualche mese.

[548]  Quintavalle, che avrebbe dedicato a Monti ben quattro inserti tematici per l’Enciclopedia pratica per fotografare (Quintavalle 1979a-d), non dovette accogliere con sereno senso critico quel gran rifiuto se ancora nel 2010, ricostruendo le vicende della galleria di Lanfranco Colombo, mise tutto il suo impegno nel non citare il nome del fotografo che l’aveva inaugurata.

[549]  Monti 1977c.

[550]  # Monti 1975.

[551] Paolo Monti 1979, p.n.n.

[552] Paolo Monti 1979, tavv. 49-52. Piuttosto singolarmente neppure la monografia curata da Giovanni Chiaramonte nel 1993 prese in considerazione l’enorme e determinante lavoro condotto da Monti nell’ambito della documentazione del patrimonio architettonico e artistico italiano, giustificando questa assenza con la “sterminata vastità e metodologia utilizzata nella sua realizzazione” (ivi, p.8).  Questa rinuncia critica ebbe come risultato di fornire un’immagine di Monti forzosamente ridotta alle sue sole ricerche personali, suggerendo una dicotomia concettuale e operativa che non poteva rendere giustizia alla sua ricchezza intellettuale ed espressiva.  Al saggio di Chiaramonte sembrava riferirsi implicitamente anche Roberta Valtorta (1993, p.31)  sottolineando la necessità che “questa unità ideale dell’opera di Monti va[da] studiata e ricostruita laddove è stata separata.”

[553]  # Racanicchi 1982.

[554] # Chiaramonte, Crippa, Loffi Randolin 1983.

[555] Cavanna, Paoli 2016.

[556] V.P. 1980.

[557]Federico Barocci 1975. La sequenza di immagini che formava l’audiovisivo, realizzato da Monti in collaborazione con Pino Barile e Antonio Guerra, non venne documentata in catalogo, il cui apparato fotografico comprendeva però una breve sequenza finale di dieci tavole – da quello ricavate – nelle quali la pura documentazione delle opere lasciava il posto ad una indagine comparativa, condotta visualmente, tra testimonianze pittoriche e immagini fotografiche di luoghi urbinati ottenute ponendo una cura particolare nel ricollocare la ripresa nel preciso punto di vista sotteso al  particolare pittorico, nella convinzione – direi – di una sostanziale comunanza di lettura prospettica delle due modalità narrative, ma anche alla ricerca di conferme testimoniali. Questa suggestione di utilizzo del  reperto figurativo quale fonte documentaria non sembrava metodologicamente lontana  dal modello proposto da Sereni 1961 (ma la stesura del saggio datava al 1955). Per una profonda discussione della problematica “rappresentatività e (…) intuizione del «tipico», che dell’opera d’arte costituisce, appunto, una nota saliente”, (ivi, p.23), si veda Romano 1978, da integrare con la sua Introduzione alla seconda edizione  dello stesso saggio (1991), in cui vennero ulteriormente ribaditi i rischi metodologici insiti nel voler “ridurre ingenuamente le immagini antiche ad istantanee dal vero”, p. xxiv. 

[558]Santa Cecilia 1983a, tavv. liv – lxxxvii. La lettura fotografica adottava la formula dell’accostamento con le riprese a colori realizzate da Antono Guerra dello Studio Villani di Bologna, rigorosamente replicate sulle inquadrature montiane.  Il confronto tra le due serie, per precisa scelta progettuale non determinava l’adozione di nuove sequenze di lettura derivate e imposte dall’uso di differenti materiali sensibili,   ma consentiva di rilevare sottili variazioni nella sottolineatura dei dettagli, dei rapporti chiaroscurali e di massa; in particolare l’immagine monocroma lasciava emergere in più casi una maggiore evidenza della materia pittorica, accentuando il contrasto generale.  Nella stessa occasione venne prodotto anche un audiovisivo, dovuto ad Arno Hammacher, realizzato a partire dalla metalettura del dipinto condotta sulle stampe a colori realizzate da Antonio Guerra, cfr. Valtorta 1983. La pluridecennale attività  dello Studio Villani è stata studiata da Quintavalle, Barbaro 1980. 

[559]Emiliani 1983, p.13.

[560]  Pellizza da Volpedo 1980.  Ringrazio Aurora Scotti per avermi a suo tempo fornito le preziose informazione relative alle modalità di committenza e di realizzazione di questo incarico. La ricognizione di Monti, condotta sotto lo sguardo attento della stessa Scotti e di Maria Mimita Lamberti, richiese una sola giornata di lavoro e si concretizzò in quattro rullini in formato 35mm. (AM-FF, serie G17933; 3211L21A-36A; 3603L02-38; 3604L02-37;  3605L01A-37A; B.123.21.14) per un totale di 126 riprese quasi equamente distribuite tra le due opere (Fiumana: 56; Il Quarto Stato: 69).

[561] Scotti 1986, sch.n.1088, p.412.

[562] Ivi, sch.949, p.363.

[563] Cfr. Del Guercio 1980 e specialmente Scotti 1981. Dopo il primo  panorama sintetico della situazione italiana tracciato da Bordini 1991, il tema è stato più puntualmente affrontato in I Macchiaioli 2008; Miraglia 2012.

[564] Cfr. Scotti 1986, sch.939, p.359 per il riferimento esplicito al David di Michelangelo nel gesto della mano che regge la giacca della figura centrale (Giovanni Zarri), dettaglio che Monti  sottolineò in una delle ultime riprese (AM-FF, 3605/17-17A).

[565] Dubois 1996, p. 149, ma si veda tutto il capitolo, Il colpo di taglio, pp.149-196, con rimandi significativi e coincidenze con le riflessioni di Krauss 1996, in particolare il capitolo, Stieglitz: equivalenti, pp.127-138.

[566] Dubois 1996, p.189. Significativo mi pare il fatto che le considerazioni sull’effetto di composizione determinato dal taglio/inquadratura si dimostrino criticamente efficaci sia in presenza di soggetti formalmente iperdeterminati quali i dipinti sia in soggetti costitutivamente privi di determinazione formale quali le nuvole.

[567] Aronberg Lavin 1984, pp.122-149.

[568] La serie archivistica comprende anche una fotografia, di autore non identificato, che ritrae Monti al lavoro sull’affresco staccato tav. 186).

[569] Longhi 1946, p. 44; un’opera che Monti ben conosceva come risulta nell’intervista rilasciata nel 1980 (V. P. 1980).  In questa seconda edizione del volume le tavole, stampate in fototipia dagli Alinari a Firenze, passarono da 184 a 207; la discordanza tra la data apposta in prefazione (Firenze, ottobre 1942) e la data di edizione segnava la drammaticità di quegli anni.  Il modello 1927-1946 risulta insuperato, per novità e fascinazione, nell’ambito della stessa produzione longhiana: si veda per confronto Longhi 1951, nel quale il formato del volume e l’accurata stampa a colori favoriscono una lettura delle condizioni materiali dell’opera, mentre l’interpretazione fotografica, spente le suggestioni delle avanguardie,  si presenta quasi come un ritorno all’ordine.

[570] La produzione ottocentesca dei grandi studi non offre di consueto esempi di lettura analitica dell’opera, semmai riprodotta limitandosi a seguire le scansioni interne a questa, ma resta ancora quasi del tutto inesplorata la coeva e meno canonica produzione degli studi fotografici minori, locali, che a volte riserva sorprese di rilevante interesse. 

[571] Portoghesi 1967.  

[572] Il corpus fotografico pubblicato in Portoghesi 1967 costituiva l’applicazione monografica di una metodologia già adottata nel 1966 nel volume dedicato a Roma, destinata a  “determinare nel lettore un rapporto critico attivo” attraverso “una sequenza di immagini che aspira anzitutto alla continuità del racconto (…), una sintesi visiva che volta per volta chiarisse un ‘pensiero architettonico’” avvalendosi anche di un’impaginazione che si proponeva di restituire “quasi una architettura in movimento, quasi fossero la sequenza di una serie di quei colpi d’occhio che tanta parte hanno nel nostro modo di vedere gli insiemi”; a ciò si accompagnava una consapevole scelta del sistema di “stampa in rotocalco quale l’unica tecnologia (…) in grado di fornire dei neri pieni capaci di restituire la ‘carnosità’ e la ‘sensualità’ delle soluzioni architettoniche.”, Portoghesi 1966, Presentazione, p.n.n.

[573] Borsi 1975, le  foto di Monti riguardavano in particolare la basilica di Sant’Andrea (tav. 187) e la chiesa di San Sebastiano (tav. 188) a Mantova. Le altre opere del catalogo albertiano vennero illustrate da Sergio Anelli dello staff Electa, con immagini di grande qualità, e per certi versi prossime a quelle di Monti, e dal fiorentino Ivo Bazzecchi.

[574] Luporini 1964, cfr. Toschi 2020.

[575] Battisti 1976, p.9. Del volume era stata realizzata una prima edizione di seicento esemplari dalle edizioni ERI – Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, nel 1975.  Bruno Zevi, rispondendo alle sollecitazioni di quest’opera, dedicò un numero di “Architettura – Cronache e Storia” (Zevi 1977) a una rilettura delle opere brunelleschiane, accompagnata da fotografie di Pino Abbrescia e  Fabio Santinelli, di Eugenio Monti e della contessa Pupa Bucci Casari.

[576] Cfr. Battisti 1976, p. 109.

[577] Si veda la puntuale messa in relazione della piazza della SS. Annunziata con il portico dell’Ospedale degli Innocenti, esito del montaggio in panoramica di due riprese successive (tav. 190), pubblicata  in Battisti 1976, pp. 56-57. A questo ciclo di lavori di Monti venne dedicata una mostra con relativo catalogo (Paolo Monti 1986), che costituì  un chiaro esempio di occasione mancata: non solo il volume non comprendeva alcun testo critico sull’operare di Monti e sulle occasioni in cui vennero realizzate quelle fotografie, ma le stesse immagini pubblicate erano prive dei dati identificativi essenziali.

[578] “Una fotografia Alinari è un mezzo ideale per comprendere l’architettura di Brunelleschi, poiché vi compare un punto di vista fisso e una proiezione sul piano della piramide ottica che corrisponde perfettamente agli intenti brunelleschiani.”, citato in Bertelli 1984, p. 7.

[579] In risposta alla domanda “Nella fotografia di architettura qualcuno sostiene che non è così grave la deformazione prospettica: lei che dice?”, in Schwarz 1978.

[580]  “seizing every opportunity afforded by scaffolding to approach it closely, and putting the camera in any position that will command the sculpture, wholly without regard to the resultant distortions of the vertical lines; such distortion can always be allowed for, if once the details are completely obtained.”, Ruskin [1855] 1903, p. 13.

[581] Olivato, Puppi 1977. Monti avrebbe dovuto essere  coinvolto anche nella realizzazione del volume successivo di Borsi, dedicato a Bernini (1980), ma il progetto non andò in porto  poiché –  come gli scrisse amichevolmente Massimo Vitta Zelman – “Purtroppo le condizioni che proponi sono esattamente il doppio di quelle che altri fotografi si offrono di praticarci, e di quanto ci permette il nostro budget per questo volume.”,  # Vitta Zelman 1979.

[582] # Monti 1977.

[583] Olivato, Puppi 1977, p. 169.

[584] Emiliani 1979, fig.198.

[585]  Paolo Monti 1979, fig. 33. A significarne la rilevanza, questa stampa venne pubblicata anche in quarta di copertina del volume.

[586] Monti 1964a, cfr. supra NOTA 192.

[587] Emiliani 1979, fig. 216.

[588]  Emiliani 1983.

[589] Diverse furono le soluzioni adottate da Monti dieci anni dopo, quando ebbe occasione di misurarsi con l’archeologia classica nel corso del viaggio in Turchia fatto con Romeo Martinez: qui le foto dei mascheroni e di certe statue acefale ricordano piuttosto i fotomontaggi romani di Florence Henri degli anni Trenta.

[590] Chiaramonte 1993, p. 15.

[591] Lamy-Lassalle 1958.

[592] Wittkower 1959, in cui Monti muoveva lungo la linea tracciata all’inizio del Novecento da certa fotografia piemontese particolarmente attenta alla storia dell’arte locale: da Pietro Masoero (Cavanna 1985) a Francesco Negri (Bergaglio, Cavanna 2006).

[593]  Felici 2011, p. 114

[594]  Emiliani 1983, p. 11.

[595] A margine di quella collaborazione nacque il volume El sciôr Brüsa: Tiritere milanesi (Massarotti 1968), pubblicato dalla casa editrice che aveva in Emiliani uno dei collaboratori più autorevoli. Oltre a Emiliani e Massarotti, la redazione editoriale della Storia era formata da Giorgio Cusatelli, direttore editoriale di Garzanti,  Gianni A. Papini, Vittorio Spinazzola e Lucio Felici, mentre l’impaginazione era di Pio Colombo. Sulla genesi e sulle vicende produttive dell’opera si  veda  Felici 2011. Monti, che aveva già avuto modo di lavorare per Garzanti collaborando a “L’Illustrazione italiana”,  fu l’autore della maggior parte delle fotografie di architettura e scultura.

[596] Emiliani 1997.

[597] Emiliani, Foschi 2017 che riprendeva in parte Emiliani 1995, p. 8.

[598] È ovvio, ad esempio, che non fu Monti a mettere a punto i primi obiettivi decentrabili per il 35mm, semmai a definirne una possibile metodologia d’uso. Per quanto riguarda i negativi poi, basti richiamare le numerose testimonianze del fotografo già citate nel testo per comprendere che l’esito finale delle sue letture era costituito dalla stampa fotografica e non dal negativo, non di rado riquadrato.

[599] Ancora nel 1969, mentre erano in corso i primi rilevamenti per il centro storico bolognese e la seconda campagna appenninica, Emiliani e Monti fecero viaggi a Roma e a Napoli con una serie di tappe intermedie, toscane e laziali (Mugello, Arezzo, Castiglione Fiorentino, Monte San Savino, Orvieto, Civita di Bagnoregio, Orte), ancora per la Storia della Letteratura Garzanti; #  Monti 1969a.

[600] Citato in Schwarz 1978.

[601] # Borsi 1979, relativa al volume dedicato a Bernini, poi non affidato a Monti cfr. supra  NOTA 581.

[602] Calò Mariani 1984.

[603] Leon Battista Alberti 1972, p. 15.

[604] Mi riferisco in particolare a TCI 1969a, che accanto alla documentazione museografica ospitava immagini di Villa Pallavicino realizzate nel 1963 e  già pubblicate in Le ville genovesi 1967.

[605] # Manzutto 1968.

[606] TCI 1969b rispettivamente alle tt. 15, 16,17 e tt.30, 31; 71,72. Una condiziona analoga si ritrova nel successivo volume dedicato alle Marche (TCI 1971),  che vedeva coinvolti come autori principali Monti e Berengo Gardin, nel quale –  forse ancor più per una certa vicinanza tra i due autori – si potevano riscontrare analoghi trattamenti dello stesso soggetto, come nelle riprese ambientate del Collegio Universitario di De Carlo (Berengo Gardin, t. 12) e della chiesa di San Bernardino (Monti, t. 13) non per caso affiancate nell’impaginato di Manzutto. Nel caso invece del successivo volume dedicato a Milano (TCI 1972a) furono Berengo Gardin e Toni Nicolini a restituire l’Immagine di Milano contemporanea, mentre Monti ne illustrava il patrimonio artistico e architettonico (Milano nel tempo).

[607] TCI 1970.

[608] Arslan 1970. Una parte di quella documentazione confluì poi in Zorzi et al. 1971.

[609] Arslan 1970, fig. 100-101.

[610] Per quel che riguarda gli antecedenti: per Ponti  cfr. https://www.alinari.it/it/dettaglio/FCC-F-010876-0000 ed anche – registrata come anonima – https://www.gettyimages.it/detail/fotografie-di-cronaca/view-of-the-ponte-dei-sospiri-from-the-ponte-fotografie-di-cronaca/74861053?adppopup=true ; per Sommer, cfr. Sommer 1992, t. 44, elencata in Sommer 1873 ai nn. 3559-5763-3665-3764; per Filippi: https://catalogo.beniculturali.it/detail/Veneto/PhotographicHeritage/CRV-F_0013950; per Pasinetti TCI 1947, t.181.

[611] Si veda Galluzzo 2015.

[612]  Chiesa Butazzi, Monti 1974. Dalla nota di chiusura si ricava che la realizzazione del volume – concepito da Peppi Battaglini,  allora manager dell’editore Görlich – era stata suggerita da Vahan Pasargiklian, potente amministratore delegato della Banca Cattolica del Veneto molto vicino a Roberto Calvi, già a capo della Banca Popolare di Milano e socio fondatore della Casa Armena di Milano a cui afferivano anche i fratelli Pambakian.  A Franco Maria Ricci si dovevano l’impaginazione e il progetto della sovraccoperta: la rielaborazione di un chimigramma su fotografia di Monti che a sua volta richiamava la silhouette della gondola ne Il Palazzo Ducale da San Giorgio, 1908, di Claude Monet.

[613]Chiesa Butazzi, Monti 1974, pp. 126-129.

[614] Tra le altre  Muro in Rio Terrà dei Pensieri, 1949,  tav. 078 (Chiesa Butazzi, Monti 1974, p.96) o L’angelo della morte, (Rio SS. Apostoli), 1951, (tav. 050).

[615] Si veda il dettaglio del reggi cordone a forma di cavalluccio marino, sullo sfondo del faro di San Giorgio Maggiore (tav. 211, Chiesa Butazzi, Monti 1974, p. 117 in cui adottò  una precedente soluzione di Bruno Stefani  (tav. 212), pubblicata in “Fotografia” 9 (1956) n. 7, p. 31 giusto accanto al ritratto che Monti fece a Milena Milani.

[616] Tav. 213, ampiamente riquadrata, che costituisce una variante di ripresa di quella pubblicata in Zanzi 2010, p. 36 come Riflessi, Venezia, 1948. Trattandosi con tutta evidenza di un controluce diurno, l’operazione di Monti richiama immediatamente – come espediente tecnico narrativo illusionistico-  la serie dedicata a Venezia al chiaro di luna da Carlo Naya intorno al 1870.

[617] Muraro 1962.

[618] In quegli anni Monti collaborò a progetti editoriali dedicati a altre città venete come Padova e Verona (Valeri 1967; Brugnoli 1972), entrambi per editori bolognesi, fornendo prestazioni non più che professionalmente corrette, dalle quali si distaccava nettamente la bella sequenza del monumento a Cangrande (Brugnoli 1972,  pp. 23-28) dove leggeva i dettagli della scultura e chiudeva con l’ambientazione a Castelvecchio; un procedere che apparteneva alle più raffinate letture della museografia di Carlo Scarpa.

[619] Arcari 1983, p. 7.

[620] Analogie si riscontrano anche  nel contenuto e nell’articolazione dei soggettari dei due autori, da cui risultano non solo i nomi di luoghi non consueti, dall’ Appennino bolognese a Procida, ma anche molte voci comuni come “alberi”, “muri”, “riflessi”.

[621]  Quintavalle 1979d. Alcune di quelle fotografie, e altre di Orta, Comacchio, Peschici e Pisticci,  vennero utilizzate  da Guidoni 1980, tavv. 51-58. Altre fotografie di Monti costituivano nello stesso volume il corredo iconografico di Soragni 1980 e vennero realizzate appositamente nell’agosto del 1979 su precise indicazioni dell’architetto, tanto che ne vennero pubblicate ben 21 delle 25 commissionate. La serie fotografica seguiva l’andamento della cinta muraria (esterno ed interno) per poi spostare la propria attenzione sulla piazza e specialmente sul Duomo (esterni e interni), quindi sulle principali architetture civili della cittadina.

[622] Monti, in Dal Bo [1981] 1997. Purtroppo neppure la  recente e meritoria pubblicazione di parte di quel lavoro (Monti 2022), certo legata alla nomina di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022, ha considerato le riprese a colori realizzate in quella occasione.

[623] Cosenza 1968, p. 14 e p. 32, con foto dell’autore.  L’ingegner Cosenza, figlio di Luigi del quale Monti aveva fotografato varie architetture, avrebbe poi pubblicato Cosenza,  Jodice 1993.

[624] Una prima mostra documentaria era stata presentata a Genova, a Palazzo Ducale,  nel maggio 1962, quindi a Milano, Villa Reale, nel maggio 1963. Il contratto con Monti, stipulato a Genova il 25 giugno 1963 (# Italia Nostra 1963), riguardava quindi la preparazione del volume che da quella prese spunto, pubblicato quattro anni  più tardi:  Le ville genovesi 1967; alcune di quelle riprese vennero poi ripubblicate in  TCI 1972b. Ricordiamo che nel 1980 Italia Nostra avrebbe assegnato a Monti il Premio Nazionale “Zanotti Bianco” per il suo “contributo decisivo ad affinare le coscienze e diffondere le responsabilità per il restauro conservativo delle nostre città storiche”.

[625] Brawne 1965; solo nel 1968 Pancaldi venne chiamato dal Museum of Modern Art di New York, assieme ad Albini, Angelini, Bassi Boschetti e Scarpa, a rappresentare l’Italia nella mostra Architecture of Museums (25 settembre-11 novembre 1968), della quale Monti possedeva il catalogo. La serie di riprese di Monti (http://fotografieincomune.comune.milano.it/FotografieInComune/ricerca?query=%22Paolo+Monti%22+PARTICOLARI+DELL%27ALLESTIMENTO+DEL+PROFESSOR+ANDREA+EMILIANI%2C+ARCHITETTO+LEONE+PANCALDI ), ha una datazione compresa tra agosto e ottobre 1965). Per l’affidamento a Mulas si  veda Emiliani 2006.

[626] Porretta Terme 1969; Agostini, Mari, Orlandi 1981. Si veda anche Orlandi 2012, a cui si rimanda per la ricostruzione puntuale delle campagne di rilevamento di Monti, pur non concordando per ragioni diverse con le valutazioni critiche lì espresse. Gian Franco Fontana (2003) ricordava con affetto quando si riunivano “la domenica mattina in via Santo Stefano presso la sede della casa editrice Alfa guidata dal compianto libraio-editore Elio Castagnetti. In quel ‘mitico’ circolo domenicale, di cui era leader Andrea Emiliani. (…)  In quegli anni si era aggiunto al gruppo un famoso fotografo di Milano, Paolo Monti, che su invito di Emiliani, aveva intrapreso una campagna fotografica sul nostro territorio. Egli vide le mie fotografie (…) e ne fu soddisfatto. Tanto che nel 1968, su incarico delle Edizioni Alfa, illustrammo assieme un grosso volume intitolato Questa Romagna due e curato da Andrea Emiliani.”

[627] Agostini, Mari, Orlandi 1981.

[628] Allievo di Monti all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

[629] Emiliani 1971, p. 68.

[630] Fanti 2015, p. 144.

[631] Emiliani 1995, p. 13.

[632] Si confronti ad esempio la ripresa di una via gradonata di Fiumalbo (tav. 224) con quella di Trevi (tav. 200).

[633] Emiliani 2001. Lo stesso Monti 1981a, p. 138, riconosceva che “Il nostro interesse deve rivolgersi anche alle cose cosiddette [architetture] ‘popolari’ (…) senza dimenticare che queste opere, come le grandi, vivono di un ambiente che io definisco la quarta dimensione dell’architettura.”

[634] Agostini, Mari, Orlandi 1981; tutte le citazioni successive, tranne ove diversamente indicato sono tratte da questo testo. In realtà  tra le migliaia di riprese ne compaiono anche alcune dedicate a luoghi “troppo modernamente compromessi” (tav. 225).

[635] Gambi 1974, ma già Jorge Luis Borges, e prima di lui Lewis Carroll, avevano avvertito dei rischi legati alla redazione di una “mappa dell’impero” in scala 1:1, ovvero non selettiva.

[636] Gli esiti dell’indagine settoriale vennero fatti propri dal Piano per la tutela del centro storico progettato da Romano Carrieri, Giancarlo Mattioli, Vieri Parenti e Roberto Scannavini, cfr. Magrin 2014.

[637]  Cervellati 1983.

[638] Monti 1970a. Se ne veda l’accurata sintesi in Frongia 2013, p. 117.

[639]  Sebbene questa indicazione sia stata sovente sottaciuta dai commentatori più critici di quel progetto, questo prevedeva anche la successiva considerazione “del traffico urbano, che a sua volta deve essere documentato in opposizione alle foto di cui al punto 1)”, come testimoniato in termini esemplificativi nella sezione La città «garage» in Bologna 1970, pp. 189-197.

[640] Monti, in Dal Bo [1981] 1997.

[641] Monti 1980a, p. 171.

[642] Quell’obiettivo era stato utilizzato anche nella coeva campagna condotta per Arslan 1970.

[643] Monti sarebbe poi stato chiamato a fotografare quella casa, “così come la morte l’aveva lasciata”, nei giorni immediatamente successivi al 19 gennaio 1981, ma quella ricognizione fatta “nella luce un poco irreale dei riflettori” non può certo essere annoverata tra i lavori migliori e più sensibili del fotografo; cfr. Berti Arnoaldi 1986.

[644] Monti 1970b, p. 53, riedito col titolo meno affascinante de Il rilevamento fotografico del centro storico di Bologna in Paolo Monti 1983, p.127, quindi ripreso ripristinando quello originale in Bertolini 2004, pp.76-77 e Valtorta, 2008, pp.114-117 ma ponendolo sotto il titolo più generale de La scoperta della città vuota che era invece quello del capitolo centrale di Bologna 1970.

Quell’auspicio era destinato a concretizzarsi almeno nelle successive campagne dedicate ad altri centri storici emiliani e romagnoli. Si veda anche Bravo 2009 per un’analisi storico urbanistica di quel progetto.

[645] #  Monti 1969c.

[646] Nel febbraio del 1970 Monti minacciava di interrompere la collaborazione se non fosse stato saldato almeno il 50% di quanto fatturato entro il 10 marzo. “Come lei sa ho incominciato a lavorare ai primi di agosto dello scorso anno [cioè 1969]. (…) “Si deve poi considerare che molto presto bisognerà provvedere alla stampa degli ingrandimenti, e saranno molti, per la Mostra, e a progettare e montare lo spettacolo audiovisivo, al quale la Società Olivetti contribuisce prestandoci le attrezzature.”, # Monti 1970b.

[647] Emiliani 1970. Per la datazione delle campagne di rilevamento relative agli altri centri storici, all’Appennino e alla pianura bolognese si veda Orlandi 2012.

[648] Bologna 1970, p. 6.

[649] Tav. 227. La mostra venne poi trasferita a Budapest in occasione del XXII Congresso internazionale C.I.H.A – Comité international d’Histoire de l’Art del settembre 1969.

[650] L’avventura di un fotografo (Calvino 1958), costituiva il rifacimento narrativo di Calvino 1955. Quel primo testo aveva sollevato notevoli  perplessità nel mondo fotoamatoriale e venne  fortemente criticato da Cocchi 1955, che definì il testo di Calvino  “una specie di ‘processo al fotografo dilettante’, insomma, ma un processo che non si risolveva in un ‘verdetto’ giusto e ed efficace.” Le fasi di rielaborazione di quel testo sono state ricostruite da Falcetto 1992. Per un approfondimento del rapporto tra Calvino e la fotografia si vedano Papa 1980; D’Orlando 2012 (26 luglio 2016). Per un inquadramento generale resta fondamentale Belpoliti 1996, in particolare il capitolo Fotografia, pp. 113-130. La citazione dell’autore argentino è tratta da Cortázar 1963.

[651] Monti 1970b, p. 53.

[652] Emiliani, Foschi 2017.

[653] Emiliani 1970, p. 56.

[654] Cervellati 1984.

[655] Benjamin [1931] 1966, p. 71.

[656] Ugo Mulas, Un archivio per Milano, in Mulas 1973, pp. 83-84.

[657] Paolo Monti 2013 (23 05 2016).

[658] Orlandi 2012, p. 74.

[659] Doti 2016.

[660] Frongia 2016, p. 540. Giova ricordare qui che anche la “materiale obliterazione del rumore visivo della città contemporanea” che sarebbe stata posta in atto dagli Alinari è poco più che una mitologia storiografica, insostenibile non appena si consideri un poco più a fondo la loro produzione complessiva.

[661] Frongia 2013, p. 111.

[662] Zannier 2007 (11 03  2016). In occasioni precedenti Zannier si era mostrato ben diversamente disposto a comprendere quelle ragioni, considerando quelle “fotografie (…) come ipotesi iconica di ‘restauro’, fissata però in un’atmosfera catartica e cimiteriale.”, Zannier 1991, p. 60.

[663] Colombo, Guerra 2014, p. 57.

[664] Frongia 2013, p. 119, che in quella occasione aveva riconosciuto come “Il merito di Monti, dunque, non fu solo quello di saper dialogare con i saperi di altre discipline – come l’urbanistica, l’architettura, la storia urbana, il restauro – ma anche di riconfigurare lo statuto artistico della fotografia (…).  Visto retrospettivamente, tuttavia, il progetto di Paolo Monti rimase un caso relativamente isolato.”

[665] “the non-appearance of author, the non-subjectivity. That is literally applicable to the way I want to use a camera and do”, citato in Katz 1971, p. 87.

[666] Ferretti 1980.

[667]  Orlandi 2012, p. 80, che pareva imputare quasi al solo  Monti la responsabilità di quel conservative turn.

[668] “huge image repertoire, showing a monochromatic city petrified in time, in an almost metaphysical expression of architectural spaces and complex urban frameworks”, Bravo 2009 (21 04 2022).

[669] “the nostalgic image of a city untouched by modernity, full of hidden secrets and architectural surprises, a city that only the glance of the flâneur could fully appreciate”, De Pieri, Scrivano 2004.

[670] Realizzate per Raspi Serra 1971; Raspi Serra 1972, entrambi con progetto grafico di Birelli, che prediligeva come di consueto una stampa contrastata che evidenziava le rugosità ma impoveriva la resa della più fine tessitura delle materie, delle superfici. Quel corpus di fotografie (negativi su lastra e su pellicola, stampe)  oggi costituisce il Fondo Paolo Monti del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. In seguito al recente riordino si è proceduto alla catalogazione e digitalizzazione delle immagini e all’inventariazione e archiviazione dei fototipi originali, cfr. https://www.museoetru.it/etru-a-casa-throwback-thursday/il-fondo-paolo-monti (13 05 2022).

[671] Viterbo, Loggia del Palazzo Papale in Raspi Serra  1972, p. 135.

[672] Matteucci 1979. La studiosa  aveva già pubblicato due volumi con fotografie di Monti: Matteucci 1968 e Matteucci,  Lenzi 1977. 

[673] Si vedano anche le magistrali riprese del Casino Nicoli Scribani a Sant’Antonio al Trebbia (PC) in Matteucci 1979, pp. 46-49, erroneamente identificato nella scheda d’archivio del Fondo Fotografico della Fondazione 1563 di Torino con la villa Scribani-Rossi di Bomporto (MO), non indicando neppure l’autore della ripresa; cfr. https://archiviostorico.fondazione1563.it/oggetti/142693-giuseppe-cozzi-scala-di-villa-scribani-modena/   (31 03 2022).

[674] Regione Piemonte 1980,  Art.1.

[675] Alberti, Rainaldi, Rizzi 1983;  Monti 1984.

[676] La stampa originale, di formato quadrato, è stata tagliata e restituita in formato rettangolare in Alberti, Rainaldi, Rizzi 1983, t. 38.

[677] Una qualche analogia progettuale si poteva intravvedere nella campagna fotografica realizzata da Gabriele Basilico nel 2001 in relazione alla Legge Regionale 19/1998 sulla riqualificazione delle aree urbane in Emilia Romagna (Basilico 2001), ma quella sistematicità di lettura adottata da Monti nel rilevamento architettonico si poteva riscontrare – pur in un contesto circoscritto e iperdeterminato – solo nell’atlante fotografico del duomo di Modena realizzato da Cesare Leonardi, cfr. Armandi 1985.

[678] Valtorta 2016 (12 04 2022).

[679] Leonardi 2017. Un’ ingenua ipotesi critica che fa sorridere se si considera l’attività di Basilico, Chiaramonte, Ghirri, Guidi o magari Vaccari, e degli altri compagni di strada; anche per Mario Cresci – per certi versi più prossimo a quel clima – la complessa produzione, di forte impronta analitica, degli anni Sessanta venne solo episodicamente (e magari discutibilmente) utilizzata in contesti di politica militante.

[680] Deceduto poco più che quarantenne nel marzo del 1960, cfr. Zannier 1960, con una buona antologia di immagini. Un importante nucleo di stampe è stato donato al CSAC nel 1981 dalla vedova Claudia Parmiani, su indicazione di Nino Migliori.

[681] Sulla sua figura si vedano ora i contributi raccolti in Cervellati 2021.

[682] Si veda ad esempio Scene e costumi 1969 [per la Turandot di Puccini]; con foto b.n. di Paolo Monti, foto a colori di Foto Gnani (i fratelli Primo e Secondo).

[683] Bertelli 2010,  p. 15 con improbabile titolazione e datazione “Informale, 1960.”

[684] # Umanitaria 1960.

[685] Da #  Monti 1970a risulta “18 dicembre (…) Accad. BB AA (…) Incontro con Ezio Raimondi per Corso Fotografia Università”, AM-FA, S.3, Agende giornaliere, 1970, b. 6, reg. 2. Tra gli allievi anche Milena Gabanelli e Olivo Barbieri, che ne conserva un ricordo certo non positivo: “All’università ero entrato in contatto con quello che si presentava come il mondo della fotografia, ma ho capito subito che si trattava della peggiore deriva del fotoamatorismo. Ho frequentato al Dams il corso di fotografia di Paolo Monti, le sue lezioni elogiavano il bianco e nero, il tecnicismo della stampa, il culto dell’aneddoto in stile «LIFE», i centri storici sterilizzati e mi è passata all’istante la voglia di fotografare.”, citato in Leonelli 2022 (21 04 2022).

[686] Milozzi 2020 (21 04 2022).

[687] Monti, in Dal Bo [1981] 1997.

[688] Oltre all’ovvia presenza di Pollack 1959, si segnalano Braive 1965 ; Gernsheim 1966; Scharf 1969; From Today 1972; Green 1973; Literature 1973; Nadar 1973; Zannier 1974; Cristofori, Roversi 1980.

[689] Pubblicato in Valtorta 2008, pp. 156-157. Quel richiamo allo “sviluppo storico” e lo stesso progetto più oltre citato confliggono con la testimonianza di Andrea Emiliani al quale Monti avrebbe confidato in quegli anni che “insegnare la storia della fotografia anziché le tecniche è un obiettivo che non mi interessa proprio in quanto insegnante”, Emiliani 2004,  p. 156, nota 32.

[690] # Monti 1980 ca.

[691] Zannier 1956c. Come ben sappiamo, le sue opinioni sarebbero profondamente mutate sia nei confronti di Vitali sia della storiografia fotografica.

[692] Un secolo di fotografia 1957. Ricordiamo che già nell’aprile del 1953, che fu l’anno della grande Mostra della fotografia a Roma dal 1840 al 1915,  si era tenuta alla XXXI Fiera Campionaria di Milano una  Prima Mostra storica della fotografia; iniziativa quasi dimenticata, promossa dal pittore Mario Ballocco nell’ambito della 2ª mostra dell’estetica industriale da lui curata (II Mostra dell’Estetica 1953), che vide la collaborazione di Pietro Donzelli e dell’Unione Fotografica, cfr. Donzelli 2006, p. 206.

[693] Racanicchi 1958. Sulla mostra della collezione Gernsheim si vedano anche la recensione critica di Giulia Veronesi, 1957, e  Red. 1957b.

[694] Paoli 2015 (22 04 2022).

[695] Monti 1955a.

[696] Monti 1964c.

[697] Monti 1963c.

[698] Per un’analisi dettagliata di quella stagione della storiografia italiana mi permetto di rimandare a Cavanna 2020. Furono più di quaranta i volumi variamente dedicati alla fotografia storica che videro la luce nel solo 1979, tra i quali la pubblicazione degli importantissimi “Annali” einaudiani.  Tra quelli connessi al progetto Electa va ricordata la  collana “Visibilia – Fotografia”, curata da Daniela Palazzoli, nella quale venne pubblicato anche Zannier 1979a, con un testo di Monti (1979a). Una prima rassegna di quella produzione venne fornita  in Fotografia e editoria 1979. Sintetici cenni ai programmi editoriali delle principali case italiane anche in Rosa 1979; Savonuzzi 1979.

[699] # Monti 1980 ca; tranne diversa indicazione, le citazioni successive sono tratte da questa fonte.

[700] Monti 1979b, p. 117. Il richiamo costituiva un’ulteriore, affettuoso riconoscimento – qui implicito – del ruolo svolto dal padre Romeo, “amatore molto esperto che passava parte della notte in queste operazioni silenziose e segrete dentro il bagno.”, Ivi, p. 112.

 

Fonti

Fonti archivistiche

Abbreviazioni:

AM-FA: Milano,  Civico Archivio Fotografico – Archivio Paolo Monti,  Fondo Archivistico

AM-FF: Milano,  Civico Archivio Fotografico – Archivio Paolo Monti,  Fondo Fotografico

ASTRN: Milano, Archivio storico della Triennale.

# Alfieri 1960 Bruno Alfieri, [Lettera a Ruth Lee], datata Milano, 17 settembre 1960, ASTRN, Ufficio stampa – richieste di fotografie,  TRN_12_DT_138_V, Unità 138

 

# Bassi Boschetti 1969 Studio Arch. Bassi Boschetti,  [Lettera a Paolo Monti], datata Milano, 4 Ottobre 1969, AM-FA, S. 2, Corrispondenza, Lavori vari, b. 2, fasc. 6

 

#  Berengo Gardin 1959 Gianni Berengo Gardin, [Lettera a Paolo Monti ], datata Venezia Lido, 22 gennaio 1959, AM-FA, S.2. Corrispondenza, Circolo La Gondola,   b.2, fasc. 11,

 

# Borsi 1979 Franco Borsi, [ Lettera a Carlo Pirovano], datata Firenze, 1 giugno 1979, AM-FA, S. 2, Corrispondenza,  Electa. Fantoni, b. 2, fasc. 5

 

# Bruno 1960 Giuseppe Bruno, [ Lettera a Paolo Monti], datata Mestre 14 gennaio 1960,  AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Carrese, Monti 1961 Vincenzo Carrese, Paolo Monti [Bozza di scrittura privata], datata  31 marzo  1961, AM-FA, S.2, Corrispondenza, [Atti sociali, contabilità, corrispondenza], b. 3. Fasc.13

 

#  CCIA Milano 1953 Camera di Commercio, Industria e  Agricoltura di Milano, Registro delle Ditte, 1953

 

# Chiaramonte, Crippa, Loffi Randolin 1983 Giovanni Chiaramonte, Maria Antonietta Crippa, Marina Loffi Randolin, [Progetto di mostra], datato Milano 31 marzo 1983, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Mostre personali, b. 2, fasc.4

 

# Chronology 1964 Chronology of The Department of Photography, May 1964, www.moma.org/ docs/press_archives/ 3415/releases/MOMA_1964_Reopening_0041_1964-05.pdf%3F2010+&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it.

 

# Coop. Il Libro Fotografico 1965-1966 Coop. Il Libro Fotografico, Bozza di statuto, s.d. [1965-1966], AM-FA, S.2, Corrispondenza, Associazioni fotografiche, busta. 3, fasc. 14, f.1

 

# Coop. Il Libro Fotografico 1966 Coop. Il Libro Fotografico, Il nostro programma, s.d. [1966],  AM-FA, S.2, Corrispondenza, Associazioni fotografiche, busta. 3, fasc. 14, f.2

 

# Coop. Il Libro Fotografico 1970 Coop. Il Libro Fotografico, [Bozza di progetto Monti],  s.d. [1970], AM-FA, Corrispondenza, Mostre Personali,  b. 2, fasc. 4

 

# Dell’Agnese 1960 Libero dell’Agnese, [Lettera a Paolo Monti], datata Venezia 7 gennaio 1960, AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Fotogramma 1961 Società Fotogramma, [Liquidazione], 1961, AM-FA, S. 2, Corrispondenza, Ufficio Distrettuale delle imposte dirette [di Milano], b. 2, fasc. 10

 

# Inquilini 1961 Inquilini (fascicoli personali), 1961, Milano, Casa di riposo per musicisti – Fondazione Giuseppe Verdi,  Archivio Storico, Attività, Stabili urbani, Via Vittoria Colonna 9, Inquilini, 7.2.2.3., – b. 12 / fasc. 22

 

# Italia Nostra 1963 Italia Nostra, sezione di Genova, [Contratto per il catalogo delle ville genovesi], 25 giugno 1963, AM-FA, Serie 2. Corrispondenza, Genova, b. 3, f. 16

 

# Jareckie 1964 Stephen B. Jareckie,  [Lettera a Paolo Monti], datata Worcester (MASS), 26 Ottobre 1964,  AM-FA, S. 2, Corrispondenza, Mostre, b. 3, fasc. 17

 

# Licenza 1961 Licenza di esercizio dell’arte fotografica rilasciata dalla Questura di Milano, 18 ottobre 1961, AM-FA, S.2 Corrispondenza, [Atti sociali, contabilità, corrispondenze], b.2, fasc. 3

 

#  Magagnato 1977 Licisco Magagnato, [Lettera a Monti], datata Verona, 28 aprile 1977, AM-FA, S.2, Corrispondenza ,  b. 2, Mostre personali,  fasc. 4

 

# Manzutto 1968 Giuliano Manzutto, [ Lettera a Monti], datata Milano 24 settembre 1968  , AM-FA, S. 2. CorrispondenzaTouring Club Italiano, b. 3, fasc. 20

 

# MoMA 1956 The Museum of Modern Art, New York, Diogenes with a Camera IV, 1956,  Press Release n. 35, online https://assets.moma.org/documents/moma_press-release_326034.pdf?_ga=2.10369078.2050784920.1613471138-15311224.1613471138 (01-12-2021)

 

#  Monti 1948 Paolo Monti, Intenzioni fotografiche, 1948, AM-FA,  S.1, Appunti di lavoro, b. 1, reg. 1

 

#  Monti 1950 ca Paolo Monti, Foto per Mostre e Pubblicazioni,  s.d. [1950 ca], AM-FA, Ss. 4.5,  Rubriche diverse,  b. 9, reg. 5

 

#  Monti 1956 Paolo Monti, [Lettera a Romeo Martinez], datata Milano, 26 luglio 1956, Parigi, Maison Européenne de la Photographie, Bibliothèque Roméo Martinez

 

#  Monti 1958 Paolo Monti, Lettera dall’Italia, s.d. [1958], AM-FA, S.7, Scritti diversi,  [Dattiloscritti diversi], b. 13, fasc. 10

 

#  Monti 1959 Paolo Monti, Diario lavoro Sandoz, 1959, AM-FA,  S.1, Appunti di lavoro,  b. 1, reg. 6

 

# Monti 1960 Paolo Monti, [Lettera a Libero dell’Agnese], datata Milano, 18 gennaio 1960,  AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b. 2, fasc. 11

 

#  Monti 1964 Paolo Monti, Note sul professionismo in Italia, s.d. [1964], AM-FA, S.7, Scritti diversi,  [Dattiloscritti diversi], b. 13, fasc. 10
#  Monti 1967 Paolo Monti, Curriculum vitae,  1967, AM-FA S. 9,  Miscellanea,  b. 16, fasc. 3

 

#  Monti 1969a Paolo Monti,  Agenda 1969, AM-FA, S.3, Agende giornaliere, Agenda 1969, b. 6, reg. 1

 

#  Monti 1969b Paolo Monti, Campagna fotografica per “Storia della Letteratura Italiana Garzanti”, 1965-1969, AM-FA, S. 4.4,Rubriche alfabetiche delle fotografie, b. 8, reg. 1

 

#  Monti 1969c Paolo Monti, [Lettera a Pier Luigi Cervellati],  datata Milano, 20 novembre 1969, AM-FA, S.6, Fatture di vendita, fasc.9

 

#  Monti 1970a Paolo Monti,  Agenda 1970, AM-FA, S.3, Agende giornaliere, Agenda 1970, b. 6, reg. 2

 

#  Monti 1970b Paolo Monti, [Lettera a Pier Luigi Cervellati],  datata Milano, 24 febbraio 1970, AM-FA, S.6, Fatture di vendita, fasc.9

 

# Monti 1975 Paolo Monti, [Lettera a Paolo Fossati], datata Milano, 13 aprile 1975, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Progetto di volume «Dall’architettura al paesaggio» Ed. Einaudi,  b. 5, fasc. 36

 

# Monti 1977 Paolo Monti, [Lettera a Paolo Fossati], datata Milano, 15 marzo 1977, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Progetto di volume «Dall’architettura al paesaggio» Ed. Einaudi,  b. 5, fasc. 36

 

# Monti 1980 ca Paolo Monti, Storia della fotografia in Italia dal 1839 al 1939, s.d., [1980 ca], AM-FA, S. 7, Scritti diversi,  [Dattiloscritti e manoscritti diversi], b. 13, fasc. 15

 

#  Piergiovanni 1959 Vittorio Piergiovanni,  [Lettera a Paolo  Monti],  datata Ancona, 23 novembre 1959,  AM-FA, S.2, Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

#  Piergiovanni 1960 Vittorio Piergiovanni,  [Lettera a Paolo  Monti],  datata Ancona, 17 gennaio 1960,  AM-FA, S.2, Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Pozzi 1958 Giancarlo Pozzi, Fotografia per pubblicità di saponeSchemi di sceneggiatura, datata Milano 2 maggio 1958, AM-FA,  S.2, Corrispondenza, Lavori per IBM, Fiat, Sandoz, Thompson, b.2, fasc.7

 

# Racanicchi 1982 Piero Racanicchi, [Lettera a Antonio Arcari], su carta intestata della Provincia di Torino – Assessorato alla Cultura, datata Torino, 13 settembre 1982, AM-FA, S.2, Corrispondenza, Mostre personali, b. 2, fasc.4

 

#  Ragghianti 1959 Carlo Ludovico Ragghianti, [Lettera a Fulvio Roiter], datata Pisa, Museo Nazionale – Istituto di Storia dell’Arte, 15 novembre 1959, AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Roiter 1959 Fulvio Roiter, [Lettera  a Paolo Monti], datata 14 dicembre [1959], AM-FA, S.2 Corrispondenza, Circolo La Gondola , b.2, fasc. 11

 

# Scarpa 1962-1964 Carlo Scarpa, Schizzo prospettico per la collocazione del Polittico della Passione di Paolo Morando nella sala 20 al primo piano della Galleria, 1962-1964, Verona, Museo di Castelvecchio, Archivio Carlo Scarpa, n. 31731r

 

# Triennale 1957 XI Triennale, Ufficio Stampa. Riprese fotografiche e cinematografiche, 1957,  Milano, Archivio storico Triennale, TRN_11_DT_099_V Unità 99.6

 

# Triennale 1960 XII Triennale, Ordini e bolle di consegna di materiale fotografico e di archivio per Triennale e Centro Studi, 1960, ASTRN, TRN_12_DT_131_4

 

# Umanitaria 1960 Società Umanitaria – Fondazione P.M. Loria, Lettere di incarico a Paolo Monti, 1960, Milano, Archivio Storico Umanitaria, Insegnanti corsi diurni tecnico-artistici,  pratica n. 317, sottofascia N. 50, anno 1960

 

#  Vigo 1955 Fiamma Vigo, [Lettera a Paolo Monti], datata Firenze, 3 settembre 1955, su carta intestata “Numero arte e letteratura”, AM-FA, Monti, S. 2, Corrispondenza, Mostre Personali, b. 2, fasc. 4

 

# Vitta Zelman 1979 Massimo Vitta Zelman, [ Lettera a Paolo Monti],  datata Firenze, 1 giugno 1979, AM-FA, S. 2, Corrispondenza,  Electa. Fantoni, b. 2, fasc. 5

 

# Willie 1958 Willie, [Lettera a Giancarlo Pozzi], s.d. [1958],   AM-FA,  S.2, Corrispondenza, Lavori per IBM, Fiat, Sandoz, Thompson, b.2,

Fonti bibliografiche

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Grazia Agostini, Cesare  Mari, Piero Orlandi,  L’esperienza sul campo: l‘Appennino bolognese nelle fotografie di Paolo Monti, in  L’esperienza sul campo: per un’analisi del paesaggio appenninico: le Campagne di rilevamento dei beni culturali della provincia di Bologna (1968-1971) e l’opera di Paolo Monti, catalogo della mostra a cura di Grazia Agostini, Cesare Mari, Piero Orlandi; introduzioni di Pier Luigi Cervellati e Andrea Emiliani. Bologna: Alfa, 1981, pp. 13-19

 

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Albe Steiner, “ Designverso”. Politecnico di Milano, Facoltà di Design della Comunicazione Laboratorio di Fondamenti del Progetto – sezione C2, a.a. 2016/2017. Online https://www.designverso.it/images/2016-17/steiner_02.pdf (14 03 2022)

 

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Francesco Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, “Paragone Arte”,  10 (1954), n. 59, novembre, pp. 29-43

 

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Arte astratta e concreta, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale,   4 gennaio-2 febbraio 1947),  a cura di Lanfranco Bombelli Tiravanti, con Franca Helg, Elena Berrone, Luciano Bonetti. Milano: Alfieri e Lacroix, 1947

 

Arte della fotografia 1927  

L’arte della fotografia alla Terza Mostra Internazionale delle arti decorative. Villa Reale di Monza. Maggio-Ottobre MCMXXVII.  Milano:  Rizzoli, 1927

 

Associazione 1950  

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Maria Luisa Astaldi,  a cura di, Cento anni di fotografia, “I problemi di Ulisse”, 20 (1967) n. 9, novembre

 

Atti 1959 1961  

Atti del I Convegno Nazionale di Fotografia (Sesto San Giovanni,  Villa Zorn – 18 ottobre 1959) a cura della  Biblioteca Civica di Sesto San Giovanni. Milano – Como: Photo Magazin, 1961

 

Baracchini Caputi 1998  

Augusto Baracchini Caputi, Cinquantenario. Memorie curiose, in Michele Ghigo, a cura di, FIAF 1948 – 1998. Cinquanta anni di fotografia amatoriale in Italia. Torino: FIAF, 1998, pp. 15-17

 

Barigelli 1956  

Piero Barigelli, Il panorama della fotografia italiana all’Associazione Fotografica Ligure, “Fotografia”, 2 (1956), n.2, febbraio, p. 30

 

Barthes 1959  

Roland Barthes, Langage et vêtement, “Critique”, 1959, n. 142, marzo, pp. 242-252, ora in Id., Scritti, a cura di Gianfranco Marrone. Torino: Einaudi , 1998, pp. 74-83

 

Basaldella 1975  

Etta Lisa Basaldella, Paolo Monti, “7 Giorni Veneto”, n. 38,  25 settembre 1975

 

Basilico 2001  

Gabriele  Basilico,  L.R. 19/98. La riqualificazione delle aree urbane in Emilia-Romagna.  Bologna: Editrice Compositori, 2001

 

Batchen 2004  

Geoffrey Batchen, Forget me not: Photography and Remembrance. New York – Amsterdam: Princeton Architectural Press – Van Gogh Museum, 2004

 

Battaglino 2018  

Giovanna Battaglino, Notula relativa al bifrontismo della fortuna ovidiana in Leopardi: tra ‘rimembranze’ ovidiane e critiche contra Ovidium, “Kepos- Semestrale di Letteratura italiana”, 1 (2018), n. 2, pp. 10 -31, online: https://www.academia.edu/38443335/G_Battaglino_Notula_relativa_al_bifrontismo_della_fortuna_ovidiana_in_Leopardi_tra_rimembranze_ovidiane_e_critiche_contra_Ovidium_in_KEPOS_semestrale_di_letteratura_italiana_2_2018_pp_10_31 (03 08 2022)

 

Battisti 1976  

Eugenio Battisti, Filippo Brunelleschi. Milano: Electa, 1976

 

Bazin [1945] 1973  

André Bazin Ontologie de l’image photographique, in Gaston Diehl, a cura di, Les problèmes de la peinture. Lyon: Confluences, pp. 405–11,  ora  in  Id., Che cos’è il cinema, a cura di Adriano Aprà. Milano: Garzanti,  1973, pp.3-10

 

La beauté 1933  

La beauté de la femme: Album du premier Salon international de nu photographique Paris 1933. Paris: Masclet, 1933

 

Bellavista 1948  

Mario Bellavista, Perché fotografo. Come fotografo. Milano: Bertieri, 1948

 

Belpoliti 1996  

Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino. Torino: Einaudi, 1996

 

Beltramini 2004  

Guido Beltramini, L’occhio di Carlo Scarpa, in Carlo Scarpa 2004, pp. 27-30

 

Benjamin [1931] 1966  

Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in  Id. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 57-78

 

Bense 1965  

Max Bense,   Konkrete Poesie, in  Texttheorie und Konkrete dichtung,  “Sprache im techinischen Zeitalter”,  5 (1965),n. 15, monografico,  p. 1240

 

 

Berengo Gardin  1965

 

Gianni Berengo Gardin,  Venise des saisons; introduzione di Giorgio Bassani, postfazione di Mario Soldati. Lausanne: La Guilde du Livre, 1965

 

Bergaglio, Cavanna 2006 Barbara Bergaglio, Pierangelo Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo 1841-1924.  Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2006

 

Berghmans 2011  

Tamara Berghmans, Images Inventées in Brussels and The Hague. The emergence of photography as an art form in Belgium, 1950-1965, “Depth of Field”,  1 (2011), n. 1, ottobre, online: https://depthoffield.universiteitleiden.nl/0101a02/ (31 3 2021)

 

Bertelli 1984  

Carlo Bertelli, La fotografia come critica visiva dell’architettura,  “Rassegna”, 6 (1984), n.20, p. 6-13

 

Bertelli 1993  

Carlo Bertelli, Gente e idee. Un rapporto simbiotico: collezionismo e storia della fotografia italiana, in Immagini italiane, catalogo della mostra (Venezia; Napoli; New York 1993-1994). New York – Milano: Aperture Foundation – Charta, 1993, pp. 74-75

 

Bertelli 2010  

Carlo Bertelli, Paolo Monti: la malinconia del fotografo, in  Zanzi 2010, pp. 280-281

 

Berti Arnoaldi 1986 Francesco Berti Arnoaldi, a cura di, La casa di Cesare Gnudi. Bologna: Nuova Alfa Editoriale, 1986

 

Bertoli 2016  

Barbara Bertoli, Paolo Monti e l’architettura contemporanea: “Scatti d’autore”,  in Delli Aspetti 2016, pp. 583-592

 

Bertolini 2004  

Francesca Bertolini, a cura di,  Paolo Monti: scritti scelti 1953-1983. Palermo: Istituto superiore per la storia della fotografia, 2004

 

Bettini 1953  

Sergio Bettini, Venezia. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1953

 

Bezzola 1957  

Guido  Bezzola, Un altro sguardo alla Biennale, “Ferrania”, 11 (1957) n.7,  luglio, pp. 17-18

 

Bezzola 1960a  

Guido Bezzola, [Recensione di] G. Turroni, Nuova fotografia italiana, “Ferrania” 14 (1960), n. 3, marzo, pp. 8-9

 

Bezzola 1960b  

Guido Bezzola, La II Biennale di Venezia, “Ferrania”, 14  (1960), n. 1, gennaio, p. 2

 

Bezzola 1962  

Guido Bezzola, Lettera agli amici fotografi, “Ferrania”, 16 (1962), n. 12, pp. 2-3

 

Bezzola 1963  

Guido Bezzola, Ancora sulla fotografia italiana, “Ferrania”, 17 (1963) n. 1, p. 2

 

Bezzola 1966  

Guido Bezzola, Sullo stesso tema,  “Ferrania”, 20 (1966) n. 3, marzo, p. 2

 

Bezzola et al. 1957 Guido Bezzola, Paolo Monti, Giuseppe Turroni, Italo Zannnier, Considerazioni sulla fotografia italiana, in 26 fotografi italiani 1957

 

Bianco su bianco 2005 Bianco su bianco: percorsi della fotografia italiana dagli anni Venti agli anni Cinquanta, catalogo della mostra (Aosta, Centro Saint-Bénin, 14 maggio – 25 settembre 2005), a cura di Pierangelo Cavanna. Firenze: Alinari, 2005

 

Bietoletti  2014  

Silvestra Bietoletti, Michelangelo: la fama dal Romanticismo all’Informale e oltre, in Ri-conoscere Michelangelo 2014, pp. 18-35

 

Bloch 1950  

Marc Bloch, Apologia della storia. Torino: Einaudi, 1950

 

Bolaffi 2016  

Aste Bolaffi, Torino, Fotografia/ Photography, 17 maggio 2016

 

Bologna 1970  

Bologna centro storico,  catalogo della mostra ( Bologna, Palazzo d’Accursio, 1970), a cura di Pier Luigi Cervellati, Andrea Emiliani, Renzo Renzi, Roberto Scannavini; fotografie di Paolo Monti. Bologna : Alfa, 1970

 

Bolzoni 1960a  

Franco Bolzoni, [Recensione diGli americani, “Ferrania” 14 (1960), n. 2, febbraio, pp. 23-25

 

Bolzoni 1960b

 

Bompiani, Zavattini 1958

Francesco Bolzoni, [Recensione di]   P. Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi,  “Ferrania” 14 (1960), n.6, giugno, p. 18

 

Valentino Bompiani, Cesare Zavattini, a cura di, Almanacco Letterario Bompiani 1959. Milano: Bompiani, 1958

 

Boni 1944  

Gianni Boni, Fotorealismo e foto surrealismo, “Anticipazioni,” (5). Roma: Bocca, 1944

 

Bordini 1991  

Silvia Bordini, Aspetti del rapporto pittura-fotografia nel secondo Ottocento, in Enrico Castelnuovo, a cura di, La pittura in Italia. L’Ottocento, II.  Milano: Electa, 1991, pp.581-601

 

Borsi 1975  

Franco Borsi, Leon Battista Alberti. Milano: Electa, 1975

 

Botar 2010  

Oliver A. I. Botar, György Kepes’ “New Landscape” and the Aestheticization of Scientific Photography, in  The Pleasure of Light: György Kepes and Frank Malina at the intersection of Science and Art, catalogo della mostra (Budapest, Ludwig Museum – Museum of Contemporary Art , 3 September – 21 November 2010), a cura di Nina Czeglédy, Róna Kopeczky. Budapest: Ludwig Museum, 2010, pp. 124-143, online https://www.academia.edu/38877400/ Gy%C3%B6rgy_Kepes_New_Landscape_and_the_Aestheticization_of_Scientific_Photography (05 12 2021)

 

Bourdieu 1965  

Pierre Bourdieu, a cura di, Un art moyen: essai sur les usages sociaux de la photographie. Paris : Les Éditions de minuit, 1965

 

Bovis 1948  

Marcel Bovis, La photographie de Paysage et d’architecture. Paris: Prisma,1948

 

BPR 1956  

Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Restauro e sistemazione del Castello Sforzesco, “Casabella Continuità”, 3 (1956), n.211, giugno, pp.50-77

 

Braive 1965  

Michel Braive, L’âge de la Photographie. De Niépce à nos jours. Bruxelles: Editions de la Connaissance, 1965

 

Brandani 2013  

 

Clara Brandani, La trasformazione dei modelli autoriali nelle riviste di fotografia negli anni Cinquanta, in Barbara Cinelli, Tiziana Serena, a cura di, Arte e fotografia nell’epoca del rotocalco. Temi e metodi di una nuova tipologia di fonti per la storia visiva della contemporaneità, “ Studi di Memofonte”, Rivista on-line semestrale, 11/2013, pp. 103-124

https://www.memofonte.it/studi-di-memofonte/numero-11-2013/#c-brandani-la-trasformazione-dei-modelli-autoriali-nelle-riviste-di-fotografia-negli-anni-50 (23 12 2021)

 

Brandt  1961  

Bill Brandt, Perspectives sur les nu. Paris: Prisma,  1961

 

Branzi 2001  

Piergiorgio Branzi, Dall’illustrazione alla comunicazione, “AFT Rivista di Storia e Fotografia”,  17 (2001) n. 33, pp. 48-56

 

Brassaï 1961  

Brassaï, Graffiti. Paris : Les Editions du temps,1961

 

Brassaï 1964  

Brassaï, a cura di, Images de Camera. Paris: Editions Deux Coqs d’Or, 1964

 

Bravo 2009  

Luisa Bravo, Area conservation as socialist standard-bearer: a plan for the historical centre of Bologna in 1969, in   Mirror of Modernity The Post-war Revolution in Urban Conservation, Joint Conference DOCOMOMO-International and The Architectural Heritage Society of Scotland (Edinburgh College of Art, Scotland, 1 – 2 May 2009), . DOCOMOMO E-proceedings 2,  December 2009, online: http://www.fredmussat.fr/e-proceedings2_dec09/mirror_of_modernity_bravo.htm

 

Brawne 1965  

Michael Brawne, Il Museo oggi: Architettura Restauro Ordinamento. Milano: Edizioni di Comunità, 1965

 

Bricarelli 1922  

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, in Francis James Mortimer, a cura di, “Photograms of the Year”. London: Iliffe & Sons Ltd.,  1922, p. 31

 

Bricarelli 1956a  

Stefano Bricarelli, Dilettantismo e professionismo fotografico in Italia, “Il Corriere fotografico”, 53 (1956), n. 39, aprile, pp. 21-23

 

Bricarelli 1956b  

Stefano Bricarelli, Il ritrattista Chargesheimer, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956) n. 40, maggio, pp. 28-32

 

Brugnoli 1972  

Pier Paolo Brugnoli, a cura di, Nella bella Verona. Bologna: Cappelli, 1972

 

Buer 1964  

Jacques Buer, Moyen âge vivant: 300 études photographiques en couleurs, catalogo della mostra itinerante. Paris: Commission française pour l’UNESCO, 1964

 

Burguet 1963  

Frantz-André Burguet, Dialogue avec les faiseurs d’images: Bill Brandt, Denis Brihat, Lucien Clergue, Pierre Cordier, Julien Coulommier, Antoine Dries, Henriette Grundat, Livinus, Paolo Monti, Jean Pierre Sudre, Photographie, “L’Arc”, 6 (1963), n. 21, pp. 6-33

 

Busoni Thompson 2007  

Cinzia Busoni Thompson, Intervista Alfredo Camisa, in Tani 2007, pp. 19-23

 

C.C. 1965  

C.C. , L’obiettivo drogato, “Popular Photography Italiana”, 9 (1965), n. 91, pp. 33-37

 

Calò Mariani 1984  

Maria Stella Calò Mariani, L’arte del Duecento in Puglia. Torino:  Istituto bancario San Paolo di Torino, 1984

 

Calvenzi 2003  

Giovanna Calvenzi, Il paesaggio come necessità, in L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, Galleria Civica, 23 novembre 2003 – 25 gennaio 2004) a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2003, pp. 118-209

 

Calvenzi, Siebenhaar-Zeller 2006 Giovanna Calvenzi, Renate Siebenhaar-Zeller, a cura di, Pietro Donzelli. Milano: Contrasto, 2006

 

Calvino 1955  

Italo Calvino, La follia nel mirino, “Il Contemporaneo”, 2 (1955) n.18, 30 aprile, p. 12

 

Calvino 1958  

Italo Calvino, L’avventura di un fotografo, in Id., I raccontiGli amori difficili. Torino: Einaudi, 1958, pp. 34-35

 

Camera Work 1913  

“Camera Work”, 10 (1913) , n.42-43, aprile-luglio

 

Camisa 1956  

Alfredo Camisa, Una critica alla critica, “Fotografia”, 9 (1956) n. 8, agosto, p.20.

 

Camisa 1958  

Alfredo Camisa, Su alcune tendenze della fotografia italiana d’oggi, in  Croci 1958, pp. 21-24, ora in Morello 2003a, pp. 244-247

 

Campany 2014  

David Campany, Walker Evans & the Written Word, “Aperture”, 63 (2014), n. 217, Winter, online: http://aperture.org/blog/walker-evans-written-word/ (21 05 2016)

 

Camuffo 2021  

Giorgio Camuffo, a cura di,  Imago  1960-1971: una rivista tra sperimentazione, arte e industria. Mantova: Corraini, 2021

 

Capobussi 1975  

Maurizio Capobussi, Fotoalchimia. Parliamo di tecnica con Paolo Monti, “Progresso fotografico”, 82 (1975) n. 5, maggio, pp. 41, 73

 

Carlo Scarpa 2004  

Carlo Scarpa nella fotografia – racconti di architetture (1950-2004), catalogo della mostra (Vicenza, Palazzo Barbarano, 24 settembre 2004 – 9 gennaio 2005), a cura di Guido Beltramini, Italo Zannier. Venezia: Regione Veneto – Marsilio,  2004

 

Carluccio 1981  

Luigi Carluccio, Paolo Monti. Antologia, Ikona Photo Gallery,[31 marzo – 9 maggio 1981] Venezia, San Marco 2084, al ponte San Moisé, “Panorama”, 20 (1981), 4 maggio, p. 18

 

Caruso 2016  

Martina Caruso, Italian Humanist Photography from Fascism to the Cold War. London: Bloomsbury, 2016

 

Casiraghi 1956  

Tranquillo Casiraghi, Un esame delle opere esposte, “Fotografia”, 9 (1956) n. 8, agosto, p.19

 

Castiglione 2017  

Florian  Castiglione,  Il linguaggio fotografico di Roberto Pane nel panorama culturale tra gli anni Trenta e il secondo dopoguerra, “Eikonocity”, 2 (2017), n. 2, pp. 23-40, DOI: 10.6092/2499-1422/5177

 

Cavalli 1947  

Giuseppe Cavalli, Ottimista a Venezia, “Ferrania”, 1 (1947) n. 9, settembre, pp. 2-4

 

Cavalli 1953  

Giuseppe Cavalli, Mostra della fotografia italiana, in Mostra della fotografia italiana (Firenze,  Galleria Vigna Nuova, 2-12 maggio 1953). Milano: Edizioni Il Progresso Fotografico, 1953

 

Cavalli 1957  

Giuseppe Cavalli, La prima mostra internazionale ad invito di Pescara, “Ferrania”,  11 (1957), n.1, pp. 12-13

 

Cavalli 1961  

Giuseppe  Cavalli, Dove ci si prova a fissare, ragionando con pazienza, certi confini,  “Ferrania”, 15 (1961), n. 3, marzo, pp. 15- 17

 

Cavalli et al. 1947  

Giuseppe Cavalli, Mario Finazzi, Ferruccio Leiss, Federico Vender, Luigi Veronesi,  Il Gruppo fotografico “La Bussola”, “Ferrania” 1 (1947) n. 5, maggio, p.5

 

Cavanna 1985  

Pierangelo Cavanna, Pietro Masoero: la documentazione della scuola pittorica vercellese, in Bernardino Lanino, catalogo della mostra (Vercelli, Museo Borgogna, 20 aprile – 7 luglio 1985), a cura di Paola Astrua, Giovanni Romano. Milano: Electa, 1985, pp. 150-154

 

Cavanna 2012  

Pierangelo Cavanna, Mostrare i documenti: una questione diplomatica, in Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, “ L’uomo nero”, N.S., 9 (2012),  n.9, dicembre, pp. 174-193

 

Cavanna 2016  

Pierangelo Cavanna, 1967, in Paolo Monti 2016, pp. 42-67

 

Cavanna 2019  

Pierangelo Cavanna, Universi, in Fotografia a Torino: dal dopoguerra al boom economico, catalogo della mostra (Torino, Villa Amoretti, 28 maggio – 29 giugno 2019), a cura di Laura Danna. Torino: Associazione per la Fotografia Storica, 2019, pp. 7-18

 

Cavanna 2020  

Pierangelo Cavanna, Il miele e l’argento: storie di storia della fotografia in Italia. Melfi: Libria, 2020

 

Ceccarelli 1993  

Francesco Ceccarelli, A mano libera e passi andanti, in: Emiliani, Zannier 1993,  pp. 277-296

 

Ceccato 1967  

Silvio Ceccato, Il trabocchetto filosofico della pelle,  “Roto C”, 1 (1967), n.3, giugno, pp. 3-4

 

Cecchi 1940  

Emilio Cecchi, La “Pietà”, di Palestrina, fotografie di Giuseppe Pagano, “Civiltà – Rivista bimestrale della Esposizione Universale di Roma”, 1 (1940), n. 1, pp. 67-73

 

Cecchi, Sapegno 1965 Emilio Cecchi, Natalino Sapegno,  Storia della letteratura italiana. Milano: Garzanti, 1965

 

Cervellati 1983  

Pierluigi Cervellati, Il censimento fotografico dei centri storici dell’Emilia e della Romagna, in Paolo Monti 1983, pp. 15-19

 

Cervellati 1984  

Pierluigi Cervellati, Paolo Monti e i centri storici dell’Emilia Romagna, “Rassegna”, 6 (1984), n.20, dicembre, pp. 32-37

 

Cervellati 1993  

Pier Luigi Cervellati, La fotografia come progetto, in: Emiliani, Zannier 1993, pp. 271-276

 

Cervellati 2021  

Pier Luigi Cervellati, a cura di, Andrea Emiliani. Presente e futuro. Faenza: Carta Bianca Editore, 2021

 

CFM  1963  

CFM – Circolo Fotografico Milanese, a cura di, Foto Annuario Italiano. Milano: Gorlich, 1963

 

Chargesheimer 1950 Karl-Heinz Hargesheimer [Chargesheimer], [Conferenza tenuta al Circolo Fotografico Milanese], “Fotografia”, 3 (1950), n.5, pp. 15-17

 

Chiaramonte 1993  

Giovanni Chiaramonte, a cura di, Paolo Monti. Fotografie 1950-1980. Milano: Federico Motta, 1992

 

Chiesa Butazzi, Monti 1974  

Grazietta Chiesa Butazzi, Paolo Monti, Venezia e la sua gondola. Milano: Görlich, 1974

 

Chiti 2001  

Giovanna Chiti, “Se non fosse per la lontananza…” Considerazioni e spunti da alcune lettere di Mario Giacomelli all’amico Alfredo Camisa, “AFT Rivista di Storia e Fotografia”, 17 (2001), n. 33, pp. 14-30

 

Cinelli et al. 2013  

Barbara Cinelli, Flavio Fergonzi, Maria Grazia Messina, Antonello Negri, a cura di, Arte moltiplicata: l’immagine del ‘900 italiano nello specchio dei rotocalchi. Milano: Bruno Mondadori, 2013

 

Cinelli, Serena 2013  

Barbara Cinelli, Tiziana Serena, a cura di, Arte e fotografia nell’epoca del rotocalco. Temi e metodi di una nuova tipologia di fonti per la storia visiva della contemporaneità, “Studi di Memofonte”, 6 (2013) n. 11, online:  https://www.memofonte.it/studi-di-memofonte/numero-11-2013/

 

Claudel 1933  

Paul Claudel, La légende de Prâkriti , “La Nouvelle Revue Française”, 22 (1933), n. 243, dicembre, pp. 801-832, ora in Id., Figures et paraboles. Paris : Gallimard, 1936, pp. 103-159

 

Claudel 1947  

Paul Claudel, Frammento sulla fotografia, “Ferrania”, 1 (1947) n.2, pp. 14-15

 

Clera 2011  

Giulia Clera, Circolo fotografico La Gondola: l’archivio storico: attività e collezioni, 1948-2010. Venezia: Studio LT2, 2011

 

Cocchi 1955  

Franco Cocchi, Incontri fra fotografia e vita: il fotografo dilettante a caccia delle immagini senza presunzione, “Ferrania”, 9 (1955), n. 12, dicembre, p. 11

 

Colombo A. 1975  

Attilio Colombo, La fotografia astratta di Paolo Monti, “Progresso Fotografico”, maggio 1975, estratto

 

Colombo C. 1958

 

Colombo C. 1959a

 

Cesare Colombo, Gli eroi complicati, “Popular Photography”, 3 (1958), n. 5, novembre, pp. 34-50

 

Cesare Colombo, La fotografia pubblicitaria in Atti 1959 1961, pp. 51-60

 

Colombo C. 1959b  

Cesare Colombo, I poeti con  lo stipendio?, in Atti 1959 1961, pp. 110-113

 

Colombo C. 1963a  

Cesare Colombo, La «jeune» photographie italienne, “Camera”, 42 (1963), n.1, pp. 3-4

 

Colombo C. 1963b  

Cesare Colombo, Paolo Monti “le immagini”, “Dibattito” n.8, “Foto Magazin”, 8 (1963), n. 5, estratto

 

Colombo C. 2003  

Cesare  Colombo, a cura di, Lo sguardo critico: cultura e fotografia in Italia 1943-1968. Torino : Agorà, 2003

 

Colombo C. 2007  

Cesare Colombo, Quei primi premi, in Tani 2007, pp. 24-27

 

Colombo L. 1969  

L.C. [Lanfranco Colombo], Un Calendimaggio della fotografia, “Popular Photography Italiana”, 13 (1969), n. 140, maggio, p. 20

 

Colombo L. 1979  

Lanfranco Colombo, [Recensione di] P. Pollack, The picture history of photography [1977],  “Il Diaframma Fotografia Italiana”, (1979), n. 247, marzo, p. 17

 

Colombo L. 2010  

Lanfranco Colombo, Fotogrammi di una vita. Torino: Allemandi & C., 2010

 

Colombo, Guerra 2014 Cesare Colombo, Simona Guerra, Lezioni di fotografia: la camera del tempo. Roma: Contrasto, 2014

 

Coray, Scheiwiller 1979 Pieter Coray, Vanni Scheiwiller, Mario Negri: sculture; grafica di Max Huber, fotografie di Paolo Monti . Milano: All’insegna del pesce d’oro, 1979

 

 Corinaldi 1956  

Giulio Corinaldi, Dove va la nostra  fotografia artistica?, “Il Corriere fotografico”, 53 (1956), n. 46, dicembre, pp.31-33

 

Cortázar 1963  

Julio Cortázar, Le armi segrete. Milano: Rizzoli, 1963

 

Cosenza 1968  

Giancarlo Cosenza,  Gli spazi nell’architettura di Procida. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 1968

 

Cosenza,  Jodice 1993 Giancarlo Cosenza,  Mimmo Jodice, Procida: un’architettura del Mediterraneo; introduzione di Toti Scialoja. Napoli: Clean, 1993
Crippa 2017  

Maria Antonietta Crippa, Messa in opera, o dell’architettura come costruzione. I cantieri del grattacielo Pirelli, in M. A. Crippa, Ferdinando Zanzottera, a cura di, Fotografia per l’architettura del XX secolo in Italia: Costruzione della storia, progetto, cantiere. Milano – Cinisello Balsamo: Politecnico Milano 1863 – Silvana Editoriale, 2017, pp. 238-255

 

Crispolti 1986  

Enrico Crispolti,  a cura di,  Fontana: catalogo generale.  Milano: Electa, 1986

 

Cristofori, Roversi 1980  

Franco Cristofori, Giancarlo Roversi, a cura di, Pietro Poppi e la fotografia dell’Emilia,“Le fotografie” 1. Bologna: Cassa di Risparmio in Bologna, 1980

 

Cristofori 1978  

Franco Cristofori, Bologna: immagini e vita tra ottocento e novecento; realizzazione grafica di Pier Achille Cuniberti. Bologna : Alfa, 1978

 

Croci 1955  

Ezio Croci, a cura di, Foto Annuario Italiano 1956. Milano: Görlich, 1955

 

Croci 1958  

Ezio Croci, a cura di, Foto Annuario Italiano 1958. Milano: Görlich, 1958

 

Cuisinier 1949 A. H. Cuisinier, La pratique du Développemnet et l’amélioration des négatifs. Paris: Paul Montel, 1949
 

D’Autilia 2012

 

Gabriele d’Autilia, Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi. Torino: Einaudi, 2012
D’Orlando 2012  

Vincent d’Orlando, La tentation du refus. Italo Calvino et la photographie,  “Italies, Revue d’études italiennes”, Aix Marseille Université,  (2012) n. 16,  La plume et le crayon. Calvino, l’écriture, le dessin, l’image, online http://italies.revues.org/4562

 

Dal Bo [1981] 1997 Giorgio Dal Bo,  Intervista a Paolo Monti [1981], “Fotologia”, 14 (1997), n.18-19 autunno, pp. 40-43.

 

Damez 2003  

Jacques Damez, Hans Hartung photographe: la légende d’une œuvre. Bruxelles: La Lettre volée, 2003

 

Davanzo Poli 2016  

Doretta Davanzo Poli, Grazietta Butazzi e Venezia, in Moda Arte Storia Società: Omaggio a Grazietta Butazzi, atti del convegno (Como, Fondazione Antonio Ratti

20 giugno 2014),  a cura di Enrica Morini, Marialuisa Rizzini, Margherita Rosina. Como: NodoLibri, 2016, pp. 51-54

 

De Meo 2006  

Vincenzo de Meo,  a cura di, Inventario dell’archivio Bruno Zevi; coordinamento scientifico Elisabetta Reale. Roma: Fondazione Bruno Zevi, 2006

 

De Pieri, Scrivano 2004 Filippo de Pieri, Paolo Scrivano, Representing the “Historical Centre” of Bologna: Preservation Policies and Reinvention of an Urban Identity, “ Urban History Review / Revue d’histoire urbaine”, 33 (2004), n. 1, autumn,  pp.  34–45

 

De Seta 1979

 

Cesare de Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo. Milano: Electa, 1979

 

De Zitter  

A. de Zitter, Porquoi…comment agrandir. Paris :Paul Montel, 1949

 

Delacroix 1893-1895 Eugène Delacroix, Journal, II. Paris : Plon-Nourrit, 1893-1895

 

Del Guercio 1980  

Antonio del Guercio, Pellizza: analisi, allegoria reale, sintesi, in Pellizza da Volpedo 1980, pp.19-27

 

Delli Aspetti 2016  

Delli Aspetti de Paesi: vecchi e nuovi media per l’immagine del paesaggio, VII convegno internazionale di studi (Napoli, 27-29 ottobre 2016), I, Costruzione, descrizione, identità storica, a cura di Annunziata Berrino, Alfredo Buccaro. Napoli:  CIRICE – Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Iconografia della Città Europea, Università di Napoli Federico II, 2016, online https://www.google.it/books/edition/Delli_Aspetti_de_Paesi_Vecchi_e_nuovi_Me/ii97DwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&printsec=frontcover (23 12 2021)

 

 

 

Dezzi Bardeschi, Gioffré 2015

 

Chiara Dezzi Bardeschi, Alessandra Gioffré, Franco Albini e il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova, “Quaderni di Ananke”, 2015, n.5, marzo, monografico
Dolzani 2008  

 

Francesca Dolzani, Camera, Revue mensuelle internationale de la photographie et du film 1953-1975: gli anni di Romeo E. Martinez,[ tesi di dottorato di ricerca].  Venezia, Università Ca’ Foscari , 2008

 

 

Dolzani 2019  

Francesca Dolzani, Il gioco di nessuno: la forma biennale  tra Venezia e Parigi nella fotografia del dopoguerra fino agli anni Ottanta,  in Stefania Portinari, Nico Stringa, a cura di, Storie della Biennale di Venezia,  “Storie dell’arte contemporanea 4 – Atlante delle Biennali 1”. Venezia: Edizioni Ca’ Foscari,  2019,  pp. 201- 211

 

Donzelli 1950a  

Pietro Donzelli, Mostra personale di Chargesheimer, “Ferrania”, 4 (1950) n. 9, settembre, p. 32

 

Donzelli 1950b  

Pietro Donzelli, Mostre del circolo fotografico milanese,  “Ferrania”, 4 (1950), n. 5, maggio, p. 32

 

Donzelli 1951  

Pietro Donzelli, Considerazioni sulla mostra della fotografia europea 1951, “Ferrania”, 5 (1951), n. 6, giugno, pp. 7-10

 

Donzelli 1953  

Pietro Donzelli, Mostra della fotografia europea al Museum of Modern Art di New York,  “Ferrania”, 7 (1953), n.9, settembre, p. 34

 

Donzelli 1954  

Pietro Donzelli, La mostra internazionale dell’Unione fotografica, “Ferrania”, 8 (1954), n.8, agosto, pp. 5-7

 

Donzelli 1955-1956 Pietro Donzelli, Mostre – giurie – critici, “Ferrania”, 9 (1955), n. 12, dicembre, pp. 16-17; (segue ivi) 10 (1956) n. 1, gennaio, pp. 8-12

 

Donzelli 1956  

Pietro Donzelli,  Dieci anni di Fotografia Italiana: premesse alla mostra Sestese, “Fotografia”, 9 (1956), n. 8, agosto, p.15

 

Donzelli 1959  

Pietro Donzelli, L’VIII Biennale internazionale di Fotografia artistica di Torino, “Ferrania”,  4 (1959), n. 8, agosto, pp. 10-11.

 

Donzelli 1960  

Pietro Donzelli, Nuovi libri [P. Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi],  “Popular Photography Italiana”, 4 (1960), n.4, aprile, pp. 60-61

 

Donzelli 2006  

Pietro Donzelli, L’homme, toujours l’homme, diario a cura di Piero Racanicchi, in Calvenzi, Siebenhaar-Zeller 2006, pp. 193-209

 

Dorfles 1958  

Gillo Dorfles,  Esperimenti di fotografia astratta, “Popular Photography Italiana” , 2 (1958), n. 3, settembre, pp. 46-51, 121

 

Dorfles 1967  

Gillo Dorfles, Appunti per un’estetica della fotografia, in Astaldi 1967, pp. 57-62

 

Doti 2016  

Gerardo Doti, La conquista della realtà: fotografia e urbanistica in Italia tra ricostruzione e crisi energetiche (1945-1979), in Delli Aspetti 2016, pp. 523-532

 

Dubois 1996  

Philippe Dubois, L’atto fotografico. Urbino: Quattro Venti, 1996

 

 

Duranti 2010

 

Giovanni Duranti, Panneggi e scogliere: L’ombra del Barocco, in Luigi Moretti 2010, pp. 253-259
Eco 1961  

Umberto Eco, Di foto fatte sui muri, “Il Verri”, 6 (1961), n. 4, pp. 89-94

 

Eisinger 1994  

Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son: Oedypal Syrup, “History of Photography”,  18 (1994), n. 1, pp. 78-86

 

Emiliani 1968  

Andrea Emiliani, a cura di,  Questa Romagna: storia, costumi e tradizioni. Bologna: Alfa, 1968

 

Emiliani 1970  

Andrea Emiliani, Una lettura critica e storica, in Bologna 1970 pp. 55-56

 

Emiliani 1971  

Andrea Emiliani, a cura di,  La conservazione come pubblico servizio: ipotesi per un piano di tutela, intervento e riqualificazione dei beni artistici e culturali mobili delle provincie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna 1971-1975. Bologna: Soprintendenza alle Gallerie di Bologna – Alfa, 1971

 

Emiliani 1974  

Andrea Emiliani, Dal museo al territorio. 1967-1974; fotografie di Paolo Monti. Bologna:  Alfa, 1974

 

Emiliani 1979  

Andrea Emiliani, I materiali e le istituzioni, “Storia dell’arte italiana”, I, Questioni e metodi. Torino: Einaudi 1979,  pp.99-162

 

Emiliani 1983  

Andrea Emiliani, Un maestro della cultura moderna, in Paolo Monti 1983, pp.11-19

 

Emiliani 1993  

Andrea Emiliani, Ugo Mulas e l’età progressista del Museo, in Emiliani, Zannier 1993, pp. 295-303

 

Emiliani 1995  

Andrea Emiliani,  a cura di, Pieve di Cento nelle foto di Paolo Monti. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 1995

 

Emiliani 1997  

Andrea Emiliani, Un ricordo di Paolo Monti, “Ferrara – Voci di una città”, 4 (1997), n. 6-7, online https://rivista.fondazioneestense.it/it/1997/6/item/367-un-ricordo-di-paolo-monti

 

Emiliani 2001

 

Andrea Emiliani, La condizione delle raccolte fotografiche storiche, in Strategie per la fotografia: Incontro degli archivi fotografici. Atti del convegno (Prato, Biblioteca Comunale Lazzerini, 30 novembre 2000) a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini. Prato: Regione Toscana – Comune di Prato, Archivio Fotografico Toscano, 2001, pp. 12-13

 

Emiliani 2004

 

Andrea Emiliani, Il museo nella città: vicende storiche e problemi attuali. Un progetto per Terni. Terni – Milano: Comune di Terni – Federico Motta Editore, 2004

 

Emiliani 2006

 

Andrea Emiliani, La Pinacoteca nazionale di Bologna. Restauri architettonici e allestimento 1954-1998; fotografie di Paolo Monti e di Ugo Mulas. Bologna: Bononia University Press, 2006

 

Emiliani, Foschi 2017  

Andrea Emiliani, Marina Foschi, Il volto della città nelle foto di Paolo Monti, in Palazzo del Merenda: un patrimonio forlivese. Atti del convegno (Forlì, Sala del Refettorio dei Musei San Domenico, 1-2 dicembre 2017), a cura di Marino Mengozzi,  Gabriella Poma. Cesena: Società di Studi Romagnoli, 2020, pp. 167-177

 

Emiliani, Zannier 1993  

Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di,  Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880-1980.  Torino, SEAT, 1993

 

 

Ennio Puntin Gognan 2016

Ennio Puntin Gognan 1926-2014. Architetto e fotografo, catalogo della mostra (Cervignano del Friuli, Centro Civico, 5-13 settembre 2015), a cura di Antonio Rossetti. Cervignano del Friuli: Associazione Cervignano Nostra, 2016
Eskildsen, Herrmann 1999 Ute Eskildsen, Ulrike Herrmann, a cura di, Der Fotograf Otto Steinert. Gottingen – Essen: Steidl – Museum Folkwang, 1999

 

Etienne 1952  

Paul Etienne [Paul Sarisson], a cura di, Photographie, “Art d’Aujourd’hui” , 3ème série, 4 (1952), n. 7-8, ottobre, monografico

 

Europa 1968  

Mostra di fotografia Europa 1968, catalogo della mostra (Bergamo, Palazzo della Ragione, 12-27 ottobre 1968) a cura dell’Azienda Autonoma di Turismo. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1968

 

Evans 1958  

Walker Evans, Color Accidents, “Architectural Forum”, 42 (1958) n.1, gennaio, pp. 110-116

 

Fabbri 2009  

Roberto Fabbri,  Max Bill in Italia: lo spazio logico dell’architettura.  Alma Mater Studiorum – Università di Bologna –  Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica – Scuola di Dottorato in Ingegneria Civile ed Architettura, XXI Ciclo di Dottorato. Coordinatore prof. Gianni Braghieri Relatore: prof. Elena Mucelli, 2009

 

Falcetto 1992  

Bruno Falcetto, Note e notizie sui testi, in  Italo Calvino, Romanzi e racconti, II. Milano:  Mondadori, 1992, pp.1450-1451.

 

Fanti 2015  

Corrado Fanti, La fotografia come estensione della memoria. Riflessioni sul passato analogico e problemi per un futuro digitale. In: Roberto del Grande, Adriana Stroili, a cura di, Storia e archivi fotografici: la fotografia come documento; un progetto ideato e curato da Dino Zanier. Tolmezzo: Edizioni Comunità Montana della Carnia, 2015, pp. 107-144

 

Federico Barocci 1975 Federico Barocci (Urbino, 1535-1612), catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico,  14 settembre – 16 novembre 1975), a cura di Andrea Emiliani. Bologna: Edizioni Alfa, 1975

 

Felici 2011  

Lucio Felici, Il “Cecchi-Sapegno”: storia di una celebre «Storia della letteratura italiana», in Natalino Sapegno e la cultura europea, Convegno internazionale di studi (Aosta-Morgex, 14-16 ottobre 2010), a cura di Giulia Radin. Torino: Nino Aragno Editore, 2011, pp. 101-120

 

Ferrara 2020  

Marinella Ferrara, Giancarlo Pozzi, il letto d’ospedale TR15 e il sodalizio con Achille Castiglioni ed Ernesto Zerbi, “Ais/Design Journal”,  Storia e Ricerche,  7 (2020),  n. 12-13, dicembre 2019 – giugno 2020, pp.  100-134

 

Ferretti 1980  

Massimo Ferretti, Memoria dei luoghi e luoghi della memoria nella riproduzione d’arte, in L’Immagine della regione: Fotografie degli archivi Alinari in Emilia e in Romagna, catalogo della mostra (Modena, Fondazione del Collegio San Carlo, 20 novembre-20 dicembre 1980). Bologna – Firenze: Istituto per i beni artistici culturali naturali della Regione Emilia-Romagna – Alinari, 1980,  pp. 37-51

 

FIAF 1949  

FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, Elenco delle opere esposte alla Prima Mostra Nazionale di Fotografia Artistica, “Fotografia”, n.5-6, giugno-agosto, 1949, p.n.n.

 

Fiamma Vigo 2003  

Fiamma Vigo e “Numero”. Una vita per l’arte, catalogo della mostra (Firenze, Archivio di Stato, 7 ottobre – 20 dicembre 2003), a cura di Rosalia Manno Tolu e Maria Grazia Messina. Firenze: Centro Di, 2003

 

Finazzi 1942  

Mario Finazzi, a cura di, Otto Fotografi Italiani d’Oggi. Bergamo: Istituto Italiano di Arti Grafiche, 1942

 

Finazzi 1946  

Mario Finazzi, a cura di, Montagne. Bergamo: Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1946

 

Flüeler 1973  

Nikolaus Flüeler, Grosse Photographen unserer Zeit: Werner Bischof. Luzern – Frankfurt am Main: Verlag C. J. Bucher, 1973

 

 

Flusser 1987

 

Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia. Torino: Agorà, 1987
Fontana 2003  

Gian Franco Fontana, Obiettivo: castelli, IBC” 11 (2003), n. 2, online: http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-200302/xw-200302-a0011/#null

 

Forme di luce 1997  

Forme di luce. Il Gruppo “La Bussola” e aspetti della fotografia italiana del dopoguerra, catalogo della mostra (Firenze, Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, settembre-novembre 1997) a cura di Italo Zannier, Susanna Weber. Firenze: Alinari, 1997, pp. 21-26

 

Fotografia 2016  

Fotografia/Photography. Torino: Aste Bolaffi, 2016

 

Fotografia e editoria 1979  

Fotografia e editoria, “Progresso fotografico”, 86 (1979), n. 12, dicembre, monografico

 

Fotografie1957  

Fotografie als uitdrukkingsmiddel, catalogo della mostra (Eindhoven, Stedelijk Van Abbe Museum, 28 settembre – 27 ottobre 1957) a  cura di Martien Coppens. Eindhoven: Stedelijk Van Abbe Museum, 1957

 

Franchini-Stappo, Vannucci Zauli,  1943 Alex Franchini-Stappo, Giuseppe Vannucci-Zauli, Introduzione per una estetica fotografica. Firenze: L. Cionini, 1943

 

Frank 1959  

Robert Frank,  Gli americani; testi raccolti e presentati da Alain Bosquet e Raffaele Crovi. Milano: Il Saggiatore, 1959

 

Freund 1936  

Gisèle Freund, La photographie en France au dix-neuvième siècle: essai de sociologie et d’esthétique. Paris:  La Maison des amis des livre, Adrienne Monnier, 1936 (Ed. italiana, Fotografia e società. Torino : Einaudi, 1976)

 

Friedman 1999  

Mildred Friedman, a cura di ,Carlo Scarpa Architect. Intervening with History. Montreal – New York: CCA – The Monacelli Press,1999

 

Frisia 1967  

Emilio Frisia, Monti fra acqua e pietra, in “Foto film”, 12(1967), n. 7,  pp. 48 – 57

 

From Today 1972  

From Today paintings is dead. The Beginnings of Photography, catalogo della mostra (Londra, Victoria and Albert Museum, 16 marzo-14 maggio 1972). London: The Arts Council of Great Britain, 1972

 

Frongia 2013  

Antonello Frongia, Il luogo e la scena: la città come testo fotografico, in Valtorta 2013, pp. 109-192

 

Frongia 2016  

Antonello Frongia, Fotografia, urbanistica e (re-)invenzione del paesaggio “ordinario” nell’Italia del secondo dopoguerra, in Delli Aspetti 2016, pp. 533-543

 

Frongia 2018  

Antonello Frongia, Occhio quadrato di Alberto Lattuada (1941): un libro fotografico alla verifica delle fonti d’archivio, “rsf rivista di studi di fotografia” , 4 (2018) n. 8, pp. 94-107

 

Fumo 1956  

Guido Fumo, La critica della Mostra [di Pescara], “Fotografia”, 9 (1956), n.10, ottobre, pp. 14-19

 

G. P. 1949  

G. P., Erberto Ruedi non è più, “Fotografia. Rivista bimestrale del Circolo Fotografico Milanese”,  2 (1949), n. 5-6, giugno-agosto, p.n.n

 

Galluzzo 2015  

Michele Galluzzo, a cura di, Diego Birelli graphic designer. Venezia: IUAV Archivio Progetti, 2015

 

Gambi 1974  

Lucio Gambi, Per una cartografia dei patrimoni culturali, in Andrea Emiliani, a cura di, Una politica per i beni culturali. Torino: Einaudi, 1974, pp. 271-273

 

Gentili 1963  

Gherardo  Gentili,  Fotografia sperimentale,  in CFM  1963, pp. 224-226

 

Gerbi, Polastri 1960 Ernesto Gerbi, Luigi Polastri, a cura di, Lo stivale ha cento anni: l’italiano che vive. Milano: E.I.O.T., 1960

 

Gernsheim 1966  

Helmut e Alison Gernsheim, Storia della fotografia. Milano: Frassinelli, 1966

 

Gewehr 1951  

Arthur Gewehr, Vivere e riordinare polarmente/ Erlebe polar und Ordne Harmonish, “Fotografia”, 4 (1951) n. 4, pp. 12-15

 

Ghirri 1988  

Luigi Ghirri, Per Aldo Rossi,  “Fotologia”, 7  (1988), n.10. febbraio, pp.54-55, ora in Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte, a cura di, Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per una autobiografia, Torino, SEI, 1997, pp.127-129.

 

Gilardi 1961  

Ando Gilardi, Superfluo e non superfluo nella fotografia d’amatore, in  Atti 1959 1961, pp. 15-31

 

Gilardi 1976  

Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia. Milano : Feltrinelli, 1976

 

Girieud 2011  

Corine Girieud, La Revue Art d’aujourd’hui (1949-1954): Une vision sociale de l’art, [Tesi di dottorato]. Paris:  Université Paris-Sorbonne, 2011

 

Gnudi 1962  

Cesare Gnudi, Mario Negri sculture dal 1955 al 1960, “I Quaderni del Milione” n. 1 . Milano: Edizioni del Milione, 1962

 

Gombrich [1965] 1982 Ernst H. Gombrich, Visual Discovery through Art, “Arts Magazine” , 40 (1965), novembre pp.  17-28, ora in Id.,  The Image and the Eye. Further Studies in the Psychology of Pictorial Representation. Oxford: Phaidon Press, 1982,  11-39
Green 1973  

Jonathan Green, a cura di, Camera Work: a critical anthology. New York: Aperture, 1973

 

Gruppo friulano 1956 Gruppo friulano per una nuova fotografia, “Ferrania” 10 (1956) n. 3, p. 29

 

Gualdoni 2013  

Flaminio Gualdoni, a cura di, Una scrittura sconcertante: Arnaldo Pomodoro, opere 1954-1960. Milano: Fondazione Arnaldo Pomodoro, 2013

 

Guerra 2008  

Simona Guerra, Mario Giacomelli: la mia vita intera. Milano: Bruno Mondadori, 2008

 

Guidoni 1980  

Enrico Guidoni,  Introduzione, “Storia dell’arte italiana”, 8, Inchieste sui centri minori. Torino: Einaudi 1980, pp. 3-35

 

György Kepes 1978 György Kepes: The MIT Years, catalogo della mostra (Cambridge, MIT – Hayden Gallery, 28 aprile-9 giugno 1978). Cambridge: The MIT Press, 1978

 

Habasque 1960  

Guy Habasque, Les constructeurs italiens et certaines de leurs réalisations, “L’œil”,  6 (1960), n. 61, pp. 68-77

 

Hamill, Luke 2017  

Sarah Hamill, Megan R. Luke, a cura di,  Photography and Sculpture: The Art Object in Reproduction. Los Angeles: The Getty Research Institute, 2017

 

Hartung 1974

 

Hartung Hans, Un monde ignoré vu par Hans Hartung; poèmes et légendes de Jean Tardieu. Geneve: Albert Skira, 1974

 

Haskins 1962  

Sam Haskins, Five Girls. London: Corgi Books, 1962

 

Haskins 1965  

Sam Haskins, Cowboy Kate & other stories. London: Corgi Books, 1965

 

Hauser 1955-56  

Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Torino: Einaudi, 1955-1956

 

Hayek-Halke 1955  

Heinz Hayek-Halke, Experimentelle Fotografie. Bonn: Athenäum Verlag,1955

 

Heering 1937  

Walther Heering, Le Rolleiflex: son principe, ses usages, ses avantages. Harzburg:  Dr. Walther Heering Verlag, 1937

 

Herbert 1996  

Loraine Herbert,  Alfred Stieglitz’s apples, “History of Photography”, 20 ( 1996), n. 4, p. 341

 

Hervé 1962 Lucien Hervé, Deux photographies en couleur, “Caractère Noël : l’annuel de l’imprimé français”,  12 (1962), dicembre, pp.nn
Hoctin 1963  

Luce Hoctin, Le Château de Villadeati, “L’œil”,  9 (1963), n.97, pp. 70-77

 

Insolera 1956  

Italo Insolera, Fotografia e architettura, “Ferrania”, 10 (1956), n. 8, pp. 8-9; n. 9, pp. 15-17

 

Insolera 1967  

Italo Insolera, Il quartiere barocco di Roma; fotografie di Italo Zannier. Roma: Ed. LEA, 1967

 

Internationale Ausstellung 1929  

Internationale Ausstellung des Deutschen Werkbundes Film und Foto, catalogo della mostra (Stoccarda, 18 maggio-7 luglio 1929), a cura di Karl Steinorth. Stuttgart: Deutscher Werkbund,  1929

 

Izis 1950  

Izis Bidermanas, Paris des Rêves. Lausanne:  La Guilde du livre, 1950

 

Izis 1951  

Izis Bidermanas,, Jacques Prevert, Grand Bal du Printemps. Lausanne:  Clairefontaine, 1951

 

Jäger 2005  

Gottfried Jäger, Concrete Photography, in Gottfried Jager, Rolf H. Krauss,  Beate Reese,  Concrete Photography / Konkrete Fotografie. Bielefeld: Kerber Verlag, 2005, pp. 15-26

 

Jay 1971  

Bill Jay, Views on Nudes. London: Focal Press, 1971

 

Johnson 2013  

Geraldine A. Johnson, (Un)richtige Aufnahme: Sculpture, Photography and the Visual Historiography of Art History,” Art History” 36 (2013), pp. 12–51

 

Katz 1971  

Leslie Katz, Interview with Walker Evans, “Art in America”,  59 (1971), n. 3-4, marzo-aprile, pp. 83- 88

 

Kepes [1944] 1959  

György Kepes, The Language of Vision. Chicago: Paul Theobald and Co., [1944] 1959

 

Kepes [1956] 1961 György Kepes,The New Landscape in Art and Science. Chicago: Paul Theobald and Co., [1956] 1961

 

Kidder Smith 1955  

George Everard Kidder Smith, L’Italia costruisce: sua architettura moderna e sua eredità indigena; introduzione di Ernesto Nathan Rogers. Milano: Edizioni di Comunità, 1955

 

Kidder Smith 1962  

George Everard Kidder Smith, La fotografia di architettura,  “Popular Photography Italiana”, 6 (1962) n.64, ottobre, pp. 34-39

 

Klaus Koenig 1968  

Giovanni Klaus Koenig, Architettura in Toscana 1931-1968. Torino: ERI, 1968

 

 

Klee 1990

 

Paul Klee, Diari 1898-1918. Milano: Il Saggiatore, 1990
Krauss 1996  

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, a cura di Elio Grazioli.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

Lamy-Lassalle 1958 Colette Lamy-Lassalle, Castelseprio, ” L’œil “,  4 (1958), n. 42, pp. 30-35

 

Lattuada 1941  

Alberto Lattuada, Occhio quadrato. Milano: Corrente, 1941

 

Leiss 1953  

Ferruccio  Leiss,  Immagini di Venezia; testi di Jean Cocteau e Filippo de Pisis. Milano: Daria Guarnati, 1953

 

Lenzi 2003  

Alessia Lenzi, 1955. Arte e fotografia alla Galleria Numero di Firenze, “AFT Rivista di Storia e Fotografia”, 19 (2003) n. 37/38, giugno- dicembre, pp. 68-74

 

Leon Battista Alberti 1972  

Celebrazioni di Leon Battista Alberti, 1404-1472, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Carpegna,  1972), a cura di Agnoldomenico Pica. Roma: Accademia Nazionale di San Luca, 1972

 

Leonardi 2017  

Nicoletta Leonardi, A partire dall’archivio del fotografo, [recensione di ] Pierangelo  Cavanna /  Silvia Paoli (a cura di), Paolo Monti. Fotografie/Photographs 1935-1982 “rsf rivista di studi di fotografia” 3 (2017), n. 6, pp. 136-139

 

Leonelli 2022  

 

Laura Leonelli, È la fotografia la più ecologica delle arti [Intervista a Olivo Barbieri], “Il Giornale dell’Arte”,  9 marzo 2022, online: https://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/-la-fotografia-la-pi-ecologica-delle-arti/138677.html

 

 

Lewis 1952  

Harold Lewis, a cura di, Photography Year Book 1952. London: The Press Centre Ltd, 1952

 

Liégard 1905  

Alfred Liégard,  La question de la photographie documentaire,  “La Fotografia Artistica”, a. II, n. 6-7, giugno-luglio 1905, pp. 6-7

 

Literature 1973  

The Literature of Photography: Words and Pictures. New York: Arno Press, 1973

 

Lo Duca 1939  

Giuseppe Maria Lo Duca, La fotografia ha 100 anni: intervista con Paul Valéry,  “Emporium”, 45 (1939), n.4, v. LXXXIX, n. 532, aprile, pp.205-16

 

Longhi 1946  

Roberto Longhi, Piero della Francesca. Milano: Hoepli, 1946

 

Longhi 1951  

Roberto Longhi, Piero della Francesca. La leggenda della Croce. Milano: Edizioni d’Arte Sidera, 1951

 

Lorelle, Langelaan 1949 Lucien Lorelle, Donald Langelaan, La photographie publicitaire. Paris: Paul Montel,1949

 

 Lotti 1970  

Giorgio Lotti, Venezia Muore. Milano: Il Diaframma, 1970

 

Luci ed ombre 1987  

Luci ed ombre: gli annuari della fotografia artistica italiana 1923-1934, catalogo della mostra (Firenze, Museo della Fotografia Fratelli Alinari, 28 novembre 1987 – 15 gennaio 1988) a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier; introduzione di Valerio Castronovo. Firenze: Alinari, 1987

 

Lugon 2001  

Olivier Lugon, Le style documentaire d’August Sander a Walker Evans, 1920-1945. Paris : Macula, 2001

 

Luigi Moretti 2010  

Luigi Moretti: Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, catalogo della  mostra (Roma, MAXXI, 30 maggio – 28 novembre 2010), a cura di Bruno Reichlin, Letizia Tedeschi. Milano: Electa 2010

 

Luporini 1964  

Eugenio Luporini, Brunelleschi: forma e ragione. Milano: Edizioni di Comunità, 1964

 

Macchiaioli (I) 2008 I Macchiaioli e la fotografia, catalogo della mostra (Firenze, MNAF, 4 dicembre 2008-15 febbraio 2009) a cura di Monica Maffioli, con Silvio Balloni e Nadia Marchioni. Firenze: Alinari, 2008

 

Madesani 2008  

Angela Madesani, a cura di, Arrigo Orsi: fotografie. Milano: Baldini Castoldi Dalai editore, 2008

 

Maffioli 2014  

Monica Maffioli, Fotografia e scultura: ri-conoscere Michelangelo, in Ri-conoscere Michelangelo 2014, pp. 36-61

 

Maggi 2010

 

Angelo Maggi, Moretti, i fotografi e la visione dell’architettura in Luigi Moretti 2010, pp. 228-237

 

Maggi 2017

 

Angelo Maggi, Re-interpreting Italy builds: l’architettura italiana secondo George Kidder Smith, in Maria Antonietta Crippa, Ferdinando Zanzottera, a cura di, Fotografia per l’architettura del XX secolo in Italia : costruzione della storia, progetto, cantiere. Milano – Cinisello Balsamo :  Politecnico Milano 1863- Silvana Editoriale, 2017, pp. 70-83

 

Magrin 2014  

Anna Magrin, “A future for our past”: la conservazione della città da Bologna all’Europa, in L’urbanistica italiana nel mondo,  Atti della XVII Conferenza Nazionale SIU- Società italiana degli urbanisti, (Milano, Politecnico di Milano, 15-16 maggio 2014). Roma – Milano: Planum Publisher, 2014, pp. 181- 186

 

Malazdrewich 2011  

 

Mandy Malazdrewich,  Photography at Mid-Century: A Description of George Eastman House’s Tenth Anniversary Exhibition. [Thesis of Master of Arts].  Toronto – Rochester,  Ryerson University and George Eastman House International Museum of Photography and Film. 2011

https://doi.org/10.32920/ryerson.14643819.v1

 

Maloney 1955  

[Tom Maloney], G. E. Kidder Smith, “U.S. Camera 1956”. New York: U.S. Camera Publishing Corp., 1955, p. 222

 

Manfroi 2004  

Manfredo Manfroi, Ritratti del cuore, ritratti della ragione, “Notiziario del Circolo Fotografico La Gondola”, 29 (2004), n. 12, dicembre, pp. 1-2

 

Manfroi 2005a  

Manfredo Manfroi, Circolo “La Gondola” una microstoria, in Fotografia a Venezia da Ferruccio Leiss al Circolo La Gondola, catalogo della mostra (Lestans, Villa Savorgnan, 16 luglio – 2 ottobre 2005), a cura di Italo Zannier. Firenze: Artificio Skira,  2005, pp. 19-24

 

Manfroi 2005b  

[Manfredo Manfroi?], Un nuovo vecchio amico: Catone Ramello, “Notiziario del Circolo  Fotografico La Gondola”,  30 (2005), n. 12, dicembre, p. 4

 

Manfroi 2016  

Manfredo Manfroi, Ennio Puntin architetto e fotografo, “Notiziario del Circolo Fotografico La Gondola”, 49 (2016),  n. 7, luglio-agosto,  pp.2-3

 

Mannheim 1967  

L-A. Mannheim, L’appareil photograpique professionel, “Camera”, 46 (1967), n. 5, maggio, pp. 16-29

 

Marcenaro 1965  

Caterina Marcenaro,  Gli affreschi del Palazzo Rosso di Genova. Genova: Cassa di Risparmio di Genova, 1965

 

Marcenaro 1969  

Caterina Marcenaro, Il museo del Tesoro della Cattedrale a Genova. Genova: Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1969

 

Marchiori 1960

 

Giuseppe Marchiori, Non confondiamo per favore la Natura con l’Arte, “Metro”, 1 (1960), n.1, pp. 12-17

 

Marchiori 1961  

Giuseppe Marchiori [Candido Volta], Conversazione con Hartung, “Metro” 2 (1961), n. 3, novembre, pp. 8-17

 

Marra 1999  

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento: Una storia senza combattimento. Milano: Bruno Mondadori, 1999

 

Martinez 1956a  

Romeo Martinez, Paolo Monti,  “Camera”, 35 (1956), n.10,  ottobre, p. 465

 

Martinez 1956b  

Romeo Martinez, Mario de Biasi – Napoli senza Vesuvio, “Camera”, 35 (1956), n. 11, novembre, pag. 558

 

Martinez 1957  

Romeo Martinez, I. Exposition Internationale Biennale de la Photographie, Venise. La Photographie Européenne, “Camera”, 36 (1957), n.5, maggio, p. 187

 

Martinez 1959  

Romeo Martinez [Presentazione], in Seconda  Mostra internazionale biennale di fotografia (Venezia, Sala napoleonica e Ca’ Giustinian, 3-31 ottobre 1959), organizzata dall’Ufficio comunale per il turismo in collaborazione con “Camera”, la rivista internazionale della fotografia, e il Circolo fotografico La Gondola. Venezia: Edizioni Biennale fotografica, 1959

 

Martinez 1983  

Romeo Martinez, Conversazione su Paolo Monti, trascritta da Ferdinando Scianna,  in Paolo Monti, brochure della mostra (Chiasso, Aula Magna delle Scuole Medie, 3-27 novembre 1983),  ora in “Fotografia oltre”, 1983, n. 4

 

Martinez, Monti 1958 Romeo Martinez, Paolo Monti [Paul Bergen], De Leiss à Fulvio Roiter, “Camera”, 37 (1958),  n.5, maggio, p. 199

 

Mascioni 1967

 

Grytzko Mascioni, La fotografia, in Franco Russoli, a cura di, L’Arte moderna. V. 41, Milano: Fratelli Fabbri Editori, 1967, pp. 121-160

 

Masclet 1947  

Daniel Masclet,  Le paysage en photographie.  Paris : Paul Montel, 1947

 

Masclet 1949  

Daniel Masclet, Il Gruppo dei XV di Parigi, “Fotografia”, 2 (1949), n. 4 aprile, p.n.n.,

 

Masoero 1898  

Pietro Masoero, Arte Fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 10 (1898), n. 6-7, pp. 161-171

 

Massarotti 1968  

Vanna Massarotti, a cura di, El sciôr Brüsa Tiritere milanesi; fotografie di Paolo Monti. Bologna: Alfa, 1968

 

Matisse 1947  

Henri Matisse, L’exactitude n’est pas la vérité, in Henri Matisse:  dessins, catalogo della mostra (Liegi, APIAW – Association pour le progrès intellectuel et artistique en Wallonie, 27 luglio – 27 agosto 1947). Paris: Editions Pierre à feu – Galerie Maeght, 1947, ora in Id., Écrits et propos sur l’art, a cura di Dominique Fourcade. Paris: Hermann, 1978, pp. 172-175

 

Matteucci 1968  

Anna Maria Matteucci,  Carlo Francesco Dotti e l’architettura bolognese del Settecento. Bologna: Alfa, 1968

 

Matteucci 1979  

Anna Maria Matteucci,  Palazzi di Piacenza dal Barocco al Neoclassico. Torino: Istituto bancario San Paolo, 1979

 

Matteucci,  Lenzi 1977  

Anna Maria Matteucci,  Deanna Lenzi, Cosimo Morelli e l’architettura delle legazioni pontificie. Imola: University Press Bologna, 1977

 

Max Huber 1991  

Max Huber pittore, catalogo della mostra ( Mendrisio, Museo d’arte Mendrisio, 12 ottobre 1991 – 6 gennaio 1992); testi di  Luciano Caramel, Max Bill, Michele Reiner. Mendrisio: Edizioni Vignalunga – Museo d’arte Mendrisio, 1991

 

Medardo Rosso 1979 Mostra di Medardo Rosso 1858-1928, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Permanente, gennaio-marzo 1979).  Milano : Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, 1979

 

Meister 1971  

Meister der erotischen Fotografie: Paare. München: Wilhelm Heyne Verlag, 1971

 

Millozzi 2017  

Federica Millozzi, Tra Gondola e Bussola: Scritti inediti di fotografia e arte di Mario Bonzuan, “Aldèbaran. Storia dell’Arte”,  IV (2017), a cura di Sergio Marinelli,  pp. 171-190

 

Milozzi 2020

 

 

Adele Milozzi,  Tracce del pensiero e dell’impegno civile di Andrea Emiliani nella cultura fotografica di paesaggio degli anni Settanta e Ottanta. Online https://patrimonioculturale.regione.emilia-romagna.it/chi-siamo/andrea-emiliani/riflessioni-su-andrea-emiliani

 

Ministero 2004  

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Decreto 26 novembre 2004,   Cancellazione dal registro delle imprese di due società cooperative, “Gazzetta Ufficiale”,  Serie Generale n.293,  15-12-2004

 

Miraglia 2012  

Marina Miraglia,  Fotografi e pittori alla prova della modernità. Milano: Bruno Mondadori, 2012

 

Moholy-Nagy 1929 László Moholy-Nagy, Von Material zu Architektur, “Bauhausbücher”, 14. München: Albert Langen Verlag, 1929

 

Moholy-Nagy 1947a László Moholy-Nagy, The New Vision and Abstract of an Artist. New York: Wittenborn, 1947

 

Moholy-Nagy 1947b László Moholy-Nagy, Vision in Motion. Chicago. Paul Theobald, 1947

 

Mollino 1949  

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949

 

Monti 1951  

Paolo Monti, [Presentazione], in  Mostra fotografica nazionale retrospettiva 1940-1950 (Venezia, Ca’ Giustinian, Sala degli Specchi, 1-15 luglio 1951). Venezia: Tip. Garzia, 1951

 

Monti 1952a  

Paolo Monti, [Presentazione], in  Mostra della fotografia italiana (Venezia, Ca’ Giustinian, maggio). Venezia: Garzia, 1952

 

Monti 1952b  

Paolo Monti [Presentazione], in Mostra personale di Paolo Monti, brochure della mostra (Roma, Associazione Fotografica Romana, 7-21 giugno 1952), s.n.t., 1952, p.n.n.

 

Monti 1952c  

Paolo Monti, Profili, “Fotografia”, 5 (1952), n. 4, luglio-agosto, pp. 13-17

 

Monti 1953a  

Paolo Monti [Presentazione], in Fotografie di Paolo Monti, Aldo Nascimben, Fulvio Roiter, brochure della mostra (Treviso, Galleria del Libraio, 11-21 aprile 1953), s.n.t., 1953

 

Monti 1953b  

Paolo Monti,  La mostra della fotografia italiana 1953 a Firenze, “Ferrania”, 7 (1953), n. 8, agosto, pp. 8-10

 

Monti 1953c  

Paolo Monti, [Presentazione], Va Mostra nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, catalogo della mostra (Venezia, Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian, 18-30 aprile 1953). Venezia: Arti Grafiche Fantoni, 1953

 

Monti 1954a  

Paolo Monti, Le groupe “La Gondola” de Venise, “Photorama. International Review of Photography”, 11 (1954) n. 16, pp. 472-477

 

Monti 1954c  

Paolo Monti, Della mostra fotografica di Castelfranco Veneto e di altre cose, “Ferrania”, 8 (1954), n. 9, settembre, pp. 2-5

 

Monti 1954d  

Paolo Monti [Presentazione], in Mostra personale di Paolo Monti, brochure della mostra (Roma, Associazione Fotografica Romana, 3-10 dicembre 1954), s.n.t., 1954

 

Monti 1955a  

Paolo Monti, Composizione e natura morta, in Croci 1955, pp. 49-50

 

Monti 1955b  

Paolo Monti, Otto anni di fotografia italiana (1947-1955), in Gino Oliva, a cura di, Fotografia italiana 1955. Venezia: Fantoni, 1955, pp.n.n.

 

Monti 1955c  

Paolo Monti [Presentazione], in 38 opere  fotografiche di Paolo Monti, brochure della mostra (Ancona, Circolo Stamura, 23-29 aprile 1955), a cura del Gruppo Fotografico Società di Educazione Fisica Stamura. s.n.t., 1955

 

Monti 1955d  

Paolo Monti [Presentazione], in 20 fotografie di Paolo Monti, brochure della mostra (Padova,  Circolo fotografico padovano, 18 febbraio – 6 marzo 1955). Padova: Circolo fotografico padovano, 1955

 

Monti 1956  

Paolo Monti, Mariel. Un visage dans le temps, “Camera”, 35 (1956) n.10, ottobre, p. 446

 

Monti 1957a  

Paolo Monti, Considerazioni sulla fotografia italiana, in 26 fotografi italiani 1957, pp.n.n.

 

Monti 1957b  

Paolo Monti, [testo] in Paolo Monti: un maestro italiano, “Popular Photography Italiana”, 1 (1957), n.1, luglio, pp. 11-13

 

Monti 1957c  

Paolo Monti [Presentazione], in  Mostra Mario de Biasi, Piero Donzelli, Paolo Monti, Giulio Parmiani, brochure della mostra (Senigallia, Rocca della Rovere, 17-31 agosto 1957), a cura della Azienda di Soggiorno – Comitato Turismo. s.n.t., 1957

 

Monti 1957d  

Paolo Monti [Presentazione], in  I Mostra Internazionale  Biennale di Fotografia, catalogo della mostra (Venezia, 20 aprile -19 maggio 1957), a cura di Giorgio Giacobbi. Venezia:  Edizioni Biennale Fotografica, 1957

 

Monti 1959a  

Paolo Monti, Appunti sulla fotografia di reportage, s.d. [1959], in Valtorta 2008, pp. 76-77

 

Monti 1959b  

Paolo Monti [Intervento sulla relazione di Colombo], in Atti 1959 1961, pp.61-69

 

Monti 1959c  

Paolo Monti [Intervento sulla relazione di Zannier], in Atti 1959 1961,  pp.42-48

 

Monti 1960  

P.M. [Paolo Monti[, Il Circolo fotografico La gondola di Venezia, catalogo della mostra (Università di Pisa, Istituto di Storia dell’Arte, 16-30 maggio 1960). Pisa: Nistri-Lischi, 1960

 

Monti 1960  

[Paolo Monti] Paul Bergen, Svante Hedin,  “Camera”, 39 (1960), n. 7, luglio, pp. 11-21

 

Monti 1960-1965  

Paolo Monti, Limiti del Reportage, s.d.,  [1960-1965], in Valtorta 2008,  pp. 188-189

 

Monti 1963a  

Paolo Monti, Il colore in fotografia, conferenza in occasione della XV Mostra fotografica nazionale FIAF (Milano, Auditorium Centro Culturale Pirelli, 7 maggio  1963), ora in Valtorta 2008, pp. 78-79.

 

Monti 1963b  

[Paolo Monti] Paul Bergen, Le portrait. Petit discours à des hommes de métier, “Camera”, 42 (1963) n.2, febbraio, pp. 8-12

 

Monti 1963c  

Paolo Monti [Presentazione], IV Mostra Biennale Internazionale della Fotografia, catalogo della mostra ( Venezia, San Marco, Sala Napoleonica, 14 settembre-20 ottobre 1963). Venezia: Edizioni Biennale Fotografica, 1963, pp.n.n.

 

Monti 1964a  

[Paolo Monti] Paul Bergen, Abstrait et abstraction en photographie, in Brassaï  1964, pp. 215-240

 

Monti 1964b  

Paolo Monti, Note sul professionismo in Italia, s.d. [1964], in Valtorta 2008, pp. 86-90

 

Monti 1964c

 

Paolo Monti, Notes sur la photographie professionelle en Italie,  “Camera”, 43 (1964),n.3, marzo, p. 10

 

Monti 1964d  

Paolo Monti, Reportage de guerre, in Brassaï 1964, pp. 79-88

 

Monti 1965  

Paolo Monti, [Nota esplicativa], Chimigrammi (Paolo Monti tra fotografia e pittura), “Imago : proposte per una nuova immagine”, 6 (1965), n. 7, p.n.n.

 

Monti 1966a

 

Paolo Monti, Breve omaggio a Mario Giacomelli, in Mostra antologica di Mario Giacomelli, (Novara, Salone del Broletto, 16-23 novembre  1966). Novara: Enal, EPT, Fotocine club Novara, 1966

 

Monti 1966b  

Paolo Monti, Giudicando con rabbia,  in Mostra nazionale di fotografia : Premio Novara 1966, catalogo della mostra (Novara, 16-23 ottobre 1966). Novara: Enal, EPT, Fotocine club Novara, 1966

 

Monti 1966c  

Paolo Monti, Le ragioni di un incontro, “Foto Magazin”, 6 (1966) n.7, luglio, p. 42

 

Monti 1967a  

Paolo Monti, Appunti e disappunti, “Popular Photography Italiana”, 11 (1967), n. 116, marzo, pp. 25-26

 

Monti 1967b  

Paolo Monti, Appunti e disappunti, “Popular Photography Italiana”, 11 (1967), n. 117, aprile, p. 20

 

Monti 1967c  

Paolo Monti,[ Presentazione], in Fotografi 1967. III Mostra. Concorso dell’artigianato fotografico.  Trento: Provincia Autonoma di Trento – Assessorato all’Artigianato, 1967

 

Monti 1967d  

Paolo Monti, [ Presentazione], in Paolo Monti, catalogo della mostra (Milano, Il Diaframma – Galleria dell’immagine di Popular Photography Italiana, 13-25 aprile 1967). “Popular Photography Italiana”,  11 (1967), n. 117, pp. 33-38

 

Monti 1967e  

Paolo Monti, Vedere la Fontana di Trevi, in  Frisia, 1967, pp. 48-49

 

Monti 1970a  

Paolo Monti, Appunti per il censimento, in Bologna 1970, pp. 53-55

 

Monti 1970b  

Paolo Monti, L’avventura del fotografo, in Bologna 1970, p. 53, riedito come Il rilevamento fotografico del centro storico di Bologna in Paolo Monti fotografo, 1983, p.127

 

Monti 1977a  

Paolo Monti, Anni Cinquanta: Domeniche a Milano, in L’occhio di Milano. 48 fotografi 1945/ 1977, catalogo della mostra (Milano, Rotonda di via Besana, 1977), a cura di Cesare Colombo. Milano: Magma, 1977

 

Monti 1977b  

Paolo Monti, La Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti. Milano: Battaglini, 1977

 

Monti 1977c  

Paolo Monti, Progetto di volume Dall’architettura al paesaggio Ed. Einaudi, s.d. [1977], in Valtorta 2008, pp. 196-207

 

Monti 1978-1979  

Paolo Monti, [Mi presento come fotografo], in Valtorta 2008,  p. 193

 

Monti 1979a  

Paolo Monti, Introduzione, in Zannier 1979a, p. 6

 

Monti 1979b  

Paolo Monti, La scrittura della luce, in Maria Raffaella Fiory Ceccopieri, Giuliano Manzutto, a cura di, Foto d’archivio, Italia tra ‘800 e ‘900: antologia d’immagini tratte dalla fototeca del Touring Club Italiano, testi di Paolo Monti, Cesare Zavattini. Milano: T.C.I., 1979,  pp. 106-120

 

Monti 1979c  

Paolo Monti, Trent’anni di fotografia 1948-78, in Paolo Monti 1979, pp. n.n.

 

Monti 1980a  

Paolo Monti, La fotografia dei centri storici, in Fotografia e immagine dell’architettura, catalogo della mostra (Bologna, Galleria d’Arte Moderna, gennaio – febbraio 1980), a cura di Gabriele Basilico, Gaddo Morpurgo, Italo Zannier.  Bologna: Grafis, 1980, pp. 171-175

 

Monti 1980b  

Paolo Monti, Presentazione, in 30 anni di fotografia a Venezia: il circolo “la gondola” 1948-1978, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Fortuny, 2 aprile – 25 maggio 1980). Venezia: Marsilio, 1980, pp. 7-8

 

Monti 1981a  

Paolo Monti, Della fotografia di architettura, in Monti 1983, pp. 137-138

 

Monti 1981b  

Paolo Monti, Due parole sulla mia fotografia, in Paolo Monti, plaquette della mostra (Sanremo, Magazzino dei Fiori, 14-30 novembre 1981), s.n.t., 1981

 

 Monti 1981c Paolo Monti, L’edilizia rurale e gli oggetti del mondo contadino: il rilevamento fotografico, in Lavoro contadino, fotografia e disegno tecnico, atti del seminario per operatori di musei rurali ( Bologna, gennaio-febbraio 1981), a cura di Massimo Tozzi Fontana. Bologna: IBC – Istituto per i beni artistici-culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 1981, pp. 19-33

 

Monti 1984  

Paolo Monti, Antiche case del lago d’Orta, a cura di Luigi Alberti, Giancesare Rainaldi, Enrico Rizzi; con un saggio di Carlo Nigra.  Anzola d’Ossola : Fondazione arch. Enrico Monti, 1984

 

Monti 2022  

Paolo Monti, Procida 1972, con testi di Silvia Paoli, Nadia Terranova. Milano: Humboldt, 2022

 

Morello 2000  

Paolo Morello, Verso una storia moderna della fotografia in Italia, in Id., Amen fotografia 1839-2000: immagini e libri dall’archivio di Italo Zannier. Palermo – Milano: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia – Skira, 2000, pp. 11-55

 

Morello 2002  

Paolo Morello,  Fotografia come rivelazione, in Rosenblum, Morello 2002, pp. 15-40

 

Morello 2003a  

Paolo Morello,  Alfredo Camisa: Carteggio 1955 – 1963. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003

 

Morello 2003b  

Paolo Morello,  Mario De Biasi. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003

 

 

Morello 2003c

 

 

Paolo Morello, Piergiorgrio Branzi fotografo, in Sandra Phillips, Paolo Morello, Piergiorgrio Branzi. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2003, pp. 11-58

 

Morello 2004  

Paolo Morello, a cura di, Ferruccio Ferroni: carteggio 1952-1959. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2004

 

Morello 2010  

Paolo Morello, La fotografia in Italia : 1945-1975. Roma: Contrasto, 2010

 

Moretti 1950  

Luigi Moretti, Forme astratte nella scultura barocca, “Spazio”, 1 (1950), n. 3, pp. 9-20 1950

 

Moretti 1951 Luigi Moretti,  Trasfigurazioni di strutture murarie, “Spazio”, 2 (1951), n. 4, gennaio-febbraio, pp. 5-16
Morucchio 1953a  

Berto Morucchio, Leiss – Del Tin – Bonzuan alla Galleria del Cavallino, “Ferrania”, 7 (1953) n. 5, maggio, p. 9

 

Morucchio 1953b  

Berto Morucchio, Paolo Monti, “Ferrania”, 7 (1953), n. 11, novembre, pp. 6-8

 

Morucchio 1953c  

Berto Morucchio, [Presentazione], in Fotografie di Paolo Monti; plaquette della mostra (Venezia, “Bottega ‘l Ponte”, 8 – 18 luglio 1953),  a cura della Sezione Fotografica del Centro Studi Arte Contemporanea in Venezia, s.n.t., 1953

 

Morucchio 1953d  

Berto Morucchio, La V Mostra Nazionale della FIAF, “Ferrania”, 7 (1953), n. 7, luglio, pp. 4-6

 

Morucchio 1955a  

Berto Morucchio, Seconda mostra nazionale di Castelfranco Veneto, “Ferrania”, 9 (1955), n. 7, luglio, pp. 7-8

 

Morucchio 1955b  

Berto Morucchio, Seconda mostra internazionale di Venezia, “Ferrania”, 9, (1955), n. 12, dicembre, p. 30

 

Morucchio 1956a  

Berto Morucchio, Un fotografo: Paolo Monti, “Diorama”, 6 (1956) n.9, pp. 8-17

 

Morucchio 1956b  

Berto Morucchio, III Mostra internazionale di Venezia, “Fotografia”,  9 (1956) n. 9, p. 10

 

Mostra 1949  

Mostra internazionale Scambi Occidente  – sezione fotografica, catalogo della mostra ( Torino, Palazzo del Valentino, 10-26 settembre 1949), a cura della Società Fotografica Subalpina e del Gruppo Fotografi Fiat. Torino : s.n., 1949

 

Mostra 1951  

Mostra della fotografia europea (catalogo della mostra,  Milano,  Palazzo di Brera, aprile 1951), a cura dell’Unione Fotografica;  presentazione di Fernanda Wittgens; impaginazione di Luigi Veronesi. Milano : s.n., 1951

 

Mostra 1953  

Mostra della Fotografia italiana, catalogo della mostra (Firenze, Galleria della Vigna Nuova, 2-12 maggio 1953). Milano: Edizioni il Progresso Fotografico, 1953

 

Mostra 1954  

Mostra internazionale dell’Unione Fotografica (Milano, Galleria d’Arte Moderna, 16 maggio-6 giugno 1954).  Milano: Artegrafica Gandolfi,  1954

 

Mulas 1973  

Ugo Mulas, La fotografia, a cura di Paolo Fossati. Torino: Einaudi, 1973

 

Munari 1961 Bruno Munari, Proiezione diretta e a luce polarizzata, “Rivista Internazionale d’Illuminazione”,  10 (1961), n.6,  novembre – dicembre,  pp. 288-289

 

Muraro 1962  

Michelangelo Muraro, Invito a Venezia; introduzione di Peggy Guggenheim, fotografie di Ugo Mulas. Milano: Ugo Mursia, 1962

 

Museo d’Arte Antica 1956  

Museo d’Arte Antica al Castello Sforzesco, “Città di Milano”, 73 (1956), n. 3, marzo, monografico

 

Nadar 1973  

Nadar. Torino: Einaudi, 1973

 

Natkin 1948  

Marcel Natkin, Photography and the art of seeing. London: Fountain Press, 1948  (ed. originale  Paris: Éditions Tiranty, 1935

 

Neorealismo e fotografia 1987  

Neorealismo e fotografia : il Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia, 1955-1965, catalogo della mostra (Pordenone, Centro iniziative culturali Pordenone,  1987-1988), a cura di Italo Zannier. Udine: Art&, 1987

 

Neutra 1963  

Richard J. Neutra, Photographe et architecte, “Camera”, 42 (1963), n. 5, maggio, pp. 8-31

 

Nèvola 1953  

Maurizio Nèvola, La montagna e il topolino. Mostra della fotografia italiana 1953, “Il Corriere fotografico”, 50 (1953), n. 12, dicembre pp. 27-30

 

Newhall 1960  

Beaumont Newhall, [Recensione diPeter Pollack, The Picture History of Photography: From the Earliest Beginnings to the Present Day. New York: Harry N. Abrams, 1958, “College Art Journal”, 19 ( 1960), n. 3, pp. 289-290

 

Nicolini 2010  

Toni Nicolini, a cura di, Ernesto Treccani: La mia città. Milano. Fotografie e dipinti. Milano: Fondazione Corrente, 2010

 

Novecento (Il) 1963  

Il Novecento e l’architettura, “Edilizia Moderna”, 35 (1963), n.81, dicembre, monografico

 

Olivato, Puppi 1977  

Loredana Olivato, Lionello Puppi, Mauro Codussi. Milano: Electa, 1977

 

Ongania 1889  

Ferdinando Ongania, Raccolta delle vere da pozzo (marmi pluteali) in Venezia. Venezia: F. Ongania, 1889

 

original copy The, 2010  

The original copy: photography of sculpture, 1839 to today, catalogo della mostra (New York,  Museum of Modern Art, 1 agosto – 1 novembre 2010), a cura di  Roxana Marcoci. New York: The Museum of Modern Art, 2010

 

Orlandi 2012

 

Piero Orlandi, L’esperienza della città: il paesaggio urbano come sguardo fotografico, [tesi di dottorato di ricerca]. Camerino:  Università degli Studi di Camerino, 2012

 

Orlandi 2014  

Piero Orlandi, Visioni di città. La fotografia tra indagine e progetto. Bologna: Bononia University Press, 2014

 

Orlandini 1967  

Sergio Orlandini, A mezzo della luce, “Roto C”, 1 (1967), n. 3, giugno, pp. 16-17

 

Ornano 1945  

Alfredo Ornano, Il ritratto in fotografia. Milano: Poligono,1945

 

Ornano 1947  

Alfredo Ornano, Pessimista a Venezia, “Ferrania”, 1 (1947) n. 9, settembre, p. 4

 

Orosz 2019  

Márton Orosz, Light as a Creative Medium in the Art of György Kepes, “bauhaus-imaginista”, Edition 4, 2019 online: http://www.bauhaus-imaginista.org/articles/5881/light-as-a-creative-medium-in-the-art-of-gyorgy-kepes?

 

Orsi 1956  

Arrigo Orsi, [Recensione di] Hajek-Halke, Experimentelle Fotografie,  “Fotografia”,9  (1956), n. 3, pp. 11-12

 

Orsi, Pirelli 1965  

Carlo Orsi, Giulia Pirelli, Milano. Milano: Bruno Alfieri editore, 1965

 

Otto Steinert 1959  

Otto Steinert und Schüler: Gestalterische fotografie, catalogo della mostra (Essen,  Museum Folkwang , 25  Marzo – 3  Maggio  1959), a cura di Josef Adolf Schmöll. Essen : Folkwang Schule für Gestaltung, 1959

 

Pagano 1938  

Giuseppe Pagano, Un cacciatore di immagini, “Cinema”, 3 (1938), dicembre; ripubblicato in “Costruzioni-Casabella”,  19 (1946), n. 195-198, p. 67

 

Pagano, Daniel 1936  

Giuseppe Pagano, Guarnerio Daniel, Architettura rurale italiana, “Quaderni della Triennale”. Milano: Hoepli, 1936

 

Paine 1966  

Wingate Paine, Memory of Venus, 1966

 

Panoptique 1967  

Panoptique: Architecture et Photographie, “Camera”, 46 (1967) n.12, dicembre, monografico

 

Panorama 1956  

Panorama della fotografia italiana. 40 fotografie di Paolo Monti, brochure della mostra (Genova, Associazione Fotografica Ligure, Salita Santa Caterina 8, 5-18 gennaio 1956), a cura della AFL – Associazione Fotografica Ligure, s.n.t., 1956

 

Paoli 2007  

Silvia Paoli, Paolo Monti ai Musei del Castello Sforzesco. La Pietà Rondanini, “Rassegna di Studi e Notizie”, 24 (2007), vol. 31, pp. 311- 332

 

Paoli 2012  

Silvia Paoli, Fotografia come scrittura . Conversazione con Nino Migliori, in Paoli, Zanchetti 2012,  pp. 273-287

 

Paoli 2015  

Silvia Paoli, Vitali, Gernsheim, Newhall, Soby, 1956-1961. Intorno ad alcune mostre di fotografia a Milano,  “rsf rivista di studi di fotografia”, 1 (2015)  n. 1,  pp. 80-96; online https://oajournals.fupress.net/index.php/rsf/article/view/8846/8844

 

Paoli 2016  

Silvia Paoli, Per strappare un segreto alle cose. Paolo Monti 1928-1959, in Paolo Monti: fotografie 2016, pp. 14-41

 

Paoli, Zanchetti 2012  

Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, atti degli incontri di studio Storie di fotografia (Milano, Castello Sforzesco, ottobre 2007-maggio 2010), “L’uomo nero: materiali per una storia delle arti della modernità”, N.S. 9 (2012), n. 9, dicembre, monografico

 

Paolo Monti 1954  

Paolo Monti, in EPT Rovigo – Ente Settembre Lendinarese, IV Rassegna nazionale d’arte fotografica, catalogo della mostra (Lendinara 1-15 settembre 1954), s.n.t., 1954

 

Paolo Monti 1979  

Paolo Monti: trent’anni di fotografie, 1948-1978, catalogo della mostra ( Reggio Emilia, Sala comunale delle esposizioni,  20 ottobre -15 novembre 1979),  cura di Franco Bonilauri, Nino Squarza; testo di Giuseppe Turroni. Modena: Punto e virgola, 1979

 

Paolo Monti 1983  

Paolo Monti fotografo e l’età dei piani regolatori (1960-1980), catalogo della mostra (Bologna, Palazzo Re Enzo, novembre – dicembre 1983), a cura di IBC –  Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna.  Bologna: Edizioni Alfa, 1983

 

Paolo Monti 1985  

Paolo Monti: Laboratorio ossolano, catalogo della mostra (Verbania, Museo del Paesaggio, 17 agosto – 22 settembre 1985), a cura di Roberta Valtorta. Milano:  Istituto di fotografia Paolo Monti, 1985

 

Paolo Monti 1986

 

Paolo Monti 1998

 

Paolo Monti 2002

 

Paolo Monti fotografo di Brunelleschi: le architetture fiorentine, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, Gabinetto G.P. Viesseux, 19 luglio – 12 agosto 1986),  a cura di Franco Bonilauri. Casalecchio di Reno – Milano: Grafis – Istituto di fotografia Paolo Monti, 1986

 

Paolo Monti: gli anni veneziani 1945-1953, catalogo della mostra ( Venezia, Salone della Cassa di Risparmio di Venezia, 22 maggio-19 giugno 1998), a cura di  Manfredo Manfroi. Venezia : La Gondola, 1998

 

Circolo fotografico Arno, a cura di, Paolo Monti a Figline Valdarno; introduzione di Manfredo Manfroi. Firenze: Opuslibri, 2002

 

 

Paolo Monti  2013  

Paolo Monti e la fotografia: dal censimento al catalogo web, IBC Regione Emilia-Romagna, Bologna, Biblioteca “Giuseppe Guglielmi”, 10 aprile 2013, https://www.youtube.com/playlist?list=PL7Y62vJ_eSDL9NfHpFzNO7Ztnw0e488Wr

 

Paolo Monti 2016  

Paolo Monti: fotografie 1935-1982, catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco, 16 dicembre 2016 – 12 marzo 2017), a cura di Pierangelo Cavanna, Silvia Paoli. Cinisello Balsamo: Silvana Editoriale, 2016

 

Papa 1980  

Marco Papa, La realtà, la fotografia, la scrittura: postille in margine a “L’avventura di un fotografo” di Italo Calvino, “La Rassegna della letteratura italiana” , 1980, n. 1-2, gennaio-agosto, pp. 257-268

 

Pasinetti 2017  

Francesco Pasinetti. Questa è Venezia. 1943, a cura di Alberto Prandi e Carlo Montanaro.  Venezia: Marsilio, 2017

 

Patellani 1943  

Federico Patellani, Il giornalista nuova formula, in Scopinich 1943,  pp. 125-137

 

Paul Strand 1971  

Paul Strand: a retrospective monograph. The years 1950-1968. New York: Aperture, 1971

 

Pazienti 1958  

G.C. Pazienti, La III mostra nazionale di Padova, “Ferrania”, 12 (1958), n. 3, p. 35

 

Pelizzari 2010  

Maria Antonella Pelizzari, Photography and Italy. Chicago –  London: University of Chicago –  Reaktion Books, 2010 (ed. italiana, Percorsi della fotografia in Italia. Roma: Contrasto, 2011)

 

Pelizzari 2011  

Maria Antonella Pelizzari,  Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica (1932), “Visual Resources: An International Journal of Documentation”, 27 (2011),  n.2, giugno, pp. 146-153

 

Pellegrini 1955  

Guido Pellegrini, Fotografia sperimentale, in  Croci 1955, pp. 197-198

 

Pellizza da Volpedo 1980 Pellizza da Volpedo, catalogo della mostra (Alessandria, Sala Comunale d’Arte Contemporanea, Palazzo Cuttica, novembre 1980 – gennaio 1981), a cura di Aurora Scotti. Milano: Electa, 1980.  

 

La Photographie 1999 -2008  

La Photographie. Collection Marie-Thérèse et André Jammes, 19th and 20th Century Photographs. London – Paris: Sotheby’s, 1999, 2002, 2008

 

Pica 1959  

Agnoldomenico Pica,  Architettura italiana ultima.  Milano: Edizioni del Milione, 1959

 

Pica 1972

 

Agnoldomenico Pica, Nuova architettura genovese per l’arte nipponica, in “Domus”, 44 (1972), n. 513 agosto, pp. 54-55

 

Pike 1947  

Oliver G. Pike, La Nature et la Photographie.  London – Paris: Focal Press – Prisma, 1947

 

Pinney 1962  

Roy Pinney, Advertising photography. New York: Hastings House,1962

 

Piovani 1983  

Alberto Piovani, a cura di, Paolo Monti, “I grandi fotografi”. Milano: Gruppo Editoriale Fabbri, 1983

 

Pittura a Rimini 1979  

Pittura a Rimini tra Gotico e Manierismo. Recupero e restauro del patrimonio artistico riminese: dipinti su tavola,  catalogo della mostra (Rimini, Sala delle Colonne, agosto – ottobre 1979),  a cura di Carlo Volpe.  Rimini: Museo Civico, 1979

 

PMI 1965-1966  

“PMI Photo Methods for industry”. New York: Milton T. Astroff, 1965-1966

 

Pollack 1959  

Peter Pollack, Storia della fotografia dalle origini a oggi.Milano: Garzanti, 1959 (ed. originale   The picture history of photography from the earliest beginnings to the present day. New York : H. N. Abrams, 1958)

 

Porretta Terme 1969  

Per un rilevamento dei beni artistici e culturali di Porretta Terme, mostra documentaria (Porretta Terme 1969), a cura di Andrea Emilani; fotografie di Paolo Monti . Bologna: Labanti & Nanni, 1969

 

Portoghesi 1966  

Paolo Portoghesi, Roma barocca: storia di una civiltà architettonica. Roma: Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, 1966

 

Portoghesi 1967  

Paolo Portoghesi, Francesco Borromini. Milano: Electa, 1967

 

Portoghesi 1979  

Paolo Portoghesi, In ricordo di Carlo Scarpa, “Controspazio”, 11 (1979), n. 3, maggio-giugno, pp. 2-5

 

Praz 1960  

Mario Praz, Les fontanes de Rome, “L’œil”, 6 (1960), n. 61, pp. 48-55, 101

 

Pygmalion Photographe 1985  

Pygmalion Photographe. La sculpture devant la caméra 1844-1936, catalogo della mostra (Genève,Cabinet des estampes, Musée d’art et d’histoire,  28 giugno – 3 settembre 1985), a cura di Michel Rainer Manson.  Genève: Musée d’art et d’histoire, 1985

 

IV Mostra Internazionale 1950  

IV Mostra Internazionale annuale della tecnica fotografica – Catalogo della Mostra del ritratto, catalogo della mostra (Bologna, Salone del Podestà, 1950), a cura della  Associazione Fotografi Professionisti di Bologna, s.n.t.

 

V Mostra Biennale 1965  

V Mostra Biennale Internazionale della Fotografia, brochure della mostra (Venezia, Palazzo Vendramin Calergi, 16 ottobre-14 novembre 1965).  s.n.t.

 

Quintavalle 1977  

Arturo Carlo Quintavalle, Antonio Migliori. “CSAC- Quaderni” 36. Parma: Università di Parma, 1977

 

Quintavalle 1978  

Arturo Carlo Quintavalle, Il commercio del senso, 1978, ora in Id., Messa a fuoco: Studi sulla fotografia. Milano: Feltrinelli, 1983, p. 378

 

Quintavalle 1979a  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Monti: Case coloniche in provincia di Bologna 1973,  in Enciclopedia pratica per fotografare, 9. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 1295-1300

 

Quintavalle 1979b  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Monti: Piazze d’Italia 1978,  in Enciclopedia pratica per fotografare, 38. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 1167-1182

 

Quintavalle 1979c  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Monti: La Pietà Rondanini 1977,  in Enciclopedia pratica per fotografare, 75. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 2351-2356

 

Quintavalle 1979d  

Arturo Carlo Quintavalle, Procida 1972 di Paolo Monti, in  Enciclopedia pratica per fotografare, 3. Milano: Fratelli Fabbri,  1979,  pp. 255-260

 

Quintavalle 1993  

Arturo Carlo Quintavalle, Muri di carta : fotografia e paesaggio dopo le avanguardie. Milano : Electa, 1993

 

Quintavalle 2003  

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Quintavalle 2010  

Arturo Carlo Quintavalle, Lanfranco Colombo e la storia della fotografia, in Lanfranco Colombo, Fotogrammi di una vita. Torino: Allemandi,  & C., 2010, pp. 7-15

 

Quintavalle, Barbaro 1980  

Arturo Carlo Quintavalle, Paolo Barbaro, a cura di, Studio Villani. Il lavoro della fotografia. Parma: CSAC, 1980

 

Racanicchi 1958  

Piero Racanicchi, Spigolature ai margini di uno scritto, “Ferrania”, 12 (1958), n.6, giugno, pp. 6-9

 

Racanicchi 1963a  

Piero Racanicchi, La figura umana nell’arte figurativa e nella fotografia: considerazioni, in  La figura umanaII  Mostra nazionale di fotografia,  catalogo della mostra (Bergamo, Aula ex Consiliare, 20 – 31 ottobre 1963), a cura della Associazione Fotografica Bergamasca e del Circolo fotografico Legler di Ponte San Pietro. Bergamo: Bolis, 1963

 

Racanicchi 1963b  

Piero Racanicchi, Fotodinamismo futurista, “Popular Photography Italiana”, 7 (1963), n. 67,gennaio, p. 43

 

Ragghianti 1958  

Carlo Ludovico Ragghianti, Arte e Fotografia, intervista di Piero Racanicchi, “seleArte”, 8 (1958), n. 38, novembre-dicembre, pp. 2-10

 

Ragghianti 1959a  

Carlo Ludovico Ragghianti, Fotodinamica futurista: Una postilla a “fotografia ed arte”, “seleArte”, 9 (1959), n. 39, gennaio-febbraio, p. 8

 

Ragghianti 1959b  

Carlo Ludovico Ragghianti, Il negozio Olivetti a Venezia: La “Crosera de piazza” di Carlo Scarpa, “Zodiac”, 1959, n. 4, pp. 128-147

 

Raspi Serra  1971  

Joselita Raspi Serra, Tuscania. Cultura ed espressione artistica di un centro medievale. Roma: Banco di Santo Spirito – ERI, 1971

 

Raspi Serra  1972  

Joselita Raspi Serra, La Tuscia romana. Roma: Banco di Santo Spirito – ERI, 1972

 

Red. 1953  

Red., Immagini europee: Il Modern Museum presenta la collezione raccolta da Steichen,  “Ferrania”, (1953) n.9, p. 34

 

Red. 1953a  

Red., Esposizione, “Ferrania” 6 (1953), n. 1, p. 34

 

Red. 1957a  

Red., A buried treasury [Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo a Genova], “Architectural Forum”, 106 (1957), n.4, aprile, pp. 152-155

 

Red. 1957b  

Red., La prima fotografia del mondo alla XI Triennale di Milano, “Popular Photography Italiana”, 1 (1957), n.2, agosto, p. 56

 

Red. 1960  

Red., L’opera di Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio a Verona, “Domus”, 33 (1960),  n. 369, agosto, pp. 39-53

 

Red. 1961a  

Red., Antonio Migliori, “Ferrania”, 15 (1961), n. 12, dicembre, p. 159

 

Red. 1961b  

Red., Ferrania nel mondo: Italia ‘61, “Ferrania”, 15 (1961), n. 10, ottobre, pp.n.n.

 

Red. 1975  

Red., Diciotto anni di idee fotografiche, “Il Diaframma Fotografia Italiana”, 14 (1975), n. 199-200, gennaio – febbraio, pp. 8-22

 

Regione Piemonte 1980  

Regione Piemonte,  Legge regionale n. 43 del 13 maggio 1980, Contributo alla Fondazione arch. Enrico Monti per ‘Programma di censimento dei beni culturali minori e creazione di un archivio per la storia delle tradizioni popolari

 

Regorda 2010  

Patrizia Regorda, La Concerned Photography in Italia: fotografia e impegno civile. “Quaderno di Villa Ghirlanda” n.8. Cinisello Balsamo – MUFOCO – Silvana Editoriale, 2010

 

Renzi 1969  

Renzo Renzi, Ferrara.  Bologna:  Alfa, 1969

 

Restany  1962  

Pierre Restany, Le “nouveau réalisme” de Rotella, “Metro”, 3 (1962), n. 6, pp. 98-101

 

Rey [1908] 1925  

Guido Rey, Fotografia inutile?, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana 1925. Torino: “Il Corriere Fotografico”, 1925, pp. 5-10

 

Ricci 1976  

Giovanni Ricci, Bologna. Storia di un’immagine; fotografie di Paolo Monti, introduzione di Andrea Emiliani. Bologna: Alfa, 1976

 

Riccòmini 1972  

Eugenio Riccòmini, Ordine e vaghezza: la scultura in Emilia nell’età barocca. Bologna: Zanichelli, 1972

 

Riccòmini 1977  

Eugenio Riccòmini, Vaghezza e furore : la scultura del Settecento in Emilia. Bologna : Zanichelli, 1977

 

Ri-conoscere Michelangelo 2014  

Ri-conoscere Michelangelo: la scultura del Buonarroti nella fotografia e nella pittura dall’Ottocento a oggi, catalogo della mostra (Firenze, Gallerie dell’Accademia, 18 febbraio – 18 maggio 2014  )  a cura di Monica Maffioli e Silvestra Bietoletti. Firenze – Milano:  Firenze Musei – Giunti, 2014

 

Rizzi 2010

 

Enrico Rizzi, “…per strappare un segreto alle cose”: contributo a una biografia, in Zanzi 2010,  pp. 332-344

 

Rogers 1955  

Ernesto Nathan Rogers,  Architettura e fotografia. Nota in memoria di Werner Bischof, “Casabella-Continuità”, 2 (1955),  n. 205, aprile-maggio,  pp. 156-157

 

Roiter 1954  

Fulvio Roiter, Venise a fleur d’eau. Lausanne : La Guilde du Livre, 1954

 

Roiter 1955  

Fulvio Roiter, Ombrie:  Terre de Saint-François. Lausanne : Guilde du Livre, 1955

 

Roiter 1956  

Fulvio Roiter, Amateurisme et profession photographique en Italie, Camera”, 35 (1956), n. 4, aprile, p. 137

 

Roiter 1977  

Fulvio Roiter, Essere Venezia. Udine: Magnus Edizioni, 1977

 

Romano 1978  

Giovanni Romano, Studi sul paesaggio. Torino: Einaudi, 1978 ( seconda edizione: 1991)

 

Ronis 1951  

Willy Ronis, Photo-reportage et chasse aux images. Paris: Paul Montel, 1951

 

Rosa 1979  

Alessandro Rosa, Apri il tuo catalogo ai maestri dell’obiettivo,  “Tuttolibri attualità”,  5 (1979), n. 25, 30 giugno, p. 5

 

Rosenblum, Morello 2002  

Naomi Rosenblum, Paolo Morello, Fulvio Roiter. Palermo: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, 2002

 

Rovati 1999  

Federica Rovati, Il ‘Romanticismo’ di Francesco Arcangeli, “Accademia Clementina. Atti e memorie”, N.S. 38-39, (1998/1999), pp. 117-169

 

Roy, Strand 1952  

Claude Roy, Paul Strand, La France de Profil. Losanna: Clairefontaine, 1952

 

Ruskin [1855] 1903  

John Ruskin, Preface to the Second Edition, in Id.,The Seven Lamps of Architecture. London: Smith, Elder, & Co., 1855, ora in  E. T. Cook,  Alexander Wedderburn, a cura di, The Complete Works of John Ruskin; VIII, London – New York:  George Allen – Longmans, Green, And Co,  1903, pp. 7-14

 

Russo 2011  

Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana: dal neorealismo al postmoderno. Torino: Einaudi, 2011

 

Russo 2021  

Antonella Russo, Italian Neorealist Photography: Its Legacy and Aftermath. London: Routledge, 2021

 

Russoli 1960  

Franco Russoli, Pour une muséographie efficace, “L’œil”, 6 (1960), n. 61, pp. 41-47

 

Sabastiani 1998

 

Gioia Sabastiani, I libri di Corrente: Milano 1940-43 : una vicenda editoriale. Bologna: Edizioni Pendragon, 1998

 

Santa Cecilia 1983a  

L’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello da Urbino nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, catalogo della mostra (Bologna, Pinacoteca Nazionale, 18 ottobre – 18 dicembre 1983), a cura di Carlo Bernardini, Gabriella Zarri, Andrea Emiliani. Bologna: Edizioni Alfa, 1983

 

Santa Cecilia 1983b  

La Santa Cecilia di Raffaello: indagini per un dipinto;  introduzione di Andrea Emiliani, repertorio fotografico di Paolo Monti.  Bologna: Edizioni Alfa, 1983

 

Santoro 2019  

Lorena Santoro, Mostra della Fotografia Italiana 1953. Ambizioni disattese del progetto di Giuseppe Cavalli, “rsf rivista di studi di fotografia”,   5 (2019), n. 10, pp. 140-153

 

Savi 1990  

Vittorio Savi, L’ombra dell’ora, in  In Prospettiva. Fotografie di architettura in Europa, catalogo della mostra (Reggio Emilia, Sala Mostra Antico Foro Boario, 1990)  a cura di Laura Gasparini e Luigi Ghirri;  Reggio Emilia:  Comune di Reggio Emilia – Assessorato alla Cultura, 1990

 

Savonuzzi 1979  

Claudio Savonuzzi, Mettiamoci tutti in posa, “Tuttolibri” speciale, 5 (1979), n. 46, 8 Dicembre, p. 11

 

Scene e costumi 1969 Scene e costumi di Luciano de Vita. Bologna: Galleria De’ Foscherari, 1969

 

Scharf 1969  

Aaron Scharf, Art and Photography. London: Penguin Books,1969 (ed. it. Arte e fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schenk  1954  

Gustav Schenk, Schöpfung aus dem Wassertropfen. Berlino:Karl H. Henssel Verlag, 1954

 

Schiaffini 2017  

Ilaria Schiaffini, La mostra Fotografie astratte all’Obelisco nel 1951: il sodalizio fra Pasquale De Antonis e Corrado Cagli,  “rsf rivista di studi di fotografia” 3 (2017), n. 6,  pp. 28-49

 

Schwarz 1978  

Angelo Schwarz, [Intervista a] Paolo Monti (1978), “Il Diaframma. Fotografia Italiana”, n.244, dicembre 1978, ora  in Id., Trenta voci sulla fotografia. Torino: Gruppo Editoriale Forma, 1983, pp. 140-146

 

Scimé 1993  

Giuliana Scimé, a cura di, Bauhaus e Razionalismo nelle fotografie di Lux Feininger, Franco Grignani, Xanti Schawinsky, Luigi Veronesi. Milano: Mazzotta, 1993

 

Scimemi 2004a  

Maddalena Scimemi, Vite parallele: Intervista a Fulvio Roiter , in  Carlo Scarpa 2004, pp. 181-186

 

Scimemi 2004b  

Maddalena Scimemi, Vite parallele: Intervista a Gianni Berengo Gardin , in  Carlo Scarpa 2004, pp. 187-190

 

Scopinich 1943a  

Ermanno Federico Scopinich, Considerazioni sulla fotografia italiana,  in Scopinich 1943b, pp. 7-10

 

Scopinich 1943b  

Ermanno Federico Scopinich, a cura di,  Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

 

Scotti 1981  

Aurora Scotti, Giuseppe Pellizza da Volpedo e la fotografia, in “Prospettiva”, n.26, luglio 1981, pp.68-74

 

Scotti 1986  

Aurora Scotti, Pellizza da Volpedo. Catalogo generale. Milano: Electa, 1986

 

Sculpter-Photographier 1991 Sculpter-Photographier. Photographie-Sculpture, atti del convegno (Parigi,  Museo del Louvre, 22 – 23 novembre 1991), a cura di Michel Frizot, Dominique Paini. Paris: Marval, 1991

 

Scultura italiana 1966-1968 Scultura italiana, 5 voll. Milano: Electa, 1966-1968
Un secolo di fotografia 1957  

Un secolo di fotografia dalla Collezione Gernsheim, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Triennale, 27 luglio-4 novembre 1957), a cura di Helmut e Alison Gernsheim. Milano: Triennale, 1957

 

II Mostra dell’Estetica 1953 II Mostra dell’Estetica Industriale, catalogo della mostra (Milano, Fiera Campionaria, 18-24 aprile 1953).  Milano: Ente Autonomo Fiera Internazionale di Milano, 1953

 

2ª Mostra Internazionale 1955 2ª Mostra Internazionale di Fotografia, catalogo della mostra (Venezia, Ca’ Giustinian, Sala degli Specchi, 1-15 giugno 1955), a cura del Circolo fotografico La Gondola.  Venezia. Venezia: Tip. Fantoni, 1955

 

II biennale internazionale 1958 II biennale internazionale di fotografia per invito, patrocinata da “Camera”, catalogo della mostra (Pescara, Palazzo Pomponi, 1-20 settembre 1958), a cura del Foto Club Pescara. Senigallia: Giacomelli & Mancini, 1958

 

Serena 2013  

Tiziana Serena, Il tesoro dei pirati, in Cinelli et al., 2013,  pp. 117-142

 

Sereni 1961  

Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano. Bari:  Laterza, 1961

 

Servadio 1967  

Emilio Servadio, Psicologia e psicopatologia del fotografare, in Astaldi 1967,  pp. 63-67

 

Setti 2017  

Stefano Setti, Giuseppe Pagano e Franco Albini fotografi: Duplici sguardi, “Figure – Rivista della Scuola di Specializzazione in Beni Storico-Artistici dell’Università di Bologna”, 3  (2017), pp. 73-84

 

Sinisgalli 1957  

Leonardo Sinisgalli, Fotografie di De Antonis. Invito – pieghevole di mostra. Roma:  Galleria L’Obelisco, 1957

 

Skulptur im Licht 1997  

Skulptur im Licht der Fotografie. Von Bayard bis Mapplethorpe, catalogo della mostra (Duisburg, Wilhelm Lehmbruck Museum, 6 dicembre 1997 – 22 febbraio 1998), a cura di Erica Billeter. Bern:  Benteli Verlag, 1997

 

Smaniotto 2020  

Ada Smaniotto, Poétique balzacienne des noms de personnages. «Faire concurrence à l’état civil». Paris: Classiques Garnier, 2020

 

Solinas Donghi 1959  

Beatrice Solinas Donghi, L’estate della menzogna. Milano: Feltrinelli,  1959

 

Sommer 1873  

Giorgio Sommer, Catalogo di fotografie d’Italia e Malta, s.n.t., s.d. [1873?]

 

Sommer 1992  

Un viaggio fra mito e realtà: Giorgio Sommer fotografo in Italia: 1857-1891. catalogo della mostra (München, Fotomuseum im Münchner Stadtmuseum, 11 settembre-8 novembre 1992; Roma, Palazzo Braschi, 5 dicembre 1992-10 gennaio 1993) a cura di Marina Miraglia, Pino Piantanida, Ulrich Pohlmann, Dietmar Siegert. Roma: Carte Segrete, 1992

 

Soragni 1980  

Ugo Soragni,  Montagnana, “Storia dell’arte italiana”, 8, Inchieste sui centri minori. Torino: Einaudi 1980,  pp. 69-103

 

Sotheby’s 1999  

Sotheby’s London, Photography: The Collection of Marie-Thérèse and André Jammes, 27 ottobre 1999

 

Spesso, Porcile 2019 Marco Spesso, Gian Luca Porcile, Da Zevi a Labò, Albini e Marcenaro. Musei a Genova 1948-1962: intersezioni tra razionalismo e organicismo. Genova: Genova University Press, 2019

 

Steichen 1953  

Edward Steichen, Post-War European Photography, in Tom Maloney, a cura di,  “U.S. Camera 1954”. New York: U. S. Camera Publishing Corp. 1953, pp. 9-71

 

Steiner 1954a  

Albe Steiner, L’estetica del prodotto, “Domus” 27 (1954), n.  290, p. 67

 

Steiner 1954b  

Albe Steiner, [Sulla fotografia], “Lavoro: settimanale della Confederazione generale italiana del lavoro”, 7  (1954), n.46, 14 novembre

 

Steiner 1978  

Albe Steiner, Il mestiere di grafico. Torino: Einaudi, 1978

 

Steinert 1952  

Otto Steinert, Subjektive Fotografie: Ein Bildband moderner europäischer Fotografie.  Bonn- Rhein: Brüder Auer Verlag,1952

 

Steinert 1955  

Otto Steinert, Subjektive Fotografie 2. Ein Bildband moderner Fotografie. Bonn: Brüder Auer Verlag,1955

 

Stephenson 2009  

Sam Stephenson, The Jazz Loft Project. Photographs and Tapes of W. Eugene Smith from 821 Sixth Avenue, 1957-1965.  New York: Knopf, 2009

 

Stucchi 1957a  

Carlo Stucchi, Ancora le odierne tendenze della nostra  fotografia, “Il Corriere fotografico”, 54 (1957) n. 48, febbraio, pp.27-28

 

Stucchi 1957b  

Carlo Stucchi, Cultura e fotografia, “Il Corriere fotografico”, 54 (1957) n. 51, maggio-giugno, pp.26-28

 

Subjektive fotografie 1951  

Subjektive fotografie : Internationale Ausstellung moderner Fotografie, catalogo della mostra (Saarbrücken, 12 – 29 luglio 1951), a cura del Fotografischen Abteilung der Staatlichen Schule für Kunst und Handwerk.  Saarbrücken: Staatliche Schule für Kunst und Handwerk, 1951

 

Subjektive fotografie 1954  

Subjektive fotografie 2. Ausstellung Moderner Fotografie, catalogo della mostra (Saarbrücken,  Staatlichen Schule für Kunst und Handwerk, 27  novembre 1954 –  27 gennaio 1955), a cura di Otto Steinert. Saarbrücken:  Staatlichen Schule für Kunst und Handwerk, 1954

 

Subjektive fotografie 1960 Subjektive fotografie 3. Mostra internazionale di fotografia, catalogo della mostra (Varese, Villa Mirabello, 2-16 ottobre ). Varese: Tip. L’Ammonitore,  1960

 

Sul limite 2007  

Sul limite dell’ombra: Cesare Giulio fotografo, catalogo della mostra (Torino, Museo  Nazionale della Montagna, 17 maggio-7 ottobre 2007), a cura di Pierangelo Cavanna, “Cahier Museomontagna”, 157. Torino: Museo Nazionale della Montagna – Club Alpino Italiano Torino, 2007

 

Tafuri 1984  

 

Manfredo Tafuri, Il frammento, la ‘figura’, il gioco: Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana, in Francesco Dal Co, Giuseppe Mazzariol, a cura di,

Carlo Scarpa: Opera completa. Milano: Electa, 1984 pp. 73-95

 

Tagg 2009  

John Tagg, The Disciplinary Frame. Photographic Truths and the Capture of Meaning, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2009

 

Tani 2007  

Giorgio Tani, a cura di, Alfredo Camisa. Torino: FIAF, 2007

 

TCI 1947  

Touring Club Italiano, Venezia e la sua laguna. Milano:  Touring Club Italiano, 1947

 

TCI 1967  

Touring Club Italiano, Puglia. Milano:  Touring Club Italiano, 1967

 

TCI 1969a  

Touring Club Italiano, Liguria. Milano:  Touring Club Italiano, 1969

 

TCI 1969b                  

Touring Club Italiano, Umbria. Milano:  Touring Club Italiano, 1969

 

TCI 1970  

Touring Club Italiano, Abruzzo e Molise. Milano:  Touring Club Italiano, 1970

 

TCI 1971  

Touring Club Italiano, Marche. Milano:  Touring Club Italiano, 1971

 

TCI 1972a  

Touring Club Italiano, Milano. Milano:  Touring Club Italiano, 1972

 

TCI 1972b  

Touring Club Italiano, Ville d’Italia. Milano:  Touring Club Italiano, 1972

 

Tedeschi G. 1967  

Giuseppe Tedeschi, Il libro fotografico, in Astaldi 1967, pp. 152-157

 

Tedeschi L. 2010  

Letizia Tedeschi, Algoritmie spaziali: gli artisti, la rivista “Spazio” e Luigi Moretti, in Luigi Moretti 2010, pp. 137-177

 

III Mostra Internazionale1949  

III Mostra Internazionale annuale della tecnica fotografica – Catalogo della Mostra del ritratto, catalogo della mostra (Bologna, Salone del Podestà, 1949) ), a cura della  Associazione Fotografi Professionisti di Bologna,s.n.t., 1949

 

III Mostra Internazionale1956  

III Mostra internazionale di fotografia, catalogo della mostra (Venzia, Ca’ Giustinian, 24 giugno -25 luglio 1956), introduzione di Fulvio Roiter. Venezia: Fantoni, 1956

 

Three European Photographers 1965 Three European Photographers, plaquette della mostra (Worcester Art Museum, 15 giugno – 7 settembre 1965), a cura di  Stephen B. Jareckie. Worcester: Worcester Art Museum, 1965

 

Tinacci 2018  

Elena Tinacci, Mia memore et devota gratitudine: Carlo Scarpa e Olivetti, 1956-1978. Roma: Edizioni di Comunità, 2018

 

Toesca 1939  

Pietro Toesca, Un capolavoro di Michelangelo: “La Pietà di Palestrina”, fotografie di Giuseppe Pagano,  “Le Arti”, 1 (1939), n.2, dicembre-gennaio, pp. 105-110

 

Toschi 2020  

Caterina Toschi,  Olivetti e l’editoria d’arte, in Il libro d’arte in Italia (1935-1965), Atti delle giornate di studio (Pisa, Scuola Normale Superiore, 28-29 giugno 2018) a cura di Massimo Ferretti. Pisa: Edizioni della Normale, 2020, pp. 159-175

 

Trincanato 1948  

Egle Trincanato, Venezia minore, con un testo di Agnoldomenco Pica. Milano:  Edizioni del Milione, 1948

 

Turroni 1956  

Giuseppe Turroni, Formule, scuola e cultura, “Fotografia”, 9 (1956), n.9, settembre, p. 9

 

Turroni 1957a  

Giuseppe Turroni, Cultura vecchia e nuova nella fotografia italiana, “Ferrania”, 11 (1957), n. 5, maggio, pp. 24-25

 

Turroni 1957b  

Giuseppe Turroni, Paolo Monti, il miglior fotografo italiano d’oggi, “Civiltà delle macchine”, 5 (1957), n. 3, maggio – giugno, pp. 62-63

 

Turroni 1958  

Giuseppe Turroni, Fotografie astratte di Antonio Migliori, “Ferrania”, 12 (1958), n. 8, agosto, pp. 2-5

 

Turroni 1959  

Giuseppe Turroni, Nuova fotografia italiana. Milano:  Schwarz, 1959

 

Turroni 1961  

Giuseppe Turroni, Per una storia della fotografia, “Fotografia”, 14 (1961), n.9, settembre, p. 23

 

Turroni 1962  

Giuseppe Turroni, Guida alla critica fotografica. Milano:  Il Castello, 1962

 

Turroni 1966  

Giuseppe Turroni, I fotografi pubblicitari: una nuova cultura, “Ferrania”, 20 (1966) n. 10, ottobre, pp. 2-11

 

Turroni 1967a  

Giuseppe Turroni, L’esteta del benessere, “Ferrania, 21 (1967), n. 1, gennaio, pp. 10-21

 

Turroni 1967b  

Giuseppe Turroni, Lo stile “Vogue”, “Ferrania, 21 (1967), n.2, febbraio, pp. 10-18.

 

Unione Fotografica 1953  

Unione Fotografica, La mostra della fotografia italiana a Londra giudicata dagli inglesi, “Ferrania”, 7 (1953), n. 5, maggio, pp. 14-16

 

V. P. 1980  

V.P.,  A scuola dai professionisti. Paolo Monti: l’Arte, “Fotopratica”, 13  (1980) n. 114, dicembre, pp.47-49

 

Vaccari 1966  

Franco Vaccari, Le Tracce; introduzione di Adriano Spatola. Bologna:  Sanpietro, 1966

 

Valentinelli 2017  

Alessandra Valentinelli, a cura di, Italo Insolera fotografo. Roma: Palombi Editori, 2017

 

Valeri 1967  

Diego Valeri,  a cura di, Padova, i secoli, le ore; fotografie di Paolo Monti. Bologna : ALFA, 1967

 

Valsecchi 1962  

Marco Valsecchi, Umberto Milani: sculture dal 1944 al ’62, “I Quaderni del Milione” n. 3 . Milano: Edizioni del Milione, 1962

 

Valtorta 1983  

Roberta Valtorta, Una lettura per raffronti e interrelazioni, in Santa Cecilia 1983a, pp.335-336

 

Valtorta 1993  

Roberta Valtorta, Un occhio che scopre, “IBC – Informazioni, commenti, inchieste sui beni culturali”, 1 (1993), n. 4, pp. 30-31

 

Valtorta 2000  

Roberta Valtorta, Paolo Monti, “History of Photography”, 24 (2000), n.3, pp. 196-201

 

Valtorta 2008  

Roberta Valtorta, a cura di, Paolo Monti: scritti e appunti sulla fotografia. Milano: Lupetti, 2008

 

Valtorta 2013  

Roberta Valtorta, a cura di, Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea. Torino: Einaudi, 2013

 

Valtorta 2016  

Roberta Valtorta, Note su Gabriele Basilico, Paolo Monti, la committenza pubblica ieri e oggi, “IBC” , 24 (2016), n. 1 http://rivista.ibc.regione.emilia-romagna.it/xw-201601/xw-201601-a0004

 

Vannucci Zauli 1945  

Giuseppe Vannucci Zauli, Il bello fotografico.  Firenze: Giannini, 1945

 

26 fotografi 1957  

26 fotografi italiani. IV Mostra di fotografia Città di Spilimbergo (catalogo della mostra), a cura di  Italo Zannier. Spilimbergo: Pro Spilimbergo – Gruppo friulano per una nuova fotografia – EPT, 1957

 

Verbale 1950  

Verbale delle deliberazioni della giuria per il concorso fotografico indetto dall’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, “Ferrania”, 4 (1950), n. 10, p. 31

 

Vergani, Crocenzi,  Birelli 1967  

Leonardo Vergani, Luigi Crocenzi,  Diego Birelli, a cura di, Milano. Milano: Electa, 1967

 

Veronesi 1957  

Giulia Veronesi, Un secolo di fotografia alla Triennale, “Ferrania”, 11 (1957), n.11, novembre, pp. 14-15

 

Vetrotessile 1960  

Vetrotessile. Milano: Off. grafiche Elli & Pagani, 1960

 

Vilander 1968  

Ica Vilander, La donna vista da una donna. Torino:  Edizioni Dellavalle, 1968

 

Villa 2003  

Carlo Federico Villa, Una sonora clausura: La Galleria d’arte moderna di Torino. Cronaca di un’istituzione.  Cinisello Balsamo : Silvana, 2003

 

Le ville genovesi 1967  

Le ville genovesi, catalogo della mostra (Genova, 1962), a cura di  Emmina De Negri, Cesare Fera, Luciano Grossi Bianchi, Ennio PoleggiGenova: Italia Nostra, sezione di Genova –  Comune di Genova, 1967

 

Weber 1997  

Susanna Weber, “Non siamo stati noi, era nel destino delle cose”. La fine del Gruppo “La Bussola” nell’epistolario dell’Archivio Camisa, in Forme di luce 1997, pp. 21-26

 

Weltausstellung 1964  

Weltausstellung der Photographie. 555 Photos von 264 Photographen aus 30 Ländern zu dem Thema: Was ist der Mensch? , catalogo della mostra itinerante, a cura di Karl Pawek; introduzione di Heinrich Böll . Hamburg : Nannen, 1964

 

White 1950  

Minor  White, Fourth Sequence, Colophon, 1950, in Filippo Maggia, a cura di, Minor White/ Life is Like a Cinema of Stills.  Milano: Baldini&Castoldi, 2000, p.17

 

Windisch 1951  

Hans Windisch, La photographie de la Nouvelle Ecole. Paris: Prisma, 1951

 

Wittkower  1959  

Rudolf Wittkower, Montagnes sacrées,  “L’œil”,  5 (1959), n. 59,  novembre, pp. 54-61, 92

 

Wölfflin 2008  

Heinrich Wölfflin, Fotografare la scultura, a cura di Benedetta Cestelli Guidi. Mantova: Tre Lune, 2008

 

Wollner 2012  

Jan Wollner, The Architecture of Metropolis, “Umělec magazine” 16 ( 2012) n.1. Online http://www.divus.cc/london/en/umelci/detail?id=69 (06 12 2021)

 

Ylla 1950a  

Ylla, Des Bêtes photographiées; testo di  Jacques Prévert Paris: Gallimard, 1950

 

Ylla 1950b  

Ylla, Hunde. Zürich: Fretz & Wasmuth Verlag, 1950

 

Ylla 1952  

Ylla, 85 Gatti. Torino: S.A.I.E,  1952

 

Ylla 1954  

Ylla, Deux petites ours. Lausanne: Clairefontaine, 1954

 

Zanelli 1954  

Agostino Zanelli, Una mostra di fotografia a carattere nazionale, “Ferrania”, 8 (1954), n. 10, ottobre, p. 5

 

Zannelli 2010  

Diletta Zannelli, a cura di, Tra le carte di Antonio Arcari: fotografia, educazione visiva 1950- 1980. Milano: Lupetti, 2010

 

Zannelli 2016  

Diletta Zannelli, La sperimentazione astratta nella fotografia di Paolo Monti (1950-1970), “rsf rivista di studi di fotografia”,  2 (2016), n. 3, pp.  74-93

 

Zannier 1956a  

Italo Zannier, Deux générations, “Camera”, 35 (1956), n. 4, aprile, p. 138

 

Zannier 1956b Italo Zannier, La III mostra internazionale di Venezia, “Ferrania”, 10 (1956), n. 9,  settembre, p. 2
Zannier 1956c  

Italo Zannier, Verso una fotografia italiana, “Fotografia”,  9 (1956) n.2, febbraio, p. 11

 

Zannier 1957a  

Italo Zannier, Considerazioni sulla fotografia italiana, in 26 fotografi 1957, pp.n.n.

 

Zannier 1957b  

Italo Zannier, Due libri. “New York” di Klein, “Dagli Incas agli Indios” di Bischof, Frank, Verger, “Fotografia”, 10 (1957), n. 2, febbraio, pp. 15-16

 

Zannier 1957c  

Italo Zannier, La I Biennale internazionale della fotografia a Venezia, “Ferrania”, 11 (1957), n.7,  luglio pp. 10-16

 

Zannier 1958  

Italo Zannier, Alfredo Camisa, “Ferrania”, 12 (1958), n. 11,  novembre, p. 2

 

Zannier 1960  

Italo Zannier, Ricordo di Giulio Parmiani, “Ferrania”, 14 (1960), n. 7,  luglio, pp. 2-11

 

Zannier 1965  

Italo Zannier, Una mostra retrospettiva del circolo “La Gondola”, “Ferrania”, 19 (1965), n. 5, maggio, p. 18

 

Zannier 1974  

Italo Zannier, Breve storia della fotografia. Milano: Il Castello, 1974

 

Zannier 1979a  

Italo Zannier, Ferruccio Leiss fotografo a Venezia. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1979b  

Italo Zannier, Fotografia italiana contemporanea, in Venezia ’79 la Fotografia: Fotografia italiana contemporanea. Milano: Electa, 1979

 

Zannier 1986a  

Italo Zannier, Le “astrazioni involontarie” di Paolo Monti, “Fotologia”, 5 (1986), estate-autunno, pp. 53-69

 

Zannier 1986b  

Italo Zannier, Una lettera di Luigi Crocenzi, “Fotologia”, 5 (1986), estate-autunno, pp. 70-73

 

Zannier 1991  

Italo Zannier, Architettura e fotografia. Roma – Bari: Laterza, 1991

 

Zannier 1997  

Italo Zannier, Il gruppo “La Bussola” e la fotografia italiana del dopoguerra, in Forme di luce 1997, pp. 5-19

 

Zannier 2000  

Italo Zannier, Verso una storia moderna della fotografia in Italia, in Paolo Morello, Amen fotografia 1839-2000: immagini e libri dall’archivio di Italo Zannier. Palermo – Milano: Istituto Superiore per la Storia della Fotografia – Skira, 2000, pp. 11-55

 

Zannier 2004  

Italo Zannier, Un recupero storico: Catone Ramello fotografo, con un testo di Giuseppe Marchiori, “Fotostorica”, N.S. 27-28 (2004), giugno, pp. 19-21

 

Zannier 2006  

Italo Zannier, Mario Finazzi : un fotografo solarizzato, in Mario Finazzi, catalogo della mostra (Bergamo, GAMeC, 6 aprile – 16 luglio 2006), a cura di Maria Cristina Rodeschini Galati, Italo Zannier. Bergamo:   Lubrina Editore, 2006, pp. 9-18

 

Zannier 2007  

Italo Zannier, Paolo Monti et le projet de Bologne, “ Strates . Matériaux pour la recherche en sciences sociales”, 13, 2007, http://strates.revues.org/6162

 

Zannier 2019  

Italo Zannier, La fotografia, soprattutto: conversazione con Silvia Paoli. Milano: Mimesis, 2019

 

Zanzi 2010  

Paolo Zanzi, a cura di, Paolo Monti. Fotografia. Nei segreti della luce. Milano: BEIC, 2010

 

Zanzi 2012  

Paolo Zanzi, a cura di, Paolo Monti. Fotografia. Il furore del nero. Milano: Skira, 2012

 

Zapponi 1956  

Ferruccio Zapponi, La Mostra Nazionale di Padova, “Fotografia”, 9 (1956), n.4, aprile, p. 29

 

Zevi [1948] 1970  

Bruno  Zevi, Saper vedere l’architettura [1948]. Torino: Einaudi, 1970

 

Zevi 1977  

Bruno Zevi, a cura di, Brunelleschi anticlassico, “Architettura – Cronache e Storia”, 23 (1977), n. 262-263  agosto-settembre, monografico

 

Zorzi et al. 1971  

Alvise Zorzi, Elena Bassi, Terisio Pignatti, Camillo Semenzato, a cura di, Il Palazzo Ducale di Venezia. Torino: ERI, 1971