Esposizioni della fotografia (2011)

in Torino, la città che cambia : fotografie 1880-1930, catalogo della mostra (Torino,  Borgo Medioevale, 9 aprile – 9 ottobre 2011), catalogo a cura di Riccardo Passoni. Cinisello Balsamo : Silvana Editoriale, 2011, pp. 16-21

 

Fu nel 1861, alle soglie di quella che si sarebbe detta l’età del collodio e dell’avvio della grande commercializzazione con l’apertura dei grandi studi, che la fotografia in Italia fece la sua apparizione alla Prima Esposizione Italiana Agraria, Industriale e Artistica di Firenze[1], inaugurata da Vittorio Emanuele II, che fu anche la prima a essere oggetto di documentazione fotografica, realizzata dal fotografo fiorentino Pietro Semplicini, “Fotografista dell’Esposizione Italiana”, per incarico della Commissione Reale presieduta dal principe Eugenio di Savoia Carignano[2]. La committenza è indicativa di quale ormai fosse la consapevolezza dell’efficacia di quello che era a tutti gli effetti uno strumento di comunicazione, sebbene non ancora di massa. Mutavano cosi anche i luoghi di esposizione di queste fotografie di interesse pubblico: non più o non solo le vetrine degli studi o degli editori come Alberto Charvet o Giovanni Battista Maggi, il “boudoir dell’elegante signora, come [le] biblioteche dell’artista e dell’uomo di scienza e d’affari”[3], ma anche e sempre più frequentemente i padiglioni delle Esposizioni, come quella di Dublino del 1865 in cui le fotografie di Alberto Luigi Vialardi dedicate al Canale Cavour vennero presentate montate in cornici dorate[4]. La fotografia si rivelava, qui come nella poco più tarda documentazione del Traforo del Frejus, fotografato ancora da Vialardi e da Henri Le Lieure, come il medium più aderente, più adeguato a celebrare i cantieri pieni di macchine di quelle grandi infrastrutture. Erano ancora anni, di più, decenni, in cui la fotografia alle Esposizioni raccontava altro da sé, utilizzata per la sua novità di immagine a cui non ancora era riconosciuta una possibile dignità di opera. Si pensi alla cartella di cento splendide tavole in fototipia L’Arte antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, pubblicata dai Fratelli Doyen nel 1882, in cui le fotografie, di autore non identificato, riproponevano quella disposizione degli oggetti fatta come nella casa di un uomo di gusto, che tanto aveva affascinato Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux-Arts”: “Quand on entre, on est touché par une sorte d’harmonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les ceuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite”[5], essendo esposte (e poi fotografate: difficile immaginare un allestimento apposito per le riprese) in modo sistematico per prodotti (maioliche e porcellane, mobilio, oreficerie, stoffe) e per tipologie, secondo modalità che non paiono estranee alla presenza di Vittorio Avondo trai membri del comitato predisposto alla pubblicazione. Anche la Fotografia Subalpina di Giovanni Battista Berra realizzò per l’occasione un’ampia documentazione dei dipinti e delle sculture esposte, poi raccolta in album e donata “A S.M. Umberto I / che più di tutti / ama la grandezza / della Patria”, e al Municipio di Torino[6]. Altre fotografie di Berra, accanto a quelle realizzate da Giuseppe Vanetti, tutte relative allo stato di fatto prima e dopo gli interventi di restauro del castello di Rivara, furono presentate da Alfredo d’Andrade nella sezione di Architettura della stessa esposizione, con un intento documentaristico che non può non richiamare alla memoria le indicazioni metodologiche di Viollet-le-Duc.
Avondo e D’Andrade, cioè l’invenzione del Borgo Medievale per l’Esposizione Generale Italiana del 1884. Questo monumento nuovo, esito di un progetto conoscitivo lungo un biennio, che vide tra le altre la collaborazione di Carlo Nigra per la documentazione fotografica preliminare, costituì il punto nodale della formazione della consapevolezza culturale del patrimonio storico medievale piemontese e valdostano. Nell’idea che lo sosteneva, in una pratica che si voleva filologica nonostante il procedimento di assemblaggio necessario alla realizzazione di una “copia” che si pretendeva oggettiva, riconosciamo il segno della aspirazione positivista alla catalogazione del mondo, alla sua trasformazione in collezione di immagini, favorita e quasi indotta dall’enorme diffusione della fotografia. Il Borgo può essere letto come un grande fotomontaggio in tre dimensioni, una stereoscopia improvvisamente vivibile che riesce a dare concretezza di materia alla raffigurazione di un soggetto inesistente in quella forma. Un’idea felicissima, una novità assoluta che con un buon secolo di anticipo proiettava lo spettatore nella condizione postmoderna della società del simulacro, poiché “la compiuta finzione aiuta la fantasia […]. Ora l’uomo è cosi fatto, che si sente suscitare dentro più spiriti estetici e vincere dalle emozioni più presto innanzi alla rappresentazione del vero che di contro al vero effettivo”[7]. In perfetta sintonia con questo principio di spettacolarizzazione anche il Club Alpino Italiano aveva realizzato un Villaggio alpino, posto accanto alla Tenda di caccia di S.M. Vittorio Emanuele II, in cui erano ospitati i materiali della Stazione Alpina, primo nucleo del futuro Museo della Montagna[8]. A Vittorio Ecclesia, che aveva incontrato Avondo a Issogne[9] nel 1882, venne affidato il ruolo di fotografo di scena dello spettacolo del Borgo, ma risultava presente anche nella Sezione Belle Arti / Fotografie Architettoniche con altri tredici fotografi, tra i quali lo stesso Berra, con cui aveva condiviso la campagna documentaria prodotta dalla Commissione conservatrice dei monumenti nel 1882, e Federico Castellani che aveva condotto analoghe ricognizioni nell’Alessandrino. Oltre ad alcune belle vedute del Santuario di Crea, Ecclesia presentava proprio le immagini animate del Borgo in un piacevole giuoco di rimandi e rispecchiamenti che corrispondeva però anche a precisi accordi commerciali: nel bell’album realizzato e prodotto da Giovanni Battista Maggi[10], il Borgo Medievale, che pure apre la sequenza di immagini, è sempre visto da lontano e dall’esterno, sebbene la sua presenza fosse inevitabile e segnasse l’orizzonte di molte riprese. Ma di più non era concesso fare poiché era Ecclesia a detenere la privativa sulle immagini di quegli edifici, di quelle strade animate da personaggi in costume ‘d’epoca’, secondo un gusto per la giocosa messa in scena che costituiva la cifra riconoscibile del gruppo di amici che si riuniva intorno ad Avondo a Issogne. Dalla sezione dedicata alle fotografie di architettura prese avvio il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[11],  realizzata dal Collegio torinese, che in occasione del successivo VI Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani di Venezia, nel 1887, presentò il catalogo del Museo Regionale di Architettura, ospitato in una sala del Borgo Medievale, costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano disposte “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia”[12].

Questa realizzazione rappresentò il precedente necessario della Prima Esposizione Italiana di Architettura, promossa dalla relativa Sezione del Circolo degli Artisti e inaugurata nel febbraio del 1890, in cui vennero esposti oltre diecimila disegni, ma anche numerose fotografie: “Ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!”[13]. Accanto alla documentazione di nuovi edifici compariva in modo sempre più sistematico quella dei cantieri di restauro (dall’arco di Augusto a Susa, ripreso da Secondo Pia, a San Marco a Venezia), cui si affiancavano i repertori di storia dell’architettura frutto delle campagne documentarie di Pia, Ecclesia, Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet, assenti gli Alinari, mentre Annibale Cominetti, giornalista e fotografo dilettante, futuro direttore de “La Fotografia Artistica”, presentava immagini di edifici spagnoli.

Con il diffondersi dei nuovi materiali sensibili alla gelatina bromuro d’argento, carte per la stampa ma specialmente lastre e pellicole di produzione industriale, la pratica fotografica si apriva al variegato universo dei dilettanti di rango, determinando un atteggiamento diverso e inedito, caratterizzato dall’emergere di una volontà di ricerca che coniugava tecnica e intenzione espressiva, in cui era possibile pensare e mostrare la fotografia in quanto immagine e – attraverso di questa – l’autore. Fu questo cambio di paradigma che consenti di pensare alle esposizioni di fotografia, magari limitandosi dapprima prudentemente a un ambito circoscritto, quale ad esempio, in area piemontese e torinese in particolare, quello della montagna, anche per la determinante influenza del CAI e di molti dei suoi membri più autorevoli, non a caso magistrali fotografi di fama internazionale come Vittorio Sella e Guido Rey. Cosi nel 1893 questo sodalizio organizzò la sua prima Esposizione Fotografica Alpina nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti, con la partecipazione tra gli altri del musicista Leone Sinigaglia, con una serie dedicata a Villaggi e montagne della Val d’Ala, mentre alla successiva Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dall’Associazione Universitaria Torinese nel 1895, parteciparono L[uigi?] Belli, Luigi Primoli, Rey, Giulio Roussette, Sella, Emanuele Elia Treves. Oltre a questi si segnalarono Giovanni Varale di Biella “con gli impagabili panorami delle Valli di Andorno e d’Aosta, resi più vari dall’aver compreso i diversi costumi di quei valligiani”, Alberto Durio con un “album contenente le magnifiche riproduzioni degli affreschi di Gaudenzio Ferrari, che resero famosa la chiesa delle Grazie a Varallo Sesia” e Federico Peliti, con una serie di 150 fotografie di grande formato intitolata 28 anni nell’India Inglese[14].

1898. Cinquantenario dello Statuto albertino: Torino rivendicava il ruolo svolto nel difficile processo di unificazione celebrando le proprie glorie recenti, ormai passate, e lo fece utilizzando ancora una volta la forma moderna per eccellenza delle Esposizioni, ma scegliendo con grande accortezza di affiancare Arte Industriale e Arte Sacra. Fu in questo contesto che la fotografia assunse inaspettatamente le caratteristiche di un evento di rilevanza internazionale, con la ripresa della Sindone effettuata in Duomo da Secondo Pia, che rivelò la natura di “negativo” del Sacro Lino e diede origine a una serie infinita di polemiche e contestazioni, che coinvolsero a diverso titolo tanto la comunità religiosa quanto quella scientifica. L’enorme flusso di visitatori atteso per le due Esposizioni portava nuovamente Torino al centro della scena nazionale e costituiva per molti, fotografi compresi, un’importante occasione commerciale. Cosi Brogi pubblicò una nuova edizione del proprio album di vedute di Torino e gli Alinari inviarono in città il loro miglior operatore, Mario Sansoni, che ebbe tra le proprie inevitabili mete anche i padiglioni espositivi. Sul versante più squisitamente tecnologico i fratelli Lumière colsero l’occasione per presentare i risultati delle loro prove di *fotocromosgrafia indiretta […] ed è ad un mazzo di leggiadrissimi lillà. stavo per dire fragranti, che affida[rono] sicuri la divulgazione della loro scoperta[15]. Anche per le istituzioni l’Esposizione costituiva un’occasione preziosa per rendere note le proprie attività e collezioni attraverso fotografia: cosi fu per i tre volumi de l’Armeria Antica e Moderna di SM. il Re d’Italia /in Torino, con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, pubblicati a Milano dall’Eliotipia Calzolari e Ferrario, che dovevano essere pronti per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino”[16], mentre l’analogo progetto voluto da Avondo per la Sezione di Arte antica del Museo Civico avrebbe visto la luce solo la vigilia di Natale del 1904. Anche il Comitato per la Mostra Medievale Pugliese, che aveva presentato dei calchi tratti da “monumenti di arte classica antica dei periodi Angioino, Svevo e Normanno”, aveva celebrato quel l’iniziativa con l’album Nella Terra di Bari. Ricordi di arte medioevale, con 127 illustrazioni in zincotipia ricavare da fotografie di Romualdo Moscioni e di Nicola de Mattia, mentre i fratelli Antonelli, di Bari, furono premiati con medaglia di bronzo “per ritratti e fotografie di monumenti con luce artificiale”[17].  La zincotipia costituiva allora la grande novità dell’editoria, consentendo la stampa tipografica congiunta di immagini e testo, tecnica immediatamente adottata da Roux Frassati e C., editori del giornale del l’Esposizione, illustrato dalle fotografie del “cav. Remo Lovazzano, uno dei migliori fotografi torinesi […] Orbene, di queste fotografie il cav. Lovazzano pensò di fare una raccolta completa e di offrirle in omaggio al Re quale ricordo fedele della grande Mostra […]. Le fotografie sono state riunite in un magnifico album in cuoio giallo con fregi in argento cesellato e sguardie in raso bianco marezzato, opera veramente ricca ed artistica dello stabilimento Vezzosi. Un’epigrafe dettata dall’avvocato Bona dichiara il pensiero di omaggio e di ricordo con cui il cav. Lovazzano offre al Re questa raccolta, che forma una vera opera d’arte, poiché arte è ormai altresì la fotografia. L’album sarà tra breve presentato al Re. Una consimile raccolta il cav. Lovazzano ha altresì offerto all’on. Villa, presidente dell’Esposizione”[18], Anche Mario Gabinio[19] si era cimentato con le architetture effimere dei padiglioni, con un ampio lavoro (89 stampe raccolte in album), realizzato forse su sollecitazione dell’amico Mario Ceradini, progettista del chiosco della ditta  Sangemini, che mostra quale fosse ormai il livello raggiunto da questo oscuro grande fotografo, assente anche al Primo Congresso Fotografico che si tenne in città in quell’occasione[20]. Nonostante la rilevanza dell’evento, il trattamento riservato alla sezione fotografica dell’Esposizione risultò pessimo[21] e venne aspramente stigmatizzato da Carlo Brogi: “La fotografia figura meschinamente, e non da di sé, del suo sviluppo raggiunto nel nostro paese, che un’idea molto lontana dalla realtà […] non è considerata né classificata con criteri razionali. E ciò avviene per quell’erroneo concetto in forza del quale si vuole disconoscere in essa qualunque carattere d’arte, per ritenerla semplicemente un processo meccanico di riproduzione del vero […). Ricordo che a Bologna nell’Esposizione del 1888, si aveva fatto ancora peggio, confinando la fotografia con le carni insaccate […). Ma che dire di più, quando si vede che neppure i fotografi di Torino hanno preso parte alla festa che si faceva in casa propria”[22].

Anche Enrico Thovez, analogamente a quanto aveva fatto Biscarra nel 1870[23], colse l’occasione per celebrare le glorie della riproducibilità fotomeccanica delle immagini: “Grazie alla fotoincisione una rivoluzione si è operata nell’aspetto di molte pubblicazioni. Giornali e riviste di ingegneria e di meccanica (sopratutto americane ed inglesi) diventano piacevoli a sfogliare come albums pittoreschi, grazie alla bellezza delle vedute di officine, di cantieri, di docks, di ferrovie, non più schematizzate secondo un’intenzione dimostrativa, ma colte nella realtà viva, colla poesia delle luci e delle ombre, delle nuvole di fumo e di vapore, della folla che le popola”[24]. La nuova tecnologia gli consentiva anche di formulare il progetto di “pubblicare questa ricchezza {del nostro patrimonio artistico), e pubblicarla a buon prezzo, senza scrupoli di perfezione, popolarmente, a dispense, con riproduzioni fotoincise rigorosamente fedeli, magari senza testo, come fanno spesso i Tedeschi, perché la coltura più necessaria e fondamentale, per ora, è quella visiva, empirica, formale […]. La Pinacoteca è stata recentemente fotografata dal Brogi e dall’Anderson; non basta; bisogna pubblicarne un catalogo con buone riproduzioni fotografiche, in modo che tutti, conterranei e forestieri, ne conservino un ricordo completo e un invito a tornarvi, non bisogna lasciare questo godimento estetico soltanto alle serve e ai soldati. E un uguale programma attende il Museo Civico d’arte moderna”[25].

La fotografia e le fotografie erano ormai parte dello scenario quotidiano. Le brevi di cronaca ne segnalavano con sempre maggiore frequenza la presenza: a corredo delle prime patenti automobilistiche, sciolte, nei portafogli, nei ciondoli, per non dire di quelle utilizzate in ambito scientifico, giudiziario o per foschi ricatti a sfondo sessuale, mentre in altre pagine degli stessi quotidiani, non ancora illustrate con fotografie”[26], grande successo riscuoteva il tema della fotografia spiritica, e la divulgazione di argomenti quali la telefotografia e la cronofotografia, descritte da Oreste Pasquarelli sulle pagine de “La Stampa” nella rubrica “Scienza popolare”. “La fotografia non è più, come era nel suo inizio, un soprappiù, una curiosità scientifica, un capriccio della moda; essa è oggidì una necessità della vita pel largo contributo e per la validissima cooperazione sua alla scienza, alla storia, all’arte. I suoi stessi progressi, gli studi cui è fatta scopo da illustri ingegni, le sue infinite e variatissime applicazioni bastano a mettere in evidenza la grandissima importanza che ha la fotografia ai giorni nostri, importanza che, lungi dal diminuire, aumenterà sempre. È adunque logico, giusto, naturalissimo che le Mostre fotografiche si facciano più frequenti e crescano ogni volta più di valore e di importanza”[27]. In questo clima di rinnovata attenzione si aprì nel febbraio del 1900 la I Esposizione Internazionale di Fotografia, promossa dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina, per la cura di Edoardo di Sambuy, ospitata nella sede di via della Zecca 25 in “cinque grandi sale, le cui pareti sono addirittura coperte di fotografie, il cui numero è tale che si dovette ricorrere anche a speciali vetrine, discoste dalle pareti […]. Fra i numerosi concorrenti professionisti e dilettanti sono notevoli le mostre del Foto-Club di Parigi, e di altri stranieri; quella collettiva degli Escursionisti, quella dell’Istituto geografico militare di Firenze e quella del Genio Militare. Una delle sale, elegantemente addobbata, è destinata alle signore promotrici”[28]. Particolare attenzione suscitarono le opere di Constant Puyo e Robert Demachy, di cui si apprezzava l’estremo pittorialismo, pur preferendo ancora, in fondo, il neoclassicismo dei tableau vivant di Guido Rey, “innamorato della grazia greco-pompejana e della grazia ché presiedeva al gusto del secolo scorso”. Tra i membri dell’Unione Escursionisti si segnalava perla prima volta Mario Gabinio, che con la serie dedicata a Torino che scompare si aggiudicava il premio bandito dal Comune di Torino per la “collezione più interessante di vedute di vie o di piazze o di edifizi vari di Torino o di altre città del Piemonte, aventi un’attrattiva artistica ed archeologica, perché ora scomparse o destinate a scomparire prossimamente”[29]; lavoro molto apprezzato da Riccardo Brayda e dallo stesso di Sambuy che elogiandone gli esiti in occasione del banchetto conclusivo del’ l’Esposizione, formulava l’idea della costituzione di un archivio fotografico. Fu ancora di Sambuy a promuovere e poi a coordinare l’Esposizione internazionale di fotografia artistica che ebbe luogo nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna del 1902, allo scopo di far conoscere i migliori esiti delle nuove tendenze, mostrando “accanto alle opere già ben note in Torino dei membri del Photo-Club di Parigi […] quelle di Tedeschi, Fiamminghi, Svedesi, Inglesi, Americani, fors’anche dei lontani Giapponesi ed Australiani […] Benvenuta adunque l’Esponzione di fotografie inspirate unicamente ad intenti artistici, poiché contribuirà, con quella d’Arte Decorativa Moderna, a scuotere l’indifferenza del pubblico ed a persuaderlo che una coltura artistica largamente diffusa è indispensabile ai giorni nostri come fatto di moderno democratico incivilimento, e quale apportatrice di maggior benessere sociale”[30]. Le diverse nazioni presentarono i loro autori (qui ormai la parola assumeva il suo senso più proprio, e pieno) più significativi”[31]. Per l’Italia, solo per fare qualche nome, Francesco Negri con una serie di belle tricromie; le scene di Rey, i paesaggi di Cesare Schiaparelli, Vittorio Sella con stampe virate in doppio tono relative al Caucaso georgiano, gli intensi ritratti degli amici artisti di Giacomo Grosso”[32]. Un’occasione cruciale per la cultura fotografica italiana e torinese in particolare, portata a misurarsi con più di 1.300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, ma l’opinione comune doveva essere diversa se la segnalazione contenuta nella rubrica “Gli Spettacoli d’Oggi” de “La Stampa” indicava semplicemente: “Esposizione d’Arte Decorativa Moderna al Valentino con annessa Mostra di fotografia artistica, vini e olii”.

La pubblicazione nel dicembre del 1904, per iniziativa di Annibale Cominetti, de “La Fotografia Artistica”[33] fu certo tra gli esiti più significativi di quell’evento. Una “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33 x 24), redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni nel testo e tavole fuori testo realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa fotografica al bromuro, alle fotoincisioni, alla similgravure), che ha rappresentato nei primi due decenni del secolo, sino alla chiusura nel 1917, l’espressione più rilevante della fotografia italiana, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la scena internazionale (artistica e tecnica: si pensi alla costante attenzione per gli sviluppi della fotografia a colori), ma anche più in generale con la cultura artistica e pittorica nazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” cui tendeva tutto il movimento pittorialista, qui richiamato sin dal titolo e che costituiva il punto di riferimento, magari incerto, dei membri dei numerosi sodalizi fotografici aperti in quegli anni a Torino, come il Club d’Arte, fondato nel 1906, che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi. Non meno rilevante fu il ruolo svolto dal periodico nell’organizzazione di alcune importanti iniziative quali, nel 1907, l’Esposizione internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica, organizzata in poco più di un mese, ma avvalendosi del sostegno di tutte le principali personalità della scena fotografica torinese e italiana oltre a un comitato d’onore con importanti presenze internazionali quali il fotografo Alfred Horsley Hinton, tra i fondatori di The Linked Ring Brotherhood; lo storico della fotografia Josef Maria Eder e il fisico Gabriel Lippmann, che l’anno precedente aveva ricevuto il premio Nobel per le sue ricerche sul metodo interferenziale di fotografia a colori. Questa IV Esposizione nazionale generale di fotografia e internazionale per materiale fotografico non ebbe pero il successo sperato. Poco soddisfacente la sezione artistica, nella quale “la ‘maniera nera”, l’abusare cioè di toni bassi e di sfumature confuse ingenera monotonia: rari sono i motivi di paese e di figure che riescano a vera bellezza d’arte, e si lamenta sopratutto il costume dei ritocchi di cieli e delle illogiche aggiunte di pennellate di colore che nonché giovare, rovinano in bontà delle fotografie […] Uno dei rami che appaiono in decadenza è quello delle scene composte: siamo lontani dai saggi di anni addietro del Rey, del Puyo, del Demacky […] L’evocazione storica per mezzo della fotografia è cosa di una delicatezza spaventosa: se non è fatta con tutta severità, può facilmente cadere nel puerile “[34]. Poche furono anche le Case produttrici di apparecchi fotografici e di carte sensibili, e l’interesse maggiore venne suscitato non tanto dai saggi di tricromia offerti dalle due ditte milanesi Alfieri e Lacroix e Unione Zincografi, quanto dalla presentazione ufficiale per l’Italia del nuovo processo a colori dell’autocromia, messo a punto dai Fratelli Lumiere nel 1904,  affidata al Segretario dell’Accademia dei Lincei Ernesto Mancini[35]. Il dibattito che ne seguì sulle pagine dei più importanti periodici internazionali, condusse alla progressiva definizione di una vera e propria estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico con il pittorialismo, si misurava e provava a fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche ed espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico.

Nonostante le perplessità derivanti dal confronto con altre grandi, recenti iniziative italiane e straniere, così come contro la convinzione sempre più diffusa “che le grandi esposizioni generali abbiano fatto il loro tempo”, la volontà “di consacrare il cinquantenario dell’affermazione unitaria con un quadro completo del progresso economico della patria risorta attirò il concorso entusiastico di tutte le forze vive della nazione”[36]  e rese possibile la realizzazione nel 1911 della grande Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro. Il Concorso Internazionale e la Mostra Fotografica realizzati per l’occasione videro circa “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti”[37], a cui si aggiunse l’esposizione di fotografia alpina prodotta nella stessa occasione dal Club Alpino ltaliano, curata da Guido Rey”[38] e ospitata ancora una volta in un “villaggio alpino” dislocato lungo le mulattiere che solcavano le lievi balze del Parco del Valentino, in un pastiche folklorico con qualche pretesa etnografica. Nell’edificio che fungeva da alberghetto “una scaletta di legno ci invita. Si entra e ci si trova in una sala che per verità è raro trovare in un villaggio alpino [dove] l’attrattiva maggiore sono le stupende diapositive del Sella che fanno ufficio di vetri alle finestrelle e i panorami del Karakorum o le altre fotografie di questo principe dei fotografi illustranti i campi d’azione del Duca [degli Abruzzi]”[39].

I resoconti descrivevano un panorama certo più soddisfacente di quello offerto dall’occasione del 1907, confermando come la fotografia fosse ormai considerata “non più una pratica di puro sperimentalismo, sibbene un’arte, alla cui esplicazione concorrono molti elementi di gusto personale, di perspicacia e di abilità schiettamente individuali”; in particolare “la fotografia a colori è ampiamente rappresentata in questa mostra; ed è doveroso notare che il suo progresso è stato grandissimo da quando fece, pochissimi anni fa, la sua prima apparizione […] però è ancora molto spesso lecito osservare che si tratta, sì, di fotografia a colori, ma non sempre precisamente di fotografia del colore: distinzione che non è punto sottile, e che giova fare per intenderci su come vadano meglio considerate queste prove”. Tra i partecipanti il recensore segnalava “certe interessanti fotografie esotiche del conte Luigi Primoli” e “alcune prove di Bricarelli, tra cui una bellissima, che pare un quadretto fontanesiano: una squallida campagna autunnale su cui, contro un cielo nubiloso, si levano due file oscure di pioppi: indovinatissimo è il color giallo che il Bricarelli ha scelto per questa fotografia”[40]. Era questa la prima segnalazione di chi negli anni successivi avrebbe segnato con la propria attività di fotografo, critico, editore e animatore del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica tutto il periodo compreso tra le due guerre mondiali, aprendo la cultura fotografica torinese e italiana alle suggestioni della nuova visione.

 

Note

[1] Per dare un’idea della scarsa rilevanza del settore ricordiamo che su circa 4.000 espositori solo 48 appartenevano alla sezione fotografica (Classe X – Sezione V), cioè poco più dell’1%. Per il Piemonte erano presenti Giuseppe Venanzio Sella e Francesco Maria Chiapella.

[2] Un esemplare dell’album di Pietro Semplicini, Esposizione italiana 1861, è conservato presso la Biblioteca Reale di Torino.

[3] “Gazzetta Piemontese”, 31 maggio 1869, citato in Claudia Cassio, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800. Aosta:  Musumeci, 1980, p. 365.

[4] Archivio Storico dei Canali Cavour, Novara, Regi Canali, Libro Mastro A, f. 170, 27 aprile 1865.

[5] Citato in Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Vittorio Avondo (1836-1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, atti del convegno (Torino, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, 27 ottobre 1995), a cura di Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli.  “Atti SPABA”, Nuova Serie, vol. IV. Torino 1997, pp. 49-60 (53).

[6] Le due copie dell’album Ricordo della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, ciascuna costituita da cinquanta albumine, sono conservate presso la Biblioteca Reale di Torino e la Biblioteca della Fondazione Torino Musei.

[7] Camillo Boito, Il Castello medioevale all’Esposizione di  Torino, citato in P. Cavanna, La documentazione fotografica dell’architetturain Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale e Palazzo Madama, 27 giugno – 27 settembre 1981), a cura di  Maria Grazia Cerri, Daniela Biancolini Fea, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi,  pp. 107-125.

[8] “Cfr. I villaggi alpini. Le identità nazionali alle grandi esposizioni, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 25 febbraio – 20 novembre 2011), a cura di Alessandro Pastore.  Torino:  Museo Nazionale della Montagna, 2011. Tra i materiali esposti in quell’occasione anche un album fotografico con immagini, tra gli altri, di Pietro Bruneri, Francesco Casanova e Paolo Palestrino.

[9] P. Cavanna (a cura di), Vittorio Avondo e la fotografia. Torino: Fondazione Torino Musei, 2005.

[10] I padiglioni fotografati da Maggi costituiscono l’indispensabile termine di confronto per l’album di 121 tavole di progetto di tutti gli edifici realizzati sotto la sua direzione che Camillo Riccio offri al Collegio degli architetti, oggi conservato al Circolo degli Artisti, cfr. Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura.  Torino: Celid,  1999, P. 56.

[11] Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887, p.1.

[12] Ibidem. Tra i donatori di documenti e opere vi furono Brayda, Casana, Ceppi, Ferrante, Gelati, Tonta ma anche Berra ed Ecclesia (Volpiano 1999, p.120). Mario Ceradini ricorderà nel 1890 che “il collegio [degli architetti] trasse vita oscura […] continuando ad arricchire il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, in Id., L’architettura italiana alla prima esposizione d’architettura in Torino. Torino: Carlo Clausen, 1890, p. 3.

[13] Giovanni Sacheri, citato in Volpiano 1999., p. 99; già alcuni anni prima (1883) Sacheri si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32), concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[14] “Gazzetta del Popolo della Domenica”, n. 50, 15 dicembre 1895, p. 399.

[15] Michelangelo Scavia, La fotografia dei colori,  “La Stampa”, venerdì 26 agosto 1898, n. 236, pp. 1-2. La ricostruzione del contesto in cui si è sviluppata la pratica e il dibattito intorno alla fotografia nel periodo di tempo qui considerato si è avvalsa quale fonte importante delle annate storiche del quotidiano “La Stampa”, ora consultabili in rete all’indirizzo http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_frontpage/Itemid,1/  (09 01 2023).

[16] P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 18371898, catalogo della mostra (Torino, Armeria Reale, 15 ottobre 2003 – 11 gennaio 2004), a cura di Paolo Venturoli.  Torino: Allemandi,  2003, pp. 79-98.

[17] Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali di Puglia a cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, catalogo della mostra (Bari, 13 luglio – 31 ottobre 1999), a cura di C. Gelao, Gian Marco Jacobitti.  Bari:  Consorzio Idria – M. Adda, 1999, pp. 33-47.

[18] Cronaca, “La Stampa”, 29 gennaio 1899, n.29, p. 3.

[19] L’Album di Gabinio intitolato Esposizione 1898 contiene anche riprese realizzate dal pallone frenato di Godard, collocato nel recinto dell’Esposizione. Una serie analoga venne realizzata nella stessa occasione da Edoardo di Sambuy dopo che lo stesso Godard gli ebbe negato l’autorizzazione a fotografare la città durante il volo su Torino compiuto il 6 giugno, cfr. “L’Esposizione Nazionale del 1898”, n. 14, p, 105.

[20] Atti del primo Congresso fotografico Nazionale in Torino, ottobre 1898. Torino: Tip, Roux, Frassati e C.,1899.

[21] “Poco favore aveva incontrato a Torino nello scorso anno la sezione fotografica dell’Esposizione Generale. Pessimo era il locale e disadatto, e dai rari visitatori non era avvertito quanto di buono vi era esposto. Alla fotografia italiana toccava una rivincita, e se l’ebbe, adesso in Firenze”, Edoardo di Sambuy, L’Esposizione fotografica a Firenze, “La Stampa”, 14 giugno 1899, n. 163, p. 2.

[22] Carlo Brogi, La fotografia all’Esposizione, in “L’Arte all’Esposizione del 1898”, nn. 31-32, pp. 252-254, mentre altri osservavano “con grande sorpresa e vivo rincrescimento che nella presente Esposizione Generale la fotografia alpina figura con ben poca cosa: troppo poca; e neppure si può dirne tutto il bene che si vorrebbe”, L. Stanghelloni, Per la fotografia alpina, “La Stampa – Gazzetta Piemontese”, 27 ottobre 1898, n. 298, pp. 1-2.

[23] Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino,  “L’Arte in Italia”, IV, 1870, p. 58.

[24] Enrico Thovez, Poesia fotografica, “La Stampa”, 3 giugno 1898, n. 152, ripreso dal n. 9 de “L’Arte all’Esposizione del 1898”.

[25] Enrico Thovez, L’ideale di Torino,  “La Stampa”, 2 gennaio 1899, n.2, p.1.

[26] L’illustrazione fotografica fece la sua prima apparizione nelle pagine de “La Stampa” solo nel 1907, e non a caso in una pubblicità. Il ritratto della signorina Panni Dianira, sarta, di San Costanzo Cerasa, provincia di Pesaro, era corredato dalla seguente, orgogliosa e privatissima dichiarazione: “Ero anemica. Le Pillole Pink mi hanno resa la salute”, “La Stampa”, 4 giugno 1907, n. 153, p.4.

[27] Redazionale,  “La Stampa”, 26 dicembre 1899, n. 357, p.3.

[28] Arti e Scienze, “La Stampa”, 10 febbraio 1900, n. 41, p. 3.

[29] Citato in P. Cavanna, Mario Gabinio, vita attraverso le immagini, in Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, GAM, 28 novembre 1996 – 16 febbraio 1997), a cura di P. Cavanna, Paolo  Costantini.  Torino: Allemandi,  1996, pp.7-35 (p.10).

[30] Edoardo di Sambuy, La fotografia artistica, “La Stampa”, 28 novembre 1901, n. 330, p. 1.

[31] Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, , catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci.  Milano: Fabbri, 1994, pp. 94-179.

[32] Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 22 novembre 1990-17 febbraio 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini.  Milano: Fabbri,  1990, pp. 21-24. I suoi ritratti di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi furono tanto apprezzati da Schiaparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909,I parte, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nello studio di Grosso, sottolineando quanto il pittore seguisse “la via tracciata dall’artista che lui ama cosi profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno”, Enrico Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, ed., Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London 1905, pp. 1.3-1.8. Risulta difficile accostare queste prove di grande qualità agli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino a suo tempo pubblicati da Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911.  Torino: Allemandi, 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute.

[33] Cfr. Paolo Costantini, La Fotografia Artistica 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri,  1990.

[34] Cronaca, “La Stampa”, 17 gennaio 1907, n. 17, p. 3. L’Esposizione vide la partecipazione di 391 autori provenienti da sedici paesi diversi, in particolare Italia, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania.

[35] Il testo della conferenza, La photographie aux plaques autochromes des Frères Lumière, venne pubblicato integralmente ne “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n.8, agosto, pp. 122-128.

[36] La chiusura dell’Esposizione. Quasi duecentocinquanta mila visitatori, “La Stampa”, 20 novembre 1911, n. 322, p. 5.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili”, Brand, Inaugurazione della Mostra fotografica, “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99. Si veda anche Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia (Torino, aprile-ottobre 1911). Torino: G. Momo, 1911.

[38] Per i dati relativi a queste manifestazioni cfr. Esposizione internazionale di fotografia artistica e scientifica, Torino, giugno-luglio 1907, Concorso indetto dalla rivista internazionale “La Fotografia Artistica”. Torino, Grafica: 1907; Brand 1911.

[39] Dal villaggio Alpino alla Mostra dell’Inghilterra, “La Stampa”, 22 aprile 1911, n. 111, p. 3.

[40] La Mostra fotografica, “La Stampa”, 21 giugno 1911, n. 170, p. 6.

Vita breve di un pittore a macchina (2010)

in P. Cavanna, a cura di, Ferdinando Fino fotografo: le valli di Lanzo a colori all’inizio del Novecento. Lanzo Torinese: Società storica delle valli di Lanzo, 2010, pp. 45-62

 

“L’Esposizione fotografica indetta dalla Società Unione Escursionisti[1] ha avuto un ottimo successo”,  scriveva nel 1906 un redattore de “La Fotografia Artistica”; “Fino e Mattei riproducono scene e soggetti alpini, ricavandone dei veri quadretti.”[2] Questa citazione rappresenta l’avvio documentato delle vicende più significative della breve vita fotografica[3] di Ferdinando Fino, ma a ben guardare, e come non di rado accade, pone più questioni di quante non ne risolva. Mi riferisco qui non solo alla sua vicenda personale  quanto alla mutazione del ruolo del dilettante fotografo, categoria di cui Fino costituiva certo un esponente paradigmatico e che in quegli anni di consolidamento definitivo nell’uso delle lastre rapide alla gelatina e delle prime pellicole si stava trasformando quasi per gemmazione in due distinte figure: il raffinato amateur, erede della sofisticata tradizione ottocentesca, e il dilettante vero e proprio, il neofita che si avvicinava alla fotografia considerandola non più che un nuovo, grazioso giocattolo dagli impensati usi sociali. È certo in questa seconda accezione che va intesa la partecipazione al suo primo concorso, in anni in cui il suo interesse prevalente era rivolto al dipingere. L’iniziativa del concorso e della relativa esposizione era stata assunta dall’assemblea dell’Unione Escursionisti del 15 dicembre 1905 con un’immediata finalità pratica, quella di accrescere la collezione di fotografie dell’Unione stessa, la cui consistenza risultava inversamente proporzionale alla pratica fotografica dei soci. Per favorire la partecipazione dei “dilettanti propriamente detti” vennero esclusi i professionisti e i soci “specialisti in materia”, mentre i soggetti proposti riguardavano esplicitamente le gite sociali e in particolare i “Gruppi di Signore in gita sociale”; uno solo, il terzo, era dedicata al tema ‘artistico’  de “Il lago alpino”. I “veri quadretti” di Fino gli valsero una medaglia, ancora amorevolmente conservata dai nipoti, ma non pare che questo primo, inedito successo abbia influito su di una pratica fotografica allora certo episodica e quasi ovvia per un giovane della borghesia torinese, impiegato nell’azienda familiare di concimi e gelatine[4], con una solida formazione tecnica e un interesse non episodico per la pittura. Un vero dilettante insomma, anche prestando fede alla tassonomia semiseria proposta da G. Ferrari circa gli stessi anni: la “grande famiglia” dei fotografi  “come ogni altra dei tre regni della natura, si divide e suddivide in classi, generi, specie, gruppi ed individui (…). Le due classi principali sono: i dilettanti ed i professionisti. La prima si divide e suddivide all’infinito. Vi sono i semplici, i quali non domandano altro che di premere il bottone (…). Poi vi sono quelli che portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi (…) da collezionare. Più in su troviamo i dilettanti più diligenti, i quali sono molto stimati dai negozianti di generi fotografici. Più in su ancora troviamo gli appassionati, gl’ingegni matematici, per quali la fotografia è una risultante di varie piccole trovate (…). Da questa schiera di dilettanti escono poi i tecnici, gli industriali, i fabbricanti brevettati, gli applicatori.  Ma vi ha un altro genere di dilettanti, coloro che sentono e vedono il bello, e solo perché è tale lo riproducono sulla gelatina; essi non sono veramente artisti, ma temperamenti sensibili, intelletti accessibili all’arte. Vi sono poi i dilettanti, i quali non scelgono che quei determinati soggetti estetici che rispondono al loro temperamento (…) Costoro sono sensibili, raffinati, e si approssimano assai più all’arte. Finalmente ci sono i dilettanti artisti, i quali, seguendo un’ispirazione, compongono scene e oggetti, li dispongono in modo che la fotografia li faccia valere, e non si servono dell’obiettivo che per copiare il quadro che hanno immaginato e compiuto. Questi sono i veri artisti. Vengono quindi gli applicatori della fotografia alla scienza e all’industria (…). Infine abbiamo i professionisti, per i quali la fotografia, più che riflettere il loro temperamento, riflette il gusto del pubblico che servono (…)”[5]. Difficile dire se la sua pratica iniziale lo ponesse tra coloro che “portano seco l’apparecchio in ogni tempo e in ogni luogo, seccando la gente pur di avere dei ricordi” ovvero tra “coloro che sentono e vedono il bello”. Troppo scarna per consentire un giudizio meditato la sua produzione superstite di stereoscopie monocrome, che pure già rivela in non pochi esemplari – forse più tardi – un uso virtuosistico della luce e un’attenta composizione. Nessuna stampa si è conservata per poter esprimere un parere, anche solo ipoteticamente fondato sulla qualità delle sue prime prove, ma le immagini presentate alla mostra del 1906 non dovettero essere considerate particolarmente significative se nessuna di queste entrò a far parte della ricca collezione di Agostino Ferrari, anch’egli membro dell’Unione Escursionisti, che comprendeva molte fotografie di dilettanti che frequentavano le Valli di Lanzo nei primi anni del Novecento.[6] Quando Fino partecipa e si segnala alla mostra del 1906 è quindi uno sconosciuto, che ancora non aveva trovato posto in quella mappa della pratica fotografica amatoriale costituita dall’apparato illustrativo del volume che il CAI aveva dedicato nel 1904 a questi luoghi e che conteneva tra gli altri un contributo dello zio Vincenzo.[7] Qui, accanto a nomi di noti professionisti come Edoardo Balbo Bertone di Sambuy o grandi amateur  come Mario Gabinio, Secondo Pia e Guido Rey comparivano dilettanti di rango quali Guido e Luigi Cibrario, Edoardo Garrone, Andrea Luino e altri di cui oggi risulta difficile ricostruire le tracce dell’attività fotografica, ma la cui presenza conferma il precoce commento di Carlo Ratti: “Pittori e fotografi molte di queste bellezze han già riprodotto  [mentre] brigate di alpinisti e di escursionisti percorrono in ogni stagione dell’anno quei pittoreschi monti che in breve spazio racchiudono tanta varietà di bellezze da compendiare tutto il sublime delle Alpi.”[8]  Difficile dire a quali nomi di fotografi potesse pensare Ratti, poiché il repertorio sinora più completo relativo all’iconografia fotografica delle Valli di Lanzo[9] segnala per gli anni Ottanta del XIX secolo solo pochi operatori locali (O. Bignami, Gayda e Bersanino) mentre prevalgono quelli attivi a Torino (Fotografia Roma, Ippolito Leonardi, Giuseppe Marinoni, Gaetano Songi) e si segnala la presenza del biellese Giuseppe Varale. A questi pochi altri possono aggiungersi, quali Cesare della Matta, forse un amateur, attivo a Ceres intorno al 1860, e  Pietro Bruneri, o Brunero, professionista con sede a Torino che aprì una succursale a Mezzenile dopo il 1870. Alcune sue immagini relative alle Valli di Lanzo erano comprese nell’album che il Club Alpino Italiano presentò alla Mostra Nazionale Alpina del 1884, a cui presero parte con immagini di analogo tema anche il dilettante Paolo Palestrino e Francesco Casanova, libraio, editore e valente fotografo, mentre nel giugno del 1887 il musicista Leone Sinigaglia riportava “a Torino più di 50 fotografie prese in questi bei giorni nei dintorni di Balme” e altre ne realizzò l’anno successivo per presentarle sotto il titolo di Villaggi e montagne della Val d’Ala alla Esposizione Fotografica Alpina che il CAI organizzò nelle sale della Società Promotrice delle Belle Arti nel 1893.[10]

Il nome di Ferdinando Fino va ora ad aggiungersi alla schiera ben più ampia dei fotografi che frequentarono le Valli nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, quando la realizzazione del nuovo tronco ferroviario sino a Lanzo[11] diede nuovo impulso alla già consolidata frequentazione turistica dei luoghi da parte della borghesia e della nobiltà  torinesi, aprendosi più comodamente anche ai viaggiatori stranieri, come Samuel Butler, che descrisse in un breve efficacissimo passo la sua esperienza: “da Torino andai a Lanzo da solo, con un viaggio in ferrovia (…) di un’ora e mezza circa. (…) [A Lanzo] Vicino alla scuola c’è un campo, sul pendio del colle, da cui si domina la pianura. C’era una donna che falciava e per dire qualcosa di cordiale osservai che il panorama era bellissimo. «Sì – rispose – si possono vedere tutti i treni».”[12]  Era la modernità della macchina, a vapore non meno che fotografica, che apriva le Valli allo sguardo degli altri; che portava l’immagine dei luoghi oltre i confini della Stura, specialmente grazie alla fotografia amatoriale dei villeggianti e dei più occasionali escursionisti, che per compilare i loro appunti di viaggio non di rado ricorrevano alla stereoscopia,[13] la più diffusa forma spettacolare per immagini antecedente alla nascita ed al primo sviluppo del cinema. Era l’avvento dell’istantanea, favorita dall’accoppiamento tra le nuove emulsioni rapide alla gelatina e il piccolo formato delle lastre, che consentiva ridottissimi tempi di posa offrendo la possibilità di rivivere poi, nella quiete ovattata del salotto di casa, le piccole emozioni e gli incontri con realtà vicine e tanto distanti dal quotidiano scenario urbano, a cui la visione tridimensionale restituiva un affascinante rilievo, emotivo non meno che spaziale. Osservando le  superstiti stereoscopie di Fino emerge chiaro anche in lui il piacere della notazione aneddotica, tra costume e memorie familiari; la loro funzione principale era diaristica, per nulla espressiva, come se a questa fotografia (senza e prima del colore) non fosse concesso altro statuto che quello della testimonianza, cui corrispondevano però una maggiore libertà di ripresa e meno preoccupazioni compositive. Non considerando le consuete, inevitabili riprese di soggetto familiare, analoghe a quelle che negli stessi anni andavano a riempire centinaia di album, tra loro simili e quasi indistinguibili se non per i diretti interessati, e solo per l’arco breve di poche generazioni a venire, le sue immagini di genere sono assimilabili alle Scene di vita e di lavoro che tanto successo avevano nei periodici amatoriali dei primi anni del secolo. Ne “Il Progresso Fotografico”, in particolare, dove vennero pubblicate sotto questo comune  titolo fotografie di autori tra loro diversissimi quali Wilhelm Von Gloeden e Andrea Tarchetti[14], lontane nella loro impostazione bozzettistica dall’attenzione propriamente etnografica che autori come Vittorio Sella e Domenico Vallino dedicavano alle valli biellesi e valdostane[15].  L’attenzione di Fino non era sistematica, non lascia intuire un progetto documentario, ma non si applicava neppure alla descrizione di eventi eccezionali, destinati a nutrire l’immaginario piuttosto che a coltivare il ricordo. Le sue sono sì cronache, ma familiari, dove l’attenzione si esercita sui piccoli fatti non memorabili, su occasioni quasi quotidiane, destinate a trasformare ogni più minuto evento in piccolo spettacolo salottiero piuttosto che a offrire alle generazioni prossime le memorie visive della propria famiglia. Erano, queste fotografie, un’altra forma di affabulazione, dove lo spiccato effetto di realtà della visione stereoscopica, il realismo sorprendente della loro tridimensionalità virtuale offriva una vividezza più prossima alla trasmissione orale del racconto che all’ufficialità dei ritratti di studio. Obbedivano a una logica inversa alla sintesi propria dell’immagine simbolica, dell’icona in grado di racchiudere in sé l’essenza della persona. O dell’evento. Questa intenzione, occasionale e privata, ben corrispondeva allo spirito del concorso del 1906 in cui per la prima volta si era segnalato. E al silenzio successivo.

Il nome di Fino non compare infatti fra gli iscritti al Club d’Arte, fondato a Torino nello stesso anno,  che raccoglieva al proprio interno pittori, allievi dell’Accademia e fotografi, ma neppure nelle diverse esposizioni promosse negli anni successivi da “La Fotografia Artistica” (1907[16]) o dalla Società Fotografica Subalpina (1907, 1908), dal Photo-Club (1909, con una piccola sezione dedicata alle autocromie), dal Circolo Principe Eugenio e simili. In assenza di qualsivoglia documentazione, nulla ci è dato sapere delle ragioni che lo tennero lontano dalla vita fotografica dopo una prima occasione certo non insoddisfacente. Possiamo solo prenderne atto; segnalare il momento della ripresa, subito di notevole rilievo: per le sue autocromie stereoscopiche Ferdinando Fino venne premiato con Medaglia d’argento della Società Artistica e Patriottica[17] nell’ambito del Concorso nazionale di Fotografia collegato all’Esposizione Nazionale d’Arte e d’Industria Fotografica di Milano.  “Nelle prove a colori  (autocromie) chi si è fatto grande onore è Ferdinando Fino di Torino con venti stereoscopie autocromiche 6×13 che potevano dirsi d’effetto meraviglioso”[18],  commentava in quell’occasione il redattore de “Il Progresso Fotografico”, in una recensione insolitamente molto critica nei confronti del livello medio delle opere in mostra, nella quale ad esempio  non era riservata più che una citazione per Luigi Pellerano, certo allora il nome più noto tra gli autocromisti italiani e di lì a poco autore di un fondamentale testo in materia[19], il quale a proposito della stessa mostra affermava che “Coloro che hanno osservato allo stereoscopio delle autocromie come quelle del Signor Fino all’Esposizione di Milano di quest’anno non hanno potuto impedirsi di gridare «Ma è la verità assoluta!».”[20] Nella sua nuova stagione fotografica Fino confermava l’uso della stereoscopia, ma si misurava con la novità dirompente, assoluta, oggi incommensurabile del colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel (Gabriel Lippman, 1908). La nuova tecnica dell’autocromia[21], che forniva la prima soluzione praticabile su larga scala al problema della fotografia a colori, doveva rappresentare per Fino non tanto una curiosa novità tecnologica quanto il riconoscimento della possibilità di esprimersi al meglio proprio attraverso l’uso della gamma cromatica,  trait d’union con la sua passione di pittore dilettante e con gli amici pittori [22].  Con l’utilizzo del colore il riferimento non poteva che essere costituito dall’universo culturale e dal patrimonio iconografico della Pittura, non solo pieno di suggestioni per definizione nobili, ma che gli era già prossimo per le sue passioni personali e, forse, per le sue frequentazioni. È qui, in questo ambito e in questa pratica che Fino riconobbe e si concesse quelle possibilità di espressione che sembravano assenti e certo meno urgenti nella produzione in bianco e nero. Come per molti amateur suoi contemporanei l’intenzione fotografica era non solo molteplice, ma distinta e quasi separata:  una vera e propria ‘distanza’ tra ambiti solo apparentemente contigui.

La prima presentazione del procedimento autocromico era stata fatta nel 1904 dai Fratelli Lumière nel corso della XII sessione dell’Unione Internazionale di Fotografia[23], cui fece seguito una ben orchestrata campagna pubblicitaria internazionale, che coinvolse le più influenti testate, i maggiori notisti di fotografia e gli stessi inventori in prima persona[24]. Se ancora nel giugno 1905 un critico come Léon Vidal parlava in modo misterioso dei primi risultati, annunciando di essere “alla vigilia del più notevole dei progressi compiuti dalla fotografia”[25], già in luglio sulle pagine dello stesso periodico[26] Armando Gandolfi avrebbe citato il nome degli inventori e spiegato il procedimento nei suoi dettagli, mentre nel 1907, anno della sua commercializzazione, la presentazione italiana del nuovo processo, in occasione dell’Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica promossa da “La Fotografia Artistica”, venne affidata all’ingegner Ernesto Mancini, Segretario dell’Accademia dei Lincei, con una conferenza dedicata a La photographie aux plaques autochromes des Frerés Lumière, poi pubblicata integralmente.[27] La nuova tecnologia, e il nuovo prodotto, suscitarono immediatamente grandissimo interesse e attenzione da parte della stampa più qualificata: oltre al già citato “La Fotografia Artistica”, anche il prestigioso periodico inglese “The Studio”, ad esempio, dedicò nell’estate del 1908 un numero speciale alla fotografia a colori, di fatto incentrato tutto sulla novità delle autocromie, con immagini tra gli altri, di J. Craig Annan, Alvin Langdon Coburn, Baron A. De Meyer, Franck Eugene, Heinrich Kühn e George Bernard Shaw.[28]  L’elemento di attrazione era costituito non solo dal fascino divisionista (e quindi eminentemente moderno, in quegli anni) della grana colorata di queste immagini, ma anche e soprattutto dalle possibilità offerte di affrontare con strumenti linguistici nuovi il tema del  paesaggio con cui la fotografia artistica si era a lungo misurata e che continuava ad essere considerato centrale anche nei primi decenni del Novecento. Per queste ragioni si sviluppava e si definiva progressivamente,  attraverso numerosi contributi, una precisa estetica dell’autocromia, dove la riflessione più ampia sui valori artistici della fotografia, nata in ambito stilistico col pittorialismo, ora  si misurava e provava a  fondarsi sulla nuova possibilità tecnologica, di cui si sottoponevano a verifica le potenzialità linguistiche, espressive, contribuendo a definire quello specifico fotografico che avrebbe costituito di lì a poco uno dei canoni del modernismo fotografico. Così nella prefazione al già citato Colour Photography, 1908, contro la tendenza quasi ovvia di instaurare un confronto con la pittura, il curatore riteneva che fosse “del massimo interesse per la fotografia di essere considerata di per sé, e che qualsiasi successo artistico potesse essere raggiunto sarebbe stato giudicato più opportunamente per i propri meriti piuttosto che secondo gli standard stabiliti dal pittore o dall’incisore. I tentativi di riprodurre gli effetti ottenuti da questi artisti sono in sé stessi opposti allo spirito della vera fotografia, e mostrano una mancanza di apprezzamento delle possibilità dell’apparecchio fotografico, e delle possibilità che offre per il raggiungimento di effetti originali”. [29] Gli faceva eco nello stesso anno Edoardo Bertone di Sambuy sollecitando i fotografi autocromisti a “arrivare a formare un solo essere col proprio apparecchio. Bisogna che il nostro occhio, nell’osservare il soggetto, lo possa vedere così come sarà riprodotto sulla lastra autocroma”[30], aprendo così la strada a una concezione puramente fotografica, al pensare fotograficamente non il soggetto ma il soggetto fotografato. Più in particolare ciò che veniva immediatamente riconosciuto e apprezzato, ma anche sentito come vincolo, era l’assoluta esattezza di queste immagini, “fedeli alla natura più di quanto la Natura sia fedele a sé stessa, così implacabilmente precise da costituire in effetti un’alterazione”, imponendo al critico di “scoprire quale modalità di struttura estetica fosse possibile erigere su questa base.”[31] Ciò era particolarmente urgente proprio per la fotografia di paesaggio, nella quale la distanza tra l’osservazione dal vero (dove la purezza dei singoli colori è mediata dalla percezione) e la visione dell’autocromia (dove i colori sono registrati distintamente, sulla base delle loro specifiche caratteristiche fisiche) era maggiore e quasi incolmabile, tanto da “provocare un acuto senso di shock (…) poiché non vi è nulla di più fragile della bellezza di un colore.”  In anni in cui la battaglia pittorialista aveva fatto coincidere le possibilità artistiche della fotografia con le manipolazioni operate dall’autore, questa impossibilità d’intervento era vista come un limite insormontabile, arrivando a dire che “la strada della tecnica resta preclusa al fotografo autocromista per raggiungere l’Arte, poiché, per le caratteristiche stesse del processo, viene automaticamente escluso da ogni possibile intervento, da ogni eventuale manipolazione, perdendo di fatto la propria libertà, il proprio arbitrio, così che anche l’intervento  una delle altre due strade con cui il fotografo può sperare di raggiungere la vetta della Collina Sacra risulta rigidamente sbarrata”.[32]  Restava – secondo Dixon Scott – solo quella forma di artisticità fotografica, di espressione del temperamento che definiva “creazione per isolamento”, corrispondente cioè alla scelta del soggetto e soprattutto al taglio operato dall’inquadratura. In questa poetica del frammento risiedevano le possibilità estetiche dell’autocromia, così come la fotografia di genere, il ritratto e la natura morta erano ritenuti i soli ambiti espressivi in cui il fotografo, nel chiuso del proprio studio, poteva ritornare a essere il deus ex machina, lasciando all’apparecchio il solo compito di registrare la scena accuratamente composta e cromaticamente accordata. Analoghi limiti nella resa del colore e, in apparente contraddizione, di immodificabile precisione erano individuati anche dal critico Robert de la Sizeranne[33], ma puntualmente contestati da un noto autocromista come Antonin Personnaz, che rifiutando le distinzioni tra soggetti e generi diversi individuava le possibilità espressive del fotografo nel momento della scelta del motivo e della sua restituzione sulla lastra, prestando particolare attenzione alla scelta degli obiettivi e all’illuminazione del soggetto, imparando dai grandi maestri ad utilizzare i più opportuni accostamenti cromatici: “Corot gli mostrerà che la sola cuffia rossa di una contadina basta a esaltare il verde di un paesaggio.” [34] Il colto richiamo pittorico di questo compagno di strada degli impressionisti forse non sfuggì a Fino, che popolava le sue autocromie di analoghe soluzioni, ma questa pratica di armonizzazione preventiva del soggetto doveva costituire la regola per chi si misurava con quelle prime immagini a colori: “L’autocromista paesista – consigliava Pellerano nel suo manuale – nella macchina, con le lastre, ha dei fazzoletti di seta e di cotone, berretti da contadini, sciarpe, veli rossi, verdi, violetti, d’ogni tono e d’ogni colore. (…) Questo bazar ambulante, come si può pensare, serve a compensare quel che talvolta la natura non dà, a dipingere la stessa natura con cose colorate e magari con lo stesso pennello, imbellettato all’occorrenza, ma sempre con perfetta maestria d’arte. (…) Egli metterà un rosso (un fazzoletto al collo, in testa a una contadina, un velo) dove gli piace; là un giallo pallido (distendendo magari delle stoffe) oppure un tendaggio damascato.”[35]

Quasi una sintesi descrittiva della produzione di Fino, per come è testimoniata dalle autocromie che qui presentiamo e suggerita dai titoli di quelle offerte ai suoi corrispondenti. Dopo il buon risultato ottenuto all’esposizione milanese del 1909 non pare abbia preso parte ad altre occasioni espositive sino al 1911, quando nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia si tenne a Torino l’Esposizione internazionale delle industrie e del lavoro, che comprendeva anche un Concorso Internazionale di Fotografia.[36]  Tra le “2000 opere di fotografia artistica, scientifica e industriale di circa 250 espositori [ospitate] nella grande sala circolare che chiudeva ad anello il salone dei concerti” [37] nel Palazzo delle Feste, si segnalavano ancora una volta le autocromie stereoscopiche di Fino, “ottime sia come scelta di soggetti che come freschezza di colore (…), fra cui ricordiamo specialmente. La ‘Rosa delle Alpi’, la ‘Pineta’, ‘Sulle Alpi Graie’, ‘Prato alpino’, ‘Alba grigia’.”[38] La partecipazione e il successo ottenuto consentirono a Fino anche di avviare una proficua serie di rapporti professionali, documentata dall’unico suo copialettere fortunosamente superstite[39], che puntualmente li registra almeno per gli anni dal 1912 al 1916, lasciando però intuire rapporti antecedenti.[40] Questa fonte risulta particolarmente interessante per quanto ci consente di comprendere, se non delle sue intenzioni artistiche, almeno del suo modo di operare; di questa passione cui riusciva a dedicare solo “le domeniche libere” per “aggiornare il mio lavoro per poterle mandare delle fotografie di montagna, con grande dovizia di neve.”[41] E ancora: “In febbraio marzo aprile andai otto volte in montagna e su otto, sette domeniche presi neve, tramontana, senza poter far nulla (…) mentre una volta sola fui fortunato e potei prendere qualche veduta. Da domenica a ieri (giovedì) andai nei dintorni di Rapallo per prendere vedute di mare. Devo ancora svilupparle, però il mare mosso e il vento sugli alberi mi furono contrari[42] e non so a cosa avrò approdato nei miei tentativi. Appena avrò una piccola collezione (spero fra una ventina di giorni) glie la spedirò, e lei sceglierà. Intanto viene giugno e allora sono certo di poter preparare e ripetere quelle che avevo all’Esposizione per mandargliele.  Creda però che non potendo trar copie dalle fotografie a colori[43], per quanto il prezzo di £. 20 possa parer caro, alla fine di tutti i conti, le spese e le fatiche, non sono compensate dal guadagno materiale. Utile certo per me è quello di soddisfare con minor spesa alle mie aspirazioni di far passeggiate, di gustare le meraviglie della natura, ammirandole e procurandomene qualche ricordo fotografico quando la fortuna mi permette di prendere due volte la stessa veduta. (…) Noti poi che, quando le lastre sono nei telai, e che per due tre settimane non sono usate (come successe a me nel cattivo tempo) devono essere buttate via perché diventano inservibili.”[44] Il procurarsi “qualche ricordo fotografico” delle “meraviglie della natura” risulta quindi il solo scopo dichiarato della sua pratica fotografica, nulla più che “un’arte di diletto (…) il vaso di umili fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[45], sebbene non trascurasse l’occasione di ottenere un qualche piccolo introito, sempre meno occasionale e benvenuto “tanto più che, colle prospettive poco rosee che la nostra industria mi riserva, qualche po’ di guadagno extra non mi riesce certo inopportuno.”[46] Non fosse che per questo Fino si impegnava con Italo Carboni, certo il suo committente più importante, proponendo vere e proprie campagne documentarie per soddisfare richieste che andavano ben oltre la produzione ‘artistica’ presentata all’Esposizione del 1911. “Qui in Piemonte abbiamo qualche bella chiesa di puro stile del 1000 – e del 1500, come l’Abbazia di Vezzolano presso Albugnano d’Asti – o la chiesa di Sant’Antonio di Ranverso in Val di Susa presso Avigliana; degni di fotografia sono pure tutti i castelli della Valle d’Aosta, pei quali gli sfondi di Alpi con neve non mancano di rendere attrattivissime le vedute. Ma la Val d’Aosta è così mal servita da treni ferroviari, che dovrei aspettare che le strade diventassero buone” gli scriveva nel febbraio del 1912[47], e certo la proposta dovette essere accolta, avviando una serie di commesse di cui allo stato attuale delle nostre conoscenze non siamo in grado di comprendere le ragioni, restando indefinita la figura e l’attività del committente.[48] La richiesta più impegnativa riguardava gli ambienti del Palazzo Reale di Torino, per i quali era necessario superare difficoltà di ordine burocratico quanto tecnologico: occorsero infatti ben nove mesi per ottenere l’autorizzazione dell’ Amministrazione della Real Casa,  ma “finalmente – nel giugno 1913 –  dopo mille rigiri per avere il permesso di fotografare la camera di Re Umberto questo mi fu negato, come a tutti è negato, potrei però eseguire quelle dello scalone, salone degli svizzeri, sala da ballo, pranzo ecc. per le quali ebbi il permesso.”[49] La realizzazione si presentò poi tanto difficoltosa quanto scarsamente remunerativa: “in omaggio alla deferenza che Ella ebbe sempre per me, scriveva a Carboni nell’agosto del 1913[50] – ho mantenuto il prezzo di £ 20 caduna, quantunque, specialmente per gli interni del Palazzo Reale, io finisca per rimetterci, essendoché per ogni veduta, come già le accennai, dovetti farne tre per la RR. Casa, e per avere una veduta buona, senza macchie, graffiature ecc, dovetti farne diecine per ogni soggetto! In compenso, tanto più che i risultati per la maggior parte d’esse sono eccellenti, mi fido perfettamente della di Lei correttezza, ed oso sperare non me ne rifiuterà alcuna del Palazzo Reale onde compensarmi in parte di un mese di lavoro! Noti che in quegli interni ho dovuto dare pose di 1-2 e più ore[51], ed il pubblico che visitava, passando, non di rado mi rovinò l’opera mia! (…) Dimenticavo di dirle che per la disposizione infelice della luce e per l’ampiezza dell’angolo visuale che le attuali macchine fotogr[afiche] stereoscopiche non possono abbracciare, o [sic] dovuto scartare lo scalone d’onore ed il Salone degli Svizzeri, viceversa mi sono barcamenato in modo da darle una collezione dei punti migliori e decentemente fotografabili a colori del ns. Palazzo Reale.” Il committente, che pare conoscesse piuttosto bene le stesse Valli di Lanzo,  non dovette però ritenersi soddisfatto: “Quanto al Salone degli Svizzeri ed allo Scalone d’onore, ritenterò la prova – gli comunicava Fino una settimana più tardi – tanto per dimostrarle che cerco di contentarla, ma siccome mi sarebbe passiva la fattura di 4 lastre per qualità, come mi fu passiva per le 10 mandatele, userò l’astuzia di dire all’Amministraz.  della R.C. che non mi sono riuscite, e così farò a meno di ripetere pose di 3-4 ore! (…) La veduta N.15 (se non erro dove sul sentiero è ferma una donna colla gerla) è realmente la perinera, ed il campanile non ha nulla a che vedere con quello della Cappella di Benot, al quale assomiglia però, data la comunanza del tipo architettonico contemporaneo delle chiese delle vallate di Lanzo. Per l’interno della cappella, credo che non ci sia interesse, ad ogni modo se sarà fotografabile e degna di nota, ad una mia eventuale gita colà lo tenterò per lei.”[52] Negli anni immediatamente successivi all’ Esposizione del 1911 le occasioni di lavoro fotografico sembrano moltiplicarsi, nei più diversi settori: dalla documentazione d’arte, con la riproduzione di dipinti di Vittorio Avondo su richiesta di Emanuele Celanza[53], alla realizzazione di alcuni interessanti studi di nudo, forse realizzati su richiesta di Alfredo Canova, residente a Lima ma conosciuto a Torino proprio nel 1911[54]. Il tema non era certo inconsueto neppure per la fotografia, che sin dai primi dagherrotipi aveva offerto un’ampia produzione di nudi, specialmente femminili, in una gamma estesa di trattamenti che andava dallo ‘studio artistico’ all’immagine licenziosa o esplicitamente pornografica, affidandosi non di rado all’iperrealismo della resa stereoscopica per ottenere un di più di sollecitazione sensoriale, certo accentuato dal vincolo di una visione che non poteva che essere individuale ed esclusiva: privata. Questo sembra essere stato l’ambito di maggior diffusione, la destinazione privilegiata, tanto che il tema scorre quasi sotterraneo e certo non risulta essere stato tra quelli qualificanti delle prime ricerche, esplicitamente artistiche, come quelle poste in essere dai fotografi pittorialisti, nel cui ambito sono rari gli autori che lo hanno affrontato sistematicamente. Nessun nudo venne presentato alla grande Esposizione internazionale di Fotografia Artistica che si svolse a Torino nel 1902; nessun nudo integrale comparve mai sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, a riconferma di uno scarso interesse degli autori italiani per il tema, ma anche la più autorevole “Camera Work” ospitò quasi solo i corpi simbolisti, immersi nella natura di Anne W. Brigman. Non era quindi alla cultura fotografica che Fino poteva guardare per concepire le proprie immagini, ma all’iconografia pittorica, specialmente accademica, sebbene alla predilezione di molti per Ingres quale modello[55] egli doveva preferire Delacroix (Linda, I), o per meglio dire le fotografie che Eugène Durieux aveva realizzato sotto l’attenta regia del pittore circa mezzo secolo prima[56]. Riferimento fotografico difficile da ipotizzare con verosimiglianza, quasi impossibile. Più criticamente plausibile una mediazione iconica, per la relativa buona circolazione dei modelli sotto forma di riproduzioni con diverse tecniche, non ultima proprio quella fotografica, e per le relazioni forti con l’ambiente artistico torinese di cui costituiscono più che un indizio alcune immagini e alcuni documenti. Michelina (modella nello studio del comm. Grosso), dichiara sin dal titolo il luogo della sua realizzazione e si presenta come un’interpretazione fotografica del notissimo dipinto del 1896, mentre (Linda, II), si ispira a sua volta a una delle tante varianti realizzate dal pittore dopo lo scalpore e il successo de La nuda[57]. Ribaltando una consuetudine propria di tutto il XIX secolo e oltre, Fino non realizzava fotografie per i pittori, ma ne utilizzava le risorse (studi, modelle, opere) per scopi personali. Qui l’atelier  non è neppure più pretesto per mostrare il corpo nudo, è semplice scenografia, ambientazione tra le tante possibili, facilmente sostituibile da quei “tendaggi damascati” che suggeriva il manuale di Pellerano o addirittura da un contesto ambientale quasi domestico, sebbene ingombro di piccoli quadri, tenuto in ombra e un poco fuori fuoco come nel bel Busto di giovinetta, certo il meno convenzionale, il più moderno dei suoi nudi, dei quali merita però sottolineare come fossero, tutti, esercizi di grande virtuosismo tecnico, per le lunghissime pose necessarie per le riprese in interni, rispetto alle quali certo risultava fondamentale la capacità professionale delle modelle coinvolte, sebbene non dovesse essere questa qualità ad attrarre i suoi possibili acquirenti.

Il rapporto diretto con alcuni esponenti del mondo artistico piemontese, tra Accademia Albertina e soggiorni a Viù, favorito forse anche da alcuni legami parentali, dalla sua primaria passione per la pratica pittorica, testimoniato da queste immagini e da alcune lettere[58], è confermato proprio dalle fotografie a colori di Ferdinando Fino, che nella scelte compositive e di trattamento dei soggetti mostrano una consuetudine con il paesismo piemontese e con certa pittura coeva che si traduce immediatamente in adesione stilistica, tradotta nelle nuove forme espressive consentite e – di più – suggerite dalle particolarità tecniche dell’autocromia. “Non si può immaginare, se non si osserva, l’effetto eminentemente suggestivo che danno le autocromie stereoscopiche – scriveva Rodolfo Namias[59] – Congiungere colori naturali e brillanti coll’effetto di rilievo e di forma costituisce per l’occhio un godimento che niente può superare.” La pubblicazione di queste immagini, così come la loro esposizione sotto forma di stampa a immagine singola, certo priva l’osservatore odierno di questa affascinante esperienza, rendendo meno evidenti le intenzioni del fotografo, poiché la visione monoculare conserva certo gli elementi cromatici e la struttura compositiva, ma annulla  quell’effetto di profondità spaziale che ne costituiva il tratto distintivo, e a cui Fino prestava particolare attenzione specialmente nelle riprese di paesaggio, in cui questa era risolta non solo mediante la scelta di un opportuno punto di vista, che consentisse una graduale distribuzione dei volumi o sottolineando opportunamente il punto di fuga (si noti l’alberello posto al centro di Paesaggio), ma anche giocando sulle diverse luminosità della scena, collocando le ombre più profonde in primo piano (Alba sul Monte Civrari). Luce e colore, un colore iperrealistico e vivo nella mutevole osservazione per trasparenza[60], erano il vero tema di molte riprese, giocate sulla variazione quasi monocromatica: dalla penombra fredda, quasi vespertina del sottobosco (Lo stagno), argomento di diverse riprese, una delle quali (Poesia autunnale) facilmente accostabile a Nel bosco, di Petiti[61], datato 1914,  alla saturazione piena dei rossi aranciati (Nel regno dei larici) e dei verdi (Mulattiera presso Usseglio?), alle infinite combinazioni intermedie (Bosco in collina, Alberi in autunno). L’ambiente è alpino, quasi sempre, o campestre: non gli interessava la città né la vita che vi si svolgeva. Anche le sue figure sono ambientate tra prati e boschi. Alcune non sono nulla più che versioni a colori delle consuete immagini escursionistiche (Borgata Porcili presso LemieViù: Versino), ma la maggior parte di quelle rimaste mostra con quanta sensibile attenzione Fino guardasse alla produzione piemontese di derivazione fontanesiana, senza per questo escludere suggestioni diverse e di differente ispirazione, sino a produrre quasi un repertorio fotografico di soluzioni pittoriche nelle quali la figura gioca un ruolo importante, pur senza essere fondamentale. Sono scene di genere, con pastorelle e valligiane che paiono attendere ai loro lavori, ma non si tratta di istantanee. Nulla di più estraneo all’operare di Fino di ogni intenzione etnografica. Non gli apparteneva la volontà di superare “i prodotti del pennello in fedeltà e verità nel ricordarci la vita vissuta, palpitante di movimento, producendo una freschezza di impressioni che difficilmente sono a portata della paletta” [62]. Le sue scelte erano frutto del convergere di due intenzioni: la volontà di produrre immagini di valore artistico e la necessità di  “trovare i tipi che realmente posino con arte e naturalezza: ma in campagna si troveranno sempre, e sono i contadini, mentre non è facile trovare negli abitanti della città espressioni tanto naturali.”[63]  Quando neppure i villici soccorrevano alla bisogna, poteva essere la moglie a prestarsi come modella per arricchire una scena agreste (Sull’altipiano di Benot, la figura a sinistra) o realizzare efficaci composizioni sul tema della figura nel paesaggio (Meditando; Alla sorgente), accordate cromaticamente nello scrupoloso rispetto dei canoni espressi dalla pubblicistica coeva, senza mai far mancare quella cuffia rossa che sembra essere stata il marchio distintivo di quel sereno mondo color pastello raccontato dalle autocromie amatoriali. Quello che la Grande guerra si sarebbe premurata, di lì a poco, di cancellare.

 

 

Note

 

[1] L’Unione Escursionisti Torinesi (U.E.T.) venne fondata nel settembre del 1892 per iniziativa di Silvestro Fiori e Luigi Ardizzoia, allo scopo di “curare lo sviluppo dell’amore per l’escursionismo; promuovere, organizzare e dirigere comitive per gite in montagna ed in pianura alla visita dei luoghi che presentano maggiore interesse per attraenza di bellezze naturali e per ricordi storici od artistici; incoraggiare ed aiutare gli studiosi alle ricerche istruttive.”, cfr.  “L’Escursionista”, 4 (1902), n.8, 7 agosto, p.4. Erano soci negli anni immediatamente successivi alla fondazione architetti come Mario Ceradini, Gottardo Gussoni e Cesare Bertea, studiosi come Ercole Bonardi ed Edoardo Barraja, l’avvocato Carlo Reynaudi, autore ed editore di una fortunata serie di Guide turistiche, fotografi come Emanuele Elia Treves (collaboratore della “Gazzetta del Popolo”, tra i fondatori della Società Fotografica Subalpina), Mario Gabinio, Giancarlo Dall’Armi, lo scultore Tancredi Pozzi, gli  editori  Francesco Casanova e Simone Lattes. L’attività dell’associazione era sostenuta da altre collaborazioni prestigiose come quella di Riccardo Brayda, dal 1898 fino alla morte, di Giovanni Vacchetta e di Federico Sacco, ma la rete di relazioni intessuta tra i diversi gruppi a livello regionale è tale che scorrendo le pagine del  “L’Escursionista” si  incontrano altri nomi di esponenti di spicco della cultura e della fotografia piemontesi come Francesco Negri e Pietro Masoero.

[2] A.T., Notizie fotografiche, in “La Fotografia Artistica”, 3 (1906), n. 12, dicembre, p. 204. Ricordo che l’Unione Escursionisti aveva partecipato anche all’Esposizione di Fotografia di Torino del marzo 1900. In quell’occasione  “La Valle di Viù fu illustrata assai bene da Federico Filippi, il quale lascia molto bene sperare di sé per le sue vedute in formato 9×12.”, Ugolino Fadilla, L’Esposizione fotografica a Torino,  “Gazzetta di Torino”, 5 marzo 1900, p.4. La mostra del 1906 ebbe tra i propri organizzatori Mario Gabinio, di cui era già relativamente noto il lavoro dedicato alle Valli di Lanzo, ma non paiono esservi state relazioni dirette o di amicizia tra i due: tra le 475 stampe originali  e le decine di lastre di sessanta autori diversi comprese nel Fondo Gabinio della Fondazione Torino Musei non compaiono immagini  di Fino, cfr. Mario Gabinio. Valli Piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna, 2000.

[3] Non solo per i limiti geografici stabiliti da questo progetto dedicato alle Valli di Lanzo, è bene avvertire che lo studio della sua figura di fotografo, e della sua produzione, è inevitabilmente condotto su quanto di lui si conosce allo stato attuale, cioè sulle immagini superstiti: non più di un migliaio di fototipi tra lastre monocrome e autocromie, tutte stereoscopiche, ma nessuna stampa. Questo patrimonio consente certo di valutare opportunamente la sua produzione in bianco e nero, meno le più interessanti autocromie che – come dimostra il copialettere – venivano regolarmente vendute almeno a partire dai mesi successivi all’Esposizione del 1911 e sono quindi disperse (semmai superstiti) in archivi di famiglia italiani e stranieri, in fondi non ancora indagati di pittori torinesi, e delle quali ci restano soltanto – in non pochi casi – i titoli originali.

[4] Non è questa la sede per ripercorrere le vicende della storia della fotografia in Piemonte nel XIX secolo, ma credo sia utile richiamarne alcuni caratteri salienti, in particolare la pratica amatoriale svolta ad altissimo livello e sovente con esiti pionieristici.  Si pensi ad esempio ai numerosi rappresentanti della borghesia imprenditoriale come Giuseppe Venanzio Sella, Emilio Gallo o Cesare Schiaparelli, nei quali si associavano competenze tecnologiche e imprenditoriali, tanto da poter quasi dire di una fotografia dell’età industriale, dove industriale è per la prima volta la produzione e quasi solo industriali (sebbene per poco) furono molti dei suoi cultori. A questi si aggiunsero i rappresentanti delle professioni: i medici, i farmacisti (ritorna, ancora, inevitabilmente la dimestichezza con la chimica), gli ingegneri ma soprattutto gli avvocati, come Secondo Pia. Tra questi va ricordato, di poco più giovane di Fino, almeno Domenico Riccardo Peretti Griva (Coassolo 1882 – Torino 1962) che fu uno dei dilettanti appartenenti alla storica Scuola Piemontese di Fotografia Artistica (così denominata da Schiaparelli), che insieme ad Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Carlo Baravalle, Mario Gabinio  Cesare Giulio, Italo Bertoglio e pochi altri segnarono la modernità della fotografia italiana tra le due guerre mondiali.

[5] G[uglielmo] Ferrari, Esposizione fotografica. La fotografia artistica, in “La Stampa”, 34 (1900), n. 67, 8 marzo, p. 3.

[6] Agostino Ferrari, Catalogue de Photographies de la Châine des Alpes, des Appennins, des Pyrenées, du Caucase, de l’Himalaya, etc., 1902 e 1902-1907, dattiloscritto, Torino, Museo nazionale della Montagna, Centro di Documentazione. A conferma di questo dato ricordiamo che nessuna immagine di Fino venne utilizzata dallo stesso Ferrari per il volume La Valle di Viù. Torino: Lattes, 1912.

[7] Vincenzo Fino, Notizie mineralogiche sulle Valli di Lanzo, in Club Alpino Italiano, sezione di Torino, Le valli di Lanzo: Alpi Graie. Torino: G. B. Paravia e C., 1904, pp. 491-507. Per la preparazione della monografia il CAI aveva indetto un concorso fotografico e una successiva mostra alla quale avevano preso parte tredici autori con ben seicento fotografie.

[8]Carlo Ratti, Da Torino a Lanzo e per le Valli della Stura. Torino: F. Casanova, 1883, pp. 6-7. Nonostante il richiamo all’attività dei fotografi, il volume è però illustrato da sole riproduzioni di disegni.

[9] Aldo Audisio, Bruno Guglielmotto Ravet,  Valli di Lanzo ritrovate fra Ottocento e Novecento: 1860-1930.  Ivrea: Priuli & Verlucca, 1981.

[10] Cfr. Giuseppe Garimoldi, Alle origini dell’alpinismo torinese. Montanari e villeggianti nelle valli di Lanzo. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1988. p.55; Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990; Pierluigi Manzone, a cura di, Un repertorio dei fotografi piemontesi 1839-1915, in Id., a cura di, Fotografi e fotografia di provincia: Studi e ricerche sulla fotografia nel Cuneese. Cuneo: Biblioteca Civica di Cuneo, 2008, pp.11-119.  Segnalo qui che ancora nel 1911, all’Esposizione di fotografia, Zeno Flamia di Vinovo, presentava un Album di vedute della Valle di Lanzo e della Valle di Viù, cfr. Esposizione internazionale Torino 1911, Catalogo ufficiale illustrato dell’Esposizione e del concorso internazionale di fotografia,  Torino, aprile-ottobre 1911. Torino: G. Momo, 1911, p.10, n.22.

[11] Per le vicende costruttive della ferrovia rimando a Cristina Boido, Chiara Ronchetta, Luca Vivanti, a cura di, Torino – Ceres e la Canavesana. Itinerari ferroviari piemontesi. Torino: Celid, 1995.

[12]Citato in Rinaldo Rinaldi, a cura di, Un inglese nelle Valli di Lanzo. Dalle note di viaggio di Samuel Butler. Lanzo: Società Storica delle Valli di Lanzo, xlviii, 1995, p.8 passim.  Butler era allora in Italia su incarico del proprio editore che gli aveva offerto 100 sterline per la realizzazione di un libro illustrato sul nostro paese, poi rifiutato e pubblicato a spese dell’autore: Alps and Sanctuaries. London: David Bogue, 1882. Sull’uso della fotografia da parte dello scrittore inglese si vedano: Elinor S. Shaffer, Erewhons of the eye : Samuel Butler as painter, photographer, and art critic. London: Reaktion Books, 1988; Samuel Butler, the way of all flesh : photographs, paintings watercolours and drawings by Samuel Butler (1835-1902),  catalogo della mostra (Bolton, 1989). Bolton:  Bolton Museum and Art Gallery, 1989.

[13] Inventata nel 1832 da sir Charles Wheatstone, ma  messa a punto fotograficamente solo nel 1849 da sir David Brewster (già inventore del caleidoscopio) ed enormemente diffusa dopo l’Esposizione Universale di Londra del 1851, la visione stereoscopica aveva molto precocemente attratto l’attenzione dei pittori; si veda a titolo esemplificativo Alessandro Guardasoni, Della pittura, della stereoscopia e di alcuni precetti di Leonardo  da Vinci: pensieri. Bologna:  Soc. tip. Azzoguidi, 1880. L’attenzione per la pratica fotografica – sebbene quasi clandestina –  non era estranea all’ambiente dell’Accademia torinese, come dimostra la presenza nella Biblioteca dell’Albertina del volume di H.P. Robinson, De l’effet artistique en photographie: conseils aux photographes sur l’art de la composition et du clair-obscur, traduction française de la 2.e éd. anglaise par Hector Colard. Paris: Gauthier-Villars, 1885; più consueto invece il ricorso alle stampe fotografiche quali modelli di studio, non estraneo neppure a Fontanesi, ma praticato in particolare da Luigi Belli, cui si devono gli esemplari più importanti, specialmente di autori francesi, ancora attualmente conservati nel Fondo fotografico storico di questa istituzione.

[14]  Cfr. Andrea Tarchetti, notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli 1990; Miraglia 1990, p.75. Un analogo approccio bozzettistico è rintracciabile anche nelle fotografie coeve di Mario Gabinio, e nelle immagini di altri frequentatori delle Valli di Lanzo, cfr. Audisio, Guglielmotto Ravet 1981, nn. 42,43,65,94. Tra queste si segnala una ripresa realizzata a Benot da Guido Cibrario verso il 1913 (n. 137) che è analoga, quasi sovrapponibile alla veduta realizzata da Fino circa gli stessi anni (26881). Un’attenzione diversa, non bozzettistica ma empatica, per il mondo contadino delle valli piemontesi è invece quella testimoniata con grande anticipo,  per la generazione precedente, dai numerosi album di Vedute delle Valli Valdesi realizzati dal pastore David Jean Jaques Peyrot (Luserna San Giovanni, Torino, 1854 – 1915), tra i più rilevanti esempi di produzione fotografica di tutto l’Ottocento piemontese, in parte conservati presso l’Archivio Fotografico Storico del Centro Culturale Valdese di Torre Pellice.

[15] Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, s.d. [1890], (reprint Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1983). Per una presentazione critica dell’Album realizzato da Sella e Vallino rimando a P. Cavanna, Album di un alpinista fotografo,  “Alp”, 11 (1995) n.122, giugno, pp.124-127; Id.,  La montagna abitata di Domenico Vallino, “Rivista Biellese”, 3 (1999), n.1, gennaio, pp.51-58.

[16] Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica. Catalogo. Torino: Grafica Editoriale Politecnica [La Fotografia Artistica], 1907.

[17] Red., Il Concorso fotografico di Milano, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto, pp. III-IV.

[18] Red., Una Rassegna della Mostra Fotografica Nazionale di Milano,  “Il Progresso Fotografico”, 16 (1909), pp.217-221 (219). Tra i pochissimi autori a praticare il colore, Fino era il solo a lavorare in stereoscopia mentre Luigi Pellerano era il solo che risulti ancora attualmente noto.

[19] Luigi Pellerano, L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori. Milano: U. Hoepli, 1914.

[20]Luigi Pellerano, L’Autochromie et ses applications artistiques, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 8, agosto,  p.128, nota 1.

[21] Autocromia (sintesi tricromica diretta – sintesi additiva): sistema messo a punto dai Fratelli Lumière nel 1904 (commercializzato dal 1907) sulla scia delle intuizioni di Ducos du Hauron (1869) e delle sperimentazioni di Joly (1894), è reso possibile dalla scoperta del procedimento di sbianca di Rodolfo Namias. La luce impressiona una lastra b/n pancromatica rivestita da un filtro a mosaico a struttura casuale costituito da granelli di fecola, colorato nei colori primari blu, verde, rosso. La lastra, dopo sviluppo e inversione, viene osservata per trasparenza o per proiezione. Lo schermo tricromo in fecola di patata attirò da subito numerosi fotografi piemontesi, di diverse generazioni, tra i quali merita almeno ricordare  Italo Mario Angeloni, Giuseppe Gallino, Franco Manassero, Felice Masino, Pietro Masoero, Francesco Negri, il già citato Pellerano, anch’egli  membro dell’Unione Escursionisti, Secondo Pia, autore di poco meno di trecento autocromie,  Adriano Tournon, Giovanni Battista Vercellone e C. Schiaparelli, oltre a Anny Wild, unica donna a godere di una certa notorietà,  le cui fotografie vennero pubblicate ne “La Fotografia Artistica”  a partire dal luglio 1910. A conferma di un fenomeno ancora tutto da studiare nelle sue dimensioni effettive e nei suoi esiti, per la gran parte sconosciuti o dimenticati, mi limito a segnalare tra gli altri autori di cui resta memoria nei cataloghi delle esposizioni o negli archivi degli eredi quello di Francesco Ernesto Penna, a sua volta in relazione con Pia; cfr. Marco Albera, Francesco Ernesto Penna: un fotografo torinese alla Sacra di San Michele (1913), estratto da Italo Ruffino, Maria Luisa Reviglio della Veneria, a cura di, Il Millenio Composito di San Michele della Chiusa: Documenti e studi interdisciplinari per la conoscenza della vita monastica clusina, V. Borgone Susa: Melli, 2003. Sulla produzione di Pia si rimanda a Giuseppe Pia, Nota storica sull’Archivio di Secondo Pia, in Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981, pp.73-77, mentre l’attività di autocromista di Schiaparelli pare non aver lasciato traccia materiale, almeno per quanto risulta dalla monografia curata da Gian Paolo Chiorino, Cesare Schiaparelli fotografo paesaggista. Occhieppo Superiore: Ecomuseo Valle Elvo e Serra, 2003. La stessa Società Fotografica Subalpina organizzò conferenze e proiezioni per presentare questo nuovo metodo e i fratelli Lumière vennero nominati soci onorari dall’Assemblea del 30 aprile 1908.

[22] La possibilità di riprodurre le proprie opere a colori, dapprima col metodo della tricromia, aveva affascinato ad esempio già Segantini, che in un lettera a  Grubicy de Dragon del 1893 (n. 383) scriveva: “Caro Alberto, come ti ho già detto, a me pare che il sistema trovato dal Mora [cioè la tricromia] di riprodurre fach simile i quadri ad oglio [sic] è scoperta meravigliosa. ed io sono pronto a sostenerla, non solo moralmente, ma intendo di fare dei quadretti appositamente, di effetto afferrabile a tutti, e di sentimento intimo, onde abbiano con la delicatezza e serietà dell’arte (…) che seduce e affascina le anime buone, onde divolgare il gusto dell’arte (…) vera.” E ancora, a fine settembre 1897 (n.622): “Pei quadretti da riprodursi in Eleografia sistema Mora, bisognerà intendersi meglio per non fare un inutile lavoro.” Infine nel luglio 1899 (n.762): “Caro Alberto (…) Nell’ultima tua lettera ho trovato dentro dei campioni di riproduzioni a colori, per far questo bisognerebbe che avessi il tempo di starci dietro di persona.” Cfr. Annie-Paule Quinsac, a cura di, Segantini. Trent’anni di vita artistica europea nei carteggi inediti dell’artista e dei suoi mecenati. Oggiono – Lecco: Cattaneo Editore, 1985. Altrettanto, e forse più noto è il caso di Michetti che rivolgendosi a Carlo Tridenti, ch’era andato a fargli visita a Francavilla [1920ca], e stava guardando un gruppo di schizzi dal vero gli diceva: “«Lascia stare quelle porcherie e vieni qua se vuoi vedere la natura e il vero colore». E gli mostrava decine di angoli di prati in fiore, e di campi di zucche mature, fotografati da lui con lastre a colori, e proclamava che valevano molto più dei suoi quadri.”, citato in Silvio Negro, Album Romano. Roma: Casini, 1956, p. 16. L’episodio fa il paio con quello ricordato nei Taccuini di Ugo Ujetti: “Lino Pesaro [il gallerista] mi parla di Michetti. L’ha veduto giorni fa al convento di Francavilla. Che cosa ha di pronto Senatore? Quanti quadri vuole! Me li mostri, e Michetti lo conduce davanti ad uno schedario con diecimila schede grandi di cartone (…) in un angolo  un numero” che rimanda allo schedario delle fotografie “Come vede, qui lei ha 10.000 quadri. Perché non li fa? Ma per me sono fatti. E per il pubblico? Non me ne importa niente. Dovrei eseguirli. Facile ma noioso. Io, li vedo perfetti.”, citato in Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, in Francesco Paolo Michetti. Il cenacolo delle arti tra fotografia e decorazione, catalogo della mostra (Roma – Francavilla al Mare, 1999). Napoli: Fondazione Michetti – Electa Napoli, 1999, p. 15. Anche Rodolfo Namias, La Fotografia in Colori. L’Autocromia. I Processi Fotomeccanici in Colori. La Cinematografia in Colori. Milano: Edizioni “Il Progresso Fotografico”, 1930 (V ediz.), p. 201 ricordava di “aver inteso lui stesso dalla bocca di uno dei più eminenti artisti italiani, il compianto pittore F.P. Michetti [1851 – 1929], esaltare l’utilità delle lastre autocrome. Egli, dopo aver applicato largamente l’ordinaria fotografia come ausiliario utilissimo, trovò nelle lastre autocrome un ausiliario ben più prezioso.”   E così proseguiva: “oggi colle lastre autocrome l’artista può ottenere una riproduzione fedele del soggetto in pochi secondi, e può poi studiare l’immagine a colori con maggiore comodità e in modo più preciso che nella natura stessa. Si può dire che la prova autocroma insegna a vedere i colori e dovrebbe essere considerata come mezzo efficacissimo di preparazione artistica.” (Ivi, p. 20, che in realtà si appropriava  – senza citarlo – di intere frasi di Luigi Pellerano, L’autochrome, cit., pp.127-129). Di diversa opinione fu certamente Giuseppe Pellizza, nel cui Fondo fotografico non sono state ritrovate autocromie, cfr. Aurora Scotti, a cura di, Pellizza e la Fotografia: il fondo fotografico. Tortona: Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, 2007.

[23] Svoltasi in concomitanza col XIII Congresso delle Società fotografiche francesi a Nancy, dal 18 al 25 luglio, cfr. Pietro Masoero, Pro Annuario, in “Annuario della Fotografia Italiana”, 1905, VII, p. 191. Il processo di fabbricazione delle lastre era ovviamente coperto da segreto, tanto che anche un tecnico esperto come Namias ancora nell’edizione del 1930 del suo manuale si trovava costretto a fare abbondante uso di termini condizionali (“presumibilmente (…) sarebbe (…) Tale scelta è fatta con processo meccanico non noto, ma forse…”, Namias 1930, passim.

[24] Il nuovo procedimento era stato presentato in Italia dagli stessi Auguste e Louis Lumière, Sopra un nuovo metodo d’ottenere la fotografia dei colori,  “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1904, pp. 287-289.

[25] Leon Vidal, L’Art de peindre avec la photographie, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6, giugno, pp.1-2.

[26] Armando Gandolfi, La fotografia dei colori, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 7, luglio, pp.13-15. Un atteggiamento diverso fu quello della rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, che ancora nel 1908 e oltre pubblicava molte tricromie e insomma non parteggiava per i Lumière come i torinesi, forse influenzati (oltre che da legami di lunga data con la Francia) dalla presenza in città del concessionario per l’Italia del nuovo processo: la ditta Momigliano e Calcina, con sede in Via Bogino, 19 bis.

[27] “La Fotografia Artistica”, 4 (1907), n. 8, agosto, pp.122-128. L’attenzione di Mancini per la fotografia è testimoniata anche dalla sua relazione dedicata alla Fotografia stereoscopica, metodo Estenave, presentata al III Congresso fotografico italiano di Roma del 1911.

[28] Charles Holme, a cura di, Colour Photography and other recent developments of the Art of the Camera. London –  Paris – New York: “The Studio”, 1908.

[29] Charles Holme, Prefatory Note, Ivi,  p. A2. Anche in Italia c’era chi, da tempo, era convinto che “l’arte fotografica  deve formarsi un tipo proprio, deve essere fotografia e non incisione, o pastello o altro”,  Pietro Masoero, Studi e critiche: Arte fotografica, “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 10 (1898), pp. 161-171 (p. 170).  Queste posizioni lo indussero a  prendere le distanze dalla “esagerazione della ricerca” degli esponenti del gruppo americano selezionato da Alfred Stieglitz per l’Esposizione torinese del 1902, mentre nella stessa occasione espresse apprezzamento per le opere di Giacomo Grosso, Guido Rey e Cesare Schiaparelli.

[30] Edoardo Bertone di Sambuy, Notes sur l’usage des plaques autochromes, “La Fotografia Artistica”, 5 (1908),, n. 1, gennaio, pp.7-9.

[31] Dixon Scott, Colour Photography, in Holme 1908, pp. 1-10; salvo diversa indicazione, sono tratte da questo testo tutte le citazioni seguenti.

[32] Ibidem, sottolineatura dell’autore. Lo stesso Pellerano, nel descrivere il tipo di fotografo cui era destinato il suo testo così si esprimeva: “In questo manuale noi battezziamo l’autocromista col titolo di pittore a macchina, ed a lui affidiamo l’ufficio di ritrarre dal vero, con le sue linee, colori e tonalità infinite, con senso d’arte per quanto permette la tecnica autocromatica, infondendo un po’ di sentimento suo individuale nel soggetto scelto, oppur composto. Che l’opera sua serva di documento sempre, cercando di emulare, ma superare mai la vera arte, ché almeno per ora l’affermare il contrario, ripetiamolo sempre, equivarrebbe a bestemmiare nel tempo dell’arte stessa.”, Pellerano1914, p. 399, sottolineatura mia.  Le parole non ingannino: nulla di più errato che attribuire a un’eco futurista questa definizione, che invece riproponeva in modo apodittico, con sintesi efficace e felice, il giudizio limitativo proprio di tutta la cultura ottocentesca e dal quale aveva tentato (e ancora stava tentando) di liberarsi il pittorialismo fotografico. Ben altro significato avrebbe avuto l’affermazione di Tristan Tzara nel 1922: “Io conosco un tale che fa dei bellissimi ritratti. Questo tizio è una macchina fotografica.”, La photographie à l’envers,  in Man Ray, Les champs délicieux, Paris, Société Générale d’Imprimerie et d’Editions, 1922, ora in T. Tzara, Manifesti del dadaismo e lampisterie. Torino: Einaudi, 1975, pp.73-75.

[33] Citato da Ernest Coustet, L’exactitude du coloris en autochromie, “La Fotografia Artistica” 9 (1912), n. 7, luglio, pp. 105-107, che imputa questa insufficienza all’imperfetto ortocromatismo dell’emulsione utilizzata.

[34] Antonin Personnaz, L’Esthetique de la plaque autochrome, relazione presentata al Congresso internazionale di fotografia di Bruxelles del 1910, pubblicata in “La Fotografia Artistica”, 9 (1912), n. 10, ottobre, pp. 161-162. Personnaz (Bayonne, 1854-1936) fu amico di numerosi impressionisti e loro precoce collezionista. Alla sua morte la collezione passò per legato al Museo del Louvre ed è ora conservata al Museo d’Orsay di Parigi, cfr. Anne Clark James, Antonin Personnaz: Art Collector and Autochrome Pioneer, “History of Photography”, 18 (1994), n.2, Summer, pp.147-150.  Alcune delle sue autocromie, donate dalla vedova alla Societé Française de Photographie, sono state presentate nella mostra Georges Seurat, Paul Signac e i neoimpressionisti, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 ottobre 2008 – 25 gennaio 2009), a cura di Marina Ferretti Bocquillon. Milano: Skira, 2008.

[35] Pellerano 1914, p. 432. Il ricorso al fazzoletto rosso quale richiamo cromatico si ritrova anche in Secondo Pia, come mostra l’autocromia Donna tra le ortensie, recentemente presentata alla mostra Secondo Pia fotografo della Sindone e del Piemonte, Torino, Palazzo Barolo, aprile 2009, a cura di Erica Bassignana. In altra parte del testo di Pellerano si fa esplicito il richiamo alla tradizione impressionista, i cui “criteri stabiliti non solo per felice intuito del vero, ma per profonda analisi di questo, hanno aperto una nuova via alla pittura contemporanea. La fotografia dei colori è venuta a formare la prova sperimentale (se pure occorreva) della giustezza di quei criteri [mostrando] tutto ciò che è sanzionato dai dogmi dell’impressionismo.” (Ivi, p. 390, sottolineatura dell’autore). L’apprezzamento per la pittura “contemporanea” espresso in questa occasione dalla cultura fotografica era ben lontano dalle condanne senza appello di un critico autorevole come Enrico Thovez, attivo anche in ambito fotografico come collaboratore del londinese “The Studio”, che proprio a proposito di pittura impressionista dichiarava che “l’arte di queste tele non solo è scesa mille miglia al disotto della fotografia, ma ha toccato i gradi più bassi dell’abbiezione del gusto e della degenerazione estetica.”, E. Thovez, L’arte di dipinger male, “La Stampa”, 7 gennaio 1909, parzialmente riprodotto in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895-1920.  Milano: Unicredit, 2003, p.232.

[36] Premiato con diploma di medaglia d’oro per il Gruppo III – Classe 17 “La Fotografia nelle sue applicazioni – Fotografie stereoscopiche”, che comprendeva al suo interno anche il tema della “Riproduzione dei colori mediante la fotografia”, significativamente escluso dalla Classe 16 “Fotografia artistica”. Vinse anche il Gran Premio più L. 400 nell’ambito del Concorso Internazionale di Fotografia,  cfr. Esposizione internazionale di Torino 1911, Elenco generale ufficiale delle premiazioni conferite dalle Giurie internazionali. Torino, 1912. A conferma di una per noi incomprensibile scarsa propensione a cimentarsi pubblicamente nonostante i lusinghieri risultati ottenuti, segnaliamo che Fino non prese parte all’Esposizione internazionale di Fotografia artistica di Roma dello stesso anno.

[37] “La Mostra fotografica è, senza dubbio, una delle migliori dell’Esposizione. E il pubblico dimostra il suo godimento affollando la grande sala circolare che è giornalmente un ritrovo d’eleganze femminili.”, Brand., Inaugurazione della Mostra fotografica,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 98-99.

[38] Brand., La fotografia all’Esposizione di Torino,  “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 12, dicembre, pp.167-171 (167). Fino non venne segnalato da Gino Bellotti, La Fotografa artistica all’Esposizione di Torino, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), pp. 307-311, testo già pubblicato dal “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, n. 9. Da altra fonte si ricava un elenco più dettagliato delle sue opere esposte nella sala III, (n°202): “Meditando, Nel parco, La rosa delle Alpi, Sull’altipiano, Ritratto di Signora, La pineta, Bosco in collina, Nell’Ungheria, Sotto i faggi, Dopo la tormenta, Sulle Alpi Graie, Ritratto di Signora, Nel regno dei larici, Tramonto, Lo stagno, Prato alpino, Ritratto del pittore Giacomo Grosso, L’alpe, Roccie muschiose, Alba grigia, Poesia autunnale, Felici alpigiani, Ritratto di Signorina, ecc.”,  Esposizione internazionale Torino 1911  p.15. Tra gli autocromisti, tra cui Pellerano, Vittorio Marchis e Michele Polito di Torino, Fino era il solo a presentare stereocromie, mentre qualcuno (come Giuseppe Battistini,  sempre di Torino) presentava già “fotografie a colori su carta ottenute con lastra autocroma.” Come si ricava dalla lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26, buona parte delle immagini esposte in quell’occasione potrebbero non far più parte del Fondo Fino conservato dagli eredi, sebbene la mancanza di titolazione autografa sulle lastre superstiti impedisca un riscontro puntuale. Scriveva Fino:  “le ho spedito N° 40 autocrome stereoscopiche (così precisamente si chiamano le fotografie di cui Ella vide qualche saggio a Torino) (…) La avverto che fra le 40 vedute, i N: 1-2-5-6-7-9-13-19-23-30-37-38 facevano parte della collezione che vinse alla ns esposizione di Torino il concorso internazionale di fotografia a colori e il Grand Prix.” Dall’elenco allegato si ricavano i titolo seguenti: 01, Stagno nel parco Nigra Torino;  02, Lago di Viano (particolare) Val di Viù;  05, Sull’altipiano di Benot (Val d’Usseglio) (la contadina è mia moglie) ; 06, Pantano al Pian della Mussa; 07,Lago Campagna presso Ivrea; 09, Rosa delle Alpi (presso Piazzetta di Usseglio); 13, Tonio al Benot Val di Viù; 19, Campo di cavoli (Ivrea); 23, Piano della Mussa (panorama) ; 30, Pilone presso Margone (val di Lanzo); 37, Prato alpino (Praly) Val Germanasca  Pinerolo; 38,Tonio e Giacomin al Benot.

[39] Ferdinando Fino, Copialettere con rubrica.  500 fogli, di cui 69 compilati dal 2 settembre 1912 al 14 giugno 1916. Manoscritto sino al 30 novembre 1915, quindi dattiloscritto. Rubrica muta; Torino, Archivio Fino.

[40] Il 10 maggio 1912, ad esempio, scriveva, in francese, ad Alfred Krolopp, di Budapest (forse identificabile col botanico docente alla Scuola reale di agricoltura di Magyar-Ovar), scusandosi per non avergli  ancora spedite le copie monocrome di alcune autocromie, e per farsi perdonare gli inviava nove diapositive “che può darsi non corrisponderanno ai vostri desideri poiché ho perso la nota che mi avete fatta di quelle che vi interessavano.”, Copialettere, p.4.

[41] Lettera a Italo Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2.

[42] Le difficoltà derivanti dai lunghissimi tempi di posa, analoghi e forse superiori a quelli della fotografia delle origini, erano ribaditi anche in una successiva occasione: “Una collezione quale io avevo all’Esposizione [del 1911], frutto di una scelta fra centinaia di prove, infatti essendo esse tutte a lunga posa, il minimo soffio di vento impedisce la riuscita, nei ritratti il movimento minimo della persona, l’atteggiamento duro o non naturale dato dall’obbligo dell’immobilità, o se si è all’aria aperta il cambiamento d’un ombra per lo spostamento d’una nube (…) congiurano contro il povero fotografo che talvolta fa una dozzina e più di vedute senza avere neppure una che lo soddisfi! E senza la possibilità di trarre una copia d’una prova riuscita!” Lettera a Italo Carboni del 30 maggio 1912, Copialettere, p.  8. Secondo le indicazioni fornite da Pellerano1914, la realizzazione di un ritratto in esterni (ma con lastra 18×24) richiedeva ben 6 minuti.

[43] Evidentemente Fino non era a conoscenza del metodo messo a punto dagli stessi Lumière, e ampiamente utilizzato dagli studi professionali, di riprodurre le autocromie utilizzando altre lastre autocrome.

[44] Lettera a Italo Carboni del 17 maggio 1912, Copialettere, pp. 5-6.

[45] Guido Rey, Fotografia inutile, 1908, ora in Paolo Costantini, Italo Zannier, a cura di Luci ed Ombre.  Gli annuari della fotografia artistica italiana  1923-1934. Firenze: Alinari, 1987, pp.64-65.

[46] Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[47] Lettera a Carboni del 9 febbraio 1912, Copialettere, pp. 1-2. La lettera contiene anche interessanti istruzioni relative alle modalità di osservazione delle autocromie: “le lastre devono essere viste colla parte grigia verso il suo occhio e colla parte nera dall’altra parte, al fine di vedere la veduta dalla sua giusta parte. Però a parer mio, quando si tratta di paesaggi non tipici, pei quali non muta vederli a rovescio, come piacevoli particolari di boschi, fiori ecc., i colori sono più brillanti guardandoli dall’opposto lato.”

[48] “Ho speranza di presto mandarle qualche cosa di bello (…) Potrebbe darsi che certe vedute di montagna che le manderò, abbiano ad interessarla, intanto farò il possibile di prepararle delle vedute di chiese.” Lettera a Carboni del 14  giugno 1912, Copialettere, p. 10.

[49] Lettera a Carboni del 26 giugno 1913, Copialettere, p. 28. Le prime pratiche erano state avviate nel settembre dell’anno precedente. Il 16 luglio dello stesso anno gli era stato concesso il permesso di fotografare anche l’Armeria Reale, cfr. Visite e permessiPermessi,  fascicolo n. 865, n. prot. 4197; n. d’ordine 2339, 16/07/1913, Permesso a Ferdinando Fino di fotografare l’Armeria, consultabile all’indirizzo http:// www.artito.arti.beniculturali.it /Armeria%20Reale/ 6SALA/ ArchivioStorico.asp? PageNo=1369&Mv=Avanti (06-04-10).

[50] Lettera a Carboni del 14 agosto 1913, Copialettere, pp. 31-33. Le riprese effettuate da Fino sono tra le rare testimonianze fotografiche degli interni dei Palazzo Reale all’inizio del XX secolo e certo, almeno per quanto sinora noto, le prime realizzate a colori, cfr. Cesare Enrico Bertana, Palazzo Reale com’era … 1900-1920. Torino: Associazione Amici di Palazzo Reale, 2002.

[51] Secondo gli studi tecnici riportati in Namias 1930 p.165, “La lastra [autocroma] lascia passare circa 1/10 della luce che la colpisce.” Quindi aumenta in misura esponenziale il tempo di posa necessario per la sua corretta esposizione, calcolato in circa 80 -100 volte quello di una lastra monocroma rapida, valore che si approssima a 200 lavorando in ambienti chiusi. A dimostrazione di quanto una ripresa di questi soggetti costituisse un risultato virtuosistico altamente apprezzabile, lo stesso Pellerano pubblicava tra le tavole f.t. del suo manuale un’analoga ripresa della Galleria Beaumont dell’Armeria Reale, dichiarando un tempo di posa di 90 minuti, cfr. Pellerano1914, p. 462 f.t. Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione delle riprese in Armeria anche con le ben più rapide lastre alla gelatina ci rimane testimonianza nelle parole di Giovanni Assale, direttore dello stabilimento Berra “Fotografia Subalpina” cui era stato affidato il compito di realizzare le fotografie per l’edizione dei tre volumi Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino, Milano, Eliotipia Calzolari e Ferrario [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna. Nel gennaio del 1897 Assale comunicava ad esempio che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”. A queste si aggiunsero le prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione del fotografo –  annoverava tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare sì fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”,  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”  Per la ricostruzione analitica delle diverse campagne di documentazione fotografica dell’Armeria Reale di Torino rimando a P. Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858-1898, in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898. Torino: U. Allemandi & C., 2003, pp. 79-98.

[52] Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34.

[53] La lettera indirizzata a Emanuele Celanza del 16 marzo 1912 contiene una nota spese per “n° 12 autocromie 13×18 riproduzioni quadri Avondo £ 4 cadauna”, Copialettere, p. 11. Le autocromie, sinora non reperite, devono certamente essere messe in relazione con la pubblicazione presso lo stesso editore del saggio di Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Celanza, 1912, illustrato però da riproduzioni monocrome. Secondo i dati forniti da Pellerano 1914, p. 226, 4 lastre 13×18 costavano L.7.

[54] “sempre in attesa di ric[evere] vs. commissioni, mi sono messo all’opera [per] studi artistici di nudi. La stagione piovosa mi ha impedito di dedicarmi a paesaggi (…).”, Lettera a Canova del 4 marzo 1912, Copialettere, p. 3.

[55] Si veda ad esempio il Nudo nel bagno di Leon Gimpel, in Il colore della Belle Époque: i primi processi fotografici diapositivi, catalogo della mostra (Venezia, 1982), a cura di Silvio Fuso, Sandro Mescola. Venezia: Comune di Venezia, s.d., [1982], t. 6.

[56] Si veda L’Art du nu au XIX siècle: le photographe et son modèle, catalogo della mostra (Parigi, Bibliothèque nationale de France 1997-1998). Paris: Hazan, 1997. Resta un’affascinante eccezione nella fotografia di nudo tra XIX e XX secolo, la naturalezza con cui Pierre Bonnard fotografava la sua compagna e modella, cfr. Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Pierre Bonnard Photographe. Firenze: Alinari, 1988.

[57] Si veda Giacomo Grosso: il pittore a Torino fra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 1990- 1991), a cura di Giuseppe Luigi Marini. Milano: Fabbri, 1990. Non solo le date dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio che le autocromie non possono che derivare dai dipinti di Grosso, più che buon fotografo egli stesso che quindi mai avrebbe avuto bisogno di ausili esterni. Le prime notizie relative alla sua attività fotografica risalgono al 1894, quando presentò all’Esposizione Internazionale di Fotografia promossa dal Circolo Fotografico Lombardo di Milano, riproduzioni di “quadri e statue” oltre a “ritratti ai sali di platino di buona fattura”, quindi all’ Esposizione torinese del 1902, che lo vide tra gli autori più considerati, specialmente quale ritrattista. (Michele Falzone del Barbarò, Giacomo Grosso e la fotografia, in Giacomo Grosso 1990, pp. 21-24. Le sue fotografie di Bistolfi, Delleani, Gilardi e Reduzzi, furono tanto apprezzate da Schiapparelli da fargli scrivere che “se avesse lasciato il pennello per l’obiettivo, sarebbe senz’altro il più grande fotografo ritrattista italiano e rivaleggerebbe con Steichen e molti altri, ma fortunatamente non ha avuto questa pessima idea.”, Cesare Schiaparelli, L’Art photographique à l’Exposition Internationale de Dresde 1909, I parte,  “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 11, novembre, pp. 165-168. Erano quegli stessi ritratti che Thovez aveva visto nel suo studio, sottolineando come il pittore “nei suoi ritratti fotografici segue la via tracciata dall’artista che lui ama così profondamente: Rembrandt. Come lui, egli cerca di concentrare tutto il proprio interesse sul volto del modello, immergendo nel buio il resto della figura e ciò che gli sta intorno.”, Enrico  Thovez, Artistic Photography in Italy, in Charles Holme, a cura di, Art in Photography, “The Studio”, Special Summer Number, London, 1905, pp. I.3-I.8, come confermano sia il ritratto di Cesare Reduzzi pubblicato nelle stesse pagine sia quello di Celestino Gilardi pubblicato ne “La Fotografia Artistica” a corredo del suo necrologio. Risulta perciò difficile accostare a queste prove gli esemplari conservati presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino e a suo tempo pubblicati da Miraglia 1990, tavv. 175-177, forse da intendersi quali semplici abbozzi di studio per la sua attività di pittore piuttosto che opere fotografiche in sé compiute. Anche Pietro Masoero, come si è accennato, recensì entusiasticamente le opere di Grosso presentate all’Esposizione del 1902, cfr. Paolo Costantini, Giacomo Grosso, in Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994, scheda n. 61.

[58] “Riguardo al quadro che Ella desidera (Veduta n°11) – gli scrisse Petiti da Roma – credo che le ho domandato un prezzo da amico per una esposizione anche in quella misura 76 ½ x 55 non sarebbe meno di 600 lire perché il soggetto è difficilino e molto complicato e richiederebbe un certo tempo per farlo, impossibile essendo di dipingerlo alla prima. Le modificazioni da lei desiderate per trasportare il soggetto da destra a sinistra si possono fare per primo perché all’artista non mancano mai le risorse e qualche volta anche le licenze poetiche. Insomma io spererei che il quadretto riescisse tutto di suo gradimento … ma … Però siccome intendo ancora una volta dimostrarle la mia gratitudine glie lo farò per 200 lire (…) Potrò ancora tenere presso di me tutte le sue lastre? (…) Questa sgrammaticata lettera è talmente scritta male che dovrei rifarla ma non ne ho il tempo né la voglia. Mi perdoni.”, Lettera di Filiberto Petiti del 9 aprile 1916, Archivio Fino, Torino. Impossibile identificare il dipinto in questione, ma tra le opere di Petiti possedute da Fino ritroviamo un Monte Lera (Usseglio) che risulta essere la trasposizione dell’autocromia Sui pendii di Usseglio [26886]. Un altro cenno, purtroppo ancora generico, era già contenuto in una lettera di Fino del 1913:“Se Ella dovesse recarsi a Torino mi faccia il favore d’una sua visita e le farò vedere qualche lastra che certo però non venderei avendo servito a pittori celebri come documento per quadri che stan facendo.”, (Lettera a Carboni del 21 agosto 1913, Copialettere, p. 34). I legami e le suggestioni reciproche tra cultura pittorica e fotografica in ambito torinese nei primi decenni del Novecento, per larga parte ancora da studiare analiticamente, sono ben testimoniati dalle pagine di un periodico autorevole quale “La Fotografia Artistica”, che mantenendo fede al proprio impegno programmatico non di rado pubblicava riproduzioni a colori di dipinti sotto forma di tavole fuori testo (nel luglio 1906, ad esempio, Un torrente, proprio di Petiti; a settembre dello stesso anno una Pastorella di Michetti). Lo stesso periodico dedicò ben cinque numeri, di fatto monografici, alle opere esposte alla II Esposizione Quadriennale di Belle Arti – Torino 1908, con testo critico di Ernesto Ferrettini, critico d’arte de “La Gazzetta del Popolo”, poi de “La Stampa”, già autore del saggio Artisti nelle Valli di Lanzo, compreso nel volume edito dal Club Alpino Italiano  nel 1904.

[59] Namias 1930, p. 202.

[60] “Noti che bisognerà guardare le vedute in uno stereoscopio di centimetri 6×13, che tale è il formato delle fotografie e i veri colori naturali appariranno colla più grande verità quando si guardi la veduta avendo di rimpetto a noi o delle nuvole bianche o un muro o un lenzuolo bianco su cui batta il sole. Contro il cielo sereno avremo una diffusione di azzurro , e contro pareti in ombra un eccesso di grigio e deficienza di illuminazione.”, Lettera a Paolo Ehrenbaum del 17 giugno 1913, Copialettere, pp. 23-26.

[61] Filiberto Petiti, Nel bosco, 1914 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

[62] Ernesto Baum, Il «genere» in fotografia, “La Fotografia Artistica”, 10 (1913), n.1, gennaio,pp. 12-14.  Questo testo dovette costituire un riferimento importante per Stefano Bricarelli, che avviava le sue considerazioni critiche a partire dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma – proseguiva – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”, Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8, agosto, pp. 225-2260, sottolineature dell’autore.

[63] Pellerano 1914, p. 432.

Quoi? La Photographie  ovvero  La carriera di un dilettante fotografo (2006)

in Barbara Bergaglio, P. Cavanna, a cura di, Francesco Negri fotografo: (1841-1924).  Cinisello Balsamo: Silvana, 2006, pp. 14-29;  La biblioteca del fotografo, estratto da Francesco Negri e la Biblioteca civica di Casale Monferrato, “AFT – Rivista di Storia e Fotografia”, 6 (1991), n.14, pp. 61-63

 

La lastra fotografica è la vera retina dello studioso

Jules César Jansen, 1888

 

 

Cappello e soprabito sull’attaccapanni, forse appena appesi, come se fosse rientrato da poco in questo angusto spazio ricolmo di carte che fu il suo studio. Una fotografia disposta con noncuranza apparente sulla stufa in ceramica, una stampa di paesaggio se la nitidezza della ripresa non ci tradisce, ci consente di datare questa  stereoscopia all’ultimo decennio dell’Ottocento, quasi certamente dopo il 1896, quando la consuetudine di Negri con la fotografia datava ormai da almeno un trentennio e la fase delle applicazioni e sperimentazioni più strettamente scientifiche poteva ormai dirsi conclusa.

Per quanto è possibile desumere dallo studio dei documenti fotografici e archivistici rimasti a costituire il fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, ambito necessariamente ristretto su cui è stata condotta la ricerca, possiamo far risalire  al luglio del 1862 il primo indizio certo del suo interesse per la fotografia.[1]  In quei giorni il giovane Negri, poco più che ventenne e appena trasferitosi a Casale, poneva un’annotazione a matita sulle pagine del volume di Eugène Disderi, L’art de la photographie[2], uno dei manuali più autorevoli dell’età del collodio, attento alle questioni poste dal ritratto fotografico, ad un esito di rassomiglianza che andasse oltre la pura resa fisiognomica, quella cui pure l’autore doveva la propria notorietà di inventore del ritratto in formato carte-de-visite.

Conosciamo ancora troppo poco la storia della fotografia a Casale Monferrato[3] per sapere se Negri avesse potuto trovare localmente suggestioni e sostegno alla propria passione nascente o se questi non gli provenissero invece dal soggiorno torinese, dove si era laureato in giurisprudenza nel 1861, ambiente in cui era stata precocemente praticata la fotografia sin dal fatidico 1839, divenuta ben presto attività fiorente e diffusa per la presenza di numerosi e qualificati studi professionali come di amatori colti[4], nobili o borghesi che fossero, coi quali certamente non possiamo escludere possibili relazioni legate all’ambiente universitario.

Ciò che risulta però chiaro è come l’attenzione fosse da subito sistematica e precisamente orientata se già nel 1864  il novello sposo[5] risultava abbonato non solo alla prima rivista italiana di settore, “La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia” diretta a Milano da G. Ottavio Baratti”, ma anche a prestigiosi periodici internazionali come “The Philadelphia Photographer”, mentre la sua biblioteca si arricchiva di  preziosi manuali[6].

Risaliva ai primi di settembre dell’anno precedente la sua più antica ripresa datata, una lastra al collodio[7]  che oltre all’indicazione del giorno (“1863 5 sett.”)  e alla sigla “N.F.” porta inciso il numero d’ordine «44», ad inaugurare una consuetudine tipica di molti fotografi coevi cui Negri restò fedele sino agli ultimi anni di attività[8]. È  l’immagine di tre figure in esterni, due donne e un uomo seduti, tutti con fucili da caccia, realizzata forse a Ramezzana, una delle grange dell’abbazia di Lucedio (Trino)[9]. Non si tratta quindi di un ritratto vero e proprio, anzi si potrebbe quasi parlare di un’istantanea ante litteram, ma per noi costituisce la testimonianza di come il suo primo interesse fosse rivolto alla figura umana, colta inevitabilmente nella  cerchia di relazioni personali, come fu per molti dei fotografi amatori delle origini.

Sebbene non datati, sono da collocarsi nello stesso periodo di tempo gli splendidi ritratti eseguiti in interni, fortemente influenzati dai coevi modelli professionali e in particolare fedeli alle istruzioni del già citato testo di Disderi,  che indicava come “la prima cosa che deve fare il fotografo che desidera ottenere  un buon ritratto, sia di penetrare (…) il tipo reale e il vero carattere dell’individuo; lo si deve studiare e conoscere [si deve] comporre il ritratto, in una parola. Comporre un ritratto, per noi, vuol dire scegliere le modalità di rappresentazione più adatte al modello e combinare tutti gli elementi visibili in maniera unica.”[10]

Questa ascendenza è ancor più evidente nelle riprese a figura intera, col soggetto disposto di tre quarti, in pose rigorose e ferme e un uso degli arredi che ricalca la disposizione tipica delle carte-de-visite del francese, con un tendaggio collocato come quinta di chiusura a sinistra, mentre in altri casi l’utilizzazione di elementi tipici quali la balaustra posticcia, farebbe pensare alla collaborazione di un professionista casalese per ora non individuato, lo stesso che potrebbe averlo istruito nella sua prima fase di formazione.

Non mancano neppure le riprese in esterni, forse di poco antecedenti, per le quali Negri ricorreva a un’improvvisata scenografia fatta di pochi elementi (un fondale uniforme appena mosso da un tendaggio poggiato, un tappeto, l’immancabile poltrona)[11], mentre altre  ne sono completamente prive e tutta l’attenzione è rivolta all’efficace rappresentazione della persona, traducendo in figura il rapporto di colloquialità che lo legava al soggetto, analogo a quello che emerge – seppure in maniera più sottile – dalla bellissima serie di ritratti in interni in cui la non convenzionalità della rappresentazione è testimoniata più che dalla posa dalla presenza di arredi non stereotipati, certamente appartenenti all’ambiente quotidiano del fotografo.

Sono ritratti che sembrano dar corpo ai più alti esiti attesi dal nuovo realismo del mezzo fotografico, a quella “ricerca di assoluto verismo” di cui ha parlato Carlo Bertelli[12]. Sono indizi certi di una fiducia tutta positiva nelle sue capacità di descrizione analitica, di traccia del reale, ma alcuni indizi ci orientano verso una convinzione più incerta. Penso alla coppia costituita dall’Autoritratto con lo stereoscopio  e dal Ritratto della moglie  con una rivista fotografica in grembo, che assumono un’evidente connotazione allegorica, ma soprattutto ai due autoritratti multipli come ‘fantasma’, che rivelano tutta la gioiosa sorpresa, il primitivo stupore per le possibilità narrative della nuova tecnica che avremmo ritrovato in Lumière e Méliès agli albori del cinematografo. La burlesca messa in scena  spiritista non solo rivela il giudizio sarcastico dell’uomo di scienza[13] su di un fenomeno allora in voga, ma costituisce una precoce, immediata intelligenza dell’illusoria obiettività e verosimiglianza della ripresa fotografica.  Se questa può mostrare ciò che non esiste, allora il suo stesso statuto di verosimiglianza documentaria – pur ampiamente fondato e giustificato – deve essere accolto criticamente, ma contemporaneamente usato per stupire. In questa latente contraddizione continua risiede il fascino fecondo dell’immagine fotografica, ribadito da Negri in modi ed occasioni diverse lungo tutto l’arco della sua produzione.

“La fotografia – ha notato George Didi-Huberman[14] – nasce in un tempo che considera sé stesso del sapere assoluto. La fotografia è certo uno strumento d’obiettività straordinariamente fecondo, [ma] è innanzitutto uno strumento di sperimentazione, cioè mette in evidenza la variabilità o la relatività dei fenomeni visibili, non la loro stretta ‘positività’ .” In particolare consente di fissare l’immagine di ciò che non appare: perché troppo piccino o troppo distante, o rapido come il momento di un gesto. Se mostrare l’invisibile (il ‘non visibile’) è una delle virtù riconosciute alla fotografia, allora Negri con questa messa in scena spiritista segna simbolicamente la propria adesione a questo credo positivista in modo affatto paradossale, proprio mentre si ingegna ad applicarlo in forme più canoniche,  dedicandosi in particolare all’esplorazione dell’universo dell’infinitamente piccolo.

Porta la data del 1866[15] la  Prima Prova Micrografica/ Gamba di Ragno, di poco successiva alla produzione dei pionieri italiani in questo settore, come Antonio Roncalli di Bergamo e Luigi Arcangioli di Arezzo che all’Esposizione di Firenze del 1861 avevano presentato “studi micrografici” e “fotografie rappresentanti oggetti al microscopio”, mentre due anni più tardi all’Esposizione provinciale di Reggio Emilia del 1863 anche il conte Luigi Scapinelli esponeva immagini di insetti ingranditi al microscopio[16]. Le sperimentazioni fotomicrografiche[17] di Negri proseguirono sporadicamente negli anni successivi, segnati però principalmente da significativi studi di fitopatologia, tali da renderlo immediatamente noto a livello nazionale.[18] L’estensione progressiva dei propri interessi alla fotomicrografia batteriologica è testimoniato da una serie di articoli comparsi sul fiorentino “Lo Sperimentale” a partire dall’agosto del 1882[19], uno dei quali – la Contribuzione allo studio dei bacilli speciali della tubercolosi – costituì l’occasione di un primo contatto con Robert Koch, lo scienziato tedesco che nel marzo dello stesso anno aveva presentato la propria scoperta alla Società Fisiologica di Berlino.   A queste prime significative applicazioni fece seguito nei tre anni successivi un’intensa sperimentazione rivolta alla messa a punto di opportune metodiche di colorazione dei preparati destinati ad essere fotografati, in molti casi “espressamente inviati al Negri” dallo studioso torinese Edoardo Perroncito[20], mentre in altre occasioni  – come il bacillo del colera fotografato nel 1884 – egli si era avvalso di campioni raccolti durante l’epidemia che colpì i due piccoli centri casalesi di Pontestura e Vialarda nell’autunno di quell’anno, guadagnandosi nel 1885 una medaglia d’argento concessa dal Ministero della Sanità, anche per le attività profilattiche poste in essere in qualità di  sindaco.[21]

Il riconoscimento ufficiale veniva a coronare vent’anni di studi e ricerche scientifiche e di fotografia applicata all’indagine microscopica, ma per Negri ciò non costituì motivo di ulteriore impegno, anzi dopo questa data la sua attività in questo settore si interruppe bruscamente  con la realizzazione nel 1885 di un’ultima bella serie di ingrandimenti di Diatomee, con inquadrature che a volte si rifanno esplicitamente alle tavole pubblicate nel 1866 da Albert Moitessier nel suo manuale –  posseduto da Negri – dedicato a La photographie appliquée aux recherches micrographiques.  Qui accanto all’interesse strettamente documentario emerge una palese attenzione compositiva, del resto non estranea anche ad analoghe produzioni di altri autori, ciò che impedisce di condividere le troppo categoriche affermazioni di Carlo Bertelli secondo il quale “l’aspirazione della fotografia era allora la rimozione di qualunque intento estetico, la ricerca di assoluto verismo.”[22]

Non diverso dovette essere il suo modo di procedere nel nuovo e per lui inedito ambito di indagine, quello della storia dell’arte. Henry Festing Jones, amico e biografo di Samuel Butler ricordava come la consuetudine tra lo scrittore inglese e Negri datasse al 1888, anno della pubblicazione di Ex-Voto[23], e proprio il convergere di interessi intorno all’opera di Jean de Wespin e più in generale sul Santuario di  Crea fosse stato il fondamento di un’amicizia intellettuale e di una frequentazione che si protrassero sino alla morte di Butler nel 1902[24].  In Negri, membro della Commissione Conservatrice dei Monumenti ed Oggetti d’Arte e d’Antichità per la Provincia di Alessandria dal 1890, doveva certamente essere viva già da qualche tempo l’attenzione per il Santuario negli anni successivi ai grandi lavori intrapresi per iniziativa del vescovo di Casale  Monsignor Calabiana[25], ma non può essere senza significato che le sue prime riprese datate risalgano al 1891 – da luglio a settembre[26] – cioè esattamente allo stesso periodo, agli stessi giorni quasi cui datano anche le poche immagini realizzate da Butler, poi inviate a Giulio Arienta il 31 ottobre successivo con una lettera in cui esprimeva tutta la propria stima per lo studioso casalese: “Quel prete Don Minina ed il cav. Avv. Francesco Negri sono i più attivi, e cercano dappertutto con zelo molto forte e molto intelligente (…) so d’ogni modo che l’avvocato Negri è uomo di ottimo giudizio in questi affari.”[27]

Fu proprio la cappella del Martirio di Sant’Eusebio, che Butler aveva definito“la più importante” di Crea, e di cui Negri denunciò la grave condizione di degrado ancora all’inizio del Novecento, a costituire il primo e principale soggetto delle sue riprese, sebbene il principale  argomento di ricerca fosse volto in quel tempo alla ricostruzione delle figure di Martino Spanzotti e di Guglielmo Caccia.[28]

La costante attenzione per la statuaria di quella cappella consentì a Negri di realizzare nel corso degli anni una serie di immagini che varia dalla ripresa d’insieme ai particolari, intesi qui come descrizione analitica dell’opera quanto della scena, evento restituito dalla doppia mediazione dei due linguaggi, con l’intenzione esplicita di celebrare quel “realismo così sano e spontaneo” che tanto lo affascinava nelle opere di Giovanni Tabacchetti.  Attuava così quel rispecchiamento tra gesto del plasticatore  e gesto fotografico[29], entrambi impegnati a mettere in scena la memoria di una realtà, che riconosciamo anche nel modo di disporre le figure all’interno dell’inquadratura di una delle riprese relative alla cappella della Concezione della Vergine dove, ancora, l’interesse appare rivolto principalmente alla restituzione fotografica del dialogo fra le figure. Era questo un modo di  declinare l’intenzione documentaria propria della fotografia di riproduzione d’arte secondo una più sottile intenzione, che reinterpretava  e stravolgeva la pratica consolidata dei grandi studi quali Alinari o Braun (verso i quali in quegli stessi anni si appuntavano le incisive osservazioni di Wölfflin) accogliendo le suggestioni della nuova sintassi visiva introdotta  dalla pratica dell’istantanea fotografica, quel tentativo di rendere l’illusione della vita corrispondendo alla teatralizzazione  del gesto che apparteneva alla logica di rappresentazione del plasticatore.[30]

“How about your Tabacchetti?”  chiedeva Butler a Negri in una lettera datata 5 novembre 1900[31], con allegata copia della sua traduzione dell’Odissea e l’annuncio di aver iniziato la redazione di Erewhon Revisited,  a riconferma di una solida consuetudine e stima,  che si sarebbe concretizzata due anni più tardi coll’accollarsi le spese di pubblicazione dell’apparato illustrativo  (“i fototipi per le illustrazioni che ornano queste notizie”)  del lungo saggio da Negri dedicato a Il Santuario di Crea in Monferrato, summa degli  studi dello studioso e fotografo casalese[32] che sulla “Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessandria”, aveva già pubblicato gli esiti delle proprie ricerche dedicate a Giorgio Alberini e a Guglielmo Caccia[33], occasione per avviare rapporti con altri studiosi come Carlo dell’Acqua[34], Gustavo Frizzoni[35]  e Diego Sant’Ambrogio, che il 27 giugno 1904 gli segnalava l’importante ritrovamento del trittico realizzato da Macrino d’Alba per l’abbazia di Santa Maria di Lucedio (Trino)[36].

Proprio il patrimonio artistico di questa importante abbazia cistercense costituì l’argomento delle sue ultime ricerche di storia dell’arte, estese al patrimonio pittorico del vicino centro di Trino, pubblicate nel 1914 in un volume firmato coi religiosi Evasio Colli ed Alessandro Rastelli, autore quest’ultimo del ricco apparato fotografico a corredo.[37] Non è questa la sede per valutare nel merito gli esiti delle ricerche di Negri, ma risulta semplice riconoscere come numerose sue conclusioni non abbiano retto alla prova del tempo e siano state radicalmente modificate dagli studi più recenti[38]. Sarebbe però ingiusto disconoscere la sua capacità di aprire gli interessi della cultura locale alla storiografia artistica su base documentale, seguendo percorsi che si discostavano significativamente dal prevalente interesse per la cultura tardomedievale espresso negli stessi anni dagli storici torinesi, mentre nel Piemonte settentrionale, dopo gli studi di Edoardo Arborio Mella l’attenzione era piuttosto rivolta alle scuole artistiche di matrice lombarda e alla produzione cinquecentesca in genere.

Nel ripercorrere questa diversa geografia culturale l’attività di Negri mostra notevoli analogie con quanto andava facendo nello stesso periodo l’amico fotografo vercellese Pietro Masoero[39], impegnato nella documentazione delle opere della Scuola pittorica vercellese, sebbene il suo progetto culturale  avesse una più precisa intenzione politica, orientata alla divulgazione,  all’istruzione delle classi popolari piuttosto che alla produzione storiografica. E diversa ancora era l’intenzione di Secondo Pia[40], cui lo legavano rapporti di conoscenza anche nell’ambito della Società Fotografica Subalpina, certo in quel periodo l’autore più sistematicamente impegnato nella formazione del catalogo visivo del patrimonio artistico e architettonico piemontese.[41] Pia si era recato a Crea il 15 settembre del 1885, ma in quella prima occasione aveva rivolto la propria attenzione al solo aspetto paesaggistico, risolto in un panorama in due parti ripreso da sud, secondo il punto di vista canonico[42], la più antica documentazione fotografica di questi luoghi a noi nota, realizzata da Vittorio Ecclesia nel  1878-1880, che aveva escluso le cappelle e il loro patrimonio statuario, allora in fase di profonda trasformazione, per rivolgersi alla sola facciata e all’interno del Santuario offrendo però una Veduta generale del Sacro Monte ripresa dal colmo della chiesa  che costituisce una delle più affascinanti invenzioni iconografiche del fotografo e di tutto il repertorio relativo a questi luoghi.[43]

“Per godere di queste sensazioni [questo] misantropo così squisitamente sensibile (…) partiva da Casale a piedi (…) Sempre solo, poiché non aveva l’amico il cui spirito vibrasse all’unisono col suo; sempre taciturno, ma beato per gli spirituali conversari che lo intrattenevano (…) con le umili pianticelle che andava raccogliendo nel bosco. (…) Lo rivedo ancora nella buia cappella di S. Margherita, a rivelarmi le bellezze in essa rinchiuse mediante il lampo di magnesio che portava sempre con sé.”[44] Le parole del necrologio redatto da Luigi Gabotto confermano come Crea sia stata per molti versi il laboratorio di Negri, ma non convincono sino in fondo, fanno emergere nel lettore il sospetto delle stereotipo. Soprattutto non corrispondono all’impressione generale che le fotografie di Negri lasciano in chi le osserva.

Certo Crea fu luogo privilegiato di meditazioni e studi, ma non il solo. Le note autografe apposte alle lastre registrano le località di Pozzengo, Torcello, San Germano, Camino, Quargnento, Bosco Marengo, Fubine disegnando una mappa di destinazioni facilmente raggiungibili dall’amatissima Casale, cui dobbiamo aggiungere la Val Sesia con Riva Valdobbia e alcune località della Valle d’Aosta, Courmayeur in particolare. Sono le mete accessibili nel tempo concesso dagli impegni pubblici e professionali, sono i luoghi delle villeggiature. Scontati e pienamente comprensibili per l’attività di un amateur photographer, per quanto selettiva e qualificata. Così come non ci sorprende il calendario delle riprese, tutte scalate – tranne rare eccezioni – da maggio a ottobre, quando la luce è più calda e intensa, in grado di migliorare ancora le prestazioni delle già rapide emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento.

Né mi convince quell’accenno a una misantropica solitudine, a una subìta separatezza, radicalmente smentita dalla collezione  di sguardi che vediamo intrecciarsi nelle sue lastre, dal piacere giocoso e tutto dilettantesco della curiosità tecnologica[45], che lo portava a usare apparecchi “nascosti”.

La rivoluzione delle emulsioni alla gelatina  ebbe conseguenze enormi anche nel costituirsi della fotografia come pratica sociale. Il fotografo non professionista non fu più – o non solo – l’irregolare di rango, ma,  per onde socialmente sempre più ampie, omnicomprensive divenne dapprima dilettante e poi fotoamatore, ruolo culturale inedito, produttore e consumatore di quella che ormai molto avanti nel Novecento Pierre Bourdieu avrebbe chiamato “arte media”, o semplice praticante occasionale colonizzato dalle strategie dell’industria dell’immagine.

In questa traiettoria la figura di Negri si pone in maniera affatto singolare per la sua capacità di utilizzare la fotografia senza preconcetti, in grado di ricorrere alle migliori  e più aggiornate soluzioni applicative come di usarne quale strumento e testimonianza di relazioni sociale e affettive.

Anche per Negri la lastra fotografica era “la vera retina dello scienziato, che vede tutto, che analizza tutto e che addiziona le impressioni, senza fatica, senza parzialità, senza preconcetti”[46], sebbene questo  approccio positivista e analitico non gli impedisse poi usi diversi, privati e narrativi, spingendosi se del caso ben oltre i legittimi limiti della verosimiglianza per giocare con le esposizioni multiple sulla stessa lastra, dove – abbandonato il grottesco sarcasmo delle prime prove ‘spiritiste’ – l’espediente era destinato a inventare mondi possibili, verosimilmente fantastici,  abitati non a caso da bambini.[47]

L’accoppiamento tra nuove emulsioni e apparecchi gli consentì soprattutto di orientare diversamente il proprio sguardo, affiancando alle precedenti applicazioni strumentali – tra ricerca scientifica e storiografia artistica – il piacere di cogliere la realtà “nella verità della sua apparizione” (Gunthert 2001, p. 65), di collezionare ricordi istantanei senza alcuna premeditazione.

In questa nuova stagione, e inedita, un ruolo determinante giocò l’uso dagli apparecchi stereoscopici, dove grande maneggevolezza e rapidità di posa arricchivano l’affascinante promessa della futura visione tridimensionale e privata  così come accadeva con le detective camera.  Il loro uso letteralmente sorprendente dava corpo e immagine per la prima volta alla versione fotografica del voyeur[48], ormai dotato di un apparecchio[49] nascosto sotto al panciotto, con l’obiettivo sporgente da un’asola, che consentiva di ottenere su ciascuna delle lastre circolari di cui era dotato, sei immagini circolari di 40 mm di diametro e che Negri usò a partire dal 1888.

Paradosso della situazione: nel momento di più esplicito voyeurismo il fotografo nuovo delegava alla macchina buona parte delle proprie funzioni autoriali e posticipava il piacere del vedere riservandolo allo spazio sacrale della camera oscura. Si limitava a scegliere l’occasione e il momento. Affidandosi all’apparecchio per strutturare l’articolazione dello spazio e la composizione dell’inquadratura abdicava alla propria funzione di autore aprendo inconsapevolmente la strada alle estetiche del Novecento.

Anche in termini iconografici con questa possibilità nuova, nativa, offerta dall’istantanea[50], la fotografia si rendeva autonoma da ogni debito con la tradizione pittorica, giungendo progressivamente a definire un genere costituito da immagini articolate secondo sintassi inedite[51], che in Italia sarebbero poi state lucidamente individuate da Stefano Bricarelli, che per la buona riuscita delle “scene animate”  avrebbe indicato quale “condizione indispensabile (…) che il soggetto sia inconscio (…). Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata. [Per] fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  di un quadro.”[52]

Le scene di strada erano un soggetto privilegiato e ampiamente frequentato già dalla prima maturità della pratica stereoscopica, intorno agli  anni ’70 del XIX secolo.  A questa si devono anzi i primi esempi di ripresa istantanea, ancora ai tempi del collodio, ma fu la pratica dilettantistica consentita dai nuovi dispositivi fotografici a determinare la vera e definitiva scoperta della scena urbana, a mutarne il senso della rappresentazione, che ora diviene piuttosto la registrazione di un’esperienza, la traccia del rapporto individuale tra il fotografo e la città, testimonianza del suo esserci in quanto componente della scena stessa.

La semplicità d’uso consentiva ormai di rivolgere l’attenzione alle banalità (più raramente all’eccezionalità)  del quotidiano; erano  proprio le nuove possibilità operative a consentire e definire nuovi soggetti, irriducibili ai canoni dell’artisticità, incommensurabili. Contemporaneamente si accresceva il valore testimoniale di traccia della fotografia, poiché l’apparente casualità dell’inquadratura certificava la veridicità di una ripresa non posata e simulata, “rendendo più profondo il nesso tra informalità e verità fotografica.”[53] È l’istantaneità che inventa i propri soggetti collocandoli in un diverso orizzonte espressivo e di valore, che si caratterizza  per la sua elevata autoreferenzialità[54]. Prende così progressivamente forma un modello di consapevolezza espressiva fondato sui nuovi elementi discorsivi apportati da questa pratica, ciò che consente per la prima volta di “piegare la rappresentazione al proprio ordine, di imporre al visibile la griglia della tecnica, di trasformare il soggetto della pittura nell’oggetto della fotografia”[55], di più ancora, come abbiamo visto nel caso di alcune riprese relative a Crea: di cercare l’istantaneità del gesto anche nella lettura delle statue di Tabacchetti.

Nell’opera di Francesco Negri questa libertà nuova ha assunto forme diverse, che riguardano aspetti compositivi non meno che narrativi, così come la scelta di specifici soggetti.

Quanto all’accogliere le suggestioni di nuove possibilità sintattiche, basti pensare a certe vedute urbane[56],  ai modi di orchestrare le figure nello spazio, congiunte da intervalli così silenziosi da far emergere a volte un sentimento di desolata solitudine, quasi disperata. Si produceva così un tempo che appare sospeso, immoto, il più lontano dal fermo immagine  proprio dell’istantanea comunemente intesa. In altri casi è la rimessa in discussione del punto di vista a costituire il centro di interesse, come nella bella ripresa delle lavandaie dall’alto, o la scomposizione – affidata alle ombre – dell’inquadratura di una scena di strada altrimenti al limite del bozzetto folklorico. In entrambe un soggetto ampiamente frequentato e ormai consunto venne  rivitalizzato in modi che anticipano soluzioni che saranno poi programmaticamente perseguite dai fautori della “nuova visione”.

Negri non escludeva alcun uso della fotografia. Non temeva la banalità del quotidiano, poiché la fotografia (gli) consentiva anche questo: di raccontare un gesto qualsiasi, cui si è legati anche solo da un fuggevole sentimento momentaneo, con grande e risolutiva economia di mezzi. Per questo – credo – non temeva neppure di misurarsi con qualcosa che noi oggi possiamo forse chiamare il qualunquismo delle ricorrenti pose goliardiche, dei piccoli gesti di pessimo gusto, di intere serie di “foto col colombo in man”. Non solo desiderava misurarsi con la fotografia, ma anche sottoporne a verifica le potenzialità, affidandosi al piacere sorprendente di estrarre il singolo gesto fugace dal flusso continuo dell’azione. Mi riferisco al velleitario tentativo di dimostrare come fosse possibile la “Abolizione della film (…) vantaggiosamente sostituita dalle comuni lastre sensibili”, condotto utilizzando il bizzarro apparecchio Olikos[57], ma ancor più alle due opposte serie delle scene di ballo e della brevissima, sorprendente sequenza del tuffo nelle acque del fiume, altro “soggetto istantaneo” praticato da molti fotografi il cui successo non era immune, secondo alcuni, da più o meno esplicite suggestioni della cultura omosessuale.[58]

Questa sindrome dell’istantanea fu immediatamente individuata e precisamente descritta da Albert Londe, direttore del servizio fotografico al cronicario parigino  della Salpêtriére col grande psichiatra Jean-Martin Charcot,  che nel suo saggio dedicato alla Photographie instantanée notava come “molti fotoamatori da quando possiedono un otturatore non sognano altro che di fotografare dei cavalli in corsa o dei treni espressi” , sebbene questo si rivelasse ben preso un compito ingrato, poiché “se la ripresa ottenuta è nitida il treno appare irrimediabilmente fermo e solo la dichiarazione del fotografo, ancor più del pennacchio di fumo che volteggia, garantisce l’istantaneità della posa.”[59]

Ciononostante l’attrazione per questo soggetto – in Negri come in altre decine di pittori e fotografi europei e statunitensi, ben prima delle celebrazioni futuriste – fu irresistibile, poiché la locomotiva rappresentava  la materializzazione di una velocità inumana, sino a prima inimmaginabile. Era e rimane per questo il simbolo più efficace e pieno della modernità della prima rivoluzione industriale, ma costituiva anche il banco di prova dell’istantaneità fotografica: velocità contro velocità, otturatore vs motore. Senza poter impedire che sfuggisse però – irresistibile – una scenografica massa cangiante di fumo e vapore bianco, come di nuvole fatte a macchina.

I diversi ambiti della sua attività, così come si sono  andati delineando ci consentono un’affermazione che può apparire sorprendente: sino agli anni Novanta Negri non fu un amateur photographer, ma uno studioso che usava in modo molto accorto e appropriato la fotografia, trovando in questo campo di applicazione specialmente motivi di interesse tecnologico. Basti pensare alla progettazione del teleobiettivo, che costituiva in quegli anni un rilevante problema ottico meccanico, già affrontato da Thomas Rudolphus Dallmeyer a Londra e da  Adolf Miete a Berlino sin dal  1891, quindi da Giorgio Roster e Innocenzo Golfarelli in Italia, e che lui risolse operativamente per primo nell’arco di poco più di quattro anni, a partire dalle sperimentazioni avviate nell’aprile 1892 sino alla messa in produzione da parte della ditta milanese Francesco Koristka nel 1896.[60]

Il profilo architettonico della città, insieme alle montagne lontane, era ciò che lo attirava per primo nella sperimentazione del nuovo strumento ottico, la possibilità di incidere nella veduta panoramica un percorso visivo di avvicinamento estremo, sino alla scala del singolo edificio o tenendosi un poco più largo per rivelarne le aguzze emergenze che lo distinguono, le più antiche torri e le ciminiere dei cementifici, mantenute significativamente in primo piano anche in un’altra ripresa in cui notava l’adagiarsi calmo della città nell’ansa ampia del fiume. Poco sembrano interessarlo invece le singole emergenze architettoniche. Non rientrava tra i suoi scopi la formazione di un repertorio visivo del patrimonio storico urbano; attento semmai agli spazi da vivere, tra le piazze, i giardini e il lungofiume. Poi le infrastrutture, forse anche in virtù della sua stessa funzione di amministratore pubblico. La sua è una città che appare scarsamente popolata, sebbene alcune tra le primissime riprese, ancora su lastra al collodio, fossero dedicate all’imprendibile animazione di piazza Mazzini in un giorno di festa, e ancora anni dopo avesse generosamente impiegato il proprio apparecchio stereoscopico per raccontare l’animazione di piazza Castello in occasione di qualche fiera, tra padiglioni e giostre.[61]

La città che sembra attirarlo di più è quella degli spazi vuoti, non di rado marginali, quella che appare  nelle giornate uggiose, con scarsi passanti, nell’elegante griglia dei giardini innevati, deserti.

Anche del fiume ciò che maggiormente costituiva per lui richiamo non era la vita sulle sue sponde, pur non esclusa, ma la sua relazione inscindibile con la città e col paesaggio che la circonda, letteralmente nato per erosione e accumulo, tra bordi collinari e pianura. Raccontare il fiume voleva dire per Negri reinventarne fotograficamente la maestosa ampiezza, minacciosa a volte; alzare panoramicamente il proprio  sguardo sino a cogliere il dialogo con la geografia dell’intorno o ridursi al breve orizzonte chiuso dagli argini, estendendo il proprio sguardo a tutti i paesaggi d’acque che circondano la città, sino alle più prossime risaie, fotografate forse per l’amico Angelo Morbelli.[62]

Quasi si potrebbe dire che solo nell’ultimo decennio del secolo Negri divenne un dilettante, aprendosi liberamente al piacere dell’istantanea, ma rivelandosi soprattutto un ritrattista di gran livello, così come sarebbe accaduto per un altro amateur della generazione successiva come Enrico Del Torso (Trieste 1876 – Udine 1955)[63]. È proprio in questa serie di figure che risulta dal dialogo serrato coi soggetti fotografati, tutti palesemente in relazione di stretta conoscenza, di familiarità col fotografo che emerge per la prima volta un esplicito impegno espressivo, scalato in una ricca serie di soluzioni linguistiche, frutto di uno sguardo innovativo e scarsamente condizionato dai modelli della fotografia pittorialista; immagini  destinate alla pura  fruizione privata. Come aveva già notato Marina Miraglia[64], Negri fu “tra i pochi fotografi amatori piemontesi che oltre all’immagine del territorio indagò, in toccanti istantanee, la propria quotidianità familiare”, riuscendo però a trascendere ampiamente questi angusti limiti sino a restituire l’identità visiva della borghesia casalese tra Otto e Novecento, a offrire esiti innovativi all’ormai lunga consuetudine del genere.

Dopo una pausa di circa un trentennio l’archivio di Negri si popola nuovamente di persone, spesso inseguite e colte nella relativa libertà del gesto quotidiano, in modi mantenuti volutamente lontani dalla prestabilita compostezza della ripresa in studio, a meno che ciò non costituisca quasi un esercizio di citazione. Gli sfondi, appena fuori fuoco, sono di interni borghesi, ma non mancano certo gli esterni, che anzi tendono a prevalere col procedere degli anni. L’attenzione è per la figura (non sono ritratti ambientati) anzi, ancor più, è concentrata sul volto e in questo sullo sguardo, che a volte emerge dall’ombra, con una modernità priva di inquietudine. Oppure si rivolge diretto alla macchina, al fotografo quindi, in segno di manifesta confidenza, o si ritrae pudico per analoghe ragioni. Anche qui ritroviamo esempi di sperimentazione linguistica condotti al limite della citazione, ma sempre con la levità quasi innocente del dilettante. Penso alla figura stante, di profilo, con lunga tunica bianca, in cui le suggestioni tra preraffaelitte e simboliste piuttosto che sublimare l’identità concreta e storica della persona ritratta – come accadeva circa gli stessi anni nelle fotografie di Guido Rey – contribuiscono a marcarne la connotazione. Penso anche alle due ieratiche figure di netto profilo, forse una coppia, di ancora più antiche ascendenze pittoriche ma certo di scarsa applicazione nella ritrattistica coeva: ad esclusione della segnaletica, certo.

I modi oscillano continuamente tra gli estremi opposti delle silhouette prefotografiche, alcune provate virtuosisticamente in esterni, e la vivezza dell’istantanea, in cui uno sguardo colto quasi al volo, un gesto rivelano improvvisamente qualcosa della persona ritratta, aprendo la strada che poi sarebbe stata ampiamente frequentata dalla fotografia degli anni della modernità.

Anche il tema del paesaggio – secondo le date autografe apposte alle lastre – non venne sistematicamente affrontato prima della fine degli anni Ottanta, quando però si trattava ancora, il più delle volte, di vedute di  località, non di paesaggi veri e propri[65]. Tra i primi soggetti con cui si misurava vi era la montagna, certo una nobile tradizione per la fotografia piemontese e per lui legata ai soggiorni in alta Val Sesia (Alagna e soprattutto Riva Valdobbia, dal 1888) e poi in Valle d’Aosta (Courmayeur, Châtillon, la Valtournenche tra 1897 e 1899). Sono prevalentemente vedute di ampio respiro, che restituiscono l’insieme del contesto alpino o si soffermano sui piccoli insediamenti di fondovalle. Negri non era un alpinista, solo di rado il suo sguardo veniva attratto dalle catene montuose o dai fronti di ghiacciaio, memore delle favolose immagini dei primi grandi fotografi di montagna, non più di trent’anni prima[66]. Non per questo però la qualità della sua produzione fu meno nota e apprezzata se Vittorio Sella[67], forse il più grande fotografo alpinista del XIX secolo, scelse alcune sue riprese per una mostra aostana dedicata proprio a questo genere, realizzandone in proprio una nuova stampa delle eccezionali dimensioni di 53,5×218,5 centimetri. Più interessanti ci sembrano oggi i paesaggi veri e propri, per quella sua capacità di sorprenderci con piccoli scarti improvvisi, inattesi; per la scelta di soggetti inconsueti e quasi marginali che gli consentono però di orchestrare l’inquadratura in modo dinamico, con la ricorrente presenza di elementi in primo piano con funzione di quinta e di scomposizione dell’inquadratura, oppure ricorrendo per analoghe ragioni alle amatissime ombre portate di elementi fuori scena.

La più costante attenzione fu però rivolta alla vegetazione nelle sue diverse forme, alle specie spontanee riprese in stereoscopia ancora nel 1899 con lo sguardo del naturalista e specialmente alle masse alberate che chiudono l’orizzonte dei campi, che segnano il margine delle lanche, al folto dei boschi. Tutti soggetti che ben si prestavano ad essere trattati col metodo della tricromia.

Paesaggio e colore in un qualche modo si sovrapponevano, e neppure la montagna faceva eccezione,  esito di una mediazione che era pittorica e tecnologica insieme. Com’era per l’istantanea, anche la tricromia[68] imponeva i propri soggetti, non solo per l’ovvio prevalere d’interesse della gamma cromatica sulle modulazioni tonali, ma anche e forse soprattutto perché la realizzazione distinta dei tre negativi di selezione imponeva la scelta di soggetti sostanzialmente immobili, la cui forma permanesse immutata per il tempo necessariamente lungo delle tre distinte pose.

Dopo le prime prove del 1890 (una ripresa di fiori in vaso, con filtro rosso, datata 8 luglio) Negri si dedicò con costanza a queste esperienze a partire dall’ottobre del 1899 (“Quando cominciai nel dicembre 1899 a tentare la tricromia..”  ricordava nel 1906, sbagliando di poco), forse sollecitato dalla pubblicazione dell’importante testo di Carlo Bonacini La fotografia dei colori (1897) e da quello di Alcide Ducos du Hauron, fratello del più noto Louis, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie che l’editore parigino Gauthier-Villars aveva pubblicato nello stesso anno.  L’interesse per il tema era però di molto precedente come dimostra la presenza nella sua biblioteca del testo fondamentale di Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objects colorés avec leurs valeurs réelles (1887), e confermata dalla presenza di periodici specializzati quali “La Photographie des Couleurs” e del più tardo volume di Ernst König,  Natural-color photography, del 1906.

L’attenzione non episodica per questo tema è oggi testimoniata dalle sessanta tricromie presenti nel Fondo[69], “sintesi di un lungo e paziente lavoro, il quale lascia dietro di sé un enorme sciupio di lastre, pellicole e colori”; poi aggiungeva:  “di schermi ne ho fatti molte decine, di colori ne ho passati in rassegna più di un centinaio.”[70]

Gli esiti di questa metodica applicazione furono immediatamente noti e apprezzati, tanto da determinare la partecipazione nel 1902 alla grande Esposizione di Arte decorativa moderna e contemporanea che si tenne a Torino,[71] chiamato a rappresentare l’Italia nella sezione dedicata alla fotografia[72]. L’invito doveva certo essere giunto dallo stesso Presidente del Comitato promotore dell’Esposizione internazionale di fotografia artistica Edoardo di Sambuy, che Negri aveva conosciuto in occasione dei due primi congressi italiani di fotografia a Torino (1898) e Firenze (1899). La condivisione dell’iniziativa con autori quali Guido Rey, Cesare Schiaparelli, Giacomo Grosso e Vittorio Sella, solo per citare i maggiori, consacrava Negri come uno dei più significativi autori a livello nazionale, sebbene il suo modo di intendere e praticare la fotografia poco avesse da condividere con le pratiche ‘artistiche’ allora dominanti, analogamente a quanto accadeva del resto anche per Vittorio Sella.

Pietro Masoero, commentando l’Esposizione sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” segnalava le “magnifiche tricromie su pellicola di Francesco Negri di Casale, destanti l’ammirazione generale. E questa volta il pubblico giudicava bene. I saggi presentati dal Negri erano perfetti sotto ogni rapporto e per il primo credo, dalla natura morta osò riprodurre a colori la natura aperta come un’aiuola di viole del pensiero e un canale del Po con effetto di tramonto.”[73]

L’ammirazione del pubblico era certo favorita dalla semplicità di queste composizioni, lontane dalle “inusitate forme” e dalla “esagerazione della ricerca” della più avanzata produzione straniera di gusto pittorialista, specialmente statunitense. La novità dirompente, assoluta, per noi oggi incommensurabile era però il colore fotografico, tanto urgente per la cultura scientifica dell’epoca da meritare un Nobel al francese Gabriel Lippmann nel 1908, per la messa a punto del metodo interferenziale diretto di fotografia a colori; quello  che i fratelli Lumière, grandi sperimentatori e recenti inventori dell’autocromia, molto sottilmente definivano come “una meravigliosa esperienza di laboratorio e una elegante conferma della teoria fisica della luce”, priva però di qualsiasi utilità pratica.

Come si è detto, non che Negri non avesse mai affrontato il tema del paesaggio prima di misurarsi con la difficoltà tecnica delle tricromie, ma qui – appunto – il senso e le ragioni della scelta risiedevano nei vincoli imposti dal procedimento e l’interesse per il genere assumeva una vitalità nuova. La scelta del tema ma anche quella del luogo, quel paesaggio fluviale e collinare che segna i dintorni della città e che tante volte aveva  già descritto e studiato, forse non estraneo all’intenzione tutta positiva di annodare le fila delle trame che costituiscono un territorio, in anni in cui si avviavano in Italia le prime riflessioni in merito alla tutela del paesaggio[74]. Il soggetto (insieme, non a caso, alla natura morta) risultava quindi in certa misura imposto, quasi  ineluttabile, ma non per questo nella determinazione dell’inquadratura e nella costruzione generale dell’immagine non è possibile riconoscere suggestioni, stimoli visivi e culturali precisi  esito di sguardi educati a vedere secondo canoni determinati, non casuali.  Mentre il trattamento dominante del paesaggio negli anni della “Fotografia Artistica” prediligeva i toni bassi e brumosi (fontanesiani quasi), qui insieme al colore entrava in gioco la luce, meglio ancora la luminosità densa dei tre strati policromi, restituita in tutte le sue gradazioni al momento della visione per trasparenza.

Accanto ai paesaggi le sobrie nature morte,  eleganti studi condotti nella calma racchiusa del proprio studio.

Nella messa a punto di questi set di ripresa Negri  mostra un’attenzione e una sapienza nel trattare la luce che invano cercheremmo nelle altre fotografie. Il soggetto, perfettamente centrato, ripreso frontalmente, quasi affiora dal piano posteriore cromaticamente intonato oppure si stacca, netto, dal fondale scuro e indistinto, da cui i colori pastosi delle gelatine emergono con evidenza materica.

L’accuratezza di queste composizioni testimonia da sola le sue potenzialità, ma conferma anche il suo scarso interesse generale per le questioni estetiche, qui sollecitate dalla sfida della più efficace, spettacolare resa del colore e risolta applicando modelli compositivi direttamente desunti da analoghi  esempi pubblicati dalle riviste dell’epoca sotto forma di tavole fuori testo[75]  o comunque di ampia circolazione come gli Etudes de Feuilles di Charles Aubry, del 1864, ma ancor più la serie dei Fleurs photographiées realizzata da Adolphe Braun nel decennio precedente (1854-1856), che costituì a sua volta modello per innumerevoli autori successivi, tra fotografia e pittura.

La sua attività fotografica proseguì ancora per circa dieci anni,  le ultime annotazioni autografe datano le immagini al maggio 1915, ma certo l’incontro con le opere dei maggiori protagonisti della stagione pittorialista avvenuto a Torino non produsse in Negri alcuna velleità di confronto, alcuna suggestione.  Quando nel 1906 pubblicò sul “Bullettino della Società Fotografica Italiana” e quindi ne “Il Progresso Fotografico” i suoi Appunti sulla tricromia, apparentemente l’unico suo testo dedicato alla fotografia, le notazioni erano esclusivamente di carattere tecnico[76];  invano si cercherebbe un cenno alla poetica o anche solo alle ragioni del fotografare a colori.

Il suo operare fu continuamente delimitato da  orizzonti puntualmente definiti e temporalmente circoscritti, dove la maestria nell’individuare di volta in volta i parametri applicativi più adatti alla più efficace soluzione del problema si coniugava e si confondeva col desiderio, con la necessità di un continuo confronto tecnologico propria dell’autodidatta, del fotografo dilettante che agli albori della modernità si appresta a divenire fotoamatore. Anche la sua connotazione di autore ‘locale’ sembrerebbe muovere il giudizio in tal senso, ma è indispensabile distinguere. Certo la scelta dei soggetti, la delimitazione geografica della sua area di lavoro fu fortemente radicata nel territorio casalese, luogo in cui si fondavano e si svolgevano le ragioni e le trame che legavano i suoi molteplici interessi. Ma la sua cultura, le ragioni i modi e gli esiti della sua pratica fotografica rivelarono, già ai contemporanei il suo valore sovralocale, la sua singolare figura di fotografo tra i più rilevanti degli ultimi decenni del XIX secolo in Italia, impossibile a ridursi a una tipologia che non sia quella di uomo del suo tempo, enciclopedico ed eclettico. Indifferente alle gerarchie di valore lui accoglieva e usava tutta la fotografia; ne coglieva e apprezzava l’infinito spettro di possibilità indifferenziate di puro e affascinante strumento, in grado all’occasione di divenire gioco raffinato o elegante problema da risolvere. Mezzo d’espressione cui concedere poco però, da cui lasciar trasparire quasi nulla di sé. Per questo non credo che Francesco Negri si sentisse ‘autore’, non almeno nel significato trasmesso dalla tradizione artistica e ancora oggi troppe volte accolto e usato senza cautele. La sua presenza più definita e personale riusciamo a trovarla, a leggerla con sufficiente chiarezza solo nella produzione più riservata e personale dei ritratti e delle istantanee, nascosta sino ad ora a sguardi che non fossero intimi. “Carattere complesso – lo ricordava il canonico Francesco Gasparolo nel 1925 –  davanti a cui (…) si rimane perplessi nel giudicare, se la difficoltà di misurare l’alto valore dell’uomo provenga dalla sua eccessiva modestia o da fierezza d’animo. Converrebbe probabilmente conchiudere che ambedue siano state le cause.”

 

 

Note

[1] È opportuno ricordare, e ribadire, che ciò che si mostra in questa occasione non è solo una inevitabile selezione, come necessariamente accade ogni volta che ci si propone di presentare criticamente l’intero ciclo operativo di un fotografo.

L’antologizzazione delle fotografie realizzate da Francesco Negri è, ancor prima, conseguenza di ciò che si è riusciti a mostrare, ma non rispecchia fedelmente l’insieme di ciò che si è conservato, per ragioni che credo indispensabile motivare almeno sinteticamente.

L’insieme dei materiali su cui abbiamo condotto le ricerche qui pubblicate, tutti conservati nel Fondo Negri della Biblioteca civica di Casale Monferrato, appartiene a quella porzione – crediamo prevalente – della sua produzione che è riuscita a superare il corso dei decenni sopravvivendo a dispersioni, vicende giudiziarie, incuria e non sempre opportuni e accorti interventi. In quasi totale assenza di stampe originali, forse disperse negli anni, la selezione  è stata condotta prevalentemente sui negativi, rinunciando comunque dolorosamente a presentare le lastre irrimediabilmente rigate, quelle la cui emulsione non si è negli anni gonfiata e parzialmente staccata, quelle su cui una mano tanto volonterosa quanto imprudente non ha incollato, solo pochi decenni orsono, micidiali etichette identificative. Come ha ben documentato Barbara Bergaglio, per troppo tempo il Fondo Negri è stato sfruttato come una risorsa di cui poco importava la conservazione nel tempo, ponendo in essere insufficienti cautele e attenzioni sia in termini di condizioni fisiche che di sicurezza. Non si spiega altrimenti l’attuale assenza di alcune immagini e documenti pubblicati nella monografia curata da Cesare Colombo nel 1969, ma anche di altri beni strumentali e immagini individuati da chi scrive alla fine degli anni ’80, confermati dalla schedatura condotta dalla Fondazione Italiana per la Fotografia e oggi non reperibili.

Per meglio identificare i forti limiti entro cui è stato costretto il presente lavoro è necessario ricordare che la committenza non ha ritenuto opportuno favorire l’ampliamento delle ricerche presso quelle istituzioni e collezioni private che notoriamente conservano immagini e documenti relativi all’attività di Negri. Non è stato così possibile, ad esempio, studiare e utilizzare la ricca e varia documentazione conservata presso il Sacro Monte di Crea, che fu l’amato laboratorio di una vita per Negri, né rendere note alcune eccezionali testimonianze della sua precoce fortuna critica, penso in particolare alle bellissime stampe fotografiche di panorami alpini che Vittorio Sella trasse da sue lastre negli anni Trenta del Novecento, i cui negativi sono oggi conservati presso la Fondazione Sella di Biella, mentre alcuni positivi in diversi formati, anche di grandissime dimensioni, sono conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Montagna di Torino e nei fondi Fotografici della Soprintendenza regionale della Valle d’Aosta.

Sono infine convinto che le collezioni private, specialmente casalesi, avrebbero potuto riservare interessanti sorprese, offrire significative testimonianze di una consuetudine, certo sua, a concedere ad amici ed estimatori i migliori esemplari della sua vasta e poliedrica produzione, oggi tanto più preziosi in conseguenza della scarsità di stampe originali conservate nel Fondo.

[2] Disderi 1862, nota a p.169, accanto alla formula del “collodion pour l’été”.

[3] Escludendo Padre Vittorio della Rovere (1811 – 1863 ?), di nascita casalese ma vissuto prevalentemente tra Torino e Roma, ben noto per le sue rare immagini e gli studi sulla stereoscopia (cfr. “Atti dell’Accademia dei Lincei”, 8, 1854) e ancor prima sulla  dagherrotipia, per cui si rimanda a L’Italia d’argento, 2003, p. 246, scheda siglata “mfb” [Maria Francesca Bonetti], e stando alle poche notizie certe, negli anni intorno al 1860 a Casale si registrava la sola presenza di Antoine Valentin, di evidente origine francese, della Fotografia Sociale, Via della Posta n.6, e di un  “V. Casazza \ Geom.tra Fot.fo \ Casale” non altrimenti noto, sebbene l’interesse per la nuova invenzione dovesse essere stato molto precoce, come indica la presenza nel Fondo Negri di Buron 1841, che porta al frontespizio il timbro ex-libris della biblioteca della famiglia Vitta, di cui sono note le relazioni con la Francia in relazione alla costituzione del Crédit Lyonnais.

Nei decenni successivi furono attivi Virgilio Tamburini, 1879 – 1905 ca, Via Sant’Ilario 18 poi via Garibaldi 6, cui subentrerà E. Camurati ai primi del ‘900; Carlo Giovara, 1880 ca, Via Vittorio Emanuele II (Palazzo Treville) e piazza dell’Addolorata, Casa Cerinola, con succursale a Chivasso; A. Manfredi, attivo dal 1883 a Torino, Via Lagrange 15, poi dal 1893 al 1895 in Piazza San Carlo 4, che possedeva anche una succursale a Casale, Piazza dell’Ospedale di Carità, 6  ove subentreranno prima del 1899 Giuseppe Menzio e F. Rota (presente al Congresso di Firenze del 1899) prima di aprire ciascuno studio proprio. E ancora: Premiata Fotografia (Fotografia e Pittura)   Angelo Bensi, 1890 ca, piazza Carlo Alberto 2, cui succederà  Ezio Bensi, titolare dello Stabilimento Fotografico Arte Moderna, 1908, Viale Regina Margherita 2 e Via Ricovero (casa Ing. Masazza), citato all’Esposizione del 1909 per “gli ingrandimenti degli autopastelli” [sic] di Leonardo Bistolfi e dell’Archinti” (Ettore Archinti, 1878 – 1944).

Altri studi e fotografi seguiranno nei decenni successivi come A. Armani, attivo dal 1920, Battaglieri, Goffredo Calvi, con notizie nel 1907,  Colombino, La Fotoelettra, Foto Lori, dal 1925,  Melotti, C. Migliore e L. Piantone, mentre ancora più incerto è l’universo degli amateur photographers come quell’E. Morbelli (sotto cui potrebbe celarsi un refuso) di cui si pubblica un “superbo gruppo di piante” ne “Il Progresso fotografico” dell’ottobre 1898 o altri casalesi presenti all’Esposizione del 1909 come l’avvocato Silvio Montalenti, Felice Deambosi, il dott. Emilio Iaffe . “Bisogna però convenire – ricordava il redattore – che Casale e provincia, per quanto non sia un gran centro, ha però un forte nucleo di dilettanti che è ben difficile trovare altrove.” (“Il Progresso Fotografico”, 1909, pp. 126)

[4] Per una puntuale ed esauriente presentazione critica dell’ambiente torinese si veda Miraglia 1990.

[5] Nel 1863 aveva sposato la novarese Giulia Ravizza, con cui abitava in via Benvenuto San Giorgio “nella casa che fu dei Della Rovere di Casale” (Mattirolo 1925, p.10, nota 3), poi demolita nel secondo dopoguerra. La moglie era la prima figlia dell’avvocato Giuseppe Ravizza (Novara 1811- Livorno 1885), erudito cultore di storia e archeologia in stretta relazione con Theodor Momsen con cui redasse il Catalogo primo del Museo Patrio di Suno ed Appendice alle Memorie storiche.  Novara: Tip. Merati,  1877, più noto come inventore della prima macchina da scrivere a tasti, il  “Cembalo scrivano” del 1855, i cui cimeli “posseduti e custoditi gelosamente” da Federico Negri vennero esposti nel padiglione Olivetti dell’Esposizione agricolo-zootecnica di Novara del 1926, cfr. Aliprandi 1931, da cui pervennero al Museo della Scienza di Milano, che conserva anche un ritratto di Giuseppe Ravizza con la moglie Ernesta  Brosio e la seconda figlia Elisa realizzato da Francesco Negri nel 1864,  donato al Museo proprio dal figlio Federico nel 1931. Colgo l’occasione per ringraziare Paola Mazzucchi, responsabile della Biblioteca del Museo per avermi cortesemente fornito alcuni dati in merito alla provenienza di questi oggetti.

[6] Cfr. qui La biblioteca del fotografo.

[7] Quale ulteriore testimonianza della prima pratica fotografica di Negri segnaliamo che nella lastra 10B144 compare una camera oscura portatile per la preparazione di lastre al collodio, non dissimile da quella usata circa negli stessi anni dal pastore valdese David Peyrot e oggi compresa nelle collezioni del Museo nazionale del Cinema di Torino.

[8] Dopo i primi esempi riferibili all’avvio della sua attività fotografica, la consuetudine di annotare ai bordi della lastra i dati di ripresa e sviluppo con più rare indicazioni relative al soggetto fu riavviata intorno al 1885 per proseguire ininterrotta sino alle ultime lastre, datate maggio 1915.

[9] Henry Festig Jones ricordava come il padre di Negri (gran cacciatore, morto per la puntura di una zanzara) abitasse proprio a Ramezzana, avendo sovente come ospiti  Cavour e il principe Dal Pozzo della Cisterna, ma anche Vittorio Emanuele II, che volentieri coccolava il piccolo Francesco; cfr. Jones 1919, p. 113.

[10] Disderi 1862, ora in Frizot, Ducros 1987, pp.  36- 47 (39).

[11] Si confronti ad esempio il ritratto di un giovane prelato in piedi, poggiato alla spalliera di una sedia tenuta in equilibrio, [9C138] con l’identica posa del [Ritratto della moglie] di Giuseppe Alinari, 1870 ca, in Quintavalle 2003, p. 273.

[12] Bertelli 1979, p. 76.

[13] Ricordiamo come a questa data fosse già in relazione col botanico Vincenzo Cesati (Milano 1806 – Vercelli 1883), che gli dedicò uno Xantium, che lo stesso Negri aveva trovato per primo a Castell’Apertole (Livorno Ferraris), cui  secondo Oreste Mattirolo 1925, p.7 lo legavano anche “aspirazioni patriottiche comuni”. Ancora alla relazione con Cesati si doveva la conoscenza con Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891) [che definì Negri “distinto botanico”] segnalata ancora da Mattirolo 1925, p. 8 e poi ripresa da tutti i commentatori successivi, che Negri accompagnò  alle cascate del Toce, redigendo quell’elenco “delle specie crescenti nell’Alta valle del Toce” che fu pubblicato ne Il Belpaese, 1875.  L’immutato interesse per la botanica è documentato fotograficamente da una serie di stereoscopie datate aprile 1899. (R0096654- R0096658)

[14] Didi-Huberman 1986, p. 71, corsivi dell’autore.

[15] Allo stesso anno risale Moitessier 1866, un trattato molto noto che ben documenta la fase di massimo successo in ambito fotografico di questo genere di immagini, che consentivano agli studiosi di colmare il vuoto filogenetico tra organismi inferiori (dai batteri alle alghe) e superiori (l’uomo) in maniera compatibile con il gradualismo evoluzionista delle nuove teorie darwiniane ( Jeffrey 1999, p. 38). Lo stesso editore  aveva pubblicato nel 1845 l’Atlas du Cours de Microscopie Donné e Foucault, considerata la più antica pubblicazione di fotomicrografia. Già il 17 febbraio del 1840 Alfred Donné (1801 – 1878) professore al College de France, aveva presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi per il tramite di Jean-Baptiste Biot delle fotomicrografie su dagherrotipo ottenute alla luce ossidrica grazie ad un microscopio solare (Corcy 2003, p. 64). Quasi negli stessi giorni, il 4 marzo,  il medico e matematico viennese Andreas Ritter von Ettingshausen (1796 – 1878) aveva realizzato la fotomicrografia di una sezione di Clematis (Frizot 1994, p. 276; Marien 2002, p. 34), ma come è noto già tra gli esemplari fotografici di Talbot presentati da Michael Faraday alla Royal Institution il 25 gennaio 1839 si trovavano immagini di ingrandimenti, tra cui l’ala di un insetto (Frizot 1994, p. 276; Jeffrey 1999, p. 35).

[16] Zannier 1986, p. 171.

[17] Diversamente dall’uso ottocentesco, proprio anche di Francesco Negri, per le riprese fotografiche ottenute per il tramite del microscopio utilizziamo il termine “fotomicrografia” e non  “microfotografia” con cui più specificamente oggi si intendono i processi di miniaturizzazione delle immagini.

[18] Diresse il Gabinetto di crittogamia del “Giornale Vinicolo Italiano” dal 1869-1879 ed entrò in relazione di studio con importanti ricercatori internazionali come Felix von Thumen, che gli dedicò il micromicete Phoma Negriana . La sua produzione venne tempestivamente segnalata da Angelo De Gubernatis, che lo inserì nel proprio Dizionario del 1879 (II, pp. 1221-1222) come “scrittore piemontese, avvocato.”

[19] Negri, Pisolini 1882 Contribuzione allo studio dei bacilli speciali delle tubercolosi. Firenze: Tip. Cenniniana, 1882, estratto da “Lo sperimentale: giornale italiano di scienze mediche”, Agosto 1882.  Pisolini era il medico che gli fu vicino anche nel giorno della morte, il 21 dicembre 1924.

[20] Greco 1969, pp. 86-87, cui si rimanda per la descrizione analitica degli esiti fotomicrografici di Negri.

[21] Questa emergenza sanitaria costituì l’occasione per la pubblicazione di Negri, Cassone 1885.

[22] Bertelli 1979, p. 76; che considerazioni di ordine estetico potessero convivere con  intenzioni di accuratezza documentaria, non essendo di fatto in contraddizione tra loro è testimoniato non solo da buona parte della cultura ottocentesca, ma anche più in particolare da molta fotografia naturalistica e micrografica. Penso, per esemplificare,  ad un autore come Giorgio Roster, il cui percorso professionale e di ricerca ha più volte incrociato il cammino di Negri, per il quale rimando a Principe, Sensi, Casati 2004.

[23] Butler 1888, con 21 tavole f.t. da fotografie dell’autore, che proprio a questo scopo aveva preso lezioni in Inghilterra nell’inverno del 1887, cfr. Jones 1919, p. 109.  L’edizione italiana riveduta e ampliata, tradotta da Angelo Rizzetti, venne pubblicata a Novara nel 1894 dalla Tipo-Litografia dei Fratelli Miglio con una titolazione semplificata (Ex Voto. Studio artistico sulle opere d’arte del S.Monte di Varallo e di Crea) ma con un apparato iconografico lievemente ampliato. L’archivio fotografico di Butler, oggi conservato alla St John’s College Library dell’Università di Cambridge, è costituito da circa 1600 negativi su lastra (databili 1888 – 1898) e da cinque album contenenti complessivamente circa 1700 stampe con una cronologia compresa tra 1891 e 1898. Cfr. https://archiveshub.jisc.ac.uk/search/archives/516c6af9-031d-3239-b4db-668ec60a0dcd?component=0a2d1de2-378b-3bd7-b37e-e891b3c16d39  (dicembre 2022). La sua produzione fotografica è stata studiata da Shaffer 1988 e presentata in Butler 1989. Butler era andato a Casale già nel settembre del 1887, provenendo da Alagna dopo essere disceso a Gressoney attraverso il Col d’Olen, proprio per estendere le proprie ricerche su Tabacchetti, ma non pare che in quell’occasione avesse avuto modo di conoscere Negri.

[24] Mattirolo 1925, p.14 nota 1 ricorda che Negri scrisse il necrologio di Butler, non reperito in questa occasione né citato da altre fonti.

[25] Si vedano i diversi contributi pubblicati in Barbero, Spantigati 1998 e in particolare Maria Carla Visconti Cherasco, La nuova vita del Sacro Monte nell’ottocento fra ripristini e rinnovamento devozionale, pp.123-136.

[26] BCCM- Fondo Negri: Scat.42, 43.

[27]“Prendo l’occasione del nuovo anno per mandarle alcune fotografie prese a Crea mentre l’estate passato (sic). Lei vedrà subito che alcune sono cattivissimi restauri, furono fatti 30 anni fa da un certo padre Latini”, citato  in Durio 1940, p. 86. Le riprese si riferiscono  a un gruppo di pellegrini, alla cappella di sant’Eusebio (4 riprese di statue attribuite a Tabacchetti) e a quelle delle Nozze di Cana e della Natività, e portano tutte la data del 14 settembre 1891, mentre al giorno successivo risalgono un’immagine di bambini e il doppio ritratto di Don Minina e Francesco Negri, entrambe realizzate a Casale.

[28] Negri 1892  dedicato all’attività di Martino Spanzotti e della sua scuola, col corredo di due riproduzioni in fototipia delle vetrate (di cui si conservano i negativi), primo frutto delle sue ricerche di storia dell’arte condotte con rigoroso metodo di ricerca: “Da provetto legale quale egli era, applicò alle sue ricerche la severità delle regole procedurali, cercando di documentare ogni sua asserzione con riferimenti a contratti; a tavole testamentarie; a inventari, ecc. frugando negli archivi della sua regione per giungere a sbrigare le arruffate matasse che si riferivano alle biografie degli artisti casalesi”, Mattirolo 1925, p. 9.

[29] La possibilità di rendere efficacemente il gesto tradotto realisticamente da Tabacchetti venne affrontata da Negri anche in termini letterari nel saggio del 1902, in cui, dopo una notazione etico-politica sulla capacità del plasticatore di dare “al martirio l’impronta di una esecuzione capitale non tumultuosa e selvaggia, ma sebbene ordinata da un potere costituito su regole determinate  e regolari”, procedeva ad una interpretazione verista della scena, sottolineando “la movenza [del santo]  così naturale da spingere a dargli aiuto, a sostenerlo”,  come la “triste malvagità incosciente [della vecchia] che sia alza sulla punta dei piedi e allunga il collo fra due soldati per ben vedere.” (Negri 1902, p. 36).

[30]Per le suggestive relazioni tra scultura e fotografia cfr. Pygmalion Photographe 1985; Sculpter-Photographier 1991; Skulptur 1998.

Anche in altre occasioni lo sguardo di Negri procede oltre la pura documentazione per sottolineare la teatralità delle figure [740, Cappella del Paradiso] o cedere ad una bonaria ironia [361d, Cappella del Paradiso]. Diverso atteggiamento avrà nei confronti di opere bidimensionali come le vetrate o la grande Madonna col Bambino e Santi [48C] di Macrino d’Alba, ripresa più volte nella biblioteca del convento (?) forse anche per ottenerne una riproduzione in tricromia oggi non reperibile, ma che avrebbe potuto far parte delle “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” presentate da Pietro Masoero nel corso della sua conferenza Arte e fotografia tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi il 9 settembre 1901 (citato in “La Sesia”, 13 settembre 1901)

[31]Pubblicata in facsimile in Greco 1969 p. 24. Dopo la  morte di Butler (18-6-1902) gli esecutori testamentari H.F. Jones e R. A. Streatfeild  donarono a Negri uno schizzo a olio eseguito dallo scrittore nel 1871, in occasione del suo primo soggiorno a Varallo, “Preso dalla soglia della chiesa dell’Assunta” (Durio 1940, p. 22, nota 3).

[32] Negri 1902. Il casalese espresse a sua volta  “lode a Samuel Butler il quale, innamorato delle opere del Giovanni [Tabacchetti] ne scrisse a lungo nel suo Ex Voto non solo, ma nello intento di conoscerne il casato e l’origine si portò anche a Dinant” (Negri 1902, p. 65). Gli esiti delle sue ricerche avevano però portato alla  definitiva confutazione delle prime ipotesi formulate da Butler, tanto che al momento della riedizione dei suoi saggi, già comparsi in “The Universal Review”, il suo “esecutore letterario”  R. A. Streatfeild  decise di non ripubblicare la prima parte di A Sculptor and a Shrine. “Had Butler lived he would either have rewritten his essay in accordance with Cavaliere Negri’s discoveries, of which he fully recognized the value, or incorporated them into the revised edition of Ex Voto, which he intended to publish. As it stands, the essay requires so much revision that I have decided to omit it altogether.”, Richard Alexander Streatfeild, Introduction,  in Butler 1913. Per la prima volta nella storiografia artistica dedicata al Santuario, alle ricerche condotte direttamente sulle fonti  archivistiche e bibliografiche, corredate da una articolata  analisi storico-critica delle opere, faceva da riscontro la documentazione fotografica intesa quale ulteriore e specifico strumento d’indagine ma anche – sebbene in misura ridotta per esigenze di economia editoriale – di comunicazione, di illustrazione non subordinata al testo bensì a questo complementare, secondo il modello ancora una volta costituito dal saggio dell’amico Butler sugli Ex Voto, corredato da un apparato di illustrazioni che “The Spectator” aveva definito “strange and fascinating”. Tra 1891 e 1900 le prime riproduzioni fotografiche a comparire in volumi dedicati a Crea (Damonte 1891; Locarni 1900 ) si limitavano a una veduta generale e al prospetto della chiesa, sempre da riprese Negri, e ancora in Crea 1900, il numero unico pubblicato in occasione del pellegrinaggio diocesano al Santuario di Crea, con brevi scritti di F. Negri, G. Giorcelli, F. Valerani e altri, la sola cappella documentata era quella – da poco terminata – della Salita al Calvario, già da lui fotografata ma qui illustrata con fotografie attribuite a Giovanni Augusto De Amicis, cfr. Cavanna 1998.

[33] Gli studi sul Moncalvo (Negri 1895-1896) di cui nel 1893 fotografò gli affreschi nella chiesa di San Michele a Candia Lomellina, scat. 61,  figura ben più rilevante per la connotazione complessiva del complesso monumentale del Sacro Monte, confluirono in parte negli scritti dedicati a Crea, apparsi in forma definitiva nel 1902 ma sinteticamente anticipati in Crea 1900.

[34] Carlo Dell’Acqua (1834-1909), Direttore della Regia Biblioteca Universitaria di Pavia dal 1879 al 1883, gli inviava il numero de “Il Ticino”, del 1 marzo 1899 in cui era pubblicato il suo articolo Di Ambrogio Volpi da Casale insigne scultore ed architetto alla Certosa di Pavia (1567-1576) poi recensito da anonimo (Francesco Negri?) ne “L’Avvenire. Gazzetta del Monferrato” del 7 aprile 1899.

[35] Gustavo Frizioni (1840-1919), con cui Negri era in relazione almeno dal 1891, anno in cui gli aveva inviato alcune riproduzioni di dipinti chiedendogli pareri, gli scriveva da Milano il 20 febbraio 1904 “Mentre conservo gratissimo ricordo del capolavoro di Macrino a Crea Le sono riconoscentissimo della fotografia nuovamente mandatami. Mi serve di ottimo riscontro per una grande tavola che è certamente di lui, passata in America sotto il nome di Ghirlandaio.”,  BCCM – Fondo Negri, Corrispondenza.

[36] La relazione epistolare con lo studioso milanese, tra i promotori nel 1901 con Luca Beltrami, Luigi Cavenaghi, Francesco Malaguzzi Valeri, Gaetano Moretti, Corrado Ricci e altri della “Rassegna d’arte”, datava almeno dal 1901 e divenne progressivamente più confidenziale, sino a un colloquiale “tu” nel 1905. Dopo una prima segnalazione dello studioso milanese ne “La Lega Lombarda” del 1 luglio 1904 (cfr. Villata 2000, pp. 144-147) Diego Sant’Ambrogio dedicò a questo tema il saggio Il trittico di Macrino d’Alba nella cappella episcopale di Tortona, pubblicato nel “Bollettino della Società per gli studi di storia, d’economia e d’arte nel tortonese”, n. 5, 1906, poi riedito da A. Rossi, Tortona, 1906, cfr. Samek-Lodovici 1946.

[37] Colli, Negri, Rastelli [1914] 1996. Il Canonico Prof. Colli,  in relazione di studio anche con Luigi Gabotto, aveva da poco pubblicato il volume Crea, storia, cronologia, arte, culto, etc. Casale Monferrato: Tip. Editrice Ditta O. Pane, 1913, e ancora nel 1926 sarebbe tornato a percorrere la scia degli studi artistici di Negri con un saggio dedicato a Il Moncalvo, pubblicato dal Comitato per le Onoranze a Guglielmo Caccia. Nello stesso 1914 Colli e Negri collaborarono a De Amicis et al. 1914. Il sacerdote vercellese Alessandro Rastelli (1883 – 1960), viceparroco a Trino dal 1915, fu il fondatore dell’OFTAL (Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes). Le ventiquattro fotografie che costituiscono l’apparato iconografico del volume rappresentavano una novità significativa per l’editoria di soggetto trinese di quegli anni sia per la consistenza e la qualità complessiva sia per la figura dell’autore,  uno dei pochi sacerdoti a praticare la fotografia in quegli anni.  Sono prevalentemente immagini di architettura, complessivamente di buona qualità e tecnicamente ben eseguite, con inquadrature ordinate e precise, perfettamente in linea con i canoni della documentazione fotografica dell’architettura che si erano andati formando nel corso del XIX secolo. La loro precisa applicazione da parte di Rastelli lascia supporre un interesse ed una pratica non occasionali ed anzi ormai ben consolidati all’epoca della realizzazione del volume, e nella stessa direzione ci portano le nitide fotografie di interni, di ancor più difficile realizzazione. In assenza di dati precisi risulta quasi ovvio collocare la formazione fotografica di questo sacerdote proprio in quell’ambiente vercellese da cui proveniva, ricco di professionisti e dilettanti di buon livello quali Pietro Boeri, Pietro Masoero ed Andrea Tarchetti, ma evidentemente non è da escludere un ruolo di supporto e regia svolto dallo stesso Francesco Negri, cui Rastelli scriveva il 6 ottobre 1914, a poco meno di un mese dalla pubblicazione del volume,  per aggiornarlo sull’andamento della campagna documentaria: “Ho fatto invece quella del capitolo (interno) Non so però se potrà servire. Tutt’intorno sacchi e cesti di tagliarisi forestieri, e attorno alla colonna di mezzo trenta cent.[imetri] di paglia, il giaciglio dei medesimi”, ricordando che sarebbe andato “fra alcuni giorni” a fotografare il piccolo quadro dello Spanzotti a Trino, BCCM – Fondo Negri: Manoscritti, cartolina del 6 ottobre 1914. La foto dell’aula capitolare venne poi pubblicata (p.42) e costituisce ora un’importante testimonianza delle condizioni d’uso e soprattutto di vita nelle grange all’inizio del Novecento, mentre non venne utilizzata la riproduzione del “piccolo quadro”, cioè la Madonna col Bambino di Martino Spanzotti nella chiesa trinese di San Domenico, cfr. Cavanna 1996.

[38] Si veda a questo proposito quanto detto in Cavanna 1996, pp. XI- XII.

[39] Cavanna 1985.

[40] Nel Fondo sono conservate anche tre stampe all’albumina 18×24 ca di Secondo Pia, raccolte sotto il titolo Affreschi della Cappella di S. Margherita di Antiochia dell’Abbazia di Crea attribuiti a Cristoforo Moretti di Cremona.

[41] Cfr. Falzone del Barbarò, Borio 1989.

[42] Pia tornerà, come suo costume, più volte a Crea nei decenni successivi (1888-1919) realizzando complessivamente più di trenta riprese dedicate specialmente alle opere d’arte conservate nel santuario, alcune riprodotte eccezionalmente a colori con la tecnica dell’autocromia (1909-1910). Va qui notato  come la serie relativa alla statuaria delle cappelle, realizzata a partire dal 1902, sia  verosimilmente debitrice proprio della pubblicazione del saggio di Francesco Negri.

[43] Le immagini di Crea facevano parte di una serie dedicata alle Chiese della provincia di Alessandria, poi presentata alla Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884, cfr. Fotografi del Piemonte, 1977, pp. 29-30.

[44] Gabotto b  1925, p. 82, redatto poco dopo la solenne commemorazione di Negri tenuta a Crea da Oreste Mattirolo, con apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della chiesa. Un primo necrologio era già stato pubblicato nel febbraio dello stesso anno, Gabotto a, 1925.

[45] Come testimonia il pur impoverito Fondo fotografico, Negri ha utilizzato circa 20 formati negativi diversi, sovente corredati di notazioni autografe, dalle lastre 18×24 alle pellicole 17mm, ciò che fornisce indicazioni anche sulla ricchezza e varietà della strumentazione in dotazione, oggi presente nel Fondo in modo scarsamente significativo.

[46] Roster 1899, p. 25, che riprende in forma quasi letterale il concetto – del resto ampiamente condiviso da tutta la cultura di secondo Ottocento – espresso da Jansen dieci anni prima e posto in esergo a questo saggio.

[47] La quasi totale assenza di positivi impedisce – come già abbiamo notato – di valutare compiutamente gli esiti finali del lavoro fotografico di Negri, ciò che comporta l’assumersi il rischio di valutazioni a volte non documentalmente sostenute in modo soddisfacente, ma ci pare di poter ascrivere allo stesso piacere di reinvenzione del reale mostrato dalle esposizioni multiple anche il ricorrere di immagini stereoscopiche in cui la sovrapposizione dei bordi contigui dei due stereogrammi genera affascinanti paesaggi d’invenzione [8e16].

[48] Questo atteggiamento è efficacemente testimoniato dalla piccola serie di riprese ‘rubate’ col teleobiettivo [72A, 824B, 534].

[49] Brevettato nell’ottobre del 1886 dal tedesco Carl P. Stirn.

[50] È stata proprio la fotografia a contribuire a definire in senso moderno, visualizzandolo,  il concetto di istante. Quando nel 1886 Albert Londe – di cui Negri possedeva La photographie moderne, pratique et applications, 1888 – decise di intitolare il proprio volume Photographie instantanée, la comprensione di ciò che questo termine designasse era ancora incerta, tanto più la sua definizione, cfr. Gunthert 2001, p. 66.

[51] Alla definizione di questo nuovo genere che dapprima non prevedeva il riconoscimento di alcuno statuto, contribuirono non poco i milioni di immagini prodotte ad uso personale e destinate ad essere relegate nell’ambito della fruizione privata, da cui riusciranno a emergere e svincolarsi solo  in virtù  della loro natura essenzialmente quantitativa di fenomeno, giungendo poi a contribuire  significativamente all’accrescimento delle modalità linguistiche della fotografia del XX secolo.

[52] Bricarelli 1913, sottolineature dell’autore,  citato in Stefano Bricarelli 2005, p. 15, cui si rimanda per ulteriori riferimenti e citazioni.

[53] Marien 2002, p. 170.

[54] Penso allo Stieglitz newyorkese ad esempio, ma anche alle riprese di  Paul Martin a Londra, come alla sublime leggerezza di Jacques-Henri Lartigue.

[55] Gunthert 2001, p. 72, traduzione di chi scrive, corsivi dell’autore.

[56] Non mi pare che Negri intendesse invece raccontare i protagonisti della scena urbana, come faceva ad esempio Alessandro Perelli a Milano proprio nel 1910-1915, o più tardi Luciano Morpurgo, al di fuori della sua produzione più smaccatamente pittorialista.   Una familiare libertà presente in alcune immagini può semmai  avvicinarlo al Michetti delle foto al mare o all’operare di Giuseppe Michelini a Bologna.

[57] Si trattava di un “un apparecchio di cinematografia” messo in commercio in Italia a partire dal 1912, che consentiva di realizzare su ciascuna lastra  nel formato 9,5×9 84 fotogrammi cadenzati in sequenza a partire dall’alto secondo un ordine che potremmo definire bustrofedico e di cui si sono conservate nel Fondo 7 lastre negative e 40 positive.

[58] Secondo Rictor Norton ad esempio il successo di Bathing Boys, opera del pittore inglese Henry Scott Tuke (1858-1929) fu così folgorante che centinaia di amatori fotografi e pittori corsero a misurarsi con questo soggetto. Per questo due anni più tardi, nel 1890, la Amateur Swimming Association impose che tutti i concorrenti dovessero indossare i pantaloncini da bagno durante le gare,  cfr. Rictor Norton, The Beginnings of Beefcake, https://rictornorton.co.uk/beefcake.htm  (30 11 2022).

[59] Josef Maria Eder, Der Momentphotographie. Wien, 1884, pp.9-10, citato in Gunthert 2001, pp. 80, traduzione di chi scrive.

[60] È del 25 aprile 1892 la prima prova documentata, una veduta di Casale da Sant’Anna “m.1500 40 ist. 4 pom”, forse realizzata ancora con quel rudimentale dispositivo “formato di due tubi di cartone”  che venne poi  esposto all’ammirazione di tutti nella sezione storica della “Prima esposizione internazionale di fotografia, ottica e cinematografia” curata da Annibale Cominetti, come si ricava dalla sua lettera di condoglianze inviata al figlio Federico, citata in Gasparolo 1925, pp. 9-19. Nel maggio del 1894 proseguirono le sperimentazioni per il formato 18×24 adottando diverse combinazioni di lenti, successivamente indicate come “Tel. I”, quindi “Tel. II” (lastra 246, 1895), e infine “Tel. III”, con cui riprese nel 1896 un panorama in cinque lastre del Monte Rosa visto dalla cima dello Zebion in Val d’ Ayas,  successivamente stampato da Vittorio Sella intorno alla metà degli anni Trenta del Novecento. Due anni dopo la messa in produzione da parte di Koristka (Milano: via Revere 2, poi Piazza d’Armi Vecchia 59, angolo via Bersaglio 2) officina che produceva obiettivi su licenza Zeiss ed era la rappresentante italiana della ditta Haas di Francoforte (Contini 1990, p. 110), il nuovo teleobiettivo, “il primo in Italia, fra i primi nel mondo” (Masoero 1900), venne presentato dallo stesso Negri ai partecipanti al primo Congresso Fotografico Italiano, che si tenne a Torino nel 1898.

[61] Altre serie di immagini riguardano le esposizioni casalesi (1900) e torinesi (1898, 1902). Mentre alla locale esposizione vinicola documenta sistematicamente i padiglioni con i relativi addetti rigorosamente in posa, a Torino Negri si aggira liberamente tra quelle fantastiche e innovative architetture effimere. Qui è un visitatore anonimo, libero di orientare ovunque, inavvertito, la propria curiosità; là era l’avvocato Negri, già Sindaco, notoriamente fotografo.

[62] “Hai fatto la risaia andando a vederla presso Casale e ritornando poi a casa a lavorare il quadro a memoria hai condotto le figure servendoti di fotografie” rimproverava Giuseppe Pellizza da Volpedo all’amico a proposito della realizzazione del dipinto Per ottanta centesimi  in una lettera databile tra 1896 e 1897, citata da Luciano Caramel 1982. Non è escluso che quelle immagini fossero state realizzate dallo stesso pittore, dilettante fotografo, ma va almeno segnalata la presenza nel Fondo Negri, di cui sono note le relazioni di amicizia con Morbelli, di due immagini di risaia [573A, 575A] altrimenti inconsuete per la sua produzione, che potrebbero essere state realizzate proprio su richiesta dell’amico, di cui Negri documentò almeno tre opere: S’avanza (1896), Venduta (1897) e l’Autoritratto con modella (1900-1901). Chiunque ne sia stato l’autore, queste due riprese possono essere considerate le più antiche immagine di un gruppo di mondine al lavoro e costituiscono il primo momento di definizione tipologica del modello iconografico di rappresentazione del tema: le mondine al lavoro riprese di schiena, ricurve, immerse nell’orizzonte lungo dei campi allagati. Strumenti di lavoro ancor prima che persone, negate nella loro identità, cfr.  Cavanna 2000. I rapporti Morbelli – fotografia sono stati analizzati da  Marisa Vescovo 1982.  Va ricordato inoltre che il figlio di Morbelli, Alfredo, esercitò la professione di fotografo a Varese nel periodo 1920-1940 senza però avvicinarsi se non tangenzialmente ai temi di matrice verista affrontati dal padre; cfr. Morbelli & Morbelli, 1995.

[63] Toffoletti, Zannier 1990.

[64] Miraglia 1990, pp. 91 nota 124.

[65] “ ‘Veduta’ e ‘panorama’ (…) sono due generi elaborati dalla tradizione manuale della pittura (…) in epoche fra loro diverse e distanti, ma ambedue nati, almeno nelle intenzioni, con l’intento di rappresentare le cose come realmente sono”, mentre il ‘paesaggio’ va inteso “come espressione del sentimento” individuale dell’autore, cfr. Miraglia 2006, pp.15, 19.

[66] Infinitamente 2004.

[67] Sella 2006. È verosimile che tramite della loro conoscenza fosse il Club Alpino Italiano, che nel 1879 aveva designato Negri membro della Commissione di un non meglio specificato “concorso per lavori sulle montagne italiane”, Gasparolo 1925, p. 8.

La stampa, recentemente ritrovata e segnalatami da Daria Jorioz, capo del Servizio Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che qui ringrazio, è una ripresa panoramica in cinque parti del Monte Rosa dal Zerbion (St. Vincent–Ayas), datata 1896 e stampata da Vittorio Sella da “Telefoto Negri Avv. Francesco”.  La versione a contatto di questo stesso panorama compare in una stereoscopia dello studio di Negri [23e29].

[68] Tricromia (detta anche eliocromia indiretta o analitica), metodo indiretto per la realizzazione di immagini fotografiche a colori messo a punto indipendentemente da Charles Cros e Louis Ducos du Hauron tra 1867 e 1869, poi successivamente modificato. Di ciascun soggetto, di necessità statico, Negri realizzava su lastra tre negativi di selezione utilizzando ogni volta un filtro di colore primario: verde, rosso-arancio e bluvioletto, questo infine abbandonato “perché dannoso, producendo esso negative monotone anziché contrastate, quali occorrono per il monocromo giallo.” Ciascuna lastra veniva successivamente stampata a contatto su “pellicole rigide alla gelatina-bromuro della A.G.F.A. di Berlino, le uniche che non si alterano mai, stante la bontà della celluloide”, trattate con bicromato di potassio e quindi colorate nei tre colori complementari (rosso porpora/magenta, azzurro-verde/ciano e giallo). La sovrapposizione a registro delle tre gelatine colorate restituiva, per sintesi sottrattiva,  i colori del soggetto, perfettamente leggibili per trasparenza, cfr. Negri 1906.

[69] A queste vanno aggiunti gli esemplari conservati in collezione privata, ma le stesse vicende di costituzione del Fondo della Biblioteca Civica di Casale Monferrato lasciano intendere la possibilità di ulteriori futuri ritrovamenti, cfr. Cavanna 1991.

[70] Negri 1906. Il nove settembre 1901 alcune “ben  riuscite proiezioni a colori del Cav. Avv. F. Negri” vennero presentate da Pietro Masoero nel corso della conferenza dedicata ad “Arte e Fotografia”, tenuta in occasione dell’Esposizione di Lodi, cfr. “La Sesia”, 13 settembre 1901. Doveva trattarsi di riproduzioni di dipinti, di cui però oggi si conservano le sole riprese di selezione, non i risultati finali.  Per l’aspirazione al colore nella fotografia di documentazione d’arte cfr. Cavanna 1985.

[71] Cfr. Costantini 1994. Negri visitò l’Esposizione il giorno 23 maggio, realizzando con un apparecchio Vérascope una bella serie di vedute stereoscopiche destinate alla duplicazione in positivo su lastra (per proiezione quindi), cfr.  Cavanna 1994. Prima di questa occasione Negri aveva già preso parte  all’Esposizione Nazionale di Milano organizzata dal Circolo Fotografico Lombardo nel 1894, cui parteciparono anche Grosso, Sella e, tra i professionisti, Masoero e Pietro Santini. All’Esposizione Fotografica Internazionale tenutasi a Firenze in occasione del secondo Congresso Fotografico Italiano (1899) espose con Guido Rey nella sezione dilettanti,  presentando immagini scientifiche, per le quali  gli fu assegnato un “Diploma di medaglia d’argento” di III grado nella classe VI-VII (Scientifica). L’anno successivo prese parte all’Esposizione Fotografica Internazionale organizzata dalla neonata (1899) Società Fotografica Subalpina di Torino, presentando “telefotografie e microfotografie”, poste “accanto ai lavori esposti dall’Istituto geografico militare. (…) Presenta il gruppo del Gran Paradiso in 4 pezzi 18×24, senza alcun ritocco e di tale bellezza e nettezza da ritenerlo una veduta diretta; il Ruitor (…) con un ingrandimento di 15 diametri ed a 30 chilometri di distanza. Vi si ammira uno splendido effetto di ghiacciaio. Un gruppo del Monte Bianco ed il Monte Rosa da Riva Valdobbia pure bellissimi.”,  Masoero 1900, pp. 138-139. L’assenza in lui di qualsiasi velleità artistica sembra confermata dalla partecipazione  – nella categoria “B” riservata agli abbonati – alla IV Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica che si svolse a Torino nel 1907, promossa dalla rivista “La Fotografia Artistica”. Qui non presentò alcuna immagine a colori, ma espose vedute di castelli valdostani (Fènis, Ussel, Verrès, Montjovet) e temi valsesiani (Riva Valdobbia, un dipinto nella chiesa di Valdobbio) ma soprattutto  fotomicrografie batteriologiche (polmonite, tubercolosi, tetano, tifo e colera asiatico “da preparazione avuta direttamente dal dott. Koch”), per le quali gli fu assegnato un diploma di medaglia d’argento.  Solo nel 1909, all’Esposizione Nazionale di Fotografia che si tenne a Casale Monferrato  dal 16 al 23 marzo in occasione della Fiera di San Giuseppe, nei locali dell’Accademia Filarmonica Negri presentò  “nove quadretti di fotografie a colori tra cui furono trovati stupendi senza esagerazione, un cespo di rose e tre paesaggi montani.” Ormai a suggello del suo  lungo e qualificato impegno, in quell’occasione gli fu assegnato il “Gran diploma e medaglia d’argento del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio per il contributo da lui portato all’arte fotografica.”,  “Il Progresso Fotografico”, 1909, pp.62, 126.

[72] A causa dell’elevata deteriorabilità delle gelatine le tricromie vennero esposte a rotazione, ma ciò nonostante alcune risultarono danneggiate irreparabilmente, verosimilmente per un incidente occorso durante  l’esposizione stessa (3C114 = “Carbonizzata”; 5C114 “Esposizione di Torino 1902. Da giugno a novembre”).

[73] Masoero 1902. La sua maestria in questo settore venne opportunamente celebrata ancora vent’anni più tardi nei necrologi: “Fin dal 1863 il Negri praticò anche la fotografia, sia scientifica, che artistica, nonché di paesaggio: occupò molto tempo, e con mirabili risultati, nella fotografia a colori.”, Gasparolo 1925. “Fotografo valentissimo, tentò, durante gli albori della fotografia a colori, di emulare i professionisti. Eseguì fotografie policrome magnifiche di fiori, frutta e paesaggi che destarono la meraviglia di chi li vide; ma, come per tante altre sue creazioni, una volta congegnate e perfezionate per suo intimo diletto e per la gioia di riuscire, vennero abbandonate nei polverosi scaffali.”,  Gabotto c 1925.

[74] Falcone 1914.

[75] Nel Fondo Negri se ne conserva una ricca collezione, tutte purtroppo separate dai fascicoli originali, ormai perduti.

[76] “Se pubblico queste mie esperienze (…) lo faccio colla speranza di rendermi utile ai colleghi che desiderano occuparsi dell’arduo problema della tricromia.”,  Negri 1906, p. 44. Nella stessa occasione consegnava  alla SFI “anche una serie di belle tricromie” di cui si è persa ogni traccia.

 

 

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Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza Editore, 1981

 

Toffoletti, Zannier

Riccardo Toffoletti, Italo Zannier, a cura di, Enrico del Torso fotografo (1876 – 1955). Udine: Arti Grafiche Friulane, 1990

 

Valle 1925

P.G. [Padre Giovanni Valle], Crea nella fotografia, “La Madonna di Crea, periodico del Santuario di Crea”, 17 (1925), n.6, giugno, p. 69

 

Valle 1926

  1. Giovanni Valle, L’arte fotografica a Crea, in La Fiorita di Crea, a cura dei PP. Francescani del Santuario. Casale Monferrato: Tip. Succ. Cassone, 1926, pp.275-279

 

Vescovo 1982

Marisa Vescovo, Ombre e luci come grafia e mimesi del reale,  in Angelo Morbelli 1982, pp.21-32

 

Villata 2000

Edoardo Villata, Macrino d’Alba. Alba: Fondazione Ferrero, 2000

 

Warner Marien 2002

Mary Warner Marien, Photography: A Cultural History. London: Laurence King Publishing, 2002

 

Zannier 1979

Italo Zannier, La massificazione della fotografia (1880 – 1899), in Fotografia Italiana dell’Ottocento 1979, pp. 85-118

 

Zannier 1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

Zannier, Costantini 1985

Italo Zannier, Paolo Costantini, Cultura fotografica in Italia. Milano: Franco Angeli, 1985

 

 

 

La biblioteca del fotografo

 

Vengono qui repertoriate le pubblicazioni appartenute a Francesco Negri conservate presso la Biblioteca Civica di Casale Monferrato, sulla base di una ricognizione effettuata nel 1990-1991; a queste sono state aggiunte (segnalandole con un asterisco) tutte le pubblicazioni fotografiche conservate nella stessa sede edite prima del 1924, data di morte del fotografo, di provenienza diversa o di cui non è documentata l’appartenenza al Fondo Negri.

La consistenza complessiva risulta oggi essere di circa sessanta titoli e certamente non corrisponde pienamente allo stato originario della biblioteca di Francesco Negri non essendo ad oggi reperibili almeno due periodici ed un catalogo documentati da fonti diverse: “The Philadelphia Photographer” del 1869, che compare nel noto ritratto della moglie (FN, 12/B146), “Photographic News” del 1887 a cui Negri fa riferimento in un appunto citato da Fabrizio Celentano (in Colombo 1969, p.120), il catalogo di Joseph Bamfortp ricordato da Ando Gilardi nella stessa monografia ed ancora il fondamentale testo di Alcide Ducos du Hauron del 1869.

 

Anderson 1907

Domenico Anderson, Catalogo, III, Parte prima. Parte seconda.  Roma: Anderson,1907

 

Anderson 1911

Domenico Anderson, I.er supplement au Catalogue general. Première partie. Deuxième partie. Roma: Anderson, 1911

 

Apparecchio 1897

Apparecchio cronofotografico e Kinetoscopio Pasquarelli. Torino: Camilla e Bertolero, s.d.[1897?]

 

Association Belge 1884-1895

“Association Belge de Photographie: Bulletin”, II serie, 11(1884), 15 (1888) – 22 (1895)

 

Aubry 1903

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1903

 

Aubry 1907

Roger Aubry, dir., Annuaire Général et International de la photographie. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1907

 

Barreswil, Davanne 1854

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimica fotografica; versione del Prof. Giuseppe Ravani. Milano: Libreria Ravani, 1854

 

Barreswil, Davanne 1861

[Charles Louis] Barreswil, [Alphonse] Davanne, Chimie photographique. Paris: Mallet-Bachelier, 1861

 

Blanquart-Evrard 1851

[Louis Désiré] Blanquart-Evrard, Traité de photographie sur papier. Paris: Roret, 1851

 

Bonacini 1897

Carlo Bonacini, La fotografia dei colori. Milano: Hoepli, 1897

 

Borlinetto 1868

Luigi Borlinetto, Trattato generale di fotografia. Padova: Stabilimento Nazionale di P. Prosperini, 1868

 

Bullettino SFI 1900-1911

“Bullettino della Società Fotografica Italiana”, Firenze, 12 (1900) – 18 (1906); 20 (1908) – 21(1911)

 

Buron 1841

[Noël François Joseph] Buron,  Description de nouveaux daguerréotypes perfectionnés et portatifs. Paris: Dondey-Dupré Imprimeurs, s.d. [1841]

 

Burton 1884

William Kinninmond Burton, A B C de la photographie moderne. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Camera Oscura 1864-1865

“La Camera Oscura. Rivista periodica universale dei progressi della fotografia per G. Ottavio Baratti”. Milano: Tip. Giuseppe Redaelli, 2 (1864) – 3 (1865)

 

Camera Oscura 1865-1867

“Camera Oscura. Rivista universale dei progressi della fotografia per O. Baratti”, Milano, 3 (1865) – 5 (1866-1867)

 

Chapel d’Espinassoux 1890

Gabriel Chapel d’Espinassoux, Traité pratique de la détermination du temps de pose. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1890

 

Chevalier A. 1876

Arthur Chevalier, L’étudiant photographe. Traité pratique de photographie à l’usage des amateurs. Paris: Eugène Lacroix, s.d. [1876]

 

Chevalier C. 1846

Charles Chevalier, Nouveaux renseignements sur l’usage du daguerréotype. Paris: Chez l’auteur – Palais Royal, 1846

 

Clerc 1899

Louis-Philippe Clerc, La photographie des couleurs; prefazione di Gabriel Lippmann. Paris: Gauthier-Villars, Masson et C.ie, s.d. [1899]

 

Colson 1894

René Colson, La perspective en photographie. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

Corriere Fotografico 1920-1922

“Il Corriere Fotografico”, Milano, 17 (1920) – 19 (1922)

 

Coustet 1913

Ernest Coustet, La fotografia dell’infinitamente piccolo, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n.12, dicembre, pp.9-10

 

Daguerre 1839

[Louis J.M Daguerre], Description pratique du procédé nommé le daguerréotype. Gênes: A. Beuf, 1839; allegato: Description des procédés de peinture et d’éclairage inventés par Daguerre, et appliqués par lui aux tableaux du diorama; Projet de Loi

 

Despaquis 1866

Despaquis, Photographie au charbon. Paris: Leiber, 1866

 

Disderi 1862

André-Adolphe-Eugene Disderi, L’art de la photographie. Paris: Chez l’auteur, 1862

 

Ducos du Hauron 1897

Alcide Ducos du Hauron, La triplice photographique des couleurs et l’imprimerie. Paris: Gauthier-Villars, 1897

 

* Egasse 1888

Edouard Egasse, Manuel de photographie au gélatino-bromure d’argent. Paris: Octave Doin, 1888

 

Esposizione Internazionale  1907

Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica e Scientifica – Catalogo. Torino: La Fotografia Artistica, 1907

 

Fabre 1889-1902

Charles  Fabre, Traité encyclopédique de photographie. Paris, Gauthier-Villars et fils, 1889-1902, 7 voll.

 

                Matériel photographique, 1889

II                 Phototypes Négatifs, 1890

III                Phototypes positifs. Photocopies. Photocalques, Phototirages, 1890

IV                Agrandissements. Applications de la photographie,1890

A                 Premier Supplément, 1892

B                 Deuxième Supplément, 1897

C                 Troisième Supplément, 1902

 

 

La Fotografia 1902

La Fotografia e le sue applicazioni alle arti grafiche; supplemento artistico al “Bullettino della Società Fotografica Italiana”, 1 (1902), n.3/4, marzo-aprile

 

Il Fotografo 1922

“Il Fotografo”, Torino, 4 (1922), n. 11, Novembre

 

Fouque 1867

Victor Fouque, La vérité sur l’invention de la photographie. Nicéphore Niepce, sa vie, ses essais, ses travaux. Paris: Leiber, 1867

 

Girard 1870

Jules Girard, La Chambre Noire et le Microscope. Photomicrographie pratique. Paris: F. Savy, 1870

 

Girard 1872

Jules Girard, Photomicrographie en cent tableaux pour projection. Paris: Gauthier-Villars, 1872

 

Huberson 1879

Gabriel Huberson, Précis de Microphotographie. Paris: Gauthier-Villars, 1879

 

Klary 1888

  1. Klary, L’art de retoucher les négatifs photographique. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1888

 

König 1906

Ernst  König, Natural-color photography. London: Dawbarn & Ward Ltd., s.d. [1906]

 

La Blanchère 1862-1866

Henri de la Blanchère,  Répertoire encyclopédique de photographie: comprenant par ordre alphabétique tout ce qui a paru et paraît en France et à l’étranger depuis la découverte par Niepce et Daguerre de l’art d’imprimer au moyen de la lumière, I, II.  Paris: [Aymot],  s.d. [1862-1866]

 

Lefèvre 1888

Julien  Lefèvre, La photographie et ses applications aux sciences, aux arts et à l’industrie. Paris: Baillière et fils, 1888

 

Le Roux 1902

Marc Le Roux, dir., Annuaire Général et International de la photographie 1901-1902. Paris: Plon-Nourrit et C.ie, 1902

 

* Liesegang  1864

Paul Liesegang, Manuale illustrato di fotografia; prima traduzione italiana dalla quinta tedesca di Antonio Mascazzini. Torino: Unione Tipografico-Editrice, 1864

 

Londe 1888

Albert  Londe, La photographie moderne: pratique et applications. Paris: G.Masson Éditeur, 1888

 

Lumière 1897

Augusto e Luigi  Lumière, Nozioni sul cinematografo. s. l. : s.n. [1897?]

 

Malley 1883

Abraham Cowley Malley, Micro-photography, including a description of the wet collodion and the gelatino-bromide process. London: H.K.Lewis, 1883

 

Meldola 1889

Raphael  Meldola, The chemistry of photography. London – New York: Macmillan and Co., 1889

 

Miethe 1896

Adolf Miethe, Optique photographique sans développements mathématiques a l’usage des photographes et des amateurs. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1896

 

Moitessier 1866

Albert Moitessier, La photographie appliquée aux recherches micrographiques. Paris: J.B. Baillière et fils, 1866

 

Monckhoven 1859

Désiré van Monckhoven, Répertoire général de photographie théorique et pratique. Planches. [Paris], [A. Gaudin et Frère], 1859

 

Monckhoven 1863

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie. Paris: Victor Masson, 1863

 

Monckhoven 1880

Désiré van Monckhoven, Traité général de photographie suivi d’un chapitre spécial sur le gélatino-bromure d’argent. Paris, G. Masson, 1880

 

Muffone 1887

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti. Milano: Hoepli, 1887

 

*Muffone 1892

Giovanni Muffone, Come il sole dipinge. Manuale di fotografia per i dilettanti, seconda edizione rifatta. Milano: Hoepli, 1892

 

*Muffone 1906

Giovanni Muffone, Come dipinge il sole. Fotografia per i dilettanti, sesta edizione riveduta e ampliata. Milano: Hoepli, 1906

 

*Namias 1912

Rodolfo Namias, Carte e viraggi per la fotografia artistica e la carta al pigmento o carbone.  Milano: Il Progresso Fotografico, 1912

 

Notizie Tensi 1913-1914

“Notizie della Società Anonima Tensi Milano”, 1 (1913), n.2;  2 (1914), n.1, suppl. al n.1

 

Paris Photographe 1891-1894

“Paris Photographe”, 1 (1891) 4 (1894)

 

Phipson 1864

Thomas Lamb Phipson, Le préparateur-photographe ou traité de chimie a l’usage des photographes.  Paris: Leiber, 1864

 

La Photographie 1908-1909

“La Photographie. La Photographie des Couleurs et la Revue des sciences photographiques et leurs applications réunies”, N.S., 1 (1908) – 2 (1909)

 

La Photographie des couleurs 1906-1907

“La Photographie des Couleurs: Revue Mensuelle”, 1 (1906), n.2, Août – 2 (1907), n.7, Juillet

 

Piquepé 1881

Paul Piquepé, Traité pratique de la retouche des clichés photographiques suivi d’une méthode très détaillée d’émaillage et de formules et procédés divers. Paris: Gauthier-Villars, 1881

 

Reichardt, Stürenburg 1868

Oscar Reichardt, Carl Stürenburg, Lehrbuch der Mikroskopischen Photographie. Leipzig: Quandt & Händel, 1868

 

Rivista Scientifico – Artistica 1893-1897

“Rivista Scientifico – Artistica di Fotografia”. Bollettino del Circolo Fotografico Lombardo, 1 (1893) – 6 (1897)

 

Roster 1893

Giorgio Roster, Note pratiche su la telefotografia. Firenze: Salvatore Landi, 1893

 

Roster 1899

Giorgio Roster, Le applicazioni della fotografia nella scienza. Conferenza, estratto dagli “Atti del Secondo Congresso Fotografico Italiano” (Firenze, 15-19 maggio 1899). Firenze: Tip. M. Ricci, 1899

 

Rouillé-Ladevèze 1894

Auguste Rouillé-Ladevèze, Sépia-photo et sanguine-photo. Paris: Gauthier-Villars et fils, 1894

 

*Sassi 1897

Luigi Sassi, Le proiezioni. Materiale – Accessori – Vedute a movimento- Positive sul vetro- Proiezioni speciali policrome, stereoscopiche, panoramiche, didattiche, ecc. Milano: Hoepli, 1897

 

Sassi 1905

Luigi  Sassi, La fotografia senza obiettivo. Milano: Hoepli, 1905

 

* Sassi 1912

Luigi Sassi, Immagini fotografiche a colori. Ottenute con sviluppi e viraggi su carte all’argento e su diapositive. Milano: Hoepli, 1912

 

* Sassi 1917

Luigi Sassi, I primi passi in fotografia. Milano: Hoepli, 1917

 

*Sella 1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tip. G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Spiller 1883

Arnold Spiller, Douze leçons élémentaires de chimie photographique. Paris: Gauthier-Villars, 1883

 

Sternberg 1883

George Miller Sternberg, Photo-Micrographs and how to make them. Boston: James R. Osgood and Company, 1883

 

*Thierry 1847

Jean Pierre Thierry, Daguerréotypie. Edition augmentée par l’auteur de la description rigoureuse duprocédé dit Americain et de son emploi facile avec sa composition d’iode. Paris: Lerebours et Secretan, 1847

 

*Valicourt 1851

Edmond de Valicourt, Nouveau manuel complet de photographie sur métal, sur papier et sur verre. Nouvelle édition. Paris: Roret, 1851

 

Vidal 1884

Léon Vidal, Calcul des temps de pose et tables photométriques. Paris: Gauthier-Villars, 1884

 

Vidal 1885

Léon  Vidal, Manuel du touriste photographe, I, II. Paris: Gauthier-Villars, 1885

 

Vogel 1887

Hermann Wilhelm Vogel, La photographie des objets colorés avec leurs valeurs réelles. Paris: Gauthier-Villars, 1887

 

 

Attraversare la fotografia (2005)

in Stefano Bricarelli Fotografie, catalogo della mostra (Torino, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 15 luglio- 18 settembre 2005), a cura di P. Cavanna. Torino: Fondazione Torino Musei GAM. 2005, pp. 11-33

 

“L’avevo conosciuta nel 1904” – dirà Stefano Bricarelli ormai novantenne[1] parlandone come di un amore giovanile,  a proposito del suo primo incontro con la fotografia – “quando ero nella quinta classe del ginnasio all’Istituto Sociale di Torino.”  Una felice sintesi del contesto e dell’avvio di quella che sarebbe stata la sua passione più consapevole e forte. Mai una professione però, per scelta.

Il momento non avrebbe potuto essere più opportuno, e propizio.  Da appena due anni si era chiusa a Torino la fondamentale Esposizione internazionale di fotografia artistica, promossa e curata da Edoardo di Sambuy nell’ambito dell’Esposizione internazionale di Arte Decorativa e Moderna, occasione cruciale di crescita e confronto della cultura fotografica italiana e quindi torinese, portata a misurarsi con più di 1300 opere degli autori più innovativi del panorama internazionale, dai pittorialisti francesi alla Photo-Secession americana promossa da Alfred Stieglitz, le cui opere suscitarono com’è noto reazioni contrastanti per l’ “esagerazione della ricerca.”[2]

Sulla scia delle riflessioni prodotte da quell’evento espositivo Annibale Cominetti, abbandonato il ruolo di Segretario della Società Fotografica Subalpina assunto sin dalla sua fondazione nel 1899, avviava nel dicembre di quello stesso 1904 la pubblicazione del periodico “La Fotografia Artistica”, dando concretezza all’augurio espresso dal Di Sambuy che la fotografia potesse avere un pubblico di “gente più evoluta, quali potrebbero essere i cultori più distinti dell’arte pura”.

Questa nuova “Rivista internazionale illustrata” di grande formato (33×24),  redatta in italiano e in francese, con nitide illustrazioni e tavole f.t. realizzate con ampia varietà di tecniche (dalla stampa al bromuro alle fotoincisioni, alla similgravure), costituiva l’espressione più rilevante della cultura fotografica italiana di inizio ‘900, orientata alla propria definizione e rinnovamento per il tramite del confronto con la produzione artistica internazionale, alla ricerca di quel “sentimento dell’arte” richiamato sin dal titolo, cui tendeva tutto il movimento pittorialista, e che qui prendeva forma nella composizione e nelle selezioni operate da una Commissione Artistica tutta formata di membri legati all’Accademia torinese: lo scultore Luigi Belli ed i pittori Pier Celestino Gilardi (sostituito poi da Andrea Tavernier), Paolo Gaidano e Luigi Onetti, autore anche della prima serie di copertine.

L’orientamento era evidente: mentre negli USA il ben più consapevole ma analogo progetto di “Camera Work” si apriva alle opere delle avanguardie europee, in Italia il confronto era cercato con la consolidata e tranquillizzante produzione accademica e il compito di esprimere il programma della rivista era affidato ad un critico come Ercole Bonardi, che aprì con L’arte nella fotografia il primo numero, in cui era ospitato anche l’intervento del francese Léon Vidal, tra i personaggi più noti del panorama internazionale, il quale sosteneva però che “évidemment il n’ya qu’un art, et peut-être est-ce a tort qu’on a fait l’usage des mots photographie artistique”.

Il più cauto Bonardi preferiva invece attenersi al motto che “Ogni arte ha un campo a sé ed anche la fotografia ha naturalmente il suo. Ma (…) essa non deve solo preoccuparsi della esattezza della riproduzione, della sua finitezza in tutte le parti (…) anzi a questo qualche volta dovrà non badare, anzi ancora talora dovrà anche evitare la perfezione materiale e la esattissima riproduzione del soggetto, visto nelle condizioni più normali.” (citato in Costantini, 1990, pp. 150 – 151). Non si trattava d’altro che di una tarda ripresa della cosiddetta teoria del sacrificio[3], qui usata per liberare la fotografia dal soffocante abbraccio del vincolo documentario, evitando nel contempo quell’impraticabile confronto diretto con la pittura che l’adozione letterale delle posizioni di Vidal avrebbe comportato.

L’adolescente Bricarelli (era nato nel 1889)  non poteva non essere attratto e convinto da queste manifestazioni nel momento in cui si avvicina alla fotografia, lui che già allora vedeva in Guido Rey qualcosa di più di un maestro, un modello quasi.

Stupisce semmai la consapevolezza delle sue prime realizzazioni: il semplice apparecchio a lastre che gli venne donato quale premio per gli studi non fu utilizzato – come sarebbe stato lecito attendersi – solo per avviare una spensierata pratica di piccola fotografia familiare, quella che lo avrebbe portato, nella bella definizione di Nico Orengo, a divenire “un collezionista di momenti festosi”[4], ma a ricorrere alle figure ed alle occasioni che l’ambiente familiare alto borghese gli offriva quali spunti per misurarsi con le possibilità espressive del mezzo.

Nella migliore tradizione degli amateur torinesi, anche le sue prime stampe significative si riferiscono a soggetti montani, se non proprio alpini. Sono due riprese dell’inverno del 1908 già ben connotate per qualità compositiva e capacità di sfuggire ai pericoli del bozzettismo insiti nella scelta del soggetto (A32/26). Una di queste ci è giunta nell’originaria versione alla gomma bicromatata (SB0035), forse stampata dal giovane fotografo con la collaborazione di Carlo Moncalvo[5], in anni in cui i diversi processi ai pigmenti costituivano palestra di prova per l’intera comunità internazionale degli “artisti fotografi”, già allora pericolosamente disposti a confondere risorse tecniche e qualità espressive delle proprie immagini.[6]

In questo contesto vanno intese le “otto impressioni di paesaggi piemontesi” con cui Bricarelli partecipò all’Esposizione internazionale di fotografia artistica tenutasi a Torino in occasione delle celebrazioni per il Cinquantenario dell’Unità, una delle quali ebbe l’onore della pubblicazione ne “La Fotografia Artistica”, sola collaborazione[7] col prestigioso periodico torinese cui sempre preferì (forse su suggerimento di Rey, anche lui assente da quelle pagine) il più modesto “Corriere Fotografico” milanese[8] o il prestigioso “The Amateur Photographer” di Londra[9].

A giudicare dalle immagini pubblicate in quegli anni, e dalle stampe rimaste, risulta difficile collocare nello stesso arco di tempo, nello stesso momento di gusto il bellissimo Profilo nella folla (A14/02) ripreso a Torino nel novembre del 1910 (Bricarelli, 1976, p.16), quasi troppo modernista per quella data, ma tutti i primi due decenni della sua produzione sono segnati – come vedremo – da improvvise accelerazioni e ritorni, qui documentati da una bella serie di piccole stampe dedicate agli alberi (tema anche di un concorso de “Il Corriere Fotografico” nel gennaio del 1913) in cui l’adozione di differenti processi di stampa costituisce lo strumento e l’esito di un’attenta verifica di coerenza tra soluzioni tecniche e possibilità linguistiche, in un confronto coi modelli stilistici e compositivi dei maggiori autori della generazione precedente, come Guglielmo Oliaro e specialmente Cesare Schiaparelli.[10]

L’Esposizione del 1911 fu anche la prima occasione per Bricarelli di misurarsi con il ruolo di critico, avviando una pratica sistematica di riflessione che lo renderà una delle figure centrali della cultura fotografica italiana nella prima metà del ‘900. è  un testo tutto centrato – come la coeva serie sugli alberi – intorno al rapporto per lui decisivo in quegli anni delle valenze espressive dei diversi processi interpretativi di stampa.

Così se considerava i paesaggi  di Thèophile Mahèo “troppo poco fotografici, più acquarelli che fotografie”, non mancava di manifestare il proprio apprezzamento per le “gomme Höcheimer” di Oliaro [tecnicamente identiche alle proprie] e per quelle di Ludovico Pachò, ma soprattutto per le  “prove ottenute col processo agli inchiostri grassi, all’olio [di Biagio Barberis, che] possono ben convincere della assoluta superiorità di questo sopra tutti i sistemi artistici di stampa.” (Bricarelli, 1912, p. 1792 passim).

La collaborazione del neolaureato avvocato con “Il Corriere Fotografico”, avviata in quell’anno con la pubblicazione delle prime immagini e di questo testo proseguì costante negli anni successivi, e nel 1913 comparve  Istantanee artistiche di scene animate, corredato di tre sue fotografie: Nella via maestraScene d’accampamento e Processione in montagna (SB0056) già pubblicata come Procession au Village, in “The Amateur Photographer” del 1912.

L’articolo prendeva avvio dalla constatazione che in Italia la maggior parte dei dilettanti “che meritano veramente questo nome” non si dedicano alle “scene animate” sebbene “in nessun altro paese il pittoresco è stato sparso così a piene mani [e] non si conosce in niun altro luogo una vita così varia e pittoricamente interessante (…). Ma –  proseguiva Bricarelli – una condizione è indispensabile per l’estrinsecazione completa di tali qualità; occorre assolutamente che il soggetto sia inconscio (…) Condizione essenziale questa che va soddisfatta a pena di perdere, nel risultato, ogni vita e verità d’atteggiamenti, per cadere nella goffaggine e nella banalità di una cattiva composizione studiata.” Per “fissare sulla lastra la bellezza di un fuggevole istante [bisogna] abituarsi a vedere il soggetto ed a percepire il momento esatto in cui esso va colto, affinché si presenti in tutte le condizioni più favorevoli. (…) Saper vedere il soggetto (…) discernere il motivo  [sottolineature dell’autore] di un quadro (…) Scelto rapidamente il motivo (…) occorrerà procedere ad una coraggiosa opera di selezione e di eliminazione. (…) In un istante, con gli elementi che avrà riconosciuto necessari ed opportuni, la mente costituirà, organizzerà per così dire, idealmente il quadro, determinandone il taglio, fissando l’importanza relativa delle masse, equilibrando il gioco delle luci e delle ombre; sarà allora di grande aiuto per fare immediatamente avvertire ogni squilibrio e ogni deficienza dell’insieme e porvi rimedio quel senso quasi istintivo della composizione, che molto si acquista osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative.”[11]

Questo scritto si presta a diverse considerazioni, a partire proprio dal fatto che qui si tratta per la prima volta dell’esplicita disamina critica di un “genere” astrattamente trattato e non (come per il 1911) del commento ad una serie di opere esposte, sino all’esplicitazione di alcune indicazioni di metodo; si pensi a quella necessità irrinunciabile “che il soggetto sia inconscio” che richiama in un contesto diverso ma non estraneo le indicazioni formulate nel 1883 dal neuropsichiatria e antropologo Enrico Morselli (188, p. 7), secondo cui “alle fotografie scientifiche [era necessario] aggiungere ancora quelle artistiche, prese cioè coll’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti”, ma anche a quella definizione di composizione “in un istante” che non può non essere letta come una prima formulazione, di metodo e di poetica, delle dichiarazioni bressoniane di quasi mezzo secolo più tarde. Non ultimo poi quel richiamo alla cultura visiva da costruirsi  “osservando le opere dei maestri di tutte le arti figurative” che andava ben oltre i tentativi nobilitanti del più provinciale pittorialismo per sostenere la necessità – vitale per i fotografi – di non confondere dilettantismo e approssimazione; quasi un’anticipazione programmatica di tutta l’attività di editore e promotore che vide impegnato Bricarelli nei decenni successivi.

Il 1911 segnò anche l’avvio della partecipazione ai concorsi settimanali di “The Amateur Photographer”, che quell’anno vinse con The House in the Snow, cioè La Reale Casa di Ricovero del 1908 (SB0035),  e Chevaux à l’aubrevage, entrambe pubblicate, mentre al London Salon of Photography del 1915 furono esposte  Church by Moonlight (307) e Pour nos soldats / Chiesa a Cesana[12], del 1914 (A14/20), che F.C. Tilney, 1915, p. 15, definì “very reminiscent of certain painted pictures but full of feeling and quality of its own (…). Its great merit is the perfect and natural gradation due to the concentrated illumination, and the culmination of this upon the cap of the chief figure, whose face and figure present also the strongest accent of dark. The group behind are also most happily treated. Doubtless there is much control in Pour nos soldats, but there is no aggressive sign of it, for naturalism has never been sacrificed in any particular.” E questo “naturalism” doveva necessariamente corrispondere a quella “verità d’atteggiamenti” còlti su cui convergevano Morselli e Bricarelli a tre decenni di distanza, quella stessa che lo avrebbe portato a non seguire le mise en scéne di Rey, di cui invece fornivano leziose versioni popolaresche autori a lui vicini come Achille Bologna o Raffaele Menocchio[13], privilegiando semmai le riprese d’ambiente, con paesaggi e architetture solo raramente animati, ancora resi con una varietà di tecniche e intonazioni che ben restituisce il gusto dell’epoca e le più ovvie influenze del coevo paesismo pittorico piemontese, penso in particolare a Cesare Maggi, che sarà negli anni successivi particolarmente vicino a Bricarelli e compagni, con le trame delle gomme bicromatate a rievocare in monocromo il segno divisionista, più precisamente assimilabile invece alla trama delle autocromie Lumière, che Bricarelli però non utilizzò mai.

Nel 1917 venne inviato sul fronte del Piave come sottotenente della 18a Compagnia IV Reggimento Pontieri. 400 delle 500 lire che costituivano l’indennità di mobilitazione le impiegò – come lui stesso ebbe modo più volte di raccontare –  per acquistare una Kodak 6×9 pieghevole con pellicola in rullo, apparecchio che utilizzò durante la guerra e “per più anni dopo il ritorno della pace.” È questo un passaggio che si rivelerà decisivo, un primo punto di non ritorno che porterà a concepire e realizzare fotografie con una maggiore libertà compositiva, staccandosi progressivamente dalle più rigide regole di derivazione ottocentesca[14].

Come faranno molti per la prima volta in quegli anni, in quei tragici giorni, anche Bricarelli costruì visivamente un proprio personale racconto della guerra, della propria esperienza, da affiancare (e contrapporre a volte) alla già massiccia documentazione propagandistica ufficiale, destinata a contrastare “le decine di migliaia di immagini che circolavano dal fronte verso il paese” (Della Volpe, 1980, p. 26), che veniva promossa dai Comandi supremi, ma anche dai più diversi Comitati, come quello proposto già nel giugno del 1915 dal fondatore e direttore del “Progresso fotografico” Rodolfo Namias, che intendeva raccogliere e organizzare scientificamente “il lavoro fotografico dei militari e specialmente ufficiali”, per dare fattivo esito all’invito pubblicitario comparso anche su numerosi periodici illustrati italiani allo scoppio del conflitto: “Ogni ufficiale e soldato/ dovrebbe provvedersi dell’apparecchio fotografico/ Vest Pocket Kodak/ dato il suo piccolo formato e minimo peso può essere comodamente portato in una tasca della divisa senz’alcun disturbo.”

Anche nel nostro caso le foto erano destinate quasi naturalmente a confluire in un album, uno dei modi possibili per affrontare il dramma di questa esperienza incommensurabile e altrimenti indicibile[15], se non con le forme stranianti della retorica. Anche per Bricarelli si sarà trattato di nutrire – come fece in più occasioni e quasi sino alla soglia ultima della vita sua – il culto della memoria e di organizzare il ricordo, ma quando ciò accadde assunse una forma inattesa, in cui l’intento diaristico si alternava e confondeva col racconto di storia.

L’album delle Foto dal fronte, composto in una data non precisata ma certo ben oltre la conclusione del conflitto, si presenta infatti di contenuto eterogeneo, con esercitazioni pittorialiste di greggi, ruderi di castelli e specchi d’acqua, quasi a dar forma all’opinione dell’amico Emilio Zanzi (1924, p. 10) che la guerra avesse trovato “nei fotografi più che i suoi cronisti, i suoi storici precisi e i suoi commentatori lirici.” In queste pagine però le più tarde riprese di taglio quasi fototuristico, pronte per i volumi regionali del Touring,  si alternano  drammaticamente  alle immagini di morte: due cadaveri rappresi sul campo che rievocano l’iconografia più nota della guerra civile americana (A4(19a – b); le notazioni di costume  si susseguono ai ricordi della vita militare nelle retrovie. Nulla di troppo diverso (se non per la qualità delle immagini) dal contenuto di altre centinaia di album privati se non fosse per le due pagine poste quasi a chiusura, dedicate all’esecuzione di Cesare Battisti e Fabio Filzi al castello del Buonconsiglio di Trento, il 12 luglio 1916. Non si tratta solo di testimonianze in sé preziosissime, essendo fotografie “tolte ad un prigioniero austriaco al suo passaggio sul nostro ponte di Salettuol [Maserada] appena aperto al transito”, ma – per noi, qui – dell’impaginazione di un vero e proprio servizio giornalistico in forma pressoché definitiva, con esaustive didascalie tratte dall’Enciclopedia Treccani e diligentemente battute a macchina: un bell’esempio di quello stretto rapporto documentario e narrativo tra immagine e testo che Bricarelli utilizzerà ampiamente lungo tutta la sua lunga carriera giornalistica ed editoriale.

“Col ritorno della pace avevo ripreso i rapporti con gli ambienti fotografici esteri, che tenevo da prima della guerra –  ricorderà alcuni decenni dopo (Bricarelli, 1979, p. 12) – specie con quelli inglesi, partecipando regolarmente al molto esclusivo «London Salon of Photography» e contribuendo a «Photograms of the Year»”, ma in queste prestigiose sedi, né altrove del resto, presenterà mai quella che è una delle sue più affascinanti serie di immagini, i bellissimi ritratti di Giovani fanciulle in fiore che compose lungo tutto l’arco degli anni 1913 –1922, scegliendo come modelle alcune delle più affascinanti giovani donne dell’alta società torinese. Sono ritratti a figura intera, pose attentamente studiate e quasi sempre realizzate in esterni, rese con stampe al bromuro variamente intonate ed a volte preziosamente impaginate in ovale, in cui Bricarelli rivela progressivamente e contemporaneamente le proprie capacità di restituzione psicologica e la propria idea di femminilità, di donna. Per questo la serie può essere letta anche nella forma del tema con variazioni,  ispirate alternativamente alle suggestive morbidezze tonali di Rey, come nel ritratto di Maria Fiorenza Margotti, (SB0010) o – precocemente –  al gioco quasi modernista delle ombre come elementi generatori della composizione fotografica come nel caso di Francesca San Pietro (SB0012), che diverrà il motivo caratterizzante del più tardo ritratto di Gabriella Fracassi, del 1940 (A14/12),  passando per citazioni più o meno letterali di autori tanto diversi quanto Constant Puyo (SB0011) e il torinese Oreste Bertieri, i cui ritratti di attrici erano sovente ospitati sulle pagine de “La Fotografia Artistica”, per approdare – ormai nei primi anni Venti – con quello di Léonie Pallavicino di Priola  ad un’opera in cui la frontalità, appena contraddetta da un’attesa, dello sguardo della giovane donna così come l’insieme degli elementi che costituiscono il décor  rimanda un’eco di modelli casoratiani, tra la Silvana Cenni ed il coevo ritratto di Cesarina Gualino, per non dire della fotografia che lo stesso Casorati fece nel proprio studio a Mariuccia Gandini (Lamberti, 2000, p. 32). Ne esce complessivamente, oltre ad  un insieme di opere tra le più risolte di quella stagione della fotografia italiana, un ritratto di società cui ben si adatta il titolo proustiano scelto dall’autore, forse (ci piace pensare) guidato dalle suggestioni del breve saggio che nel 1925 Giacomo Debenedetti aveva dedicato allo scrittore francese a tre anni dalla morte, sulle pagine del gobettiano “Il Baretti”.[16]

Col 1920 la collaborazione con “Photograms of the Year” assunse maggior impegno e Bricarelli firmò per alcuni anni la breve panoramica dedicata alla Pictorial Photography in Italy . In questo primo contributo, fortemente programmatico, il giudizio negativo espresso sulla situazione italiana d’anteguerra, formulato senza neppure  degnare d’una citazione “La Fotografia Artistica”, appare finalizzato a valorizzare l’iniziativa di Angelo Guido Dell’Acqua, l’editore milanese de “Il Corriere Fotografico”  che all’inizio di quell’anno aveva avviato la pubblicazione del primo Annuario della Fotografia Artistica (con 36 foto di 27 autori): una rassegna organica che consentiva di definire e identificare il meglio della produzione nazionale e che costituirà l’antecedente diretto dei successivi annuari torinesi “Luci ed ombre”.

Per quello stesso numero di “Photograms” il curatore aveva selezionato una singolare immagine di Bricarelli, Reti e barche (A33/6), riconoscibile oggi come uno dei primi esiti compiuti della ricerca di nuove formule narrative, con le reti in primo piano a velare la percezione dello sfondo ma – anche – a consentire la costruzione di una forma grafica autonoma, di ridotto peso referenziale, sebbene allora fossero stati altri gli elementi che maggiormente avevano colpito pubblico e critica: “S. Bricarelli has an eye for the fantastic. – affermava Tilney (1920, p. 33) presentandola –  The curious veil made by the hanging nets amused everyone who, at the Salon, remarked Nets and Boats”.

Sono anni di costanti oscillazioni del gusto: abbandonate definitivamente le stampe alla gomma bicromatata ed ai pigmenti, il trattamento pittorialista si traduce nell’uso del flou, in quella messa fuori fuoco del soggetto che costituiva la più classica delle tecniche di distanziamento dall’incombente referenzialità documentaria della fotografia, sovente accompagnata da intenti esplicitamente simbolisti, come ne Il gorgo (A3/42), esposto a Torino nel 1925 al Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale[17], a proposito del quale due autorevoli commentatori noteranno poco più tardi che “qui il protagonista è il vuoto, anzi l’incubo, l’attrazione del vuoto, sul quale Bricarelli si è attentamente fissato”  (Bernardi, 1927, p. 14), un’immagine che genera  “uno stato inquieto di ansia quasi penosa” (Brezzo 1927, p. 203), mentre per In alto (SB0055)[18] lo stesso critico aveva parlato di “senso dell’abisso nel cielo, entro cui, dall’estrema spiaggia del mondo, lo spirito si lancia pauroso come in un mare senza confini.” (Brezzo 1926, p. 14)

Nel Comitato di quel Primo Salon, aperto nella città lacerata dalle lotte sociali ed ancora sotto l’incubo della strage fascista del dicembre ‘22, si ritrovavano, oltre a Bricarelli anche Carlo Baravalle e Achille Bologna, vale a dire il nucleo promotore di quel Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica[19] che era nato in seno alla Società Fotografica Subalpina nell’inverno del 1921 con l’esplicita intenzione di essere “a new factor in pictorial photography in  Italy, and one likely to exercise a happy influence upon its development.” (Bricarelli, 1922, p. 31). Come è noto ( Luci ed Ombre, 1987)  tra i primi atti del Gruppo vi fu l’acquisto e il trasferimento a Torino del “Il Corriere Fotografico”, cui Bricarelli collaborava ormai da più di un decennio, e la messa a punto del relativo annuario, per poter dimostrare “coll’evidenza degli occhi addirittura, che l’obiettivo, la lastra e le carte fotografiche, nell’offrire all’uomo i loro servigi regolati dalle leggi infallibili della natura, lasciano però ampio campo all’opera di lui, alla sua industria, allo studio del vero, all’apprezzamento del bello, in una parola alle sue facoltà di artista” (Bricarelli, Brezzo 1923), posizione che costituiva un implicito richiamo di condivisione delle teorie espresse da Enrico Thovez in un breve testo del 1898, non a caso parzialmente riedito sullo stesso annuario nel 1926[20], a partire dalla consapevolezza che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero.”

Quando, nella presentare il secondo annuario Emilio Zanzi (1924, p. 17) si assunse il compito di commentare le immagini di Bricarelli ne riconobbe il ruolo innovatore di  “squisito interprete della realtà luminosa, liberata d’ogni elemento superfluo. Semplificatore e sintetista (…) cerca sempre di non tradire, coll’artificio di corrusche bengalerie da laboratorio, la luce solare che dà vita al creato.”  Anche un altro critico torinese nel recensire le sue opere presentate al Primo Salon aveva notato: “Altra tempra [rispetto a Schiaparelli], altra qualità di temi, altro metodo d’inquadratura e di diversa ricerca di effetti luminosi in Stefano Bricarelli; sul vetro smerigliato della sua reflex non si arrestano che motivi in cui vinca l’austerità di poche linee e la forza contrastante di larghe ali di luce, contro masse profonde di ombre; pochi sentono la sintesi di un tema come lui: c’è un suo bromuro in cui  non senti che l’ansa larga d’una strada valdostana, un fresco biondeggiar di grano, due ombrati fusti di pioppi; tutto qui, soffuso d’una larga ala di luce, fresco di vento che scende colla Dora dalle rocce di Prè-Saint Didier.” (Angeloni, 1925a, p.  68).

Al di là di un’ancora superficiale revisione della terminologia adottata, con quel ricorso comune al concetto di  “sintesi” come valore discriminante della  nuova cultura visiva modernista, l’insistere dei due interventi sul trattamento degli effetti luminosi lasciava emergere una sostanziale incomprensione dei più specifici problemi posti da quella nuova visione che andava prendendo forma nelle coeve ricerche europee, riflettendo di fatto le stesse incertezze di orientamento della migliore cultura fotografica italiana di quegli anni, Bricarelli compreso.

Erano tensioni ancora non risolte, messe a punto non ancora definite che si mescolavano, che si affiancavano alle ultime prove di esausto pittorialismo. Poiché Bricarelli, come altri della sua generazione non aveva mai del tutto rinunciato alla pratica della fotografia che altrove si sarebbe detta diretta e che qui era – più semplicemente – la prosecuzione della consolidata e autorevole tradizione piemontese della fotografia alpina: da Vittorio Sella ancora a Rey. Risulta così meglio comprensibile la data di realizzazione di un’immagine come Tramonto sulla Valle dell’Arc (A3/133) che è del 1908 – 1909, con l’inserimento elegantissimo e nuovo, al primo piano, dell’artificialità del palo telegrafico a tagliare la maestosa e altrimenti convenzionale veduta, mentre altre immagini di neve e sciatori – ormai negli anni Trenta – risultano così puntualmente assimilabili  a quelle di altri fotografi di quegli anni – penso ad Ettore Santi, ai fratelli Pedrotti ma soprattutto a Cesare Giulio – da risultare quasi coincidenti, da consentirci di parlare, di provare almeno a dire della figura di un autore che era collettivo, che elaborava infinite variazioni sul tema, muovendosi incerto e lieve, senza sforzo apparente nel tentativo di scrollarsi di dosso il peso della referenzialità fotografica.[21] Un autore che si dedicava alla realizzazione di immagini in cui lo scenario naturale  potesse funzionare come un pre-testo, un materiale da elaborare per realizzare fotografie di cui negli esiti migliori la critica coeva coerentemente riconosceva l’estraneità al genere del “paesaggio” se questo doveva essere inteso come  “una rappresentazione pittorica – o fotografica – di carattere eminentemente descrittivo e totalitario, nella quale l’insieme domini sul particolare [e] le figure – se figure vi sono – abbiano funzione complementare (…) l’architettura e in genere l’opera dell’uomo siano assoggettate dall’impero incontrastato della natura (…). Non sono paesaggi né le nevi dell’Oneglio e del Giulio né i particolari luministici del Baravalle” (Bernardi, 1927, pp.  10-11), così come per Bricarelli non lo sarebbero state le lievi, bellissime Tracce[22] sulla neve presentate nel 1932 al London Salon of Photography e pubblicate in “Luci ed Ombre” dello stesso anno, insieme a Parigi Grand Palais 1931 (A33/15).

Quando i temi sono diversi il percorso di allontanamento dalle convenzioni pittorialiste è ancora incerto sebbene irreversibile, come sembra significare anche la caduta – dal 1924 – dell’aggettivo “pictorial” nel titolo della consueta sintesi sullo stato della fotografia in Italia che Bricarelli redigeva per “Photograms of the Year”. Così se le cataste di legna[23] (SB0061) fotografate nel 1923 non portano ancora traccia alcuna del trattamento formale che ad un tema analogo sarebbe stato riservato in ambito Bauhaus, il lavoro insistito sul tema delle Vele (A33/5, SB0053) solo di poco più tardo, indica l’esigenza e il progressivo emergere di soluzioni nuove. La novità nella resa del soggetto, dove la fascinazione per la plastica maestosità delle forme rigidamente ingabbiata dai bordi dell’inquadratura convive con precise possibilità descrittive, venne immediatamente riconosciuta  da un critico vicino a  Bricarelli come Guido Lorenzo Brezzo (1931 p.  13) che ne parlava come di “un quadro in cui l’elemento scenografico novissimo incarna con tanta perfezione ed aderenza l’elemento immutato che l’opera potrebbe figurare in qualsiasi ardita mostra d’avanguardia, ed essere insieme usata a dimostrare le leggi della composizione nel più conservatore dei trattati”. A questi faceva eco il critico de “Il Corriere Fotografico”, che – a proposito della stessa fotografia – modernamente individuava la sequenza complessiva dell’atto fotografico quale elemento generatore della qualità dell’immagine:  “Anche nei soggetti più umili e comuni il fotografo torinese sa trovare motivo di grandezza. Il senso delle dimensioni è da lui magnificato con un’accorta disposizione dell’obiettivo nell’atto di presa e col taglio sapiente della prova fotografica. E tutto ciò è eminentemente moderno e suggestivo.” (De Albroit, 1931)

Fu proprio l’accorta e consapevole scelta dell’inquadratura che consentì la realizzazione, per molti versi inattesa, di quella che rimane una delle più note fotografie di Bricarelli, quella Rampa elicoidale alla Fiat (A13/72) che fu pubblicata sulle pagine di “Motor Italia” nel dicembre del 1927, lo stesso anno in cui – tra maggio e ottobre – aveva presentato alla Terza Mostra internazionale delle arti decorative di Monza Nei prati di Coumayeur (A32/29), esempio estremo di paesaggio pittorialista, in cui l’estenuazione del flou e della gamma tonale portavano quasi alla smaterializzazione del soggetto, svaporato come in una fata morgana. Nel servizio per “Motor Italia”, da lui fondata con un piccolo gruppo di soci nel novembre dell’anno precedente, gli esiti non avrebbero potuto essere più diversi, ma soprattutto le intenzioni. Qui, come sempre più di frequente accadrà nei decenni successivi, Bricarelli abbandonava ogni intenzione semplicemente “artistica”, rinunciava all’autonomia salonistica  delle singole immagini preferendo operare per serie, così come richiedeva la destinazione della carta stampata.  Era un’idea di fotogiornalismo in cui l’accuratezza descrittiva era destinata a tradursi in immagini formalmente risolte, comunicativamente efficaci.

Il servizio fotografico dedicato alla FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino (così recita il titolo dell’articolo) venne pubblicato a corredo del testo poi notissimo di Edoardo Persico, e non si può escludere che le suggestioni del giovane critico napoletano avessero contribuito al radicale mutamento di registro espressivo evidente in queste immagini, nonostante le note difficoltà di rapporti tra i due e la profonda disistima di Bricarelli[24].

Il testo di Persico offriva del Lingotto una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo; interpretava questa architettura come un percorso iniziatico: “le officine della Fiat innalzano la logica della loro architettura (…) da cui nasce un’impressione di bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità. (…) Due strade ascendono a questo luogo di concentrazioni interiori, e lo reggono, invisibili, come un fatto spirituale. (…) Queste due eliche hanno un significato di obbedienza. (…) Queste due eliche sono veramente un modo della libertà umana. (…) L’obbedienza trova in alto, verso il cielo, la sua strada inevitabile, e ne ritorna santificata.” Come ha rilevato Angelo d’Orsi[25] il testo di Persico “coglie in qualche modo il significato ideologico dell’architettura [e] la disvela. Il Lingotto non era che il volto stesso del potere dell’uomo sull’uomo; la logica severa della sua linea architettonica esprimeva la logica stessa del potere”, mentre le immagini di Bricarelli sembrano coglierne più specificamente il derivato fascino razionalista, quella “bellezza per l’identità della cosa con la sua funzione (…) dove le combinazioni delle rette con le curve hanno sistemato un attimo dell’eternità.”

Le fotografie che ne risultarono, specialmente la Rampa elicoidale poi ripubblicata ne “Il Corriere Fotografico” ed in “Luci ed Ombre” del 1929 (t. VIII) costituivano una novità assoluta e disagevole per l’abituale lessico dei lettori della rivista, tanto da indurre Guido Lorenzo Brezzo (1929, pp. 778-779) a fornirne esplicite istruzioni per l’uso: “Una prima occhiata (…) può far credere che Stefano Bricarelli si sia dato al futurismo: ed abbia voluto semplicemente presentare un pattern strambo ed insolito. Ora questo nel quadro c’è certamente, ma c’è anche qualcosa di più, che lo giustifica e lo toglie dalla categoria delle cose che «piacciono per cinque minuti». Il lettore sostenga il libro in posizione orizzontale con le braccia tese in alto e  un po’ in avanti, e guardi la tavola rovesciando la testa indietro. Vedrà allora quale magnifico problema di prospettiva verticale l’autore si sia imposto e come magistralmente l’abbia risolto.” [26]

Credo sia sufficiente richiamare questa ricetta spicciola di ginnastica percettiva e intellettiva per intuire quale ne fosse la difficoltà di comprensione; meglio: quale diffidenza e disturbo ingenerasse una simile opera nelle tranquille e provinciali acque della cultura fotografica italiana e torinese di quegli anni, ormai alle soglie della consacrazione e divulgazione delle profonde revisioni imposte dalla nuova visione centroeuropea che si sarebbe attuata con l’esposizione Film und Foto di Stoccarda, nello stesso 1929.

Fu necessaria la più aggiornata e lucida consapevolezza di Antonio Boggeri per ribaltarne radicalmente l’interpretazione all’interno di una più complessiva riflessione sulla “Fotografia moderna”: nel Commento che apriva l’annuario di quell’anno identificava proprio in Una rampa elicoidale alla Fiat e nei Vasi di Achille Bologna “le due opere che si possono considerare i capisaldi di questa raccolta” e concludeva: “Se i nostri concetti enunciati sul principio hanno bisogno di esempi, vorremmo che soprattutto su di questi il lettore soffermasse l’attenzione. Nel primo, quel nuovo spirito di ricerca, quel rispetto delle leggi fondamentali della fotografia, quell’equilibrio fra concetto e estetica, tra l’eleganza del particolare e la serietà della composizione, creano un vero modello di questa scuola.” (Boggeri, 1929b, p. 16)

La battaglia del modernismo non poteva però ancora dirsi vinta se a proposito di Riva di San Fruttuoso (variante di stampa di SB0040)  si parlava ancora, sulle pagine de “Il Corriere Fotografico”, di  “fotografia documentaria [che] assurge a valore di quadro per una meravigliosa resa di piani” (De Albroit, 1930), mentre un critico come Italo Mario Angeloni notava più in generale che “la composizione è dettata non solo dalla natura delle cose e dall’anima del disegnatore, ma sì anche da un evidente signorile insegnamento dell’arte pittorica nazionale e più particolarmente di quella scuola che ha in Piemonte i suoi maestri negli Avondo, nei Bertea, nei Fontanesi, nei Follini.”[27]

Questi richiami non dovevano certo dispiacere ai membri del rinnovato Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che proprio ad un pittore come Cesare Maggi, autore di paesaggi innevati che vivevano delle stesse suggestioni delle autocromie, avevano affidato la “fraterna cura” della sala in cui erano comprese le loro opere in occasione delle II Mostra del Fotogruppo Alpino[28] del CAI nel maggio 1927, ed a cui affideranno nel gennaio dell’anno successivo quella della loro Prima Mostra d’arte fotografica, condivisa con  i critici dei due maggiori quotidiani locali Marziano Bernardi (“La Stampa”) ed Emilio Zanzi (“La Gazzetta del Popolo”); mostra in cui oltre alle opere dei ventuno membri del gruppo erano presentate le personali di tre notissimi autori stranieri di scuola pittorialista: Marcus Adams, Leonard Misonne e José Hortiz-Hechagüe.

Dopo l’attivismo dei primi anni, segnato dalla redazione della rivista e del suo annuario come dalla partecipazione a tutte le più importanti manifestazioni espositive torinesi,  il Gruppo doveva aver perso di compattezza se col gennaio del 1927 aveva sentito la necessità di riconsiderare il proprio ruolo e la propria identità con una “più definita ed intensa attività [ricostituendosi], all’occorrenza, su nuove basi (…) seguendo l’azione dei gruppi di «pictorialists» inglesi ed americani, secondo concetti tecnici ed estetici ben chiari e definiti.” [29]

Proprio quest’ultimo richiamo programmatico sembra indicare uno stato di crisi, l’emergere di contraddizioni espressive che cercavano una verifica proprio nella Prima mostra del 1928, ma anche la necessità di dotarsi di strutture più adeguate al confronto con una scena fotografica in profonda mutazione, anche organizzativa, segnata dalla nascita di nuove strutture associative[30] sorte tra i lavoratori della grande industria, come il DAS (Dopolavoro Aziendale Sip) nel 1928 e il gruppo del Dopolavoro FIAT (1929), e  – non ultima – dalla forte attrazione ideologica esercitata dall’Istituto fascista di cultura.

Nel maggio del 1929 Carlo Baravalle, prossimo ad assumere la Direzione generale della Tensi, casa milanese di prodotti fotografici, lasciava opportunamente la direzione della rivista “desideroso di mantenere al  «Corriere Fotografico» il suo carattere di indipendenza da qualunque interesse diretto o indiretto”, ma questa dichiarazione di autonomia non contemplava un’analoga distanza dall’ideologia e dalla politica culturale del regime. Nel 1926 e 1927 gli annuari si erano aperti con due omaggi sabaudi, rispettivamente i ritratti di Ajmone di Savoia Aosta e di Umberto Principe di Piemonte, ma la prima tavola del 1927 riproduceva il ritratto di Benito Mussolini fatto da Eva Barret. Non solo:  i più autorevoli interventi critici, specialmente sulla rivista, erano affidati a figure come Emilio Zanzi, che fu tra i partecipanti al IV Congresso degli intellettuali fascisti del 1926, redattore di testate apertamente schierate come la  “Gazzetta del Popolo”,  diretta da Maffio Maffi che sarà capo Ufficio Stampa del Governo quindi da  Ermanno Amicucci, segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, ed il “Il Momento”, giornale cattolico filogovernativo dalle cui fila proveniva anche  Angeloni,  autore nell’ottobre del 1934 di un editoriale de “Il Corriere Fotografico” dall’esplicito titolo Sotto il segno del Littorio, in cui esaltava la funzione politico propagandistica della fotografia, che “ci comunica la Storia in azione nel giro di pochi secondi.” (in Reteuna, 2002, p. 22) Certo si trattava di ribadire la propria adesione, di più, la propria condivisione della politica culturale del regime forse anche allo scopo di arginare la presenza ingombrante del nuovo periodico fotografico che si pubblicava a Torino dal luglio del 1933. L’edizione italiana di “Galleria”,  rassegna mensile internazionale d’arte fotografica, aveva infatti aperto con un editoriale in cui si definiva la “fotografia, manifestazione popolare e pertanto schietta di sentire”, quella stessa che  Luigi Andreis poco oltre  definiva “serena, eguale alla canzone popolare che scaturisce direttamente dal cuore per dire senza artifici e senza mollezze una sensibilità spirituale. (…) Creare il clima, ritornare alla nobile e meravigliosa tradizione artistica italiana, interrotta sulla fine del secolo scorso dal trionfo del cattivo gusto borghese, anche attraverso a sconvolgimenti ed a travagli interni nell’animo dell’artista, intensi e talvolta dolorosi: fu il compito iniziale del fuoco vivificatore del fascismo. Così attraverso il ‘900, il futurismo, ecc. vennero fuori la poesia del motore, nuovo e meraviglioso per la sua sagoma audace e per  il suo ritmo sonoro, forte ed ardimentoso; il severo e rapido passo della vita nuova; la sinfonia della sanità morale; il canto della Roma dei Cesari.” (Andreis, 1933, p.  10)

La fotografia d’autore usciva dall’ambiente chiuso e ormai stantio dei Salon e si riconosceva un ruolo e un compito sociale e quindi politico, in linea con le direttive del regime e con l’uso efficace e spregiudicato che questo faceva di ogni forma di comunicazione di massa. “Documentare con la fotografia le realizzazioni della civiltà fascista che è la nostra civiltà” doveva essere l’imperativo di ogni fotografo moderno, “esaltarne l’infinita bellezza mediante la scelta felice delle immagini aderenti al nostro spirito (…) ecco la missione di cui è investito ogni fotografo italiano che della fotografia voglia fare, oltreché un diletto artistico per il proprio spirito, anche uno  strumento di educazione nazionale attraverso la glorificazione estetica dell’eccezionale periodo storico in cui abbiamo la fortuna di operare.” (Bellavista, 1934, p. 15)

Da qui anche  l’ampia attenzione per la vita fotografica nella Germania hitleriana dedicata da “Il Corriere Fotografico”  sottolineando ad esempio come “il Governo di Hitler sino dal suo avvento al potere si è valso della fotografia come mezzo di propaganda. Il volumetto [Willy Stiewe, Foto und Volk, 1933]  rispecchia assai bene questo nuovo spirito «nazionale» della fotografia tedesca. (…) Ecco un’opera che deve far meditare noi italiani: perché non seguiamo – almeno nel campo della fotografia – l’esempio che ci viene dalla risorta Germania, e magari cercare di far meglio?”[31]

Ancora Angeloni, nel già citato editoriale del 1934 ribadiva che “la stampa periodica politica e tecnica – della quale ultima il Corriere Fotografico si onora di far parte – i libri, la radio, la fotografia, la cinematografia sono tutti dei magnifici mezzi di propaganda, di lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee e di conoscenza dei fatti realizzati. Tutti questi mezzi acquistano poi maggiore efficacia quando essi vengono raggruppati in un sol fascio di energie volte ad un unico fine e dirette da una chiara mente che sia sicura e fedele interprete della volontà e dei pensieri del Capo, del Duce.” (in Miraglia, 2001, p. 19)

In questo contesto va compresa l’ulteriore trasformazione del linguaggio fotografico e dell’attività di Bricarelli, che procedeva nel proprio personale percorso di revisione espressiva tanto da essere accolto sulle pagine di “Modern Photography”, il prestigioso annuario pubblicato dalla rivista londinese “The Studio” nel 1931, insieme ad autori come Herbert Bayer,  André Kertesz, Germaine Krull, Man Ray, Lazlo Moholy-Nagy ed altri.[32] Sono di questi anni alcune importanti immagini precisamente riferibili alla svolta modernista, come Nella cupola del parigino Gran Palais, 1931 (A33/15)  e Dal “Rex” nel porto di Genova, 1933 (A32/1), ma anche l’estensione della propria attività, seppure in modo apparentemente discontinuo, alla cinematografia documentaria[33]. Soprattutto però caratterizza questo periodo l’ulteriore e definitivo cambio di attrezzatura fotografica, col passaggio al piccolo formato e l’acquisto del primo apparecchio Leica, modello “C” a telemetro con obiettivi intercambiabili, di cui fu uno dei primi utilizzatori italiani.

L’adozione di questo nuovo strumento, con tutto quanto ciò doveva implicare i termini di modi operativi ed espressivi portò al definitivo abbandono dei residui stilemi pittorialisti spingendolo verso quella progressiva opera di “semplificazione” dell’immagine che era il concetto chiave intorno a cui ruotavano le più accorte riflessioni sulla fotografia italiana in quegli anni.

Se ne rese immediatamente conto Alberto Rossi che nel commento alle tavole di “Luci ed Ombre” del 1933 riconosceva che “fotografie come quelle di Bricarelli, di Pokorny, di Bologna, di Cesare Giulio, di Carlo Baravalle, di Guglielmo Alberti, mostravano come anche presso di noi un gusto europeo, vigile e avvertito, si stesse diffondendo anche nel mondo fotografico. Ora, in questa raccolta, lo stacco è ancor più deciso, la volontà di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva, appare ancor più evidente [e] questa volta Bricarelli, che di solito si compiace di composizioni audaci e di angolazioni modernissime, ha avuto la civetteria di presentarsi con una fotografia estremamente tranquilla, di soggetto e di taglio, [Neve sui tetti /Hiver à Planpincieux, A32/19] come per far risaltare le sue qualità di puro fotografo.” (Rossi, 1933, p. XIV passim)

L’impegno di Bricarelli con il nuovo strumento divenne immediatamente esclusivo e verificato in importanti confronti quali il Concorso nazionale Leica indetto dall’Associazione fotografica Ligure nel 1935 (con Namias, Bologna e Andreis nella giuria) di cui vinse il primo premio nella categoria “A (opere e manifestazioni di regime)”, mentre la sua attività fotogiornalistica si estendeva alla moda, con collaborazioni diverse che andavano dal torinese “Bellezza” diretto da Lucio Ridenti, a “Donna” e  al “Secolo XX”, mostrando significative ricadute stilistiche anche sulla più riservata ritrattistica familiare, come mostra bene il doppio ritratto della moglie Gina con un’amica, riprese al Sestrière nel 1936 (SB0023).

Di ben maggiore fortuna e rilievo fu però il Concours de la meilleure Bobine Touristique Leica 1935 indetto dalla parigina Tiranty[34], che Bricarelli vinse guadagnandosi l’opportunità di un viaggio negli Stati Uniti a bordo del Normandie.

L’avventura americana è stata da lui stesso ampiamente ricostruita molti anni più tardi  in due gustosi ed esaustivi articoli (Bricarelli, 1975a,b) basati sulle annotazioni di un suo piccolo carnet di viaggio e costantemente richiamata da tutta la letteratura critica più recente. Durante quel viaggio, il 17 settembre 1936 incontrò a New York il grafico Paolo Garretto (Napoli 1903 – Montecarlo 1989) che lo presentò all’Agenzia fotografica Daniel, tramite delle collaborazioni con prestigiose testate americane quali “Harper’s Bazar” e “Ladies Home Journal”, per le quali realizzò intensi ritratti di giovani nobildonne italiane (A3/19, A4/12), ideale prosecuzione della serie delle Giovani fanciulle in fiore.   “Per varie ragioni” non poté accettare l’incarico di un reportage in Cecoslovacchia da parte del “National Geographic Magazine”, ma il contatto più prestigioso fu quello con la neonata  “Life”, che dopo avergli pubblicato a piena pagina in uno dei suoi primissimi numeri la notissima immagine delle Niagara Falls (A32/22), gli commissionò un reportage su Mussolini a Palazzo Venezia[35], poi realizzato il 16 gennaio del 1938 ed efficacemente risolto da Bricarelli  con una “concezione libera e moderna” (Miraglia, 2001, p. 21) che richiamava il primo notissimo modello dell’analogo servizio realizzato da Felix H. Man nel 1931 per la “Münchner Illustrierte Presse”.

L’esito non fu però apprezzato dal Duce, che di tutte approvò una sola immagine (SB0049), ma quell’incontro fruttò comunque a Bricarelli un periodo di assidua collaborazione con la “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, che utilizzò sue fotografie sia per il numero speciale della rivista dedicato alla visita italiana di Hitler, che Bricarelli fotograferà ancora al salone di Berlino dell’anno successivo[36],  sia nel giugno 1939 per celebrare la visita del  “Duce a Torino sabauda e fascistissima”, con bellissime immagini notturne di architetture torinesi, che si aggiungevano ad un repertorio tanto interessante quanto poco noto che in quel ristretto numero di anni avrebbe compreso anche le fotografie realizzate per documentare la Mostra dell’Autarchia di Torino e la Mostra Autarchica del Minerale Italiano di Roma.[37]

Il processo di aggiornamento avviato dieci anni prima con le riprese del Lingotto e definitivamente sottoposto a verifica nel corso del viaggio negli Stati Uniti era così compiuto: in queste immagini l’uso sapiente dell’illuminazione artificiale delle riprese notturne o in interni si coniugava con i più aggiornati e dinamici schemi compositivi, ormai ampiamente acquisiti e diffusi in una fase della vita nazionale in cui la pratica del consenso si sviluppava oltre che  con metodi coercitivi e violenti anche con un uso accorto e spregiudicato dei mezzi di comunicazione, non ultimo il massiccio ricorso ad enormi fotomosaici e fotomurali nell’allestimento delle grandi esposizioni, a partire da quella celebrativa del decennale della marcia su Roma, nel 1932. A testimonianza di un interesse non ancora condizionato dalla prospettiva bellica, anche la mussoliniana  “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” aveva pubblicato alcune delle sue bellissime fotografie del viaggio americano nel numero dell’ottobre 1938, a corredo di un articolo intitolato  Dollari, grattacieli, capogiri , ed altre erano state utilizzate nel 1940 sul mondadoriano “Tempo” a corredo dell’articolo Sbarcando a Nuova York (Zupàn, 1940), ma alcune di queste avevano già avuto la loro anteprima italiana al V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti che si era tenuto a Torino dal 29 maggio al 20 giugno 1937, aperto al Circolo  degli Artisti sotto la presidenza di Cesare De Vecchi di Val Cismon, già ministro dell’Educazione Nazionale. Qui Bricarelli aveva esposto, oltre ad un’immagine del Palazzo delle Poste di Napoli, le Niagara Falls, passate quasi inosservate e una ripresa dell’R.C.A. Building che Luigi  Andreis (1937, p. 10) aveva giudicato “modernissimo taglio di un grattacielo.”[38]

Con lo scoppio della guerra l’attività de “Il Corriere Fotografico” si fece difficile nonostante il sostegno economico – sotto forma di introiti pubblicitari – della Ferrania, che aveva nel frattempo acquisito anche il marchio Tensi e  dal 1935  era passata sotto il controllo dell’IFI, la finanziaria della famiglia Agnelli.

Nelle ristrettezze della guerra incombente e poi avviata e con un numero di pagine sempre più ridotto la testata dedicava i propri articoli quasi esclusivamente ad argomenti di carattere tecnico, e in particolare prestava la più costante attenzione all’ Avvenire e problemi della fotografia a colori, riflettendo così – quasi senza parere – uno dei maggiori sforzi prebellici nel settore fotografico, quello che aveva portato al confronto duro tra la statunitense Kodak (Kodachrome, 1935) e la tedesca Agfa, che commercializzò la pellicola per diapositive Agfacolor nel 1936, la sola disponibile in Italia sino al 1942- 43, quando dagli stabilimenti liguri uscirono le prime pellicole Ferraniacolor.

Le limitazioni imposte in regime di guerra portarono alla chiusura temporanea della testata, di cui all’inizio del 1944 era mutato anche l’assetto proprietario: la quota spettante ad Achille Bologna era stata infatti ceduta il 20 gennaio del 1944 ai coniugi Bricarelli, per passare venti giorni più tardi a Mario Carafòli “compresa la rivista al presente sospesa per disposizione del Ministero della Cultura Popolare”, i libri editi e gli arredi per un totale di Lire 40.000.[39]

Restava “Motor Italia” di cui Bricarelli conservava la direzione e la responsabilità quasi esclusiva della redazione e per la quale continuava a realizzare servizi fotografici sia di specifico carattere tecnico sia di informazione turistica e di varia cultura. Tra questi, a guerra ormai conclusa, anche il reportage dedicato a Bernard Berenson, fotografato nel 1947 ai Tatti, in compagnia di Clotilde Marghieri e di Guglielmo Alberti, amico di lunga data di Bricarelli, scrittore e assistente alla regia di Mario Soldati per Malombra, 1940, ma anche autore di interessanti fotografie pubblicate in “Luci ed Ombre” dal 1932 al 1934.[40]

Le immagini mostrano chiaramente quale fosse il suo modo di operare, descrivendo il personaggio attraverso una serie di riprese che lo colgono in momenti e luoghi diversi della sua giornata: dal giardino alle belle sale impreziosite di capolavori, in conversazione coi propri ospiti o solo a riposare sulla grande poltrona; la sequenza si chiudeva con il bel ritratto in primo piano (SB0091), col massimo punto di avvicinamento al soggetto, il centro del movimento di una spirale centripeta: un’immagine che ricorda per certi versi il ritratto che Henri Cartier-Bresson fece a Matisse, a Vence, nel 1944.

“Dopo quasi dieci anni di silenzio, sospesa prima dalle restrizioni della guerra e poi ostacolato dalle difficoltà post belliche” “Il Corriere Fotografico” riprese le pubblicazioni all’inizio del 1952, mentre Bricarelli estendeva la propria rete di collaborazioni ad altre testate come “Bellezze d’Italia” [41], con una ricca produzione di immagini di buon  livello prevalentemente dedicate a temi turistici,  a volte pubblicate con varianti anche su “Motor Italia”. Suggestioni della più diversa provenienza, dai grafismi di gusto Bauhaus alle forme più mature di composizione derivate dal pittoricismo, erano di volta in volta poste al servizio della risoluzione più efficace e formalmente soddisfacente del soggetto, analogamente a quanto accadeva negli stessi anni per un altro prolifico autore di poco più giovane come Bruno Stefani (1901 – 1978), collaboratore di lunga data del TCI per quella collana “Attraverso l’Italia” (cui contribuì anche Bricarelli) che tra il 1931 ed il 1955 aveva ridefinito  l’immagine del Belpaese pubblicando un repertorio di circa 10.500 immagini, distribuite in ventuno volumi.

Sebbene col 1954 Bricarelli fosse divenuto proprietario unico de “Il Corriere Fotografico”[42] la sua presenza sulle pagine della rivista era diminuita mentre lo stesso ruolo della rivista risultava progressivamente marginale in un contesto in cui, nonostante la presenza di Carlo Mollino, il “laboratorio” torinese aveva ormai perduto il proprio primato fotografico a favore del polo milanese, segnato anche dalla presenza di “Ferrania”, rivista che sin dai primi numeri era divenuta la sede privilegiata di confronto e dibattito dell’ultima generazione di fotografi che si stava affacciando sulla scena.

I primi evidenti segnali di questa mutata situazione si erano avuti già nel 1943. In quella che si definiva Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, curata da Ermanno F. Scopinich per l’Editoriale Domus in collaborazione con Alfredo Ornano e con la grafica di Albe Steiner, Domenico Riccardo Peretti Griva era stato il solo rappresentante noto dei torinesi, cui anzi sembravano indirizzarsi gli strali più polemici di Scopinich e – ancor prima, nel 1941 –  di Alberto Lattuada[43]. Il volume, uscito a circa dieci anni di distanza dall’ultima edizione di “Luci ed Ombre” (1934) – che ne costituiva di fatto il più autorevole precedente editoriale (ma non estetico) – rappresentava pur tra palesi contraddizioni la sintesi del dibattito italiano e della più generale svolta modernista, timidamente avviati proprio dal “Corriere Fotografico” ma poi proseguiti e affinati sulle pagine di “Galleria” e di “Note fotografiche”, e specialmente col contributo fondamentale delle riviste milanesi  dell’editore Gianni Mazzocchi. Neppure Carlo Mollino, che pure era stato gratificato di una copertina in uno degli ultimi numeri de “Il Corriere Fotografico”[44] d’anteguerra e doveva seguire con particolare passione un periodico tecnico come “Motor Italia”, si ricordò di Bricarelli nel suo Messaggio dalla camera oscura (1949), che pure ospitava Peretti Griva. La sospensione delle pubblicazioni della rivista per circa un decennio non pare sufficiente a giustificare un tale silenzio, quasi un ostracismo, ma è innegabile che la linea espressa dalla nuova serie del periodico si collocava ormai su posizioni esplicitamente conservatrici, sebbene arricchita da un’innovativa serie di articoli pionieristicamente dedicati a temi di storia della fotografia[45].

A restituire il clima basti qui citare a titolo esemplificativo il sarcasmo con cui  Maurizio Nèvola recensiva su quelle pagine la “Mostra della fotografia italiana 1953”, organizzata alla Galleria Vigna Nuova di Firenze da Giuseppe Cavalli,  giudicato uno che “per fare una foto, [“di una povertà desolante”] prima consulta il fotometro e poi Benedetto Croce”, per procedere poi a distribuire equamente i propri strali anche verso l’altro grande protagonista della nuova fotografia italiana, Paolo Monti, duramente attaccato per aver  “combinato – l’avreste mai creduto? – un «Fotogramma», cioè uno di quei vecchi giochetti talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. Ha presentato il solito foglio nero, con le solite due o tre foglie d’albero macerate, e attorno dei pezzettini di materiale indefinibile disposti alla rinfusa. «Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri».” (Nèvola, 1953)  Di tono non diverso appariva poi un successivo intervento di Guido Pellegrini, presidente del Circolo Fotografico Milanese,  in cui si individuava nel motto “Natura meno bellezza eguale astrattismo!” la formula magica della nuova fotografia soggettiva. (Pellegrini, 1954)

In questo clima conflittuale si collocava anche la poco entusiasta segnalazione del numero monografico di “Camera” dell’aprile 1956 dedicato all’Italia, dove erano riprodotte fuori testo “16 opere, alcune piuttosto discutibili, ma nella maggioranza assai belle” dovute ad un selezionato gruppo di autori della nuova generazione (con l’eccezione di Balocchi), tra i quali spiccava Fulvio Roiter, cui il prestigioso periodico svizzero dedicava anche la copertina, ed autore anche di uno dei due articoli di commento, essendo l’altro di Italo Zannier.

È proprio verso le opinioni espresse in quegli scritti che Bricarelli esprimeva tutto il suo disaccordo, specialmente quando sostenevano le qualità e i meriti del professionismo contro l’atteggiamento dilettantistico[46] degli amateur nostrani, “che concepiscono la fotografia come un «hobby», un passatempo che occupa le ore libere della settimana” (Roiter in Bricarelli, 1956a), attaccando conseguentemente, ma anche strumentalmente, il ruolo dei circoli fotografici  italiani per concludere che “la causa remota è da ricercarsi nell’assoluta mancanza di riviste specializzate e di editori che abbiano il coraggio di intraprendere un intelligente e razionale lavoro editoriale che abbia come base di sviluppo la fotografia.” (ibidem)

Il disappunto, e il dispiacere credo, non avrebbero potuto essere maggiori per chi, come Bricarelli, si era impegnato da sempre per la cultura e nell’editoria fotografica, difendendo come un punto d’onore[47] la propria qualifica di “dilettante”, più una categoria dello spirito che una condizione produttiva per lui, che aveva pubblicato e diretto riviste che si caratterizzavano proprio per l’innovativo ed ampio uso della fotografia.

Erano i termini duri di uno scontro generazionale che non consentiva mediazioni né comprensioni reciproche tra i giovani autori ed il più autorevole e ormai appartato esponente di una generazione che Zannier definiva dei “primitivi” che avevano praticato il “pittoricismo fotografico”.

Non che sulle pagine de “Il Corriere Fotografico” non ci fossero timide aperture ai nuovi autori internazionali:  lo dimostrano i brevi profili della rubrica Fotografi d’oggi  dedicati tra gli altri a Werner Bischof (1/1955), édouard Boubat (9/1956), Jean-Pierre Sudre (12/1956),  Renè Burri (5/1957) e Chargesheimer (5/56), di cui però si presentano solo i ritratti e non le ben più problematiche fotografie concrete,  mentre il numero di agosto del 1955 dedicava amplissimo spazio a Paul Strand , definito “fotografo illustratore americano di grande e non recente fama”, per presentare il volume einaudiano Un Paese, realizzato con Cesare Zavattini. Niente però che avesse a che vedere per qualità dell’approfondimento critico e rilevanza editoriale col puntuale ed  affettuoso ritratto dedicato a Guido Rey nel ventennale della scomparsa[48], corredato della riedizione del suo scritto del 1908 Fotografia inutile?, già comparso a suo tempo (1925) sulle pagine di “Luci ed Ombre”.

La vera novità di quegli anni nella produzione di Bricarelli era costituita dal ricorso sempre più frequente e sistematico all’uso del colore, sotto forma di diapositive nel formato 6×6, realizzate con la biottica Rolleiflex a partire dalla metà degli anni Cinquanta ed utilizzate sia in “Motor Italia” che per le copertine del “Il Corriere Fotografico” sin dalla ripresa delle pubblicazioni, sovente accompagnate dall’indicazione pubblicitaria “da Ferraniacolor”.[49] Nella novità del materiale fotografico a colori Bricarelli ritrovava l’opportunità di verificare e vivificare temi più volte affrontati quali le reti e le vele o l’infinita varietà dei paesaggi italiani, dimostrando una grande sensibilità per questa materia nuova, per le sue specifiche possibilità. Non era infatti un semplice adeguamento, una pura aggiunta cromatica a schemi compositivi predefiniti: il colore diventava l’elemento condizionante ed il vero soggetto dell’immagine, in tutte le sue sfumature, sino a sfiorare volutamente la soglia del monocromo. Negli anni in cui la nuova fotografia italiana e internazionale prediligeva l’uso drammatico del bianco/nero, l’anziano fotografo accoglieva le suggestioni non solo cromatiche delle coeve esperienze artistiche, dal Nouveau Réalisme alla Pop Art, ricercandone fotograficamente le involontarie tracce nella realtà delle cose del mondo. (A21/5_1, 2)

“Il Corriere Fotografico” chiuse definitivamente nel 1963, mentre Bricarelli mantenne la direzione di “Motor Italia” sino al 1976, assicurando ad essa “una costante unità di stile” dovuta al fatto che “durante il primo mezzo secolo di vita della Rivista gran parte delle foto in essa riprodotte erano state [da lui] riprese.” (Bricarelli, 1979, p. 14). Dopo quella data la conclusione della principale attività professionale gli offrì il tempo e l’opportunità di rimeditare la propria ingente produzione fotografica[50], distribuita lungo l’arco di almeno sessant’anni e di avviare una piccola serie di titoli che quasi senza parere la riassumevano.

Già nel 1968 aveva pubblicato L’auto è femmina, antologia di venti anni di fotografie dedicate alle carrozzerie torinesi, di fatto il suo primo libro fotografico, cui fece seguire nel 1976 – ormai quasi novantenne – la sua prima monografia antologica, segnata però da un significativo spostamento di accento:  in quel volume tutta la sua produzione veniva riproposta in termini documentari, con la descrittività a prevalere sull’interesse per il possibile valore e significato artistico. Queste fotografie entravano così a far parte di un differente discorso, ribaltando la consueta freccia direzionale di queste trasformazioni: non dall’archivio al museo, dal documento all’opera, ma viceversa. In questo mutamento di prospettiva anche il  pittoricismo delle prime prove era recuperato come documento etnografico semplicemente evidenziandone il contenuto referenziale, denotativo: Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta  voleva essere nelle parole del suo autore “un album per rievocare la nostra regione qual’era quando la mia generazione aveva aperto gli occhi e quelle immediatamente antecedenti vi erano vissute” , e come tale venne letto dalla maggior parte dei commentatori.

Tra questi merita di essere ricordato Mario Soldati, che su “La Stampa” del 24 aprile 1976 chiedeva di prestare particolare attenzione ai testi a corredo delle immagini: “certo le fotografie sono fatte perché le vediamo: ma, e se, per capire queste sino in fondo, si dovesse cercare la chiave nelle didascalie?”

Indicazione niente affatto retorica o d’occasione, cui  sembrava corrispondere lo stesso Bricarelli quando nel 1979 poneva in apertura della sua seconda monografia, esplicitamente intitolata alla memoria, una puntuale citazione da Walter Benjamin: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete (…) A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa. (…) La didascalia non diventerà per caso uno degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?”[51]

Quasi un epitaffio scelto in vita per chi – come lui – aveva accompagnato fotografia e parola, da sempre.

Note

 

[1] Bricarelli, 1979, p.  9. La sua vicenda artistica e professionale è stata in più occasioni delineata dallo stesso Bricarelli, ma questo mio saggio e la mostra da cui origina non avrebbero mai potuto assumere la loro forma attuale senza il costante e competente sostegno della figlia Carla, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti non solo per la grande disponibilità dimostrata, ma anche (e specialmente) per la determinazione e l’affetto con cui ha sempre operato per la tutela e la migliore valorizzazione del patrimonio fotografico paterno.

[2] L’Esposizione del 1902 e le vicende strettamente connesse de “La Fotografia Artistica” sono state studiate da Costantini, 1990 e 1994 e recentemente riprese in Cavanna, 2000, cui si rimanda per eventuali approfondimenti. Dopo la chiusura della rivista (gennaio-febbraio 1917) Cominetti partecipò ancora alla vita fotografica torinese e italiana come membro di commissioni e di giurie della grande esposizione del 1923 dedicata a L’arte nella fotografia. Prima Esposizione Internazionale di Fotografia Ottica e Cinematografia, aperta al Palazzo del Giornale al Valentino  su iniziativa della Camera di Commercio Torinese. Due anni più tardi gli venne affidata la direzione de “Il Fotografo”, rivista già diretta da Felice Baratelli, redattore Celeste Ferdinando Scavini, che aveva sede a Torino, in via Cernaia 18 (poi in via Accademia Albertina, 1) ed era verosimilmente finanziata dalla Bayer, come sembrano dimostrare i diversi e insistiti richiami ai prodotti dell’industria tedesca. Cominetti riassunse allora il ruolo di direttore di un periodico fotografico, ma senza ripetere il successo dell’impresa precedente. Così nel 1932 la sua morte non venne ricordata neppure sulle pagine del “Corriere Fotografico”, per molti versi solo erede di quel generoso e imperfetto tentativo di avviare una prima riflessione italiana sulla natura della fotografia.

[3] Il riferimento è alla teoria in onore tra pittori e fotografi francesi intorno alla metà del XIX secolo e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe, 1996, p. 24)

[4] Orengo, 1979, p.  6. Forse il termine più adatto sarebbe “spensierati”, con un riferimento non troppo implicito al quasi coetaneo Lartigue (1894 – 1986), richiamato anche in Racanicchi, 1994.

[5] La questione della paternità del trattamento dei materiali fotografici di Bricarelli è incerta e le stesse sue testimonianze contraddittorie: così se nel 1979, p.  12 dichiarava che “fin quando impiegai come materiale negativo le lastre le sviluppai sempre di persona”, nell’intervista rilasciata alla figlia Carla circa dieci anni più tardi ricordava che “le fotografie che scattavo nel corso di queste gite le portavo poi a sviluppare in un piccolo laboratorio.” (Bricarelli, 1988, p.  34) Per sapere quale potesse essere il laboratorio in questione è utile risalire ad un testo ampiamente antecedente dedicato alla Ditta Bietenholz & Bosio che aveva sede in Via Arcivescovado all’angolo con piazza Solferino “proprio sul percorso che facevo quattro volte al giorno per andare e tornare dal Ginnasio-Liceo dell’Istituto Sociale”, ditta trasferitasi poi in Corso Oporto presso Corso Re Umberto dove possedeva anche un proprio laboratorio fotografico diretto da Carlo Moncalvo, trasferitosi a Torino da Francavilla Bisio (AL) per fare l’operatore fotografico e cinematografico. Fu lui ad iniziare il giovane fotografo “al trattamento della carta al carbone Illingworth e di quella alla gomma bicromatata Höccheimer (entrambe introdotte in Italia dalla Bietenholz & Bosio), le quali davano modo di ottenere – soprattutto la seconda – quelle stampe cosiddette ‘interpretative’ allora tanto in favore ed ormai ben a ragione abbandonate.” (Bricarelli, 1956b, p.  37) Nacque così un rapporto di amicizia e collaborazione che, dopo la precoce scomparsa di Carlo nel 1935, proseguirà per tutta la vita col figlio Riccardo, a sua volta una delle più importanti figure della fotografia modernista torinese.

[6] Reduce dall’Esposizione di Dresda, Cesare Schiaparelli (1909, p. 46) esortava a ricordare che “nessun processo è migliore dell’altro, perché tanto sono perfette le gomme degli austriaci quanto i carboni degli inglesi, i platini di certi americani od i bromuri e gli höcheimer dei tedeschi, secondo i soggetti per i quali ogni sistema di stampa è specialmente indicato.”

[7] Luglio a Sauze d’Oulx, pubblicato ne “La Fotografia Artistica”, 8 (1911), n. 8-9, agosto – settembre, col titolo Julliet à Lanze d’Osilia (sic).

[8] Alla porta di casa (Costume di Val di Susa),  “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 4 aprile, p. 1585.

Sul Monginevro e Cappella Alpina, “Il Corriere Fotografico”, 8 (1911), n. 12 dicembre, pp. 1767, 1776.

Due Studi di paese, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 3 marzo, pp.  1857-1858.

Studio alpino,  “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 5 maggio, p. 1914.

Due paesaggi a corredo dell’articolo anonimo La Fotografia degli Alberi,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 1 gennaio, pp. 2086-2088.

Tre paesaggi, tra cui Giorno di febbraio sulle Alpi, a corredo dell’articolo anonimo Fotografie invernali,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 3 marzo, pp. 2134-2138.

Particolare della facciata di una chiesa in Val di Susa a corredo dell’articolo anonimo Fotografie d’Architettura,  “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 7 luglio, pp. 2230-2236.

Nella via maestra, Processione in montagna e Scene d’accampamento a corredo dell’articolo Istantanee artistiche, “Il Corriere Fotografico”, 10 (1913), n. 8 agosto, pp. 2255 – 2260.

Il Gran Paradiso da ovest nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie Alpine,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 1 gennaio, p.  2382.

Il ritratto della Signorina M.M.C.B. nelle pagine dedicate al concorso per Ritratti femminili,  “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 3 marzo, p. 2439.

Cavalli al fiume. nelle pagine dedicate al concorso per Fotografie di animali, “Il Corriere Fotografico”, 11 (1914), n. 7 luglio, p. 2570.

[9] Chevaux à l’aubrevage (1911), The House in the Snow (1911), Encampment Life (1912), Procession au village (1912), A Summer Impression (1912), Pour nos soldats (1914), The Far-off Village (1916), A l’ombre de l’église, s.d.,  The Harvester, s.d.  La consultazione in estratto delle sole tavole, con indicazioni cronologiche autografe, non ha consentito una più puntuale individuazione dei fascicoli.

Per un eventuale ulteriore approfondimento potrà essere utile il regesto delle opere presentate alle edizioni annuali del London Salon of Photography: 1915: Pour nos soldats, Church by Moonlight; 1916: Procession au Village; 1917: The Scout (A View of the War in the Alps); 1919: The far-off Village; 1925: Two Ages, Bard Vallée d’Aoste; 1926: The Edge of the Cliff, Ripples, The Abyss , The Mountain Past ; 1931: Sails Drying, Lumber; 1932: Domatori, Tracce.

[10] Sulla figura di Schiaparelli oltre agli studi generali dedicati alla cultura fotografica torinese di inizio Novecento (Costantini, 1990 e 1994; Miraglia, 1990) si vedano Sentieri di luce, 2002;  Schiaparelli, 2003.

[11] Bricarelli, 1913.  Il suo intervento e alcune sue immagini di quegli anni come Processione a Oulx, possono essere utilmente confrontati con quanto scrisse anni dopo lo zio Carlo (Bricarelli, 1924, pp.  6-7), gesuita con studi in architettura e poi in matematica, sulle pagine di “Luci e Ombre”: “Bisogna imparare a vedere: a vedere i crocchi de’ contadini sulla fiera, e ne’ profili, negli scorci, nelle stature, nelle complessioni, ne’ gesti, scorgere linee, intrecci, elementi di composizioni pittoriche: vedere nello sfilare d’una processione la varietà e l’armonia insieme di cappe, di cotte, di gonfaloni e di croci, linee frastagliate e gruppi e bozzetti, e atteggiamenti, e colori. Molto di nuovo e di bello si scoprirà scegliendo bene il punto di vista, e l’angolo giusto da rinchiudere in un quadro o una prospettiva.”

[12] Quest’immagine – forse la più nota del periodo pittorialista di Bricarelli venne ripubblicata in antiporta della terza  edizione del volume di Castruccio, Come riuscire in fotografia (1922) quindi ancora nel 1930, col titolo Light from Heaven, dallo stesso Tilney nel suo manuale The Principles of Photographic Pictorialism, testo ormai fuori tempo massimo in quell’anno, che si apriva con la solenne dichiarazione  “This book is not for the beginner in photography but for the beginner in art.” (p. I)

La tesi principale dell’autore che “The beginning of photography were pictorial” (5) corrispondeva alla prospettiva con cui Heinrich Schwarz leggeva negli stessi anni l’opera di Hill e Adamson (Costantini, 1992) e riconfermava i riferimenti fatti propri da una parte degli autori presenti alla grande esposizione di Stoccarda del 1929 Film und Foto, mentre l’affermazione contenuta poco oltre  “There is olny one « Art »: it is «universal»; it was, and still is and must always be” (p. 22) è quasi una traduzione letterale della già citata frase di Léon Vidal pubblicata nel 1904 nel primo numero de “La Fotografia Artistica”.

Va segnalato in ultimo che la foto di Bricarelli, conosciuta forse proprio per il tramite del volume di Tilney, ha costituito un riferimento preciso per un’immagine del ciclo The Church, 1991, di Andres Serrano (New York, 1950).

[13] Un’immagine di quest’ultimo, cui lo legavano stretti legami di parentela, pubblicata in “Luci ed Ombre” del 1924 (tav. XXIII) col titolo Botta e risposta, venne utilizzata da Bricarelli nel 1976, p. 67 senza segnalarne la diversa paternità, quindi esposta a suo nome nella bella mostra antologica al salone torinese de “la Stampa” del 1983, ristampata da Riccardo Moncalvo.

[14] Già nel 1915 Bricarelli aveva pubblicato Artiglieria da montagna  e Riposo  nelle pagine de “Il Corriere Fotografico” dedicate al concorso per Fotografie militari,  12 (1915), n. 1 gennaio, pp.  2683-2684, bandito prima dello scoppio della guerra “quando in Europa gli eserciti servivano a pacifiche parate, ed a far  schioppettare delle cartucce a salve”, mentre nel 1917 era stata esposta con il n. 327 al London Salon of Photography The Scout (A View of the War in the Alps), un’immagine molto efficace e forte poi pubblicata in Photograms of the Year, 1917-1918, p.  XLIII accompagnata da questo commento di W.R. Bland: “The paramount call of duty is poignantly sounded in The Scout, in which decoration is called in as if to alleviate, if only by a hair, this everyday aspect of the hardships of a soldier’s lot. The picture has a remarkable dramatic force and truth.” (Bland, 1918, p. 17)

[15] Avevo vent’anni quando sono andato al fronte – dirà André Kertész a proposito della sua esperienza durante il primo conflitto mondiale – Credo che la mia macchina fotografica mi abbia aiutato a sopravvivere.” (Citato in Borhan, 1998, p. 8).

[16] Poi ripubblicato come Proust 1925  in Giacomo Debenedetti, Rileggere Proust, Milano, Mondadori, 1982, pp. 90-91.

[17] L’esposizione si tenne dal 19 dicembre 1925 al  10 gennaio 1926 presso la Galleria centrale d’Arte, via Po 4 Torino, sotto gli auspici del Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica e della Società Fotografica Subalpina, gestita da un Comitato permanente presieduto da Teofilo Rossi di Montelera con Giuseppe Ratti vicepresidente, di cui  facevano parte anche Italo M. Angeloni, Alfredo Laezza, Guido  Rey e Cesare Schiaparelli, con Sem Benelli, Gino Pestelli, Edoardo Rubino ed Emilio Zanzi,.

Parteciparono 227 espositori di 22 nazioni diverse; tra gli italiani, oltre al gruppo compatto dei torinesi, si segnalarono Bragaglia, Sella e Wulz, mentre il panorama straniero spaziava da Drtikol a Mortensen, da Dubreuil, a Sudek, da Funke a Ortiz-Echagüe e Polak in un mescolarsi di tradizionalismo pittorialista e influenze del nuovo.  Risultava assente Guido Rey, che aveva scritto a Bricarelli per declinare l’invito ad esporre non avendo lavori nuovi da inviare e un poco intristito dalla giornata e dalla vecchiaia che avanza: “il fotografo pur sente più del consueto la neve che gli è caduta sul capo negli anni.”, lettera del 3 luglio 1925, in Archivio Bricarelli, Torino.

[18] A questa immagine, tra le più note realizzate da Bricarelli in quegli anni e immediatamente pubblicata anche in “Photograms of the Year”, 1926, tav. XLIV e “Luci ed Ombre”, 1926, tav. VIII, si richiamerà esplicitamente Carlo Matis con Mistica, presentata al V Salone del 1937 (377).

[19] Dal 15 gennaio 1924 il Gruppo ebbe la propria sede presso gli uffici torinesi del “Corriere Fotografico”, in via Stampatori 6, dove  erano “a disposizione dei Membri residenti in Torino e di quelli di passaggio una estesa biblioteca artistico-fotografica e tutte le Riviste di fotografia che si pubblicano nel mondo.”

[20] “Luci ed Ombre” 1926, pp. 7-9  in cui l’annosa disputa sul carattere stilistico della fotografia veniva “risolta in una nuova riflessione circa la sua presunta verità” (Costantini, 1990, p. 11).  Anche Rey era stato chiamato a far parte del Comitato promotore della rivista (“Caro Bricarelli, il compito che la sua amicizia m’impone non è facile, ma, se Ella mi aiuta, cercherò di adempiervi come meglio io sappia. (…) Sono lieto che la sua iniziativa sia per avere buon esito e Le do tutta la mia simpatia. Dev. Guido Rey”, lettera del 15 luglio 1922, Archivio Bricarelli, Torino) e la prima tavola del primo numero (1923) sarà proprio la sua L’attesa, mentre nel volume del 1925 venne riproposto il suo scritto Fotografia inutile? del 1908.  Se consideriamo ancora la parziale riedizione nel 1926 di un testo di Thovez del 1898 si può credere che il Gruppo volesse ancora poggiarsi all’autorevolezza dei maestri della generazione precedente, o – come sosteneva Costantini, 1987, p. 29 – che intendesse “ribadire la continuità della tradizione” torinese.

[21] Si vedano a questo proposito le immagini pubblicate in Bianco su bianco, 2005.

[22] “l’astrattismo di Bricarelli, alla tav. 17 [Tracce], è documentario pur non parendo. Era tuttavia meglio che paresse…Qui se il pericolo [dell’astrattismo] non c’è, lo rasentiamo.” (Pellice, 1932, p. XVI).

[23] “Umile soggetto, concepito ed eseguito in quella forma e tecnica singolarissima, che fa d’ogni bromuro dell’Artista torinese un’opera densa di pensiero e suggestiva all’anima. Altre volte abbiamo detto come il Bricarelli si compiaccia dei forti contrasti di linee e di piani, di ombre e di luci, dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: contrasti che egli sa rendere sulla lastra e far accettare temperati ed addolciti da un’armonica connessione di parti. Minuscoli esseri umani in una vasta solitudine di nevi o di ghiacciai; il formidabile scafo d’una nave in un piccolo specchio d’acqua, l’immensa mole di cataste di legna sovrastante ad un breve primo piano suscitano potentemente nell’animo di chi osserva il senso della realtà.” (De Albroit, 1932)

[24] Angelo d’Orsi (1987) ha ricostruito nel dettaglio le brevi e difficili relazioni tra Bricarelli e Persico, che aveva “trovato un posticino” a “Motor Italia” forse per intercessione “dei pittori di Torino” –  come ricordava Bricarelli – o più verosimilmente di Emilio Zanzi, il critico della “Gazzetta del Popolo” da lunga data collaboratore anche del “Corriere Fotografico”.

“Per me è stato un fallimento completo – ricorderà Bricarelli, intervistato da D’Orsi nel novembre 1985 – Che fosse una persona geniale lo capivo: ma era uno sfaticato di prim’ordine. (…) Io gli davo uno stipendio modesto, ma, per quei tempi, non era disprezzabile: mille lire al mese. (…) Io ero ai primi anni della rivista e avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse [ma] il lavoro redazionale di Persico si è concentrato tutto in un articolo [in realtà furono tre]” (citato in D’Orsi, 1987, pp. 39-40). Tale situazione conflittuale è confermata anche da un’informativa della Prefettura di Torino dell’ottobre 1929: “Persico Edoardo (…) segnalato, in via confidenziale, a codesto on. Ministero, come elemento antinazionale (…) fu pure alle dipendenze della Rivista «Motor Italia» che lo esonerò dall’impiego per scarso rendimento.” (Ivi, p. 43)

[25] D’Orsi, 1987, p. 38. Una rassegna critica delle diverse letture del Lingotto è stata ordinata da Buffa, Ortoleva, 1994.

[26] Brezzo, 1929, pp.  778-779. Il senso dispregiativo assegnato all’aggettivo “futurista”, già utilizzato per denigrare la sala casoratiana “degli analfabeti” alla Quadriennale torinese del 1919, corrispondeva a quella “radicata avversione con cui (…) i più vasti strati del pubblico continuarono a guardare a tutto ciò che si fosse discostato dalla più tradizionale visualizzazione dell’oggetto” di cui ha parlato a suo tempo Angelo Dragone (1978, p. 192), ricordando il retroterra di “disinformazione e pregiudizio” di un ambiente artistico e culturale che aveva tra i propri punti di riferimento Enrico Thovez  (direttore della Galleria civica d’Arte Moderna dal 1913 al 1921), il critico che aveva accusato di “degenerazione artistica” le opere di Degas, Renoir e Manet ed aveva definito “terroristi della pittura” autori come Cézanne, Gauguin e Van Gogh. Lo stesso termine venne utilizzato dal critico de “La Stampa” Ugo Pavia per commentare alcune delle opere presentate nel dicembre 1925 al «Primo Salon italiano d’arte fotografica internazionale»:  rilevando la novità costituita dagli artisti russi e cechi, il “cubista Drtikol”, il suo discepolo Funke ed il polacco Dederko,  parlava infatti di “questi artisti-fotografi futuristi [che] anche se non persuadono, destano però molta curiosità nei visitatori.”  E ancora:  “Si rallegrino i futuristi: la teoria del “volume” e quella della “sintesi” è accettata anche dagli artefici dell’obiettivo” (Pavia, 1925)

Ancora nel 1931, quando a Torino si aprì la Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista l’uso del termine avrebbe presentato, su entrambi i fronti, alcune indecisioni: “Ecco oggi la “Fotografia Futurista”! – scriveva in catalogo Giuseppe Enrie (1931, p. 3) – Ultima, in ordine di tempo, essa non si accoda ma si lancia nel movimento totalitario che ha ormai investito tutta l’Arte e decisamente tenta le vie di una espressione nuova e generosa. (…) Ma non occorre diventare eccessivamente spregiudicati ed aconvenzionali, basterà rimanere liberi e sinceri per subire la suggestione di opere come quelle che figurano in questa prima Esposizione Sperimentale”.

Contro la Mostra si scagliò Guido Lorenzo Brezzo (1931, pp. 10-11) nel testo di apertura di “Luci ed Ombre” del 1931, facendosi evidentemente portavoce delle opinioni del gruppo redazionale. Il testo si basava sull’assunto che “l’artista vero è sempre naturalmente moderno (…) il pseudo-artista vuole essere moderno, vuole essere futurista, perché non può essere artista. (…) E d’altra parte che cos’è cotesta novissima modernità che si decanta come la sola, la definitiva perfezione dell’arte in genere e della fotografia in ispecie? [Essa ha] per soggetto fondamentale la macchina, realtà monofronte a solo aspetto pratico, essenzialmente limitato e temporaneo, sterile perciò di trascendenza e incapace, salvo rari casi e speciali, di servire d’oggetto all’atto d’intuizione estetica. Inoltre la frequenza del soggetto macchina ingenera negli operatori un’abitudine di visione meccanica, che viene trasferita a qualsivoglia soggetto sia di tipo naturale (figura o paesaggio) che artificiale (architettura).”

[27] Angeloni, 1926, p. 242. Anche un altro critico torinese parlerà di lì a poco di immagini  “che ci fanno pensare a Maggi, a Chiariva, a Pollonera ad Avondo e Calderini”, (Bernardi, 1927, p. 10).

[28] Nella sala del Gruppo Piemontese erano esposte opere di Francesco Agosti, Carlo Baravalle, Achille Bologna, Stefano Bricarelli, Placido Eydallin, Cesare Giulio, Piero Oneglio, Ugo Pasteris e Sergio Perdomi, mentre le altre ospitavano, tra gli altri,  i lavori di Adolfo Hess e Maurizio Reviglio.

[29] Il nuovo statuto fu redatto dal Presidente Baravalle avendo quali membri del Consiglio direttivo Agosti, Bologna, Bricarelli, Giulio, Corinaldi e Vittorio Ambrosio (“Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 3, marzo, p. 49).

[30] Su questi temi si veda Miraglia, 2001, pp. 13, 25 passim.

[31] Recensione al volume di Willy Stiewe, Foto und Volk. Halle-Saale: Wilhelm Knapp, 1933, “Il Corriere Fotografico” , 31 (1934), gennaio, p.  32. L’esaltazione del modello culturale nazista raggiungerà il proprio imbarazzante e inqualificabile apice nel 1938 quando, in un breve ritratto del fotografo personale di Hitler,  Federico Ferrero, che sarà redattore ancora nel dopoguerra, dichiarava che “Heinrich Hoffmann è qualcosa di più di un semplice fotografo o fotogiornalista: egli è l’amico intimo, il confidente di Adolfo Hitler, il quale per mezzo di Hoffmann sa valersi abilmente di quel potentissimo mezzo di propaganda che è l’obiettivo fotografico per diffondere non dico la propria immagine – ché Hitler è timido e rifugge dalla facile popolarità – ma soprattutto le gesta e le opere del regime Nazista, dalle più importanti alle meno salienti.” (Ferrero, 1938).

[32] Di Bricarelli venne pubblicata Aurora Umbrarum Victrix ( Modern Photography, 1931, p. 22), già molto apprezzata in Italia. Nel commento di  Guido Lorenzo Brezzo (1930, pp. 774-777) “Aurora umbrarum victrix di Stefano Bricarelli, fissata a lungo ad occhi semichiusi, porta la fantasia dell’osservatore in mezzo all’oceano dello spazio e lo fa assistere da un punto fuori del tempo all’erompere del primo giorno in mezzo alle tenebre del caos”, mentre per Cesare Meano (1930, p. 14) si trattava di “una composizione piena di audace ingegnosità e di strani effetti”. Le sole altre immagini di autori italiani pubblicate in questo annuario furono La scia di Cesare Giulio (81) e La spiaggia di Achille Bologna (876).

[33] Nel novembre del 1931 realizzò per la Cines-Pittaluga Bacini di carenaggio a Genova, un documentario di 9’ su testi di Emilio Cecchi, di cui fu regista e direttore della fotografia, mentre al 1936 risale la sua sola altra prova nota: Sulle orme di Dante esule per la regia di Teonesto Deabate e con la collaborazione di Onorato Castellino, già fondatore e direttore, con la moglie Francesca, di “Cuor d’oro” un periodico per ragazzi (1922-1927) con belle copertine disegnate dallo stesso Deabate, ma anche da Massimo Quaglino, Giulio Da Milano e da un giovanissimo Giulio Carlo Argan “ancora incerto sul proprio avvenire”, D’Orsi, 2000, p. 93.

Troppo scarse sono ancora le nostre conoscenze su Bricarelli regista e cineoperatore, ma non possiamo escludere che questo ampliamento di mezzi espressivi fosse in relazione con quella politica di  “lotta, di difesa e diffusione delle nuove idee” che – come abbiamo visto – “Il Corriere Fotografico” condivideva.

[34] La “Revue Leica”, 3 (1936), n. 15, mai, nel comunicare l’esito del concorso pubblicava l’intero rullo di immagini realizzate da Bricarelli (che per ragioni di opportunità era indicato come residente a Nizza) per adempiere alle condizioni del concorso, considerate dalla giuria “d’une qualité tout à fait exceptionelle. M. Bricarelli peut être fier, puisque sa bobine est assurément une des meilleures bobines Leica, que nous ayons vues jusqu’à ce jour.” Altre sue fotografie del sacrario dedicato a Cesare Battisti a Trento furono pubblicate in copertina e all’interno del n. 26, mars – avril 1938, della medesima rivista.

[35] In quell’occasione nacque – su proposta di Garretto accolta da Mussolini – l’idea di realizzare un servizio propagandistico sui confinati a Ponza, da proporre a “Life” per “sfatare il confronto del confino con la deportazione in Siberia” (Bricarelli, 1979, p. 34), ma la testata non pubblicò mai le immagini. In una lettera a Garretto del 7 settembre 1938 Wilson Hicks, il primo editor fotografico di “Life”, proveniente dall’Associated Press, accennava ad una plausibile spiegazione, forse diplomatica, delle ragioni per cui il giornale non avesse usato “the fine pictures you sold to it last winter. The editors saw and were greatly impressed with Mr. Bricarelli’s and yours sets of fine photographs showing Mussolini, various ministers and their ministries, the documentation of a labor appeal case, Il Confino (sic) and other valuable pictures which now are in our files. LIFE’s ways sometimes are hard for persons who are not familiar with our peculiar handling of pictures to understand.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[36] Si veda “La Rivista illustrata”, 16 (1938), n.4, con altre fotografie dell’Istituto LUCE, della Regia Aeronautica, del tedesco F.F. Bauer (che aveva fotografato il Congresso nazista di Norimberga dello stesso anno), di Giulio Parisio, di B. Morgagni (forse in relazione col Direttore Manlio Morgagni), di Raimondo Niccolini e di Bruno Stefani. Il servizio sul salone di Berlino comparve invece in “La Rivista illustrata”, 1939, n.4, pp. 70-71. Alcune di queste fotografie vennero poi riedite in Italia Imperiale, edizione speciale della “Rivista Illustrata del Popolo d’Italia” pubblicata nel  1937 per la cura del suo condirettore Manlio Morgagni.

[37] Si vedano rispettivamente “La Rivista Illustrata”, 16 (1938), n. 11, pp. 97-104 e “La Rivista Illustrata”, 17 (1939), n.1, p. 90 passim.

Nella mostra fotografica Il volto e l’anima di Torino fascista che si era tenuta a Palazzo Lascaris nel febbraio del 1937 con un centinaio di fotografie di Bertoglio, Bellavista, Schiaparelli, Andreis, Zumaglino, Moncalvo, Fecia di Cossato e altri, Bricarelli non risultava presente, cfr. “Il Corriere Fotografico”, 34 (1937), n.3, marzo, p. 77.

[38] Andreis 1937, p. 10. Nella stessa occasione Angeloni aveva sottolineato che “il numero maggiore delle fotografie italiane qui esposte fu operato negli anni più tragici ed eroici del nostro dopoguerra; l’assedio economico, le barriere, le jugulazioni dirette dal capitalismo straniero contro il giovane Fascismo avrebbero dovuto deprimere ogni azione specialmente in campo artistico. Il V Salone dimostra invece il contrario. (…) gli Italiani hanno ben imparato il mussoliniano «saper fare da sè»” (Angeloni, 1937, p. 134).  Procedendo nella  rassegna delle più significative presenze straniere segnalava (ivi p. 161) “l’amore della cosa nuova, del taglio originale [che] occupa in tutte le sue espressioni l’arte di Renger Patzsch”: una presenza sorprendente e quasi inosservata.

[39] Copia dell’atto in Archivio Bricarelli, Torino. Carafòli, fotoamatore e redattore de “La Stampa”, sarà tra i collaboratori del “Corriere” ancora negli anni ’50, con articoli di forte opposizione ideologica alla fotografia neorealista:  “Ma ascolti solo sé stesso – scriverà rivolgendosi a Luciano Ferri – e diffidi della rivista e delle biblioteche comunali che – con i fondi della borghesia e le tasse di tutti i contribuenti – fanno della propaganda marxista.” (Carafòli, 1957).

[40] Si vedano Alberti, 1959; Bricarelli, 1979, pp. 68-69, 87. Dell’incontro non rimane purtroppo traccia nei diari pubblicati di Berenson, 1966.

[41] Nel 1951 questa collaborazione gli aveva fruttato “un segno di distinzione” al “Premio Torino di Giornalismo”, anche in riconoscimento “della sua nota attività di fotografo.” (Archivio Bricarelli, Torino).

[42] Nell’aprile del 1954 aveva rilevato per 500.000 lire la quota proprietaria di Carafòli, divenendo unico proprietario della testata. (Archivio Bricarelli, Torino).

[43] Scopinich, 1943. Anche Alberto Lattuada, aveva vivacemente polemizzato con gli epigoni torinesi del pittorialismo: “Credo inutile fare osservazioni sulla tecnica fotografica. Mi pare giusto dire soltanto questo: recentemente ho visto pubblicato su un quotidiano di Torino una fotografia dalla quale, con l’aiuto di filtri, velature, bagni chimici e altri accorgimenti, l’autore era riuscito a ricavare un quadro; si trattava di una scena fluviale in controluce, sfumatissima e la dicitura diceva che tale opera aveva vinto il concorso della più grande esposizione internazionale di fotografia.”,  citato in Berengo Gardin, 1982, p. 15.

[44] Scalpo d’oro, per il numero del settembre 1941.

[45] Già nel 1923 era stato pubblicato un articolo di Enrico Unterveger dedicato a L’opera di Niceforo Niepce, ed ancora nel 1938 si era celebrato il primo centenario dell’invenzione, mentre Lamberto Vitali su “Emporium” si occupava di Ritorno all’antica fotografia (1936), ma fu a partire dal 1954 che gli articoli si fecero più assidui e poi sistematici, con la rubrica dedicata Alle sorgenti della fotografia  affiancata da importanti recensioni, come quella dedicata nel numero 49  del 1957 all’Album romano pubblicato da Silvio Negro, corredata di numerose illustrazioni: ben nove pagine che citano ampiamente il testo di presentazione pubblicato su “La Stampa” da Paolo Monelli, nello stesso anno in cui si apriva alla  Triennale di Milano la fondamentale mostra sulla storia della fotografia realizzata da Lamberto Vitali, affiancando alle opere della collezione Gernsheim le prime eccezionali testimonianze raccolte nella sezione italiana, esposte tutte nella  speranza di poter creare a Milano un Museo di fotografia.

[46] Alcune fonti per la ricostruzione del vivace dibattito di quegli anni sono ora disponibili in Colombo, 2003.

[47] Tale caparbia definizione era continuamente ribadita anche dalla partecipazione a concorsi esplicitamente banditi per i dilettanti, come quello del periodico “Le Vie d’Italia”, da lui vinto nel dicembre del 1955. (Lettera di Cesare Chiodi, presidente TCI del 26-10-1955, Archivio Bricarelli, Torino).

[48] Bricarelli, 1955. Questo saggio, pubblicato nello stesso anno in cui furono edite da Viglongo le sue Opere complete, non è noto alla scarsa letteratura dedicata all’autore, ma costituisce di fatto il primo tentativo di comprensione critica dell’insieme dell’opera di Rey, in cui si pone come primo problema quello della discrepanza tra i due diversi e lontanissimi mondi fotografici da lui praticati della fotografia artistica e di quella alpinistica, analizzata questa chiarendo precisamente le differenze con Vittorio Sella. Per quanto riguarda la sua più nota produzione pittorialista, Bricarelli ne ricordava le doti di disegnatore e “intenditore di pittura antica e contemporanea” da cui derivavano le sue composizioni, eclettiche quanto ad ispirazione ma “tutte legate da uno stile comune, fatto di sobrio equilibrio, di sottile armonia, di antiretorica spontaneità [sic], che era quello innato dell’autore”, segnalandone infine il singolare carattere di “ricca e molto pittoresca iconografia familiare.”

[49] Già i numeri di dicembre delle due annate 1940 e 1941 presentavano fotografie a colori di Bricarelli, ma allora da Agfacolor.

[50] Il Fondo Bricarelli, donato dalla figlia Carla nel 1997, ha una consistenza di circa 40.000 fototipi, 35.000 dei quali negativi.

[51] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp. 55-78 (77), citato in Bricarelli, 1979, p.  18.

 

 

 

Bibliografia di riferimento

 

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Annuario della fotografia artistica 1921: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1920

 

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Annuario della fotografia artistica 1922 – 23: Rivista annuale d’arte fotografica. Milano: Il Corriere Fotografico, 1921

 

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Anonimo, Un precursore italiano della stereoscopia,  “Il Corriere Fotografico”, 19 (1923), n. 12, dicembre

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L’Arte della fotografia alla terza Mostra internazionale delle arti decorative, catalogo della mostra (Monza,  Villa Reale), maggio – ottobre 1927. Milano: A. Rizzoli & C., 1927

 

Arte nella fotografia 1923

L’arte nella fotografia : prima Esposizione internazionale di fotografia ottica e cinematografia, catalogo della mostra (Torino, Palazzo del Giornale al Valentino, primavera 1923). Milano – Roma : Bestetti & Tumminelli, 1923

 

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Berengo Gardin 1982

Piero Berengo Gardin, a cura di, Alberto Lattuada fotografo. Dieci anni di “Occhio quadrato” 1938/1948. Firenze: Alinari, 1982

 

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Marziano Bernardi, L’arte della fotografia al “Salon”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 10, ottobre, pp. 641 – 643

Bernardi 1928b

Marziano Bernardi, Commento, in Luci ed Ombre: Annuario della fotografia artistica italiana, 1928-VII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1928, pp. XI-XVI

 

Bernardi 1954

Marziano Bernardi, Un po’ di Piemonte, Torino, S.E.I., 1954

Boggeri 1929a

Antonio Boggeri, Fotografia moderna, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.8, agosto, pp.557- 564

Boggeri 1929b

Antonio Boggeri, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1929-VIII annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1929, pp. XIV-XVI

Bologna 1935

Achille Bologna, Come si fotografa oggi.  Milano: Hoepli, 1935

 

Borhan 1998

Pierre Borhan, André Kertész. Lo specchio di una vita. Milano: Federico Motta, 1998 (ed originale, André Kertész. La biographie d’une œuvre. Paris: Editions du Seuil, 1994)

 

Brezzo 1924

Guido Lorenzo Brezzo, Sfogliando “Luci ed Ombre” 1924. Impressioni di un profano, “Il Corriere Fotografico”, a21 (1924), n. 10, ottobre, p. 151

 

Brezzo 1926

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1926-V annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico, 1926, pp. XI-IXX

 

Brezzo 1927

Guido Lorenzo Brezzo, “Luci ed Ombre” 1927, “Il Corriere Fotografico”, 24 (1927), n. 11, novembre, pp. 201-204

Brezzo 1929

Guido Lorenzo Brezzo, Luci ed Ombre 1929, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n.11, novembre, pp. 777- 780

 

Brezzo 1930

Guido Lorenzo Brezzo,, Luci ed Ombre 1930, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n.11, novembre, pp.774- 778

 

Brezzo 1931

Guido Lorenzo Brezzo, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1931-X annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1931, pp. IX-XV

 

Brezzo 1934

Guido Lorenzo Brezzo, La Messe del 1934, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1934-XIII  annuale. Torino:Edizioni del Corriere Fotografico, 1934, pp. IX-XVI

 

Bricarelli 1988

Carla Bricarelli, Stefano Bricarelli, un’intervista, “Fotologia”, 5 (1988), vol.9, maggio, pp. 29-35

 

Bricarelli 1914

Carlo Bricarelli S.J., Ottica fisica e ottica artistica. Roma: Civiltà Cattolica, 1914

 

Bricarelli 1924

Carlo Bricarelli S.J., La fotografia è capace di estetica?, “Luci ed Ombre”, 1924, pp. 5-8

 

Bricarelli 1912

Stefano Bricarelli, La fotografia artistica all’Esposizione di Torino 1911, “Il Corriere Fotografico”, 9 (1912), n. 1 gennaio, pp. 1791-1797

 

Bricarelli 1913

Stefano Bricarelli, Istantanee artistiche di scene animate, “Il Corriere Fotografico”, a. X, n. 8 agosto 1913, pp. 172255 – 2260

 

Bricarelli 1920

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1920, pp. 26-27

 

Bricarelli 1921

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1921, pp. 30-31

 

Bricarelli 1922

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1922, pp. 31-32

 

Bricarelli 1923

Stefano Bricarelli, Pictorial Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1923, pp. 22-23

 

Bricarelli 1924

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1924, pp. 19-20

 

Bricarelli 1925

Stefano Bricarelli, Photography in Italy, “Photograms of the Year”, 1925, pp. 20

 

Bricarelli 1954

Stefano Bricarelli, Foto Annuario Italiano 1954, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954). n. 18, marzo, pp. 25-28

 

Bricarelli 1955

Stefano Bricarelli, Guido Rey, “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 29, aprile, pp. 22-29

 

Bricarelli 1956a

Stefano Bricarelli, Dilettantismo e professionismo fotografico in Italia, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 39, aprile, pp. 21-23

 

Bricarelli 1956b

Stefano Bricarelli, Storia di un Laboratorio, “Il Corriere Fotografico”, 53 (1956), n. 44, ottobre, pp. 37-41

 

Bricarelli 1958

Stefano Bricarelli, Visioni di Torino. Novara: Istituto Geografico De Agostini, 1958

 

Bricarelli 1968

Stefano Bricarelli, L’auto è femmina. Vent’anni di stile carrozziero a Torino nelle fotografie di Stefano Bricarelli. Torino: Motor Italia, 1968

 

Bricarelli 1975a

Stefano Bricarelli, Quando sugli oceani si andava navigando, “Motor Italia”, 75 (1975), n. 100,  pp. 82-90

 

Bricarelli 1975b

Stefano Bricarelli, Ritorno al 1936, qualche flash-back in U.S.A., “Motor Italia”, 75 (1975), n. 101, pp. 56-65

 

 

Bricarelli 1976

Stefano Bricarelli, Piemonte di ieri & Romantica valle d’Aosta. Ivrea: Priuli & Verlucca Editori, 1976

 

Bricarelli 1979

Stefano Bricarelli, Gli occhi della memoria. Milano: Automobilia, 1979

 

Bricarelli, Brezzo 1923

Stefano Bricarelli, Guido Lorenzo Brezzo, La nostra parte, in  Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1923- II annuale. Torino:  Edizioni del Corriere Fotografico 1923, pp. V-VII

 

Buffa, Ortoleva 1994

Cristiano Buffa, Peppino Ortoleva, Lingotto. Luogo. Simbolo, in Olmo 1994, pp. 151-192

 

Callari Nestri 1955

Febo Callari Nestri, La nuova fotografia industriale; fotografie di Stefano Bricarelli,  “Il Corriere Fotografico”, 52 (1955), n. 30, maggio, pp. 20-28

 

Campari 1976

Roberto Campari, a cura di, Bruno Stefani. Parma: Università di Parma, 1976

 

Caorsi 1982

Gigi Caorsi, Stefano Bricarelli fotografo e giornalista [intervista], “Piemonte vivo”, 16 (1982), n. 2, aprile, pp. 44-49

Carafòli 1957

Mario Carafòli, «Ciociaria 1956», Lettera aperta a un giovane, “Il Corriere Fotografico”,  54 (1957), n. 52, luglio, pp. 19 -21

 

Cartier-Bresson 1952

Henri Cartier-Bresson, Images à la Sauvette. Paris: Éditions Verve, 1952

 

Cartier-Bresson 1955

Henri Cartier-Bresson, Les Européens. Paris: Éditions Verve, 1955

 

Castruccio 1922

Giuseppe Castruccio, Come riuscire in fotografia. Milano: Il Corriere Fotografico, 1922

 

Cavanna 2003a

Pierangelo Cavanna, “La Fotografia Artistica”, in Piergiorgio Dragone, a cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1895 – 1920.  Milano: Unicredit, 2003, pp. 166-167

Cavanna 2003b

Pierangelo Cavanna, Mostrare paesaggi, in Modena per la fotografia. L’idea di paesaggio nella fotografia italiana dal 1850 ad oggi, catalogo della mostra (Modena, 2003-2004), a cura di Filippo Maggia, Gabriella Roganti. Milano: Silvana Editoriale, 2003, pp.40-116

 

Circolo Sciatori 1941

Circolo Sciatori Torino, Annuario 1941. Torino: Impronta, 1941

Colombo 2003

Cesare Colombo, a cura di, Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Torino: Agorà Editrice, 2003

Colombo 2004

Cesare Colombo, a cura di, Ferrania. Storie e figure di cinema & fotografia.  Novara: De Agostini, 2004

 

Costantini 1987

Paolo Costantini, Una “sana ed eclettica modernità”. L’esperienza di Luci ed Ombre tra conservazione e innovazione, in Luci ed Ombre, 1987, pp. 25-35

 

Costantini 1990

Paolo Costantini, «La Fotografia Artistica» 1904-1917. Torino: Bollati Boringhieri, 1990

 

Costantini 1992

Paolo Costantini, Introduzione, in Heirich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Costantini 1994

Paolo Costantini, L’Esposizione internazionale di fotografia artistica, in Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino  1994), a cura di Rossana Boscaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci, Milano, Fabbri Editori, 1994, pp. 94-179

D’Orsi 1987

Angelo d’Orsi, «Il doloroso inverno»,  l’esperienza torinese, in De Seta 1987, pp. 21-56

 

D’Orsi 2000

Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre. Torino: Einaudi, 2000

 

De Albroit 1926

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 23 (1926), n. 3, marzo, p. 60

 

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 1, gennaio, p. 9

De Albroit 1930

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 27 (1930), n. 3, marzo, p.213

 

De Albroit 1932

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 29 (1932), n. 7, luglio, pp. 369

 

De Albroit 1931

Comirias de Albroit, Le nostre illustrazioni, “Il Corriere Fotografico”, 28 (1931), n. 11, novembre, pp. 812

 

De La Sizeranne 1899

Robert De La Sizeranne, La Photographie est-elle un art?.  Paris: Hachette & C.ie, 1899

De Seta 1979

Cesare De Seta, a cura di, Giuseppe Pagano fotografo.  Milano: Electa, 1979

De Seta 1987

Cesare De Seta, a cura di, Edoardo Persico. Napoli: Electa Napoli, 1987

 

Deabate 1984

Teonesto Deabate tra pittura e architettura, catalogo della mostra (Torino, Promotrice delle Belle Arti, 3-29 aprile 1984). Torino:  Provincia di Torino, 1984

 

Della Volpe 1980

Nicola della Volpe, Fotografie militari. Roma: Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, 1980

 

Dragone 1978

Angelo Dragone, Le arti figurative, in Torino tra le due guerre, catalogo della mostra (Torino, marzo – giugno 1978). Torino, Musei Civici, 1979, pp. 188- 227

 

Enrie 1931

Giuseppe Enrie, La Fotografia contro il suo assoluto, in Mostra Sperimentale di Fotografia Futurista, catalogo della mostra (Torino, 15 marzo – 6 aprile 1931).  Torino: Tip. Fedetto, 1931, pp. 3-6

Ferrero 1938

Federico Ferrero, Heinrich Hoffmahn, fotografo ufficiale del Reich, “Il Corriere Fotografico”, 35 (1938), n. 5, maggio, p. 110

 

Fotografia luce della modernità 1991

Michele Falzone del Barbarò, Italo Zannier, a cura di, Fotografia luce della modernità. Torino 1920/1950,

dal pittorialismo al modernismo. Firenze: Alinari, 1991

 

Gabinio 1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

Inaugurazione 1931

Anonimo, Inaugurazione della Mostra di fotografia futurista, “La Stampa”, 16 marzo 1931

 

Lamberti 2000

Maria Mimita Lamberti, a cura di, Lionello Venturi e la pittura a Torino 1919 – 1931. Torino: Fondazione CRT, 2000

 

Lista 2001

Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista. Milano: Skira, 2001

 

London salon 1915- 1932

Catalogue of the London Salon of Photography.  London: Women’s Printig Society Ltd., 1915-1918; 1919; 1925-1926; 1931- 1932

Luci ed Ombre 1987

Luci ed Ombre. Gli annuari della fotografia artistica italiana 1923 – 1934, catalogo della mostra (Firenze, 1987-1988), a cura di Paolo Costantini, Italo Zannier. Firenze: Alinari, 1987

 

Marescalchi 1936

Arturo Marescalchi, Il volto agricolo dell’Italia. Milano: TCI, 1936

 

Meano 1930

Cesare Meano, Commento, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, IX annuale 1930. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1930, pp. XIII-XV

 

Miraglia 1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia 2001

Marina Miraglia, Il ‘900 in fotografia e il caso torinese. Torino: Fondazione De Fornaris – Hopefulmonster, 2001

Modern Photography 1931

Modern Photography. London: The Studio, 1931

Mollino 1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo 2001

Riccardo Moncalvo. Figure senza volto, catalogo della mostra (Torino, Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea,  2001), a cura di Italo Zannier. Torino: Edizioni GAM, 2001

 

Morgagni 1937

Manlio Morgagni, a cura di, Italia Imperiale. Milano: Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 1937

Morgan 1939

Claude Morgan, Neiges, “L’Illustration”, 4 fevrier 1939, n. 5005, pp. 133-143

 

Morselli 1883

Enrico  Morselli, Programma speciale della sezione di Antropologia. Torino: Stamperia Reale – Paravia, 1883

Mostra di fotografia futurista

Anonimo, La Mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “Gazzetta del Popolo”, 16 marzo 1931

Nèvola 1953

Maurizio Nèvola, Mostra della fotografia italiana 1953. La montagna e il topolino, “Il Corriere Fotografico”, 50 (1953), n. 12, settembre, pp. 27 -30

 

Olmo 1994

Carlo Olmo, a cura di, Il Lingotto 1915 – 1939, l’architettura, l’immagine, il lavoro. Torino: Umberto Allemandi & C., 1994

 

Orengo 1979

Nico Orengo, Come il cavalluccio di legno…, in Bricarelli 1979, pp. 5-7

Paoli 1998

Silvia Paoli, L’Annuario di Domus del 1943, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp. 99-128

Pellegrini 1954

Guido Pellegrini, L’astrattismo cos’è – Ritorna primavera, “Il Corriere Fotografico”, 51 (1954), n. 19, aprile, pp. 36-37

Pellice 1932

Donato Pellice, La fotografia artistica in Italia nel 1932, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana , 1932– XI annuale. Torino: Il Corriere Fotografico, 1932, pp. VII – XVIII

 

Persico 1927

Edoardo Persico, FIAT Automobili – Via Nizza, 250 – Torino, “Motor Italia”, 2 (1927),  dicembre, pp. 27-30; 64

 

Photograms 1915

Photograms of the Year 1915, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1915

Photograms  1928

Photograms of the Year 1929, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1928

Photograms  1939

Photograms of the Year 1940, Francis James Mortimer editor. London: Hazell, Watson & Viney, 1939

Ponti 1932

Gio Ponti, Discorso sull’arte fotografica, “Domus”, 5 (1932), n.53, maggio, pp.285-288

Primo Salon 1925

Primo «Salon» Italiano d’Arte fotografica Internazionale – Catalogo. Torino: Tipografia P. Celanza & C., 1925

 

V Esposizione 1932

V Esposizione Fotografica di Montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1932

V Salone 1937

V Salone internazionale di fotografia artistica fra dilettanti, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 29 maggio – 20 giugno). Torino: Stabilimento Tipografico Ajani & Canale, 1937

 

Racanicchi 1994

Piero Racanicchi, Cultura fotografica in Piemonte tra Ottocento e Novecento, in Accademie, salotti, Circoli nell’Arco Alpino Occidentale, atti del XVIII Colloqui franco-italien (Torre Pellice, 6-8 ottobre 1994). Torino: Centro Studi Piemontesi, 1994, estratto

 

Ratti 1961

Giuseppe Ratti, a cura di, Flor ’61. Esposizione internazionale Fiori del Mondo a Torino.Torino: Tipografia Editrice Torinese, 1961

 

Rebaudengo 1971

Dina Rebaudengo, Un uomo una città. Torino: Toso, 1971

 

Redazionale 1927

Red., Montagne: La II mostra del Fotogruppo Alpino della sezione di Torino del C.A.I., “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 5, maggio, pp. 87

 

Redazionale 1928

Red, Il trionfale successo della “Prima Mostra d’arte fotografica” organizzata dal “Gruppo Piemontese per la fotografia artistica”, “Il Corriere Fotografico”, 25 (1928), n. 1, gennaio, pp. 1-3

Redazionale 1929

Red., Il contributo della microfotografia alle arti decorative, “Il Corriere Fotografico”, 26 (1929), n. 3, marzo, pp. 177 – 178

 

Redazionale 1931a

Red. Inaugurazione della mostra di fotografia futurista, “La Stampa”,  65 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Redazionale 1931b

Redazionale, La mostra di fotografia futurista inaugurata dall’on. Buronzo, “La Gazzetta del Popolo”, anno 84 (1931), n. 64, 16 marzo, p. 2

 

Reteuna 2000

Dario Reteuna, Cinema di carta. Storia fotografica del cinema italiano. Alessandria: Edizioni Falsopiano, 2000

Rey 1925

Guido Rey, Fotografia inutile, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana,  1925- IV annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. V-X

 

Rossi 1933

Alberto Rossi, Fotografia come arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1933- XII annuale, Torino, Edizioni del Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII

 

Royal Photographic Society 1919

Royal Photographic Society of Great Britain, Exhibition of Pictorial Photographs which have received awards in the Competition organised by “The Amateur Photographer and Photography”.  London:  Women’s Printig Society Ltd., 1919

Russo 1999

Antonella Russo, Il fascismo in mostra. Roma: Editori Riuniti, 1999

 

Schiaparelli 1909

Cesare Schiaparelli, L’Arte fotografica mondiale all’Esposizione di Dresda. Torino: Stabilimento Tipografico Guido Momo, 1909 [1910]

Scopinich 1943

Ermanno F. Scopinich, a cura di, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia. Milano: Gruppo Editoriale Domus, 1943

Sentieri di luce 2002

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1930 al 1946, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2002), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2002

Sentieri di luce 2004

Sentieri di luce. Artisti fotografi a Torino dal 1946 al 1970, catalogo della mostra (Torino, Circolo degli Artisti, 2004), a cura di Dario Reteuna. Torino – Firenze, Circolo degli Artisti – Alinari, 2004

 

VI Esposizione 1934

VI Esposizione fotografica di montagna – Catalogo. Torino: CAI, 1934

 

VII Esposizione 1940

VII Esposizione fotografica alpina – Catalogo.  Torino: CAI, 1940

 

Tilney  1920

Frederick Colin Tilney, Some Pictures of the Year, “Photograms of the Year 1920”. London: Iliffe & Sons, 1920

 

Tilney 1930

Frederick Colin Tilney, The Principles of Photographic Pictorialism. Boston: American Photographing Publishing Co., 1930

 

TCI 1956

Touring Club Italiano, L’Italia in 300 immagini. Milano: TCI, 1956

 

Weaver 1925

John Reginald Homer Weaver, L’architettura e la fotografia artistica, “Il Corriere Fotografico”, 22 (1925), n.3, marzo, p. 36

 

Wolff 1936a

Paul Wolff, Olimpiadi 1936. Milano: Bompiani, 1936

 

Wolff 1936b

Paul Wolff, Skikamerad Toni. Frankfurt am main: H. Bechhold Verlagsbuchandlung, 1936

Zannier 2004

Italo Zannier, “Ferrania” maestra di fotografia, in Colombo 2004, pp. 112 – 116.

 

Zanzi 1924

Emilio Zanzi, Arte, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1924-III annuale. Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1924, pp. IX-XX

 

Zanzi 1925

Emilio Zanzi, La raccolta del 1925, in Luci ed Ombre. Annuario della fotografia artistica italiana, 1925-IV annuale.  Torino: Edizioni del Corriere Fotografico, 1925, pp. XI-XV

Storia con fotografie  (2005)

in P. Cavanna, a cura di, Dalla pittura al museo.  Vittorio Avondo e la fotografia. Torino : Fondazione Torino Musei-GAM, 2005, pp. 12-55

 

 

“La parola ha qualcosa da dire

a colui che parla.”

Giorgio Manganelli, 1987

 

 

 

 

1 – L’Archivio fotografico della Fondazione Torino Musei

 

Da raccolta ad archivio: piccola storia delle fotografie al Museo Civico

 

L’attenzione italiana per la fotografia storica e contemporanea si consolida negli ultimi decenni del Novecento con la realizzazione di ricerche, progetti editoriali ed espositivi che sempre più sottendono un approccio sistematico e rigoroso, ben evidenziato anche dal ricco dibattito intorno ai temi della catalogazione e conservazione del patrimonio fotografico.[1] Dopo le pionieristiche imprese di Silvio Negro e Lamberto Vitali, ancora negli anni Cinquanta[2], una delle prime iniziative storicamente rilevanti in tal senso fu la mostra dedicata ai Fotografi del Piemonte promossa dai Musei Civici di Torino[3] nel 1977. Fu quella la prima occasione per affrontare in modo innovativo e scientificamente accorto il discorso sulle origini della fotografia in questa regione e, più specificamente, sui destini del  patrimonio fotografico storico anche dei Musei Civici torinesi, in particolare del Fondo D’Andrade, poi proseguito nei decenni successivi con più sporadiche incursioni alternate a importanti indagini, inserite in più ampie e sistematiche ricostruzioni storiografiche, come quella condotta da Marina Miraglia[4] nel 1990, sino alla realizzazione del progetto di catalogazione analitica del fondo di stampe Gabinio[5] e ad una prima ricognizione sistematica[6] dei ricchi ed eterogenei fondi che costituiscono il patrimonio museale attuale, condotta da chi scrive nell’anno 2000,  che ha consentito di delinearne la ricchezza qualitativa e quantitativa in maniera esauriente sebbene non esaustiva, essendo quella ricognizione limitata ai soli esemplari conservati presso l’Archivio fotografico (AFFTM) ed i depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

I primi materiali fotografici entrarono verosimilmente nel Museo torinese già negli anni immediatamente successivi alla sua istituzione (1863), sotto forma di illustrazioni fuori testo di pubblicazioni artistiche, come i preziosissimi fascicoli pubblicati da Benjamin Delessert a Parigi nel 1853-1855 Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi, ma anche di album fotografici dedicati all’illustrazione della città, come Turin ancien et moderne di Henri Le Lieure, 1867 (forse pervenuto per il tramite di Pio Agodino, primo Direttore del Museo e tra i redattori dell’album) così come alla riproduzione di opere d’arte contemporanea, sia in forma occasionale ed episodica legata a scambi di informazioni tra artisti e responsabili museali o a richieste di perizia e proposte di acquisto[7], sia in forma sistematica, frutto di precise operazioni editoriali quali l’album che Cesare Bernieri dedicava a L’opera pittorica di Massimo D’Azeglio, ancora del 1867. Fu questo un esempio  precoce dell’applicazione di questa tecnica alla riproduzione (e quindi alla diffusione e allo studio oltre che alla celebrazione) delle opere d’arte in un contesto come quello torinese particolarmente attento a questo ordine di problemi, come testimonia l’articolo che Carlo Felice Biscarra dedicò alla tecnica della Fotoglittica (Biscarra, 1870), vale a dire della tecnica di stampa meglio nota come woodburytipia (dal nome dell’inventore) che consentiva di ottenere stampe tipografiche di grande qualità dalle matrici fotografiche e che il fotografo Le Lieure “procuratasi testé con ingente somma (…) acquistando per tutta l’Italia il brevetto della recente invenzione (…) adoperata in Francia con esclusiva proprietà dal rinomatissimo editore Goupil, che vi ha consacrato ben mezzo milione di lire.”

Come si vede il tema era quello delle arti applicate all’industria, ben connesso alle questioni che erano state poste alla base della stessa istituzione del Museo Civico.

Ulteriori importantissimi documenti sono quelli connessi ad un altro degli ambiti canonici di applicazione della fotografia del XIX secolo, quello dell’architettura, in particolare in relazione con le prime iniziative postunitarie di riconoscimento e tutela dei ‘monumenti’ che coinvolsero – in relazione ai lavori della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità – lo stesso Biscarra, Crescentino Caselli e Vittorio Avondo, i cui  beni pervennero al Museo per legato testamentario, ma anche Alfredo d’Andrade, il cui fondo – ricchissimo di fotografie – perverrà ai Musei nel 1931[8].

Alla fine del XIX secolo il dibattito sulla necessità della istituzione di archivi fotografici o Musei documentari fondati su di un utilizzo massiccio della fotografia era particolarmente pressante: alla Prima Esposizione Italiana di Architettura che si tenne a Torino nel 1890 molti progetti e realizzazioni furono documentati fotograficamente,  mentre solo due anni più tardi si ebbe l’istituzione del Gabinetto Fotografico Nazionale con il compito di eseguire le riproduzioni del “materiale artistico mobile e immobile esistente nel Regno” (Brera, 2000, p. 14) e nel 1897 Giovanni Vacchetta, futuro direttore della sezione di Arte antica del Museo, elaborava per il Circolo degli Artisti di Torino un progetto di catalogazione del patrimonio piemontese  proponendo l’istituzione di un “Museo Piemontese di Architettura”, che nella sezione V doveva ospitare “negative fotografiche”, anche qui (come sarà poi in Viale) allo scopo di non disperdere energie e informazioni. I timori espressi dalla commissione del Circolo degli Artisti portarono Vacchetta a ridimensionare il progetto ridotto infine alla formazione di un archivio fotografico per ospitare “qualunque negativo fotografico, giudicato buono ed in ottimo stato di conservazione, riproducente un monumento artistico del Piemonte.” (Albanese, Finocchiaro, Pecollo, 1990, p. 141) L’iniziativa non ebbe alcun seguito  sebbene la Sezione di Architettura del Circolo raccogliesse negli anni le fotografie presentate alle diverse esposizioni, poi cedute al Museo Civico nel maggio 1900.

A questa data esso era già certamente dotato di un piccolo nucleo di documentazione fotografica eterogenea, cui si era aggiunta la sistematica documentazione della sezione di Arte antica realizzata per la pubblicazione della cartella del 1905 (Museo Civico, 1905) in parte utilizzate anche da Pietro Toesca nel 1911, l’anno della grande esposizione del cinquantenario dell’Unità, e poi ancora nel primo volume della collana “Attraverso l’Italia” dedicato al Piemonte che il Touring Club Italiano pubblicò nel 1930.

Nel 1913, a tre anni dalla morte di Avondo, Vacchetta venne nominato Direttore della “Sezione Arte Antica e Arti Applicate alla Industria” del Museo Civico, per la durata di sei anni, mentre ad Enrico Thovez fu affidata la Pinacoteca moderna. Tra i primi atti di Vacchetta vi fu proprio l’istituzione di un primo nucleo di archivio fotografico con l’acquisizione  delle 463 lastre commissionate all’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo in occasione della realizzazione del padiglione piemontese per l’Esposizione romana del 1911, e successivamente di altre 126 riprese eseguite dagli Alinari nel 1912. (Albanese, Finocchiaro,  Pecollo, 1990, p. 193). Pochi mesi prima, il 30 gennaio,  Lorenzo Rovere aveva proposto alla SPABA di “raccogliere colla cooperazione di tutti i soci le fotografie dei monumenti d’arte e di antichità del Piemonte costituendo nella società un archivio fotografico.”[9]

Secondo la testimonianza di Vittorio Viale (Viale, 1933, p. 4) in questo periodo il Museo disponeva di circa 600 “lastre”, che costituivano “il maggior complesso di documentazione fotografica, che di monumenti e di oggetti d’arte del Piemonte sia liberamente a disposizione degli studiosi”, vale a dire di un primo nucleo non formalizzato di fonti fotografiche per lo studio del patrimonio artistico e architettonico piemontese, ben distinto in termini di funzioni e soprattutto di accessibilità dal pur ricco archivio che si stava costituendo presso la Regia Soprintendenza ai Monumenti del Piemonte, nuova (1916) definizione istituzionale dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti diretto da D’Andrade, attivato nel 1891.

Nel 1930 Vittorio Viale venne nominato nuovo Direttore. Dopo aver richiesto invano al Podestà l’autorizzazione all’acquisto di attrezzature fotografiche per poter documentare le collezioni senza più essere “alla mercé dei fotografi di professione”[10] il Direttore formalizzava l’istituzione dell’Archivio Fotografico dei Musei Civici di Torino (1931) con una dotazione annua di L.8.000, con la quale avviava un’ulteriore campagna di riproduzione dei “principali quadri e i più interessanti oggetti del Museo torinese” (Viale, 1933, p. 5) orientando la propria attenzione al patrimonio museale esistente piuttosto che alla estensione della conoscenza del territorio,  confermando necessariamente le scelte che già avevano caratterizzato le precedenti iniziative di Avondo e la campagna realizzata da Augusto Pedrini per il volume di Mario Soldati, Galleria d’Arte Moderna del Museo Civico di Torino, edito nel 1927 ancora sotto la direzione di Lorenzo  Rovere.

Nel 1932 Viale presentava poi al Congresso SPABA di Cavallermaggiore la propria proposta di costituzione di un Archivio Fotografico “dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte” (riprendendo e ampliando le  precedenti ipotesi formulate da Vacchetta e Rovere, pur senza citarle) allo scopo di riunire il materiale prodotto dalle Società di Studi, a rischio di dispersione. Nella stessa occasione invitava i soci a donare “le lastre, anzi le belle lastre, che ogni anno qui fra noi, studiosi e fotografi, eseguiscono per le loro ricerche archeologiche o artistiche.” (Viale, 1933, p. 5). Le sollecitazioni del Direttore non restarono senza risposta se negli anni immediatamente successivi confluirono nell’AFFTM le fotografie raccolte dalla SPABA (nel corso di una più complessa operazione destinata a preservare il patrimonio culturale della Società), quelle prodotte in occasione della Mostra della SS. Sindone, 1931, per iniziativa del conte Lovera, e verosimilmente anche quelle realizzate da Albert Erich Brinkmann per il volume Theatrum Novum Pedemontii. Düsseldorf: L. Scwann, 1931. A queste si aggiunsero progressivamente le riprese commissionate per le grandi esposizioni promosse da Viale quali Gotico e Rinascimento in Piemonte, Torino 1938-1939 e Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo, Vercelli 1939.

Nel 1940 l’AFFTM si arricchiva di parte dell’importante Fondo Gabinio, sebbene la totalità delle lastre acquisite fosse sottoposta a drastica selezione da parte dello stesso Viale, ancora insensibile agli autonomi valori espressivi fotografia,  ed anche il decennio successivo si presenta ricco di importanti acquisizioni (Nigra: 1940-1942; Rovere: 1950; Celanza: 1951) mentre nei primi anni Sessanta vennero commissionate quasi settemila riprese in vista della realizzazione della Mostra del Barocco piemontese, 1963.

Alla fine del mandato di Viale (1965) il patrimonio complessivo dell’ AFFTM era valutato in più di ventimila fototipi, ai quali si aggiunsero verso la fine del decennio (1968) i circa 6.500 negativi e positivi di Mario Gabinio pervenuti con la donazione Marcellino-Alessio, più altri tremila fototipi provenienti da commesse e doni diversi, non specificati dalle fonti (Mallè, 1970). Nei decenni successivi e sino ad oggi l’accrescimento del patrimonio fotografico è rimasto costante, sebbene le  commesse prevalgano sulle donazioni e i lasciti, tra cui meritano di essere segnalate le fotografie di Francesco Aschieri donate dopo il 1984 dalle eredi del fotografo, l’acquisto di un ulteriore importante nucleo di stampe di Mario Gabinio (1991) e specialmente l’acquisizione del notevolissimo fondo di Stefano Bricarelli, autorevole esponente della fotografia artistica italiana nel periodo compreso tra le due guerre mondiali (1997). In quello stesso anno venne acquisito anche l’importante l’archivio di studio di Augusta Lange, mentre nel 1998 entrarono a far parte del patrimonio dei Musei Civici venti stampe di Vittorio Sella, tra i più importanti fotografi di montagna tra XIX e XX secolo.

 

 

2- Derive e approdi

 

Le vicende che hanno portato alla conformazione e consistenza attuale del patrimonio fotografico dei Musei civici torinesi hanno lasciato tracce evidenti e ben riconoscibili nella sua stessa strutturazione archivistica: così se la maggior parte dei fototipi novecenteschi (negativi e positivi) risultano sistematicamente compresi in serie coerenti, riferibili a specifici fondi tematici, ad acquisizioni e lasciti, i materiali fotografici ottocenteschi presentavano e in parte presentano ancora improprie forme di aggregazione, che sono frutto di una sequenza di accorpamenti e smembramenti successivi che la tradizionale, storica disattenzione per il patrimonio fotografico, sino ad anni recentissimi ritenuto puro materiale di consumo, non sembra sufficiente a giustificare.

In particolare la ricognizione effettuata nell’anno 2000 ha fatto emergere la presenza di importanti serie di fotografie di architettura, riferibili alle campagne documentarie piemontesi di Berra ed Ecclesia del 1882 ed alla Prima Esposizione di architettura del 1890, suddivise impropriamente in fondi diversi così come è accaduto per altri documenti fotografici coevi, in particolare di documentazione delle opere d’arte, verosimilmente riconducibili ai primi e sostanzialmente ignoti momenti della formazione dello stesso patrimonio fotografico del Museo, per la gran parte riferibili agli anni della direzione Avondo (1890 – 1910), ma solo in piccola parte archiviati in forme tali da identificarne con sicurezza la provenienza, [11] mentre proprio la loro cronologia, le analogie tematiche e la presenza di sporadici indizi documentari sollecitavano la necessità di porli in relazione con le stampe fotografiche costituenti il fondo Avondo vero e proprio (per la cui descrizione analitica rimando al repertorio in catalogo), a sua volta suddiviso tra Archivio fotografico, Fototeca e depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna.

La presenza di un nucleo di ben precisa e definita paternità collezionistica, se non di chiara provenienza costituiva però l’elemento catalizzatore di ulteriori problemi: verificata rapidamente l’impossibilità di una ricostruzione documentale delle vicende di formazione e acquisizione del Fondo così come delle ragioni della sua disseminazione in (almeno) tre sedi, si poneva il problema della definizione della sua (ipotetica) consistenza originaria, della sua integrità e completezza. Se i numerosissimi ritratti in formato carte de visite e le vedute di località svizzere dovevano necessariamente avere una provenienza privata, la presenza di un ridotto numero di immagini di Issogne non poteva che essere indizio (e residuo) dell’importante e nota (Barberi, 1999) campagna commissionata ad Ecclesia, di cui il Fondo in sé conserva però scarse tracce, mentre nel patrimonio bibliotecario museale risultano presenti ben tre esemplari dell’album[12] che ne fu il frutto (in due diverse edizioni) e sempre riferibili ad Avondo, e ancora di Ecclesia, sono i due gruppi di Fotografie del Castello Feudale e del Borgo Medioevale di Torino, realizzate nel 1884 e riferibili piuttosto ai diversi ruoli e incombenze pubbliche di Avondo, cui pare di poter attribuire anche la responsabilità della presenza, in fondi diversi, delle fotografie presentate alla già citata Esposizione di Architettura del 1890[13].

Che dire poi della provenienza di altri nuclei di fotografie quali le anonime, bellissime immagini di campagna romana, pervenute anni orsono senza ulteriori indicazioni da Palazzo Madama, mai poste in relazione col nostro ma la cui genealogia culturale orientava inequivocabilmente e quasi obbligatoriamente agli anni romani di Avondo?

Alla sua figura di artista, collezionista e Direttore del museo erano inoltre riferibili le numerose  riproduzioni di opere d’arte, specialmente dipinti ottocenteschi e gli esiti della citata campagna documentaria per la pubblicazione del 1905, di cui si erano conservate alcune decine di stampe originali. Tutti indizi sufficienti a imporre con la dovuta evidenza la necessità di indagare più a fondo l’articolazione e la consistenza di questi materiali verificando la possibilità di ricondurli alla presenza e al ruolo di Vittorio Avondo, alla sua biografia artistica e professionale, procedendo all’identificazione delle vicende e degli elementi costituenti l’archivio per giungere a delinearne l’identità quale strumento ulteriore – ma imprescindibile – di tutela attiva ma anche di conoscenza del responsabile della sua costituzione, così come delle diverse forme della cultura fotografica, dell’agire storicamente con la fotografia; di come e per quali scopi venisse utilizzata nei personali percorsi di formazione e nella definizione e gestione di un museo di “arti applicate all’industria”; di come poi queste sue testimonianze venissero abbandonate e quindi ancor più che dimenticate: confuse e lasciate (andare) alla deriva.[14]

 

3- Artista e gentiluomo

 

“F: Firenze – Alinari – Via Nazionale 8, Roma, via del Corso 90 – fotografi.” Nello scorrere i superstiti taccuini di Avondo[15] questo è il solo riferimento presente. Certo non irrilevante, sebbene piuttosto scontato per un cultore delle arti belle quale lui fu, ma specialmente sorprendente considerando che della produzione del prestigioso studio fiorentino quasi non si trova traccia  tra i numerosi ed eterogenei documenti fotografici in diversa misura a lui riferibili.

I ritratti intanto, che scandiscono per rare tappe tutto l’arco della vita sua[16] a partire dal primo bellissimo, realizzato in due versioni (FVA064, FVA063) da Carlo Duroni[17] intorno al 1860  congiuntamente a quello dell’amica Marie Dunner (FVA0352), cui Avondo – in studiatissima posa di ‘artista da giovane’, forse appena tornato da Roma , doveva essere particolarmente affezionato se lo scelse per Telemaco Signorini[18] in quella consuetudine di scambio di carte de visite che costituiva uno dei gesti sociali più diffusi in ambiente borghese nei decenni immediatamente successiva alla seconda metà dell’800, quando la circolazione di queste immagini assurse a vero e proprio fenomeno di moda e tra le principali attività dei più noti studi fotografici (Sagne, 1994). Di circa dieci anni più tardi sono invece le due versioni di ritratto in piedi realizzate nello studio Fotografia dell’Alta Italia di Alessandro Guglielminotti nella stessa occasione in cui si fa ritrarre anche il padre Carlo (FVA032), forse a celebrazione e suggello di un evento particolare e a noi oggi non noto.

Sono riprese sostanzialmente coeve al ritratto a figura intera (FVA118) in elegante costume da “antico gentiluomo inglese” (Gribaudi Rossi 1979, p. 28; Dragone 2000, p. 120) realizzato da Giovanni Battista Berra nello studio Fotografia Subalpina, a celebrazione e ricordo dell’invito al gran ballo offerto dal duca Amedeo d’Aosta il 16 febbraio 1870, analogamente a quanto fecero moltissimi degli esponenti della nobiltà e della borghesia torinese allora presenti e le cui immagini, raccolte in un album poi donato all’ospite, ritroviamo in parte anche tra i documenti personali di Avondo, a testimonianza di legami solidi e duraturi come quello con Severino Casana, di cui si conservano sia il ritratto per il ballo, in coppia con la moglie in serissimo costume da fulmini con la scritta anticlericale “Ils ne blessent pas, ils ne sont pas du Vatican”, sia un più tardo e ufficiale ritratto da senatore del regno in una bella platinotipia dello Studio Bertieri.

La messa in scena, il tableau vivant offerto ad un pubblico più o meno ampio assumeva nella cultura dell’epoca significati diversi e non sempre per noi facilmente comprensibili e distinguibili, in elegante equilibrio tra culto esibizionistico di sé – basti pensare all’esempio clamoroso della contessa Verasis di Castiglione[19] – passione storicista e goliardia.  Riprese in studio e balli di corte certo, ma anche le feste in costume al Circolo degli Artisti e i Cavalieri del Bogo; gli orientalismi e il melodramma, gli Ordini cavallereschi, il neogotico e la riconsiderazione del medioevo: come stupirsi allora se per il Natale del 1872, nell’appena acquistato maniero di Issogne, Avondo, D’Andrade, Pastoris e i due Giacosa festeggiarono vestendo “maglie e corazze e cotte sdrucite d’uomini d’arme così, per il piacere di guardarsi assaporando nell’ondeggiar delle lanterne e del focolare lampi di realtà che li colmavano di deliziosi brividi.”[20] Un bellissimo regalo di Natale, fanciullesco e giocoso ben oltre i programmi culturali, cui per altro nessuno intendeva rinunciare, assumendo comportamenti che a noi oggi paiono inconciliabili, ma a cui vanno assegnate anche altre vicende tipiche di questo gruppo di artisti e intellettuali, quali la decorazione di poco antecedente (1866) di una sala del castello di Lozzolo, realizzata mentre intorno le cose “andavano ad magnam meretricem”[21], ma di cui possiamo ritrovare traccia anche nelle cronache intorno ai ben altrimenti fondati interventi per il restauro di Issogne (contro la teatralità di più illustri esempi francesi) e per la  realizzazione del Borgo medievale per l’Esposizione del 1884.[22]

È una trama di relazioni e amicizie che troviamo illustrata, restituita in immagine nella ricca serie di ritratti conservati nel fondo, in parte raccolti da Avondo, come allora era uso, in un album[23] tascabile di carte de visite, quasi un piccolo oggetto devozionale, un pantheon personale e affettivo le cui presenze, troppo consuete e vicine, non necessitavano di identificazione scritta: D’Andrade, a Roma nel 1862, e  Bertea,  fotografato a Parigi da Disderi tra i primi, quindi una serie di presenze per noi prevalentemente anonime, specialmente quelle femminili; oggi figure mute ma non per questo meno interessanti e significative nelle loro caratteristiche di insieme, nel loro essere rappresentazione corale di un’élite composita ma chiaramente identificabile, definita[24].

Col ritorno da Roma nell’anno della proclamazione dell’Unità Avondo avviava la propria sistematica partecipazione, anche istituzionale, alle vicende della cultura artistica torinese: da subito membro del Circolo degli Artisti,  nel 1863 venne chiamato a far parte del Giurì del nascente Museo Civico[25], nel cui Comitato direttivo siederà dal 1870, anno in cui partecipò anche ai lavori della Commissione per l’individuazione dei monumenti nazionali, segretario Biscarra, poi (1874) a quelli della Regia commissione conservatrice provinciale con Severino Casana, Ariodante Fabretti, Crescentino Caselli, Riccardo Brayda, Pietro Vayra e  Carlo Ceppi (Volpiano, 1999, p. 48). Nel 1880 venne coinvolto, nella duplice veste di collezionista e di membro della Commissione nella preparazione della IV Esposizione Nazionale di Belle Arti, mentre ben noto è il ruolo da lui svolto nella messa a punto del progetto per la successiva Esposizione del 1884.

Può essere fatta risalire alla fine di questo decennio l’altra rara serie di ritratti di quest’uomo di “natura altera e alquanto bizzarra” (Rossi, 1912,p. 3) che Luigi Cantù, dal 1889 collega di Avondo nel Comitato del Museo[26], realizzò nella forma della sequenza, muovendo intorno al soggetto, seduto e col sigaro tra le dita, quasi una rievocazione dei primi suoi ritratti eseguiti da Carlo Duroni, in una relazione palese di grande familiarità, lontanissima dall’ufficialità distante del suo ultimo (S48-05 fot 207), realizzato nel 1908 da Oreste Bertieri[27]: quello stesso che Thovez sceglierà per aprire la monografia del 1912.

 

4 – Motivi per ricordare

Forse è ancora troppo presto, nel 1852, perché il giovanissimo Avondo acquisti fotografie nel corso dei viaggi compiuti in Toscana al seguito dei genitori; compilerà invece degli album, con piccoli paesaggi dove “il disegno a matita, ingenuo e malfermo (…) rivela il principiante.” (Maggio Serra, 1997,p. 64). Deciderà poi, come è noto, di recarsi a Ginevra per studiare presso “l’inevitabile Calame” (la definizione è di Marziano Bernardi[28])  facendovi base almeno sino all’aprile del 1857, ma da qui compiendo numerosi viaggi: non solo brevi puntate a Torino, ma anche in Savoia e nel sud della Francia – come documentano i taccuini e le opere esposte alla Promotrice del 1856 (Signorelli, 1997,p. 25) – e forse a Parigi per l’Esposizione del 1855: viaggio mitico di cui non restano tracce documentali dirette, esplicite.[29]

“Il Fontanesi e l’Avondo avevano avuta la rivelazione [della nuova pittura di paesaggio] dalla mostra di Parigi del 1855 (…) L’Avondo visitò l’Esposizione parigina e vi conobbe la scuola del trenta: Corot, Daubigny, Rousseau, Huet, Dupré: ritornò a Ginevra sconvolto da  quella visione di un’arte più libera e vera, più profonda e potente. Non nascose al Calame la sua meraviglia; ed egli amava raccontare, sorridendo, come il Calame fosse rimasto quasi offeso da quell’entusiasmo”. Così ricorderà Thovez nel 1912, e non c’è ragione di non credergli viste le sue opportunità di frequentazione diretta, sebbene poi proprio dell’incontro con la metropoli del XIX secolo nulla rimanga: non un appunto, un piccolo disegno, una qualsiasi veduta urbana tra le sue carte; restano però ben quattro ritratti nel formato carte de visite realizzati da altrettanti studi parigini[30].

Anche di altri luoghi canonici di quei suoi anni di peregrinazioni formative restano tracce scarse o nulle, quasi tutte nell’allora diffusissima forma della stereoscopia: nessuna veduta di Ginevra risulta superstite, ma troviamo immagini dei castelli di Chillon e Thun, realizzate dal fotografo ginevrino Joseph Florentin Charnaux, ed una veduta di Losanna col campanile della cattedrale che svetta sui tetti delle case, soggetto cui sembra riferibile anche un piccolo disegno a matita compreso nel lascito ai Musei civici (inv.fl/574), oltre ad alcune vedute di Friburgo (FVA0523-25), dell’ Oberland bernese[31]e delle cascate del Reno a Sciaffusa, compresa questa  nell’importante serie di Views of Switzerland and Savoy  realizzata da  William England nel 1863, cioè in una data successiva al soggiorno ginevrino di Avondo.

E poi l’Italia: dalle montagne della Valle d’Aosta a Pisa e Firenze, quindi  Ceccano e Roma e Pompei: elementi di una serie di stereoscopie edite da Richter di Napoli che di fatto rappresentano i soli monumenti archeologici documentati nel fondo.

 

4.1 – Immagini della Campagna romana

Ammesso che il fondo ci sia pervenuto integro, sono veramente pochi i ricordi fotografici rimasti dei diversi viaggi compiuti da Avondo, che ci appare legato alla memoria delle persone piuttosto che dei luoghi. Quando la sua attenzione ne è attratta le ragioni si presentano  diverse, immediatamente artistiche, legate alla comprensione problematica ed alla restituzione sentimentale del paesaggio, al confronto col vero, all’esercizio della pittura: in questo il biennio 1855-57 si presenta cruciale.

Pur non essendo documentalmente confermata l’esperienza parigina e il conseguente “incontro sconvolgente con la pittura naturalistico-romantica dei Barbizonniers” (Maggio Serra, 1997, p. 70) è impossibile non riconoscere nell’andamento dei disegni come dei dipinti successivi a quella data l’accadere di una qualche esperienza decisiva, da collocarsi necessariamente in questo ristretto arco di tempo. Avondo è a Roma forse nel 1856, certo dal ’57 e pare rimanervi sino ai primi mesi del 1861, anno in cui entra a far parte del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999, p. 46) sebbene sia certa la sua presenza a Torino già all’inizio di luglio del 1860, quando incontra Telemaco Signorini reduce da Pozzolengo (Dini, 1997, p. 269) e poi ancora ad ottobre, quando effettua un prestito in denaro (Signorelli, 1997, p. 14). Primo esito pittorico dell’esperienza romana fu Effetto di mattino nella valle di Ariccia esposto alla Promotrice torinese dello stesso anno, mentre nel 1861 invierà Scirocco nella campagna romana;  a quel periodo appartengono anche Tramonto sul Teverone e Teverone, nei quali “la scelta in direzione verista appare già compiuta” (Maggio Serra, 1997, p. 70). Sono questi i primi “bellissimi studi dal vero della campagna romana” cui si riferirà Thovez nel 1912,  “mirabili per larghezza di sintesi e per economia di mezzi”,  sottolineando per primo quella sostanziale mutazione di modi espressivi che costituirà da allora un punto fermo nella comprensione critica del percorso artistico di Avondo; giudizio confermato a decenni di distanza da Rosanna Maggio Serra che ha parlato a questo proposito di “struttura compositiva e tavolozza ridotte all’essenziale”, riconoscendone la genesi proprio in quegli studi di Campagna romana da lei così attentamente studiati[32] e collocati cronologicamente in un arco di tempo compreso tra 1857 (Gruppi C, D) e 1865 (Album nn.4, 14, Gruppi F, G, H), studi che sembrano preludere, o almeno letteralmente anticipare le opere presentate nei decenni successivi, a partire dal 1866,  alle diverse esposizioni torinesi del Circolo degli Artisti e della  Promotrice delle Belle Arti, in una sequenza che pare fluire morbidamente senza soluzioni di continuità, scandita da apprezzamenti e letture che colgono la sensibilità di questa “anima intuitiva, che vibra (…) alla linea vasta della bella natura” (Mario Michela, 1880, in Di Macco, 1997, p. 49), confermando la sua capacità di realizzare opere in cui “si respira l’incanto della campagna laziale, pregna di storia e poesia secolare.” (Maggio Serra, 1997, pp. 71-72)

La loro cronologia offre spunti per considerazioni interessanti: quasi tutti i dipinti infatti sono stati realizzati a distanza di anni, di decenni anche dal soggiorno romano, confermando un’osservazione non proprio innocente di Thovez per il quale Avondo “aveva studiato così acutamente il vero, che poté concedersi il lusso di lavorar completamente di maniera, pur riuscendo spesso a  una verità maggiore di molti veristi”, seguito in questo da Marziano Bernardi che nel 1936 parlava di “rari quadretti (…)  elaborati a distanza d’anni su ricordi della campagna romana.” (1936, pp.n.n).

Si tratta certo del metodo consueto della rielaborazione in studio di bozzetti e disegni realizzati en plein air: all’Ariccia,  a Cervara, lungo il corso del Tevere, al Casale della Crescenza e così via, ma è ancora Thovez a ricordare, sempre nel 1912,  come “lasciando Roma [dove Avondo aveva creato “forse le sue cose più belle”] fece, come era uso fra gli artisti di quel tempo, una vendita di tutte le cose sue: i documenti più preziosi dei suoi studi dal vero andarono così in molta parte dispersi.” Dato interessante, informazione utile che potrebbe dar conto delle ragioni dell’imponente lacuna cronologica nelle testimonianze grafiche oggi note, datate o databili – come si è visto – al 1857 e al 1865, non solo escludendo così quasi l’intero periodo della sua permanenza (1857-1860) e della possibilità di praticare l’osservazione dal vero, ma confermando per converso la tradizione di una redazione dei disegni e più ancora dei dipinti condotta in forma più che indiretta.

Per comprendere la novità non solo individuale della sua pittura, di quella  sua capacità di imprimere ai “paesaggi una poesia così tranquilla [in cui] le lontananze sono così artisticamente ondulate, l’aria così diafana, l’erba così molle (…).” (Pietro Giacosa, 1870, in Signorelli, 1997, p. 18, nota 60), quella sua “lunghezza infinita di sguardo che ricerca il colore dell’aria” (Maggio Serra, 1997, p. 72) può non essere sufficiente  allora tener conto delle influenze degli artisti e delle opere incontrate tra Roma e Firenze: Nino Costa, certo, affettuosamente ricordato anche nel rifugio di Lozzolo (Dragone 2000, pp. 74-75) e già in contatto con Enrico Gamba, e poi Mariano Fortuny, a Roma dal marzo 1858, e ad alcuni artisti inglesi come G.H. Mason e Charles Coleman, di cui Avondo possedeva piccole opere[33] ma che certo non possono essere chiamati a sostenere la sua svolta espressiva.

I tempi e i modi del suo operare, così come gli esiti delle opere ci portano, ci obbligano quasi a considerare una più ampia trama di relazioni e suggestioni, a riflettere sulle conseguenze dell’incontro con i luoghi rappresentati, sullo scegliere e quasi sull’essere scelti da quel paesaggio di campagna romana che aveva attratto allora diverse generazioni di pittori[34] e che proprio in quegli anni veniva nuovamente rivelato dai più sensibili esponenti della cosiddetta Scuola fotografica romana[35], anch’essi frequentatori del Caffé Greco, come Costa, come Ippolito Caffi, tornato a Roma nel 1855 dopo aver soggiornato anche a Torino (Pirani, 2003, p. 43) e in stretta relazione di amicizia con uno dei più importanti fotografi della Scuola, il padovano Giacomo Caneva.

Non diciamo nulla di nuovo richiamando le forti intersezioni e influenze, reciproche, tra fotografia e pittura per gli artisti ottocenteschi. Ben prima delle indagini di Schwarz, delle sintesi estreme di Mollino e delle più tarde sistematizzazioni di Scharf[36], Telemaco Signorini riconosceva che “la macchia (…) nacque nel 1855 da tre artisti e non dei peggiori in  Italia, coadiuvata dalla fotografia, invenzione che non disonora poi il nostro secolo e non ha colpa nessuna se qualcuno decade in arte abusandone”[37], ed alla stessa sensibilità credo debba essere assegnata la scoperta entusiasta che Saverio Altamura di ritorno da Parigi faceva del “ton gris” di Decamps, ottenuto con “uno specchio nero che, decolorando la natura, permettere di cogliere la totalità del chiaroscuro, la macchia”[38], abbandonando la ricerca ostinata, analitica del dettaglio, analogamente a quanto andavano facendo i primi fotografi che lasciavano la precisione ottica del dagherrotipo per misurarsi col calotipo, avvalendosi di tutte le possibilità espressive e interpretative fornite dal negativo di carta e dai diversi possibili trattamenti delle carte di stampa. Già nel 1851 il critico Francis Wey in un articolo sul periodico parigino “La Lumière” aveva notato come “La photographie est, en quelque sorte, un trait d’union entre le daguerréotype et l’art proprement dit. Il semble que passant sur le papier, le mécanisme se soit animée. (…) la photographie est très souple, surtout dans la reproduction de la nature ; parfois, elle procède par masses, dédaignant le détail comme un maître habile, justifiant la Théorie des sacrifices, et donnant ici l’avantage à la forme, et là aux oppositions des tons.”[39] Molti autori francesi avevano adottato la nuova tecnica, da Le Gray a Le Secq, da Marville  a Joseph Vigier, realizzando études  che sono vere e proprie raccolte di soggetti d’après nature destinati agli artisti[40], come quelle che Louis-Désiré Blanquart-évrard pubblicava a Lille nel 1853 -54 (Jammes, 1981, p. 73).

È quella stessa attività cui si era dedicato l’ancora misterioso Firmin Eugène Le Dien[41] ma soprattutto Giacomo Caneva, a Roma dal 1839 dove aveva esercitato per alcuni anni l’attività di pittore[42] prima di passare alla fotografia, attività in cui  “allontanandosi dagli intenti ‘monumentali’ e vedutistici della fotografia dell’epoca e della ‘Scuola romana’ di fotografia in particolare – ci mostra, negli interessi al paesaggio e alla campagna romana, uno degli aspetti della sua attività, in genere poco studiato ma fra i più stimolanti del suo percorso (…) con esiti di grandissima qualità anche emotiva, confermati da numerosi altri soggetti fra loro coerenti, come studi di piante, di rocce e di fogliami, ripresi nel verde delle ville di città e nella campagna, a Castelfusano e a Ostia.” [43]

Nel 1850 Caneva pubblicava una prima raccolta dedicata a Roma in fotografia 12 Tavole per 8 scudi romani / Ogni tavola separata Otto paoli cui farà seguire nel  1855 un’altra serie di Vedute di Roma e dei contorni in fotografia. È lo stesso anno della pubblicazione del suo Della fotografia. Trattato pratico. Roma: Tipografia Tiberina, considerato il primo testo organico redatto in italiano, in cui analizzando in termini di coerenza espressiva le diverse tecniche allora disponibili riconosceva come “del contrario [al vetro] le negative su carta danno tutta la scabrezza, la ruvidità e la immensa varietà dei toni della natura. (…) E il paesaggio, i monumenti antichi, le rocce ecc. ecc. converrà sempre trarle con carta”[44],  eventualmente “servendosi d’uno sfumino in carta e della piombaggine, [per] comporre un cielo, dar prospettiva aerea ed effetto a una negativa che manchi di tali prerogative.” (Caneva, 1855, pp.11, 50).

È alla seconda di queste due serie che devono essere verosimilmente assegnate buona parte delle trentasette stampe su carta salata, cerata o albuminata, oggi presenti nel fondo Avondo, molte delle quali ritraggono proprio quella  “pianura povera e brulla che altri non avrebbe degnato di uno sguardo”, che tanto aveva affascinato Vittorio Turletti nel 1874, posto di fronte all’avondiano Di mattina.[45]  Sono fotografie che Avondo doveva considerare importanti o quantomeno utili e ancora utilizzabili se al momento della sua partenza da Roma decise di non separarsene, di tenerle con sé per il resto della sua vita. Fotografie che oggi sembrano costituire l’elemento sinora ignoto, nascosto come la lettera di Poe, per procedere ad una migliore comprensione della sua vicenda pittorica.

È la sola loro presenza – in quanto fotografie – che già ci consente di riconsiderare alcune sue soluzioni stilistiche: non mi riferisco solo ad un comporre che procede per masse ed alla significativa riduzione della gamma cromatica, che tanto deve alla resa tonale propria delle diverse varianti del calotipo, penso anche all’ampiezza quasi grandangolare di molte vedute, non solo in disegno; all’uso non infrequente di contrasti luminosi marcati e in particolare del controluce, quale lo vediamo nel piccolo carboncino Osteria di papa Giulio fuori porta del popolo [sic] o Nei Prati di Castello (Bernardi, 1936, t.23) e specialmente nel piccolo olio compreso nel lascito ai Musei in cui il motivo del profilo urbano da cui emergono le cupole adotta una formula analoga a quella utilizzata da Edgar Degas, Roma vista dalle sponde  del Tevere, 1857ca.[46] Il confronto sistematico tra queste fotografie ed il corpus complessivo della produzione grafica di Avondo, reso possibile dalla schedatura su supporto informatico redatta da Chiara Maraghini per la direzione di Virginia Bertone, consente di individuare elementi ricavati da singole fotografie e restituiti con differenti gradi di rielaborazione in numerosi disegni e dipinti[47], come accade ad esempio per le suggestioni fortemente materiche che rendono per noi così affascinanti molte di queste fotografie e che riconosciamo nel piccolo olio su carta Sul Teverone  (inv. P/865) come nel più tardo Afa, 1885 (Thovez, 1912, t.24). In altri casi poi il riscontro è immediato, puntuale: si confronti il disegno de Il Teverone a nord di Roma (inv. fl/447) con la Veduta del Tevere a nord di Roma (FVA590) o ancora la parte destra dell’altra fotografia del Tevere a nord di Roma col disegno Teverone e cupola (inv. fl/571), ma soprattutto Nella valle del Pussino, 1874, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, con Campagna di Roma. La Crescenza detta Valle di Pussin fuori Porta del Popolo [sic] che è una delle più note immagini di quello stesso Caneva, cui si devono anche le vedute precedenti, che Avondo acquistò dallo stesso fotografo o più probabilmente da Cuccioni, editore per cui Caneva lavorava e di cui il fondo conserva anche un album litografico di costumi romani.[48]

L’interesse forse non solo strumentale di Avondo, come di molti pittori suoi contemporanei, per la produzione fotografica è del resto testimoniato anche dalle due bellissime riprese di soggetto fiorentino (FVA606, 607), anonime, ma che per caratteristiche tecniche e livello qualitativo possono essere avvicinate alla produzione di John Brampton Philpot (Falzone del Barbarò, 1989) così come da alcuni disegni che rimandano ad immagini note ma non più presenti nel fondo quali la Passeggiata lungo il Tevere, con S. Pietro (fl/452), che ripropone graficamente uno dei luoghi canonici del vedutismo fotografico romano[49], di fortuna analoga a quella Veduta del Vicolo Sterrato che costituisce il tema non dichiarato di uno dei disegni pubblicati da Italo Cremona (1946, p. ix), a sua volta direttamente derivato da una fotografia di autore non identificato[50] e oggi non presente in collezione.

 

5 – “Le antichità gli furono assai più care dell’arte”  (Thovez)

Il ritorno a Torino corrispose per Avondo ad un coinvolgimento totale nella vita artistica e culturale della città, dal Circolo degli Artisti alla Società Promotrice delle Belle Arti al nascente Museo Civico sino alla collaborazione con l’Accademia Albertina (1870), da cui derivò immediatamente l’invito a far parte della Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti (Vitulo, 1997).  Tra gli edifici indicati venne compreso anche il castello di Issogne, che Avondo aveva segnalato nel 1871 e acquistato nel 1872, già oggetto di vivo interesse da parte di numerosi artisti piemontesi sin dai primi anni ’50 (Dragone, 2000, p. 65-66) e ancora pochi anni prima (1865, 1868) una delle mete scelte da Pastoris e D’Andrade.[51]

Il suo inserimento nell’elenco di “edifici e monumenti nazionali del Piemonte”  ne determinò pochi anni dopo la prima sistematica documentazione fotografica, condotta nell’ambito della campagna promossa – su richiesta del Ministero della Pubblica Istruzione – dalla Commissione conservatrice dei monumenti di antichità e d’arte della Provincia di Torino, di cui Avondo faceva parte dal 1876,  che dopo una prima ipotesi  non realizzata di invitare alcuni dei migliori  fotografi a “una specie di concorso” (18 giugno 1881) aveva deliberato di assegnare l’incarico a due dei migliori professionisti piemontesi: Giovanni Battista Berra[52] per il circondario di Torino e Susa e Vittorio Ecclesia[53] per il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Carlo Felice Biscarra e da Crescentino Caselli.[54]  Circa un anno più tardi, il 24 agosto 1882 Federico Pastoris, ospite a Issogne, scriveva ad Avondo comunicandogli che la campagna era in corso: “Ecclesia aveva eseguito otto foto per il Ministero e quattro per conto suo «e fece bene, perché son certo che a quanti le vedranno piaceranno assai e serviranno a dare del tuo castello un’assai buona idea»”[55]. Avondo fu però di parere nettamente diverso, tanto da diffidare formalmente il fotografo presso la Regia Pretura di Asti affinché non “vengano poste in commercio, né sieno in alcun modo pubblicate le fotografie da esso Signor Ecclesia ricavate nell’interno del Castello d’Issogne”, ciò specialmente in virtù dei danni che ne sarebbero derivati “in conseguenza della pubblicazione di dette fotografie, la quale lo pregiudicherebbe sicuramente nell’utile che egli solo intende ed ha diritto di ricavare dalla riproduzione in qualsiasi modo della sua proprietà d’Issogne.”[56] Come accadde in altre occasioni della sua vita fu nell’attenta valutazione dell’utile che se ne poteva ricavare che Avondo collocava il limite alla propria liberalità culturale, sebbene non dovesse dispiacergli l’occasione, e la possibilità di celebrare in certa misura il decennale dell’acquisto del castello, dei suoi interventi di restauro conservativo[57] come dei criteri e degli esiti del suo riallestimento quasi filologico.

Forse anche per queste ragioni il contenzioso venne risolto due anni più tardi con la stipula di uno specifico contratto che prevedeva la realizzazione di “due opere artistiche da mettersi in vendita in forma di Album con vedute fotografiche tratte dal detto Castello, l’uno di n. 20 fotografie della grandezza di 21 per 27 centimetri l’altro di 13 per 18 centimetri. (…) Il costo dei vetri, clichets, sui quali il Si.r Ecclesia Vittorio ha fatte le negative in n. di settantadue è a spese comuni” , così come la stampa e la confezione degli album e delle singole stampe da mettersi in vendita “nonché le spese necessarie per prenderne la privativa dal Governo” cioè  per la “tutela della proprietà artistica”;  Ecclesia era inoltre incaricato della vendita, i cui proventi dovevano essere divisi mensilmente. Alla scadenza quadriennale “essendo le negative di proprietà comune si dovranno vendere al miglior offerente, nonché gli album e copie in fotografia che potessero rimaner invendute, ed il Signor Ecclesia Vittorio non potrà più d’allora in poi produrre, né vendere vedute del detto Castello senza il consenso del Cav.re Vittorio Avondo.” [58]

La realizzazione procedeva speditamente affidando alla  Tipografia e Litografia Camilla e Bertolero di Torino  la tiratura di 500 più 500 copie del testo,  firmato da Giuseppe Giacosa, stampato  nei due diversi formati, grande e piccolo, “compreso lo stemma in litog. a 3 colori” e già nel maggio 1884 Ecclesia poteva vendere il primo “album piccolo senza copertina e senza testo [e] un album gran formato con la copertina e testo.”[59] Alla Libreria Francesco Casanova venivano poi lasciati in deposito alcuni esemplari, per la gran parte invenduti dopo cinque anni[60], nonostante la grande qualità delle riprese di Ecclesia, attento sempre a restituire dinamicamente i rapporti volumetrici tra le diverse parti del castello, mediante l’utilizzo sistematico di sapienti accorgimenti quali il fotografare interni ed esterni tenendo sempre le porte aperte, a mostrare o suggerire almeno le connessioni spaziali tra i diversi ambienti, come farà più di un secolo dopo anche Luigi Ghirri (Cavanna 1999), ma non dimenticando – forse su suggerimento dello stesso Avondo – quelle suggestioni medievaleggianti che qui lo portarono ad introdurre un armigero poggiato al bordo della fontana del melograno, analogamente a quanto andava facendo nello stesso anno nelle riprese del Borgo Medievale[61], animate da personaggi in costume. Ritroviamo qui – in forme diverse –  quella apparente oscillazione del gusto che tanta parte aveva nella cultura di questi intellettuali, quella stessa che aveva prodotto anche il Ritorno dalla Terra Santa di Pastoris (1880) in cui si ritrovano felicemente coniugati il realismo analitico della precisione descrittiva delle architetture e dei decori del cortile del castello e l’immaginario storicista della scena. Sarà quella stessa cultura visiva che verrà ripresa e sviluppata da Edoardo di Sambuy nel 1898, quando si spinse sino alla citazione letterale di Ecclesia variandone però significativamente il trattamento, la resa: qui sono le figure in costume a divenire il soggetto principale e il centro d’attenzione[62]; il punto di vista è abbassato, solo i primi piani sono a fuoco e l’elemento architettonico è ormai trasformato quasi in fondale scenografico. Sono immagini che costituiscono la prima concreta testimonianza piemontese di quel passaggio dalla riproduzione alla fotografia artistica che sarà sancito dall’Esposizione internazionale del 1902, di cui lo stesso Di Sambuy fu direttore artistico.

Se il successo commerciale degli album fu ridottissimo le immagini di Ecclesia ebbero invece ampia circolazione, sebbene in forme certo più soddisfacenti per il committente che per il suo autore: la seconda edizione del volume di Giuseppe Giacosa dedicato ai Castelli Valdostani e Canavesani, pubblicato a Torino da Roux e Frassati nel 1898 era corredata da  illustrazioni di Carlo Chessa (1855 – 1912) ricavate dalle sue fotografie, ma già prima, nel 1896 lo studioso francese  Robert Forrer (1866 – 1947), che aveva visitato Issogne nell’ambito di una sua più ampio studio delle residenze castellate[63], aveva pubblicato a Strasburgo illustrandolo con 12 stampe anonime tratte dalle fotografie di Ecclesia, il suo Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne, certo per accordo con lo stesso Avondo, che ne disponeva di copie per la vendita in Italia.[64]

In questa comunanza di interessi collezionistici e museografici si collocava il commento introduttivo di Forrer, per il quale  “il castello costituisce  un vero e proprio repertorio per l’industria delle arti applicate, per coloro che intendano allestire ambienti in stile gotico, restaurare manieri antichi o realizzarne dei nuovi in stile a scopo abitativo o museale” (citato in Barberi, 1997, p. 146), richiamando così e riconfermando il senso del favorevole commento pubblicato da Louis Gonse sulla “Gazette des Beaux- Arts” a proposito dell’Esposizione di Torino del 1880, che aveva avuto Avondo tra i membri della Commissione ordinatrice[65], in cui la disposizione degli oggetti si presentava come nella casa di un uomo di gusto «quand on entre, on est touché par une sorte d’armonie discrète. Nulle prétention, nul fracas. Les œuvres précieuses se révèlent par leur valeur propre, et non par la montre qui en est faite.» (in Di Macco, 1997, p. 53).

Alla morte di Emanuele Tapparelli d’Azeglio nel 1890 Vittorio Avondo venne nominato direttore del Museo Civico e quindi chiamato a far parte della Commissione della II sezione, di Arti applicate, della Prima Esposizione italiana di Architettura, promossa dalla corrispondente Sezione del Circolo degli Artisti (Volpiano, 1999,pp. 89, 107 nota 28), tappa importante di un processo di trasformazione che coinvolgeva contemporaneamente  la ridefinizione del ruolo culturale e professionale dell’architetto così come dello studio e della comunicazione dell’architettura in una società industriale.

Nel 1884 la I Sezione del V Congresso degli Ingegneri e Architetti Italiani, che si tenne a Torino in occasione dell’Esposizione Generale Italiana aveva affidato al Collegio torinese il progetto di costituzione di una “Raccolta completa e sistematicamente ordinata di riproduzioni architettoniche di edifici nazionali aventi qualche pregio, od artistico, o tecnico od archeologico, appartenenti a tutti gli stili che in Italia ebbero vita”[66], iniziativa che ebbe quale primo esito la donazione da parte di Camillo Riccio dell’album  contenente i progetti di tutti gli edifici da lui realizzati per l’Esposizione, ancora oggi conservato al Circolo degli Artisti, cui fece seguito nel 1886 la richiesta avanzata al Ministero della Pubblica Istruzione di poter organizzare una “speciale esposizione di opere architettoniche”. In occasione del successivo Congresso di Venezia del 1887 il Collegio torinese fu quindi in grado di presentare il Catalogo del neonato Museo Regionale di Architettura, ospitato al Borgo Medievale: esso era costituito da calchi, terrecotte ed elementi architettonici sparsi, ma soprattutto da fotografie, collocate “nel centro della sala, entro cornici su appositi cavalletti” quelle dedicate ai monumenti piemontesi, mentre erano presentate in modo catalografico “su ampio tavolo ed in apposite cartelle, che le distinguono per regione [quelle] degli altri paesi d’Italia.”

In quello stesso anno maturava la decisione del distacco dalla  Società degli ingegneri e industriali e la costituzione della Sezione di architettura del Circolo degli Artisti, che continuava ad arricchire – come ricordava Mario Ceradini nel 1890 – “il proprio, piccolo ma interessante museo, che occupa una sala del Borgo Medioevale”, mentre prendeva forma l’idea della grande esposizione di architettura, poi inaugurata nel febbraio del 1890 sotto la presidenza di Giovanni Angelo Reycend, vicepresidente della Società degli Ingegneri e presidente della stessa Sezione, proprio nel palazzo progettato da Camillo Riccio per la Sezione di Belle Arti della precedente Esposizione del 1884.

Mentre in ambito disciplinare fu di grande rilevanza l’apertura ai temi urbanistici, in termini di strumenti per la divulgazione e lo studio, di comunicazione quindi, la grande novità – non per tutti positiva[67] – era costituita dal definitivo ricorso alla fotografia, che già aveva svolto un ruolo determinante nelle Esposizioni precedenti e nell’allestimento museografico del Museo Regionale e che confermò qui le proprie rilevanti potenzialità documentarie, ampiamente testimoniate non solo dalla ricca sezione dedicata alle pubblicazioni con opere di Secondo Pia, Vittorio Ecclesia , Studio Brogi, Cristoforo Capitanio (“che da Brescia ha portato prevalentemente particolari d’ornato”) e di editori come Ferdinando Ongania e Alberto Charvet (mentre mancavano gli Alinari), ma anche dalla grande quantità di fotografie esposte nella divisione di “edilizia moderna”, dedicata alle urbanizzazioni di “oltre cinquanta città europee ed extraeuropee”, e da quelle regioni come la Lombardia e l’Emilia che esponevano esempi di documentazione fotografica del proprio patrimonio architettonico o di importanti restauri, come quello della Basilica di San Marco.

Il successo dell’iniziativa fu tale da indurre il Ministro Boselli a chiudere la manifestazione dichiarando l’intenzione di renderla permanente, conservando parte dei materiali governativi e sollecitando la generosità di municipi e privati. La proposta venne immediatamente fatta propria dal Comune di Torino che offrì la sede procedendo anche alla nomina di un comitato per la messa  a punto di un progetto di regolamento, ma il Museo non  venne mai realizzato.

Le dotazioni dapprima confluite al Circolo degli Artisti, consentendo così a Vacchetta – come si è detto – di formulare l’ipotesi di istituirvi nel 1897 un  “Museo Piemontese di Architettura”, vennero quindi donate, nell’aprile dell’anno 1900, tranne i disegni e i libri appartenenti alla Biblioteca,  al Museo Civico di Architettura “con che nel Museo ciascun oggetto porti una targa colla scritta ‘Dono del Circolo degli Artisti – Sezione Architettura” (Atti Municipali, 1900, II, p. 817). Avondo, chiamato a norma del nuovo regolamento ad esprimere un parere valutava positivamente la donazione, che avrebbe potuto trovare “appropriata sede nell’edificio già delle Belle Arti al Valentino, dove si trovano i calchi di Bari” e nella successiva seduta del 5 maggio  la Giunta comunale approvava “con riserva di provvedere (…) all’allestimento del locale.” (ibidem).

Entrarono così  a far parte del patrimonio del Museo Civico anche decine e decine di fotografie, da allora collocate e forse dimenticate nei depositi di Palazzo Madama, sebbene ne facessero parte, insieme ad importanti esempi della migliore produzione internazionale dell’epoca, intere serie documentarie realizzate dai più autorevoli fotografi italiani: dai palazzi veneziani fotografati da Paolo Salviati alle architetture ferraresi minuziosamente descritte da Pietro Poppi (Fotografia dell’Emilia), dalla campagna documentaria sul patrimonio monumentale friulano di Antonio Sorgato alle affascinanti vedute siciliane di Giuseppe Bruno: un primo reale nucleo di collezione e di archivio fotografico di cui nessuno dei direttori successivi seppe riconoscere l’interesse e il valore.

Quelli dal 1890 furono per Avondo anni di ben diverso impegno, dedicati a questioni di ben maggiore  importanza, connesse alla necessaria separazione fisica delle due sezioni di cui era costituito il Museo. Col completamento dei lavori di adattamento della palazzina della Esposizione operaia realizzata per l’Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880 e il successivo  trasloco nell’aprile 1895 si imponeva la necessità di una revisione museografica degli allestimenti, condotta in tempi rapidissimi e che ottenne il plauso del Comitato direttivo, Sezione Arte antica, invitato da Avondo nel dicembre dello stesso anno a “fare un giro per le sale del Museo onde riconoscere il modo in cui vennero esposte le varie collezioni e anche il modo in cui furono spese le somme (…) compiuto questo giro tutti i consiglieri si congratularono vivamente col Comm. Avondo pel modo razionale ed artistico con cui le collezioni vennero ordinate.” [68] Un esito così apprezzato comportava, imponeva quasi il progetto di “una pubblicazione che illustrando il museo lo renda sempre più praticamente utile (…) e che possa apparire nella prossima Esposizione Nazionale di Torino, quale un nuovo importante documento del progresso artistico della nostra città.” (in Pettenati, 1997, p. 97) rimeditando certo su modelli stranieri ben noti, ma anche in implicita competizione con quanto andavano realizzando negli stessi anni e con identici scopi altre importanti istituzioni torinesi quali l’Armeria Reale (Cavanna 2003). Soprattutto interessante il ricorrente richiamo alla funzione di pratica utilità che ancora si riconosceva al Museo, cui non corrispondeva in quegli anni una soddisfacente affluenza di pubblico[69] e la volontà di testimoniare il “progresso artistico” torinese, in aperta contrapposizione con chi come Antonio Taramelli  ancora negli stessi anni lo giudicava fatto di pitture “molto ingenue e significanti, atte a mostrare il ritardo con cui sorsero in Piemonte le arti alla fine del secolo XV”[70], riproponendo ormai tardivamente quel vecchio  pregiudizio che, nelle parole di Francesco Gamba “da più di un decennio ci stava come un incubo sul cuore, [come] vera ingiustizia verso la patria nostra.” (in Maggio Serra, 1981, p. 29)

L’appuntamento con l’importante esposizione torinese non fu però rispettato e solo nel febbraio del 1899 la Giunta comunale di Torino approvò la proposta di Avondo di realizzare la “pubblicazione illustrativa”, col sostegno determinante del sindaco Casana che in prima persona presentava “alcune tavole in fotografia e fotocollografia per dare una idea del come sarà per riuscire l’opera.” (Delibera del 15 febbraio 1899, AMCTO CMS 23, 1900, doc. 138). Un primo parere informale venne immediatamente richiesto ad Edoardo Balbo Bertone di Sambuy, titolare di uno Studio di riproduzioni artistiche, cugino di Ernesto, già Sindaco di Torino e senatore del Regno,  che lo formulò corredandolo di interessanti osservazioni tecniche in merito alla possibilità di realizzare le riproduzioni a colori[71]; notazioni che furono sostanzialmente accolte dal Comitato direttivo della Sezione Arte applicata all’industria, presenti Avondo, Fontana e Calandra, che nel giugno del 1900 deliberava che la realizzazione “della riproduzione fotografica e quindi in fotocollografia e in cromolitografia dei migliori capi d’arte del Museo [fosse] affidata allo studio di riproduzioni artistiche di proprietà del Cav. Edoardo di Sambuy” per un totale di 85 tavole, in parte semplici (una sola riproduzione) in parte doppie (due o più per tavola), quasi tutte in fotocollografia, mentre le cromolitografie dovevano essere riservate “per le stoffe e le ceramiche”; che il n. di copie [fosse] di 250 e che “la spesa totale, comprese le copertine e la parte tipografica non [dovesse] oltrepassare la somma di L. 8740, disponibile per tale pubblicazione. (…) che la proprietà artistica [dovesse]  rimanere interamente riservata al Municipio (…)”. (Verbale del 15 giugno 1900, AMCTO CAP5, n.80).

La decisione venne successivamente fatta propria dal Consiglio comunale, ma non senza obiezioni che rivelavano chiaramente le differenti concezioni di politica culturale; così se Reycend giudicava la spesa “assai elevata” in relazione allo scopo della pubblicazione che “sarebbe veramente utile nel solo caso che potesse diffondersi largamente”, per il Sindaco Casana “il catalogo sarebbe oggetto di scambio coi principali Musei e potrebbe essere messo in vendita a collezioni complete od a tavole separate, a vantaggio degli artefici che ne avessero speciale bisogno.”[72]

Le riprese e le prime prove di stampa si susseguirono già nei primi mesi del 1901, non senza difficoltà di ordine tecnico, specie nella riproduzione delle stoffe, ma anche professionale, in particolare nei rapporti con l’ing. Molfese, imposto dal Sindaco e titolare dell’omonimo stabilimento di fototipia, che si dichiarava non disponibile a fare le copie di prova “se non gli si da l’ordinanza di tutto il lavoro, il che sarebbe sommamente imprudente.”[73] Anche le più complesse prove in cromolitografia ricevettero l’apprezzamento del Direttore e del Sindaco, sebbene proprio le difficoltà connesse alla loro realizzazione furono poi quelle che imposero, ormai nel 1903, una modifica del piano editoriale e dei tempi di realizzazione: su proposta di Avondo i soldi stanziati per la stampa delle nove cromolitografie restanti (sulle 10 previste, una essendo già stata terminata) vennero allora impiegati nella realizzazione di 32 nuove  fotocollografie monocrome “anche nella considerazione che il Museo si è nel frattempo arricchito di non pochi oggetti ben degni di essere riprodotti (…) si avrebbe così un’illustrazione del Museo di oltre 100 tavole.”[74]

La stampa venne affidata all’Eliotipia Calzolari e Ferrario di Milano, forse per il tramite di Luigi Cantù che nel 1898 aveva già avuto modo di apprezzarne la professionalità in occasione della stampa dei tre volumi dell’Armeria antica e moderna di S.M. il re d’Italia, cui si affiancava l’opera prestigiosa del veneziano Carlo Jacobi, stampatore dei sontuosi volumi delle edizioni di Ferdinando Ongania, ma i nuovi inderogabili termini di consegna fissati dalla Giunta comunale al 30 novembre 1903 vennero ampiamente superati e ancora nella primavera dell’anno successivo Avondo era costretto a richiamare Di Sambuy minacciandolo di “ricorrere al Sindaco”;  il fotografo per altro difendeva il proprio operato confermando l’avvenuta spedizione da parte di Carlo Jacobi delle ultime 30 tavole, col che si completava “la consegna di tutta l’opera. Ella vedrà che le tavole eseguite dal Jacobi sono anche più perfette della altre già consegnate.”[75]

La vigilia di Natale del 1904 la prima copia della pubblicazione dedicata al Museo Civico di Torino – Sezione Arte antica. “Cento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo, Torino, Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy”, venne presentata al Sindaco, quindi distribuita e posta in vendita dai primi mesi del nuovo anno, richiesta da studiosi e istituzioni diverse da Forrer a Bernard Berenson, dalle Scuole di Arte applicata di Venezia a  R. Agostoni, fabbricante torinese di mobili[76], adempiendo almeno in parte agli scopi del Museo ed alle intenzioni del suo Direttore che ne fece segno tangibile e strumento di conoscenza del nuovo allestimento, strutturato “per serie e per materiali” che coesistevano con quel “criterio della ricostruzione di sale ambientate secondo gli stili, definito nell’ultimo decennio dell’Ottocento «Kulturgeschichte oder Interieur Prinzip»” (Pettenati, 1997, p. 98) che – come ha precisato Michela Di Macco[77] – era già stato in parte utilizzato per la IV Esposizione nazionale di Belle Arti del 1880, tanto apprezzato da Louis Gonse e tramandato dalla bella pubblicazione[78] di cento tavole in fototipia, stampate dai Fratelli Doyen, che già restituiva questa strutturazione ostensiva per prodotti e per tipologie, affiancata da presentazioni più libere ed eterogenee di cui invece non ritroveremo più traccia nelle tavole del 1905.

Qui tutto, dalle belle riprese di Edoardo di Sambuy alla nitida stampa in fototipia e – più ancora – l’ordinata sequenza logica delle tavole è pensato per marcare il passaggio da quel “complesso di cose disparate e di poco valore” che fu il Museo delle origini alla ricchezza delle nuove collezioni ormai “degne di molta considerazione” che caratterizzavano la Sezione d’Arte Antica (applicata all’industria) all’avvio del nuovo secolo, per testimoniare  – e giustamente celebrare, anche – il percorso compiuto sotto la guida del nuovo “Direttore il pittore Vittorio Avondo.” (Museo Civico, 1905)

 

 

 

Note

 

Abbreviazioni

 

ASCTO:                   Archivio Storico della Città di Torino

ASMCT:                   Archivio storico dei Musei civici di Torino, ora Fondazione Torino Musei

FTM – GAM- FA:     Fondazione Torino Musei –Galleria civica d’Arte Moderna e Contemporanea: Fondo Avondo

FTM – PM – FA:       Fondazione Torino Musei – Palazzo Madama, Archivio: Fondo Avondo

FVA:                        Fondazione Torino Musei – Archivio fotografico: Fondo Avondo

SPABA:                   Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti – Torino

 

 [1] Nell’ormai ampia letteratura dedicata alla tutela e valorizzazione del patrimonio fotografico storico vanno segnalati almeno gli atti del convegno di Prato del novembre 2000 (Strategie 2001) ed alcuni volumi dedicati a specifici fondi o archivi fotografici come quelli di Brera (1899 un progetto di fototeca, 2000), al Fondo di Lamberto Vitali ora all’Archivio Fotografico del Castello Sforzesco a Milano (Paoli 2004) e – in un diverso contesto – al patrimonio di fotografie conservato presso la Soprintendenza per il patrimonio storico artistico di Bologna (Giudici 2004).

[2] Mollino 1949; Negro 1956; Paoli 2004.

[3] Fotografi del Piemonte 1977.

[4] Miraglia 1990 che oltre a costituire un riferimento imprescindibile per la storia e la storiografia fotografica pubblicò numerosi, importanti esemplari tratti dalle collezioni della Galleria Civica d’Arte Moderna, a partire dal preziosissimo dagherrotipo di Enrico Federico Jest, dell’8 ottobre 1839 (t.1).

[5]Mario Gabinio 1996; Mario Gabinio 2000. La prima delle due mostre, esito di un analitico progetto di catalogazione costituì anche l’occasione per la messa a punto di uno dei primi esempi italiani di accesso al fondo su supporto digitale.

[6] Cavanna 2000b; I dati quantitativi complessivi riferibili ai fototipi compresi nell’Archivio Fotografico, nella Biblioteca e nei depositi della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea (GAM) per la sola parte storica, cioè tutti quei fototipi che potevano essere considerati patrimonio storico dei Musei, indicavano una consistenza complessiva di circa 300.000 unità. Non fu invece purtroppo verificata, in quella occasione, la consistenza dei fondi fotografici conservati a Palazzo Madama né di quelli eventualmente presenti nelle collezioni dell’allora Museo di Numismatica, Etnografia, Arti Orientali. Tranne rare eccezioni i fototipi conservati si riferiscono alla documentazione del patrimonio artistico, specialmente museale e piemontese in genere, ma arricchito di una imponente documentazione più generalmente riferibile alla storia dell’arte; documentazione che trova il suo nucleo forte nel Fondo Lorenzo Rovere,  mentre le riproduzioni coeve di opere ottocentesche (Fondo Avondo, Biblioteca, Fondo Celanza) costituiscono una fonte importantissima, sostanzialmente inedita e scarsamente utilizzata per la conoscenza e lo studio del periodo. Ciò che invece costituiva un dato di novità era la presenza di una ricca e importante serie di immagini di architettura (piemontesi, italiane e non solo) che fanno dei Musei Civici uno dei più importanti archivi fotografici tematici dell’Italia settentrionale.

A questi nuclei forti vanno aggiunti quelli relativi a un ambito più propriamente fotografico, per i quali il valore referente, documentario dell’immagine forma un tutt’uno con quello espressivo: penso naturalmente a molte delle immagini costituenti i fondi Bricarelli e Gabinio, al piccolo nucleo di paesaggi romani del Fondo Avondo qui studiati, alle stampe di Vittorio Sella.

[7] Testimonia la rilevanza di queste forme di accumulo non programmato di documentazione fotografica il puro dato quantitativo di stampe di riproduzione di opere d’arte delle più diverse tipologie conservate nella parte di Fondo Avondo che qui si presenta e per la quale rimando al Regesto così come quelle – in numero ancora maggiore – recentemente ritrovate nei depositi di Palazzo Madama, sempre cronologicamente riferibili per la gran parte alla seconda metà del XIX secolo, quindi agli anni compresi tra l’istituzione del Museo (1863) e il compimento della direzione di Avondo (1910). Tale materiale, sinora mai studiato presenta certo un rilevantissimo interesse in relazione alle vicende del mondo dell’arte piemontese,e in parte italiana, in tutte le sue sfaccettature, dalla produzione al collezionismo alla museologia e costituisce l’ulteriore testimonianza dell’ invasività della fotografia nella cultura delle belle arti nell’età di Avondo; una presenza con cui ormai non si poteva non fare i conti, pur in modi e con atteggiamenti diversi a seconda dei contesti e delle situazioni: la pratica artistica ne prevedeva un uso privato, e quasi riservato, segreto – sebbene fosse per tutti i pittori dell’800 un segreto di Pulcinella – la gestione museale, pubblica, faceva del ricorso alla fotografia uno strumento indispensabile del proprio operare quando non addirittura un fiore all’occhiello, un segno di aggiornamento e di apertura, un positivo esempio di industria applicata all’arte.

[8] Maggio Serra 1977; Cavanna 1981.

[9] Ancora da studiare e comprendere i nessi tra questa proposta di Rovere e la precedente iniziativa della Società che nella seduta del 5 maggio 1904, su proposta dell’avv. Olivieri  stabiliva di pubblicare in  volume la ricca documentazione fotografica prodotta da Secondo Pia, corredandola coi testi delle conferenze svolte dai soci sugli stessi temi. A tale scopo venne istituita una commissione interna e nei mesi successivi si avviarono trattative con l’editore Bocca, mentre i soci si impegnavano a segnalare al fotografo i monumenti della provincia di Novara per “colmare le lacune che per alcuni paesi esistono nella collezione Pia.” (18-11-1904)

La ricognizione proseguì negli anni successivi toccando anche il Tortonese, soggetto di una conferenza di Pia nel marzo 1907, ma una serie di contrasti relativi alla stesura del contratto portò il fotografo a rassegnare le dimissioni dalla Società negli stessi mesi, determinando di fatto la sospensione del progetto, ora assunto dalla libreria editrice R. Streglio e C., per indisponibilità della stessa documentazione fotografica che doveva costituire il cardine della pubblicazione. (MCT/PM – Pacco SPABA)

[10] “Naturalmente io non chiedo né chiederò mai un fotografo, cercando di fare da me, e servendomi del personale del Museo. Io sono certo che in uno o due anni, con la notevole economia che si avrebbe (…) si otterrebbe che quasi tutto il fondo per l’archivio fosse, secondo la mia intenzione, rivolto, invece che a pagare le riproduzioni degli oggetti del Museo, a completare quella magnifica raccolta di lastre, illustranti i monumenti del Piemonte.” Lettera di V. Viale al Podestà di Torino, 9 giugno 1931, n. 007343, ASMCT – CAA.89 – 1931.

[11] Al momento del loro rinvenimento le stampe erano confezionate in pacchi di carta da imballo chiusi con nastri adesivi, solo in rari casi identificati in base al loro contenuto od alla loro presunta provenienza, con  scritte a pennarello sulle confezioni.

[12] Una di queste copie, con dedica autografa ad “A. Pozzi antiquario”, va verosimilmente assegnata al legato di Ettore Mentore Pozzi, 1931. Numerose altre copie delle stampe Ecclesia di Issogne sono comprese nel fondo recentemente fatto pervenire in Archivio da Palazzo Madama, per iniziativa del suo Direttore Enrica Pagella, che qui ringrazio unitamente a tutti i suoi giovani Conservatori per la disponibilità e l’aiuto che mi hanno fornito durante questa ricerca.

Interessante ed utile per la documentazione della produzione artistica – non solo di Avondo – è poi il fondo Emanuele Celanza, pervenuto per donazione alla Biblioteca Civica e da questa ai Musei nel 1951. Il Fondo raccoglie le riproduzioni di opere d’arte di autori italiani del XIX secolo utilizzate dall’editore torinese, attivo anche nel campo della pubblicistica fotografica, per la collana “I Maestri dell’Arte. Monografie di artisti moderni compilate da Francesco Sapori”, edita nel 1917 – 1921ca. Gli autori considerati sono settantadue e la documentazione, pur incompleta, costituisce un eccezionale repertorio fotografico del panorama artistico ottocentesco italiano, a volte corredato dai ritratti fotografici degli artisti, dalle prove di stampa e dai testi manoscritti del curatore.

[13] Oltre che nel fondo Avondo altre immagini appartenenti a queste serie, ma anche alla campagna Berra – Ecclesia del 1882, sono conservate in cinque distinti fondi della Galleria d’Arte Moderna e dell’Archivio fotografico, in parte provenienti da Palazzo Madama nel 1985.

[14] Significativa in tal senso l’assoluta assenza di riferimenti ad un nucleo preesistente di documentazione fotografica nei diversi progetti e programmi di volta in volta avanzati dai successori di Avondo alla direzione del Museo, da Vacchetta a Rovere a Viale, soprattutto considerando la rilevante consistenza quantitativa degli stessi: agli esemplari nominalmente costituenti il fondo Avondo  e a quelli a lui riferibili conservati nei diversi fondi citati, vanno aggiunti quelli recentemente trasferiti da Palazzo Madama all’Archivio fotografico dei Musei civici, per una consistenza complessiva di circa tremila unità. Di questo ultimo rilevantissimo nucleo (circa 1700 unità), di cui parevano essersi confuse e quasi disperse le tracce dopo il 1997, anno in cui alcune delle immagini che lo costituiscono vennero studiate e riprodotte a corredo del volume dedicato ad Avondo (Maggio Serra, Signorelli 1997) fanno parte non solo elementi che opportunamente integrano e completano serie già note (Esposizioni del 1880 e del 1890, Issogne) e in parte immediatamente riferibili al legato Avondo (Actis Caporale 1997, p.  40 nota 63), ma anche esemplari più antichi e verosimilmente riferibili ai primissimi anni di esistenza dell’istituzione museale come gli esemplari sciolti di vedute torinesi di Henri Le Lieure, tratte dall’album Turin ancien et moderne che il fotografo dedica alla città nel 1867 e di cui esiste copia nella Biblioteca, da riferirsi alla presenza di Pio Agodino,  primo direttore del museo e autore di uno dei brevi saggi che corredano il volume, dedicato alle Porte Palatine. Ulteriore e dolorosa conferma della ‘invisibilità’ prima di tutto culturale di cui hanno sofferto questi materiali che sorprendentemente solo oggi riconosciamo come importanti e preziosi è il loro attuale stato di conservazione: non solo infatti i fototipi furono sommariamente impacchettai e identificati utilizzando materiali non idonei (carta da pacchi, nastri adesivi, scritte a pennarello sulle confezioni), ma vennero poi collocati in ambienti inadatti e caratterizzati da un elevatissimo grado di umidità relativa, come dimostrano la diffusa presenza di muffe e di carte ed emulsioni incollate tra loro.

[15] FTM-PM-FA.

[16] La più recente e approfondita analisi della biografia e della figura di Avondo (Torino 1836-1910) è quella costituita dall’insieme dei saggi raccolti in Maggio Serra, Signorelli 1997, cui si rimanda.

[17] Testimonianza dei duraturi legami con il fotografo è costituita non solo dal grande numero di immagini di Duroni conservate nel fondo ma anche da una ricevuta di 500 franchi “en accompte sur son capital” da lui firmata in data 24 novembre 1869, conservata tra le carte di Avondo: MCT/ PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture.”

[18] Matteucci 1997, p. 232 nota 207. I rapporti tra i due artisti, testimoniati dal reciproco possesso di piccole opere (Maggio Serra 1999, p. 71), dovettero essere frequenti a partire proprio dal 1860, anno in cui Avondo espose alla Promotrice fiorentina, mentre nel luglio si era incontrato con Signorini, reduce da un pericoloso arresto di polizia, proprio a Torino, luogo in cui il pittore toscano tornerà ancora l’anno successivo per esporre alla Promotrice, in viaggio per Parigi (Dini 1997, p. 270) e quindi almeno ancora una volta nel 1880, in occasione del IV Congresso artistico. Un ulteriore legame tra i due era poi costituito dalla comune amicizia per Anatolio Scifoni, amico d’infanzia di Signorini, attivo a Parigi con Pittara e Pastoris nel 1864-65 e tra gli artisti i cui nomi erano elencati nella sala del castello avondiano di Lozzolo (Signorelli 1997, p.  11 nota 57), e di cui si conserva una stampa Goupil del suo Les bulles de savon, 1864 post (23×15) GAM S48 B8, con dedica ad Avondo. Ancora Signorini ricordava la “continua corrispondenza di ideali artistici con Alfredo d’Andrade per la libera scuola di Rivara in Piemonte” (Per Silvestro Lega. Firenze: Civelli, 1896) e proprio un ritratto di D’Andrade eseguito a Torino da Henri Le Lieure è ancora conservato tra le sue carte (Matteucci 1997, p. 235 nota 236)

[19] La Contessa di Castiglione, 2000. Quasi superfluo ricordare qui in quali ambienti, anche non distanti da Avondo, circolassero a Torino le sue conturbanti rappresentazioni fotografiche, realizzate con la complicità di Pierre-Louis Pierson.

[20] Giuseppe Giacosa 1908, citato in Barberi 1997, p.149. Anche il fratello Pietro ricorderà quell’occasione, con una nota conclusiva amara e per noi incomprensibile: “Non so se fu nel 1872 o nel ’73 (…) Eppure si cenò in costume quattrocentesco, e qualcuno non disdegnò di indossare maglie e corazze di ferro. (…) Fu l’ultimo sprazzo di vita di Issogne.” (Giacosa 1968, p. 12).

[21] Carandini 1925 citato in Dragone 2000, p. 74.

[22] Al banchetto offerto “A d’Andrade l’architetto/ Del Castello Medio-Evale/ Che non ebbe mai l’eguale” (G. Giacosa) “intervennero un centinaio di persone in costumi eroici, umoristici (…) Il D’Andrade, travestito da Ercole, aveva in mano una clava ed in testa il gibus.” (Torino, 1884, n. 8, p. 67), ma la stessa attrazione storicista per le rovine immediatamente trascolorava: “un castello antico è bello al lume di luna, quando gli sprazzi della luce d’argento mettono sulle sconquassate muraglie qua e la come un lenzuolo candido (…) quando le ombre fitte, i buchi nerissimi trattengono il piede spaurito, e la signora bionda, che vi sta a lato, si avviticchia a voi stretta, tremando.” (Torino, 1884, n.42, p. 334)

[23] FVA0336, con 20 ritratti di amici ed amiche di Avondo. La sequenza è aperta da un ritratto giovanile di Alfredo d’Andrade, realizzato dai Fratelli D’Alessandri nel 1862 (Bernardi, Viale 1957, p.n.n.), cui fa seguito il già citato ritratto di Avondo fatto da  Carlo Duroni, quindi Ernesto Bertea, e Antenore Soldi tra gli altri, mentre tra i ritratti non in album vanno almeno segnalati quelli di Giuseppe Giacosa, Ferdinando di Breme, Lorenzo Delleani e Vincenzo Vela, ma anche in una rete più ampia di conoscenze quelli di Galileo Ferraris e di Giosué Carducci, questo da mettere forse in relazione con la visita del poeta ad Issogne (Signorelli 1997, p. 18), risalente alla sua prima visita in Valle d’Aosta nel 1889.

[24] Una vera foto di gruppo fu quella realizzata molto più tardi, il 30 maggio 1909 raccogliendo sulla scalinata del castello di Fenis Avondo e D’Andrade, i fratelli Boito e Melchiorre Pulciano, ma anche i più giovani Cesare Bertea, Ottavio Germano ed altri, cfr. Carandini 1925, p. 49.

[25] Ceresa, Mosca, Siccardi 2001, p. 73 passim.

[26] Su Luigi Cantù, “Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista, Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, membro del Circolo degli Artisti  – di cui documenta fotograficamente l’inaugurazione umoristica dell’Esposizione del 1886 (ASCTO, Nuove acquisizioni, C6/1 – DA 1086-88) –  e tra i promotori della Società Fotografica Subalpina nel 1899, si vedano le notizie riportate in Stella 1893, pp. 596-597, che lo descrive impegnato nei diversi ambiti della pittura, dell’illustrazione araldica e del “restauro” (“ripulì e ritoccò, coi migliori metodi oggi usati, parecchie antiche tavole e dipinti sui muri, per collezioni private”), ma anche come “fotografo [che] si dedicò al ritratto e alle riproduzioni di opere d’arte, acquistando fama di specialista abilissimo”, sebbene oggi queste sue abilità siano testimoniate solo da rari esemplari. Altre segnalazioni della sua presenza in Miraglia 1990, p. 368; Reteuna 1997, p. 60; Società 1999, pp.14-16. Per il ruolo da lui svolto nella realizzazione dei volumi dedicati all’ Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino editi a Milano dall’ Eliotipia Calzolari e Ferrario nel 1898,  con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna, rimando a Cavanna 2003, pp. 96-97.

[27] Dopo la morte del titolare nello stesso 1908, la moglie Clarice scriveva ad Avondo, su carta intestata “Photochromatographie Bertieri/ rue du Po, 25 Turin”: “Ill.mo Sig. Comm.re/ memore dell’antica amicizia che legava V.S. al povero defunto mio marito Cav.re Oreste Bertieri pregiami farle noto che ho riattivato lo studio fotografico provvedendomi di personale speciale che valga a mantenere alto il nome.”, MCT/ PM- FVA, m. D, “Corrispondenza”, lettera del 23-12-1908.

[28] Bernardi 1936,  p.n.n. Un ritratto carte de visite di Alexandre Calame, con quelli di Antonio Fontanesi, Ernesto Bertea ed altri, è compreso tra le carte di uno dei meno entusiasti calamisti piemontesi quale fu Alfredo d’Andrade (Bernardi, Viale 1957).

[29] Vero è che nel fondo documentario Avondo nulla conferma questo dato ma, per intanto, neppure vi è nulla che lo smentisca (come una sua eventuale presenza in altri luoghi) né le condizioni generali in cui ci è pervenuto consentono di garantirne la consistenza originaria. È appena il caso di ricordare qui che tra i visitatori di quell’Esposizione e della mostra dei pittori di Barbizon (e chissà se anche del “Pavillon du réalisme” di Courbet) vi furono – oltre a D’Andrade – anche Saverio Altamura e Nino Costa che sarà uno dei riferimenti di Avondo durante il suo soggiorno romano, di poco successivo.

[30] Sono due ritratti maschili  e due femminili, non tutti identificati realizzati rispettivamente da Benque (FVA0132), Tourtin (FVA0336.3), Disderi (FVA0336.5) e Ladrey (FVA0349). Pur considerando che, data la loro circolazione, il luogo di realizzazione non debba per forza coincidere con quello dell’acquisizione, come dimostra proprio il caso di Bertea, la loro presenza (specialmente quella dei ritratti femminili) costituisce a mio parere l’indizio piuttosto forte di una frequentazione parigina di Avondo.

[31] Immagini dell’Oberland bernese, all’epoca ancora in una fase di esplorazioni pionieristiche, furono presentate all’Esposizione universale di Parigi del 1855 dai Fratelli Bisson, accanto a quelle realizzate in Alvernia da  Edouard Baldus, ma il lavoro  fotografico che destò maggior sensazione fu la veduta panoramica in dodici parti del massiccio del Monte Bianco ripreso da La Flégère, per una lunghezza totale di due metri, realizzata  da Friedrich von Martens. (Infinitamente 2004).

[32] Maggio Serra 1997, cui si deve la prima fondamentale considerazione filologica e critica della produzione grafica, in precedenti occasioni illustrata a partire da pure considerazioni stilistiche (Thovez 1912; Bernardi 1936; Cremona 1946).

In particolare si deve alla studiosa la più che convincente attribuzione di alcuni degli album ad un autore diverso da Avondo, essendo “il nome che viene alle labbra” quello di Enrico Gamba. In forse restava l’assegnazione di altri due taccuini, il n.12 e il n. 8 “nel quale i disegni di architettura non hanno la nitidezza di quelli di Gamba e che diremmo perciò di Avondo (…) se non ci mettessero in dubbio un lungo appunto di lettura strettamente tecnica dei dipinti fiorentini e un elenco di persone cui l’autore donò la fotografia di un dipinto di Tiziano non identificato” (Maggio Serra 1997, p. 67). Una più attenta riconsiderazione di questo appunto al foglio 85 verso, con l’elenco delle persone amiche cui l’autore aveva destinato più copie ciascuno della riproduzione fotografica dell’opera in questione – di cui un esemplare è presente anche nel fondo Avondo – mi porta a ritenere che non si trattasse tanto di “un dipinto di Tiziano non identificato”, quanto piuttosto de I funerali di Tiziano, cioè del più noto dipinto di Gamba, confermando così l’attribuzione anche di quest’ultimo album.

Quanto alle ragioni per cui questi cinque taccuini siano stati conservati congiuntamente agli analoghi di Avondo, pur non escludendo la possibilità che siano stati “forse ottenuti in prestito da Avondo” o che “forse derivano da viaggi comuni”, io non tralascerei l’ipotesi che questa commistione possa più banalmente derivare da una storia archivistica non sempre chiara e documentata, come dimostra del resto la stessa vicenda del fondo fotografico Avondo.

[33] Una Testa di Bufalo, ad olio, di George Hemming Mason e due litografie di  Charles Coleman (FA Grf486-487), tratte da A series of subjects peculiar to the Campagna of Rome and Pontine Marshes designed from nature and etched by C. Coleman, Rome, 1850, album di 74 fogli con 53 tavole (De Rosa, Trastulli 1988).

[34] Da Claude Lorrain e Nicolas Poussin, insieme nei primi decenni del ‘600, sino a Turner e Corot, la bibliografia è ormai molto ampia e di livello diverso; si vedano almeno Corot 1994; Galassi 1994; In the Light of Italy 1996, La Campagna romana 2001.

[35] Becchetti 1983; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Miraglia 2003; Roma 1850 2003.

[36] Si rimanda qui ai noti saggi raccolti in Schwarz 1992 ed alla prima sintesi organica di Scharf 1979, senza voler dimenticare l’assoluta novità italiana della sintesi storica contenuta ne Il messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, 1949 [1950], che ampliava sostanzialmente gli orizzonti da noi pionieristicamente delineati da Lamberto Vitali nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento (Paoli 2004).

[37] Telemaco Signorini, Cose d’arte, 1874, citato in Bordini 1991, p. 595. In ambito locale un riconoscimento del ruolo ausiliario della fotografia era venuto  da Federico Pastoris, che in un commento pubblicato nell’ Album della Promotrice del 1862, quindi in un contesto sostanzialmente tradizionalista, aveva riconosciuto quanto questa potesse servire “a cercare [la] verità. […] Per cui io credo che la fotografia, invece di nuocere alla pittura, possa giovarle, nel senso che facilita agli artisti i mezzi d’imitazione”, citato in Reteuna 1991, p. 34. Un nuovo importante contributo per la conoscenza dei rapporti storicamente intercorsi tra pittura e fotografia nel corso del XIX secolo è quello recentemente fornito da Marina Miraglia 2005.

[38] Come risulta dalla testimonianza di Telemaco Signorini in Silvestro Lega, Firenze, 1896, ma anche nell’opinione di Diego Martelli. Il metodo non era in sé nuovo, anzi largamente praticato nello studio del paesaggio almeno a partire dal XVII secolo, significativa ne è semmai la sua attualizzazione. Quanto all’interesse degli artisti ottocenteschi per le tecniche fotografiche va almeno ricordato, sebbene avesse implicazioni diverse, l’uso del cliché-verre da parte di artisti come Corot e Fontanesi, cfr. Corot 1994; Cavanna 1997.

Altamura venne a Torino per presentare il dipinto Excelsior, oggi ai Musei Civici, all’Esposizione del 1880, fermandosi in città per ben quattro mesi durante i quali si incontrò con De Amicis, Giacosa e Fontana, ma – apparentemente – non con  Avondo (Simone 1965, p. 55) sebbene in questo fondo sia conservato un suo bel ritratto fotografico che è stato accostato al Ritratto di Eleuterio Pagliano, 1850 ca, di Luigi Sacchi da Cassanelli 1998: sch. I. 4, pp.148-149.

[39] Wey 1851. Opinione condivisa da Gustave Le Gray (Photographie: nouveau traité, 1852) : “à mon point de vue, la beauté artistique d’une épreuve photographique consiste au contraire presque toujours dans le sacrifice de certains détails, de manière à produire une mise à l’effet  qui va quelquefois jusqu’au sublime de l’art » (citato in Aubenas 2002, p.  48). Il riferimento insistito in questi testi al “sacrifice” richiama esplicitamente la teoria in onore tra i pittori francesi e che Delacroix, tra i più attenti ad un uso positivo della fotografia, aveva applicato alla fotografia e in particolare proprio al calotipo: “Les photographies qui saisissent davantage sont celles où l’imperfection même du procédé pour rendre de manière absolue, lasse certaines imperfections, certain repos pour l’œil qui lui permettent de ne se pas fixer que sur un petit nombre d’objets.” (dal “Journal”, 1859, citato in Challe 1996, p. 24). Anche per Rosalind Krauss (1996, p. 57) “I calotipi degli anni 1850 che conosciamo assomigliano sorprendentemente alle pitture di Daubingy. Sappiamo che Daubigny e gli altri pittori della Scuola di Barbizon erano rimasti sbalorditi dalla fotografia e ci rendiamo conto che devono averne tratte le conseguenze.” Per una presentazione dettagliata di queste immagini si rimanda a Challe, Marbot 1991.

[40] Senza poter entrare nel merito dei problemi sollevati da queste produzioni non possiamo che sottoscrivere l’opinione di Michel Frizot 1994, p. 83:  “anche quando il fotografo si pone al servizio del pittore non si tratta di pura imitazione servile dei luoghi comuni naturalisti. Il fotografo crea un’immagine di tipo nuovo, di cui non si ritroverà che superficialmente l’equivalente pittorico, disegnato o inciso.”

[41] Le Dien frequenta e fotografa gli stessi luoghi di Caneva: il Tevere (o l’Aniene) a nord di Roma, la passeggiata detta “del Poussin”, gli ulivi sulla strada di Tivoli ecc., forse sollecitato dai suoi due compagni di viaggio, i pittori Léon Gérard e Alexandre de Vonne (Aubenas 2002, p. 297); recentemente gli è stata attribuita una carta salata delle collezioni del Musée d’Orsay, Paysage à Rome ,1852 – 1853, già assegnata a Caneva (Heilbrun 2004, t.8).

[42] Scrive il 14 marzo 1844 all’abate padovano Pier Antonio Meneghelli: “Vado eseguendo piccoli quadretti di commercio” e ancora, nel Natale dello stesso anno “Ho apparecchiato delle piccole cosette in carta in tela come bozzetti, sperando nella concorrenza de forestieri d’inverno.” Citato in Vanzella 1997, pp. 40; 43.

[43] Miraglia 2003, p. 574, sch. XI.5.12. A partire dai primi fondamentali studi di Piero Becchetti del 1983, la figura dell’autore padovano è andata via via assumendo sempre maggior rilievo e dettaglio sino a costituire la presenza più rilevante tra i fotografi della Scuola romana, ormai ampiamente studiata (Becchetti 1983a – 1983b; Pittori fotografi 1987; Caneva 1989; Becchetti 1994; Vanzella 1997; Rampin 2001; Roma 1850 2003, Gasparini 2005), sebbene – come rileva Miraglia nel saggio citato – dedicando ancora, purtroppo, scarsa o nulla attenzione alla sua produzione di studi di campagna romana e di paesaggi di dettaglio, che pure sono di qualità altissima ed ebbero già all’epoca vasta considerazione e diffusione come dimostrano non solo le stampe acquistate da Avondo ma anche l’opinione di altri fotografi quali Luigi Sacchi che riconosceva a Caneva “oltre la grandissima sua capacità in questa nuova arte, (…) il talento di rinomato pittore” – “L’Artista”, 1 (1859), n. 2, 12 gennaio, p.16, citato in Cassanelli 1998, pp. 156-157 –  e la presenza di esemplari delle sue stampe nelle raccolte di artisti come il reggiano Alessandro Prampolini (Gasparini 2005) o il francese Théophile Chauvel (1831-1910), pittore del gruppo di Barbizon, ma anche autore di fotografie e membro fondatore della Societé Française de Photographie, (Heilbrun 2004: 19) che, alla pari di Corot,   possedeva una ricca collezione di fotografie, in parte pubblicata in Calle, Nèagu 1988. Ad ulteriore conferma di indizi per una ricerca ancora in gran parte da svolgere basti ricordare che nella testimonianza di L. Celentano (1883) Michele Cammarano cercava fotografie “specialmente di alberi e qualche dettaglio di pietra, da poter studiare guardandole, confidandogli che allora d’altro non si consigliava che della fotografia.”( Bordini 1991, p. 586) Per la circolazione internazionale di modelli o soggetti fotografici per pittori va ricordato ad esempio che  Bringing Home the May di Henry Peach Robinson, 1862, era in vendita a Milano da Spagliardi & Silo (Paoli 2004, p. 158), mentre per quanto riguarda la contraddittorietà e la scarsa intelligenza critica dei rapporti pittura-fotografia degli autori coevi basti qui richiamare una posizione come quella di Pietro Selvatico, certo ben nota proprio a Torino, che nel 1871 dalle pagine de “L’Arte in Italia” attaccava il metodo di insegnamento fontanesiano curiosamente contrapponendogli quello adottato da “tal professore [sic] Domenico Bresolin all’Accademia di Venezia, cioè la copia da un album di fotografie del tedesco Robert Kummel, utilissimo «a chi si avvia al paesaggio, come eccellente grammatica».” (Maggio Serra 1988, p. 101) Sul ruolo determinante di Bresolin, tra i più importanti protofotografi italiani, nella definizione del paesaggismo veneto di secondo Ottocento, lui docente  all’Accademia veneziana dal 1864  avendo come allievi pittori quali G. Ciardi, G. Favretto, L. Nono ed altri, cfr. Prandi  1979, mentre più in generale sulla sua figura si vedano la bibliografia citata in Cassanelli 1998, p. 46 nota 29 e Paoli 2000.

[44] Di tutt’altro avviso un autore di formazione e cultura affatto diverse come Giuseppe Venanzio Sella, per il quale invece “le immagini positive tirate dalle negative su carta rimangono sempre più o meno confuse ed indistinte.” (Sella 1856, qui citato dalla seconda edizione, 1863, p. 11).

[45] V. Turletti, Rivista artistica, in “Serate Italiane”, 1 (1874), n. 4, 25 gennaio, p. 61, citato in Maggio Serra 1988, p. 101; di analogo tenore il commento del 1873 firmato A.B. a proposito di Tevere: “Che luce, che cielo smagliante, quella volta immensa e nuvolosa ma risplendente sembra colla descrizione della vasta sua parabola accrescere gli spazi di quell’immensa provincia romana nuda ed imponente di cui  non vediamo sul quadro che le sole prime linee.” (citato in Signorelli 1997, p. 18 , nota 60).

[46] Il piccolo disegno a carboncino è inventariato col n. fl/623 e potrebbe essere a sua volta una parziale rielaborazione di elementi presenti in alcune stampe fotografiche del Fondo (Vigna S. Stefano), mentre il piccolo olio può essere utilmente confrontato col disegno pubblicato in Cremona 1946, p. XIX; per Degas cfr. Galassi 1994, t. 280).

[47] Devo qui segnalare  la presenza di due stampe fotografiche che paiono essere in scarsa se non nulla relazione con gli interessi pittorici di Avondo: si tratta di una donna in costume laziale (FVA 605) soggetto non estraneo ma certo da lui poco praticato, ed un bellissimo nudo di schiena, conservato tra le carte personali (PM/FA, m.B – N, busta “Città di Torino”) di cui non si trova riscontro nell’opera grafica o pittorica.

[48] [Valenti], Nuova raccolta/ dei principali Costumi di Roma / e suoi contorni, Roma, Presso l’Editore e Calcografo Tommaso Cuccioni Negoziante di Stampe ed Oggetti di Belle Arti, via della Croce n.88, s.d. [1850 ca].

[49] Già nel 1953 Silvio Negro segnalava la consuetudine, che faceva risalire proprio a Cuccioni, di utilizzare “pescatori con la lenza messi in pose  suggestive nei punti più panoramici del Tevere”, citato in  Paoli 2004,  sch. 83 a firma Marina Gnocchi, che descrive analiticamente una fotografia di soggetto analogo, dovuta ad un fotografo non identificato da confrontare, tra le altre, con Altobelli e Molins, Il Tevere a Castel Sant’Angelo, 1862ca in Becchetti 2003, p. 38.

[50] La fotografia, conservata nella collezione Cianfarani Negro, venne pubblicata in Negro 1964, p. 212, cui si deve anche il commento sulla fortuna del soggetto.

[51] Nel 1894 Alberto Pasini  dedicherà “All’amico V. Avondo” il suo Interno del maniero di Issogne, Torino, GAM (Dragone 2000, p. 304), mentre altri autori come Vittorio Cavalleri indagheranno il soggetto ancora nei primi anni del ‘900, continuando a riscuotere l’interesse di Avondo (Maggio Serra 1993,  190, scheda di Caterina Thellung de Courtelary).

[52] Su G.B. Berra (Chivasso 1881 – Torino 1894), titolare dello studio Fotografia Subalpina cfr. Miraglia 1990, p. 358; Cavanna 2003; La borghesia 2004, p. 123. Il fotografo, e pittore, era in stretta relazione con le maggiori istituzioni culturali torinesi quali la Società Promotrice delle Belle Arti e l’Armeria Reale, da cui nel 1874 aveva ricevuto l’incarico di produrre alcune prove di riprese fotografiche e di cui pubblicherà un ampio catalogo fotografico proprio nel 1882,  mentre nel 1880 aveva realizzato il grande album dedicato alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti,  dedicandolo a Umberto I. Sarà ancora lui, ormai alla fine della propria vita, a realizzare nel 1892 l’album con le riproduzioni fotografiche dei bozzetti del concorso per il Monumento nazionale al Principe Amedeo che il Comitato esecutivo aveva offerto ai membri della giuria (FVA0300).

[53] Vittorio Ecclesia (Pieve di Scalenghe 1847 – Asti 1928), trasferitosi da pochi anni da Torino ad Asti doveva certo essersi segnalato per la qualità delle riprese di architettura comprese nell’album dedicato a questa città (1878) e per la bella serie di immagini dedicate negli anni immediatamente successivi ad altri monumenti del Monferrato quali il Duomo di Casale e Santa Maria di Vezzolano, cui si devono forse le due medaglie conquistate a Napoli nel 1878 ed a Milano nel 1881 (Miraglia 1990, p. 379).

[54] Cavanna 2000a. La richiesta ministeriale ai Prefetti comportava di acquistare o “al caso far eseguire in doppia copia le fotografie corrispondenti, cercando di averle di dimensioni il più possibili uniformi e prossime a 0,30 x 0,40.” A Caselli si deve – credo –  il suggerimento di inserire nelle riprese di edifici una stadia come riferimento metrico, così come appare proprio nelle immagini valdostane di Ecclesia.

[55] Barberi 1999, p.  93 nota 111. Le fotografie realizzate nel corso di questa campagna,  conclusasi nel dicembre del 1882 furono presentate nella specifica sezione dell’Esposizione Generale Italiana del 1884, e poi ancora – per iniziativa ministeriale – nel salone centrale dell’Esposizione di architettura del 1890 (Volpiano 1999, p. 59). Parte di queste immagini è oggi conservata presso l’Archivio fotografico dei Musei Civici di Torino, parte presso l’archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio del Piemonte.

[56] Atto del 22 dicembre 1882, MCT- PM, FA m. E.

[57] Nella copia dedicata “Al Preg.mo Dottore Rovere” il dedicante si definisce esplicitamente quale “ristauratore del Castello”. Quasi superfluo ricordare che una tale precisa intenzione documentaria ed esplicitamente celebrativa condotta con la complicità di Giacosa, questa accurata e lunga messa a punto di un autoritratto in forma di castello che fu l’intera operazione di Issogne, questo intreccio di sentimenti e culture dell’abitare che richiama alla mente l’opera di una vita di Mario Praz, non si espresse in forme neppure lontanamente paragonabili nelle poche occasioni in cui il ruolo di Avondo fu quello di consulente, come per Palazzo Silva a Domodossola o Casa Cavassa a Saluzzo, ma neppure per il castello di Lozzolo, cui pure fu molto legato negli anni giovanili ma di cui non si conserva nel fondo neppure un’immagine.

[58] Contratto del 12 gennaio 1884, MCT- PM- FVA, m. L, n.132; come risulta da una nota del 29 marzo successivo Ecclesia aveva impiegato sette giorni , coadiuvato dal custode del castello, per realizzare le 72 riprese (36 grandi, 36 piccole) del castello; le spese vive totali ammontavano a L. 311,50 (MCT- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”). Una seconda ricchissima campagna documentaria del castello e dei suoi arredi, con immagini di grande qualità, raccolta in un album Alfieri e Lacroix oggi compreso nel Fondo Avondo (FVA570) quale evidente esito di una integrazione successiva, sarà condotta nel 1935-36 verosimilmente in relazione con le iniziative assunte da Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, il quale “animato da una nuova ondata di passione medievalista a sfondo littorio”  (Barberi 1999, a cui si rimanda per la ricostruzione dell’intera vicenda) aveva elaborato un ambizioso progetto relativo ai castelli valdostani, che per Issogne prevedeva oltre al restauro (sciagurato) degli affreschi, anche che “tutti gli ambienti [fossero] restaurati e convenientemente arredati” (Bruno Molaioli 1936), con la graduale sostituzione “dell’arredamento di imitazione antica con mobili originali” (Carlo Aru 1936), ciò che potrebbe rendere ragione della ricca documentazione di arredi, anche del Museo Civico, nelle pagine dell’album.

[59] FTM- PM- FVA, cartella “Conti – ricevute – fatture”. Che gli album avessero edizioni anche molto diverse tra loro, e non solo per il formato, è confermato dal confronto tra i diversi esemplari conservati presso la Biblioteca della Fondazione Torino Musei;  non solo varia l’ordine delle tavole, ma vengono utilizzate stampe tratte da negativi anche significativamente diversi relativi allo stesso ambiente: la Parte del cortile col pozzo (t. IV), che nell’edizione in piccolo formato presenta un uomo in costume da armigero poggiato alla fontana del melograno, risulta assolutamente spopolata nella versione in formato maggiore, mentre in altri casi muta la disposizione degli arredi secondari o il momento della ripresa, con conseguente diversa illuminazione, senza che per ora sia possibile stabilire una dettagliata cronologia delle singole riprese.

[60] Nota del gennaio 1889, MCT- PM- FVA, m. E. Ancora nel 1898 Ecclesia scriveva ad Avondo per chiedergli l’autorizzazione ad esporre per la vendita le fotografie di Issogne all’Esposizione “visto che nella speculazione fatta (…) ci abbiamo rimesso specialmente io che più nulla mi rimane” (Lettera del 13 aprile 1898, MCT-PM- FVA, m.L, n.60), ma la querelle dovette proseguire ancora a lungo se nel 1910, per ovviare al contenzioso, le fotografie vennero consegnate alla Soprintendenza torinese (Barberi 1999, p. 93, nota 111).

[61] Le immagini ebbero un successo notevole: vennero riproposte sulle pagine de “La Fotografia Artistica” del giugno-luglio 1911 poi ancora in parte riprese da Carlo Nigra nella sua pubblicazione del 1934 dedicata al cinquantenario della realizzazione del Borgo Medievale, pur omettendone la paternità.

[62] Questa tradizione, molto piemontese, proseguirà ben oltre le raffinate ambientazioni pittorialiste di Guido Rey sino a comparire, singolarmente, nella produzione di un fotografo di cultura modernista come Riccardo Moncalvo che ancora nel 1938 fotograferà con tenero sentimentalismo due ragazze in costume nei castelli di Fenis e di Issogne (Moncalvo 1997).

[63] La visita a Issogne era connessa all’incarico di consulente per gli interni  e gli arredi avuto dall’architetto Bodo Ebhardt, responsabile del vistoso restauro stilistico del castello di Haut-Koenigsbourg in Alsazia. Su Forrer, archeologo con interessi antiquariali, direttore del Museo Archeologico di Strasburgo dal 1907 al 1940,  autore di numerosissime  pubblicazioni illustrate e albi, compresi nel Fondo Rovere della Biblioteca della Fondazione Torino Musei ma in parte risultato di scambio con la pubblicazione del 1905, rimando alla fondamentale monografia di Bernadette Schnitzler 1999, che qui ringrazio per avermi fornito preziosissime indicazioni relative al ruolo dello studioso. Di tutt’altro tenore le considerazione di un altro illustre corrispondente di Avondo, Luigi Palma di Cesnola, che in una lettera del luglio 1901 per molti versi adulatrice (“Ho bisogno che un artista come Lei che è universalmente riconosciuto, mi consigli”) gli ricordava come “Qui, di vecchi Castelli né di nuovi, esistono; tutto è democratico.” (PM- FVA, m. A).

[64] Il 2 gennaio 1902 la Libreria Clausen pagava ad Avondo L.40 per una copia dell’album Ecclesia (L.30) e “L. 10 pel Forrer, che è il suo vero prezzo ordinando l’esemplare in Germania, e che non dubito Ella vorrà rilasciarmi all’identica condizione” (MCT- PM- FVA, m. A), ma pare che anche questa pubblicazione avesse – ancora una volta – scarsa circolazione se un addetto ai lavori come Charles Chauvet, redattore e disegnatore de “L’Art pour tous” ricordando l’incontro torinese del 1898 con “l’homme sympathique, l’artiste, l’érudit qui est le directeur, M. le commandeur Avondo”, cui doveva la sua scoperta di Issogne e la possibilità “de rapporter en France, la quasi découverte d’une architecture, de decorations peintes inattendues sur le sol italien” (Chauvet 1901) mostrava di conoscere il testo di Giacosa ma non quello di Forrer. Il periodico, fondato nel 1861 da émile Reiber, ospitò dal 1898 molte tavole relative ad oggetti del Museo, disegnati da Chauvet proprio in occasione della visita compiuta a Torino per le Esposizioni di quell’anno.

[65] Esposizione 1880, i cui scopi – come ricordava Mario Michela nella presentazione – furono quelli di “raccogliere le reliquie della antica Arte sparse e nascoste per queste vecchie provincie; scuotere la polvere obliosa di nomi ingiustamente dimenticati.”  In quella occasione Avondo mise a disposizione una ventina di opere dalle sue collezioni di armi, arredi, tessuti e oreficerie, tra cui il reliquiario di Giorgio di Challant per la chiesa di Verrès (Sala III, vetrina A n.7).

[66] Per una prima ricostruzione di queste vicende mi sono avvalso di quanto pubblicato in Collegio Architetti 1887; Volpiano 1999, cui rimando per ogni citazione successiva, salvo diversa indicazione.

[67] Uno studioso autorevole come Daniele Donghi stigmatizzava il comportamento di “molti architetti, dilettanti fotografi, [che] preferiscono servirsi di quest’arte nei loro studi a preferenza del rilievo manuale, il quale purtroppo trascurano” (Donghi 1891, p. 18). Diverso il parere di Giovanni Sacheri, per il quale “ciò che dà la nota caratteristica di questa esposizione è addirittura il trionfo della fotografia applicata alla rappresentazione degli edifici. Quanti Architetti si sono limitati a mandare vedute fotografiche delle loro opere!” (Volpiano 1999, p. 99); già alcuni anni prima (1883) Sacheri  si era espresso contro l’utilità del rilievo grafico “quando si ha comodità di ottenere grandi fotografie e numerose di qualunque edifizio, tali da poterne illustrare l’insieme ed i particolari coll’esattezza che si desidera, con pochissimo tempo e piccole spese” (ivi, p. 32) concordando in questo con l’opinione di molti critici e studiosi coevi.

[68] AMCTO CAP5, n.65 Verbale del 23-12-1895, sottolineatura nostra.

[69] Novara 1992, p. 255; l’attenzione per la comunicazione museale e per una più vasta divulgazione della conoscenza del suo patrimonio è testimoniata da una serie di cartoline in fototipia conservate nel fondo, tra cui il dipinto di V. Marinelli, Ferrante Catara porta in trionfo per Napoli Masaniello.

[70]Taramelli 1898. Il permanere di questo “radicato sospetto del ritardo pedemontano [che] frena anche i più battaglieri” è stato riconosciuto da Giovanni Romano 1988, p. 23.

[71] “Volendosi fare alcune tavole a colori si potrebbe ricorrere alla tricromia: ma questa, per quanto fedele, non conviene per tirature  così limitate. (…) Io proporrei invece di eseguire le dette tavole in cromolitografia a tinte piatte servendosi pei calchi della fotografia.” (Lettera dell’11 novembre 1899, AMCTO CMS 23)

[72] AMCTO CMS 23, 1900, XLII. Anche altri interventi rimarcarono il carattere elitario della pubblicazione in 250 copie, mentre alcuni consiglieri come Carlo Ceppi esprimevano dubbi “anche sul modo della pubblicazione perché le maioliche, i vetri, le stoffe ed altri oggetti a colori non si possono rappresentare colle sole risorse della fotografia.” Luigi Cantù, certo sulla scia dell’esperienza raggiunta con la curatela tecnica dell’analoga pubblicazione dell’Armeria Reale confermava infine che le lastre utilizzate dal Di Sambuy, nei due formati 18×24 o 24×30, sarebbero rimaste di proprietà del Municipio, secondo quanto meglio specificato dalla successiva scrittura privata di affidamento d’incarico che al punto 4° prevedeva: “Il presente contratto essendo stipulato per semplice locazione di opera e non altrimenti il Municipio intende rimanga interamente riservata a sé la proprietà artistica dell’opera completa, delle lastre fotografiche e delle riproduzioni che se ne potranno trarre con qualsiasi sistema e la custodia delle lastre viene affidata alla Direzione del Museo a cui verranno consegnate dal Nobile Sambuy ad opera compiuta debitamente assestate in apposite cassette scanalate, chiuse a chiave e sigillate col sigillo del prefato Nobile di Sambuy” 5° “Ad opera ultimata le pietre litografiche che servirono per le riproduzioni delle tavole in cromo saranno cancellate alla presenza del Direttore del Museo e del Nobile di Sambuy, a meno che il Municipio di Torino non intenda acquistarle al prezzo di costo della pura pietra”  6° “Nel frontespizio dell’opera (…) sarà indicato come esecutore delle riproduzioni lo studio di riproduzioni artistiche del Nobile di Sambuy”. (AMCTO CMS 23, 15 marzo 1901)  In quegli stessi giorni il Direttore riceveva da Luigi Palma di Cesnola, la conferma dell’invio di “una cassetta contenente le fotografie dei principali quadri esposti nel Metropolitan Museum” (PM- FVA, m. B.N. n.252) “dalle quali potrà farsi un idea [sic] più chiara della raccolta di oggetti d’arte che questo Museo possiede, il valore totale delle quali, in danaro costano e rappresentano sessantadue milioni di lire italiane.” (PM- FVA, m. B.N. n. 117), ma allo stato attuale non è rimasta traccia di tale invio.

[73] AMCTO CMS 23, Lettera del 9 gennaio 1901. Nel 1896 alla Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56, era stato affidato l’incarico di stampa dei tre volumi illustrati dell’Armeria Reale, poi realizzati dallo stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, per sopraggiunti insanabili contrasti tra il contitolare Alberto Charvet  e Giovanni Assale, responsabile delle riprese realizzate dallo Studio Berra (Cavanna 2003).

[74] AMCTO CAA 32.3  Lettera del 13 luglio 1903.

[75] AMCTO CAA 32.4 Lettera del 31-3-1904. I lunghi tempi di realizzazione erano anche dovuti alle caratteristiche intrinseche del procedimento adottato; nell’ottobre del 1903 Calzolari e Ferrario avevano a loro volta richiesto una sollecita approvazione per poter procedere coi lavori “stante che i nostri fototipi essendo a base di gelatina  influiscono molto [sic] come igrometro al tempo pessimo che siamo e che continuerà.” Ancora nel novembre successivo osservavano che “se il sole si fa desiderare non vorremmo pregiudicare la perfetta riuscita del lavoro per accelerare la consegna di qualche settimana.” AMCTO CMS 23, Memorandum del 29-10-1903; AMCTO CMS 23 Lettera del 27-11-1903.

[76] AMCTO CAA 37.1, “Pubblicazione illustrata – Copie spedite – Riscossioni e versamenti”. Non risulta tra gli acquirenti il nome di Alfredo Melani che nel 1902 aveva scritto ad Avondo per ottenere alcune fotografie degli oggetti del museo essendo stato avvertito da Bertea del catalogo in preparazione, riproduzioni che a lui sarebbero servite  per la preparazione del volume dedicato alla Storia dell’Industria artistica che “uscirà a fascicoli fra molto tempo”; richiedeva inoltre l’invio – a suo tempo – del Catalogo “per metterlo in evidenza o nell’”Arte Italiana”   o in qualche Rivista Estera (…) Abbiamo molti amici in comune: il Boito, il D’Andrade, il Giacosa, il Reycend da cui potevo farmi presentare; e scusi se sono andato così per le spicce.” Avondo rispose con grande sollecitudine ma con altrettanta freddezza ricordando che Di Sambuy ne “ha la proprietà artistica” e che per quanto riguardava l’invio del volume avrebbe potuto a suo tempo “dirigersi al Sindaco per averne una copia”. (AMCTO CAA 32.2 Lettere del 23 e 24 marzo 1902) Gli accordi con Di Sambuy non avevano però impedito ad Avondo, negli stessi giorni, di concedere a Secondo Pia di fotografare “vari oggetti esistenti nel Museo Civico” per illustrare una conferenza dell’Avv. Rondolino su Torino Medievale. (AMCTO CAA 32.2 Lettera del 21-3-1902).

[77] Di Macco 1997, p. 52, ha parlato a questo proposito di “modelli espositivi (messi a punto più tardi in sede museale).”

[78] Avondo svolse un ruolo importante nei confronti dell’Esposizione non solo come organizzatore e prestatore ma anche quale membro del Comitato per la pubblicazione illustrata. Degli scambi e suggerimenti di oggetti intercorsi tra i diversi membri del Comitato promotore resta traccia in una fotografia di una delle porte del castello di Lagnasco, esposta in mostra, compresa tra le immagini del fondo con dedica di Emanuele d’Azeglio allo stesso Avondo.

 

 

 

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Pierangelo Cavanna, Un’astratta fedeltà. Le campagne di documentazione fotografica 1858 – 1898, in Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837 – 1898, catalogo della mostra (Torino 2003 – 2004), a cura di Paolo Venturoli. Torino: Umberto Allemandi & C., 2003, pp. 79-98

 

Ceresa, Mosca, Siccardi        2001

Carla Ceresa, Valeria Mosca, Daniela Siccardi, a cura di, Archivio dei Musei Civici di Torino. Inventario 1862-1965. Torino: Città di Torino, 2001

 

Challe 1996

Daniel Challe, Eugène Cuvelier ou le légendaire de la forêt, in Gauss 1996, pp. 16-66

 

Challe, Marbot 1991

Daniel Challe, Bernard Marbot, Les photographes de Barbizon. La forêt de Fontainebleau. Paris: Hoëbeke – Bibliothèque Nationale, 1991

 

Chauvet 1901

Charles Chauvet, Le manoir des Comptes de Challant à Issogne (Vallée d’Aoste),  “L’Art pour tous. Encyclopedie de l’Art industriel et décoratif”, Paris,  40 (1901), n. 187, juillet

 

Collegio Architetti 1887

Collegio Architetti di Torino, Catalogo del Museo Regionale di Architettura. Torino: Camilla e Bertolero, 1887

 

La Contessa di Castiglione 2000

La Contessa di Castiglione e il suo tempo, catalogo della mostra (Torino, 2000), a cura di Martina Corgnati, Cecilia Ghibaudi. Milano: Silvana Editoriale, 2000

 

Corot 1994

Jean-Baptiste Camille Corot. Un sentimento particolare del paesaggio, catalogo della mostra (Lugano, 1994), a cura di Manuela Kahn-Rossi. Lugano – Torino: Museo Cantonale d’Arte – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Cox 1991

Julian Cox, ed., Ffotograffiaeth Cymreig Cynnar – Early Welsh Photography, “History of Photography”, 15 (1991), n. 3, autumn

 

Cremona 1946

Italo Cremona, Disegni di Vittorio Avondo. Torino: Collezione del Bibliofilo, 1946

 

Cristofari 1992

Roberta Cristofari, Poppi, Pietro (1833 – 1914), in Giuseppina Benassati, Angela Tromellini, a cura di, Fotografie fotografia a Bologna 1839 – 1900. Bologna: Grafis, 1992, pp.276-277

 

Cristofori, Roversi 1980

Franco Cristofori, Giancarlo Roversi, a cura di, Pietro Poppi e la Fotografia dell’Emilia. Bologna: Cassa di Risparmio di Bologna, 1980

 

Daniel 1994

Malcom Daniel, The Photographs of  édouard Baldus. New York – Montreal: Metropolitan Museum of Art – Canadian Centre for Architecture, 1994

 

De Rosa, Trastulli 1988

Pier Andrea De Rosa, Paolo Emilio Trastulli, I pittori Coleman. Roma: Studio Ottocento, 1988

 

Di Macco 1997

Michela di Macco, Avondo e la cultura della sua generazione: il tempo della rivalutazione dell’arte antica in Piemonte, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 49-58

 

Dini 1997

Francesca Dini, Telemaco Signorini, l’uomo e l’artista, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra  (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 267-274

 

Donato 1993

Giovanni Donato, Immagini del medioevo torinese fra memoria e conservazione, in Rinaldo Comba, Rosanna Roccia, a cura di, Torino fra Medioevo e Rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale. Torino: Archivio storico della Città di Torino, 1993, pp. 305-364

 

Donghi 1891

Daniele Donghi, La prima Esposizione Italiana tenutasi a Torino nel 1890. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1891

 

Dragone 1973

Angelo Dragone, Lorenzo Delleani. La vita, le opere, il suo tempo. Biella: Cassa di Risparmio di Biella, 1973-1974

 

Dragone 2000

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865 – 1895. Torino: Banca CRT, 2000

 

Dragone 2001

Piergiorgio Dragone,a  cura di, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1830 – 1865. Torino: Banca CRT, 2001

 

Esposizione  1880

IVa Esposizione Nazionale di Belle Arti, Catalogo degli oggetti componenti la Mostra di Arte Antica. Torino: Vincenzo Bona, 1880

 

Esposizione  1884

Esposizione Generale Italiana Torino 1884. Arte contemporanea. Catalogo ufficiale. Torino: Unione Tipografico Editrice, 1884

 

Esposizione  1898

Esposizione Italiana 1898. Arte Sacra. Catalogo generale. Torino: Roux Frassati e C., 1898

 

Falzone del Barbarò 1980

Michele Falzone del Barbarò, Carlo Duroni. Banco di beneficenza, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna 1773 – 1861, catalogo della mostra (Torino, 1980), a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci. Torino: Regione Piemonte – Provincia di Torino – Città di Torino, 1980, II, sch. n. 1121, p. 928

 

Falzone del Barbarò  1989

Michele Falzone del Barbarò, La calotipia in Toscana: origini e protagonisti inediti, in Alle origini della fotografia 1989, pp. 31-56

 

Falzone del Barbarò  2000

Michele Falzone del Barbarò, Ambasciate e corti, in La Contessa di Castiglione 2000, sch. n. 1.34, pp. 132

 

Falzone del Barbarò, Borio  1989

Michele Falzone del Barbarò, Amanzio Borio, a cura di, Secondo Pia Fotografie 1886 – 1927. Torino: Umberto Allemandi & C., 1989

 

Ferro  1999

Francesca Ferro, Vittorio Avondo e la grafica, tesi di laurea in Storia dell’Arte moderna, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 1998 – 1999

 

Forrer  1896

Robert Forrer, Spätgothische Wohnräume und Wandmalereien aus Schloss Issogne. Strassburg: Fritz Schlesier, 1896

 

Fotografi del Piemonte         1977

Fotografi del Piemonte 1852-1899, catalogo della mostra, Torino, giugno-luglio 1977, a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977

 

Frisoni  1998

Cinzia Frisoni, Pietro Poppi e la Mostra d’Arte Sacra in San Francesco : recupero di una documentazione fotografica, in “Quaderni di Palazzo Pepoli Campogrande”, 5, a cura di Corinna Giudici. Bologna: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna e Rimini, 1998, pp. 35-41

 

Frizot  1994

Michel Frizot, Blanquart-Evrard éditeur de photographies, in Id., a cura di, Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , p. 83

 

Galassi  1989

Peter Galassi, Before Photography: Painting and the Invention of Photography. New York: The Museum of Modern Art, 1981 (ed. Italiana, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia. Torino: Bollati Boringhieri, 1989

 

Galassi  1994

Peter Galassi, Corot in Italia. La pittura di plein air e la tradizione del paesaggio classico. Torino: Bollati Boringhieri, 1994

 

Gasparini  2005

Laura Gasparini, La raccolta delle carte salate della Scuola Romana di Fotografia dell’Istituto Statale d’Arte “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia, in Un Museo ritrovato. Il patrimonio dell’Istituto d’Arte Chierici restituito alla città, catalogo della mostra (Reggio Emilia, 2005). Reggio Emilia, Musei Civici / Litograph, 2005, pp. 81-89; 206-226

 

Gauss  1996

Ulrike Gauss, a cura di, Eugène Cuvelier 1839 – 1900. Stuttgart/ Ostfildern-Ruit: Staatsgalerie / Cantz Verlag, 1996

 

Gelao  1999

Clara Gelao, Tra calchi e monumenti. A cent’anni dall’Esposizione Nazionale di Torino, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 33-47

 

Gentile  2001

Guido Gentile, Importazioni di opere e migrazioni di artisti lungo le vie delle Alpi, d’Alemagna e delle Fiandre, in Tra Gotico e Rinascimento. Scultura in Piemonte, catalogo della mostra (Torino, 2001), a cura di Enrica Pagella. Torino: Museo Civico d’Arte Antica, 2001, pp. 114-116

 

Giacosa  1884

Giuseppe Giacosa, Notizie storiche intorno alla famiglia di Challant, in Castello d’Issogne 1884

 

Giacosa  1898

Giuseppe Giacosa, Castelli valdostani e canavesani. Torino: Roux e Frassati, 1898

 

Giacosa  1968

Pietro Giacosa, Il castello di Issogne. Verona: Stamperia Valdonega, 1968

 

Giudici  2004

Corinna Giudici, a cura di, C’era due volte. Fondi fotografici e patrimonio artistico. Bologna: SPSAD / Minerva Edizioni, 2004

 

Giusa  1995

Antonio Giusa, Fotografi e fotografie della S.A.F., “Immagine e cultura”, 2 (1995), n.2, marzo, pp.22-33

 

Grabaudi, Falzone  1979

Elisa Gribaudi Rossi, Michele Falzone del Barbarò, Carnet di ballo. Milano: Longanesi & C., 1979

 

Griseri, Gabetti  1973

Andreina Griseri, Roberto Gabetti, Architettura dell’eclettismo: un saggio su Giovanni Battista Schellino. Torino: Einaudi, 1973

 

Grohn 1971

Hans Werner Grohn, L’opera completa di Holbein il giovane. Milano: Rizzoli, 1971

 

Heilbrun  2004

Françoise Heilbrun, Paesaggio e natura. Milano: 5 Continents Editions, 2004

 

Heilbrun, Néagu  1986

Françoise Heilbrun, Philippe Néagu, Musée d’Orsay. Chefs-d’œuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers – Réunion des musées nationaux, 1986

 

L’immagine rivelata  1998

L’immagine rivelata. 1989. Secondo Pia fotografa la Sindone, catalogo della mostra (Torino, 1998), a cura di Gian Maria Zaccone. Torino: Centro Studi Piemontesi, 1998

 

Infinitamente  2004

Infinitamente al di là di ogni sogno. Alle origini della fotografia di montagna, catalogo della mostra (Torino, 2004), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 2004

 

Invention  1989

L’invention d’un regard (1839 – 1918), catalogo della mostra (Parigi, 1989), a cura di, Françoise Heilbrun, Bernard Marbot, Philippe Néagu. Paris: Réunion des Musées Nationaux, 1989

 

L’Italia d’argento  2003

L’Italia d’argento 1839/ 1859. Storia del dagherrotipo in Italia, catalogo della mostra (Roma, Firenze, 2003), a cura di Maria Francesca Bonetti, Monica Maffioli. Firenze: Alinari, 2003

 

Italien  1994

Italien. Sehen und Sterben. Photographien der Zeit des Risorgimento, catalogo della mostr (Colonia, 1994), a cura di Bodo von Dewitz, Dietmar Siegert. Köln: Agfa Foto-Historama, 1994

 

Jammes  1981

Isabelle Jammes, Blanquart- évrard et les origines de l’édition photographique française: catalogne raisonné des albums photographiques édités 1851 – 1855. Genève: Droz, 1981

 

Jammes, Parry Janis  1983

André Jammes, Eugenia Parry Janis, The Art of French Calotype. Princeton: Princeton University Press, 1983

 

Krauss  1996

Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia.  Milano: Bruno Mondadori, 1996

 

In the Light of Italy  1996

In the Light of Italy. Corot and Early Open-Air Painting, catalogo della mostra (Washington, Brooklyn, Saint Louis, 1996 – 1997), a cura di Peter Galassi. Washington: National Gallery of Art, 1996

 

Maccaferri, Sergi  1986

Gianfranco Maccaferri, Fortunato Sergi, a cura di, 1870 – 1940. I fotografi della Valle d’Aosta. Aosta: Musumeci, 1986

 

Maestà di Roma  2003

Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia, catalogo della mostra (Roma, 2003), a cura di Sandra Pinto, Liliana Barroero, Fernando Mazzocca. Milano: Electa, 2003

 

Maggio Serra  1977

Rosanna Maggio Serra, La fotografia nel Fondo D’Andrade del Museo Civico, in Fotografi del Piemonte 1977, pp. 17-20

 

Maggio Serra  1979

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Galleria Civica d’Arte Moderna. Acquisizioni 1971 – 1978. Torino: Città di Torino – Assessorato per la cultura – Musei Civici, 1979

 

Maggio Serra  1981

Rosanna Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, in Alfredo d’Andrade 1981, pp. 19-43

 

Maggio Serra  1988

Rosanna Maggio Serra, Il vero e il paesaggio in Piemonte: vent’anni di polemiche e dibattiti, in Il Secondo ‘800 italiano. Le poetiche del vero,  catalogo della mostra (Milano, 1988), a cura di Renato Barilli. Milano: Mazzotta, 1988, pp. 90-104

 

Maggio Serra  1993

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  L’Ottocento. Catalogo delle opere esposte. Milano: Fabbri Editori, 1993

 

Maggio Serra  1994

Rosanna Maggio Serra, a cura di,  Repertorio delle opere su carta acquisite per la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino 1982 – 1992.  Torino: Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris – Umberto Allemandi & C., 1994

 

Maggio Serra  1997

Rosanna Maggio Serra, Qualche novità su Avondo pittore. Studi sul fondo di disegni e dipinti della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 61-93

 

Maggio Serra  2003

Rosanna Maggio Serra, L’arte in mostra nella seconda metà dell’Ottocento, in Umberto Levra, Rosanna Roccia, a cura di, Le esposizioni torinesi 1805 – 1911,. Torino: Archivio Storico della Città di Torino, 2003, pp. 297-322

 

Maggio Serra, Signorelli 1997

Rosanna Maggio Serra, Bruno Signorelli, a cura di, Vittorio Avondo (1836 – 1910) dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro. Torino: Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Nuova Serie – Atti – v. IV, 1997

 

Mallè  1970

Luigi Mallè, I Musei Civici di Torino. Acquisti e Doni 1966 – 1970. Torino: Museo Civico di Torino, 1970

 

Marbot  1991

Bernard Marbot, Les photographes oubliées de la  forêt de Fontainebleau, in Challe, Marbot 1991 , pp. 14-18

 

Margiotta  2003

Anita Margiotta, La Scuola Romana di Fotografia, in Roma 1850 2003 , pp. 28-34

 

Mario Gabinio  1996

Mario Gabinio. Dal paesaggio alla forma. Fotografie 1890-1938, catalogo della mostra (Torino, 1996-1997), a cura di P. Cavanna, Paolo Costantini. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Mario Gabinio  2000

Mario Gabinio. Valli piemontesi 1895-1925, catalogo della mostra (Ciriè, 2000-2001), a cura di P. Cavanna. Torino: Edizioni GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 2000

 

Mascia  2000

  1. M. [Alessandra Mascia], Paolo Gaidano, (scheda biografica), in Dragone 2000, pp. 334

 

Matteucci  1997

Giuliano Matteucci, Il fondo fotografico di Telemaco Signorini dell’archivio Vitali, in Telemaco Signorini. Una retrospettiva, catalogo della mostra (Firenze, 1997). Firenze: Artificio, 1997, pp. 184 -236

 

1899, Un progetto di fototeca  2000

1899, Un progetto di fototeca pubblica per Milano: il “ricetto fotografico” di Brera, catalogo della mostra (Milano, 2000), a cura di Marina Miraglia, Matteo Ceriana. Milano: Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici – Electa, 2000

 

Millozzi  2005

Federica Millozzi, Studio Salviati, in Venezia, la tutela per immagini. Un caso esemplare dagli archivi della Fototeca Nazionale, catalogo della mostra (Roma, 2005), a cura di Paola Callegari, Valter Curzi. Bologna: Bononia University Press, 2005

 

Miraglia  1981

Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839 – 1911),  “Storia dell’Arte italiana”, 9, “Grafica e immagine. II. Illustrazione e fotografia”. Torino: Einaudi, 1981, pp. 421-543

 

Miraglia  1990

Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi & C., 1990

 

Miraglia  1996

Marina Miraglia, a cura di, Alle origini della fotografia. Luigi Sacchi lucigrafo a Milano 1805 – 1861. Milano: Federico Motta Editore, 1996

 

Miraglia  2003

Marina Miraglia, La fotografia, in Maestà di Roma 2003, pp. 565-581

 

Mirisola  2004

Vincenzo Mirisola, a cura di, Sicilia Mitica Arcadia – Von Gloeden e la “Scuola” di Taormina. Palermo: Edizioni Gente di Fotografia, 2004

 

Mirisola, Di Dio  2004

Vincenzo Mirisola, Michele di Dio, a cura di, Sicilia ‘800 – Fotografi e Grand Tour.  Palermo: Edizioni Gente di Fotografia – Fototeca Regionale, 2004

 

Mollino  1949

Carlo Mollino, Il messaggio dalla camera oscura. Torino: Chiantore, 1949 [1950]

 

Moncalvo  1997a

Enrico Moncalvo, Tableaux vivants tra Romanticismo e Modernismo, in Presenze. L’avanguardia temperata di Riccardo Moncalvo, catalogo della mostra (Torino, 1997-1998), a cura di Aldo Audisio. Torino: Museo Nazionale della Montagna, 1997, pp. 78-91

 

Moncalvo  1997b

Enrico Moncalvo, La residenza torinese di Vittorio Avondo: la palazzina di via Napione nel contesto delle tipologie coeve, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 199-208

 

Monumento Nazionale  1892

Monumento Nazionale al Principe Amedeo. Relazione della Giuria. Torino: Vincenzo Bona, 1892

 

Museo Civico  1905

Museo Civico di Torino – Sezione Arte anticaCento tavole riproducenti circa 700 oggetti pubblicate per cura della Direzione del Museo. Torino: Studio di riproduzioni artistiche di Edoardo di Sambuy, 1905

 

Naef  1980

Weston Naef, The beginning of Photography as Art in France, in After Daguerre: Masterworks of French Photography (1848 – 1900) from the Bibliothèque Nationale, catalogo della mostra (Paris, New York, 1980-1981), Bernard Marbot, Weston J. Naef, eds. New York / Parigi: The Metropolitan Museum of Art / Berger-Levrault, 1980

 

Natale  1993

Vittorio Natale, Alessandro Puttinati, in Maggio Serra 1993, p. 109

 

Negro  1956

Silvio Negro, Album romano. Roma: Gherardo Casini Editore, 1956

 

Negro  1964

Silvio Negro, Nuovo Album romano. Fotografie di un secolo. Vicenza: Neri Pozza Editore, 1964

 

Novara  1992

Carla Novara,  La Galleria d’Arte Moderna della città di Torino: la storia di un’istituzione: 1863 – 1910, tesi di laurea in Storia della critica d’arte, relatore Giovanni Romano, Università degli studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1991 – 1992

 

Paoli  2000a

Silvia Paoli, Domenico Bresolin, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 161

 

Paoli  2000b

Silvia Paoli, Guigoni & Bossi, in 1899, un progetto di fototeca 2000, p. 187

 

Paoli  2004

Silvia Paoli, a cura di, Lamberto Vitali e la fotografia. Collezionismo, studi e ricerche. Milano: Silvana Editoriale, 2004

 

Papone  2003

Elisabetta Papone, “Al chiarissimo Antonio Cipolla… il Municipio di Genova”: un album tra fotografia, architettura e politica, in Fotografi e fotografie, “Bollettino dei Musei Civici Genovesi, 23 (2001), nn. 68/69, maggio – dicembre, pp. 6-19

 

Pettenati  1996

Silvana Pettenati, Francesco Marmitta, in Il tesoro della città 1996, pp. 41-42

 

Pettenati  1997

Silvana Pettenati, Vittorio Avondo e le arti applicate all’industria, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 95-102

 

Piemonte  1930

Touring Club Italiano, Piemonte, “Attraverso l’Italia”, I. Milano: Touring Club Italiano, 1930

 

Pirani  2003

Federica Pirani, “Amici e rivali. Ippolito Caffi e Giacomo Caneva tra pittura e fotografia”, in Roma 1850  2003, pp. 42-47

 

Pittori fotografi  1987

Pittori fotografi a Roma 1845 – 1870, catalogo della mostra (Roma, 1987), a cura di, Lucia Gavazzi, Anita Margotta, Simonetta Tozzi. Roma: Multigrafica Editrice, 1987

 

La poesia del vero  2001

La poesia del vero. Pittura di paesaggio a Roma tra Ottocento e Novecento da Costa a Parigini, catalogo della mostra (Macerata – Camerino, 2001), a cura di Gianna Piantoni. Roma: De Luca, 2001

 

Porretta  1976

Sebastiano Porretta, Ignazio Cugnoni fotografo. Torino: Einaudi, 1976

 

Prandi  1979

A.P. (Alberto Prandi), Veneto, in Fotografia italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Venezia, 1979), a cura di Daniela Palazzoli, Marina Miraglia, Italo Zannier. Milano / Firenze: Electa / Alinari, 1979, pp. 123-126

 

Prandi  2003

Alberto Prandi, La dagherrotipia nel Veneto, in L’Italia d’argento 2003, pp. 194-200

 

Prima Esposizione  1890

Prima Esposizione Italiana di Architettura. Torino 1890: Catalogo. Torino: Tip. Origlia, Festa e Ponzone, 1890

 

Quintavalle  2003

Arturo Carlo Quintavalle, Gli Alinari. Firenze: Alinari, 2003

 

Rampin  2001

Marina Rampin, Giacomo Caneva pittore, “Fotologia” v. 21-22, 2001, pp. 58-61

 

Reteuna  1991

Dario Reteuna, Fotografia e Belle Arti alla Promotrice di Torino, “Fotologia” v. 13, 1991, pp. 30-39

 

Reteuna  1997

Dario Reteuna, a cura di, Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra (Torino, 1997). Torino: Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997

 

Roma 1850  2003

Roma 1850: il circolo dei pittori fotografi del Caffè Greco, catalogo della mostra (Roma /  Parigi, 2003 – 2004), a cura di Anne Cartier-Bresson, Anita Margiotta. Milano: Electa, 2003

 

Romano  1988

Giovanni Romano, Momenti del Quattrocento chierese, in Michela di  Macco, Giovanni Romano, a cura di, Arte del Quattrocento a Chieri. Torino: Umberto Allemandi & C., 1988, pp. 11-32

 

Romano  1994

Serena Romano, a cura di, L’immagine di Roma 1848 – 1895. La città, l’archeologia, il medioevo nei calotipi del fondo Tuminello. Napoli: Electa Napoli, 1994

 

Rossetti Brezzi  1999

Elena Rossetti Brezzi, L’arredo pittorico, in Barberi 1999, pp. 51-54

 

Rossi  1912

Teofilo Rossi, In memoria di Vittorio Avondo. Inaugurazione della lapide decretata dal Municipio a Vittorio Avondo nella sede del Museo Civico di Arte applicata all’Industria, 14 dicembre 1912. Torino: Tip. G.B. Vassallo, 1912

 

Rouillé  1992

André Rouillé, La photographie entre controverse et utopie, in Usage de l’image au XIXe siècle, atti del convegno, (Paris, Musée d’Orsay, 1990), Stéphane Michaud, Jean-Yves Moloinier, Nicole  Savy, dir. Paris: Editions Créaphis, 1992 , pp. 249 – 256

 

Sagne  1994

Jean Sagne, Portraits en tout genre. L’atelier du photographe , in Michel Frizot, dir., Nouvelle Histoire de la Photographie. Paris: Bordas, 1994 , pp. 102-122

 

Scaramella  1999

Lorenzo Scaramella, Fotografia. Storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Roma: Edizioni De Luca, 1999

 

Schnitzler  1999

Bernadette Schnitzler, Robert Forrer (1866 – 1947) archeologue, écrivain et antiquaire. “Recherches et documents”, tome 65. Strasbourg: Société Savante d’Alsace, 1999

 

Schrader  1910

Bruno Schrader, Die Römische Campagna. Leipzig: E.A. Seemann, 1910

 

Scharf  1979

Aaron Scharf, Arte e Fotografia. Torino: Einaudi, 1979

 

Schwarz  1992

Heinrich  Schwarz, Arte e Fotografia. Precursori e influenze,  a cura di Paolo Costantini. Torino: Bollati Boringhieri, 1992

 

Sella  1863

Giuseppe Venanzio Sella, Plico del fotografo. Trattato teorico-pratico di fotografia. Torino: Tipografia G.B. Paravia e Comp., 1863

 

Signorelli  1997

Bruno Signorelli, Il personaggio di Vittorio Avondo e le fonti documentarie per ricostruirne la figura, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 11-29

 

Simone  1965

Mario Simone, a cura di, Saverio Altamura. Pittore – patriota foggiano nell’autobiografia, nella critica e nei documenti. Foggia: Studio Editoriale Dauno, 1965

 

Simonetti  1999

Antonella Simonetti, Campagne fotografiche storiche di monumenti pugliesi nella Fototeca della Soprintendenza di Bari, in Castelli e cattedrali 1999, pp. 81-85

 

Società  1999

Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999

 

Solomon-Godeau  2002

Abigail Solomon-Godeau, Calotypomane. Guide du gourmet en photographie historique, “ètudes photographiques”, n.12, novembre 2002, estratto

 

SPABA  1880

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”, III, 1880

 

SPABA  1883

“Atti della Società di Archeologia e Belle Arti per la Provincia di Torino”,  IV, 1883

 

Stella  1893

Alessandro Stella, Pittura e scultura in Piemonte. Torino: Paravia, 1893

 

Strategie  2001

Strategie per la fotografia. Incontro degli archivi fotografici, atti del convegno (Prato, 2000), a cura di Oriana Goti, Sauro Lusini.  Prato: Comune di Prato – Archivio Fotografico Toscano, 2001

 

Tamassia  2002

Marilena Tamassia, Firenze ottocentesca nelle fotografie di J.B. Philpot. Livorno: Sillabe, 2002

 

Tamburini, Falzone del Barbarò  1981

Luciano Tamburini, Michele Falzone del Barbarò, Il Piemonte fotografato da Secondo Pia. Torino: Daniela Piazza, 1981

 

Taramelli  1898

Andrea Taramelli, La mostra d’arte sacra antica, in “1898 Arte Sacra”, n.14, pp. 106-110; n.22, pp. 171-175; n.23, pp. 177-179

 

Il tesoro della città  1996

Il tesoro della città. Opere d’arte e oggetti preziosi da Palazzo Madama, catalogo della mostra (Torino, 1996),  a cura di Silvana Pettenati, Giovanni Romano. Torino: Umberto Allemandi & C., 1996

 

Thovez  1912

Enrico Thovez, L’opera pittorica di Vittorio Avondo. Torino: Edizioni d’Arte E. Celanza, 1912

 

Tittoni, Margiotta  2002

Maria Elisa Tittoni, Anita Margiotta, a cura di, Scenari della memoria. Roma nella fotografia 1850 – 1900. Roma: Comune di Roma – Electa, 2002

 

Toesca  1911

Pietro Toesca, Torino.  Bergamo: Istituto italiano d’arti grafiche, 1911

 

Torino  1884

Torino e l’Esposizione Italiana. Cronaca illustrata della Esposizione Nazionale Industriale e Artistica del 1884. Torino / Milano: Roux e Favale / Fratelli Treves, 1884

 

Torino 1902  1994

Torino 1902. Le Arti Decorative Internazionali del Nuovo Secolo, catalogo della mostra (Torino, 1994), a cura di Rossana Bossaglia, Ezio Godoli, Marco Rosci. Milano: Fabbri Editori, 1994

 

Vanzella  1997

Giuseppe Vanzella, Padova. I fotografi e la fotografia nell’Ottocento. Campodarsego: Gruppo Carraro, 1997

 

Varignana  1993

Francesca Varignana, Pietro Poppi “peintre-photographe”, in Andrea Emiliani, Italo Zannier, a cura di, Il tempo dell’immagine. Fotografi e società a Bologna 1880 – 1980. Torino: Seat, 1993, pp. 57-85

 

Viale  1933

Vittorio Viale, Necessità di un archivio fotografico dei monumenti e degli oggetti d’arte del Piemonte. Torino: Tip. Anfossi, 1933

 

Viale  1949

Vittorio Viale, In memoria Lorenzo Rovere (1869 – 1950), “Bollettino SPABA”, N.S., 3 (1949), pp. 164-166

 

Viale  1965

Vittorio Viale, Museo Civico di Torino. Acquisti e doni dal 1961 al 1965, dattiloscritto, s.d. [1965]

 

Vitulo  1997

Clara Vitulo, Vittorio Avondo e la Commissione consultiva per i monumenti nazionali d’antichità e belle arti, in Maggio Serra, Signorelli 1997, pp. 191-197

 

Volpiano  1999

Mauro Volpiano, Torino 1890. La Prima Esposizione italiana di Architettura. Torino: Celid, 1999

 

Wey  1851

Francis Wey, De l’influence de l’héliographie sur les Beaux-Arts, “La Lumière”, 1851, ora in Michel Frizot, Françoise Ducros, dir., Du bon usage de la photographie. Paris: Centre national de la Photographie, 1987, pp. 57-71

 

Zannier  1986

Italo Zannier, Storia della fotografia italiana. Roma – Bari: Laterza, 1986

 

 

Un’astratta fedeltà: le campagne di documentazione fotografica 1858-1898 (2001)

in Paolo Venturoli, a cura di, Dal disegno alla fotografia. L’Armeria Reale illustrata 1837-1898.Torino: Umberto Allemandi, 2001, pp. 79-98

 

 

Quando, nel 1865, Antonio Perini pubblica il suo album dedicato alle collezioni della Regia Armeria si premura di esplicitarne le ragioni e i modi: “Per far conoscere i pregi di tanti capolavori – afferma nell’introduzione –  la descrizione è inefficace, mentre nessun altro mezzo è più opportuno della fotografia, la quale con fedeltà pressoché matematica riproduce eziandio i meno spiccati dettagli.”[1] Questo richiamo ai pregi caratteristici del nuovo mezzo è interessante non tanto per la sua eccezionalità quanto, al contrario, per il suo essere conferma di un pensiero preciso e di un atteggiamento di chiara coerenza metodologica che era comune ai migliori esponenti della cultura fotografica dei decenni immediatamente successivi alla sua invenzione. La “fedeltà” cui si richiama Perini non è altro che la riproposizione pressoché letterale di quella  “precisione quasi matematica” di cui aveva parlato Arago[2] a proposito del dagherrotipo in occasione della sua presentazione nel 1839, ora confermata e accresciuta della consapevolezza che derivava ai fotografi dalla riflessione attenta sulle possibilità linguistiche offerte dalle diverse tecniche a disposizione, ben esemplificata dal lucidissimo testo che Benjamin Delessert[3] premette ai propri fascicoli di riproduzioni fotografiche delle incisioni di Marcantonio Raimondi, nel 1853.

La documentazione archivistica non ci ha restituito sinora le ragioni che portarono Perini a lavorare a Torino, impedendoci quindi di ricostruire appropriatamente la genesi, le motivazioni e le condizioni del suo operare: non siamo quindi in grado per ora di stabilire se si sia trattato  di un esempio precocissimo di strategia celebrativa e comunicativa da parte della Direzione dell’Armeria, attuato facendo ricorso ad una tecnologia più innovativa ma considerata ancora per certi versi inaffidabile, oppure – come appare più probabile – di un’iniziativa dello stesso fotografo editore; questa seconda ipotesi però, oltre a testimoniare l’ormai raggiunta notorietà della collezione sembra corrispondere meglio all’intenzione espressa dallo stesso Perini nella presentazione del facsimile del Breviario Grimani (1862), di voler operare “non tanto per servire alla dotta curiosità dei ricercatori, quanto perché se ne potessero giovare le arti del disegno”, proponendo armi e armature quali modelli d’arte, illustrati con una sequenza che risulta priva di caratterizzazioni tematiche o tipologiche sebbene sia aperta dall’efficace confronto visivo, di preciso valore critico,  tra la statua di Bartolomeo Colleoni che il Verrocchio realizza per Venezia e l’armatura equestre B5;  una proposta di lettura che rivela, oltre le analogie formali, il permanere del significato politico del monumento equestre, implicito anche nella sua forma apparentemente più neutra di puro artificio ostensivo. Tale suggestione sottile, verosimilmente da attribuirsi allo stesso Perini sebbene la statua del Colleoni non risulti compresa nel sommario delle figure, contrasta radicalmente con le scelte operate nella preparazione delle tavole successive, con gli oggetti collocati in uno spazio astratto, completamente scontornati, privi di sostegni o appoggi e senza alcuna traccia di sfondo, soluzione che concentra tutta l’attenzione sull’opera e ne cancella il contesto, lo spazio della Galleria Beaumont, la cui descrizione è demandata alla prima tavola, ancora fuori numerazione. Così facendo, con la mascheratura e con il ritocco il fotografo rifiuta di fatto il valore di traccia della fotografia e ripropone con nuovi strumenti la tradizione rappresentativa delle arti del disegno, solo apparentemente liberata da ogni intenzionalità interpretativa: accade cioè che l’autore si affidi alla fotografia per la sua riconosciuta possibilità di fedeltà oggettiva nella descrizione dell’opera, disconoscendo però le conseguenze del suo stesso operare nel trattamento generale della tavola, in quel vuoto assoluto intorno all’opera che costituisce l’elemento di continuità con le raffigurazioni precedenti. Sulla stessa pagina convivono lo spazio concreto, referenziale, del corpo dell’armatura e lo spazio astratto, disegnato, del segno manuale del ritocco, secondo una formula che ritroveremo ancora, sostanzialmente immutata, in altre rilevanti imprese successive.

Proprio la volontà di garantire la fedeltà al modello, piuttosto che la possibilità di “riproducibilità” offerta dal nuovo mezzo,  è ciò che porta a scegliere e poi a privilegiare sempre più la fotografia quale tecnica di “riproduzione”. è questa necessità di verosimiglianza che aveva indotto Primo Feliciano Meucci a disegnare nel 1860-61 “varii oggetti della Galleria (…) valendosi del prisma[4] attalché l’effigie ne riuscì più che perfetta”, ma anche ad adottare per alcune tavole una modalità descrittiva “a figure piene” e non a linee di contorno come era nella tradizione neoclassica, tanto da portare l’allora Direttore Actis a sottolineare come in quelle prove “la somiglianza al vero [fosse] insuperabile.”[5]

Nei lunghi mesi in cui Meucci lavorava a produrre le sue prime lastre incise, la fotografia aveva già fatto la propria comparsa quale tecnica di riproduzione degli oggetti dell’Armeria. Risale infatti al 1860 circa la prima documentazione fotografica, oggi nota dagli esemplari conservati all’Accademia Albertina: un insieme di trentasei riprese, integrate da altre non riferibili ad opere della stessa collezione,  in parte anonime e in parte realizzate da Francesco Maria Chiapella[6] da cui è stato ricavato un insieme di sessantuno stampe, verosimilmente commissionate o acquistate a scopo didattico, come lascia supporre la presenza di più copie della stessa lastra e la scarsa cura della presentazione e del montaggio, quasi sempre con supporti a profili irregolari. Esse costituiscono la prima testimonianza della fortuna fotografica del tema e dell’inversione di tendenza nella scelta del mezzo di traduzione, ulteriormente confermata, pur con accenti diversi, dalle copie fotografiche di alcuni disegni di Pietro Ayres, tra cui uno dell’armatura Martinengo B5, che Balbiano d’Aramengo[7] realizza negli stessi anni, riproduzioni alle quali sembra potersi riferire la lettera di Seyssel d’Aix ad Ayres del 15 aprile 1866 in cui richiede di verificare i tempi necessari all’esecuzione di 12 disegni per  la realizzazione “della prima parte dell’Album Fotografico per l’illustrazione della R. le Galleria”.[8]

In questa prima campagna fotografica di Chiapella e di autore anonimo l’elemento caratterizzante, specialmente evidente per confronto con le successive, è dato dalla scelta dei soggetti: vengono infatti fotografate molte armi da fuoco (un terzo del totale), con particolare attenzione agli aspetti decorativi in genere e in particolare per i due archibugi M12 e M11, quest’ultimo soggetto anche di un grande disegno acquerellato sostanzialmente coevo ora attribuito a Meucci,  la cui  ricca lavorazione a intarsio in avorio, argento e oro “di sorprendente bellezza, cioè fogliami, volute, animali, chimere, isolati o posti a contorno od ornamento di figure e di storie.”[9] costituiva un caso esemplare di modello didattico.

Mentre con Chiapella e poi Perini, e non considerando il progetto Seysell a cui collabora Balbiano d’Aramengo,  le opere si configurano come “illustrazione” delle eccellenze del patrimonio dell’Armeria, al più corredate di notizie tratte dal precedente catalogo, il lavoro di Isaia Ghiron, Iscrizioni arabe della Reale Armeria. Firenze: Le Monnier, 1868, con otto tavole con stampe all’albumina di sciabole, archibugi, armature ed elementi delle stesse, costituisce il primo esempio di studio analitico di un importante settore del museo corredato di sistematica documentazione fotografica, sulla scia di produzioni editoriali analoghe e ormai di una certa diffusione: basti pensare al volume  che nel 1865 Angelo Angelucci, aveva dedicato a Le armi di pietra donate da S.M il Re Vittorio Emanuele II al Museo Nazionale d’Artiglieria. Torino: Tip. Cassone & Comp., corredato da una tavola f.t. con 3 stampe all’albumina anonime.

Sono gli anni in cui si afferma la notorietà dell’istituzione: mentre la tavola di apertura dell’album di Perini con la veduta della Galleria Beaumont avrà funzione di contestualizzazione delle opere presentate nei fogli successivi, la ripresa dello stesso soggetto realizzata dal francese Charles Marville nel 1858-1859 è la prima a testimoniare fotograficamente l’inserimento della prestigiosa sede museale tra i luoghi rimarchevoli della città, insieme con Palazzo Reale e Palazzo Madama, piazza San Carlo, la chiesa della Gran Madre di Dio, il Monte dei Cappuccini e la basilica di Superga; scelta ancora anomala e suggerita forse dal concomitante impegno del fotografo francese nella documentazione del patrimonio artistico della Biblioteca Reale[10].

Quando nel 1874 si apre a Milano l’Esposizione Storica d’Arte Industriale la “Classe V – Armi e Armature”, curata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli (dalla cui collezione provengono molte delle armi esposte) e da Walter Craven[11], comprende numerosi esemplari provenienti dalle collezioni della Regia Armeria, per la prima volta esposti al di fuori della sede torinese. Scopo dell’iniziativa, legata all’istituzione a Milano di un Museo d’Arte Industriale, era quello di “formare il gusto degli operai”[12]  e di “accrescere il corredo di buoni disegni che devono essere la prima dotazione del Museo levando copia degli oggetti esposti più rimarchevoli e più degni di studio e d’esempio ai nostri artefici”[13], ragione per cui viene richiesta l’autorizzazione a riprodurre gli oggetti esposti “in fotografia o a matita”, con l’intenzione di vendere poi le fotografie a prezzo di costo[14]. Frutto di questa partecipazione e della concessione alla riproduzione delle opere è la realizzazione di una “stupenda collezione delle fotografie” costituita dalle “riproduzioni degli oggetti di quest’Armeria [e] delle fotografie delle altre armi e armature state costì esposte da altri proprietari”[15],  che risulta pervenuta in Armeria in data 2 maggio 1875, ma di cui si è perduta sinora ogni traccia.[16]

Di pochi anni più tarda deve essere la cartella dedicata A S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II Re d’Italia/ Omaggio/ di A. Pietrobon/ di/ Venezia[17], forse prodotta dal fotografo, già attivo a Firenze, per ottenere il privilegio regio di cui si fregiava nella città toscana, ma che il confronto ha consentito di verificare come realizzata con stampe ricavate dalle lastre realizzate da Antonio Perini per l’album del 1865.  In questa nuova versione, che comprende anche una Veduta generale della sala d’armi firmata in lastra all’angolo inferiore sinistro, “A. Pietrobon & C./ Torino”,  gli oggetti non sono identificati né con sigla né con numero, ma i cartoni riportano al verso un’identificazione più tarda corrispondente al catalogo Seyssel d’Aix del  1840, evidentemente assegnata dopo l’ingresso dell’album nelle collezioni reali; sebbene non si tratti di una produzione ex novo va rilevato come l’edizione Pietrobon oltre a confermare il prestigio e la notorietà della collezione, si segnali per la presenza di stampe di grande qualità ed efficacia, specialmente per il bel viraggio nero violaceo all’oro che valorizza l’uso  accorto delle luci che fu di Perini.

È questo il decennio che segna anche l’avvio del progetto del nuovo catalogo della Regia Armeria, affidato nel 1873 al maggiore Angelucci,  e proprio per la sua illustrazione pare riaprirsi il confronto, in forme più pragmatiche, tra incisione e fotografia, forse influenzato dall’esperienza della partecipazione all’Esposizione milanese. Sappiamo dalla corrispondenza tra Seysell d’Aix e lo stesso Angelucci che sin dal 1874 almeno si pensava ad un catalogo illustrato da tavole fotografiche fuori testo, sul modello di esempi noti e di precedenti realizzazioni torinesi di diverso impegno: da Ghiron allo stesso Angelucci al Le Lieure di Turin ancien et moderne, sebbene forti fossero le perplessità rispetto alla permanenza ed alla stabilità dell’immagine[18]  e soprattutto proibitivi i costi: “Anche in me nacque il dubbio ch’esse non sieno durevoli – scrive il Direttore – ma disgraziatamente v’è un male ben maggiore, cioè la spesa a cui montano di 200 fotografie per n.° 2000 esemplari al prezzo ristretto di otto centesimi caduna che forma la piccola bagatella di lire trentaduemila.”[19] Ecco allora farsi avanti l’ipotesi di utilizzare la fotografia non in forma diretta ma quale modello intermedio per la realizzazione delle incisioni, scelta che porta a commissionare a Giovanni Battista Berra, titolare dell’importante studio Fotografia Subalpina “di fotografare mezz’armatura di Antonio Martinengo riposta in una delle nuove vetrine ed  i moschetti a ruota di Eman.le Filiberto che proverò poscia di far incidere sul legno dal Salvioni o dal Monaret.”[20] Le riprese vengono realizzate nei giorni immediatamente successivi, decidendo però di sostituire i moschetti con “due dei nostri più ricchi elmi” e le stampe, giudicate “discrete” sono inviate all’incisore “Meunier di Parigi, quello stesso che fece i clichets [sic] dell’opera di Lacombe [Les Armes et les Armures] onde conoscere se bastano per bene incidere sul legno e quanto costerebbe cadun clichet.”[21] Pochi mesi dopo risultano spese L. 2500 per 400 incisioni su legno “da stamparsi nel nuovo catalogo” e L. 200 per “fotografie per l’esecuzione di dette incisioni”[22].

Successivamente a queste commesse Berra otteneva da Valfré di Bonzo “la facoltà di fotografare l’insigne collezione”, forse utilizzando in parte le riprese su lastra al collodio già realizzate, e nel settembre 1882 a compimento del proprio impegno offre “in attestato di omaggio la raccolta delle fotografie da me testè condotta a termine”[23], cioè i due volumi dedicati alla Regia/ Armeria/ di/ Torino[24], con stampe all’albumina[25], che il fotografo dona anche alla Biblioteca del Re. Non possiamo escludere che questa scelta sia stata dettata a Berra da un intento puramente promozionale, destinato a consolidare definitivamente il proprio ruolo di preminenza nell’ambito degli studi fotografici torinesi impegnati nella documentazione del patrimonio artistico ed architettonico, ma va ricordato che questi soggetti godevano di ampio interesse in quegli anni e che le stampe relative erano commercializzate dal suo studio anche in forma non rilegata, come dimostra la raccolta completa proveniente dall’archivio di Adolfo Coppedé[26].  Mentre l’apertura del primo volume con la veduta della Galleria verso il Medagliere riprende modelli precedenti (Perini riproposto da Pietrobon), la sequenza successiva comporta una presentazione ordinata di armature equestri, viste quasi sempre di lato o in leggero scorcio, di riprese frontali di armature pedestri complete, corazze con elmi, alcune armi da fuoco e da taglio e finimenti, mentre il secondo volume è dedicato agli elmi, alle parti di armatura e infine agli scudi;  quasi a confermare il permanere di un interesse “neomedievale” e una scelta orientata dal gusto per i balli e le cerimonie in costume ancora presente nella società umbertina, solo due delle 130 tavole sono dedicate alle armi da fuoco.

La rappresentazione degli oggetti, identificati in lastra mediante iscrizione manoscritta su striscia in carta posta in testa all’immagine, risulta puramente documentaria, con evidenti intenzioni di oggettività descrittiva, senza il ricorso a suggestioni narrative di alcun genere, quelle che avrebbero consentito e imposto inquadrature di maggio effetto scenografico, riscontrabili in alcune delle riprese non utilizzate. Gli oggetti sono ripresi frontalmente su sfondo neutro ma visibile, comunemente costituito da un panno unito che separa dal contesto dell’Armeria anche le grandi armature equestri, combinato a volte ad un uso accorto del fuori fuoco e dei diversi valori di illuminazione, senza interventi successivi di scontornatura o mascheratura, che sono invece presenti sui negativi che saranno riutilizzati nel 1937; le luci sono morbide e ben controllate ad evitare i riflessi del metallo; i supporti sono mantenuti visibili, sino al chiodo a cui è appeso lo scudo: l’oggetto vive nello spazio reale in cui avviene la ripresa.

A testimoniare la fondatezza dei dubbi di Seysell in merito ai problemi di stabilità dell’immagine, alcune tavole dell’esemplare conservato in Armeria (es. I, 45) hanno una seconda prova, presumibilmente identica, sovrapposta alla prima, forse per ovviare a una debolezza intrinseca della stampa rilevata dopo la rilegatura, ciò che farebbe pensare ad una data di realizzazione lievemente posteriore all’esemplare conservato in Biblioteca Reale, in cui il forte sbiadimento generalizzato ha reso evidentissimi i pesanti ritocchi operati sui positivi, non visibili invece nell’altro esemplare.[27]

La realizzazione di queste fotografie si colloca in un momento in cui alle originarie spinte del revival neogotico si sovrappongono progressivamente  e si mescolano – come si è accennato – interessi antiquariali, collezionistici ed eruditi accanto a più generali questioni di gusto: pur non potendo qui affrontare il merito del problema, basti pensare all’interesse per le armature testimoniato dalle fotografie realizzate da Charles Clifford nel1850-1860 e conservate nella collezione di Mathew Digby Wyatt,  alle collezioni di  Gian Giacomo Poldi Pezzoli a Milano e di Frederick Stibbert  a Firenze naturalmente[28], ai già citati Coppedé così come alle raccolte veneziane di Mariano Fortuny y Madrazo, che aveva tra le proprie collezioni anche le fotografie di C. Chevaliers dell’armeria del castello di Pierrefonds (1870ca).  Per il Piemonte ricorderemo qui le armature della collezione reale  prestate per il ballo in maschera del Duca di Teano nel 1875[29] , le collezioni e i temi delle opere di Edoardo Calandra, ma anche la figura di Vittorio Avondo, collezionista poi donatore ai Musei Civici di armi da taglio e da fuoco, già dal 1865, e nel cui castello di Issogne erano presenti armature fotografate da Ecclesia[30] nel 1882,  appena prima dei personaggi in costume che animavano il Borgo Medievale. A queste  si ispireranno le fotografie ambientate realizzate dallo Studio di Riproduzioni Artistiche di Edoardo Balbo Bertone di Sambuy[31], effettivo tramite tra il gusto sabaudo dei caroselli e dei balli in costume e il nascente pittorialismo storicistico di Guido Rey.

Dobbiamo ritenere che proprio in virtù del lungo rapporto di collaborazione tra Fotografia Subalpina e Direzione dell’Armeria Raffaele Cadorna abbia poi deciso di affidare allo Studio Berra, il titolare era morto alcuni anni prima, nel 1894, la realizzazione del grande progetto celebrativo e documentario che prenderà corpo con i tre volumi editi nel 1898, pubblicazione fondamentale per definire visivamente l’identità delle collezioni avendo quale supporto identificativo il Catalogo pubblicato da Angelucci nel 1890, forse già prefigurata dieci anni prima, come lascerebbe intuire una lettera dello stesso Cadorna  a Berra, datata 1888, in cui il Direttore rileva come “a rendere più praticamente utile e ad un tempo più pregevoli i due volumi delle accurate fotografie (…) occorrerebbe che in qualche modo si facesse risultare quale oggetto rappresenti ogni singola fotografia”[32], lettera corredata da un’annotazione a matita blu, forse più tarda, che recita: “Fototipia Turati a Milano”.

Le indicazioni progettuali fornite dal Direttore sono estremamente precise e comportano la realizzazione di album con stampe in fototipia “interamente conformi a quelli stati recentemente pubblicati dal Museo d’Artiglieria di Parigi (…) Ogni serie di album si comporrà di una prefazione ed in media di 40 tavole di fototipia caduna[33]  oltre ad un indice delle tavole stesse recante le indicazioni corrispondenti alle classificazioni descritte nel catalogo Angelucci (…) è riservata al Direttore dell’Armeria la indicazione degli oggetti a riprodursi, il loro ordine e la composizione dei gruppi per ogni serie [mentre] la Fotografia Berra si assume l’incarico di provvedere sotto la esclusiva sua responsabilità, ad ogni lavoro e provvista occorrente alla compilazione di quella serie di album”[34], svolgendo di fatto il ruolo di editore.

Secondo questi primi accordi il progetto doveva essere compiuto per “l’epoca dell’apertura della Esposizione Nazionale indetta pel 1898 in Torino” e affidato per la stampa allo stabilimento torinese Fototipia Molfese e Charvet, via XX settembre, 56. L’accordo prevedeva inoltre che le lastre realizzate in quell’occasione dovessero essere conservate dallo Studio Berra, ma ad esclusiva disposizione della Real Casa.

Di questa prima fase di produzione, non interrotta alla morte di Cadorna nel 1897, rimangono una prima serie di riprese realizzata da Berra nel 1896 e stampate da Alberto Charvet, che ci ha lasciato puntuali indicazioni di lavoro in cui tutta la sua esperienza di fotografo ed editore è rivolta alla determinazione della resa più efficace nella raffigurazione di oggetti complessi e difficili come le armature e le armi: “Pessima modellazione – Errore grave l’aver posto drappi bianchi sotto l’armatura – riflessi di luci secondarie”, commenta a proposito della prima ripresa delle armature C25 e C13, e l’annotazione rasenta addirittura il sarcasmo quando a proposito dell’armatura B6 parla di “Grave distorsione – ingrandimento delle parti più avanzate – Nessuna modellazione (Pennaccio [sic] uso baldacchino da letto).”[35]

La lettura di queste prime prove di stampa e il rinvenimento di alcune delle relative riprese, oltre a costituire un’importante testimonianza del livello qualitativo dell’editoria d’arte torinese allo scadere del XIX secolo, consente di valutare una soluzione formale di presentazione distante dai modelli precedenti e sostanzialmente diversa da quella finale: non solo, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Cadorna gli oggetti riportavano su etichetta “la indicazione della lettera di alfabeto col numero corrispondente al catalogo Angelucci”, fornendo un’utile indicazione che appesantiva però le immagini, ma soprattutto le parti di armature erano sempre presentate poggiate su supporti, a volte coperti di tessuti in broccato, secondo un gusto che risulta prossimo a realizzazioni di molto precedenti, quali ad esempio la raccolta di tavole dedicate a L’Arte Antica alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino nel 1880, che lo stabilimento dei Fratelli Doyen aveva pubblicato nel 1882[36].

Le pungenti critiche di Charvet determinano però l’incrinarsi dei rapporti con lo stabilimento Berra e in particolare col suo direttore Giovanni Assale, accusato dallo stampatore  di essere “privo di quelle cognizioni pratiche necessarie in un simile e non troppo facile lavoro. Questi dissidi richiesero l’intervento del Cav. Cantù. Ma per quanto le negative fotografiche fossero poi fatte sotto la direzione del prelodato Signore, non erano eseguite con quella perfezione e con quella cura prescritte e richieste dalla grave esigenza della fotografia e fototipia”[37], ragione per cui Charvet propone o di “fare le negative fotografiche per conto delli Berra” o di “rimediare alla imperfezione delle negative col ritoccarle, fare un positivo su vetro, ritoccare questi e fare altra negativa per contatto”, ma tali proposte non vengono accettate  e “Il Cav. Cantù d’accordo col fotografo  ha persuaso l’Onorevole Direzione Reale Armeria [sic] che io non ero capace di fare la buona fototipia.”

La divergenza si era infatti trasformata in causa civile e il direttore dell’Armeria Luigi Avogadro si era visto costretto a rivolgersi “ad alcune persone intelligenti nella materia e tra esse (…) al Sig. Cav.re Cantù, Consigliere Comunale distinto fotografo ed artista Conservatore della Regia Pinacoteca (…) altamente apprezzato nel ceto artistico torinese”[38], che firmerà anche  la litografia con l’immagine del cavaliere in armi in antiporta dell’edizione definitiva dei volumi[39].

Di quali fossero le effettive difficoltà di esecuzione del lavoro sin dalla fase di ripresa ci rimane testimonianza nelle parole di Assale che  nel gennaio del 1897 conferma  che “Sarà cura del sottoscritto di non lasciar trascorrere inutilmente la futura propizia occasione di una nevicata per la esecuzione delle negative degli interni della Galleria e della Rotonda”[40], ma anche nelle prescrizioni dello stesso Avogadro di Quaregna che – su indicazione dello stesso fotografo –  ricorda tra le difficoltà da superare per la realizzazione del progetto “anche quella della difettosa illuminazione interna (…) che per scarsità di luce e per i molti riflessi non si addice alle riproduzioni fotografiche. Onde eliminare si fatto inconveniente si dovette addivenire alla costruzione di una forte impalcatura provvisoria nell’interno dello scalone ove la luce è più abbondante e propizia”[41],  oltre a disporre una tenda di percalle bianco al “gran finestrone nello scalone” e una “tenda oscura per la finestra attigua alla galleria della Prefettura per impedirne la luce”, mettendo a disposizione del fotografo il “personale di fatica occorrente al trasporto dei monumenti equestri sopra l’impalcata dello scalone e rimettere nella galleria dopo la loro riproduzione fotografica.”[42]

Già dall’agosto del 1897 Luigi Cantù sottopone a verifica le prime prove di Charvet e le confronta con quelle dello stabilimento milanese Calzolari e Ferrario, forse nel frattempo contattato dallo Studio Berra[43], prove che saranno  giudicate dal Direttore “assai superiori per merito artistico a quelle del Charvet le quali (…) sono sbiadite e difettose.”[44]

La verifica del nuovo ciclo di stampe avviene a ritmo serrato sino al luglio dell’anno successivo, mentre procede la causa tra fotografo e stampatore, che nel gennaio 1898 aveva presentato un memoriale difensivo direttamente al Re[45].

Avviandosi ormai alla conclusione del progetto, ma necessitando ulteriori finanziamenti per il suo compimento, Luigi Avogadro rileva come “Quantunque siasi limitato assai il lavoro delle riproduzioni fotografiche alle sole armi ed oggetti di maggior pregio artistico e storico qui conservate, raggruppandone anzi molti a guisa di trofei, si dovette tuttavia eseguire ben n.° 200 riproduzioni [sic] tavole mentre nel primitivo progetto erano state preventivate a calcolo approssimativo solo 120 tavole”[46] , rendendo così ragione di una modalità di presentazione delle opere e di impaginazione solo raramente adottata nei due volumi fotografici di Berra del 1882 e qui invece sistematicamente applicata nella presentazione di armi e di parti di armature. Forse anche in conseguenza di questo vincolo le nuove tavole con le immagini definitive ritornano a una concezione più astratta e didascalica, per nulla narrativa: armature e armi non sono mai ambientate e – ove possibile – neppure poggiate. Ancora una volta vince la presentazione astratta da ogni contesto, secondo la consuetudine illustrativa già adottata da Perini.

Le armi vivono in uno spazio assoluto, autoreferenziale, in cui solo la presenza dei piedistalli delle armature complete riporta alla pesante materialità dell’oggetto e anche la disposizione degli oggetti nello spazio di ciascuna tavola risponde ad una logica che è tutta compositiva,  mai referenziale. L’autonomia rappresentativa della fotografia sembra ancora una volta essere esclusa, lo strumento è trasparente, l’illusione è quella di accedere alla pura forma dell’oggetto nella sua essenza di opera: solo le frange delle rotelle cascano irrimediabilmente verso il basso.

La ripresa fotografica acquista invece tutta la sua potenzialità funzionale nelle tavole di apertura dedicate agli spazi dell’Armeria ed a loro allestimento, nel campo e controcampo della Rotonda come nella minuziosa sequenza delle vetrine e panoplie della Galleria Beaumont: per la prima volta la referenzialità fotografica registra le tracce dell’immaginario d’origine, “fatto per appagare la vista del visitatore”, ormai positivisticamente trasformato dal Maggiore Angelucci per consentire al visitatore “lo studio dei monumenti che gli si parano dinanzi.”[47]

 

Note

[1] Armeria Reale/ di/ Torino/ Venezia mdccclxv/ Stabilimento fotografico di Antonio Perini proprietario ed editore/ Calle largha S. Marco ponte dell’Angelo n.403, con 54 tavv. fotografiche all’albumina da negativi al collodio descritte nel testo + 3 tavv. non elencate:  1 veduta generale della Galleria Beaumont su carta salata, 1 monumento equestre a B. Colleoni e – in chiusura –  1 elmo figurato. Ricordiamo qui che anche Angelucci, nella presentazione del suo catalogo dichiarerà (pur optando per un mezzo diverso) di aver voluto “illustrarlo con numerose incisioni che valgano a mostrare l’esattezza delle descrizioni”, Angelo  Angelucci, Catalogo della Armeria Reale. Torino: Tip. Candeletti, 1890, p. viii, sottolineatura nostra. Come ha ricordato Marina Miraglia, Culture fotografiche e società a Torino 1839-1911. Torino: Umberto Allemandi, 1990, p.338, su segnalazione di Claudia Cassio: “Potrebbe essere un pagamento a saldo per il suo lavoro all’Armeria Reale, l’erogazione di 40 lire nel secondo quadrimestre del 1867, riportata nei registri contabili dell’archivio dei Duchi di Genova”, ma non è escluso che allo stesso acquisto si possa riferire l’imprecisa registrazione di una spesa di sessanta lire per un “Album fotografico del Sig. Pasini [sic] in Venezia”, ASAR, f.2, Corrispondenza … dal 9mbre 1856 al Xmbre 1877, n.119, 17 giugno 1873.

Antonio Perini, veneziano (1830-1879) era ben noto all’epoca per aver dato “impulso alla riproduzione de monumenti (…) di quadri, di opere antiche.” (G. Jankovic, citato da Alberto Prandi, nella scheda relativa al fotografo in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979, pp.171-172). In particolare fu il primo a pubblicare nel 1862 il facsimile del Breviario Grimani conservato alla Biblioteca Marciana, presentandolo all’Esposizione di Londra di quell’anno, e così avviando la fortuna editoriale del Breviarium secundum consuetudinem Romanae curiae appartenuto al cardinale Domenico Grimani, poi proseguita con la pubblicazione in facsimile realizzata sempre a Venezia da Ferdinando Ongania nel 1880, con 112 eliotipie e 4 cromolitografie, negli anni del monumentale impegno dell’editore per l’illustrazione della Basilica di San Marco. Perini pubblicherà poi, quasi alle soglie della morte, il Fac-Simile delle miniature di Attavante Fiorentino contenute nel codice Marciano Capella “Le Nozze di Mercurio colla Filologia” che si conserva nella Biblioteca Marciana. Venezia: Stabilimento fotografico di A. Perini, 1878, che si affianca ad altre analoghe imprese, ancora di Ongania, cfr. Paolo Costantini, Ferdinando Ongania editore veneziano e l’illustrazione della Basilica di San Marco, “Fotologia”, 1, giugno 1984, pp.4-10.

Nel 1915 Ulrico Hoepli scriverà alla Direzione per avere notizie del volume dedicato all’Armeria, che descrive composto di 61 tavole, del quale non riesce ad avere traccia neppure da altri librai specializzati e ne chiede eventualmente la disponibilità di una copia. A stretto giro di posta (4 gg.) la Direzione risponde identificando il volume con l’album Perini che però viene descritto formato da “55 fototipie”, cioè con una errata indicazione della tecnica e della consistenza (ASAR B1391).

[2] François Arago, Rapport sur le Daguerreotype. Paris: Bachelier,1839 (facsimile, Milano: Labor, 1964). Per il ruolo svolto dal fisico francese nella definizione stessa delle applicazioni e implicazioni connesse alla nuova scoperta si veda François Brunet, La naisssance de l’idée de photographie. Paris: Presses Universitaires de France, 2000.

[3] Benjamin Delessert, Notice de la vie de Marc Antoine Raimondi graveur Bolonais accompagné de reproductions photographiques de quelques uns de ses estampes, 7 voll.  Paris- Londres: Goupil & C. – Colnaghi & C., 1853-1855. Nella nota esplicativa afferma: ” les planches qui accompagnent cette Notice sont la reproduction la plus exacte possible des gravures mêmes de Mar-Antoine. La grandeur est scrupuleusement celle de l’original ; et non seulement l’effet général de l’estampe, mais chaque trait, chaque contour doit être fidèlement rendu. J’ai voulu faire moi-même les négatifs de ces planches; tous ont été faits sur papier. Quelques personnes m’ont conseillée des types sur glace par l’albumine ou le collodion : j’aurais obtenu plus de finesse et de netteté, mais je n’aurais pu éviter, je crois, une dureté et une séchesse qui n’existent pas dans les estampes de Marc-Antoine; ces  procédés selon moi, conviennent principalement aux graveurs de l’école de Pontius, de Bolswert, de Wille.”, vol. I, p.27. Sul dibattito in area anglosassone intorno alle questioni filologiche poste dalla riproduzione fotografica di opere d’arte si veda Anthony Hamber, “A higher branch of the art”. Photographing the Fine Arts in England 1839-1880. London – Amsterdam, Gordon & Breach, 1996, mentre un significativo esempio italiano è stato studiato pochi anni fa da Roberto Cassanelli, Morris Moore, Pietro Selvatico e le origini dell’expertise fotografico, in Tiziana Serena, a cura di, Per Paolo Costantini,  I,  Fotografia e raccolte fotografiche, “Centro di Ricerche Informatiche per i beni Culturali. Quaderni”, VIII, 1998,  pp.41-47.

[4] Vale a dire della camera chiara o lucida, messa a punto da W. Wollaston nel 1807.

[5] Lettera del Direttore Actis, [10 ottobre 1861], ASAR f.73. Ancora una volta si confermano le ragioni del fascino esercitato dall’oggettività fotografica sulla cultura ottocentesca sin dalla prima comparsa delle nuove immagini; si pensi a quanto affermava già il “Messaggere Torinese” nel riportare la notizia del primo annuncio del dagherrotipo, nel numero del 23 febbraio 1839: “Il dagherrotipo (…) renderà comuni le più belle opere d’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli ” cfr. Miraglia 1990, op. cit.,  sottolineatura nostra, ma anche alle riflessioni a proposito della “mania di abbellire innata in ogni artista” che John Alexander Ellis antepone nel 1849 al proprio progetto di Italia in dagherrotipo (cfr. Piero Becchetti, La fotografia a Roma dalle origini al 1915. Roma: Editore Colombo, 1983,p.12), o – per limitarci all’Italia – alle più tarde e analoghe riflessioni di Pietro Estense Selvatico, cfr.  Tiziana Serena, Pietro Selvatico e la musealizzazione della fotografia, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, ser. 4, v. 2, 1 (1997), pp. 75-96.  Risulta chiaro da queste testimonianze quanto fosse il valore di verosimiglianza piuttosto che quello della riproducibilità a far progressivamente preferire la fotografia alle tecniche calcografiche nella documentazione del patrimonio artistico e architettonico.

[6] Per la datazione di queste stampe si rimanda all’attenta analisi di Miraglia 1990, op. cit.,schede nn.124-125, p. 338, confermata e precisata dalle ricerche condotte da  Paola Manchinu – che ringrazio – per questa occasione: la concessione “d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.” fu infatti concessa a Chiapella il 15-9-1860, ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.23.  Dalla stessa fonte si ricava che “in Torino non possono essere concessi più di quattro Brevetti di R.o Stemma per ogni arte, mestiere, industria, ecc.”

Del fotografo va ricordato, oltre alle imprese note, l’album non datato A.S.S.R.M./ Vittorio Emanuele II/Fotografie/ di Francesco Maria Chiapella conservato alla Biblioteca Reale di Torino, costituito da venticinque tavole con stampe all’albumina, che contiene, oltre alla riproduzione di un ritratto del re, una serie eterogenea di saggi fotografici che spaziano dalla riproduzione delle incisioni del ciclo decorativo di Paul de la Roche per il Louvre a sculture e dipinti di soggetto risorgimentale, dalle vedute dei dintorni torinesi (il Monte dei Cappuccini, Alpignano, Collegno) ad alcune residenze sabaude (Valentino, Moncalieri, Stupinigi), da porre in relazione con l’album richiamato in Miraglia 1990, op. cit.,scheda n.60. p.330, e databile 1857-1860.

[7] Appartiene alla nutrita schiera (F. Barbaroux, M. Beria d’Argentine, Edoardo de Chanaz, Radicati Talice di Passerano tra gli altri) di esponenti della nobiltà piemontese che si dedicano professionalmente (in modi ancora tutti da definire) alla pratica fotografica, specialmente nell’ambito del ritratto in formato carte de visite, ma evidentemente non solo, come dimostrano queste riproduzioni inedite e il suo album, su commissione del Duca d’Aosta, di riproduzioni di disegni del carosello storico realizzati dal pittore Cerruti Bauduc, prodotto nel 1864 alla vigilia della conclusione della sua breve attività professionale (1856ca-1865). Cfr. Miraglia 1990, op. cit., scheda p.354.

[8] ASAR, fasc.1, Nuova Direzione, n.7. La mancata realizzazione dell’opera non consente di verificare nel concreto la coerenza del progetto, ma basti qui ricordare che nell’accezione ottocentesca il termine “Album fotografico” poteva riferirsi anche ad una raccolta di disegni riprodotti fotograficamente, analogamente a quanto accadeva, ad esempio, con gli album della Società Promotrice delle Belle Arti. Va comunque sottolineata la coincidenza temporale e (parziale) di intenti tra l’edizione Perini e il progetto del Direttore. Sebbene l’album Perini risulti acquistato solo nel 1873 (cfr. nota 1), è inimmaginabile che la prima documentazione fotografica sistematica delle collezioni dell’Armeria non fosse nota al nuovo Direttore; non escluderei anzi che proprio dall’esempio di Perini si possa essere formata in Seyssel d’Aix l’intenzione di illustrare a sua volta le armature a cavallo con un “Album fotografico”, sebbene concepito ancora come raccolta di riproduzioni di disegni, forse per non rinunciare, come ipotizza Venturoli, alla “romantica” chiave interpretativa fornita dalle tavole di Ayres. Ringrazio Paolo Venturoli per la segnalazione di questo e di altri notevoli documenti conservati presso l’Archivio storico dell’Armeria.

[9] Angelucci 1890, op. cit., pp.410-414. Studio Bertieri di Torino realizzerà una serie di riprese del fucile M11 presentate all’Esposizione di Firenze del 1899, come testimonia una stampa conservata nell’Archivio fotografico dell’Armeria.

[10] Charles Marville, Vedute di Torino. Turin: Maggi, s.d., [1859ca],citato  in Fotografi del Piemonte 1852-1899: Duecento stampe originali di paesaggio e di veduta urbana, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Madama, giugno-luglio 1977) a cura di Giorgio Avigdor, Claudia Cassio, Rosanna Maggio Serra. Torino: Città di Torino – Assessorato per la Cultura – Musei Civici, 1977, pp.37-38, con una datazione proposta al 1865-1870 che Miraglia 1990, op. cit., p.334 aveva già anticipato al 1861-62, ma che sarà più corretto attribuire al 1858-59, quando Marville è in Italia e in Grecia con Charles Cordier per realizzare l’impresa dedicata alla Sculpture Ethnographique, commissionata dal governo francese nel 1850 (vale a dire prima della notissima “Mission Héliographique) e quindi pubblicata in fascicoli successivi. Un esemplare dell’opera venne dedicato “A S.M. Victor Emmanuel Roi d’Italie”. Potrebbero essere identificate con questa ripresa – oggi nota attraverso l’esemplare conservato presso la Biblioteca centrale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino – le dieci “Fotografie di Maggi della R. Armeria”, ricordate in un Quadro dimostrativo” datato 1 aprile 1888, ASAR, Strumenti, 47. Va ricordato che l’Armeria non sarà compresa – ad esempio – nell’album di Henri Le Lieure, Turin ancien et moderne, 1867ca, mentre verrà più tardi documentata da Brogi e quindi da Alinari. L’occasione per la realizzazione di queste riprese di Marville potrebbe essere individuata nella campagna fotografica di documentazione dei disegni della Biblioteca Reale e della Biblioteca Ambrosiana, (circa 150 stampe di riproduzione in formati diversi edite nel 1864 ca,  che faceva seguito all’impegno analogo per le collezioni del Louvre, pubblicate pochi anni prima e certamente note anche a Torino, come testimoniano i fogli oggi conservati all’Accademia Albertina di Belle Arti. La datazione delle riprese italiane potrebbe essere ulteriormente anticipata  alla metà del decennio precedente considerando che egli usava la definizione di “Photographe du Musée Imperial du Louvre”, che ritroviamo sui cartoni delle stampe torinesi, prima del 1855, anno di chiusura della stamperia di Blanquart-Evrard a Lille, di cui fu uno dei più assidui collaboratori.

[11] Esposizione storica d’arte industriale in Milano, Catalogo Generale. Milano: Stabilimento Tipografico Fratelli Treves, 1874, pp.135 e segg., Le opere dell’Armeria occupano le vetrine dalla n. li alla n. lxv

[12] Antonio Beretta, presentazione al Catalogo Generale, 1874, cit. s.n. Il testo del Presidente dell’ Associazione Industriale Italiana costituisce una precisa testimonianza del progetto culturale sotteso a queste manifestazioni, ben sintetizzato dalla sua definizione dei Musei quali “raccolte pubbliche di buoni modelli.”  Per un utile confronto con le diverse strategie dell’analogo torinese si veda Carlo Olmo, L’ingegneria contesa. La formazione del Museo industriale, in Pier Luigi Bassignana, a cura di, Tra scienza e tecnica. Le Esposizioni torinesi nei documenti dell’Archivio storico AMMA 1829-1898.  Torino: Umberto Allemandi & C., 1992, pp.103-122.

[13] Dalla lettera di richiesta di autorizzazione alla riproduzione degli oggetti esposti inviata al Direttore dell’Armeria dal Presidente del Comitato Esecutivo dell’Esposizione, ASAR, f. 892, Milano, 12 luglio 1874.

[14] ASAR, f. 1278, Esposizione 1874.

[15] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.140.

[16] ASAR, f.2, Nuova Direzione, nn.130,166, 167.

[17] 50 stampe all’albumina  montate su tavole sciolte che riportano in calce a destra la scritta litografata “A. Pietrobon – Torino. Alberto Pietrobon partecipò alla spedizione italiana in Persia del 1862 guidata dal ministro Marcello Cerruti, come assistente di Luigi Montabone (1827 ca.-1877), cfr. Michele Falzone del Barbarò, L’album persiano di Luigi Montabone, “Fotologia”, 3 (1986), n. 6, dicembre, pp. 24-33.

Di Pietrobon è nota anche una serie di N° XXV / Fotografie delle pitture di Gaudenzio Ferrari nell’/ interno della Chiesa della Madonna delle Grazie in / Varallo  realizzate nel 1887 ma che entrano a far parte delle collezioni reali “con foglio dell’Amm.ne R.C. [Real Casa] 3 marzo 88” ,BRT Y-31 (22).  Si tratta di stampe all’albumina di qualità palesemente inferiore alle tavole che costituivano il lavoro per l’Armeria.

Come risulta dal confronto tra fonti archivistiche e bibliografiche, prima della sede veneziana Pietrobon esercitava a Firenze in Via Solferino, 4 sotto l’insegna di “Arte e Natura”, potendosi fregiare del titolo di fotografo del Re, concesso in data 24 giugno 1865. Verosimilmente la produzione dell’album torinese era destinata ad ottenere la concessione anche per la nuova sede. Cfr: ASTO, Casa di S. M., Cartelle, Fasc. 619/2 n.24, Concessioni fatte da S. M. d’inalberare il R.o Stemma sulle insegne di Negozi, Opifizi ec. Non che di Titoli di Provveditori della M. S.; Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880. Roma: Quasar, 1978, p.67.

[18] Sulle iniziative in merito alla soluzione del problema della stabilità delle stampe fotografiche dopo la metà del XIX secolo si veda Sylvie Aubenas, La photographie est une estampe. Multiplication et stabilité de l’image, in Michel Frizot, a cura di, Nouvelle histoire de la photographie.  Paris:  Bordas, 1994, p.224-231.

Esemplare dell’attenzione italiana per questi temi l’intervento di Carlo Felice Biscarra, Fotoglittica. Stabilimento Le Lieure in Torino, “L’Arte in Italia”, iv, 1870, p.58, ora in Piergiorgio Dragone, Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, 2000, p.130,   in cui celebra e descrive il “mirabile processo” messo a punto in Inghilterra nel 1864 da Woodbury (e non Woodburg, come recita il testo) “mezzo immediato e prontissimo di riproduzione dei lavori artistici e soprattutto degli oggetti di scultura i quali specialmente, per essere monocromi, non vanno soggetti a veruna alterazione di colore, di tinta”, così che l’opera risulta “integralmente tradotta come attraverso ad uno specchio”. Con questo processo, noto anche come woodburytipia, si poteva ottenere “tutta la sfumatura graduata del modellato e dell’ombreggiatura proprio delle migliori fotografie, serbandone di più l’inalterabilità, epperciò preferibile a queste ultime soggette a svanire, come è notissimo.” (ibidem)

Ancora alla fine del decennio un acuto osservatore e buon fotografo come il biellese Domenico Vallino, così si esprimeva sulle  possibili applicazioni della fotografia alla stampa col sistema della fotolitografia, prendendo spunto dal recente testo di Lugi Borlinetto, I moderni processi di stampa fotografica. Milano: Pettazzi, 1878: “I miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci  sono una fanciullaggine rispetto alla moltiplicazione dei prodotti dell’ingegno a’ giorni nostri e la fede nella scienza la quale verrà a sostituire la fede teologica, riceve oggidì in questi miracoli il suo nutrimento. Dopo la stampa a mano, la stampa a macchina, la stampa celere, la litografia, l’incisione, ora si aggiunge un’arte novella per moltiplicare il pane eucaristico della nuova fede. Alludo alle recentissime applicazioni della fotografia alla stampa e queste si chiamano: fotolitografia, fotogliptia, foto-incisione, fototipia, eliografia ecc. ecc.”, D.Vallino, Un’arte novella, in “L’Eco dell’Industria”, 28 febbraio, 7 marzo, 10 marzo 1878.

[19] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.93, 3 febbraio 1874.

[20] Ibidem.

[21] ASAR, f.2, Nuova Direzione, n.95, 10 febbraio 1874.

[22] ASAR, f.2, Nuova Direzione,n.120, 24 giugno 1874.

[23] ASAR, f.1207, Lettera di G.B. Berra, Torino 25 settembre 1882.

[24] È questo in realtà il titolo dell’edizione conservata presso la Biblioteca Reale, mentre l’altra porta la dedica “Alla Direzione della Reale Armeria di Torino/ Omaggio dell’Autore Cav.re G. B. Berra Pittore e Fotografo” con una formula che ricorda quella dell’album realizzato dallo stesso fotografo per la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1880: “A S.M. Umberto I/ che più di tutti/ ama la grandezza/ della Patria/ Questo ricordo/ della IV Esposizione Nazionale/ di Belle Arti/ offre con riconoscente ossequio/ il pittore fotografo/ G.B. Berra/ Torino agosto 1880”. Ricordiamo qui che nella stessa occasione sei foto Berra di Rivara sono presentate da D’Andrade e viene realizzata la cartella a tavole sciolte in fototipia di Doyen in cui compaiono anche armi e armature.

Su Berra si veda Miraglia 1990, op. cit.,p.358, pur con imprecisioni  dovute “alla non sempre precisa segnalazione delle guide”: è infatti probabile che il “pittore” di cui parla la Guida Galvagno del 1872 fosse proprio Giovanni Battista, che muore nel 1894 mentre l’attività dello studio (Fotografia Subalpina) sarà proseguito dalle due figlie.

Dopo essersi segnalato in occasioni diverse quale autore di riproduzioni di opere d’arte, nel 1882 Berra viene incaricato, con Vittorio Ecclesia, di fotografare i circondari di Torino e Susa e il territorio di Ivrea e Aosta, assistiti rispettivamente da Biscarra e da Crescentino Caselli, su incarico della Commissione conservatrice dei monumenti di arte e di antichità, cfr. P. Cavanna, Documentazione fotografica del patrimonio architettonico in Piemonte 1861-1931,  “Architettura & Arte” , n.11-12, luglio-dicembre 2000, pp. 16-23. 

[25] Le stampe costituenti le due serie di volumi conservate rispettivamente in Armeria e presso la Biblioteca Reale si presentano in diverse condizioni di conservazione. A oggi si conservano 113 lastre al collodio 21×27; qualche lastra presenta ritocchi e mascherature non rilevabili nelle stampe coeve, segno certo di una riutilizzazione successiva per ora non precisamente identificata.

[26] Le foto Berra anche nel fondo Coppedè ora all’AFT, 15 album e oltre 170 fotografie sciolte acquisiti nel 1986, vedi la Scheda descrittiva del Fondo in “AFT”, 3 (1987), n. 5, giugno, p.12, che contiene anche due brevi saggi orientativi sul clima culturale e sull’attività della famiglia: Carlo Cresti, Eclettismo come costume di vita, pp.13-21, e Mauro Cozzi, L’abbecedario dei Coppedè, pp.22-31.

Gli album appartennero ad Adolfo e dovevano servire quali raccolte di modelli decorativi. Mariano, Gino, Carlo e Adolfo: Dinastia fiorentina di intagliatori (il padre Mariano), pittori (Carlo) e  architetti gli altri due, ma di humus di iperbolico virtuosismo artigianale fecondato dalle architetture effimere dei padiglioni espositivi e dalla scenografie del melodramma e del nascente cinematografo.

[27] Il volume secondo dell’esemplare BRT non solo è costituito da 65 (invece di 63) tavole, con titolo, manoscritto in calce che coincide alla lettera con le scritte autografe presenti sulle lastre conservate presso l’Archivio fotografico della Soprintendenza, ma anche la sequenza presenta un ordine diverso: il volume si apre infatti con armature a piedi (tavv.1-22) ed  elmi (23-60) per chiudere con finimenti (61-63), il rostro romano (64) e l’elsa “di Donatello” (65).

La catalogazione delle lastre superstiti ha consentito in alcuni casi di analizzare anche le varianti di ripresa (laterale/ scorciata; fuori fuoco o con sfondo neutro) o la documentazione di oggetti poi non compresi nella versione  definitiva degli album, ma comunque messi in circolazione autonomamente (Zuccotto da parate E93, presente nell’esemplare conservato presso la Biblioteca Reale di Torino ma anche tra le stampe del Fondo Coppedè).

[28] Firenze: in occasione dell’inaugurazione della facciata del duomo nel 1887 Umberto I e Margherita giungono a Firenze, festeggiati tra le altre cose da un corteo storico e un gran ballo in costume medievale nelle sale di Palazzo Vecchio, organizzato da Frederick Stibbert, che si presentò vestito della copia di un’armatura inglese del 1370, proveniente dalla sua collezione privata (56.000 pezzi) ospitata nella villa di Monturghi, alle porte di Firenze, con un gusto che richiama piuttosto l’eclettismo imaginifico che sarà di Fortuny o e poi di D’Annunzio (del dandy insomma) che non l’attenzione filologica dello studioso, cfr. Frederick Stibbert. Gentiluomo, collezionista e sognatore, catalogo della mostra ( Firenze 2001), a cura di Kirsten Aschengreen Piacenti. Firenze: Polistampa, 2001. Il gusto della celebrazione in costume, al limite (a volte tranquillamente superato) della giocosità carnevalesca, ma certo intriso anche di celebrazione storicista. Si pensi agli analoghi torinesi.

[29] Ne da notizia in due successive lettere al marchese di Montereno, gentiluomo di corte di S.A.R. la Principessa di Piemonte, il Direttore Luigi Seyssell, chiedendo contestualmente l’invio delle fotografie realizzate in quell’occasione. ASAR, F.2, Nuova Direzione, nn.159, 161, 28 febbraio, 2 maggio 1875.

[30] Vittorio Ecclesia, Castello d’Issogne in Valle d’Aosta, con un testo di G. Giacosa. Torino: Camilla e Bertolero, s.d. [1882 post], 20 albumine 27/27 (dell’opera esiste anche un’edizione con 18 stampe in formato 13/18).

[31] Cfr. P.  Cavanna, La documentazione fotografica dell’architettura, in Alfredo D’Andrade: Tutela e restauro, catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale – Palazzo Madama, 27 giugno-27 settembre 1981) a cura di Daniela Biancolini Fea, Maria Grazia Cerri, Liliana Pittarello. Firenze: Vallecchi, 1981, pp. 107-123.

[32] ASAR, f.1207, 7 marzo 1888.

[33] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898, in cui segnala la necessità di un ulteriore finanziamento connesso proprio al maggior numero di tavole realizzate.

[34] Convenzione tra Raffaele Cadorna, Direttore e Conservatore della Reale Armeria e le titolari dello Studio Berra, Celestina Berra Bussolino e Gustava Berra Favale, Torino, 30 luglio 1896, ASAR C387.

Lo scambio di documenti e cataloghi col Museo d’Artiglieria di Parigi si era avviato all’inizio del decennio ed era proseguito sino al 1896, ASAR, B 1502, circa gli stessi anni in cui si realizzava anche il catalogo illustrato dell’Armeria Imperiale di Vienna (ASAR B1503), Wendelin Boeheim, Album Hervorragender Geganstande aus der Waffensammlung. Wien, J. Löwry, K.U.K. Hofphotograph, 1894 (I)-1898 (II).

[35] Su Alberto Charvet si veda Miraglia 1990, op. cit., pp. 371-372. L’archivio storico dell’Armeria conserva una cartella di Prove fotografiche e stampe di armature (…) da cui si ricava conferma della realizzazione di “nuove negative”, cioè del rifacimento parziale delle prime riprese. Di questa prima fase di produzione si sono conservate 19 lastre e 138 fototipie.

[36] In quell’occasione la Regia Armeria non aveva concesso alcun oggetto della propria collezione: Lettera del Ministro della Real Casa al Direttore, Roma, 11 marzo 1880, ASAR, f.895.

[37] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898; da questo documento, salvo diversa indicazione,  provengono anche le citazioni successive.

[38] Per le sinora scarne notizie su Luigi Cantù, Vicepresidente della Commissione della Sezione fotografica dell’Esposizione Nazionale di Torino dello stesso 1898, membro del Circolo degli Artisti, tra i futuri promotori della Società Fotografica Subalpina e vicino alla famiglia del Duca di Genova, si veda Miraglia 1990, op. cit., p. 368; Album di famiglia 1850-1940, catalogo della mostra, (Torino, Fondazione Italiana per la Fotografia, 1997), a cura di Dario Reteuna. Torino: FIF,  1997, p.60; Società Fotografica Subalpina 1899-1999. Torino: Daniela Piazza Editore, 1999, pp.14-16. Non si esclude che possa riferirsi ad una ulteriore fase intermedia la prova eliotipica di “Armi antiche” firmata da Carlo Bazzero e conservata tra le carte dell’Archivio dell’Armeria.

[39] Armeria/ Antica e Moderna/ di S.M. il Re d’Italia/ in Torino. Milano: Eliotipia Calzolari e Ferrario, s.d.  [1898], con introduzione di Luigi Avogadro di Quaregna; tre volumi per complessive 198 tavole in fototipia (1/69 – 70/129 – 130/198). Questa edizione si caratterizza per l’antiporta disegnata da Luigi Cantù e per le impressioni in oro al piatto anteriore e al dorso, mentre la successiva del 1902 è priva di immagine all’antiporta e di veline alle tavole, le impressioni sono in argento e il dorso è muto. Una collezione completa in tavole sciolte, da esporre, venne inviata nello stesso anno alla Esposizione di Bologna a favore della Cassa Soccorso Studenti (ASAR, B 1288). Altre copie delle stesse tavole venivano inviate a studiosi dietro richiesta (ASAR, B 1554) o vendute sciolte: ciò spiega la presenza del gran numero (100-150 esemplari) di copie sciolte e mute dei soggetti di maggior successo, quali le armature. Della campagna fotografica realizzata in questa occasione si sono conservate 216 lastre (comprese quindi le varianti) alla gelatina bromuro d’argento nel formato 24×30, per le quali nel giugno del 1898 si registra  il pagamento di L. 1480 “Con mille ringraziamenti e cordiali saluti (…) alle sorelle Berra, fotografe.”, ASAR,  B1554.

[40] ASAR, f. 1207, lettera di G. Assale al Direttore.

[41] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[42]ASAR, f.1207, nota di L. Avogadro del  2 giugno 1897.

[43] “nel restituirle vi unirò la prova del Calzolari”, scrive Cantù ad Avogadro il 3 agosto, ASAR, f.1207, biglietto di Cantù ad Avogadro,  3-8-1897. In vista della partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi dell’anno 1900 lo Stabilimento milanese chiede l’autorizzazione a “esporre a Parigi qualche saggio delle eliotipie eseguite per la Reale Armeria” sotto forma di tavola composita, di cui inviano copia fotografica, costituita dal montaggio di differenti immagini dall’antiporta col cavaliere in armi disegnato da Cantù, a due armature equestri (tra cui la B3 Martinengo), la targa da parata F3, elmi ed armi varie; come si ricava dalla corrispondenza successiva, in quell’occasione la ditta fu insignita di Medaglia d’oro ASAR, f. 1210.

[44] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[45] ASAR, f.1207, Copia del Memoriale Charvet, 30 gennaio 1898. La vertenza venne chiusa il successivo 18 marzo col riconoscere allo stampatore un compenso complessivo a saldo di L.1500 e alle sorelle Berra la possibilità di rientrare in possesso delle lastre conservate da Cantù; ASAR, f.1207, Copia della transazione della vertenza giudiziaria tra il Sig. Charvet e lo Stabilimento Berra, 18-3-1898.

[46] ASAR, f.1207, Lettera di Avogadro a Ponzo Vaglio, aiutante di campo di S.M., 18-3-1898.

[47] Angelucci 1890, op. cit., p. viii.

Andrea Tarchetti, fotografo dilettante (1990)

 in Andrea Tarchetti notaio: Fotografie 1904 – 1912, catalogo della mostra (Vercelli, Auditorium di Santa Chiara, gennaio-febbraio 1990), a cura di P. Cavanna, Mimmo  Vetrò. Vercelli: Comune di Vercelli – Assessorato alla Cultura, 1990, pp.   19-45

 

Fotografi a Vercelli

Il vercellese “Vessillo della libertà” nel numero del 27 settembre 1860 cita per la pri­ma volta lo studio fotografico di Pietro Mazzocca, senza indicarne la localizzazione, mentre pochi anni dopo, nel 1863, lo stesso periodico riporta la notizia che il fotografo “ha aperto or ora un elegante e comodissimo laboratorio sull’ameno Viale dei Tigli”.[1] Sono queste le prime notizie relative alla presenza di uno studio fotografico in città, né pare che vi fossero presenze precedenti ora dimenticate se lo stesso “Vessillo”, nel ricordare l’apertura del nuovo studio, sottolinea come “non si senta più il bisogno di ricorrere al di fuori per avere ritratte le nostre sembianze o quelle delle persone che ci sono care”.

Mancano per Vercelli – almeno sino a questo momento ed in attesa che venga portata a termine l’indagine sui Fondi Fotografici Locali – indicazioni relative ai primi anni di diffusione della tecnica fotografica, in particolare della dagherrotipia, quali invece risultano disponibili ad esempio per Biella, dove già dai primi anni ’40 sono operosi alcuni dagherrotipisti, per ora anonimi, mentre nel decennio successivo si registra la presenza di autori quali Fortin, forse un fotografo itinerante di origine francese, Bernardi e infine Adolfo, attivo anche a Torino prima di trasferirsi a Roma nel 1848.[2] La ritrattistica risulta essere l’attività prevalente dei primi operatori, sia a Biella sia ­più tardi a Vercelli, e solo dai primi anni ’60 si registra la presenza di fotografi attivi anche nel campo della documentazione d’arte e di architettura: se a Biella emerge la figura di Vittorio Besso, che apre il proprio studio nel 1859, a Vercelli è Giuseppe Co­sta, titolare di uno “Studio di Pittura e Fotografia” aperto forse poco oltre il 1862, ad occuparsi per primo di documentazione del patrimonio artistico, alternando l’attività di fotografo a quella di titolare della cattedra di Elementi presso l’Istituto di Belle Arti, a cui si devono aggiungere alcune collaborazioni con Edoardo Arborio Mella quali, in particolare, la realizzazione delle parti a figura durante i restauri della chiesa di San Francesco nel 1868.[3]

Allo stesso Costa si deve anche la prima realizzazione di una campagna fotografica espressamente dedicata alla documentazione del patrimonio artistico, che porta alla realizzazione di un album Ricordo dell’inaugurazione della Cappella di S. Eusebio, realizzato nel 1882, recentemente ritrovato nei fondi della Biblioteca Civica di Vercel­li, che documenta il rifacimento dell’apparato decorativo della cappella del Duomo ad opera dei pittori Francesco Grandi e Carlo Costa, fratello del fotografo.

Alla documentazione della città si dedica invece Federico Castellani, titolare di un avviato studio ad Alessandria in collaborazione col padre Luigi, operoso anche a Vercelli a partire dai primi anni ’70, il quale realizza nel 1873 un Album delle principali ve­dute edifizi e monumenti della città di Vercelli che non comprende però alcuna docu­mentazione del patrimonio pittorico, come sottolinea un articolo del “Vessillo d’Ita­lia” del giugno dello stesso anno in cui l’articolista, rivolgendosi a Castellani, ricorda come “Le opere di Gaudenzio e quelle di Lanino sparse nella nostra città invitano al­tresì la vostra camera oscura: invocano anche quella del vostro valente collega e pittore Giuseppe Costa e voi provvedete ambedue ad appagare il desiderio.”[4] Il tono dell’ articolo lascia supporre una campagna di documentazione ormai in atto e parzialmente nota ma si deve rilevare come a tutt’ oggi non ne sia stata riscontrata traccia. Solo nel 1886 il fotografo Pietro Boeri (già titolare di uno” Studio di Fotografia e Pittu­ra”) realizza, con la firma dello studio Boeri-Valenzani, un album dedicato agli “Af­freschi di Gaudenzio Ferrari nella chiesa di San Cristoforo a Vercelli”, realizzato ve­rosimilmente sulla scia delle celebrazioni del IV centenario della nascita dell’artista, che risulta localmente un esempio insuperato di documentazione e lettura fotografica di un ciclo pittorico.

Negli anni ’80 risultano quindi presenti a Vercelli gli studi di Giuseppe Costa, di Federico Castellani e la “Fotografia Nazionale” di Boeri-Valenzani; probabilmente chiuso è ormai lo studio di C. Fontana, mentre per ora non è possibile sapere se fossero ancora in attività l’antico studio di Pietro Mazzocca e quello di Giuseppe Ferrero dei quali per altro non si conosce la produzione. Proprio nel 1880, proveniente da Alessandria, giunge a Vercelli Pietro Masoero impiegato dapprima come apprendista e quindi come direttore dello studio Castellani, per cui lavorerà sino al 1892, anno in cui apre il pro­prio studio nella casa Tricerri. La figura di questo fotografo risulta ormai sufficiente­mente delineata[5] perché qui se ne debba ulteriormente definire il ruolo; resta da sot­tolineare però come al suo impegno pubblico in campo fotografico quale segretario del primo Congresso Fotografico Italiano (Torino, 1898) e poi membro dei Comitati orga­nizzatori dei due successivi congressi di Firenze (1899) e Roma (1911) si debba una rinnovata attenzione in sede locale per le problematiche connesse alla fotografia, che si traduce immediatamente in una notevole diffusione della pratica dilettantistica.

 

Il dilettante fotografo

Riprendendo in parte il titolo di un volume edito a Torino nel 1890, autore il marchese Dionigi Arborio di Gattinara, Masoero pubblica nel 1901 sulle pagine del “Bullettino della Società Fotografica Italiana” il Decalogo del dilettante fotografo[6], tema a cui dedica anche la conferenza dal titolo Arte e beneficenza, tenuta al Teatro Civico di Vercelli il 26 aprile 1902, per la quale Ambrogio Alciati disegna il biglietto d’ingres­so, pubblicata l’anno successivo a Firenze da Salvatore Landi, il tipografo del “Bullet­tino”[7].

La conferenza, che significativamente cade nel periodo di apertura della Esposizione Internazionale di Fotografia Artistica annessa alla Prima Esposizione di Arte Decorati­va e Moderna di Torino, precede la proiezione di centossessanta diapositive realizzate da numerosi dilettanti vercellesi, di cui il giornale “La Sesia” fornisce un elenco par­ziale: Virginio Locarni, Vittorio Petterino, Nerina Masoero (tutti presenti anche all’E­sposizione torinese), il marchese Arborio di Gattinara, Vincenzo Canetti, Secondo Gambarova, Giuseppe Tavallini, Giulio Cesare Faccio, Andrea Tarchetti ed altri. Le immagini che costituiscono la proiezione, non reperite, hanno titoli quali “ultime luci”, “tramonto”, “nubi vaganti”, “effetto di neve”, “pecorelle” e simili, propri della voga allora imperante della fotografia pittorica o artistica, “quella che sola me­rita il nome di “Arte”[8], fenomeno culturale multiforme e contraddittorio, rifiutato in blocco e quasi rimosso dalla critica e dalla storiografia. fotografica sino ad anni molto recenti[9], che ha invece costituito, seppure confusamente, la prima occasione, il primo momento di riflessione sullo specifico fotografico, sintetizzabile appunto nella questio­ne “se la fotografia sia un’arte o non sia”, secondo l’espressione usata da Enrico Tho­vez in uno degli articoli di commento alla Esposizione di Torino del 1898, in cui per la prima volta in Italia la fotografia artistica era ospitata in un’apposita criticatissima sezione.[10]

Al problema posto da Thovez, corredato da un’analisi molto attenta delle caratteristiche dell’immagine fotografica che gli consente di affermare che “in realtà la fotografia è tutt’altro che una fedele immagine del vero” e, in quanto tale, può fornire “non una riproduzione, ma una vera interpretazione, per quanto involontaria, della realtà” possiamo accostare le opinioni espresse nello stesso anno da Masoero[11], verosimilmente avendo in mente le stesse immagini che hanno stimolato le riflessioni di Thovez. Dopo aver riassunto sinteticamente i temi più consueti del dibattito, già a questa data ampiamente discussi e ripetuti, stancamente ripresi poi da numerosissimi autori per tutto il periodo precedente il primo conflitto mondiale, Masoero afferma risolutamente: “per parte mia la questione se la fotografia è un’arte o no, mi è sempre parsa di nessun valore [poiché] se la fotografia è suscettibile di afferrare e rendere gli aspetti della natu­ra con potenza e verità allorquando è con abilità maneggiata, non è per avere una natu­ra artistica in sé, ma perché risiede in chi di lei si serve; tanto è vero che per pretendere a delle forme artistiche è obbligata ad assumere delle apparenze che non sono sue . Essa è un’arte che deve evitare un pericolo, essa che è la manifestazione più pura del vero, di cadere nel manierato. E manierati, checchè si dica, sono tutti questi nuovi prodotti artistici, perché abbagliati dal mezzo, dalla forma dell’ opera, perdono di mira la parte principale del loro compito: il vero … L’arte fotografica deve formarsi un tipo proprio; deve essere fotografia e non incisione o pastello o altro”.

Il rifiuto delle tecniche di manipolazione in stampa non potrebbe essere più netto, ma l’opinione di Masoero è in questi anni sostanzialmente isolata, povera di riscontri nella pratica fotografica corrente; ormai la Naturalistic Photography di Emerson si è trasfor­mata per i più in Fotografia Artistica[12] in cui come “in ogni opera d’arte, se tale vuo­le chiamarsi, è necessario che il carattere della mano dell’artefice si manifesti chiaro ed evidente … perché l’essere soggettiva è in aperto contrapposto coll’obbiettività in­trinseca generale della fotografia; … la macchina fotografica, se riproduce fedelmente le immagini che le sono dinanzi e spinge la sua esattezza scrupolosa nella ricerca di particolari che all’occhio sfuggono, non può riprodurre sempre quel sentimento pro­fondo che molte volte spira in un soggetto e che lo fa amare da chi lo riproduce … Ma quando l’immagine riprodotta riesce ad acquistare ed a trasfondere in chi la vede, quel sentimento che la rese cara all’operatore, allora realmente il fotografo può dire d’aver fatta arte colla fotografia … Se a questa riproduzione l’autore aggiunge la sapienza tec­nica del metodo di stampa, da accrescerne l’effetto voluto, sia usando procedimenti co­me la gomma, il carbone o la fotocollografia, oppure interponendo tele o veli fra la negativa e la carta o la lastra da stampare, allora egli potrà ottenere dei risultati che per grazia o sapore nulla avranno da invidiare a delle vere e proprie opere d’arte.”[13] La lunga citazione, che racchiude e riassume il nuovo credo estetico, porta la firma autorevole di Arturo Alinari, nipote del fondatore della più nota dinastia italiana di fo­tografi, e mostra chiaramente quale divario esistesse tra la pratica fotografica profes­sionale e l’attività dei dilettanti, i veri protagonisti di questa stagione del gusto fotogra­fico. “La fotografia artistica, s’intende, non può fare appello a un commerciante … dunque è ai dilettanti che essa si rivolge con tutte le sue risorse, con tutte le sue incogni­te, con tutte le sue promesse.”[14]

Con essa compare nella fotografia italiana, in modo massiccio, il motivo, la scena, l’immagine stereotipa mutuata dalla coeva produzione pittorica; se per tutto l’Ottocen­to è proprio nell’assenza del ‘motivo’ “la novità, anche se riduttiva e freddamente tecnica,della fotografia italiana, che non dipende dalla pittura, anzi se ne distingue net­tamente”[15], col nuovo secolo la situazione si ribalta e la ‘pittura’, intesa sinonimicamente come arte, diviene il modello indiscusso, il termine di paragone, la pratica di riferimento. In un confronto esplicito con essa si gioca la riflessione sull’ estetica fo­tografica, sebbene i commentatori più accorti neghino credito a quello che sarà poi de­finito “combattimento per un’immagine”. Mario Tamponi, in un articolo di data or­mai tarda (1909) pubblicato in “La Fotografia Artistica” che assume quasi il tono di una riflessione, di un riesame, afferma: “Noi non abbiamo voluto, come molti credo­no, rivaleggiare colla pittura e batterla, né abbiamo voluto imitarla sotto altro punto di vista che sotto quello del criterio artistico di chi lavora alla composizione del qua­dro … La fotografia artistica è dunque cosa ben diversa da ciò che si intende sotto il nome di fotografia; essa è quell’arte che mettendo a suo profitto alcune proprietà o pos­sibilità della fotografia, tende a fini artistici, cioè a dire, tende alla produzione di quadri o composizioni artistiche”[16].

Se il confronto è con la pittura e se questa trova nella manualità il proprio strumento espressivo allora tutto quanto di meccanico risiede nel processo fotografico va posto in secondo piano, sminuito; la produzione di immagini “fotografiche” viene sottopo­sta ad una dissociazione schizoide, si instaura una cosciente dicotomia tra matrice ne­gativa, prodotto asettico di un processo ottico-chimico-meccanico, e stampa positiva, la sola a cui venga riconosciuto lo statuto di immagine, prodotto della creatività manua­le del fotografo artista. Ancora Tamponi sottolinea come “la negativa ben difficilmen­te è perfetta; vi è da togliere, da aggiungere, da oscurare, da illuminare, da tagliare, ma più di tutto da togliere … Una negativa racchiude quasi sempre pur troppo una nega­tiva artistica, cioè presenta troppi particolari; bisogna togliere le cose inutili, avvicina­re al centro l’oggetto a cui si vuole dare importanza, togliere troppi particolari che af­fievoliscono l’idea della suggestione artistica, e aggiungere qualche volta alcun’altra cosa che può essere necessaria. Tutto ciò, m’affretto a dirlo, quasi senza ricorrere al ritocco della negativa”[17].

Si riconoscono i segni, in queste riflessioni modeste, di un idealismo di maniera, che vive dei lontani riflessi di una concezione del fare artistico che affonda le proprie radici nella tradizione rinascimentale, incapace di analizzare compiutamente la novità costi­tuita dalla tecnica fotografica, modellato rigidamente sulle valutazioni espresse pochi anni prima dall’Estetica crociana, dove il filosofo riflette, marginalmente e senza offri­re contributi di rilievo, sull’eterna questione che aveva occupato pagine e pagine delle riviste fotografiche: “Persino la fotografia – afferma Croce – se ha alcunché di artisti­co, lo ha in quanto trasmette, almeno in parte, l’intuizione del fotografo, il suo punto di vista, l’atteggiamento e la situazione che egli si è industriato di cogliere. E, se non è del tutto arte, ciò accade appunto perché l’elemento naturale resta più o meno inelimi­nabile e insubordinato: e infatti, innanzi a quale fotografia, anche delle meglio riuscite, proviamo soddisfazione piena? a quale un artista non farebbe una o molte variazioni e ritocchi, non toglierebbe o aggiungerebbe? “[18]

Andrea Tarchetti

Poco sappiamo sino ad ora della sua vita: nasce a Stroppiana il 10 febbraio del 1854 da Giuseppe e Caterina Grignolio; la famiglia si trasferisce però ben presto a Vercelli, certo prima del 1864, anno in cui nasce la secondogenita Teodolinda, a cui seguiranno Luigi, Margherita e Giovanni. Il primogenito Andrea, seguendo le orme paterne ab­braccia la carriera notarile per entrare quindi in magistratura, divenendo Procuratore Capo al Tribunale Civile di Vercelli; “la sua voluta modestia che sempre lo tenne lon­tano dalla vita pubblica” come recita il necrologio pubblicato su “La Sesia” del 28 dicembre 1923, quattro giorni dopo la sua morte, impedisce di seguire più a lungo le tracce della sua vicenda biografica e di delineare meglio la sua figura, certo nota in città se le esequie celebrate il giorno di Santo Stefano risultano una “imponente mani­festazione funebre” a cui partecipa col proprio gonfalone anche la Congregazione di Carità, mentre l’orazione viene letta dall’avvocato Francesco Ferraris.

Ancora “La Sesia” ricorda che egli “fu anche animo di artista e come dilettante fotografo si ricordano di lui dei lavori, paesaggi, quadretti di genere, illustrazioni di avve­nimenti, documentazioni grafiche di antichi edifici scomparsi, che erano delle piccole opere d’arte”. La descrizione, per quanto sintetica, non si rivela un compito d’occasio­ne ed appare oggi precisa e circostanziata, segno di una buona diffusione almeno locale delle immagini del notaio Tarchetti, fotografo dilettante. Nulla risulta invece a proposi­to delle circostanze che hanno portato al deposito della maggior parte della sua produ­zione fotografica nei fondi del Museo Borgogna, sebbene si possa supporre che essa derivi da una precisa sua volontà, come dimostrerebbe la presenza sia delle stampe de­finitive sia dei negativi e di alcuni clichè tipografici da questi ricavati, mentre l’altro consistente fondo locale di immagini di Tarchetti, conservato alla Biblioteca Agnesia­na, proviene – come ricorda Mimmo Vetrò nel saggio in catalogo – da una donazione di Ernesto Gorini che le aveva acquistate dal fratello di Tarchetti, Giovanni, agli inizi degli anni ’60, ed è costituito da sole stampe fotografiche.

La sua attività di fotografo, almeno per quanto è possibile ricostruire sulla base dei ma­teriali conservati presso il Museo Borgogna, inizia negli ultimi anni del XIX secolo al­ternando immagini di paesaggio (Il lago di Viverone, la Valtournanche) ad occasioni maggiormente legate alla cronaca degli avvenimenti cittadini, ma certamente i temi che maggiormente lo affascinano, a cui dedicherà sin dal principio la sua attenzione, sono quelli propri della fotografia artistica, come risulta dalle due immagini comprese nella proiezione organizzata nel 1902 (verosimilmente la sua prima presenza pubblica) Ef­fetto di neve e Sant’ Andrea,  influenzata forse quest’ultima dalla campagna di rile­vamento del principale monumento vercellese che Pietro Masoero conduceva in quegli anni e che avrebbe portato nel 1907 all’edizione del volume dedicato alla basilica, rea­lizzato in collaborazione con Romualdo Pasté e Federico Arborio Mella.

Proprio a Masoero, che nel 1900 era stato delegato al Congresso Fotografico di Parigi con Rodolfo Namias, fondatore della rivista nel 1894, si deve forse la presenza delle opere di Tarchetti sulle pagine de “Il Progresso Fotografico / Rivista mensile di foto­grafia scientifica e pratica” che ancora oggi si pubblica a Milano sotto la direzione del figlio del fondatore, Gian Rodolfo Namias[19], presenza che permane costante per cir­ca un decennio e porta complessivamente alla pubblicazione di circa 100 immagini. Nel numero di dicembre dell’anno 1904 sono citate per la prima volta fotografie di Tar­chetti, non reperite, che saranno comprese nel supplemento” Arte Fotografica” per il 1905: Sulle rive del Sesia e Arriva il babbo stampate in fotocalcografia mentre Una partita interessante, fotografia di Tarchetti dipinta da Valeria Josz di Milano, viene stampata in tricromia, come accade anche l’anno successivo per una Marina. La presenza di proprie immagini sul prestigioso supplemento costituisce certo un rico­noscimento importante per il dilettante vercellese, di cui si riconosce che “i lavori … sono come sempre ispirati da un gran buon gusto e conformi alle esigenze della tec­nica. L’avv. Tarchetti è un gran fautore dell’istantanea colla quale cerca di cogliere le più interessanti scene della vita cittadina e campestre. Ma anche a lui non riesce tal­volta d’evitare che gli attori della scena assumano pose che guastano l’effetto. L’avv. Tarchetti ci ha inviato i suoi lavori fuori concorso avendo già avuto la prima onorifi­cenza lo scorso anno nel nostro concorso.”[20] Questo commento, datato 1906, forni­sce una prima messa a punto dell’attività di Tarchetti: i temi più frequenti sono costituiti dalle “scene di vita” , cioè da immagini che ricorrendo alle possibilità concesse dalle nuove emulsioni rapide al gelatino-bromuro d’argento, pretendono di essere “istanta­nee” pur non riuscendo ancora a nascondere, per imperizia, il meticoloso lavoro di definizione della posa da far assumere agli “attori”. Ciononostante le fotografie di Tarchetti risultano vincitrici sia del concorso indetto dalla rivista sia di quello indetto dalla Ditta Fumagalli di Milano, editrice di cartoline in parte utilizzate anche da “Pro­gresso” quale servizio per i propri abbonati.[21]

L’organizzazione artificiosa degli attori in scena non risulta comunque così evidente come potrebbe apparire dalle osservazioni sopra riportate o meglio non caratterizza univocamente tutte le immagini: se alcune di quelle riprodotte in cartolina, oggi com­prese nella collezione Peraldo, non sfuggono a tale artificiosità, denunciata persino in titoli quali Partiamo!, Primi servizi o Nonna solerte, le fotografie pubblicate sulle pagine della rivista, certamente selezionate da un occhio esercitato e attento, co­stituiscono ormai delle prove soddisfacenti in cui l’indagine del mondo contadino sem­bra staccarsi dalla tradizionale rappresentazione oleografica per mettere a frutto almeno in parte le possibilità descrittive offerte dallo strumento fotografico.

La fama acquisita sulle pagine della rivista milanese si riflette anche nell’ ambiente cit­tadino, come mostra il commento de “La Sesia”[22] alla sezione fotografica della Esposizione organizzata dall’ Associazione “Pro Emigratis” che si tiene nei locali del nuovo asilo Umberto I dal 19 al 29 maggio del 1906: tra i pochissimi fotografi presenti (“Non molto copiosa ma interessantissima la mostra fotografica”) al solo Tarchetti, autore di “una serie di istantanee e vedute panoramiche”, viene riconosciuta la “bella fama di dilettante valente”, di lì a poco impegnato – crediamo – in una revisione pro­fonda del proprio lavoro e soprattutto del proprio atteggiamento nei confronti degli “attori” con cui compone le “scene di vita”, protagonisti in quegli stessi giorni delle lotte per la conquista delle otto ore che dilagano in tutto il vercellese. Il 30 di maggio infatti “un altro gruppo (di mondine) con la bandiera bianca e rossa, ripeté la dimostrazione e si portò alla Camera del Lavoro … quindi al municipio e alla sottoprefettura”[23] ed il giorno successivo la cavalleria carica i dimostranti sulla strada per Olcenengo. Tarchetti dedica a questi avvenimenti una breve sequenza di tre imma­gini (Sciopero), mai pubblicate su alcuna rivista fotografica, in cui lo sguardo affa­scinato con cui riprende il corteo delle donne molto deve alla struttura iconografica de Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, esposto per la prima volta alla Quadriennale di Torino del 1902.

Non sappiamo quanto profondamente, nella realtà, l’inattesa tra­sformazione degli umili contadini in gruppo sociale con una precisa coscienza di classe, abbia mutato la percezione del mondo rurale in un personaggio quale Tarchetti, ma è innegabile il riconoscimento di una trasformazione nel modo di scegliere i temi e comporre le immagini che caratterizza gli anni successivi al 1906, sebbene il quadro di riferimento complessivo continui ad essere costituito da una produzione tendenzial­mente ‘artistica’ che trova le proprie radici tematiche ed espressive nella tradizione pittorica del secondo Ottocento italiano. “Questo valentissimo dilettante – recita una nota critica del 1907 – ci ha ormai abituato ai paesaggi animati trattati da maestro e che strappano esclamazioni ammirative anche ai pittori. Come sempre anche questa volta, si distingue, per la rara abilità con cui sa cogliere i motivi della vita nelle città, nelle strade, nei campi, ottenendo sempre dei veri quadri, dimostrando quanto sia vi­vissimo in lui il desiderio di perfezionare il suo lavoro, tenendo conto delle nuove con­quiste senza giungere alle esagerazioni di certa arte fotografica che oggi per alcuni co­stituisce il non plus ultra, ma che si potrebbe chiamare incomprensibile per chi non è arrivato nell’arte a simile pretesa evoluzione.[24]

La polemica su “certa arte fotografica” che ricorre quasi esclusivamente alla stampa ai pigmenti, risulta essere decisamente pretestuosa sulle pagine di una pubblicazione quale “Il Progresso Fotografico” che propugna, per bocca del suo direttore Namias, il ricorso ai processi alla gomma bicromatata coi quali “si fa strada l’intervento del sentimento e gusto artistico dell’operatore nella produzione della copia positiva”[25] e sembra essere destinata ad aprire la polemica con “La Fotografia Artistica”, la nuova prestigiosa rivista internazionale pubblicata a Torino a partire dal 1904 da Annibale Cominetti, vercellese di origine[26], unanimemente considerata la pubbli­cazione culturalmente più avanzata del panorama fotografico italiano di quegli anni; la sola in grado di poter essere confrontata con la mitica “Camera Work” fondata da Stieglitz a New York l’anno precedente, a cui del resto la rivista torinese più o meno esplicitamente si rifaceva, propugnando la causa comune della “fotografia come stru­mento di espressione individuale”, di cui presenta almeno nei primissimi anni, un pa­norama ampio e variegato di autori e correnti anche profondamente diverse tra loro, che vanno dalle immagini di derivazione simbolista di Puyo, Demachy o Marchi per l’Italia, ai “quadri religiosi” di Riccardo Bettini, di cui il primo fascicolo del 1905 offre un allucinante La Trasfigurazione, alle stampe alla gomma di Luigi Cavadini, già presente ne “Il Progresso Fotografico” , che diviene uno dei più assidui collabora­tori della rivista sia come titolare della calcografia veronese da cui escono alcune delle tavole fuori testo che corredano la pubblicazione sia quale autore di immagini, special­mente vedute e paesaggi, marcate a volte da un sentimentalismo esasperato.[27]  Corredano questo variegato apparato fotografico, arricchito da riproduzioni delle ope­re esposte nelle più importanti mostre d’arte quali la Quadriennale di Torino e la Bien­nale di Venezia, articoli di diverso impegno e levatura, alcuni per così dire di carattere eminentemente teorico, di estetica, altri di taglio manualistico, dedicati all’analisi delle basi della fotografia artistica, nel tentativo di mettere a punto una tecnica dell’estetica in grado di per sé di garantire il raggiungimento di elevati traguardi artistici o forse ritenendo che il pubblico di dilettanti a cui essi sono rivolti sia sostanzialmente digiuno anche delle più elementari nozioni di tecnica fotografica, negando così implicitamente il carattere elitario che la rivista pretende di avere. Diversamente da quanto accade sulle pagine del periodico milanese le “scene di vita” pubblicate ne “La Fotografia Artistica” risultano molto più evidentemente costruite, con scelta accurata della posa, controllo minuzioso delle luci in ripresa e virtuosistico uso delle più varie tecniche di stampa, manifestazioni queste di un concreto ed evidente intervento dell’ autore che proprio nella sapienza delle manipolazioni mostra le proprie potenzialità espressive di artista, in grado di “modificare l’immagine secondo il pro­prio sentimento”. Poiché in realtà non sono certo i temi ed i soggetti prediletti a distin­guere gli autori presenti nelle pagine delle due riviste, che anzi – soprattutto a partire dal 1907 – diventano relativamente intercambiabili sino ad operare addirittura un ribal­tamento negli anni dopo il 1910, quando “Il Progresso Fotografico” apre le proprie pagine alle stampe alla gomma ed ai bromoli, mentre “La Fotografia Artistica”, che cessa le pubblicazioni nel 1916, abbandona gradualmente il filone delle immagini ‘simboliste’ per presentare una quieta sequenza di paesaggi, ritratti, animali e scene di genere.

Ciò che continua invece a differenziare le due testate è l’atteggiamento di fondo nei confronti della lettura dell’immagine; così nello stesso anno 1909 una immagine di Tarchetti compare quale Quiete campestre  sulle pagine di “Progresso” per assume­re ne “La Fotografia Artistica” il titolo più rarefatto e astratto di Nuages et rizières e dell’autore vercellese, indicato come uno dei più apprezzati ed assidui collaboratori della rivista sebbene la sua presenza sia sporadica e limitata a poche annate, si pubbli­cano significativamente quasi solo immagini di paesaggio, rifiutando di fatto la vasta produzione delle “Scene di vita e di lavoro” che tanta ospitalità trova sulle pagine della rivista milanese e nella produzione di cartoline.

Sono questi gli anni in cui più assidua è la presenza di Tarchetti: dal1908 al 1912 ben settantotto sue fotografie sono pubblicate ne “Il Progresso Fotografico” mentre dal 1909 al 1912 ne compaiono dodici in “La Fotografia Artistica”; tra queste andranno collocate anche le sette fotografie presentate alla Mostra d’arte della campagna irrigua che si tiene a Vercelli tra l’ottobre ed il novembre del 1912 in occasione della Esposi­zione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione[28] a cui partecipano artisti quali Follini, Reycend, Allason, Morbelli e Mazzucchelli oltre ad una nutrita schiera di esponenti locali quali Alberto Ferrero, Francesco Bosso, Francesco Porzio, Attilio Gartmann ed altri.

L’iniziativa dell’Esposizione, fortemente criticata dal foglio socialista “La Risaia”, impegnato negli stessi giorni a sostenere le nuove lotte dei lavoratori agricoli per la conquista delle otto ore[29], è invece seguita in ogni dettaglio dalle pagine de “La Se­sia” che commentando la sezione artistica ripropone tra le righe il conflitto tra produ­zione pittorica e immagine fotografica; dopo aver rilevato che “non tutte le opere che fanno parte della mostra … rispondono alle esigenze del programma compilato dai pro­motori”, parlando di uno degli artisti presenti, il vercellese Ferrero, rileva come egli certo non sia uno “di quei pittori, dei quali si sospetta qualche confidenza eccessiva con la prospettiva del tutto meccanica e artificiale della fotografia istantanea: prospetti­va non rispondente cioè alla visione fisiologica dell’occhio umano, e alle leggi della geometria descrittiva, di cui la prospettiva normale è appunto un ramo”. Al di là della confusione tra psicologia della percezione e strutture rappresentative fortemente codifi­cate, si ritrova in queste righe una eco dei dettami imposti dalla pittura impressionista con il lavoro en plein air ma anche, e forse più prossimo, un ricordo delle riflessioni di P. H. Emerson che nel suo testo del 1889 si era soffermato a riflettere proprio sul contrasto, sulla contraddizione si potrebbe dire, tra fisiologia dello sguardo e visione fotografica, rilevando lo scarto che esiste tra la precisione indifferenziata con cui la lastra registra l’immagine e la selezione dei piani e delle relazioni prospettiche operata fisiologicamente dal sistema visivo, per giungere infine a proporre un uso attento di alcuni espedienti quali la messa a fuoco selettiva (che si trasformerà nella pratica corren­te dei decenni successivi in un uso sfrenato del flou) proprio per simulare un livello “naturalistico” di percezione e costruzione dell’immagine, rifiutando quindi le specifi­cità della visione fotografica, considerate allora pressoché unanimemente prive di po­tenzialità artistiche.

Sono queste le opinioni condivise anche dall’anonimo recensore de “La Sesia” che chiude “la rivista degli artisti vercellesi con un cenno alla magnifica raccolta esposta dall’ avv. Andrea Tarchetti di fotografie relative alla coltura, ai costumi agli aspetti poetici della campagna irrigua; a quella meno numerosa ma altrettanto degna di elogio, di fotografie del calore [è da intendersi ovviamente colore, cioè autocromie] di scene della campagna vercellese, mandate alla mostra dal conte ingegnere Adriano Tournon, figlio dell’illustre generale e senatore. Tanto la raccolta di Tarchetti quanto quella del Tournon, hanno un alto significato tecnico e artistico, poiché indicano fino a che alto grado di interpretazione del vero possa giungere la fotografia, quando la si utilizzi con piena scienza dei suoi mezzi materiali e con elevati intenti d’arte.”[30]

La presenza di questi due autori, a cui si aggiunge nella mostra il solo G. Bertucci di cui nulla ci è noto, risulta particolarmente significativa nell’ambito di questa manifesta­zione, e non solo in termini di storia della fotografia locale: sia l’ingegnere Tournon, che sarà presidente della Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, sia Tarchetti, il cui fratello Giovanni è agente dei Savoia-Aosta nella tenuta di Vettigné presso Santhià, so­no legati a filo doppio alla grande proprietà terriera che esprime in quegli anni, partico­larmente a Vercelli, tutti gli esponenti di maggior rilievo della classe dirigente, econo­mica e politica; fortemente connotata da una precisa volontà di difesa dei valori rurali intesi quale fondamento etico ed economico, e quindi culturale, dei rapporti sociali, in cui la città, salvata dai pericoli dell’industrializzazione, è intesa ancora quale appen­dice gestionale di un territorio agricolo, in un rapporto sostanzialmente non dissimile da quello che connette il nucleo rurale della grande cascina a corte al proprio tenimen­to, alla terra; dove alle nascenti rivendicazioni del socialismo si contrappone quello che Castronovo ha definito “patriarcato georgico”, intriso di paternalismo sociale, che si manifesta nelle associazioni benefiche e di carità quali la già ricordata “Pro Emigra­tis” o la Congregazione di Carità ma anche, con declinazioni diverse, nelle associazio­ni di mutuo soccorso. Ecco allora che le due presenze sono in sintonia col carattere celebrativo dell’Esposizione, che cade in un momento di forte conflitto sociale; le im­magini dei due autori si prestano ancora al processo, ormai sempre più anacronistico, di mitizzazione del mondo rurale, alla celebrazione di un orizzonte sociale bloccato che rifiuta ogni industrializzazione che non sia subordinata allo sviluppo dell’agricoltura e vive le nascenti manifestazioni dei conflitti di classe in modo quasi prepolitico, come rottura di un equilibrio che è culturale ancor prima che economico.

Scene di vita e di lavoro

La produzione fotografica di Tarchetti è dedicata a due grandi temi, il paesaggio e le scene di vita e di lavoro, suddivise queste ultime, come vedremo, in ulteriori, successi­ve categorie che corrispondono all’ordinamento dato dallo stesso autore alle proprie stampe. La cronologia ricostruita a partire dalle immagini pubblicate sulle diverse riviste mo­stra come tutti questi temi siano da subito compresenti e permangano per tutto l’arco della sua produzione, variando però anche sensibilmente nel trattamento, ciò che si tra­duce in scelte diverse di composizione dell’immagine e dell’inquadratura e nella scelta di particolari condizioni di luce, senza ricorrere mai a manipolazioni né a tecniche par­ticolari quali le stampe ai pigmenti, fedele in questo alla lezione sopra ricordata di Ma­soero; unica concessione esplicita al modello pittorico è costituita, in alcuni casi, dall’impaginazione della stampa definitiva, sovente tagliata per essere riportata a propor­zioni tra i lati estranee ai moduli fotografici, prediligendo in particolare gli schemi for­temente orizzontali, ottenuti eliminando drasticamente ampie porzioni di cielo, utiliz­zati sia per scene urbane – quali i mercati in piazza Mazzini – sia per le immagini di greggi e mandrie in cui il richiamo alla produzione pittorica coeva assume le forme di una ripresa quasi letterale, del resto riscontrabile anche in esempi apparentemente meno diretti come accade in Lavori campestri (1907 c.), di cui si conosce una ripro­duzione non datata, da porre in confronto con opere quali Primavera, di Clemente Pugliese-Levi, del 1882, o Prateria presso Vercelli, dello stesso autore, presentata all’Esposizione d’Arte Vercellese Moderna del 1922.[31]

I richiami alla pittura piemontese del secondo Ottocento sono evidentemente molto for­ti e, nel caso degli epigoni, si può parlare tranquillamente di sorprendenti coincidenze in cui risulta difficile valutare a quale delle due parti assegnare il debito; ma certo i confronti si fanno coi maggiori e così “In certi effetti ricordava il Fontanesi” dice Masoero commentando le fotografie di Virginio Locarni presenti all’Esposizione di Torino del 1902, e l’artista costituisce certamente uno dei termini di riferimento ricor­renti insieme a Lorenzo Delleani, quest’ultimo presente numerose volte in giurie di concorsi ed esposizioni fotografiche, senza troppo sottilizzare sulle differenze o meglio ricorrendo di volta in volta al modello che più si presta all’occasione. Così in Tarchetti gli “Studi di piante” successivi al 1905, (nei precedenti si registra la presenza della figura umana quale misura del paesaggio secondo una consuetudine fotografica ancora fortemente ottocentesca), richiamano con evidenza le atmosfere del paesaggismo natu­ralistico velato di romanticismo, in parte mitigato qui da una perfezionistica ricerca del vero che lo porta ad utilizzare per questi soggetti solo lastre di grande formato (18/24) da cui trarre prevalentemente stampe per contatto, in grado di restituire al massimo li­vello la ricchezza di dettagli e di toni della scena.

Come accade anche in Francesco Negri e in numerosi altri autori contemporanei, scarse sono le vedute di ampio respiro, i paesaggi aperti della pianura; la ripresa si dedica al dettaglio (“Boschi e piante” e “Piante e acqua”), il centro di interesse è costituito dalla configurazione ambientale complessiva, priva di singoli elementi emergenti, pre­feribilmente illuminata da luci diffuse, date da cieli coperti. La prevalenza del dato at­mosferico, sottolineato da contrasti di luce, cieli nuvolosi e tramonti si ritrova invece in alcune immagini del 1909-1911: le marine (Poesia del mare, Maestosa tranquil­lità), le vedute del Sesia (Pescatore, Dopo il temporale) e alcune immagini di montagna quali Il Mucrone e Il castello di Ussel, a cui forse possono essere accostate cronologicamente le vedute di Vercelli dal campanile del Duomo, non datate, che Tarchetti intitola significativamente “Cieli”. Ancora un forte interesse per il dato atmosferico si ritrova nella serie intitolata “Inverno” (1908-1912) in cui il centro di attenzione è costituito dal fenomeno nel suo svolgersi e non semplicemente dalle possi­bilità pittoriche che l’immagine della città coperta dalla coltre di neve può offrire. Qui il riferimento è prevalentemente fotografico e richiama in particolare le opere di Alfred Stieglitz, note in Italia per essere state presentate fin dal 1894 alla Esposizione Fotogra­fica di Milano e poi ancora, negli anni successivi, a Firenze (1898) e Torino (1902).[32] Il richiamo a Lorenzo Delleani ed al bozzettismo della scuola biellese è invece partico­larmente evidente in immagini quali La locomotiva, pubblicata in “La Fotografia Artistica” del 1912, e nelle serie dedicate agli animali, realizzate dopo il 1908 (Pa­scolo, Dopo il pascolo, Ritorno dal pascolo) in cui comunque si riscontrano rimandi precisi, in termini di struttura compositiva, anche alla già citata Prateria presso Vercelli di Pugliese-Levi. Queste immagini, che Tarchetti classifica come “Varie: vacche, pecore, ragazzi, casolari, polli”, comportano anche, in alcuni casi la presenza di figure e rientrano nella più vasta categoria delle “scene di vita e di lavo­ro”, titolazione quasi certamente non autografa, dovuta forse ai redattori di “Progres­so” come sembra indicare sia la presenza di titoli diversi per la stessa immagine a se­conda che sia pubblicata come illustrazione del periodico o edita come cartolina sia la ricorrenza dello stesso titolo a corredo di immagini di autori diversi, culturalmente an­che molto lontani da Tarchetti, quali Wilhelm von Gloeden.

All’interno di questa grande categoria tematica compaiono immagini di soggetto diverso (bambini, lavori agricoli, scene di strada) ma tutte legate alla documentazione del mondo rurale, sebbene di questo venga fornita un’immagine assolutamente parziale, privilegiando quali soggetti le occupazioni marginali come il taglio del bosco, la rac­colta di fascine, la spigolatura, il “ritorno dalla fonte”. Se si esclude un’immagine di mondine (Il lavoro nelle risaie del 1911) la risicoltura, il più importante ciclo pro­duttivo dell’agricoltura vercellese, base pressoché esclusiva dell’economia locale, non rientra tra i temi maggiormente frequentati da Tarchetti che privilegia invece soggetti legati alla coltura del grano (Falciatori, presente anche in cartolina, L’aratura ed altre) e questa scelta, se può trovare qualche fondamento nella biografia dell’autore, che riprende molte di queste immagini proprio nei pressi della tenuta di Vettigné di cui il fratello era agente, risulta essere soprattutto di tipo culturale, una scelta di non coinvolgimento, che consente di mantenere una distanza netta nei confronti del sogget­to, ciò che ne permette ancora, appunto, una lettura mitologica, finalizzata alla compo­sizione del quadro, della scena, sebbene alcune scelte espressive quali l’uso molto pre­ciso e calibrato dell’inquadratura, in cui la presenza umana risulta sempre privilegiata e dominante, inserita in un ambiente che la connota, e la tecnica dell’istantanea, definitivamente padroneggiata da Tarchetti dopo i primissimi anni, possano suggerire anche ipotesi meno univoche, un approccio fotografico al tema sempre in bilico tra bozzetti­smo e documentazione.[33]

Che tale fosse ormai il suo modo di operare lo dimostra la presenza di numerose varianti, corrispondenti a momenti successivi della stessa situazione, che risulta quindi documentata mediante una sequenza successiva di scatti, secondo un modo di operare allora proprio di pochi fotografi (si pensi, in un ambito diverso, a Primoli), che diverrà pratica corrente solo dopo l’introduzione della pellicola in rullo perforato, di piccolo formato. L’interesse per la sequenza in fase di ripresa (mai però riproposta in stampa) è evidente anche nelle due immagini di giochi di bimbi presentate in catalogo, mentre una variante dello stesso procedimento, finalizzata però alla ricerca di costanti compor­tamentali o tipologiche si rileva sia in altre immagini di giochi in cui il soggetto è sem­pre il “girotondo” (Giochi felici, Nell’ora del riposo) sia nella serie dedicata ai carri, costituita dalla documentazione esaustiva di tutte le varianti tipologiche locali di questo mezzo di trasporto.

Anche le scene di ambiente urbano hanno una loro cifra singolare, un poco passatista: se escludiamo la cronaca, che costituisce una produzione minore e d’occasione, Tar­chetti rivolge prevalentemente la propria attenzione a mestieri o modi di vita già allora in declino, e questa potrebbe essere letta come manifestazione di una sensibilità acuta se non fosse, più probabilmente, ancora una volta il sintomo di un rifiuto più o meno esplicito dell’industrializzazione. Certo anche qui la qualità delle immagini è general­mente notevole, la realtà viene indagata senza apparenti infingimenti e costruzioni arti­ficiose, ma l’occhio del fotografo opera distinzioni drastiche, e le assenze risultano si­gnificative; l’attenzione principale non è rivolta alla città che cambia, alla “città che sale”, ma a quella che resiste al cambiamento, che è ancora legata alla tradizione. Non immagini di manifatture e opifici, non di operai né di borghesi. Anche nelle scene urbane la città è vista solo in relazione alla campagna circostante: il ritorno dai campi, i venditori ambulanti, ma – soprattutto – i mercati, il momento dello scambio, uno dei nodi fondamentali del sistema di relazione tra centro e territorio, a cui Tarchetti dedica una splendida serie di immagini, mai pubblicate su rivista, alcune edite in cartolina. Altre cartoline ancora, tutte edite dalla ditta Larizzate di Vercelli, sono poi dedicate alla illustrazione dell’immagine della città, di cui si sottolineano prevalentemente le permanenze medievali, indagata sia negli aspetti monumentali (Sant’Andrea, il Brolet­to, le torri) sia negli angoli minori (il passaggio di Rialto, la cosiddetta Casa degli Ele­fanti), in cui rispunta in parte il tema del pittoresco (“Vercelli che scompare”). Sono, tutte, immagini anomale; lontane per impostazione e gusto dalla produzione consueta di questo autore, e solo l’inequivocabile indicazione sul verso ci convince ad attribuirle al notaio Tarchetti, dilettante fotografo, che qui fa sfoggio di una consumata abilità tec­nica nell’uso di macchine fotografiche decentrabili e basculabili, indispensabili ad otte­nere un perfetto controllo dei parallelismi, che sale ai primi piani delle case più prossi­me per riprendere le torri o la Piazza Cavour, costruendo immagini assolutamente indi­stinguibili dalla produzione corrente di soggetto simile realizzate in ogni parte d’Italia, applicando alla lettera i moduli canonici di impaginazione dell’immagine e di ripresa che erano stati messi a punto e di fatto codificati nella vastissima produzione dei grandi studi fotografici che si dedicavano alla documentazione, primi fra tutti gli Alinari. Per concludere la rassegna delle opere di Tarchetti o, meglio, per esaurire la serie dei temi da lui affrontati non rimane che parlare delle immagini che hanno per soggetto i bambini; serie vastissima, presente come una costante lungo tutto l’arco della sua pro­duzione a noi nota, che compare sia sulle pagine de “Il Progresso Fotografico” sia in numerosissime cartoline. Se escludiamo una delle prime fotografie realizzate, scatta­ta a Roma e pubblicata nel 1905, anomala rispetto alla produzione successiva e stretta­mente legata all’occasione[34], tutte queste immagini si servono del soggetto infantile per costruire piacevoli quadretti di genere, segnati da uno sguardo affettuoso, in cui il sentimento idilliaco non è mai sfiorato dal sospetto dell’ironia, corredati di opportuni titoli (Passatempi infantili, L’età felice, Senza pensieri, Ore d’ozio e simi­li) che non fanno che sottolineare retoricamente il contenuto dell’immagine, rafforzan­do l’idea di una visione pacificata, bucolica appunto, del mondo rurale, in cui la pover­tà delle condizioni materiali di vita -che pure emerge evidente- è riscattata nella visio­ne dell’autore da una condizione aurorale di innocente felicità. La stessa quiete dei la­vori campestri, dei buoi all’aratro, delle schiene ricurve dei falciatori sotto i grandi orizzonti padani, dei piccoli gesti calmi, consueti, della vita sulle aie dei cascinali in cui, ancora, ad accentuare l’intimismo della scena sono quasi sempre presenti i bambini.

Il migliore dei mondi possibili? Uno sforzo sovrumano per guardare e non vedere? Nulla può essere escluso, ma alcuni indizi lasciano affiorare una possibilità di lettura meno semplicistica, che consente di riconoscere, in un quadro complessivo fortemente segnato dalle tematiche della fotografia artistica, elementi diversi e in parte divergen­ti, in un equilibrio precario che oscilla tra l’aneddotica delle immagini di bimbi e la “riproduzione del vero” dei paesaggi, avendo al proprio centro la vastissima produ­zione delle “scene di vita e di lavoro”, cioè tutte quelle immagini che vanno a compor­re un affresco complesso del mondo rurale delle campagne vercellesi d’inizio secolo, in cui il documento si mescola con la scena di genere ed a volte emerge a fatica da essa ma non è mai definitivamente escluso, negato, e non solo per l’incapacità struttura­le dell’immagine fotografica di staccarsi dal reale.

Una conferma in tal senso ci viene dall’analisi del suo proprio modo di organizzare le copie fotografiche, modo che riflette immediatamente il percorso di analisi dei sog­getti e di selezione delle immagini da proporre alle riviste. Circa trenta sono le classi in cui Tarchetti suddivide i propri soggetti, rilevabili dalle scritte autografe che segna­no ciascuno dei raccoglitori (buste, cartelline, faldoni) in cui le stampe sono conserva­te; scompaiono qui i titoli dal sentimentalismo facile, e le “Scene di vita e di lavoro” ritornano ad essere indicate quali “Agricoltura”, “Fiere e mercati”, “Carri”, “Vac­che e pecore”, “Ragazzi”, “Dintorni di Vercelli”, “Sesia” ed altri. Ciascuna di que­ste classi, che corrisponde ad uno o più contenitori, certamente impoveriti rispetto alla loro consistenza iniziale, comprende numerose immagini, a volte decine, altre centi­naia, che sono risultato del lavoro condotto sul tema, ripetutamente indagato, appro­fondito mediante la registrazione di numerose varianti non semplicemente iconografi­che, cronologicamente anche distanti tra loro. Lo si vede nelle minute scene di vita ru­rale ma anche altre serie, apparentemente meno significative, quali le già ricordate im­magini di carri da traino animale, in cui la varietà di mezzi e situazioni documentate è tale da poter essere letta quale vera e propria indagine tipologica, compiutamente do­cumentaria. Non è possibile credere che questa cospicua produzione, queste ampie se­rie tematiche, fossero destinate solo a costituire un repertorio di prove fotografiche a cui attingere per la realizzazione della bella immagine finale, di una ‘fotografia arti­stica’, sebbene esista una obiettiva coincidenza di temi, di soggetti, che lo accomuna a molti rappresentanti di questo filone, di cui del resto Tarchetti è stato uno degli esponenti più noti, come dimostra il grandissimo numero di sue immagini pubblicate nel primo decennio del secolo, testimonianza di una consonanza di gusto ampiamente dif­fusa e consolidata.

Ma forse la contraddizione tra fotografia pittorica e documentaristica è solo apparente; una distorsione storiografica che presuppone una dicotomia allora non unanimemente condivisa. Poiché se è vero che per Namias “l’odierna esaltazione per la fotografia artistica ha purtroppo sviato molti dilettanti dalle raccolte fotografiche documentarie e nelle esposizioni tale genere di fotografia si fa sempre più raro con danno della cultu­ra”[35], per uno dei più lucidi esponenti della fotografia documentaria, promotore della costituzione di Archivi Fotografici Nazionali, il francese Alfred Liégard, ”l’art et le document peuvent, et même doivent, s’ entendre sur le terrain de la photographie … Le photographe artiste devra-t-il donc négliger le document? Pour ma part je ne crois pas. Il ne lui est nullement défendu de traiter artistiquement le document et il trouvera là au contraire une source importante de travaux capable d’exercer son talent, de le fortifier, de l’affiner… Nous pouvons du moins très souvent prendre l’épreuve documentaire de la manière à la présenter avec un véritable cachet artistique. Nous pouvons même, quoique cela soit plus délicat, y ajouter par des essais de reconstruction historique, ou bien encore en sachant y placer des personnages qui l’animeront sans rien enlever du coté utile du document. .. Il me semble qu’à notre époque, avec ce merveilleux instrument que nous avons sous  la main et qui s’ appelle l’ appareil photographique, c’est un devoir pour tous de ne pas laisser périr entièrement, sans même en conserver l’image puisque nous le pouvons, tout ce qui fait partie à un titre quelconque de l’histoire du pays où nous vivons.”[36] Certo le contraddizioni sono molte e la ventilata possibi­lità di ricorrere a “saggi di ricostruzione storica” o all’inserimento di personaggi (ve­rosimilmente in costume) – che porta alla mente un certo filone della cultura torinese che va dalla realizzazione del Borgo Medievale nel Parco del Valentino alle fotografie di Edoardo di Sambuy e poi di Guido Rey – può sembrare forse una concessione ecces­siva, un prezzo troppo alto da pagare alla possibilità di raccogliere, comunque, per quanto disturbate da impropri rumori di fondo, delle prove documentarie sotto forma di immagini, ma questo atteggiamento potrebbe rivelare anche una concezione molto avanzata del concetto di documento e l’appello finale, il valore anche civile della pro­posta, forse potrebbe essere stato sottoscritto da Tarchetti; l’impegno di conservare al­meno in immagine alcune testimonianze della storia locale (compito che in Masoero assume la forma di un progetto finalizzato), dimostrato indirettamente anche dalla deci­sione finale di donarle al Museo Borgogna, ci consente oggi di ricorrere ad esse quale fonte documentaria relativa alle condizioni materiali di vita delle popolazioni dell’agro vercellese di inizio secolo, e di riconoscere lo sguardo con cui la borghesia urbana le osservava.

Note

 

[1]  “Il Vessillo della Liberta”, Vercelli, 27 settembre 1860 e 30 aprile 1863. La data del 1863 è indicata anche in Piero Becchetti, Fotografi e fotografia in Italia 1839-1880.  Roma: Edizioni Quasar, 1978, p. 126.

 

[2] Per le notizie relative ai dagherrotipisti biellesi cfr. Becchetti 1978,  p. 55-56 ed anche Michele Falzone del Barbarò, Schede, in Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna (1773-1861), catalogo della mostra (Torino, Palazzo Reale, Palazzo Madama, Palazzina della Promotrice, maggio-luglio 1980) a cura di Enrico Castelnuovo, Marco Rosci, 3 voll. Torino: Regione Piemonte –  Provincia di Torino –  Città di Torino, 1980, vol. 2 , pp. 903- 942.

 

[3] Camilla Barelli, Carlo Costa 1826-1887, in Edoardo Arborio Mella (1808­-1884): Mostra commemorativa,  catalogo della mostra (Vercelli, Museo Camillo Leone, novembre 1985).  Vercelli: Istituto di Belle Arti – Archivio di Stato di Vercelli, 1985, pp. 149-158.  Per Giuseppe Costa cfr. Claudia Cassio, a cura di, Fotografi ritrattisti nel Piemonte dell’800.  Aosta: Musumeci, 1980,  pp. 212-214. Giusep­pe Costa risulta ancora presente all’ Esposizione del 1906 con un ritratto ad olio del barone  Vincenzo Cesati, cfr. L’Inaugurazione dell ‘Esposizione “Pro Emigratis” all’Asilo Um­berto I, “La Sesia”, 36 (1906), n. 61,  22 maggio .

 

[4] C. Cassio 1980, p. 202.

 

[5] Il primo studio relativo a Masoero si deve a Pino Marcone, Pietro Masoero: fotografo vercellese. Vercelli: E.N.A.L.-Famija Varsleisa, 1973,. Per altri saggi sulla produzione di questo fotografo, in particolare sulle campagne di documentazione del patrimonio artistico ed ar­chitettonico vercellese cfr. LINK MASOERO 1985 . Cfr. anche LINK MASOERO 1986.

 

[6] Dionigi Arborio di Gattinara, Carnet del Dilettante Fotografo. Torino: Tipografia Editrice C. Candeletti, 1890;  Pietro  Masoero, Decalogo del dilettante fotografo, in Breve raccolta di fotoriproduzioni e notizie utili. Torino: Società Fotografica Subalpina,  1901 quindi nel “Bullettino della Società Foto­grafica Italiana”, 13 (1901), pp. 163-167.

 

[7] Cfr. Marcone 1973, p. 28. Per il testo della conferenza cfr. Pietro Masoero, Arte e Beneficenza. Firenze: Tipografia di Salvatore Landi, 1903. Nei primi anni del secolo ri­sulta a Vercelli una notevole presenza di studi fotografici, di cui si presenta qui un primo elenco in attesa di completare le ricerche tuttora in corso sui Fondi Fotografici Vercellesi, condotte, per incarico dell’Assessorato per la Cultura del Comune di Vercelli, da chi scri­ve in collaborazione con Domenico Vetrò. Oltre ai noti studi fotografici di Boeri, Castellani, Costa, Masoero e Valenzani risultano presenti anche E. Rosetta, già collaboratore di G. Costa, G. Orlandi, R. Vercellino , S. Gambarova, che passa al professionismo dopo le prime prove da dilettante, M. Pozzi, G. Borghello e L. Corona, il solo fotografo vercellese presente all’Esposizione di Torino del 1911, cfr. Esposizione Internazionale di Torino 1911: Catalogo Ufficiale Illustrato del­l’Esposizione e del Concorso Internazionale di Fotografia. Torino: Tipografia Momo, 1911.

 

[8] Mario Tamponi, La Fotografia Artistica, “La Fotografia Artistica”, 6 (1909), n. 1, pp. 4-5.

 

[9] Marina Miraglia, La fotografia pittorica, in Fotografia pittorica 1889/1911, catalogo della mostra (Venezia, Ala Napoleonica, ottobre-dicembre 1979; Firenze, Palazzo Pitti, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979,  pp. 9-15.

 

[10] Enrico Thovez, Poesia fotografica,  “L’Arte all’Esposizione del 1898”, n. 9, pp. 67-70, ripubblicato in Paolo Costantini, Italo Zannier, Cultura fotografica in Italia: Antologia di testi sulla fotografia 1839-1949. Milano: Franco Angeli, 1985, pp. 277-281.

 

[11] Pietro Masoero, Arte fotografica, “Bullettino della Società Fotografica Italiana “, 10 (1898), pp. 161-171. L’opinione di Masoero viene ripresa quasi letteralmente in un articolo di Albert che compare più di dieci anni dopo: “L’arte fotografica deve restare nettamente fotografica. È solo a questa condizione assoluta che essa può esse­re ammessa come arte. Essa non deve cercare di imitare né il pastello, né lo sfumino, né la matita, né l’acquarello: è necessario che resti una fotografia e cioè una cosa che non si può visibilmente ottenere che con mezzi puramente fotografici”; Armand Albert, Cosa intendo per fotografia artistica, “Il Progresso Fotografico”, 18 (1911), n. 10, pp. 292-95, citato in Marina Miraglia, Note per una storia della fotografia italiana (1839-1911), in Federico Zeri, a cura di, Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2, pp. 421-544 (503-504).

 

[12] Il termine “fotografia pittorica” a cui si fa comunemente ricorso in Italia per indicare questo fenomeno è in realtà una definizione piuttosto recente; al momento della sua massi­ma diffusione tale fenomeno fotografico era comunemente noto come “fotografia artisti­ca”. Si veda a questo proposito la precisazione contenuta nel già citato testo di Tam­poni del 1909 (cfr. nota 8): “L’appellativo di “Pictorial” che questa nuova applicazione della fotografia ebbe in Inghilterra, è, per me, inspiegabile, se non prendendo in considerazione che la traduzione letterale inglese dell’aggettivo italiano ‘Artistico’ non ha di questo lo stesso valore, e che siccome finora i quadri non erano composti che di pittura o disegno, l’appellativo ‘Pittorico’ renda più l’idea di uno studio accurato di composi­zione. Risulta evidente credo che non si tratta di una semplice precisazione filologica ma di una diversa concezione critica; per l’autore il termine “pittorica” sancisce una dipen­denza dalle “arti maggiori” che egli non è disposto a condividere.

 

[13] Arturo Alinari, Le Fotografie Artistiche. Appunti critici, “La Fotografia Artistica”, 3 (  1906),  n. 2,  pp. 25-26.

 

[14] Tamponi 1909, p. 4.

 

[15] Carlo Bertelli, La fedeltà incostante, in  Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945, “Storia d’Italia: Annali” 2, 2 voll. Torino: Einaudi, 1979,  p. 67.

 

[16] Tamponi 1909, p. 4.

 

[17] Ibidem. È necessario ricordare che in quegli anni non sempre risultava in modo così netto la distinzione tra fotografia artistica e documentaria. Anche per la fotografia di guerra “volendo copie fotografiche di bell’ effetto e stabili, da destinare ai musei del Risorgimen­to, si farà ricorso al processo al pigmento o ancor meglio al processo al bromolio che può permettere ad un operatore artista di rimediare alle manchevolezze della fotografia ed aumentarne l’effetto”, Rodolfo Namias, Per la documentazione fotografica della nostra guerra,  “Il Progresso Fotografico”, 22 (1915),  n. 6, pp. 161-166.

 

[18] Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione linguistica generale. Bari: Laterza, 1902. Il brano è citato in numerose storie della fotografia italiana e riportato in Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia. Bari: Laterza, 1982, p. 147.

 

[19] Colgo l’occasione per ringraziare il dotto Gian Rodolfo Namias che mi ha consentito di consultare le preziosissime annate della rivista che fanno parte della sua collezione priva­ta, fonte indispensabile per determinare, seppure approssimativamente, la cronologia delle opere di Tarchetti e per ricostruire il dibattito che si è svolto in quegli anni intorno alle valenze espressive dell’immagine fotografica.

 

[20] “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), n. 10,  p. 145.

 

[21] “II Progresso Fotografico”, 12 , (1905), n. 3. Le sole cartoline di Tarchetti sinora note sono conservate nella collezione vercellese di Giorgio Peraldo, che ringrazio. Già nel giugno del 1901 sulle pagine della rivista si annunciava la pubblicazione di cartoline, utilizzate quali immagini fuori testo, che saranno inviate separatamente agli abbonati. Nella stessa occasione si an­nuncia anche la pubblicazione, presso lo stesso editore, del periodico “La Cartolina”. L’anno successivo il reparto di fotocollografia di “Progresso” viene messo a disposizione degli abbonati per la stampa a pagamento di cartoline tratte da loro fotografie, cfr. “Il Progresso Fotografico”, 8 (1901),  n. 6:  9 (1902), n. 1. Oggi (2022) una significativa scelta di quelle cartoline, appartenenti all’Archivio Fornacca di Candelo (BI), è visibile all’indirizzo https://frafor.com/fotografo-tarchetti/.

 

[22] “La Sesia”, 36 (1906),  n. 64, 29 maggio. Alla sezione fotografica della mostra, intitolata” Arte e beneficenza” rifacendosi all’iniziativa promossa nel 1902 da Masoero, che risulta nel Comitato Ordinatore col pittore Ferdinando Rossaro e lo scultore France­sco Porzio, partecipano solo sette fotografi (Aldo Guallini, Luigi Caberti, Pietro Bellone, Carlo Gastaldi, Andrea Tarchetti, Cesare Grosso, “un intelligente operaio che si diletta di fotografia” e Ugo Graneri). Come si vede, a questa data Tarchetti è il solo rimasto del folto gruppo di dilettanti presentati da Masoero nella precedente proiezione del 1902.

 

[23] L’agitazione agraria nel Vercellese, “La Sesia”, 36 (1906),  n. 65, 1giugno 1906.

 

[24] “Il Progresso Fotografico”, 14 (1907), p. 163; 15 (1908), p. 329.

 

[25] Il Congresso Nazionale delle Arti Grafiche, “Il Progresso Fotografico”, 13 (1906), pp. 156-157.

 

[26] Non è per ora possibile stabilire se esistessero legami di parentela tra Annibale e Giuseppe Cominetti, che nasce a Salasco (VC) il28 ottobre del 1882. Per Annibale Cominetti non sono state sinora effettuate indagini esaurienti, basti però ricordare che la madre, la nobil­donna Paola Cominetti era nativa di Vercelli, come si ricorda nel necrologio pubblicato in “La Fotografia Artistica”, 1913. Vercellese era anche Guido Momo, titolare dello sta­bilimento tipografico torinese che stampava la rivista. Anche Momo muore nello stesso anno, in febbraio, a seguito di un incidente occorsogli a Parigi.

 

[27] Per Luigi Cavadini cfr. La Fotografia Pittorica 1979, pp. 31-34, scheda a cura di Alberto Prandi.

 

[28] Esposizione Internazionale di Risicoltura e di Irrigazione Mostra d’arte della campagna irrigua. Catalogo delle opere esposte, Vercelli, Gallardi e Ugo, s.d. (1912). Per i com­menti alla Mostra cfr. “La Sesia”, 42 (1912), 22 ottobre.

 

[29] Inaugurando l’Esposizione Risicola, “La Risaia”,  13 (1912), n. 44, 26 ottobre: “L’Esposi­zione è dunque dei poveri e dei lavoratori e giova ai ricchi, ma non è forse così sempre?” Ed ancora: “il discorso del ministro Nitti” fu la glorificazione del grande assente, del lavoro, che era altrove e non lo ascoltava.”

 

[30] Cfr. “La Sesia” 1912. Le fotogra­fie a colori ricordate dall’articolista, più correttamente definite “diapositive” nel catalogo della Mostra, corrispondono verosimilmente alle autocromie oggi conservate alla Fondazione Sella di Biella, due delle quali sono state pubblicate in Miraglia 1981,  tavv. 679-680. A sottolineare il preciso interesse di Tournon per la fotografia occorre ricordare che nella Mostra Retrospettiva di Fotografia che si tiene nel­l’ambito della Esposizione Internazionale di Torino del 1911, alcune delle pubblicazioni esposte, relative al primo periodo della storia della fotografia, sono appunto di proprietà del Tournon. Egli non compare invece tra i fotografi selezionati per il Concorso Interna­zionale di Fotografia che si tiene nella stessa occasione, mentre risultano presenti Vittorio Sella, nella sezione del CAI, Roberto Mosca ed il vercellese Luigi Corona. Cfr. Esposi­zione Internazionale di Torino, 1911. Catalogo.

 

[31] Per Clemente Pugliese-Levi cfr. Esposizione d’Arte Vercellese Moderna. Vercelli: Gal­lardi e Ugo, 1922. Angela Ottino Della Chiesa, Clemente Pugliese-Levi (1855-1936).  Mi­lano: Mondial Gallery, 1961.

 

[32] Per Francesco Negri cfr. Cesare Colombo, a cura di, Francesco Negri fotografo a Casale 1841-1924. Milano-Bergamo: CIFe Cooperativa Il Libro Fotografico, 1969. Sebbene una certa uniformità nel trattamento delle immagini di paesaggio fosse co­mune a molti dei dilettanti fotografi di inizio secolo (“vi sono nei paesaggi inanimati ca­ratteri di somiglianza anche se eseguiti da autori diversi in località diverse” rileva un arti­colo redazionale dedicato a L’esito del Concorso per le illustrazioni del “Progresso Foto­grafico” nel 1908 , “Il Progresso Fotografico” , 14 (1907), p. 162) il riferimento a Francesco Negri risulta, per i fotografi vercellesi, quasi obbligato. Le sue immagini so­no conosciute a Vercelli sia per il tramite delle proiezioni organizzate da Masoero, di cui Negri era intimo amico, sia per la sua presenza diretta in numerose occasioni quali la con­ferenza da lui tenuta alla Unione Eusebiana la sera del 27 gennaio 1906, dedicata alla illu­strazione storico artistica del Santuario di Crea, cfr. “La Sesia”, 36 (1906),  n. 13, 30 gennaio.

Per l’influenza di Stieglitz sulla fotografia italiana cfr. il saggio già citato di Miraglia 1981 e anche Ando Gilardi, Creatività e informazione fotografica. In Federico Zeri, a cura di,  Grafica e immagine, “Storia dell’arte italiana”, III.2,  vol. 9.2. Torino: Einaudi, 1981, pp. 545-586.  Si veda in particolare la fotogra­fia di Federico Tensi, L’abreuvoir alla tav. 737 in cui, seguendo la lezione del grande fotografo americano, ciò che costituisce il soggetto della scena è la sua connotazione com­plessiva sottolineata dai dati atmosferici.

 

[33] Una attenzione per il mondo contadino sempre in bilico tra documentazione e scena di genere si riscontra già in molta produzione fotografica ottocentesca. Si vedano a questo proposito alcune delle immagini contenute in Fotografia Italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti ottobre-dicembre 1979; Venezia, Ala Napoleonica, gennaio-marzo 1980) a cura di Marina Miraglia, Daniela Palazzoli, Italo Zannier. Milano –  Firenze: Electa Editrice –  Edizioni Alinari, 1979; Marina Mira­glia, Cesare Vasari e il “genere” nella fotografia napoletana dell’Ottocento, “Bolletti­no d’Arte”, 70 (1985), serie VI, n. 33/34, settembre/dicembre, pp. 199-206; Bertelli,. Bollati 1979, tavv. nn. 32-33 ed anche, per un sommario panorama della produzione internazionale, Françoise Heilbrun, Philippe Néagù, Musée d’Orsay. Chefs-d’oeuvre de la collection photographique. Paris: Philippe Sers- RMN, 1986. Ciò che cambia in Tarchet­ti, ed in altri fotografi dilettanti a lui prossimi, quali Giovanni Sanvitale di Parma, l’avvocato Umberto Beccuti di Moncalvo o il biellese Franco Bogge, è la modalità di approccio al tema, che in questi autori è programmaticamente quello dell’istantanea, di una tecnica cioè in cui costruzione della struttura compositiva dell’immagine (che porta tendenzialmente alla posa) e scelta dell’attimo fuggente (che è specifica delle possibilità tecnico-espressive della fotografia) faticosamente convivono.

 

[34] L’immagine viene pubblicata in “Il Progresso Fotografico”, 12 (1905), n. 5, luglio, col titolo  errato  Ciociari sulla scalinata del Campidoglio a Roma. Si tratta invece, come è facile verificare, della scalinata di Trinità dei Monti a piazza di Spagna. Silvio Negro, Album Romano. Roma: Gherardo Casini, 1956, p. 246, commentando un’immagine di soggetto simile, dovuta a Giuseppe Primoli e datata circa il 1890, ricorda che i ciociari “veniva­no in particolare da Anticoli Corrado e Saracinesco. L’uso di star ad aspettare ingaggio [come modelli] sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui gradini della chiesa dei Greci, cominciò con la pittura di genere e finì con la prima guerra mondiale”.

 

[35] Rodolfo Namias, L’Esposizione fotografica di Torino, “il Progresso Fotografico”, 14 (1907), n. 2, febbraio, p. 30.

 

[36] Alfred Liégard, Le document et l’art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

La coda dell’occhio: Paolo Monti e la fotografia in Italia (2022)

Sommario

 

“Intenzioni fotografiche”   
Percorsi di formazione                                                     

Gli anni de La Gondola                                                                              

Le prime personali         

                                                            

Piccolo mondo antico                                                                 

“Fotografia inutile?”                 

                                                

“Non documento ma invenzione visiva”                            

Muri, Manifesti, Materie                                                          

Fotogrammi e chimigrammi                                                     

“Ritratti/ Artisti”                                                                          

A proposito di pubblicità     

                                                  

“Un certo Monti”                                                                          

Fotografare l’architettura contemporanea                        

La scultura                                                                                       

La pittura                                                                                          

I grandi architetti classici             

                                             

Storie,  luoghi, territori                                                                              

I censimenti emiliani           

                                                     

Note
Fonti archivistiche
Fonti bibliografiche

 

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“Intenzioni fotografiche”

 

Sulle pagine di un suo piccolo quaderno Paolo Monti registrava nel 1948 le proprie Intenzioni fotografiche[1], traendole in parte dall’edizione americana di “Popular Photography”; un chiaro indizio del ricercato, sistematico ampliamento dei suoi orizzonti culturali   e contemporaneamente della possibilità di accedere all’editoria straniera nella Venezia postbellica, quasi certamente per merito dei fratelli  Pambakian[2]. Le prime note riguardavano effetti di mosso e sfocato, cioè problemi espressivi e di linguaggio che molto avrebbe amato e approfondito nei decenni successivi. A  questi primi temi faceva seguito una serie di “soggetti fermi” da fotografarsi “con cavalletto e piccolissimi diaframmi”, tra i quali “vecchie porte e serrature (…) acciottolati (…) cortecce di vecchi alberi (…) grandi massi del Riale,” dei quali studiare il “peso architettonico delle varie forme – Ricordare le foto di Ansel Adams”. Seguivano poi indicazioni varie per la realizzazione di ritratti “con occhi completamente aperti e mossi” e “torsioni violente del viso”, che si direbbero poi non perseguite. E ancora: “gocce d’acqua su un cristallo” di volta in volta orizzontale o verticale e varie combinazioni di “sovraimpressioni” e “fotogrammi ottenuti per proiezione”.  Un elenco che mostra quanto le sue “intenzioni” fossero in quegli anni tanto eterogenee quanto sostanzialmente formali, anche per quanto riguardava  il confronto, importante, con la città di Venezia, da fotografare “a pelo dell’acqua (…) effetto di massa liquida omogenea mossa – con definizione del fondo (San Giorgio – Salute ecc.)”. Intenzioni  che avrebbe dovuto attendere almeno un lustro e un mutamento radicale di prospettiva per essere poste in atto. Almeno in questa preziosa fonte sopravvissuta (ma non possiamo sapere se vi fossero altri documenti analoghi, poi dispersi) non troviamo alcun cenno a una qualche possibile intenzione documentaria o narrativa della fotografia, così come il suo archivio risulta sostanzialmente vuoto di immagini che in un qualche modo – anche marginale – abbiano registrato i segni, gli eventi (o le loro tracce) del Ventennio fascista: quasi una rimozione se non proprio un’epurazione[3]. Del resto le pur ricche note biografiche fornite in più occasioni da Enrico Rizzi[4], che gli fu molto vicino e al quale si deve – con Giancesare Rainaldi – la costituzione dell’Istituto di Fotografia Paolo Monti, non offrono alcun elemento utile in tal senso.  Lo stesso dicasi per gli anni della Seconda Guerra Mondiale, trascorsi sempre in qualità di dirigente presso una società del gruppo Montecatini (nel quale era entrato nel 1936) nello stabilimento di Porto Marghera. Forse non in una raffineria, come si è detto altre volte, poiché il solo impianto di questo genere  era  di proprietà AGIP (già DICSA sino al 1934), ma più verosimilmente nella Società Veneta Fertilizzanti e Prodotti Chimici, ciò che renderebbe più comprensibile il successivo passaggio al ruolo di vice direttore del Consorzio Agrario Provinciale di Venezia nel 1945, proprio nei mesi (aprile, giugno, luglio) dei primi grandi scioperi di quel polo industriale.  Quali che fossero le ragioni di quel repentino distacco, il passaggio a Venezia si rivelò determinante in termini biografici, esistenziali. Il  1948 fu certo un anno per più versi cruciale sia  per la fondazione del circolo fotografico de  La Gondola (che segnava per Monti  il passaggio dal dilettantismo familiare, privato, alla pratica sociale del fotoamatorismo, certificata dalla prima pubblicazione di una sua fotografia su “Ferrania”[5],), sia per l’offerta culturale veneziana che in occasione della  XXIV edizione della Biennale d’Arte proponeva due mostre importanti come la retrospettiva di Picasso, presentata da Renato Guttuso  e quella dedicata alla Collezione Guggenheim, curata da Giulio Carlo Argan, nella quale erano esposte tra le altre  opere di Arshile Gorky, Mark Rothko e Jackson Pollock[6], mentre l’anno precedente a Milano, nella Sala delle Cariatidi,  si era tenuta la mostra Arte astratta e concreta[7], promossa  dagli artisti milanesi del gruppo Altana, che Monti potrebbe aver visto.

L’interesse per la fotografia pare si fosse manifestato per la prima volta in Monti ventenne[8] o ventiduenne (era nato a Novara nel 1908), a Venezia, “durante la notte del Redentore”[9], quando scattò le sue prime fotografie con una vecchia 3A Folding Pocket Kodak del padre Romeo, appassionato amateur. Venezia come destino verrebbe da dire facendo un poco di cattiva letteratura, ma il luogo della formazione fu per certo Milano, dove si laureò in Economia e Commercio all’Università Bocconi nel 1930 e rimase sino al 1934. In quel periodo  avrebbe quindi potuto vedere  la Mostra internazionale della fotografia curata da Antonio Boggeri e Luigi Poli per la V Triennale che si tenne nel maggio dell’anno precedente[10], la prima milanese, in cui accanto a fotografi stranieri provenienti da nove stati europei (Man Ray, Renger Patzsch,  Bayer, Maar e  Krull tra gli altri) esponevano quarantatre italiani tra i quali Balocchi, Bologna, Bertoglio, Leiss,  Peressutti e  Stefani[11].

Può quindi essere considerata  attendibile (pur con un qualche scarto cronologico) la testimonianza dello stesso Monti (1957) che collocava nel febbraio del 1934 la propria scoperta del fascino del formato quadrato e della fotografia modernista, vincendo anzi nel 1935 un premio al concorso indetto dalla società Ferrania, cui partecipò con alcune immagini scattate con una Rolleiflex da poco acquistata[12]. Se così è, devono essere retrodatate le sue prime fotografie note, dedicate proprio a Milano (tav. 003), realizzate ancora con la vecchia folding del padre e fatte sviluppare e stampare da Erberto Ruedi[13] o da G(iuseppe?) Mapelli. Solo l’ambiente veneziano avrebbe  poi offerto possibilità diverse: Silvia Paoli[14] ha ricordato una cartolina inviata a Mina Opizzi, legata a Monti dall’affettuosa amicizia di una vita, nella quale il fotografo scriveva di aver iniziato a stampare “il 31 maggio 1950”, smentendo così quanto avrebbe affermato nel corso di un’intervista concessa ad  Angelo Schwarz[15], nella quale assegnava quell’inizio al 1946, lamentando  anzi che allora “le conseguenze della guerra erano ancora pesanti e solo l’anno successivo furono disponibili materiali fotografici”[16]. In realtà sui portanegativi dei primi anni veneziani  compare più volte l’iscrizione “Foto Record/ San Marco 172 – Venezia / per Dott. Monti”, ciò che dimostra almeno che  la fase di  sviluppo era affidata al negozio dei fratelli Pambakian. Nel ricordo di Manfredo Manfroi “per stampare le centinaia di immagini che andava febbrilmente raccogliendo [Monti] si rivolse dapprima al laboratorio dei fratelli Mattiazzo, ma con risultati non soddisfacenti; la stampa era necessariamente di livello standard e non traduceva i ‘toni’ che Monti desiderava. La fortuita conoscenza dei Pambakian e degli altri di Fotorecord cambiò radicalmente le cose; per le stampe Monti si affidò a Bolognini[17] di cui aveva apprezzato la grande preparazione  e poi anche a Ferruccio Leiss”[18]. Nonostante la stima e l’ammirazione provata per questo “uomo solitario”, la sensibilità espressiva di Monti non poteva però corrispondere con quella di  questo maestro delle gradazioni intermedie: “Sono per natura, e forse per necessità psicologica spinto nella stampa fotografica a forti  contrasti dove il nero ha la sua parte, direi di rabbia. Leiss aveva capito, e quando gli diedi un negativo da stampare , malgrado le mie preghiere, mise tutto nei grigi, una musica di grigi. «Così va bene» mi disse gentilmente consegnandomi sorridendo la stampa. Aveva ragione, naturalmente, ma io non ne tenni conto e continuai con i miei neri, perché quello era il tono del mio vedere Venezia”[19]. Un nero che si poteva ritrovare però anche  in qualche notturno profondo nel libro di Leiss  dedicato alla sua città[20],  che nonostante le dichiarate differenze  doveva aver offerto a Monti non poche suggestioni.  In quella pubblicazione comparivano inoltre  alcuni  dei temi che avremmo ritrovato nella sua produzione: i riflessi dei palazzi sull’acqua,  le ombre portate che dialogano con la materia dei muri, le vere da pozzo[21], senza dimenticare che tra i suoi appunti di lavoro  ritroviamo anche le formule del rivelatore che  Leiss usava per i suoi “toni neri/ puri intensi”[22].  Accanto e più di Leiss sarebbero state però certe fotografie di Daniel Masclet a rivelare a Monti “per la prima volta, la bellezza del nero in una stampa fotografica”[23], poi confermata – anche come segno distintivo di un aggiornamento internazionale del gusto – dalle fotografie pubblicate sulle pagine degli annuari internazionali, specie statunitensi, oltre che da quelle raccolte da Steinert nelle prime due mostre della Subjektive Fotografie.  Alcune delle sue più precoci fotografie erano già caratterizzate da una composizione prospettica palesemente modernista (segno evidente di un aggiornamento non occasionale a quelle date[24], mentre quelle dell’amata Ossola (tav.004), come di altre località italiane, ormai ricavate dal 6×6, risultano molto accuratamente composte secondo le diverse  geometrie consentite e suggerite da quel formato,  ma – per certi versi – di più tradizionale impianto: quasi un ritorno all’ordine. Certo che il ricorso contemporaneo a due apparecchi  diversi sembra contraddire la considerazione retrospettiva di Monti a proposito del fatto che in quegli anni “il tempo della fotografia non [fosse] ancora venuto”[25].  Anche le fotografie riferibili con buona approssimazione a quel periodo sembrano contraddirlo: basti considerare le prime sfocature e Riflessi (tav. 005) o il gioco sottile dei Petali su fotografia (tav. 006),  che risalgono circa agli stessi anni, per comprendere come non ci fosse spazio alcuno per suggestioni tardo pittorialiste, affidandosi semmai alle specificità del mostrare fotograficamente, ciò  che suggerisce più di un legame con quanto andavano facendo  in quegli anni autori come Emmanuel Sougez (Fleurs et ombres chinoises, 1935ca),  Cesare Giulio (Dalia, 1932) e – a Milano – il coetaneo Franco Grignani (Fotogramma, flu [sic] oscillante (fiore), 1932)(tav. 008)[26].  Potremmo anche intendere questi esempi come testimonianza di tangenze occasionali, colte ex post dalla lettura critica, ma l’analogia tra la sfocatura (di ombre) di fiori di Monti (tav. 007),   e l’immagine di Grignani è talmente impressionante e puntuale, pur nella diversità delle tecniche adottate, da poter essere intesa almeno come segno della sua adesione a quel sentire nuovo che si andava appena diffondendo; senza dimenticare poi che proprio le sfocature sarebbero state per lui il tema ricorrente di una vita, assegnandogli addirittura lo statuto di “garanzia di autenticità”[27].  Non che tali fenomeni fossero del tutto assenti in certa produzione precedente:  basti pensare ad Aurora Umbrarum Victrix, 1930, di Stefano Bricarelli, o alla Pioggia d’ombre, 1933, di  Ferruccio Leiss e quindi di Giulio, o ancora  al loro utilizzo più aneddotico, con declinazioni  ‘romantiche’ da parte di Mario Bellavista (Tramonto, 1930)[28]; in ciascuno di quei casi però il riflesso e l’ombra non costituivano che una componente ‘astratta’ della scena e non – come accadeva in Monti – il tema principale della composizione, come mostra bene una fotografia quale Venezia, 1945-1950 (tav. 009 ): una piccola stampa ancora di formato cartolina, quindi realizzata con la folding paterna;  un’immagine molto potente e complessa dove l’ombra portata di un edificio sulla facciata di fronte costituisce la campitura  centrale e l’elemento principale della composizione; una fotografia che pur nella riconoscibilità dei suoi rimandi referenziali si rivela compiutamente astratta.

 

Percorsi di formazione

Il solo testo riferibile a quel periodo oggi conservato nella sua biblioteca personale, supponendo che ci sia giunta integra[29], è il manuale di Walther Heering, Le Rolleiflex: son principe, ses usages, ses avantages (1934), del quale Monti possedeva la seconda edizione, di tre anni successiva; il suo ‘primo’ libro fotografico forse.  Altro non troviamo. Nulla che ci possa orientare meglio nella comprensione di quegli anni formativi almeno sino all’Annuario Domus del 1943, Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia, che è un bel segno di attenzione per la cultura fotografica italiana più contraddittoriamente in cerca di modernità. Considerando l’antologia di immagini lì pubblicate sembrano però poche quelle che avrebbero potuto interessarlo, delle quali  noi crediamo di trovare qualche traccia nelle sue fotografie (tav. 010). E sono Paesaggio invernale  di Aldo Pedrotti per i primi toni alti (tav. 011);  Solitudine di Giuseppe Vannucci Zauli per Donna di Pellestrina (tav. 012), ma soprattutto Casa a Ischia di Giuseppe Pagano[30], forse il richiamo più pertinente e più riconoscibile nelle fotografie delle architetture minori lagunari della fine degli anni Quaranta (tavv. 013, 014) e nella serie dedicata a Procida nei primi anni Settanta (tav. 215). Scelte eterogenee in quanto a poetica e soluzioni narrative, orientate ancora in direzioni diverse e magari divergenti. Sono testimonianze di un percorso di messa a punto dei propri mezzi espressivi che doveva essere particolarmente sensibile alle Considerazioni di Ermanno F. Scopinich[31] che aprivano l’Annuario, nelle quali auspicava che il  fotografo lasciasse “che la fotografia crei, sfrutti tutti i suoi mezzi ottici e chimici nella ricerca di nuove espressioni della forma e del colore”, accompagnate però dalla constatazione amara che “il fotografo italiano [e la sottolineatura era determinante] si dedica malvolentieri alla ricerca tecnica, sente ancora troppo poco la necessità della preparazione in questo campo.” Erano i temi intorno ai quali si dibatteva in quegli anni sotto l’egida dell’estetica crociana. Così  Alex Franchini-Stappo e Giuseppe Vannucci-Zauli in quello stesso 1943 ricordavano che “si tratta di stabilire se esistono  valori estetici in fotografia e quali siano. (…) in ogni vera fotografia deve essere l’illuminazione che parla, che esprime in primo luogo: l’oggetto fotografato un semplice sostegno materiale (scelto con riferimento al tempo) che permette alla luce di concretarsi in forme diverse che saranno la creazione del gusto e della fantasia dell’artista”[32]. La risultante “unità estetica” era data dal convergere di quegli elementi (illuminazione, momento, resa – intesa come “unità di stile”) che “non potrebbero esistere l’uno separato dall’altro, [e che] sono intimamente connessi l’uno con l’altro”.  A questi concetti si rifaceva  anche Il bello fotografico, 1945, firmato dal solo Vannucci Zauli, nel quale si  affrontava la questione del “documentario fotografico”, quello in cui “l’espressione dell’immagine non è legata a questi valori”, chiedendosi poi “se vi può essere il documentario artistico ed in cosa si distingue dal bello fotografico”, per giungere a questa conclusione: “Si dovrà perciò opporre al documentario non la fotografia artistica bensì la ‘fotografia’. Un’immagine potrà considerarsi fotografia (…) quando la tecnica usata, qualunque essa sia, ed il soggetto, si risolvono apprezzabilmente nei tre valori specifici nei quali viene a concentrarsi, se l’opera è riuscita, la sintesi: soggetto (l’artista), oggetto (fotografato), che è l’essenza del’arte. Nella fotografia documentaria invece, se un certo valore artistico vi è, esso non può essere che quello proprio della situazione che documenta”[33].

Come si è detto nella biblioteca di Monti non ci sono  (non c’erano ?) né l’Introduzione per una esteticaOtto fotografi italiani d’oggi, una raccolta che prefigurava gli orientamenti del gruppo fotografico La Bussola e che comprendeva  fotografie di alcuni dei suoi  futuri membri come Balocchi, Cavalli, Vender, Leiss e Mario Finazzi che ne fu il curatore. Ci sono invece le prime (e uniche) tre cartelle della collana “Immagini”, diretta ancora da Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo, dedicate rispettivamente a  Giuseppe Cavalli, a Federico Vender e al tema delle Montagne,  con immagini di tono alto di Cesare Giulio, Antonio Piccardi, Carlo Matis, Ada Niggeler, Riccardo Moncalvo e Finazzi stesso[34]. Quasi un manifesto di quella fotografia chiara, luminosa, in tono alto[35], segnata da una grande attenzione per la geometria della composizione, che sarebbe stata la sigla stilistica dei “bussolanti” e che rispondeva pienamente alla poetica espressa nell’Introduzione per una estetica, per la quale, infine,  “l’oggetto fotografico deve essere un semplice sostegno materiale, un pretesto per creare una forma fotografica”[36], così anticipando le dichiarazioni programmatiche del Manifesto de La Bussola[37]. Erano quelle posizioni, quella  vera e propria genealogia[38] che sembrano perimetrare l’operare di Monti in quegli anni di direzione incerta, tra esercizi formali quasi calligrafici e interpretazioni delle architetture della Laguna, con immagini già in perfetto equilibrio tra geometrizzazioni di solidi volumi e fascinazioni della materia delle superfici che poco avevano in comune con la produzione di Cavalli e Vender. Fu  semmai Ferruccio Leiss a costituire  un riferimento, se non proprio un modello, anche se lo stesso Monti ricordava di aver visto “le sue prime fotografie nel 1948 quando a Venezia stava per nascere il gruppo La Gondola”[39], quindi in un momento seppur di poco successivo[40]  e quasi conclusivo di quella fase ricca di stimoli e suggestioni che furono i primissimi anni del secondo dopoguerra, quando  “dopo un anno di residenza a Milano, tornai a Venezia nel 1945 e incominciai a interessarmi della fotografia”[41].   Nell’interpretazione di Paolo Morello, “a Venezia, tra il 1948 e il 1949, Monti è rimasto a baloccarsi con vedutine da dilettante (…) [ma] è qui che comincia ad organizzare in modo nuovo lo spazio del fotogramma, a ricomporre i segni della città attraverso geometrie del tutto intellettuali.(…) È questa scoperta, all’inizio, della geometria come chiave di una decifrazione allegorica, come traccia visibile di un universo spaesante, a condurlo fuori dalle secche dell’impressionismo amatoriale”[42].

Sono gli anni che portarono alla costituzione del Circolo fotografico La Gondola e alla redazione di quelle  Intenzioni fotografiche che costituivano un primo schema di ricerca, quasi didascalico, fotoamatoriale, già  orientato però verso la  fotografia come specifica modalità espressiva: fotografia sulla fotografia quindi. Non sarà un caso allora che tra i suoi libri fosse presente anche Vision in motion di Lazlo Moholy-Nagy, pubblicato postumo giusto nel 1947[43]; un  libro bellissimo e pieno di suggestioni che dovette essere determinante per la sua formazione e per indirizzare molte delle sue scelte successive, dalla fotografia di architettura ai fotogrammi. Soprattutto direi che per Monti poteva essere importante quanto emergeva da tutto il volume, vale  dire la necessità di dotarsi di un metodo nella conduzione delle proprie ricerche, dalle sperimentazioni con gli sfocati, i mossi, il colore sino alle più tarde campagne documentarie sui centri storici. Le indicazioni dovettero però essere anche più immediate se proprio nelle Intenzioni comparivano spunti di ricerca che rimandavano direttamente al libro di Moholy-Nagy  (“negativo usato come positivo – fotogrammi ottenuti per proiezione”), nel quale era presente anche Billboard, 1941, di Frank Levstik: un manifesto corroso, trasformato in materia, pubblicato a piena pagina[44].

Riferimenti bibliografici e appunti personali di quel periodo rimandano a una ricerca formalista per larga parte contraddetta da altri  lavori coevi, tra fotografia umanista alla francese e neorealismo nostrano; segno evidente di quello che non possiamo non riconoscere come un periodo di (dis)orientamento, aperto a direzioni contrastanti. Ipotizzando che le date siano corrette, nella produzione di quegli anni convivevano infatti  i toni alti  di una fotografia come Controluce n. 13, 1948-1948, (tav. 015), che pare influenzata da Gino Bolognini più che dai formalismi de La Bussola, ai quali potremmo semmai riferire Conchiglia, 1948-1949 (tav. 016)[45], con le atmosfere rarefatte, dove gli “aspetti del reale si mutano quasi in immagini fantastiche”[46] di Ghetto nuovo, 1950 (tav. 017) e di Venezia: lo spazio notturno. Luna Park sul campo di Ghetto novo, 1951 (tav. 018), che richiamano alcune prove di Luigi Comencini o di Giuseppe Vannucci Zauli pubblicate nell’Annuario del 1943[47] e sembrano esemplificare proprio quello che Stappo e Zauli chiamavano il “Momento” (già quasi “decisivo”) ovvero quella “determinata fase del divenire del soggetto trattato [dove] lo Sviluppo nel Tempo  di esso viene considerato in funzione estetica”[48]. Appare invece incommensurabile la distanza con  le rivelazioni di Occhio quadrato, 1941, di Alberto Lattuada (incredibilmente, forse ideologicamente assente dall’antologia del 1943)  che pure usava il formato 6×6.  Troppo lontane, o forse solo incerte le posizioni di  Monti da quelle espresse dal futuro regista, che nella Prefazione chiariva come quello fosse  “il necessario momento di tornare ad esporsi in posizioni indifese, di abbandonare, sia pure per breve tempo, il lavoro della spietata analisi e delle troppo pedantesche ricerche di stile, di rompere il guscio che fa da custodia a un preteso determinato modernismo e rinnovare il flusso d’amore che muove gli uomini verso l’unità” [49].  E ribadiva in chiusura: “Mi domando se sia il caso di ripetere che la fotografia è documento, è l’istantanea rivelazione della vita, è un punto di vista che implica giudizio e selezione dei fatti fissati nella loro apparenza essenziale”.

Gli anni a cavallo del 1950 furono per  Monti  “l’inevitabile periodo delle domande e degli incerti tentativi”[50], delle oscillazioni del gusto quindi,  se possiamo immaginare che Trasparenze vivesse delle stesse suggestioni di Controluce n. 13 (un titolo tipicamente fotoamatoriale) o che in Livigno (tav. 019) avesse rimeditato le suggestioni offerte da Sul limite dell’ombra di Cesare Giulio  (tav. 020), l’autore a cui era stata dedicata una piccola sezione postuma (Purità, Un nulla, Audax, Assolo) alla Prima Mostra Internazionale Scambi Occidente che si tenne a Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, dal 10 al 26 settembre 1949, alla quale Monti partecipò a titolo personale proprio con Trasparenze (n. 176) e Inverno ad Anzola  (n. 175), già presentata (n. 141) a giugno alla Prima Mostra Nazionale organizzata dalla FIAF nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[51]. Altri soggetti avevano caratteri più descrittivi, prossimi al modello TCI incarnato in quegli anni  da  un autore prolifico come Bruno Stefani; mi riferisco a Alpe di Siusi, della quale possiamo vedere il foglio di provini (tav. 021), una fotografia che forse non per caso  venne premiata a un concorso ENIT-Ferrania[52]. Al Giuseppe Cavalli di Gioco di grigi, 1948, rimandava esplicitamente (e citava quasi letteralmente) una delle Forme conservate in archivio, mentre altre prove della stessa serie (tav. 022) o Composizione con foglie e conchiglia,  1945-1950 (tav. 023) erano esercizi tonali tutti giocati su di una calligrafica composizione di forme che non rinunciava però a restituire la materia delle cose, delle superfici toccate dalla luce, mettendo in gioco quindi anche un primo conquistato virtuosismo tecnico nello sviluppo e nella stampa dopo la stagione delle collaborazioni (a volte insoddisfacenti) con gli amici fotografi veneziani; prove che sembrano tener conto dei lavori di  Emmanuel Sougez, tra i fondatori di Le Rectangle e poi del Groupe des XV, due dei sodalizi francesi più influenti sullo scenario italiano di quegli anni[53].  Altri riferimenti ancora si possono individuare in fotografie quali Il carrettino (tav. 024) , Giochi sulla neve o Zero gradi, 1951 (tav. 025)[54],  che  si affidavano alla consueta grammatica dei toni alti ma con un trattamento del soggetto e una sintassi che sembrano costituire una riflessione ulteriore sul postpittorialismo modernista di Cesare Giulio. Ma per Monti ( e sorprendentemente per noi) quelle fotografie avevano un significato metaforico: “Credi forse che un mondo più pulito non mi piacerebbe? Le uniche mie fotografie pulite sono quelle di neve e a queste va la mia simpatia”[55], scriveva a Ferruccio Ferroni nel 1954  e poi ancora , pochi mesi dopo:  “Ho poi stampato una lunga serie di negative di foto invernali che giaceva da almeno due anni negli archivi. Viste ora mi piacciono molto, sono ormai decantate e l’occasione dalle quali sono nate è talmente lontana che nessuna delle creazioni di allora è ancora viva, così che il loro valore attuale non può subire influenze personali”[56].

Su di un fronte che diremmo esteticamente opposto si collocavano Le astrazioni involontarie, 1950 ca, (tav. 026)[57] che non si direbbero tanto mediate dal movimento della Subjektive Fotografie quanto legate a suggestioni che provenivano direttamente dalle avanguardie storiche, mentre il titolo richiamava (se non rimandava) a quelle che negli stessi anni erano definite “astrazioni della natura”[58] da un autore come Minor White, che Monti avrebbe potuto considerare con un certo interesse. Immagini particolarmente felici e certo innovative per il panorama nostrano di quegli anni, che guardavano a  Man Ray [59] e –  credo – ancora più esplicitamente a Moholy-Nagy[60], ma che qui interessano ancor più per quel titolo (insistito, adottato più volte) che sembra sottolineare la (ontologica) contraddizione in termini della fotografia cosiddetta ‘astratta[61]’, ma anche  indicare un preciso programma di ricerca, un atteggiamento (fotografico) verso il mondo  se non proprio una poetica, che era quella dell’immagine ricercata e trovata, più di rado costruita in studio, com’era Composizione con metro metallico, 1949[62] (tav. 027), che si provava a coniugare geometria e materia delle superfici: una questione  che diremmo centrale per la ricerca di Monti in quel periodo.

Anche nella serie dedicata a Meme (alias Maria, Mariel, Maris, Muriel, Ingrid, Sonja ma anche Cinderella: un vero e proprio harem immaginario), insomma alla nipote Maria Elvira Cocquio, figlia di Carlo e di Augusta Binotti, sorella di Maria moglie di Monti, avviata quando era ancora bambina (nel 1944), negli anni della guerra, come una speranza, e proseguita sino ai primi anni Sessanta, le suggestioni, le prove, le soluzioni muovevano in direzioni diverse (e non sempre compiutamente controllate[63]), oscillando tra le riprese quasi da album ricordo delle prime prove e l’assunzione di una precisa funzione di modella da parte della ragazza (che compare quindi anche in fotografie non propriamente di ritratto, cfr. Uragano, Almanacco 1956),  specie a partire dai primi anni veneziani del fotografo, quando molti dei ritratti (termine da intendersi qui in una accezione molto ampia)  erano ambientati nella soffitta della casa ai Santi Apostoli (tavv. 028, 029), che fu anche il  luogo privilegiato dell’apparizione  ‘metafisica’ di una Venere in soffitta, 1950 ca, (tav. 031) che va letta in continuità con alcune riprese di Meme. L’insieme delle fotografie della nipote, distribuite lungo quasi un ventennio, “fatte anno per anno dai sei ai ventiquattro anni”[64], presentano una vasta e  variegata gamma di situazioni ed espressioni (tav. 030), ma in quelle del periodo adolescenziale si possono individuare almeno due serie anche psicologicamente distinte, ciascuna segnata da una precisa scelta tonale: nella prima – con ampi spazi concessi a un erotismo forte per quanto trattenuto – le immagini sono solari, chiare quando non addirittura in tono alto, e si presentano esplicitamente come ritratti non immemori del primo Weston pittorialista, mentre le seconde sono scure, inquietanti (ricordano le prove migliori di Maurice Tabard e di André Boiffard, tav. 034), con la figura vista attraverso un vetro deformante, irriconoscibile nella sua identità di persona (tav. 032) I titoli confermano a loro volta questa intenzione onirica e perturbante di ispirazione surrealista richiamando una  2a apparizione in un vetro del ‘700[65], ma anche offrendo un esplicito Omaggio ad E. A. Poe, 1950 (tav.033)[66]. Nessuna di queste suggestioni sarà però presente (o anche solo suggerita) nella prima occasione importante di pubblicazione di alcune immagini della serie, il portfolio sulle pagine di “Camera” dell’ottobre 1956, rispetto al quale in un primo tempo Monti aveva espresso alcune perplessità, poiché avrebbe preferito “essere presentato (…) come avvenne per Roiter con una scelta di fotografie varie dal ritratto al paesaggio, con particolari di natura, alberi ed altro e con qualche scena italiana che lei vide. Il fatto è che ad eccezione dei ritratti di Mariel io non so come lei ha valutato la mia opera di fotografo e questo mi mette in un certo imbarazzo anche per la serie dei ritratti  essendo io sensibilissimo a queste situazioni di incertezza. Non vorrei passare per il fotografo di un solo soggetto o meglio di una sola ragazza!!”[67] La pubblicazione su di una rivista così prestigiosa era “cosa talmente rara ed importante” e la scaletta del numero così interessante che Monti si prese qualche giorno di vacanza nella casa di Anzola d’Ossola, paese d’origine della famiglia, per scrivere l’articolo: “lunedì le spedisco le foto e lo scritto a Lucerna, massimo martedì perché dovrei stampare ancora due piccole foto della ragazza di molti anni fa che sono le prime della serie, quando ero un semplice schiaccia bottoni.”  Le immagini vennero così corredate da un ampio testo dell’autore e da un commento di Romeo Martinez,   che parlava di  “poétique du souvenir”, ricordando come  “le variazioni nel tempo su di un unico soggetto qual è  la serie dei ritratti di Mariel costituiscono un atto fotografico la cui realizzazione testimonia concetti visivi e segue da vicino l’evoluzione di un fotografo che teniamo in grande considerazione”[68].  Era proprio il testo di Monti a sottolineare il senso di indagine concettuale sul trascorrere del tempo di quel suo lavoro, richiamando la rivoluzione culturale determinata dalla fotografia in questo sforzo immane (e inane) di “dominarne il corso o almeno di rallentarne la marcia”.  Escludendo e quasi allontanando perentoriamente da sé ogni coinvolgimento (auto)biografico Monti presentava quel suo lavoro su (con) Mariel come “un’affettuosa testimonianza di quei momenti di ineffabile attesa; [lo] studio fotobiografico di un volto femminile e dei suoi aspetti nel tempo. Un po’ come un paesaggio di cui si fossero fotografate le variazioni stagionali in momenti e con luci diverse”[69]. Così posta, la vicenda biografica ridotta quasi a pura registrazione sembrava riguardare la modella e non lo sguardo voyeuristico del fotografo zio, che ne usava almeno per mettere alla prova le proprie capacità, espresse in diverse tonalità narrative. Una rimozione che Berto Morucchio pareva aver ben compreso quando riconosceva che l’oggetto della ripresa costituiva una “rivelazione – per via fantastica – del soggetto stesso” [70], cioè dell’autore.  Una rivelazione che Giuseppe Turroni  avrebbe colto nel momento in cui vedeva quei ritratti come “percossi da uno spirito corrosivo”, suggerendo infine che  “Monti scopre Venezia e Meme non è che un volto di questo tenero mistero”[71].  Un’interpretazione intrigante ma velata da una qualche omissione nel momento in cui non riconosceva il legame affettivo, parentale tra i due.  Una lettura che per molti versi risultava più semplicistica e superficiale di quella offerta solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”, quanto aveva riconosciuto che “Venezia è stata una tappa, una vita per Monti (…). Tentò, mi pare, un connubio tra impressionismo e astrattismo. Ne sortì, più tardi, una Venezia chiusa nella sua dolcezza dolente, nella sua mesta teatralità (Venezia è teatro, nelle strade nei gatti e nei volti biondi delle donne), quasi spenta, ristretta a un decadentismo che non era crepuscolare, non era romantico, non era quello della «morte» di Mann, non era, tanto meno, ‘italianisant’. Qualcosa, in Monti, aveva funzionato segretamente. La marcata tristezza ‘autunnale’ di Cardarelli aveva dato buoni frutti.” E qui tornano alla mente – quasi un ritratto per analogia – le parole che Portoghesi[72] dedicò alla venezianità di  Carlo Scarpa a pochi mesi dalla morte: “Venezia era per Scarpa un modo di guardare e di usare, un modo di connettere le cose tra loro in funzione di valori di luce, di tessitura, di colore, coglibili solo da un occhio abituato ad osservare (e osservando misurare) acqua, vetro e insieme pietre e mattoni esposti a una atmosfera inclemente che non consente alla materia di nascondere la sua struttura ma continuamente la costringe a scoprire, consumandosi, le proprie qualità più segrete.”  “Il mio destino di fotografo  – ebbe a dichiarare Monti – deriva dal fatto di essere venuto a lavorare a Venezia” e di aver compreso che la città non era ancora stata “vista in modo nuovo, in modo più che nuovo, in un modo intimo, in quello che ha di migliore”, perché gli autori che si erano misurati con quella città “non avevano visto certe cose”[73] che lui vedeva.  Forse però non di ‘cose’ si trattava, ma semmai di modi perché già nella Venezia dei primi anni Quaranta non solo Leiss aveva guardato alle presenze meno monumentali e – in ambito specificamente architettonico – Egle Trincanato aveva riportato per prima l’attenzione sulla Venezia minore[74], ma soprattutto Francesco Pasinetti[75] l’aveva raccontata ormai anche con la fotografia, rivolgendosi ad “alcuni aspetti, ignorati dai più, degli angoli più modesti e della vita popolare”, ampiamente illustrati nella monografia che il Touring Club dedicava a Venezia e la sua laguna giusto nel 1947, “in questa inquieta alba di pace che stiamo vivendo, tra il dolore delle passate  sventure e le trepide speranze di rinascita”[76]. Non solo la città però, come indicavano Laguna di Torcello (tav. 002)  e le successive Venezia, muro con bolzone, 1950 ca (tav. 014) e Pellestrina, 1950 ca (tav. 013), più direttamente orientate a una lettura per masse dell’architettura vernacolare delle isole, così come accadeva per le più tarde Porta murata  e Architettura lagunare, pubblicate su “Ferrania” nel 1955, mentre in Venezia, 1950 ca  e in Pellestrina. Laguna di Venezia. Muro di casa di pescatori, 1950 ca (tav. 035 )  si rivelava già matura quell’attenzione per la matericità delle superfici murarie che sarebbe stata  oggetto di importanti lavori successivi come Muro veneziano: disegno su un manifesto distrutto, 1950ca  o Muro con scritte, 1950 ca (tav. 036), dove risultano più marcate le suggestioni pittoriche provenienti dalle coeve ricerche informali, senza dimenticare i primi graffiti di Brassaï [77]. Di tutt’altra tonalità emotiva e conseguente trattamento stilistico una fotografia degli stessi anni come Reti e barche, 1948-1949  (tav. 037), che si potrebbe intendere come una prova tardo pittorialista giocata tutta sui toni alti, o la più veristica Chiatta (tav. 038), dove le nebbie lagunari che rendevano evanescenti figura e paesaggio costituivano pur sempre un dato di realtà. Dirompente, a loro confronto, e certo inattesa una prova come Venezia, 1950 ca (tav. 039[78];  uno spazio sventrato, un passaggio continuo esterno, interno e ancora esterno formato da una serie di inquadrature concatenate, racchiuse dalla materia sbrecciata dei muri, restituita per forti contrasti tonali, che deve certamente essere posta in relazione con Muro a Treviso, del 1947 (tav. 041); immagini  che – con poche altre[79] (tavv. 042, 043) – sembravano almeno fare i conti con le memorie della guerra. Per Monti, così come per la gran parte dei suoi compagni di strada, la tragedia che avevano appena attraversato non aveva lasciato tracce visibili nelle loro fotografie: si lavorava al presente e sul presente, non di rado estranei alla contingenza storica.

Se torniamo ad aggirarci per la sua biblioteca vediamo che al momento della fondazione de La Gondola i suoi acquisti, le sue letture erano quasi esclusivamente di manualistica tecnica e di genere,  orientate nei più diversi settori: dalla fotografia naturalistica  a quella pubblicitaria e di architettura[80]. L’aggiornamento culturale pare fosse demandato alla consultazione degli annuari che ereditavano la gloriosa tradizione di “Arts et Métiers Graphiques”, come Photographie 1947, che conteneva una fotografia di Brassaï (tav. 58) che potrebbe averlo interessato;  il ginevrino  Photo 49,  per certi versi il corrispettivo svizzero dell’Annuario di Domus del 1943, ma anche il  Photo Almanach Prisma 1948, più prossimo alla manualistica fotoamatoriale. A questi può essere accostato Photography and the art of seeing, che offriva numerosi esempi di fotografia modernista (Man Ray, Brassaï, Kertész, Laure Albin-Guillot, Sougez, Schall, Pierre Boucher) e prefigurava per certi versi quello che sarà identificato come  il “momento decisivo” alla Cartier-Bresson: “Né dobbiamo trascurare il fatto che il successo dell’operatore dipende in gran parte dall’aver scattato nel momento culminante della scena. Non si tratta però di un caso fortuito, ma di una capacità artistica che è il risultato di uno sforzo sintetico” [81]. Qualcosa  che nulla però avrebbe avuto a che vedere con la fotografia di Paolo Monti, che anzi ricordava semmai di essere stato a suo tempo molto attratto dalla “grande ondata del realismo assoluto, del neo-oggettivismo tedesco (…) un tipo di fotografia molto esatta, molto precisa, molto secca; un po’ la fotografia tremendamente a fuoco, incisa fino all’ultimo come quella di Weston”[82]. Alla manualistica, seppure d’autore[83], si affiancava in quegli anni una scelta eterogenea di titoli che spaziavano dalla fotografia umanista di Izis [84] a quella animalier di Ylla[85]; da La France de Profil di Claude Roy e Paul Strand, a Subjektive Fotografie di Otto  Steinert[86], che scavava nella più stretta contemporaneità, esattamente come faceva – sempre nel 1952 –  il numero monografico di  “Art d’aujourd’hui” dedicato alla fotografia. L’intento del  curatore  Paul Etienne [Paul Sarisson][87] era “di presentare […] in una Rivista per la difesa dell’arte non oggettiva, un’immagine che vorrebbe essere originale e che rispecchi fedelmente le possibilità attuali della fotografia al di fuori di certe ‘ricette’, come le sovrimpressioni o i fotogrammi, che pretendono di esprimere la soggettività con mezzi un po’ troppo facili[88],  ponendosi quindi in contrasto con una parte non secondaria di ricerche espressive della Subjektive, sebbene poi in quelle pagine trovassero ospitalità anche un muro di Masclet[89], movimenti di luce di Steinert, un oggetto ‘astratto’ di Bourdin e soprattutto la copertina di Denis Brihat a cui Monti deve aver guardato con un certo interesse. Di certo importante per la sua formazione fu il confronto con i lavori di Daniel Masclet, che dopo una prima stagione tardo pittorialista si era avvicinato alla poetica di Weston e poi progressivamente alla fotografia soggettiva. Masclet  compariva anche in un prezioso volume che attualmente brilla per la sua assenza dalla biblioteca di Monti, Il messaggio dalla camera oscura, scritto da  Carlo Mollino nel 1943 ma pubblicato a  Torino nei primi giorni del 1950. Frutto maturo ed eccentrico di una concezione della storia della fotografia come storia di immagini fu il prodotto di una aggiornatissima cultura visiva di livello internazionale con forti influenze francesi e costituì la prima vera sintesi storiografica prodotta nel nostro paese, di impegno e prospettiva non commensurabili con le produzioni antecedenti, sebbene escludesse ogni riferimento alle vicende italiane del XIX secolo.  Come già in Film und Foto[90] il percorso tracciato era palesemente finalistico, orientato a collocare in una precisa genealogia quelle tendenze espressive a cui Mollino sentiva orgogliosamente di appartenere, come dimostrava inequivocabilmente la decisione di pubblicare ben sedici delle proprie immagini nello strabiliante repertorio iconografico che sostanziava il volume. “Subito la fotografia cammina in parallelo con le componenti del gusto del tempo” dichiarava Mollino, definendo quale fosse la matrice della sua interpretazione storico critica, fondata sulla verifica stringente dei rapporti tra la fotografia e la cultura visiva in generale, e in particolare con la pittura, evidenziandone i reciproci debiti specialmente nel ricco apparato illustrativo. Coerentemente alle proprie posizioni estetiche influenzate dalle avanguardie e specialmente dal surrealismo[91], si mostrava sprezzante (ma “senza polemica”) nei confronti della produzione di quei fotografi che  imitavano in ritardo proprio quelle soluzioni tecniche ed espressive che gli stessi primi utilizzatori avevano da tempo abbandonato: “ Solarizzazioni alla Man Ray, chiarità di toni […] cominciano ora a imperversare” [92] scriveva, così che nessuna immagine dei bussolanti (che pure costituivano la ‘novità’ della fotografia italiana di quegli anni) fu compresa nel repertorio.

Tra i titoli dei primissimi anni Cinquanta posseduti da Monti spiccano per la loro eccentricità di argomento due testi di grande e diversa importanza  come Apologia della storia, 1950, di  Marc Bloch e  La scoperta del bambino, 1951, di Maria Montessori, ultima edizione di un testo pubblicato  per la prima volta nel 1909. Il saggio di Bloch, un  classico della riflessione storiografica  del Novecento,  costituisce per noi un indicatore prezioso dell’interesse non sporadico né superficiale di Paolo Monti per la storia e la storiografia, in una accezione che non è difficile riferire alla scuola delle “Annales” e più direttamente a Lucien Fevbre. Basti a questo scopo leggere quanto diceva a proposito delle fotografie che “possono essere documenti” nel corso dell’intervista concessa ad Angelo Schwarz nel 1978,  precisando immediatamente che “quando diciamo che la fotografia è documento il più delle volte crediamo di dire qualcosa di preciso [ma] c’è molta ambiguità in queste descrizioni (o definizioni?) (…)  Il documento allora, è la registrazione importante di una cosa a  cui noi siamo ancora interessati”, e poco oltre – quasi a voler chiarire ulteriormente  – richiamava il proprio interesse, la fascinazione esercitata dalla “bellezza di certe pietre come quella d’Istria che resiste attraverso i secoli, ma ci dice che gli uomini ci hanno camminato sopra e magari tanto l’hanno toccata con le mani che vi hanno lasciato i segni. E le scritte sui muri, la qualità di quei muri, le parti rovinate.”[93] Considerazioni riprese in uno scritto dell’anno successivo[94] che conteneva un’importante riflessione sullo statuto dell’immagine fotografica: “Oggi dopo oltre un secolo di accanite polemiche, e ancora qualche incertezza (…) siamo giunti alla conclusione, illuministica direi, che la fotografia è soprattutto documento. Ma documento di che? (…) Un documento è la certezza di una determinata cosa che la fotografia ci rappresenta e a cui noi dobbiamo e vogliamo credere, e in queste due parole è tutto il dramma dell’ambiguità della fotografia.” Dramma fondante e fattivo, in cui si intersecavano problemi storiografici e ontologici, troppo sovente considerati separatamente quando non addirittura indipendentemente l’uno dall’altro, come se non fosse qui, in questo nodo, la fecondità e la funzione della fotografia quale testimone e produttore di cultura e di storia nelle società degli ultimi due secoli. Un ‘documento’ nel quale la restituzione analogica del referente è inestricabilmente segnata da connotazioni sociali, storiche, culturali e non per ultimo tecnologiche, che concorrono a dare forma alla rappresentazione del reale, assegnando un senso più ricco e complesso al contenuto stesso[95].  La fotografia, una fotografia nutrita di suggestioni formali e materiche si rivelava essere lo strumento, quasi  un metodo storiografico per la comprensione delle culture di un territorio come quello che si rivelerà nelle grandi campagne documentarie della fine degli anni Sessanta, complice  (e regista) Andrea Emiliani, che a proposito  di Monti, parlava di “un grande disegno storiografico” [96] che avrebbe illuminato l’opera del fotografo nella seconda parte della sua vita. La presenza,  inattesa, de La scoperta del bambino potrebbe invece essere legata a un qualche tragico (e a noi ignoto) fatto biografico di Monti[97] se consideriamo che sono dello stesso anno La morte è una bambina (tavv. 047, 048), realizzata nel piccolo cimitero di Anzola d’Ossola, e  la serie comunemente nota come Angelo a Venezia (tav. 049)[98]. Immagini esplicitamente dolenti e tragiche quali non si ritrovano altrove nel lavoro del fotografo e consentono almeno di formulare l’ipotesi  che fossero originate da drammi esistenziali, rendendo meno convincente – per quanto legittima –  la lettura che le riconduceva alla  interpretazione montiana di Venezia come “figlia del terrore di gente in fuga disperata per la salvezza”[99].

Nel 1952  Monti aveva acquistato – come si è visto –  la prima antologia di Subjektive Fotografie, che proponeva certo riferimenti e modelli che furono importanti per orientare la sua produzione successiva, ma può essere interessante notare qui che molti dei presupposti di quel ‘movimento’  si ritrovavano già esplicitati in Perché fotografo. Come fotografo, 1948, di Mario Bellavista, Capo ufficio pubblicità e stampa in Montecatini negli stessi anni in cui vi lavorava Monti, che gli era quasi coetaneo[100]. Il libro (non presente nella biblioteca di Monti) era stato scritto nel 1947 (cioè l’anno de La Bussola) ma raccoglieva e sistematizzava riflessioni e proposte anticipate da lungo tempo sulle pagine di “Galleria” (Concetti per fotografi moderni, 1934-1936). Nel ricostruire la sua vicenda ‘artistica’ Bellavista indicava quali fossero i Nuovi orientamenti. Dal pittorico al fotografico, dai passaggi obbligati agli schemi liberi che potevano suonare ancora validi nel 1947-1948: “Libertà assoluta del soggetto (…) Libertà assoluta nella maniera di ritrarre il soggetto (…) Libertà assoluta nell’interpretazione personale (utilizzazione di qualsiasi mezzo, perfino delle manchevolezze tecniche negli strumenti e nel materiale fotografico, per conseguire l’effetto estetico più idoneo a rappresentare la sensibilità personale (…); Sintetismo (tendenza a esprimere con immagini di pochi segni nell’intento di conferire una nuova e maggiore potenza espressionistica al soggetto (…); Apologia del moto quale nuova bellezza (…); Surrealismo (…); Il soggetto in funzione realizzativa di visioni elaborate dallo spirito (…); Sincerità intenzionale (…); Contribuire a formare un nuovo volto alla fotografia (… ) favorire tutto ciò che consentisse alla fotografia di assumere caratteristiche proprie chiare, definitive, inconfondibili.”  Certo c’era di tutto e di più, comprese vaghe e generiche suggestioni dai diversi ismi delle avanguardie di inizio secolo, ma quel richiamo insistito alla “libertà assoluta”  era una indicazione importante e certo orientata a sollecitare la soggettività del fotografo, specie se confrontata col dogmatismo del Manifesto de La Bussola. Fotogrammi e solarizzazioni si accompagnavano in quegli anni alle indagini intorno alle possibilità espressive di quelle che nelle sue Intenzioni fotografiche  aveva chiamato  “istantanee lente”[101],  alcune delle quali – formalmente prossime a certe prove coeve di Franco Grignani[102] – sarebbe state utilizzate come copertine per “Domus” diretta da Gio Ponti[103] . Come avrebbe chiarito lo stesso Monti in un breve testo coevo[104], “è appena il caso di dire che parlando di natura morta non ci limitiamo al suo significato pittorico, ma intendiamo anche ogni genere di composizione ove entrino elementi siano o no tradizionali per giungere sino alla completa assenza di ‘oggetti ‘reali’, cioè alle fotografie astratte affidate unicamente a puri rapporti di luce”. Un pensiero chiaro, una riflessione che all’epoca non riusciva a trovare interlocutori adeguati, viziata da disarmanti semplicismi dilettantistici[105] o apertamente polemici[106], mentre veniva riconosciuta (anche nei suoi esiti materiali, nelle opere) da un critico attento come  Berto Morucchio, che definiva “la sua evoluzione estetica (…)  come una dialettica, tormentata ma definita, dal naturalismo all’espressionismo, con vissute parentesi non oggettive (manifeste soprattutto nei fotogrammi e nelle esperienze espressive ‘sul particolare’)”[107].

Questa dialettica è ben riconoscibile nelle opere pubblicate o esposte in quell’arco di tempo[108], ancora prevalentemente orientate alle diverse accezioni del figurativo, con rare presenze di fotografia ‘sperimentale’[109], sebbene – come sempre in Monti – il confine fosse volutamente labile,  con le diverse “Astrazioni involontarie”, ritrovate e reinventate, a fare da cerniera, senza poter escludere che quella scelta prudente fosse anche la manifestazione di un segno – come dire – di sfiducia nelle possibilità di comprensione e accoglimento del mondo amatoriale, che certo guardava a lui ma al quale altrettanto lui si rivolgeva, trovando semmai più adeguato spazio sulle copertine di “Domus”. Monti lavorava caparbiamente  sulla fotografia con la fotografia, ma nelle occasioni pubbliche, compreso il suo affacciarsi sulla scena internazionale, pareva affidarsi a più rassicuranti soggetti. Non è dato per ora conoscere nel dettaglio  quali fossero quei quaranta “lavori anche professionali” spediti alla George Eastman House di Rochester nel 1957 su invito di Minor White, che dovevano comprendere però un vasto campionario della sua produzione, “dal ritratto ai fotogrammi passando per il paesaggio e le scene di vita italiana”[110] . È invece certo che delle tre opere selezionate  per la mostra del decennale curata da Beaumont Newhall nel 1959, due appartenevano al genere del  ritratto e vennero collocate nella sezione intitolata “Equivalents” (con esplicito richiamo a Stieglitz) che era definita dal curatore sulla base della potenzialità della fotografia di essere letta metaforicamente,  come un simbolo che può avere la capacità di “attivare un flusso di coscienza”[111].

Considerando la sua produzione di quegli anni, segnati dal passaggio al professionismo di cui diremo, e soprattutto pensando all’insieme delle opere presentate in pubblico, risulta tanto necessario quanto difficile porsi il problema delle influenze dirette e indirette, che appaiono altrettanto complesse e variegate. Certo l’esempio de La Bussola, non tanto in termini formali (se non sporadicamente) quanto di rivendicazione del valore autonomo della fotografia; poi i modelli internazionali, in un arco tanto ampio da comprendere i tedeschi di Fotoform e i francesi del Groupe des XV,  che per Monti rappresentavano “due tendenze che si possono ritenere esemplari della fotografia europea”[112], mentre sembra essere stata meno immediata e diretta l’influenza statunitense nonostante l’ammirazione per “la monumentale opera fotografica di Weston”[113]. Quindi, inevitabilmente,  le suggestioni e le poetiche espresse  dalle ricerche pittoriche più avanzate degli anni Cinquanta, cui non era difficile accostarsi a Venezia[114] come a Milano (senza dimenticare un canale di diffusione quale le riviste d’arte[115]). A ben considerare però si direbbe che per Monti questa gran messe di suggestioni visuali e culturali – specialmente europee, va sottolineato – sia servita soprattutto come occasione di riflessione e di analisi intorno a quei  problemi di interpretazione e restituzione visuale dei dati di realtà che gli erano propri. Da questo punto di vista risulta quindi piuttosto sterile e velleitario proporre accostamenti e filiazioni dirette, come pure è stato ampiamente fatto, per riconoscere invece una solida appartenenza a un contesto ampio di ricerche espressive, nelle quali Monti si collocava in maniera culturalmente e criticamente consapevole, non priva di un certo scetticismo di fondo, ben oltre le immediate (e magari superficiali) apparenze formali. Anche i possibili, inevitabili riferimenti a Man Ray (che considerava “uno dei fondatori della fotografia moderna”[116]) e ancor più a Moholy-Nagy  sono da intendersi in termini di modelli del fare, quasi metodologici, di apertura e coinvolgimento in molte se non in tutte le possibilità espressive praticabili con la fotografia (compresi gli sfocati, i movimenti di macchina), convinto che “le opere venivano prima delle teorie”[117]. Che dire poi del rapido e progressivo definirsi di una scelta orientata verso i toni bassi se non che questa oltre che corrispondere a un suo particolare sentire, e sentire del mondo, si era ormai affermata come lo stilema, il marchio inconfondibile della fotografia internazionale di quel periodo, celebrata e diffusa dalla maggior parte degli annuari fotografici internazionali che Monti possedeva in gran numero.

 

Gli anni de La Gondola

Gli anni della ricostruzione postbellica in Italia mostravano anche in ambito fotografico una vivace ripresa di iniziative variamente legate a forme associative[118] che si distinguevano per intenzioni e modi da quelle che avevano caratterizzato il ventennio precedente, seppure muovendosi in direzioni diverse e magari divergenti. Così tra 1947 e 1948 si collocarono la costituzione de La Bussola e poi de La Gondola, che nelle loro modalità aggregative sembravano guardare a modelli stranieri e specialmente francesi, ma anche al nostrano  Gruppo Piemontese per la Fotografia Artistica che nell’inverno del 1921 era nato a Torino in seno alla Società Fotografica Subalpina con l’esplicita intenzione di essere “un fattore nuovo nella fotografia pittorialista in Italia, e suscettibile di esercitare una felice influenza sul suo sviluppo”[119],  riunendo gli autori del primo moderato modernismo, da Baravalle, Bologna, Bricarelli a Cesare Giulio e Francesco Agosti.  Certo sulla scia di quel primo sodalizio ma con aspirazioni culturalmente più modeste fu ancora a Torino, nella sede della Società Fotografica Subalpina, che nel dicembre del 1948 si riunirono le associazioni fotografiche che diedero vita alla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche – FIAF, a cui La Gondola avrebbe aderito quasi subito mentre La Bussola se ne sarebbe mantenuta lontana. Nel giro di poco più di un anno i due fronti contrapposti della “fotografia d’arte” e dei fotoamatori si erano ormai precisamente delineati.

Com’è ampiamente noto, fu dalle frequentazioni del negozio Foto Record dei fratelli armeni  Pambakian, che nacque per Monti l’occasione di conoscere Gino Bolognini e dare vita al  venezianissimo circolo de La Gondola[120], che al momento della sua costituzione comprendeva anche Alfredo ‘Giorgio’ Bresciani e Luciano Scattola. Di quel ristretto consesso piccolo borghese Monti venne nominato, di più, fu  riconosciuto come Presidente, nonostante fosse a tutti gli effetti un neofita, specie dal punto di vista tecnico; una scelta da attribuirsi verosimilmente alla sua solida formazione culturale.  Un sodalizio che condivideva “l’intenzione di dar vita a un nuovo circolo fotografico così come viene comunemente inteso”[121], ma rifuggendo quell’estetismo crociano ” cioè il soggetto non conta niente è il modo come lo si presenta che ha importanza, che aveva caratterizzato la Bussola stessa. Era venuto il momento di parlare con la fotografia anche ispirandosi ai paesaggi pittorici, tirandone fuori il sentimento drammatico, ed alla struttura urbana di Venezia: i muri, il colloquio tra le acque e le pietre che le corrodono, gli spazi attraverso le strettoie si prestavano a questo modo nuovo di vedere”[122]. Un circolo senza Manifesto quindi, ma con idee piuttosto chiare sia in termini di poetica che di politica culturale per la promozione della fotografia ovvero, come ebbe a scrivere Zannier a distanza di quasi un ventennio[123], “la Gondola è stato forse l’unico Circolo italiano a proporre con chiarezza un’avanguardia nostrana, da allineare accanto a quella europea, che per altro ha avuto il merito di farci conoscere attraverso alcune indimenticabili rassegne ospitate a Venezia.”  Se in termini di riconoscimento del valore estetico dell’immagine fotografica il confronto e – per una certa parte il modello – era costituito da Giuseppe Cavalli e dalla Bussola, in termini più ampiamente culturali l’esempio da seguire era certamente quello del Circolo Fotografico Milanese[124], poi dell’Unione Fotografica. Diverso l’intento della neonata FIAF, che aveva semmai tra i propri obiettivi quello di far conoscere la fotografia italiana in campo internazionale, come indicava la Prima Mostra Nazionale di Fotografia Artistica organizzata proprio nelle sale del Circolo Fotografico Milanese  nel giugno del 1949[125]. Anche i bussolanti avevano organizzato una serie di “mostre di ottimi francesi tedeschi italiani cinesi”[126] nel ridotto del Piccolo Teatro di Milano, ma il gruppo de La Gondola pareva avere una progettualità più strutturata, più precisamente orientata alla crescita culturale della fotografia italiana attraverso la conoscenza diretta delle opere più interessanti del panorama internazionale, specialmente europeo.  In questa volontà di progetto non doveva essere secondaria la funzione di Venezia, non tanto per le sue attrattive d’ambiente quanto per il modello costituito dalla Biennale d’Arte (1895) e dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, avviata per la prima volta nel 1932, ponendosi perciò tra il Festival Internazionale di Musica Contemporanea (dal 1930) e il Festival Internazionale del Teatro di Prosa (1934), mentre nei primi anni del dopoguerra (1948-1951)  si avviavano le attività veneziane di Peggy Guggenheim. Venezia città delle arti contemporanee. In quel contesto, e pur muovendosi in sedicesimo date le condizioni culturali ed economiche, sorgevano anche iniziative legate alla fotografia, come la Mostra Internazionale d’Arte Fotografica che si tenne nei padiglioni della Biennale ai Giardini, dal 14 agosto al 10 settembre 1947, in concomitanza con la Mostra internazionale della tecnica cinematografica. Una grande raccolta di immagini selezionate dai rispettivi circoli di appartenenza che suscitò più di qualche perplessità negli osservatori più attenti. “Una percentuale alquanto vasta di fotografie artisticamente e tecnicamente non valide” nel giudizio di Giuseppe Cavalli, che pure segnalava The Critic di Weegee, ma senza indicarne l’autore[127], mentre Alfredo Ornano[128] ammetteva di aver “provato un vero dispiacere percorrendo le sale (…): in locali così bene illuminati che in ogni angolo la fotografia vi si mostra in tutte le sue più delicate mezze tinte, si è radunato tutto il vecchiume d’Italia, tutte le fotografie che da 15 anni vediamo in esposizioni sociali e nazionali. E l’internazionalità è molto discutibile (…)”. Sola eccezione il gruppo di venticinque fotografie del gruppo de La Bussola, “le uniche in cornice e sottovetro”, precisava Cavalli.

Certo memori di quel precedente, la prima iniziativa pubblica de La Gondola, fu l’organizzazione nel 1951 della Mostra Fotografica Nazionale Retrospettiva 1940-1950[129],  alla quale sarebbe immediatamente seguita nella stessa Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian La prima mostra del paesaggio veneziano e lagunare[130].  Scopo della mostra retrospettiva – scriveva Monti nella presentazione – era di  “far conoscere a una larga cerchia di pubblico una severa e larga selezione di fotografie italiane dell’ultimo decennio, iniziando con questa un programma di periodiche manifestazioni che, riallacciandosi alle ultime degli anni precedenti la guerra, sia quasi di prologo alle mostre future”[131]. Si trattava insomma di “fermarsi a fare il punto della situazione e per non incorrere in giudizi affrettati, esaminare non tanto gli ultimi apporti dei vari autori quanto lo svolgersi nel tempo delle diverse tendenze [offrendo] in una rapida sintesi un’idea abbastanza precisa dell’attuale fotografia italiana. Diciamo ‘attuale’ e non ‘moderna’ perché molte opere risentono ancora di influssi che risalgono a molti, troppi anni or sono e per fotografia moderna noi intendiamo invece quella che è solo ‘fotografia’, mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative e tanto meno di imitarle nell’esteriorità del mezzo tecnico.”   Per quelle ragioni “più che premiare lavori singoli la giuria avrebbe voluto premiare interi complessi di opere [come poi avverrà a Castelfranco e altrove negli anni successivi] perché la personalità di un fotografo è data dal complesso del suo lavoro piuttosto che da opere isolate.  (…) In questa breve presentazione di proposito non abbiamo mai parlato di “fotografia artistica” e ci auguriamo che questa infelice espressione sia bandita ovunque si parli o si scriva di fotografia. Sulla questione se la fotografia sia arte o no, si è consumato fin troppo inchiostro – e sorte analoga ebbe più tardi il cinema – né noi vogliamo sciuparne altro”. La questione poetica al centro di quell’ impegnativo programma riguardava la rivendicazione della fotografia come “mezzo autonomo e liberissimo di espressione che non sente e non tollera il bisogno di imitare le arti figurative”[132], vale a dire qualcosa di sottilmente diverso dai proclami de La Bussola  (“Noi crediamo alla fotografia come arte”)  e dalle posizioni di  Vannucci Zauli e Scopinich, e semmai prossimo a quelle avanzate  già a fine Ottocento da un fotografo come Pietro Masoero[133], segnando così una specie di ritardo sulle più avanzate posizioni critiche e sulle iniziative  di respiro europeo che caratterizzavano  in quegli anni il Circolo Fotografico Milanese e poi l’Unione Fotografica[134]. Considerando questo testo, oltre a notare l’accorto uso delle aggettivazioni (“una severa e larga selezione”)  bisogna prestare la dovuta attenzione alle intenzioni dichiarate dal titolo:  a pochissimi anni dalla fondazione dei due più noti circoli italiani e dalla nascita della FIAF  l’intento era unificante;  il tentativo era quello di fornire una rassegna critica dell’ultimo decennio, segnato per la gran parte dalla guerra e dalle sue conseguenze; voleva inoltre dire assumersi il rischio di fare i primi conti con la fotografia negli ultimi anni del fascismo. Evitare di far  tabula rasa delle esperienze del periodo bellico costituiva la condizione anche politicamente necessaria per proporre quella prima mostra come l’anello di congiunzione con le previste iniziative future, a partire dalla Mostra della fotografia italiana del 1952 e sino alle Biennali del 1957-1965, che furono l’occasione per far conoscere al pubblico italiano un  panorama ampio e variegato,  per molti versi mainstream, nel quale vennero mantenute sotto tono le esperienze europee legate alla fotografia astratta e concreta, più esplicitamente soggettiva.  I contatti e i confronti fattivi con la produzione fotografica internazionale si erano avviati per La Gondola con la I Mostra scambio “Le Club Photographique de Paris 30×40[135], a cui fece seguito nel 1955, sempre a Ca’ Giustinian, quella più opportunamente chiamata II Mostra Internazionale di Fotografia[136], che presentava “opere di famosi «cameramen » di Francia, d’America, d’Olanda e di Germania”[137], come Daniel Masclet, Otto Steinert e Martien Coppens. Tra gli scopi dichiarati vi era quello di “portare la fotografia alla Biennale Internazionale di Venezia”, ma la sua conduzione  venne aspramente criticata sulle pagine di “Ferrania” da Berto Morucchio, che stigmatizzava certe presunte “sofisticazioni della prefazione” (di Giorgio Giacobbi) e il ricorso a  “concetti frusti e mal articolati come questi, di autonomia e di individualità dell’arte [che]  è meglio tralasciare se non sono vissuti profondamente nella loro evoluzione storica”[138], ma soprattutto condannava la decisione di aver ristretto la partecipazione  italiana ai soli membri de La Gondola, “secondo la bonomia familiare che governa un club”. Una scelta che doveva però suonare come una rivendicazione se non come una piccola vendetta, datosi che i membri del gruppo veneziano erano stati esclusi sino a quel momento dalle più prestigiose occasioni internazionali.

Nella prima metà degli anni Cinquanta la fotografia italiana aveva goduto di  una buona circolazione internazionale, a partire dalla prima edizione (1952) di Fotografie als Uitdrukkingsmiddel, curata da Martien Coppens allo Stedeliijk Van Abbe Museum di Eindhoven, che in un prestigioso contesto  autoriale (Ansel Adams, Edward Weston, Fotoform, Magnum, gli svedesi del gruppo De Unga, tra gli altri) ospitava i fotografi de La Bussola e quelli dell’Unione Fotografica, compreso Roiter, addirittura  riservando la copertina del catalogo a Sul tetto di Federico Vender. Un panorama  qualitativamente diverso da quello  offerto dalla mostra londinese dello stesso anno organizzata dalla Royal Photographic Society (5-29 novembre) a cui pure parteciparono  “i tre maggiori enti che rappresentano oggi la fotografia italiana” , vale a dire la Bussola, l’Unione Fotografica e  la FIAF “che comprende quasi tutti i circoli d’Italia”. Purtroppo la presenza di circa cento lavori  ‘salonistici’ determinò un forte sbilanciamento dell’insieme, condizionandone negativamente la ricezione da parte del pubblico e dei critici britannici, più che perplessi dall’omogeneità e dalla scarsa qualità complessiva dei lavori presentati.  “Una serie di fotografie tutte di tonalità molto chiara, fissate su una parete bianca, diventa[no] una cosa strana assai all’occhio britannico” ricordava Harold Lewis  sollecitato in proposito dai membri dell’Unione Fotografica, che sentirono la necessità di prendere pubblicamente posizione in un articolo a firma collettiva pubblicato su “Ferrania”[139]. Anche nella Mostra della fotografia italiana che si tenne nel  maggio 1953 alla George Eastman House di  Rochester,  promossa dalla rivista “Fotografia” e curata da Beaumont Newhall[140], gli  autori presenti erano prevalentemente legati alla redazione della rivista milanese, così che l’iniziativa passò piuttosto in sordina nonostante la prestigiosa sede.  Non dissimile infine la compagine italiana nella quasi contemporanea  Post-War European Photography curata da Edward Steichen al MoMA (da 26 maggio al 23 agosto), con settantanove fotografi da undici paesi[141] e le presenze italiane  equamente suddivise tra i membri dell’Unione Fotografica e della Bussola, vale a dire molti degli autori  (Piero Di Blasi, Cavalli, Davide Clari, Donzelli, Vender e Veronesi) accolti da Steinert in Subjektive Fotografie 1, del 1951,  ancora una volta escludendo gli autori de La Gondola. La fotografia italiana fu poi l’argomento del numero monografico di “Camera” dell’aprile del 1956, per la cura di Romeo Martinez, che nei mesi successivi avrebbe pubblicato lavori di Paolo Monti[142] e di Mario de Biasi[143]. I testi introduttivi furono affidati a Fulvio Roiter[144] (del quale la rivista aveva ospitato immagini dal viaggio in Sicilia nel gennaio del 1954) e a Italo Zannier, entrambi concordando sul fatto che “l’arte fotografica italiana (…) è espressa quasi esclusivamente dalle opere dei fotografi dilettanti”[145],  ciò che aveva nociuto non poco al suo affermarsi. La selezione degli autori[146] era stata però piuttosto generica e inadatta a  fornire un quadro veramente significativo della produzione italiana sia in termini generazionali che di scelte espressive, ma l’occasione fu certamente importante, anche se il bilancio tracciato dai due autori era insoddisfacente. “A rigor di termini – scriveva Roiter –  dovremmo parlare solo di dilettantismo, perché è la sola forma di attività fotografica che, in questo paese, abbia  stimolato un ideale, definito una tradizione e incoraggiato una pratica i cui effetti sono tutt’altro che trascurabili. È strano, fuori dall’Italia il meglio della produzione fotografica viene dai grandi del mestiere che vivono di fotografia e per la fotografia.” Ciò detto e riconosciuto, i limiti determinati da tale situazione erano evidenti  poiché anche le “ intenzioni più meritevoli finiscono per insabbiarsi se viene a mancare  un sostegno indispensabile: l’energia che determina ogni piena realizzazione. (…) Non siamo contrari a questa forma di attività, né ai circoli fotografici; ci auguriamo solamente l’avvento in questo paese di un vero, onesto e proficuo esercizio professionale.” Quelle considerazioni (sarebbe troppo definirle analisi) suscitarono la risentita reazione di uno dei grandi esponenti della vecchia guardia come Stefano Bricarelli che dalle pagine del “Corriere Fotografico”, stigmatizzò la trasparente celebrazione autobiografica fatta da Roiter di quei “giovani dotati di ricca sensibilità e coraggio che si sono sganciati da queste istituzioni [i circoli] per affrontare, con successo, e da soli, una carriera così piena di rischi e difficoltà come quella del freelance fotografo”, convinto che “da questi semenzai esce anche la  più parte dei fotografi professionisti”.  Anche per “il suo degno epigono, Italo Zannier” non mancarono le critiche,  specie per l’aver considerato “Cavallli, Veronesi, Finazzi, Balocchi ecc.”  rappresentanti della ‘vecchia generazione’. Se così era – chiosava Bricarelli – “noi apparteniamo addirittura ai ‘primitivi’, e ci possiamo ormai considerare «au-dessus de la mêlée»[147] e quindi in grado di esprimere un parere spassionato che sarebbe il seguente. È  un vero peccato che un’occasione così favorevole per valorizzare la fotografia italiana – quale un Numero speciale ad essa consacrato da una Rivista dell’autorità di “Camera” – sia stata sprecata, non con le fotografie, che, la Dio mercé, un loro linguaggio positivo e persuasivo lo hanno conservato; ma con gli scritti che si direbbero fatti apposta per convincere, in quattro lingue, gli stranieri – già così propensi e pronti a sottovalutarci – che, dietro agli autori delle suddette opere, in fatto di fotografia in Italia nulla esiste o poco meno di nulla. (…) Diano retta a noi; continuino a produrre della bella fotografia e lascino l’impiccio e la responsabilità di scriverne a chi è in grado di farlo.” La tesi sostenuta da Bricarelli nel 1956 sarebbe stata condivisa e meglio articolata da Monti in occasione del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando (contro l’ironia  “facilissima” di Gilardi)  aveva sostenuto che “ l’unica salvezza della fotografia italiana è questo continuo passaggio di amatori al professionismo fin quando non ci saranno delle vere scuole che alleveranno dei veri fotografi [perché ] in mancanza di scuole fotografiche che siano veramente scuole fotografiche io mi domando che cosa sarebbe oggi la classe dei professionisti se non avesse avuto il continuo rincalzo di certi amatori. (…) Quanti sono gli amatori che hanno dato un certo lustro alla professione? Sono moltissimi”[148]. Ed era  certo lui la figura eponima di quelle vicende, il responsabile delle “rottura con un certo edonismo fotografico, nello stesso tempo è il suo passaggio al professionismo che ha   scosso le inibizioni di numerosi amatori dotati ma incapaci di passare il Rubicone. L’impresa di Monti ha significato per la nostra generazione l’emancipazione e la rivalorizzazione di un mestiere che era considerato socialmente ed economicamente inferiore.” (…) [ Monti]  resta comunque l’esempio di chi è riuscito a conservare la propria integrità a tutti i livelli della sua produzione, vale a dire che è riuscito a difendere in ogni momento la propria personalità di fotografo.”[149]  Fu ancora la Sala degli Specchi di Ca’ Giustinian a ospitare la III Mostra Internazionale di Fotografia[150] organizzata dal Circolo La Gondola dal 24 giugno al 15 luglio 1956, con poche partecipazioni internazionali (solo Brett Weston, Erich Angenendt, Helmut Lederer, Toni Schneiders, André Thévenet, George Viollon e la Guilfond School of Art aderirono all’invito) e una discreta presenza italiana[151],  che escludeva però oltre al  nucleo storico dei  bussolanti (con l’eccezione di un atipico come Veronesi) anche i milanesi dell’Unione Fotografica, semmai attirando nella propria orbita alcuni giovani della MISA, quasi a voler certificare la fine del predominio di Cavalli[152]. Sulle pagine di “Ferrania” Zannier[153] ne offrì un’interessante recensione critica, segnalando in particolare “il numero eccessivo delle opere di taluni e sproporzionata in rapporto agli stranieri la partecipazione degli italiani, con una scelta non sempre giustificata[154]. Si notava l’assenza di nomi che in una selezione nazionale non avrebbero potuto mancare, mentre alcuni dei presenti mal figuravano in una Mostra cosi importante, di carattere internazionale.” Oltre i  giudizi espressi sui vari autori, più interessanti risultavano alcune osservazioni relative agli sviluppi futuri di quella “manifestazione (…) che certamente nei prossimi anni troverà una più valida giustificazione”, augurandosi che “ l’Ente Veneziano [la Biennale] non si limiti ad accordare all’Esposizione la meravigliosa sala di Palazzo Giustinian, ma partecipi soprattutto con il suo credito (e la sua carta intestata è forse sufficiente) (…)  al fine di concedere un panorama compiuto e selezionato della fotografia internazionale. Il suo interessamento donerebbe senza dubbio a Venezia la più bella mostra di fotografia del mondo.”  Se consideriamo poi la chiusa, solo apparentemente cronachistica, che “il giorno dell’inaugurazione, la sala dell’esposizione accoglieva molti nomi noti della fotografia nazionale ed internazionale: ospite di onore il direttore di una grande rivista svizzera [Romeo Martinez, in realtà redattore capo] che è parso essere per alcune ore il centro d’attenzione dei fotografi”, possiamo meglio comprendere come ormai il gioco fosse più che avviato e i presupposti per il varo delle Biennali di fotografia compiutamente definiti, resi poi subito concreti  con l’organizzazione della  I Mostra Internazionale Biennale di Fotografia[155] che si tenne nei mesi di aprile e maggio 1957 (negli anni dispari, per non sovrapporsi alle Biennali d’arte) a Ca’ Giustinian e al Museo Correr, organizzata da Martinez, Monti e Luigi Crocenzi[156]. La novità era rappresentata non tanto dalla sezione dedicata alla Fotografia europea,  con  partecipazioni esclusivamente a invito, ma da quelle riservate ai fotografi di Vogue e della Magnum[157], poiché scopo dichiarato era “fare di Venezia finalmente l’appuntamento mondiale dell’opera fotografica con il suo pubblico [per] mostrare (…)  che l’immagine fotografica non è solo un’operazione meccanica, ma anzi è il risultato di un arte molto sottile.”[158]  Una prospettiva e un obiettivo ribaditi da Monti che nelle pagine introduttive al catalogo si augurava che quella prima Biennale potesse “diventare il banco di prova per un giudizio critico molto aggiornato sulle  tendenze della fotografia attuale e sui risultati raggiunti. (…) Voglio esemplificare queste due principali tendenze della fotografia attuale in due nomi di grande prestigio: Otto Steinert e Henri Cartier-Bresson, per rappresentare polemicamente le due posizioni estreme del fotografo di fronte alla realtà”[159].  Era il  compimento di un progetto culturale già pienamente delineato nel 1952, quando Monti  nel presentare la Mostra della fotografia italiana  aveva  richiamato la necessità di “vedere, vedere e studiare le fotografie dei migliori fotografi del mondo in grandi Mostre internazionali a invito, possibilmente periodiche”[160], ma anche di “portare il nostro modesto contributo all’affermazione della fotografia italiana, finora quasi totalmente ignorata come arte figurativa nelle manifestazioni ufficiali”. Più interessante, e per certi versi inedita e sorprendente,  la speranza che la mostra  “fosse occasione, per la critica italiana, di un vasto studio sulla fotografia di reportage: essa ci porta una testimonianza della condizione umana nei più lontani paesi ed anche di quelli che noi crediamo di conoscere perché in essi viviamo.”  Una presa di posizione che diremmo programmatica essendo quel genere particolarmente inviso all’universo salonistico, nel cui ambito ci si lamentava che “la bella fotografia, che prima era in gran parte opera di dilettanti (…) è passata in forte proporzione nelle mani dei professionisti e specialmente dei foto-reporters”[161], mentre per molti versi il confronto con la realtà costituiva il fronte etico ed estetico della nuova fotografia italiana[162]. Non che mancassero riferimenti al reportage in precedenti testi di Monti, ma si trattava per lo più di riflessioni a margine ovvero di giudizi fortemente critici, specie nei confronti del “reportage giornalistico di tipo americano che, al di fuori dell’uso contingente cui è destinato, non può essere accettato senza qualche riserva anche nei suoi rappresentanti migliori, come Cartier-Bresson…”[163]. Ora invece in quelle immagini riconosceva “il fascino delle cose vere, delle cose viste, vissute, patite. La realtà e la vita ci vengono incontro perentorie, ci chiedono la nostra partecipazione, il nostro amore o il nostro sdegno, sempre la nostra comprensione di uomini. Tale è la suggestione di queste immagini che subito dobbiamo difendere il nostro desiderio di verità ed opporre la critica al sentimento: una domanda ci tormenta: “Cosa ha potuto vedere il fotografo e cosa non ha potuto? Fin dove è imparziale la sua verità?[164] Il problema cessa di essere tecnico ed estetico per diventare morale, sociale e politico perché è, infine, un problema di libertà (…) [ Cartier-Bresson] di fronte alla realtà attende che essa gli si riveli per darcene, secondo la sua definizione, «il momento decisivo», quello  che riassume un dramma umano, un aspetto sociale, persino una situazione politica”, mentre i reporter della Magnum appaiono “tutti riuniti nello sforzo di darci la più memorabile documentazione della nostra epoca.” Opinione condivisa da Zannier, per il quale “i reporters dell’agenzia «Magnum» [erano] venti artisti-fotografi di tutto il mondo destinati a scrivere la nostra storia più intima e fuggevole”, così che “se qualcuno sin’ora aveva dei dubbi sulle possibilità autonome e complete del linguaggio fotografico, nel visitare questa rassegna certamente è portato a rettificare le sue convinzioni”[165].  Quell’attenzione per il reportage rappresentava un altro segnale dell’affermarsi del fronte realista,  presentato a Spilimbergo nel 1957, giusto a dieci anni di distanza dai formalismi del Manifesto de La Bussola,  in una esposizione dedicata a 26 fotografi italiani[166] che di fatto concluse l’esperienza del Gruppo Friulano per una nuova fotografia.  A testimoniare le contraddizioni di quel momento il catalogo della mostra era introdotto da considerazioni critiche tanto autorevoli quanto di divergenti. Così all’entusiasmo di Bezzola che “la fotografia italiana – nella sua parte migliore s’intende – ha da tempo lasciato dietro di sé le battaglie per l’acquisizione delle varie esperienze tecniche ed estetiche; superata la pesante ipoteca delle arti figurative, superato il rischio del formalismo e del calligrafismo, essa va studiando i modi entro cui attuare una propria autonomia spirituale, affrancandosi da ogni dipendenza. (…) Oggi la nostra fotografia sta riscoprendo l’Italia e gli italiani”, si contrapponeva il disincanto di Monti:  “La presa di possesso di una certa realtà italiana sembra essere la principale preoccupazione di molti tra i migliori nostri giovani fotografi, e per realtà intendiamo anche alcune particolari situazioni sociali che particolarmente nel Sud d’Italia si presentano in aspetti molto allettanti come ‘occasione’ fotografica.  Non è un caso che il Mezzogiorno sia così spesso il soggetto di molte recenti fotografie, osservazione ché può ampliarsi nel constatare come le maggiori simpatie dei nostri fotografi vadano agli aspetti più mediterranei del nostro vivere. (…) Dovremo parlare di una acuta nostalgia per una civiltà remota ma tuttora viva che potremmo definire la civiltà dell’ulivo e del gregge? Un’altra evasione dunque della vita attuale, una fuga lontano dal fumo delle ciminiere? È  troppo presto per affermarlo, ma occorre pur dire che questa corsa verso il Sud può essere del tutto giustificata solo se servirà anche a farsi la mano per narrare un’Italia meno lirica e pittorica, ma appunto per questo più difficile a definirsi in immagine.”[167] Insomma – chiosava Turroni – “una nuova morale fotografica è in atto; si  ricerca la verità in ogni settore della realizzazione artistica: dal réportage (influenzato dalla lezione nord-americana), all’astrattismo  e alla corrente lirica che, pur avendo dato in passato i migliori risultati (dico, storicamente attendibili) non s’è ancora esaurita e  può riservarci sorprese per il futuro, proprio dal fondo di quella provincia che, se sfrondata dall’abulia e dal conformismo, saprà sempre offrire nuove forze, verginità di intenti, freschezza di  risultati poetici, pregnanza di costrutti realistici.” Quel richiamo culturale  alla ‘provincia’ pareva un tentativo di mediazione con la produzione salonistica contro la quale si poneva coerentemente Zannier, che parlava di “gabbia d’argento che ha racchiuso i molti raccoglitori di etichette di partecipazione a mostre, di medaglie e diplomi (…). Certamente molti pregiudizi e dilettantismi sono scomparsi (…)  si è compreso che la funzione dell’immagine fotografica non trovava limite in sé stessa, nel rettangolo di carta emulsionata, ma la sua funzione –  specifica, vitale, necessaria – è di ‘comunicare’ con il grosso pubblico, di riproporre a quanti più uomini possibile, ciò che il fotografo aveva descritto visivamente in una inconfutabile rappresentazione della ‘realtà’. Ma gli ‘artisti fotografi’  troppo spesso disdegnano e rigettano uno dei mezzi più potenti a loro disposizione, il rotocalco, preferendo che la conoscenza delle proprie realizzazioni resti limitata nel loro stesso ambiente. Addirittura termini come «réportage»,  «fotoréporter», «documentarismo», ecc., vengono usati in senso del tutto dispregiativo e limitativo di un mestiere che si ritiene adatto e necessario solamente a tenere «aggiornato» il lettore. Ma quale altra funzione è da attribuirsi alla fotografia se non quella di «documentare», di «aggiornare»; perché temere o ignorare il vero significato di questi termini? «Documentare» non significa certo riprodurre «oggettivamente»; nessuna «obbiettività» è possibile se è l’uomo, con i suoi  mutevoli sentimenti, artefice dell’immagine. Se questo sarà poeta non potrà esprimersi fuori dalla poesia; come dimenticare sé stessi, la propria sensibilità e cultura? Così «aggiornare» non significa forse proporre la situazione, l’episodio, che il pubblico vuole conoscere, attraverso la propria personalità, la propria interpretazione? Perché negare quindi al réportage quella poesia di cui almeno potenzialmente può godere e ritenerlo succubo dei fatti, della cronaca più esterna e superficiale?”  Lucidissime considerazioni alle quali non corrispondeva però la selezione dei ventisei fotografi presentati in quell’occasione che comprendeva pochi reporter in senso proprio (De Biasi, Roiter, Berengo Gardin, Patellani), ma invece molti autori variamente ascrivibili al fronte ‘realista’ e quindi almeno potenzialmente prossimi alla funzione documentaria e civile del reportage, accanto a fotografi di diversa tradizione come Cavalli, Vender e Veronesi, mostrando così una concezione quantomeno incerta ed estensiva della definizione di quel genere. La questione è per più versi interessante e credo che per essere opportunamente compresa richieda una necessaria verifica terminologica storicamente collocata, poiché l’accezione allora utilizzata doveva avere un campo semantico più ampio e dai confini meno netti di quanto si intenda oggi se è vero che Monti qualificava come reportage alcuni  suoi lavori come quello “sulle città greche dell’Asia minore”, realizzato nel corso del  viaggio in Turchia con Martinez nel 1962, che noi collocheremmo più facilmente tra le fotografie di architettura o del patrimonio storico, ed  anche quello di “artisti nei loro studi”, ma non la serie milanese delle “domeniche degli altri”,  aggiungendo inoltre che “io dei reportage non ne ho mai fatti, ho fatto solo dei reportage su degli artisti, sui loro lavori, ma sono reportage un po’ diversi già combinati con loro eccetera”[168]Quindi non pare fossero sufficienti né  il soggetto né i modi dell’organizzazione strutturale del discorso a definire un lavoro come ‘reportage’, semmai una certa omogeneità tematica, mantenendosi così lontano dal “giornalista nuova formula” delineato da Federico Patellani nel 1943[169] come dai fotodocumentari di Zavattini e Aristarco e dalle foto storie  di Crocenzi,   per limitarsi infine “al racconto per immagini, e non importa se con una o più foto”[170]. A scorrere gli interventi italiani di quegli anni[171] si direbbe che la discussione intorno al valore e alla funzione del reportage fotografico non fosse altro che l’ennesima riproposizione sotto mentite spoglie dell’annosa questione del valore artistico della fotografia, qui centrato sul nuovo e quasi pervasivo genere, del quale Monti era particolarmente interessato a indagare gli aspetti problematici. Così riflettendo sul “facile senso universale di questa esposizione così tipicamente americana” che fu The Family of Man[172] riconosceva che “mentre ci dà una prova esemplare della forza documentaria ed emotiva della fotografia di reportage, ce ne indica i limiti insuperabili”, essendo necessario e urgente “indagare quali sono le vere, autentiche e autonome possibilità espressive e documentarie del reportage, sia in una teorica situazione di ideale e totale libertà di pubblicazione, che nelle varie situazioni politiche e sociali. Definire la posizione del reporter nel mondo attuale, i suoi rapporti con l’attività dell’editore, del redattore dei testi che accompagneranno le sue foto; necessità che il reporter intervenga nella impaginazione, cioè nella lettura successiva delle sue immagini, ecc. Problemi che non sono tecnici ma di fondo perché condizionano tutta l’attività del reporter quindi la sua validità e la sua efficacia come ‘testimone del nostro tempo’”[173], seguendo in questo i dettami fondativi dell’agenzia Magnum.  Per Monti quelle riserve riguardavano  le stesse “ambiguità della fotografia”  richiamate nel suo intervento a Sesto San Giovanni degli stessi mesi, quando riconobbe che “la fotografia ci dà soltanto l’oggi (…)  ci dà con esattezza una fase sola dei fenomeni, siano essi storici, sociali ecc., ci dà la fase presente, ci dà quello che è avvenuto ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente, non ci da mai quello che c’era prima”[174], ovvero, come avrebbe icasticamente notato in una serie di appunti degli anni successivi, “la foto può dare solo lo spessore della superficie”, considerando perciò “l’istantanea come menzogna e deformazione della realtà”[175]. Un buon esempio del pessimismo della ragione del nostro.

La successiva edizione della Biennale, ormai senza il CCF – Centro per la Cultura nella Fotografia di Crocenzi, fu segnata dalla presenza sempre più determinante di Martinez come curatore; ruolo  che si consolidò nelle successive edizioni, sino al 1965[176],  confermando l’obiettivo di “mostrare, in sintesi, gli aspetti e le funzioni della fotografia contemporanea, adottando una formula che escluda ogni competizione, lasciando questo compito alle migliaia di mostre legate o meno a dei concorsi, che riempiono il calendario fotografico mondiale. Così pure, per ora, non intende interferire nel campo dei dilettanti”[177]. Se la prima edizione intendeva offrire “un giudizio critico molto aggiornato sulle tendenze della fotografia attuale”[178], nelle edizioni successive l’attenzione per la fotografia “soggettiva” si ridusse sin quasi a esaurirsi,  mentre si confermava quella per la fotografia come mestiere. Quindi la moda (ancora “Vogue” nel  1959) e soprattutto il reportage (i fotografi di “Life” compresa la Bourke-White e i ‘realisti’ giapponesi nel 1959; la personale di  Robert Capa e una sezione dedicata al fotogiornalismo italiano nel 1961, ma anche l’archivio Publifoto nel 1963). A questi si aggiunse una particolare  attenzione, certo determinata da spinte industriali e commerciali, per il colore nella fotografia: “Life” nel 1959;  Ernst Haas , Arik Nepo e Magia del colore, dedicata alle tendenze della fotografia a colori in Germania, nel 1961[179], un’antologica nel 1963; La fotografia e la diffusione della cultura. Medio Evo Vivo, costituita da 300 fotografia a colori realizzate da Jacques Bauer e dedicate ai “tesori dell’arte Romanica e Gotica e in Francia”[180] e Applicazioni e funzionalità della fotografia, con le personali di  Paul Huf, John Bulmer, Horst Baumann e Franco Scheichenbauer nel 1965. Si distinguevano da questo panorama piuttosto compatto le personali di Man Ray e Albert Renger-Patzsch nell’edizione del 1961 e quelle di André Kertesz (ancora negli USA a quella data) e Arnold Newman (1963), accanto alla presentazione dei  Grandi Maestri di questo Secolo,  tra i quali va sottolineata l’inclusione  di due ‘pittorialisti’ come Alvin Langdon Coburn e Hugo Erfurth,  ma anche la clamorosa assenza di Alfred Stieglitz, Walker Evans[181] e Robert Frank[182]. Il notevole eclettismo di quelle scelte pareva corrispondere solo in parte alle intenzioni espresse da Monti nel testo introduttivo al catalogo[183]: “A questo servono le esposizioni di fotografia: selezionare per conoscere, giudicare e conservare il meglio”, avendo “la periodica necessità di fare confronti e di fissare qualche punto di riferimento, altrimenti l’invadente marea delle immagini destinate al consumo immediato ci impedirebbe di ‘vedere’ quello che merita di essere ricordato”, in un contesto come quello della nascente “civiltà dell’immagine destinata a sostituirsi quasi interamente e presto alla millenaria civiltà della parola.” Le produzioni della Biennale non erano però originali poiché la maggior parte delle mostre proveniva dalle diverse edizioni  della  Photokina di Colonia,  e quella carenza di elaborazione autonoma fu in parte  all’origine delle riserve espresse da Guido Bezzola[184], che  a proposito dell’edizione del  1959 parlava di “un insieme certamente interessante, ma non forse abbastanza organico per giustificare un titolo della risonanza di quello della Biennale di Venezia. (…) Secondo noi la Biennale è troppo esclusiva e astratta. Certamente è utile mostrare le opere di cui abbiamo parlato sopra, ma è nostro dovere rammentare a tutti che esiste anche una fotografia italiana” . Giudizio ben ponderato ma forse viziato dal suo proprio punto di vista di direttore di “Ferrania”, una pubblicazione che certo non poteva competere in termini di prestigio e notorietà internazionale con “Camera”. Soprattutto Bezzola non coglieva il senso generale di quel progetto, che non aveva mai inteso offrirsi come rassegna, anzi intendeva andare oltre le “questioni estetiche, (…) piuttosto insisteremo in qualche caso sulla utilizzazione delle fotografie che ne risultano condizionate nel loro crearsi. Non terremo conto delle varie sezioni della mostra – proseguiva Monti – perché molte considerazioni sono comuni ad autori di sezioni diverse” sebbene poi  (secondo il costume corrente) si dedicasse anche lui a giudizi puntuali ma sempre collocandoli in un contesto critico ampio. Era forse l’inevitabile consuetudine che gli derivava dal frequente ruolo di giurato avuto in molte, forse troppe, rassegne italiane di quegli anni,  a partire dalla presentazione della doppia personale di Carlo Bevilacqua e Fulvio Roiter al Circolo Artistico Friulano di Udine nel 1952, nella quale formulava un principio poi ribadito e sviluppato in occasioni successive, con un esplicito giudizio critico sui vari dirigismi: “Sulle riviste fotografiche si discute spesso del soggetto in fotografia e sulla pretesa necessità di abbandonarne alcuni a favore di altri. Secondo quei retori esisterebbero soggetti moderni e soggetti vecchi e superati, mentre una sola cosa può essere detta e cioè che qualsiasi soggetto è buono se l’opera è valida per virtù di stile”, distinguendo tra fotografia come “narrazione” [Bevilacqua] e come “immagine” [Roiter] per riconoscere infine a ciascuno di loro “una sicura intuizione delle possibilità del mezzo fotografico e il rispetto dei suoi limiti, entro i quali essi realizzano pienamente le proprie visioni”[185]. “La prima qualità che si pretende da un fotografo [è] di essere essenzialmente un visivo, cioè un uomo che vede dove tutti si limitano soltanto a guardare, e che costringe a vedere” , avrebbe poi ribadito nella presentazione di una successiva mostra in cui accanto a Roiter e Aldo Nascimben presentava i propri lavori[186].

 

 

Le prime personali

 Il  1952 fu l’ anno della sua prima personale, a Roma (e chissà perché non a Venezia o a Milano), corredata da una presentazione (il suo primo scritto edito)  che costituiva un chiara indicazione di poetica: “Nulla mi sembra più inutile di tante polemiche su cosa si deve o non si deve fotografare. Si può fotografare tutto, e con la più ampia libertà di intenti e di tecnica. (…) Tutto il mondo visibile mi attrae quasi senza alcuna gerarchia di valori, e non certo per farne un confuso inventario ma per tentare di scoprire, delle molte cose viste, un aspetto nuovo ed essenziale, quasi un segreto che volta a volta sarà umano, plastico o anche soltanto decorativo. Fotografare vuol dire creare delle immagini che staccate dalla realtà dalla quale trassero origine, mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova, conclusa nei limiti della inquadratura. E in questi limiti dell’immagine è indifferente che si rappresenti un volto sofferente, una radice corrosa o un fantastico riflesso d’acqua. (…)  Mi si potrà obiettare che alla varietà delle fotografie esposte si accompagna un certo grado di incoerenza formale: accetto la critica quale prezzo della mia libertà, non senza far rilevare però che per me è essenziale l’architettura interna della fotografia, e non il suo tono dominante, o la natura del soggetto”[187]. Difficile dire di più (o meglio) per illustrare e motivare le ragioni di una produzione ancora piuttosto  eclettica per  scelta di temi e per trattamento. La ragione non risiedeva però soltanto in quella rivendicata libertà espressiva e nella conseguente ‘liberazione’ da vincoli stilistici troppo rigidi, ma soprattutto dall’aver compreso che l’efficacia di ciascuna immagine  risiedesse nelle qualità della sua propria logica interna. Se quelli erano i termini,  allora si possono comprendere meglio, in modo più evidente e chiaro le fotografie della serie dei Muri e dei Legni (nella quale comprendere anche il lavoro condotto su di un Tronco bruciato, tav. 066, che ha suggestioni più scultoree però),  avviate negli anni immediatamente precedenti e proseguite per almeno un decennio, riconoscendo che “il carattere comune di questi lavori è il tentativo di raggiungere uno stile unitario anche attraverso quelle operazioni di  camera oscura che ad alcuni puristi della fotografia sembrano inammissibili manomissioni del negativo. A questo proposito dirò solo che io non sono un purista, ma unicamente un fotografo che accetta i limiti di questo entusiasmante mestiere”[188]. Quindi aggiungeva, in una lettera all’amico Ferroni dello stesso anno,  che “i momenti più emozionanti sono quelli della camera oscura. Lì, in quella luce da acquario, nel silenzio rotto solo dal contasecondi, è il vero nostro regno, dove nasce l’immagine creata. lo non credo, contro il parere di illustri come Cavalli e Cartier-Bresson, che la fotografia sia già tutta compiuta nel negativo. La fotografia è in noi, il negativo ci serve solo a disegnarla in fretta, col prodigioso concorso della chimica e dell’ottica”[189]. E già prima, in una lettera a Mario de Biasi in cui si complimentava per le attenzioni che gli aveva riservato Cavalli[190], scriveva di avere “delle foto che sono state macinate dentro per molto tempo e poi fatte finalmente ma non stampate. Dopo altri mesi, ecco che la stampa modifica ancora una volta l’idea primitiva. Ma quel che conta è poi il risultato finale. È per questo che tutte le discussioni sui soggetti e sui metodi di fotografare e sui famosi processi interpretativi (stupida espressione!) mi annoiano e mi irritano. Contano le opere sul tavolo, lucide e sode, e che da sole devono parlare e convincere.” Poi, a conferma, in una successiva lettera a Ferroni:  “Io talvolta stampo delle prese dopo un anno e oltre e dopo averli revisionati [i negativi] una decina di volte sotto l’ingranditore senza stamparli intanto penso e studio come dovrà essere la stampa, dove aumentare i neri, dove distruggere i particolari inutili per arrivare ad una sintesi dell’oggetto. Ed è qui che entra in campo la personalità diversa di ciascuno di noi, perché dove uno conserverebbe un tono, l’altro ne distrugge venti e dove uno ammorbidisce, l’altro contrasta”[191]. Poiché infine, “la stampa fotografica, immagine oggettiva ‘soggettivata’, è quindi una rappresentazione che conserva solo certi aspetti, certi rapporti con la realtà. Se ammettiamo, il che è innegabile, che con il suo ritaglio dello spazio, la sua messa in ordine delle forme, la sua resa dei valori tonali, la fotografia è molto diversa dalla realtà che l’ha generata ma di cui è comunque l’immagine, si capisce meglio cosa voglia dire astrarre”[192].  “Una riproduzione – rifletteva Monti – non può mai essere qualcosa di amorfo, c’è sempre una scelta. Le modalità attraverso le quali riprodurre una forma non sono così semplici da spiegare e tante volte bisogna stare attenti a non sostituire la forma,  diciamo così, della realtà con una nuova forma, invece di interpretarla. Per quanto mi concerne io cerco un approccio alla forma che sia il più semplice possibile, riservandomi poi di ridarne una visione più approfondita, più essenziale, più sintetica magari, attraverso una stampa più contrastata o avvalendomi di tutte quelle tecniche che ogni fotografo conosce molto bene”[193].  Significativo era qui il consapevole arrendersi all’evidenza del primo e fondante valore documentario della fotografia, che è quello relativo al rapporto  col soggetto messo in forma, ma anche la precisa coscienza di una strategia interpretativa che scomponeva l’atto fotografico nelle due fasi distinte della ripresa e della stampa, fasi che corrispondevano anche, con tutta evidenza, ad un mutare del rapporto stesso: se nella prima questo si instaurava col reale, nella seconda esso non poteva che darsi con la sua immagine; era mediato dall’atto fotografico primario e si inscriveva compiutamente nella autonoma elaborazione del fotografo, che “attraverso tecniche precise [offriva] una interpretazione, se non mentale, se non intellettuale, almeno tecnica”[194].

Cosa Monti potesse intendere con quella sua necessità di ricorrere alla fotografia per la messa in forma del mondo, quale potesse essere per lui il significato di quell’operazione, lo rivela la citazione (parziale) da un testo di Paul Claudel sulla metafisica della Creazione che nella sua forma più compiuta  recita: “Allora comprenderemo  il significato profondo di queste parole: caso, necessità, movimento, sviluppo, unità, diversità (…) poiché la materia non può sottrarsi al nulla che muovendo verso una forma”[195], come accadeva ad esempio nella stampa dal titolo un poco provinciale di Cubismo, pubblicata nel numero due del 1953 de “Il Progresso Fotografico” (tav. 067[196].  Quella drammatica possibilità venne poi identificata da Umberto Eco[197] come quella “intenzione formativa” che,  sulla scia di Luigi Pareyson (un percorso cattolico si potrebbe dire),  rappresentava l’elemento determinante per la definizione dell’opera.  Così posto il problema,  risulta evidente che il dato fondante non era rappresentato dal riconoscimento della  quidditas della cosa fotografata (muro, corteccia, manifesto o figura che fosse) ma dal processo di restituzione  operato dal fotografo;  vale a dire, generalizzando, dalla consapevolezza dell’atto fotografico quale operazione di astrazione di quella porzione di reale dal suo contesto, cioè nella sua trasformazione in soggetto e in opera come nuovo elemento di realtà, come realtà nuova non preesistente. A maggior ragione dovevano intendersi come oggetti nuovi quei lavori  che non erano in alcun modo ‘astrazioni’ ma semmai prelievi, rilevamenti di impronte come i fotogrammi;  una pratica lunga quanto la storia stessa della fotografia, già ampiamente ripresa dalle avanguardie storiche europee poi rinnovata e celebrata nel secondo dopoguerra anche in una serie di  iniziative espositive del MoMA di New York[198] . Tutte operazioni e pratiche che in quegli anni di feroce confronto col fronte realista erano fortemente, ideologicamente osteggiate,  tanto che nel presentare la Mostra della fotografia italiana a Firenze del 1953 Monti avrebbe ironicamente polemizzato con gli esponenti  dell’Unione Fotografica scrivendo:  “Ad alcuni insospettiti amici milanesi diremo che in questa mostra non ci sono solarizzazioni (…). C’è un solo fotogramma, dello scrivente, e speriamo che ci sia perdonato”[199].

La sua seconda personale venne allestita nel luglio del 1953 presso la Bottega “Il Ponte” di Venezia, a cura della Sezione Fotografica del Centro Studi Arte Contemporanea[200].  Nella presentazione Berto Morucchio  ne  riconosceva “il gusto sofisticato (…). Ecco nascere il suo mondo, con il suo alfabeto: racchiuso in un contrasto violento di luce e ombra, scarno di tristezza esaltata, da primitivo. Anche dove predomina la sollecitazione intellettuale sa essere umano, di un’umanità paradossale (…) così sa frenare il vecchio patetismo con l’intervento di una buona dose di scetticismo mentale che fa parte delle sue qualità oggettive. È una forza nuova della fotografia italiana”[201].  Qualche  mese più tardi Monti espose a  Lendinara[202] una serie di lavori (tra i quali il Ritratto di Fulvio [Roiter], tav. 068) introdotti dal testo redatto per la personale romana di due anni prima[203]; tra i più sensibili visitatori  vi fu Ferruccio Ferroni,  che subito ne scrisse  a Roiter: “Ho visto a Lendinara la mostra personale di Monti: un complesso di opere bellissimo e nuovo. Monti sa trascinarci nel suo mondo con irreprensibile genialità, mondo di allucinazione, che non sai se vivi nella realtà o nel sogno e, per uno strano gioco di prospettive, credi di aggirarti in piena coscienza fra le cose reali, ed invece proprio allora queste ti sfumano nell’irreale.”[204] E ancora, a Parmiani, “Mi sembra che sia una cosa magnifica, col suo mondo allucinato ed inquieto. Sotto la scorza di intellettualismo che un po’ traspare dai suoi lavori, si celano motivi lirici di bellezza incomparabile. Per me Monti è il poeta della inquietudine, in questo mondo in cui più nessuno sa vedere al di là di sé  stesso”[205]. Le ragioni di quel sentire erano esplicitate in una lettera dello stesso Monti a  Ferroni:  “Ma in segreto ti dirò – scriveva –  che molte mie fotografie io finisco per odiarle perché mi rimandano l’immagine stilizzata e quindi ben più evidente, di un mondo che io detesto nelle persone e nelle cose: direi che molte mie fotografie sono una reazione e una protesta e vorrei che arrivassero ad essere un insulto. Forse queste non sono le condizioni migliori per fare dell’arte, ma me ne frego proprio perché queste cose sono quelle che debbo fare, almeno per ora. (…) Chi guarda le mie foto non ha vie di mezzo: prendere o lasciare (…).  Molti non le possono vedere, ma ormai quando sono in giurie questi egregi signori non hanno il coraggio di scartarmi e devono digerire i miei rospi. Prosit!”[206] Inevitabile allora riconoscere quel disagio inquieto come la più radicata costante della sua espressione più personale e intima, per questo assente nei lavori professionali, ma anche una forte coazione a ripetere, una volontà di sfida quasi, se consideriamo che nel periodo 1952-1967 Monti prese parte a circa quattordici  mostre  personali e sessanta collettive[207], con opere che intendevano “partecipare [delle]  molteplici e divergenti esperienze attuali e anche proporre il semplice risultato di puri esperimenti tecnici che forse troveranno più tardi compiuta espressione”[208]. Il dato quantitativo[209]  indica in maniera netta la parcellizzazione, meglio la polverizzazione di quelle iniziative di livello eterogeneo e discontinuo, com’era nella buona tradizione del tanto vituperato salonismo fotoamatoriale, nella convinzione però che fossero “le uniche manifestazioni che possano indurre il pubblico, e specialmente i giovani, a farsi un’idea abbastanza precisa dei mezzi espressivi affidati oggi alla fotografia”[210].

Erano quelli gli anni in cui ogni borgo per quanto piccolo, ogni città per quanto grande ospitava o promuoveva  una Rassegna o una Mostra, certamente Nazionale e possibilmente Artistica,  a cui Monti – che pure stava affrontando l’impegnativo passaggio al professionismo – cercava di non mancare,  dimostrando una bulimia partecipativa non indifferente, non di rado gratificata dall’assegnazione del primo premio. Così a Spilimbergo nel 1954 per il Ritratto del pittore Gianni Dova, attribuito da una giuria composta da Elio Bartolini, Fulvio Roiter, Giannni Borghesan, Carlo Bevilacqua, Novella Cantarutti e Italo Zannier[211];  quasi una dichiarazione d’intenti  se consideriamo che i membri comprendevano alcune delle figure che di lì a poco avrebbero partecipato all’avventura del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia.  Certamente estranea a quel mondo, a quella compagnia di giro quasi, era Fiamma Vigo, che dirigeva la fiorentina Galleria Numero con Alberto Sartoris e che nel 1955  offrì a Monti una personale quale esito della selezione operata da una giuria costituita da Renzo Pavanello, “il più gran competente fiorentino in materia fotografica, il Dottor Baccioni e il signor  [Giovanni] Poggiali (tutti e due fotografi), il critico d’arte Alfredo Righi”[212], segretario dello  Studio Italiano di Storia dell’Arte diretto da Ragghianti e critico del “Nuovo Corriere” fiorentino, oltre alla stessa Vigo; un’iniziativa alla quale presero parte nomi estranei  al consueto e pur ampio panorama amatoriale nazionale.

 

Piccolo mondo antico

Nell’anno successivo alla fondazione de La Gondola Monti partecipò a titolo personale a due importanti mostre italiane che si tennero a  Torino, al  palazzo delle Esposizioni al Valentino, e a Milano nelle sale del Circolo Fotografico Milanese[213], che costituiva al momento la sede del più avanzato confronto critico intorno alla nuova cultura fotografica, specie per merito del gruppo di giovani riuniti intorno a  Pietro Donzelli che nei mesi successivi avrebbe proposto  mostre di Henriette Grindat, Chargesheimer e Fotoform. Come ha notato Zannier[214], fu proprio la mostra di Chargesheimer nell’estate del 1950 a decretare lo strappo che portò alla fondazione dell’Unione Fotografica nel dicembre di quell’anno, ma che ci fosse aria di fronda lo mostravano già  le recensioni dello stesso  Donzelli sulle pagine di “Ferrania”, molto critiche e pungenti nei confronti di  alcuni autori presentati  al CFM: la Hoepfner e la Heinrich ad esempio, ma anche gli autori de La Bussola, con l’eccezione di Veronesi.

Monti guardava con grande interesse a quegli autori e a quelle iniziative, riconoscendo, nel 1955, che “L’Unione Fotografica di Milano, appena costituitasi (1951), con una grande mostra fotografica  proponeva allo studio dei fotografi italiani le migliori opere europee, mai viste negli originali”. Il riferimento era alla Mostra della fotografia europea che si era tenuta a Brera, da pochi mesi riaperta dopo i disastri della guerra, nell’ aprile 1951[215], “al fine di dare un panorama abbastanza ampio della fotografia europea e del carattere di questi movimenti rinnovatori” [216], rappresentati da  significative presenze  internazionali quali  Bill Brandy, Bert Hardy, Boubat, Angenend, Hammarskiold, Maraini, Pim van Os, Ronis e Lorelle, Ortiz Echague, Fotoform e La Bussola, “oltre a una ventina di fotografi italiani”. Così Donzelli, che rivendicava il fatto che “tutte le tendenze e gli ismi sono stati esposti”[217] e che un’intera parete fosse stata dedicata “alle opere degli astrattisti e dei surrealisti. Opere non facili da comprendere per chi non ha, oltre una buona cultura, una naturale predilezioni per questi modi di espressione artistica [che con] il verismo ed il neorealismo (…) sono gli ismi meno accetti dalle giurie”, ancora orientate al gusto salonistico e tardo pittorialista. Nel luglio di quello stesso anno si apriva a Venezia, a Ca’ Giustinian, la Mostra fotografica nazionale retrospettiva 1940-1950, da intendersi quale primo momento di un più articolato e coerente percorso di messa in prospettiva storica della produzione nostrana, che quale tappa successiva prevedeva la Mostra della fotografia italiana che si tenne nella stessa sede nel maggio del 1952, presentando solo opere di autori de La Gondola e dell’Unione Fotografica (con l’esclusione quindi di quelli de La Bussola) [218]. Poiché “nessuna città come Venezia, ricca di rassegne d’arte di fama e importanza mondiale, ci sembra adatta a questo compito”, era inoltre indispensabile operare affinché Venezia potesse “diventare il più grande centro d’incontro dell’arte fotografica mondiale (…). Se non mancheranno iniziativa e coraggio il prossimo anno questa speranza può diventare realtà” [219].

Ancora a Ca’ Giustinian si tenne nel 1953 l’ecumenica V Mostra nazionale della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, organizzata sempre da La Gondola, con opere di 123 autori selezionati su 210 proposti. “Successo questo senza precedenti nel campo delle mostre nazionali italiane e che testimonia il crescente interesse per la fotografia in Italia, confermato anche dalla continua costituzione di nuovi Circoli fotografici (…). A questo proposito aggiungo che il Circolo Fotografico «La Gondola» non avrebbe avuto alcuna difficoltà a formare una giuria composta unicamente di propri soci, ma è sembrato più opportuno chiedere la collaborazione di due fotografi estranei al circolo a maggior garanzia per tutti di sereno ed obbiettivo giudizio, esigenza necessaria in qualsiasi mostra e quindi tanto maggiore in questa, che deve considerarsi la più completa rassegna annuale della fotografia italiana. (…) Per molti segni si può affermare che la fotografia in Italia desta un crescente interesse: ovunque si vendono come non mai libri di tecnica fotografica, riviste estere, annuari e libri di sole fotografie, pubblicazioni tutte nelle quali è assente purtroppo l’editoria italiana e persino nel campo dei volumi illustrati di interesse turistico. Le mostre nazionali sono in continuo aumento ed è solo da temere che il numero vada a scapito della qualità, si fondano anche nei centri minori nuovi Circoli, si tengono corsi elementari di tecnica fotografica. Anche l’attività all’estero, per opera della F.I.A.F., non è più limitata all’iniziativa di qualche isolato, ma prende rilievo da importanti manifestazioni collettive. Manca ancora – proseguiva Monti – l’interesse della critica d’arte e della stampa periodica che sembra ignorare la fotografia come arte, ma modificare queste condizioni attuali è compito soprattutto dei fotografi e delle loro associazioni. Mi sia permesso ora fare alcune brevissime osservazioni personali sulla fotografia italiana come mi è apparsa da oltre 2.000 opere recenti, esaminate in tre diverse giurie. La tecnica è quasi ovunque in evidente progresso anche nel senso che si ammette finalmente che una fotografia non deve essere altro che fotografia, cioè mezzo autonomo di espressione che non tollera sleali manomissioni. Un progresso più lento si può invece osservare nell’abbandono di quei modi espressivi che erroneamente si dicono «superati» e che fanno parte di una tradizione che si richiamava a modelli pittorici di nessun valore d’arte. Si vorrebbe poi vedere in molte buone fotografie una fantasia più risentita, direi più rischiosa e in molte altre un gusto più sorvegliato dell’inquadratura, una esattezza più raffinata e anche una più sicura intelligenza delle possibilità grafiche della fotografia. È  però indubbio che la fotografia italiana sta cercando le sue nuove strade, quelle dell’arte e della poesia, ed è mia convinzione che in questa ricerca la cultura sarà di grande aiuto, non la cultura libresca ma quella diventata vita e quindi mezzo di profonda comprensione e di continua scoperta del mondo e degli uomini. Nulla si addice meglio alla fotografia delle parole di Goethe a conclusione del suo saggio sull’occhio umano: «Non si vede che quello che si sa»”[220].

Una più selettiva Mostra della fotografia italiana (e la reiterazione del titolo è significativa) ebbe luogo a Firenze alla Galleria della Vigna Nuova, con trenta autori di diverso orientamento e appartenenza[221], che nelle intenzioni dei promotori doveva mostrare “quel che di meglio è stato possibile raccogliere nel campo recente della fotografia italiana d’arte[222], rispettando ed accentuando, beninteso, tutte le tecniche e tutte le tendenze, sempre che i valori estetici fossero vivi e presenti”[223]. Da qui  la selezione quantitativamente ridotta ritenuta indispensabile per consentire l’esposizione in una galleria d’arte, nella convinzione che “tutto debba essere tentato per portare la fotografia a contatto con gli ambienti artistici più qualificati a giudicarla alla stessa stregua e con la stessa severità delle altre arti figurative, cosa che all’estero si fa ormai da tempo”. Invece “in Italia sembra che la fotografia sia fatta esclusivamente per i fotografi, unica setta autorizzata a parlarne con competenza. E quanto profonda essa sia, molti articoli di riviste fotografiche stanno a testimoniarlo, tanto che verrebbe voglia di cavarne un’agile antologia che potrebbe avere una sua edizione nei classici del ridere”[224]. Si trattava di un’ulteriore conferma dell’esistenza di due fronti nettamente distinti e duramente contrapposti che vedevano collocarsi da un lato l’élite intellettuale (e fotografica, a prescindere dagli orientamenti personali) degli autori de La Bussola, della Gondola e dell’Unione Fotografica e dall’altro il persistente fotoamatorismo salonistico rappresentato dai circoli associati alla FIAF, sostenuto da riviste quali “Il Corriere Fotografico”. Qui venne ospitata una dura, acrimoniosa recensione critica della mostra fiorentina, esplicita sin dal titolo: La montagna e il topolino. “Noi (…) abbiamo trovato una bella piccola mostra, forse un tantino più curata delle solite, ma niente di più. (…) Insomma il torto è stato di aver voluto far tremare la montagna, e la montagna ha partorito un topo, lindo e grazioso fin che si vuole, ma sempre topo. (…) Particolarmente discutibili son i lavori presentati dai tre giudici [Cavalli, Francesco Giovannini, Monti], uno per ciascuno, tenuti ovviamente dagli autori per altrettanti do di petto. (…) Paolo Monti, che pure è uno dei nostri otto o dieci più valenti amatori e di cui abbiamo ammirato tanti pezzi magistrali, ha ceduto anche lui all’imperativo del ‘nuovo’ per forza, e ciò gli è costato una autentica stecca. Ha combinato – lo avreste mai creduto – un ‘Fotogramma’, cioè uno di quei vecchi giochetti, talvolta gustosi, che però bisogna lasciar fare a Luigi Veronesi. (…) Monti, sia buono, non ci dia più di questi dispiaceri”[225]. Insomma, niente che per Maurizio Nèvola potesse corrispondere al progresso riconosciuto da Monti, alla convinzione che “mentre qualche fama rapidamente declina, sorgono nomi nuovi di giovani e anziani che, più che promettere, affermano la loro personalità”[226], ed erano Roiter, Donzelli, Branzi.

Ulteriori occasioni di analisi, confronto e bilancio delle condizioni e  prospettive della fotografia italiana  vennero proposte da Monti in due articoli degli anni immediatamente successivi: quello dedicato a La Gondola, del 1954[227], e specialmente quello relativo al panorama più recente, del 1955. Nel primo, quasi prendendo a pretesto le caratteristiche del gruppo,  rifletteva col consueto scetticismo sulle possibilità della fotografia come “linguaggio universale”, e fatta salva la “conquista[ta] autonomia di questo linguaggio espressivo” ne rivendicava “la completa libertà di espressione”, considerandola elemento necessario soprattutto per l’attività di un club, poiché “in questo campo di sterminate esperienze, più che le enunciazioni teoriche valgono le opere singole nei loro concreti valori”, esprimendo così forti riserve culturali sui dirigismi de La Bussola. “Non mancano – proseguiva Monti – i continui inviti rivoltici nell’intento di farci accettare alcune posizioni particolari e mentre da destra ci sollecitano a fotografare bottiglie di latte proibendoci qualsiasi accenno narrativo, da sinistra si vorrebbe che i nostri obiettivi fossero giorno e notte puntati sull’uomo, questo innocente bersaglio di troppe indagini più o meno legittime e accettabili.” Si trattava insomma di rivendicare ancora una volta la propria libertà espressiva al di fuori di ogni imposizione anche minimamente e falsamente ideologica. Non che intendesse disconoscere (storicamente, criticamente) i meriti del gruppo riunito intorno a Giuseppe Cavalli, come del resto chiariva bene giusto in apertura del secondo articolo in questione[228], poiché “il merito di quel Gruppo sta proprio in questo: di aver diffuso una coscienza artistica che oggi fra i migliori è retaggio comune (…). Le critiche al preteso formalismo de La Bussola vennero naturalmente da coloro che confondono la verità dell’arte con la empirica bellezza della natura e il dramma della condizione umana con la sbracata retorica del verismo.”  Si trattava perciò di raccogliere “più che i modi espressivi, la lezione estetica” di quei lavori, come fecero appunto i membri della Gondola, che si diedero però – e qui la differenza era programmatica – al “continuo studio dei massimi fotografi stranieri, specialmente europei”, seguendo in questo piuttosto i modi dell’Unione Fotografica, anche se – proseguiva Monti – il loro era “più uno scopo di cultura (…) che non quello di una presenza costantemente attiva come produzione fotografica dei singoli”, esprimendo così anche un giudizio critico sulle opere degli autori di quel sodalizio.  Dopo una sintetica rassegna dei nomi a suo giudizio più significativi così concludeva, coerentemente: “Qualche critico ha creduto di vedere in questo fluido succedersi di movimenti una situazione piuttosto confusa della fotografia italiana. Ma qui saremmo tentati di scrivere un elogio della confusione perché tutto ciò che è vivo si accompagna naturalmente a un certo grado di disordine. E la fotografia italiana è certamente ben viva.” Un parere radicalmente opposto a quello espresso da  Pietro Donzelli[229] in un testo amaro e sconfortato, nel quale  parlava di “quella malata di noia e mancante di personalità che è la fotografia italiana” , scagliandosi contro “l’insolito fervore di mostre che si susseguono con confortante ritmo, incentivo di attività per i fotografi allettati da premi, anche cospicui, in denaro.” La critica proseguiva puntuale e impietosa lamentando l’ignoranza e il disinteresse di molti fotoamatori (rappresentati dalla FIAF) per la scena internazionale, da cui faceva derivare “la mancanza totale di opere degne come ritratti e paesaggio, espressioni chiave di una personalità.” E inoltre, a proposito di mostre e giurie,  “se i nostri amatori dimostrano poca fantasia la colpa è da attribuirsi anche alle giurie delle mostre e all’impreparazione della critica.[230] (…) A proposito delle giurie ricordiamo un fotografo che, per esperienza, quando deve preparare i lavori per una mostra li sceglie in funzione della giuria che dovrà esaminarli. Conosce i suoi polli perché ne segue da tempo l’attività e ne conosce i gusti. (…) È convinzione di alcuni critici [leggi Monti] che le giurie debbano comprendere anche letterati, pittori ecc. Non siamo dello stesso parere perché conosciamo l’opinione che questi generalmente hanno della fotografia, [ma] la fotografia, ormai riconosciuta come fatto artistico, deve avere una critica specializzata, precisa, documentata e costruttiva perché determinante ne sarà l’influenza nei confronti dell’evoluzione. (…) A giudizio dei nostri critici anche il neorealismo non è arte (…) perché lo ritengono uno strumento di propaganda al servizio di determinati partiti. (…) Se si è succubi di tali preconcetti non si deve quindi scrivere che l’arte non ha limitazioni per esprimersi. (…) Non possiamo affermare che la nostra fotografia sia in crisi perché nei confronti di altri paesi, che denunciano veramente una stasi creativa, non abbiamo ancora percorso il cammino da essi  compiuto nei confronti dell’evoluzione.”  La riflessione sullo stato della fotografia italiana venne ripresa da Donzelli in un contributo dell’anno successivo[231] – piuttosto pretestuoso e incerto nelle posizioni – nel quale si scagliava contro gli opposti manierismi dell’ high key  e della fotografia ‘sperimentale’ e la sostanziale mancanza di personalità e idee. Soprattutto però metteva in discussione l’eredità de La Bussola e il valore della “presunta scuola veneziana” attaccando duramente Monti,  pur senza mai nominarlo, per la sua avversione alla “sbracata retorica del verismo” [232].  Ciò detto (e forse non sorprendentemente) molte loro opinioni quasi coincidevano sia a proposito della validità dei principi del Manifesto del 1947 che delle due correnti della fotografia mondiale orientate secondo i poli opposti di The Family e Subjektive[233], minoritaria questa per la scena italiana secondo  Donzelli, che pure non comprendeva la retorica propagandistica della mostra di Steichen.  Anche per Tranquillo Casiraghi[234] “ancora non pochi sono gli autori di ottime opere che hanno il solo torto di essere fermi entro gli schemi di una fotografia di maniera”, mentre Alfredo Camisa parlava di “statico basso livello della massa della nostra produzione fotografica”[235]  presentata alle mostre e pubblicata sulle riviste di settore. Sebbene si trattasse di una tempesta in un bicchier d’acqua nell’ininfluente mondo della fotografia “d’arte”, ciò che quelle considerazioni lasciavano intravvedere era il maturarsi di un contrasto per più versi insanabile, pubblicamente giocato in punta di penna che si manifestava però in modo virulento nello spazio privato e protetto degli scambi epistolari.

Il 25 agosto del 1956 si inaugurava a Pescara la  I Mostra Internazionale di Fotografia Artistica, con  la presenza di quindici stranieri e venti italiani tra i quali molti autori della Bussola e della Misa. La novità risiedeva essenzialmente nelle modalità organizzative che prevedevano la chiamata per invito e quindi l’assenza di una giuria, sebbene poi emergessero anche in questo caso alcuni limiti strutturali, puntualmente evidenziati da Giuseppe Cavalli[236], per il quale “le Mostre ad invito devono (…) superare due ostacoli contro i quali non basta volere. Il primo si presenta ai promotori ed è la difficoltà di invitare tutti quelli che se lo meritano (…). Il secondo, anch’esso difficile, riguarda invece gli artisti, i quali, in questo genere di Mostre, fanno spesso constatare che non hanno mandato le loro opere migliori. (…) A cominciare da quelli della «Bussola», parecchi dei quali (non dico tutti: Veronesi e Giacomelli, per citarne due, sono saldamente omogenei ed efficaci) accanto a fotografie pregevoli ne espongono di evidente minor impegno.”  La disamina proseguiva nominalmente riconoscendo infine che, con l’eccezione di Steinert, “questo maestro di statura europea”[237], gli stranieri  apparivano “ in complesso qualitativamente inferiori, sia pur di poco, agli italiani”, che a loro volta “si sono battuti bene. Non dico capolavori, merce sempre più rara dappertutto, ma opere belle ce n’erano parecchie.” Un quadro quasi idilliaco e pacificato si direbbe, dal quale emergevano però indizi di tensioni diverse e non risolte, come mostra il commento riservato a Ferroni, che gli appariva “impegnato alla ricerca di una nuova cifra, [in] un periodo di incertezza. Ricerca disagevole, forse perché vien perseguita più subendo la suggestione di questo o quel «credo» che ascoltando con semplicità il sentimento proprio”, mentre Parmiani non solo “sembra che abbia osservato con simpatia i tedeschi”,  ma “richiama i surrealismi  cari ad alcuni fotografi germanici, meno cari alla nostra sensibilità latina. (…) In tono minore Paolo Monti; non entusiasmano molto le due foto naturalistiche, genere difficile, ove la magica resa della materia, che contribuisce a creare la suggestione di questi piccoli mondi misteriosi,  può essere raggiunta solo attraverso il dominio perfetto della tecnica (non è facile dimenticare, per es., certi risultati strepitosi del Weston). Bello, invece, il ritratto della vecchia seduta, anche se fa ricordare con insistenza l’altro, dello stesso autore, molto simile per costruzione e forse più efficace, di un prete”[238].   Più interessante il retroscena offerto dalla testimonianza di Giacomelli, il quale informava Camisa che  “Monti con Parmiani [erano] già a Pescara da diversi giorni in attesa della Mostra. Mi è stato riferito da alcuni amici di Pescara che il dott. Monti si è lasciato sfuggire alcune parole poco simpatiche e che il dott. Novaro, il quale ospita loro, va ripetendo con insistenza. Quando verrai a Senigallia ti racconterò tutto. In sostanza posso dirti per ora che ce l’hanno con noi due e faranno in modo che all’infuori di Branzi (questo non riesco a capirlo) finiremo per non figurare più alle mostre perché piano piano ci castreranno completamente.”[239]  Una questioncella sulla quale proprio Branzi avrebbe ironizzato anni dopo chiedendo all’amico Camisa “se Monti ha rifatto pace con quelli di Pescara, se quelli di Pescara hanno rilitigato con Monti, se è stato interpellato il Cavalli, se Finazzi abbia per caso strizzato sardonicamente gli occhi?”[240]. Di fatto un rivolgimento totale rispetto alla sintonia manifestata solo pochissimi mesi prima in occasione della II Mostra Nazionale di Fotografia promossa dall’Università popolare di Castelfranco Veneto (19 marzo – 3 aprile 1955) dove Giacomelli[241]  aveva ottenuto  il suo primo riconoscimento personale “per avere espresso in un complesso di opere un’alta manifestazione artistica della fotografia”. Ancora  molti anni dopo Monti avrebbe ancora ricordato la gioia e l’emozione provate per quella vera e propria “apparizione (….) perché di colpo la presenza di queste immagini ci convinse che un nuovo e grande fotografo era nato”[242], sebbene la sua opera fosse passata quasi inosservata ad un commentatore come Berto Morucchio, che in un quadro complessivamente poco soddisfacente (“dove è la voce nuova, il nuovo talento dai lineamenti ben spiccati?”)  lo segnalava semplicemente come un autore che “rivive con una sua sensibilità la lezione di Cavalli”[243]. Il legame di stima e rispetto che  legava Giacomelli a Monti era confermato in una lettera del primo a Camisa dell’aprile 1956 nella quale ricordava la propria partecipazione “alla Mostra Internazionale di Venezia (…). Mi sarebbe dispiaciuto immensamente se avessi dovuto assentarmi a tale manifestazione, anche per il sig. Monti il quale, mi ha sempre compreso dandomi le più belle soddisfazioni”. Poi  aggiungeva: “Di al sig. Monti di non volermene, perché io ho molta fiducia in lui, e lui già sa che a me piace andare d’accordo con tutti: è così bello! Se hai modo salutami tanto il dott. Monti e il dott. Morucchio”[244] . Qualche mese più tardi Giacomelli si sarebbe  però lamentato con lo stesso destinatario “dei cattivi apprezzamenti che il sig. Monti fa su di me. Ho sempre avuto fiducia in lui. L’ho sempre difeso. (…) Immagino che qualche suo pupazzo gli abbia riferito quanto a lui più gli giovava per vedermi disprezzato. (…) Vorrei dire al Sig. Monti che, se non sa dove attaccarsi, si attacchi al tram e non a me”[245]. Nel ricordo di Alfredo Camisa[246] “in giuria c’era Paolo Monti, che poi mi chiamò (…) Andai all’inaugurazione della mostra (non ero al corrente di certi rituali) e fu allora che scopersi che si era sparsa la voce che io non esistevo, che l’autore fosse un vassallo di Monti che prestava il suo nome per presentare opere di Monti stesso. Il mondo fotografico italiano si stava svegliando; fino ad allora, infatti, aveva dormito sotto le ali di Cavalli, ma si svegliò subito male, pieno di invidie e maldicenze.” “In cielo sfrecciavano due comete: quella un po’ stanca di Cavalli e quella inquieta di Monti – avrebbe ricordato Branzi[247] –  e noi giovani eravamo risucchiati dall’una o dall’altra coda. Di fatto interpretarono il ruolo di due sommi ‘pifferai’ caratterizzati da opposti accordi. Cavalli aveva una visione crociana dell’espressione artistica, una mentalità ed una cultura raffinate, ma anche un po’ contorte, da meridionale qual era. Monti, al contrario, in costante inquieta fibrillazione caratteriale, aveva una forte componente di espressionismo nordico e le sue immagini erano scarne, tendenti all’astratto e in qualche caso all’informale, con toni contrastati e fondi. Si muoveva in una dimensione culturale che potremmo definire calvinista, comunque più europea di quella forse un po’ provinciale di Cavalli.”

Lo scontro tra ‘montiani’ e ‘bussolanti’, con Cavalli ormai in posizione minoritaria rispetto all’emergere della figura di Monti e   in profonda crisi per le burrascose vicende della Misa, tra cui le dimissioni di Ferroni nel 1954[248],  andava progressivamente crescendo, come testimonia il passo di una lettera di Ferroni a Roiter del marzo 1955 a proposito della recente mostra di Castelfranco Veneto, nella quale aveva visto emergere  “la parola nuova che ci aspettavamo e che tanto fa pensare il Cavalli. La parola nuova di chi intende la fotografia liberamente, come mezzo di espressione del proprio mondo, libero ed alieno dalle astruse forme e dai toni più o meno alti”[249]. Il clima di quei mesi, le tensioni tra i diversi protagonisti di quelle scaramucce sono ben restituiti in una lettera di Monti a Ferroni del marzo 1955 nella quale scriveva: “L’ultima tua lettera dove leggo che praticamente sei stato messo all’ostracismo dai vari membri del Misa mi ha veramente nauseato: mai avrei pensato che Cavalli potesse giungere a tanta bassezza e se mi capiterà l’occasione vorrò parlarne e dargli una lezione come si merita. Ma anche quei quattro vigliacchetti del Misa mi fanno pena e se li incontrerò a Castelfranco il 19, alla inaugurazione della mostra, dirò loro che non basta essere buoni fotografi per essere considerati uomini e specialmente uomini onesti”[250]. Nei giorni della rivoluzione ungherese e della repressione sovietica (23 ottobre – 11 novembre 1956)  la disfida  assunse precise  connotazioni politiche; così in occasione della III  Mostra Internazionale di Fotografia Artistica di Ancona che si svolse in quello stesso novembre, Cavalli scriveva a Camisa[251]: “Perdonami se, per spiegarti le nostre idee, mi sono dovuto dilungare tanto, ma è bene che voi giovani da poco entrati nella Bussola sappiate quali sono i principi che hanno permesso al nostro Gruppo di esercitare tanta influenza sulla fotografia italiana. Si cerca oggi, anche con attacchi personali, di porre fine a questa influenza; ma la stessa guerra che viene fatta alla Bussola sta a dimostrare che siamo culturalmente vivi ed operanti; se fossimo morti perché dovrebbero prendersi la pena di combatterci? Passiamo dunque a Pedro Armendariz, pardon Martinez[252]. Tu ci hai fatto sapere che a Milano Monti se lo è lavorato per bene. Io posso dirti che dopo esserselo lavorato lo ha passato nelle mani di Parmiani il quale tra pranzi, cene e gite in macchina lo ha persuaso infine ad andare con lui ad una specie di riunione in Ancona. Tutto era stato accuratamente preparato. Da Pescara erano arrivati Novaro e Simoncelli i quali passando da Fermo avevano prelevato Crocenzi ed altri quattro o cinque comunisti[253] del CCF; da Milano era atteso Monti, da Bologna come ti dicevo giunse Parmiani con Martinez. Monti non si fece vedere. Il gruppo (al quale nel pomeriggio si aggiunse Ferroni) aveva in programma la ‘critica’ della mostra di Ancona; si recarono lì, infatti, e ad alta voce dissero peste e corna delle opere esposte a cominciare da quelle premiate (…)  conclusero tutti che la mostra era «da bruciare». Dopo di che andarono a pranzo e Crocenzi espose il suo progetto di fare un manifesto «realista» ecc.  A questo punto devo dirti che da qualche tempo il comportamento di Crocenzi mi lasciava molto perplesso; so che c’è stata una riunione a Cesena con lui, Monti, Parmiani e tutta la cricca la quale lo ha persuaso a mettersi in posizione a noi contraria; so da buona fonte, inoltre, che il CCF è stato dalla polizia schedato fra le organizzazioni comuniste (…)”[254].  E Giuseppe Möder in aggiunta: “La mostra in complesso può andare, sebbene più della metà delle opere sarebbe da togliere di mezzo. Mi ha detto Giacomelli che domenica scorsa sono calati come lupi famelici i vari Novaro, Simoncelli, Monti, Parmiani e hanno detto un sacco di male delle opere esposte. Novaro, che non ha avuto alcuna opera accettata, era il più furibondo. Andava dicendo che bisognava bruciare tutto. Con loro hanno portato il direttore di “Camera” e tu puoi immaginare che razza di terremoto. Hanno detto male di te, di me e di tutti. A me queste cose mi fanno ridere perché provo tanta pena per quella gente che invece di pensare a lavorare va facendo la donna di servizio. Mi stupisco poi quando pensano di passare per persone intelligenti e sapientone”[255].

Passato ormai al professionismo, Monti viveva comunque in pieno quel clima di scontri e scaramucce tipico della fotografia amatoriale e dei rapporti tra i Circoli, nel cui contesto sembrava ricercare una propria personale rivincita sui bussolanti, emarginando  (e prendendo il posto di) Cavalli come figura di riferimento. Quasi un conflitto edipico.  “E ora dovrei dirti della mostra di Salsomaggiore (…) – scriveva Camisa a Möder – A proposito di gesti polemici stupidi: hai saputo che Roiter aveva mandato, oltre che a suo nome, pure sotto falso nome e che ha fatto il diavolo a quattro accusando la giuria di settarismo perché gli hanno accettato e pubblicato sul catalogo una della foto sotto falso nome? Dimmi tu se una persona nella posizione di Roiter deve prestarsi a fare delle figure così cacine…)”[256]. Che quella prassi non costituisse un caso isolato è confermato anche da Giacomelli: “ Sì perché alcuni  lo facevano: mandavano le foto con il nome della moglie o del figlio. Dicevano «Vinco qua, vinco là» (…) quando gli ‘amici’ hanno visto che io vincevo dieci volte e loro una, quando erano nella giuria mettevano da parte le mie cose, mica le esponevano, le levavano, non le facevano accettare”[257].   C’era però anche chi si ritraeva da quei teatrini:  “Se mi sono appartato da qualche tempo e non partecipo troppo alla vita fotografica italiana – scriveva Möder – è perché ne sono nauseato.  Camorra dappertutto, beghe personali, gente che parla male del prossimo e via di questo passo. La fotografia italiana è diventata una giungla e un pessimo ambiente”[258]. Altri, infine, inevitabilmente esclusi da quel terreno di scontri incruenti, si lamentavano di quella “organizzazione burocratica” fatta di circoli e centri di studio della fotografia (leggi Crocenzi): “si diffondono manifesti, si tengono raduni e discorsi, chiamati lavori; si fa qualche mostra e si fotografa, anche” [259].  L’assenza di Monti dalla mostra Contemporary Italian Photography che l’Unione Fotografica era stata invitata a curare presso la George Eastman House nel 1957, ritenuta da alcuni “la prima presentazione in assoluto della fotografia italiana negli Stati Uniti”[260], credo debba essere letta in quel contesto: considerando che comprendeva ben 26 fotografi tra i quali De Biasi, Branzi,  Donzelli, Berengo Gardin, Giacomelli, Migliori, Roiter, Veronesi e Zannnier. Risaltava (in parte) l’assenza di Cavalli, ormai forse considerato meno ‘contemporaneo ’, ma ancor più quella di Monti (vicino a molti di loro) che avrebbe però avuto la propria rivincita l’anno successivo con la pubblicazione di alcune sue fotografie nella sezione Around the World in Fifty Photographs di  The picture history of photography from the earliest beginnings to the present day di Peter Pollack, che riconosceva l’appartenenza di Monti “a quella corrente di fotografi italiani che ha scoperto i valori del realismo sfrondato d’ogni sentimentalismo e ha rinnegato sdegnosamente la tendenza a presentare immagini magniloquenti di un’Italia esistente solo nei sogni. (…) Sue caratteristiche precipue sono l’ardimento con cui colloca le forme nello spazio e il contrasto con cui compone neri o grigi intensi e accenti di bianco puro. Monti non cede all’astrattismo totale (…)”[261].

Ora che i gruppi e i circoli fotografici erano in via di disfacimento si definiva un nuovo scenario, nel quale prevalevano le singole personalità e gli individualismi. Lo confermava, quasi tra le righe, anche Paolo Monti in un articolo per “Camera” firmato a due mani con Martinez, che costituì l’occasione per l’ennesimo bilancio della fotografia italiana del dopoguerra. Se era vero che  “La Bussola” si stava disfacendo dopo poco più di  dieci anni di esistenza, la sua influenza aveva “portato al desiderio di rottura manifestato soprattutto dalle giovani generazioni” e “il valore dei suoi insegnamenti non poteva essere negato nel suo insieme. Il conflitto tra la tendenza in corso di affermazione e quella che l’ha preceduta – antagonismo che ci sembra essere anche di ordine metafisico, sebbene questo aspetto della questione sia stato generalmente celato – non dovrebbe farci dimenticare che, senza il lirismo di Cavalli e Balocchi, il senso dell’astrazione e i grafismi di Veronesi, senza il mondo dei valori tonali di Leiss e Vender, la fotografia italiana avrebbe difficilmente superato l’impasse in cui si è trovata per troppi anni. In un’epoca in cui i successi di questo gruppo cominciarono a imporsi all’attenzione, così come nel campo delle competizioni, poco o nulla gli si poteva opporre”[262].  Nel preciso momento in cui ne riconoscevano storicamente la rilevanza, i due autori  decretavano la fine del ruolo egemone de La Bussola. Assegnandole un posto  nella storia indicavano la fine della sua attualità  di esperienza viva, ancora feconda.

 

“Fotografia inutile?”

Con questo titolo Guido Rey aveva presentato una propria conferenza al Teatro Carignano di Torino nel 1908, qualificando la fotografia come “per eccellenza un’arte di diletto. Essa è  il vaso di fiori che, al davanzale della finestra, rallegra e consola il pover’uomo che non ha giardini”[263], ma considerando il dibattito che si svolse sulle riviste italiane nel secondo dopoguerra, e ancora ben avanti sino ai tardi anni Sessanta, pare che il modo di intendere la  pratica amatoriale non fosse mutato affatto.  “Gran parte della ‘fotografia italiana’ è il prodotto della giornata di festa di un medico, di un avvocato, di un ingegnere”, scriveva  Zannier[264] nel 1956, confermando da una posizione critica quanto ancora rivendicava  il Presidente FIAF Renato Fioravanti, che parlava di “piacevole connubio dell’arte con lo svago”[265]. Era ormai chiaro che quella fotografia vissuta  come hobby non poteva far altro che “relegarsi in un angolo per iniziati, per rimatori, per prosatori d’arte. (…) D’altronde, questo modus mentale rientra in un tenore di vita, e va riferito a un’intera classe sociale, quella della piccola borghesia, da cui proviene la maggioranza dei fotografi italiani, dilettanti o professionisti”[266]. Una concezione e una pratica che Piero Racanicchi avrebbe attribuito a  una specie di “domenicalismo”[267], contrapponendole a quelle adottate da coloro che intendevano l’arte “fondamentalmente [come] una ragione di vita. (…) Forse è proprio per questo inopportuno intendere l’arte come svago che oggi, in molti circoli fotografici, assistiamo al dilagare di un malcostume, che si identifica in un aspetto dell’intelligenza e dello spirito comunemente chiamato ‘incultura’. (…) I soci di questi circoli praticano purtroppo, nella maggioranza, la fotografia con uno spirito di avventura domenicale che sarebbe meglio impiegato in una  sana attività sportiva.”  Esito scontato di quei “sacri weekends  estetici” erano quelli che Cesare Colombo definiva  “ludi salonistici”[268], mentre Pietro Donzelli si chiedeva retoricamente quanto fossero “necessari i salon fotografici? Agli effetti commerciali e propagandistici senz’altro; un tempo lo erano anche artisticamente”[269].   Erano quelle  “le infinite mostre degli amatori fatte senza nessun particolare scopo” di cui scriveva Monti; quelle “che naturalmente finiscono in quel continuo concorso di vanità personale che noi conosciamo benissimo. Io devo dire  che per aver appartenuto molti anni alla categoria degli amatori non mi metto certamente la cenere sul capo; non ci penso nemmeno. Soltanto voglio aggiungere che l’ambiente amatoriale qualche volta è abbastanza antipatico; e le ambizioni assolutamente fuori luogo e le discussioni e le continue querele di quello che si fa e non si fa e i premi ecc, sono una cosa del tutto inutile. D’altra parte questa è la scorza che bisogna rompere per trovare dentro un midollo un po’ succoso”[270].  Monti si sarebbe provato a delineare una geografia culturale della nuova fotografia nostrana in una Lettera dall’Italia destinata al numero di marzo del 1959 di “Camera” poi rimasta inedita[271], nella quale lamentava innanzitutto gli esiti delle “regole internazionali della FIAP”, che con i loro vincoli danneggiavano molti dei partecipanti alle “molte e forse troppe” esposizioni  “nazionali ed internazionali (e perfino regionali)”, “senza avvantaggiare nessuno, obbligando i visitatori alla sopportazione di una morbida noia generale nella quale il giudizio critico lentamente annega.”  Oltre il letterario esercizio di stile, l’analisi critica di  Monti individuava due aree geoculturali nettamente distinte e contrapposte sul piano della qualità delle proposte: l’una che viveva ancora “il salonismo più convinto e convenzionale (…). l’altra la Lombardia, il Veneto, le Marche, Emilia Romagna e la costa adriatica fino a Pescara”, nella quale “la fotografia si è inserita o ha tentato vigorosamente di farlo,nelle correnti più vive della fotografia europea, e non è un caso se anche la miglior critica fotografica viene da quelle parti, e basti citare Morucchio e Turroni e i pittori Guidi e Breddo.” In quella geografia si collocava la produzione fotografica più attenta alle “scuole fotografiche europee”, da quella “impropriamente definita «soggettiva»” alla lezione dei grandi reporter conosciuti anche per il tramite della I Biennale internazionale di Venezia, nella quale – come si è detto – proprio Monti aveva avuto gran parte.

Con un duro giudizio retrospettivo Ando Gilardi[272] riteneva che  sulle pagine di “Ferrania” si fossero svolti “sfiancati dibattiti: grotteschi impasti di ingenuità e malafede, presunzione e, soprattutto, omertà intellettuale, per cui ciascuno fingeva di credere alla profondità dell’impalpabile discorso di un ‘inconciliabile’ avversario”, ma è esattamente per queste ragioni  che quella rivista costituisce la sede privilegiata in cui riscontrare limiti e meriti di quel momento culturale, specie a partire dal 1958 quando – accogliendo un suggerimento di Renato Fioravanti – “Ferrania” avrebbe dedicato il proprio numero di dicembre alla Fotografia italiana.  Gli editoriali del direttore Guido Bezzola costituiscono ancora oggi una guida efficace alla comprensione di quella produzione, segnata da un imperturbabile  conformismo (“anche in fotografia la moda impera”, 1958; “oggi come oggi spaventa un poco la diffusione del luogo comune fotografico”, 1959)  e dai rischi “del decorativismo inutile, del formalismo frigido ed esteriore, delle immagini fini a sé stesse” (1960). L’insoddisfazione si manifestava anche nel riconoscimento di un diverso statuto del numero antologico, che per Bezzola (1961) non poteva ormai essere considerato un annuario ma semmai “un censimento, un reperto, uno studio stratigrafico (…) Noi vorremmo che a un certo momento questi numeri natalizi assumessero il valore di fonte, di repertorio, di mezzo di consultazione per il futuro o i futuri storici della fotografia: e rammentiamo che le ricerche non si basano soltanto su ciò che le fonti dicono, ma anche su ciò che tacciono. Se domani, la grande fotografia italiana non troverà qui i suoi nomi maggiori, sarà anche questa una constatazione storica preziosa, a suo modo utilissima.”  Un giudizio senza appello si direbbe, seppur espresso con raffinata (e un poco perfida) eleganza; quella che avrebbe poi perso strada facendo se nella Lettera agli amici fotografi del 1962  riconosceva di trovarsi  “sull’orlo di una fase gravemente involutiva”, parlando senza mezzi termini di “panorama squallido”. “Vi assicuro – proseguiva – che la scelta è stata un lavoro improbo: i tavoli di redazione erano letteralmente neri, coperti di fogli tutti neri con poche macchie bianche, e da tanto nero emergevano i soliti, triti, logori, stanchi e ripetuti soggetti: il muro scrostato coi bambini poveri, le suore nere, le vecchie nere, i preti neri, il jazzista negro, le casine nere sulla montagna grigia, le piante grigio chiaro sulla montagna chiazzata di neve, i paesaggi contrastati alla giapponese, la ragazza con i capelli sugli occhi e così via”[273], tanto che – aggiungeva Turroni[274] –  “a occhi non smaliziati, non ‘iniziati’, le foto di allora si confondono paurosamente tra loro.”  Considerazioni che richiamano alla mente quelle di poco precedenti formulate da Monti nel corso del convegno di Sesto San Giovanni del 1959 quando riconosceva che  “la mostra che c’è qui a Sesto non si sarebbe potuta fare dieci anni fa (…),  forse bisognava farla, potendo, ancora più ampia, invitando tutti e facendo una specie di inventario generale della fotografia italiana, lasciando che tutti si sfogassero a mandare, senza giuria, quello che ritengono che sia lecito far vedere al pubblico. Avremmo avuto probabilmente uno spettacolo, un’alluvione veramente rivoltante di cose volgarissime.”  Considerazione interessante ma certo riduttiva poiché non teneva conto della presenza sempre più rilevante di figure nuove di professionisti che non provenivano dall’ambiente amatoriale né si sarebbero mai misurati con il piccolo universo agonistico di mostre e concorsi: non Gilardi, non quelli che nel 1954-1956 producevano i “fotodocumentari” di “Cinema Nuovo” come Mulas, Dondero, Pinna, Sellerio, Giancolombo, Cisventi, Bavagnoli e  Samugheo  (una protagonista  assoluta delle copertine di “ Ferrania”), né altri come Marirosa Toscani e Aldo Ballo, Giorgio Casali o Alfa Castaldi. Fu proprio a  Sesto San Giovanni che Gilardi si provò a delineare una possibile via d’uscita da quella situazione di stallo, a fornire una prospettiva culturale e politica che all’epoca suscitò più di qualche perplessità[275] sebbene le sue proposte fossero inserite in un discorso molto articolato e complesso, certo il miglior intervento di quei giorni, che solo in parte toccava la questione della fotografia dei dilettanti, rifacendosi semmai, ma in modo meno politicamente schierato, alle opinioni espresse nel 1954 da Albe Steiner in una famosa lettera a “Lavoro”, il settimanale della CGIL:  “L’osservazione attenta di quanto ci circonda – scriveva –  dal Sud al Nord d’Italia, in tutti gli aspetti di denuncia di quanto c’è di negativo e che va rinnovato, e di quanto c’è di positivo nella lotta e nella vita che i lavoratori conducono per questo rinnovamento, costituisce il nuovo soggetto, la fonte di ispirazione più fresca. (…) Il tipo di fotografia cambia se cambia il soggetto, cioè se cambia il contenuto. Pensare alla campagna nella forma solita cercando il bello, per esempio, nella ragnatela controluce o nella finta bellezza di un muro ormai troppo rovinato (…) non è pensare alla campagna ma è rinunciare alla campagna. E non basta cambiare i titoli perché il più delle volte la fotografia parla da sé. (…) E ancora: i laghi non come sola poesia turistica di pochi mesi, non come salici piangenti e propaganda di grandi ville private, testimoni di tempi che furono e che oggi ancora si sfruttano come arma di dominio, non come le caratteristiche barche che ormai fanno acqua o come le Vecchie reti al sole, la Torre avita o Castello solitario o quel che è peggio Riposo al sole d’autunno. Ci sono paesi che hanno bisogno d’acqua, di case, di scuole, di strade, di luce, di asili, di ospedali, di pulizia, di fogne e si fotografano da decenni come se fossero il sogno e la quieta speranza dei cittadini. Ci sono città che si fotografano come nei film dei banditi come se fossero il miraggio di sempliciotti campagnoli. E a furia di fotografare così, c’è chi crede e chi fa confusione”[276].  A Sesto San Giovanni Gilardi si era rivolto a “coloro che fotografano non per sé stessi solamente, ma anche e soprattutto per la società in cui vivono: intendendo per società qualcosa più che un cenacolo, o una categoria più o meno numerosa di colleghi con i quali, intenzionalmente o meno, si giunge a stabilire una specie di omertà: ciascuno piglia terribilmente sul serio l’altro, anche quando fra di loro ferocemente polemizzano, trattando astrusamente di scuole correnti e tendenze, in una specie di reazione a catena intellettualistica. Dal punto di vista individuale è proprio il rompere quella tale reazione a catena chiusa che indica ai nostri giorni il passaggio dal dilettantismo al professionismo (…).  La società e il mondo in cui viviamo si offrono a varie scienze come immenso campo d’analisi e di registrazione: la fotografia rappresenta uno strumento ideale, moderno e inimitabile, per misurare l’uomo e la sua condizione servendosi delle immagini. Non si comprende perché il fotografo amatore qualificato debba trascurare anche una attività di questo genere, per limitarsi quasi sempre alla fotografia celebrativa. E ancor meno si capisce perché l’organizzazione ufficiale dei circoli e delle associazioni fotografiche non debba incoraggiare e organizzare attività di interesse sociale e scientifico. Probabilmente si fa grande confusione su ciò che si deve intendere per fotografia artistica e fotografia scientifica, almeno per quanto riguarda alcuni settori di quest’ultima: sociologico, etnografico, storico, eccetera. Ma proprio per questa ragione si isola il dilettantismo qualificato condannandolo ad una ripetizione senza fine di esercitazioni calligrafiche di sapore punitivo  non solo per chi le vede, ma forse anche per chi le esegue” [277].

Negli anni del boom economico e in un’Italia in profonda trasformazione,  “mentre sorgevano nuovi campi di attività fotografica (…) mentre nascevano nuovi mezzi espressivi (la TV ad esempio) (…) la fotografia del medio dilettante evoluto è rimasta ferma: ora, in un mondo che va avanti (o almeno si muove) molto in fretta, star fermi o andare adagio  significa retrocedere, il che è puntualmente accaduto” ricordava Guido Bezzola[278].   Il passaggio al professionismo di alcuni dei protagonisti della stagione amatoriale del secondo dopoguerra come Monti e Roiter e l’abbandono della pratica fotografica da parte di figure di primo piano come  Branzi , Camisa e Ferroni,   segnavano anche simbolicamente la fine di una stagione durata poco più di un decennio. Come ricordava Cesare Colombo[279], “le mostre dilettantistiche cominciano a essere disertate. (…) L’atmosfera FIAF non è più tollerabile” e l’ironia ormai si “esercita contro chi si ostina a collezionare entry forms ed ammassi di vermeille.”  Oltre alla diffidenza nei confronti dell’universo concentrazionario dell’associazionismo, era proprio quell’esitazione, il passo sospeso sulla soglia dell’impegno professionale (e magari artistico) il segno caratteristico del tempo e soprattutto della fine del ruolo attivo e propositivo dei gruppi, che nell’arco di pochi anni avevano perduto ogni loro funzione, sfaldandosi o ripiegando su sé stessi, mentre la scena fotografica si popolava sempre più di singole personalità autoriali, autonome. Sarebbe stato poi lo stesso Monti a rimettere ancora una volta in discussione la funzione culturale del fotoamatorismo proprio (e con una certa paradossale improntitudine) in occasione dell’ennesimo premio di fotografia, quando ricordava che “poche esperienze sono così noiose e mortificanti come il partecipare a giurie di mostre fotografiche (…). È impossibile parlarne senza rabbia quando per lunghe ore sfilano davanti agli occhi cento ritratti su fondo nero di donne, bambini, adolescenti, uomini (molti del genere vagamente jettatorio) e cento paesaggi funerei da pianeta morto”[280]. Fu quella una delle sue ultime occasioni d’incontro col mondo amatoriale[281]: quell’amaro sdegno era l’esito di una disillusione, della deriva che riconosceva in quel ristretto ambiente di circoli e consorterie, di dibattiti come di pettegolezzi e ripicche che pure era stato il suo e nel quale si era formata, anche per contrasto a volte aspro, la sua coscienza di fotografo. A quel  feroce giudizio, certo fondato su di una solida esperienza di partecipante e giurato, non era certo estraneo il duro scontro maturato tra i soci de La Gondola, opponendo i più giovani come Berengo Gardin[282], Giuseppe Bruno e Giancarlo Angeloni al segretario Libero Dell’Agnese;  in apparenza per questioni organizzative, in realtà per radicali contrasti sulla politica culturale e sulla concezione stessa della pratica fotografica.  “L’idea che qualcuno nutre –  scriveva Vittorio Piergiovanni a Monti[283] – di trasformare la rinnovata Gondola in un movimento di idee e di cultura fotografica non sarebbe tanto peregrina qualora si riuscisse a riportare il Circolo a quel livello di qualità, chiarezza e preparazione che dimostrava di possedere quando tu la lasciasti.”  In realtà – nonostante i soddisfacenti impegni professionali e alcune dichiarazioni apertamente contrarie – era Monti a guidare segretamente la fronda proponendosi nuovamente alla guida del Circolo, come ebbe modo di dichiarare Bruno in una riunione dei primi di gennaio del 1960 ripresa in un’allarmata e amara lettera di Dell’Agnese[284], che rivolgendosi a Monti  (si)  chiedeva “o Lei diffidando di me ha dato ordini precisi attraverso altre persone, ovvero diversi Soci ed un ex socio lavorano indipendenti al fine di presentarle il fatto compiuto e cioè che, per acclamazione, Lei è stato nominato Presidente (…). Ora, noi siamo gente pacifica che vede la fotografia come una distensione con rapporti di amicizia ma non una fonte di disgusti, di lotte, di ambizioni.” Più colorito un successivo resoconto di Bruno[285], secondo il quale “Quando il suo nome [di Monti] è stato proposto per la presidenza effettiva ed attiva della Gondola, ha fatto trasecolare parecchia gente, ed ha smosso la diarrea al vecchio presidente. Si sono fatte un sacco di congetture. Hanno agitato i fantasmi neri delle due dittature, sbandierato la sua fama d’iconoclasta, e volpi spelacchiate hanno sussurrato un interesse economico nascosto.”  In quel clima Monti venne nominato presidente ma a fatica e di strettissima misura, tanto che la votazione dovette essere ripetuta più volte sino alla definitiva del 26 gennaio 1960.  Congratulandosi in una nuova missiva[286] Piergiovanni  chiedeva però anche di “sapere (…) la buona notizia che tu e Roiter state per dare al nostro mondo fotografico.”  Ulteriori dettagli, forse non ancora sufficienti a svelare il mistero, erano contenuti nella diplomaticissima risposta di Monti a Dell’Agnese[287], nella quale gli riconosceva il merito di aver “salvato il salvabile con grande accortezza, evitando lo sfasciarsi completo e il naufragio della Gondola. Ora un grave compito, molto impegnativo attende tutti i responsabili della Gondola –  proseguiva Monti – e specialmente la presidenza qualunque essa sia. È  una manifestazione che è a conoscenza solo mia e di Roiter e sarà una grande affermazione in Italia: è soprattutto il riconoscimento da parte della cultura ufficiale di tutto il nostro lavoro dal 1947 al 1955, ma io desidererei che in essa figurasse anche la attività successiva fino al 1959 compreso. Posso dire che mai in Italia si è presentata una simile occasione ad un circolo fotografico; capirà quindi che di fronte a ciò tutte le beghe i pettegolezzi e le fessaggini di Tizio o di Caio non possono turbarmi. (…)  È  assolutamente assurdo dire che io voglia la presidenza, ma è vero che la desidero e che la accetterò se vi sarà una larga maggioranza e pertanto pongo la mia candidatura e ritengo che nessuno possa dimostrare che ciò sia illecito e fuori luogo.”

Quella  misteriosa “manifestazione” doveva verosimilmente essere l’iniziativa promossa da Carlo Ludovico Ragghianti che sul finire del 1959 aveva scritto a  Fulvio Roiter, anche come tramite per la Gondola, per segnalargli la costituzione da parte dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa di un Gabinetto Disegni e Stampe dedicato all’arte contemporanea italiana.  “È nota la nostra convinzione – scriveva Ragghianti – che la fotografia sia un’espressione artistica autentica e totale come le altre indicate. Sino ad oggi, in Italia, non esisteva nessuna raccolta pubblica museale destinata organicamente e sistematicamente all’arte fotografica. L’Istituto, anche nell’intento di portare la fotografia nell’Università e nei musei, si propone di estendere le raccolte grafiche alla fotografia italiana.” Per la costituzione di quella raccolta Ragghianti sollecitava la generosa collaborazione dei fotografi ai quali garantiva:  “a) conservazione delle fotografie in una Sezione speciale; b) disponibilità per la consultazione degli studiosi e del pubblico; c) esposizioni permanenti e periodiche di gruppi e di artisti; d) pubblicazione di cataloghi scientificamente e criticamente elaborati, a cura dell’Istituto; e) eventuali manifestazioni d’arte fotografica, nel Gabinetto e nella sala di esposizione. Se questo programma è apprezzato nella sua obbiettiva utilità per il prestigio e per l’apprezzamento dell’arte fotografica rivolgo un appello ai Sodalizi fotografici ed agli Artisti fotografici, perché diano il loro prezioso contributo”[288].  A seguito del riscontro positivo di Roiter , Ragghianti ipotizzava che “nella prossima primavera, per esempio nel marzo o nell’aprile, l’Istituto mediante il suo Gabinetto potrebbe organizzare una mostra del gruppo La Gondola, vale a dire delle fotografie d’arte 1949-55 (e ulteriori, se ve ne siano di notevoli), destinate alle raccolte dell’Istituto; tale mostra sarebbe accompagnata da un catalogo critico illustrato a nostra cura e spesa; d’accordo che il formato medio delle fotografie d’arte dovrà essere di 30 x 40 cm almeno (noi possiamo predisporre un’incartonatura e una conservazione in mobili metallici adeguati); prevengo che la sala di Esposizioni (aperta al pubblico) del Gabinetto è capace di circa 100 pezzi montati in eleganti cornici vetrate.  Se Lei dunque ritiene di potere assumere la selezione delle fotografie d’arte, mi affido alla Sua sensibilità e al Suo discernimento. Il Catalogo critico verrebbe redatto, come d’uso, da un appartenente alla mia Scuola, ma ovviamente Lei dovrebbe mandare un breve scritto di motivazione e di presentazione. Sarebbe opportuno che tempestivamente ci fossero forniti anche i dati biografici, bibliografici, museali, espositivi degli Artisti, che potrebbero essere richiesti agli stessi. Sarebbe gradita anche qualunque nota di carattere estetico e tecnico relativo alle diverse elaborazioni visuali fotografiche. Per il momento non posso muovermi, ma probabilmente entro il mese dovrò venire a Venezia per la Commissione della Biennale (dove, come saprà, ho insistito perché accanto alle mostre di pittura e scultura vi sia anche una sezione destinata alla fotografia d’arte): in tal caso L’avvertirò della venuta e del mio indirizzo,e sarò lieto di conoscerLa personalmente e di prendere con Lei ulteriori accordi.”[289]  Le missive di Ragghianti vennero immediatamente trasmesse a Monti così che potesse farsi “un’idea precisa sul progetto. Spero molto che prima di Natale il prof. venga qui a Venezia: a tre ogni cosa prenderebbe una piega senza dubbio più interessante.”[290] Non abbiamo notizie di un eventuale incontro, ma il progetto venne condotto a termine e nel maggio del 1960 si aprì all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa la mostra dedicata a Il circolo fotografico La Gondola di Venezia. Nella sintetica scheda di presentazione Monti rivendicava il ruolo svolto dal gruppo nel superamento delle posizioni de La Bussola, anche attraverso l’organizzazione delle mostre internazionali, e indicava quali fossero stati gli autori  che ebbero maggiore influenza sul sodalizio:  “fra gli altri, i fotografi francesi Masclet, Thévénet, Ronis, Doisneau, Izis, Brassaï e soprattutto Cartier-Bresson; i tedeschi Steinert e Keetman; i nordici Hammarskiold, Hassner, Winsquit, Coppens, e lo svizzero Bischof; fra gli americani Weston, Smith, Strand e altri dello staff di Life[291]. Un insieme che nel suo eclettismo confermava l’assoluta libertà di orientamento nelle espressioni individuali che aveva da sempre caratterizzato il sodalizio.

Sarebbe stato Giuseppe Turroni ad assumersi il compito di tracciare un bilancio della Nuova fotografia italiana, riprendendo un progetto sviluppato da Mario Finazzi per l’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo negli anni immediatamente precedenti, poi bruscamente interrotto per ragioni editoriali. Quell’ipotesi di lavoro, avviata nel 1956-1958 con la collaborazione di Alfredo Camisa, prevedeva la redazione di un volume antologico dedicato alla Nuova fotografia italiana; un titolo che  l’anno successivo sarebbe mutato in Fotografi italiani d’oggi prima che il progetto venisse affossato  dall’opposizione del Consigliere delegato Tito Legrenzi[292], poiché il materiale raccolto (e già impaginato in menabò) non era di suo gradimento: “io non ci arrischio sopra 5 milioni. Il libro non si fa”[293]. Al “tramortito” Finazzi il più pragmatico Camisa chiese di “avere in prestito per qualche giorno l’impaginato. Proprio in questi giorni un editore milanese [Arturo Schwarz]  ha preso in considerazione una analoga iniziativa (sia pure in forma e con intendimenti diversi: Fotografia italiana del dopoguerra), e l’Autore del testo [Turroni]  sta raccogliendo il materiale.”[294] Non è dato sapere se Turroni ebbe modo di studiare e profittare dell’impaginato (le foto erano nel frattempo state restituite ai rispettivi autori), ma è certo almeno che accolse il primitivo titolo modificando quello di lavorazione e Nuova fotografia italiana venne pubblicato allo scadere del 1959 quale decimo numero della collana “Enciclopedia di cultura moderna”, che sino ad allora aveva ospitato volumi dedicati prevalentemente alla poesia e in misura minore alla scultura, al cinema, al teatro e al jazz[295].  Le caratteristiche editoriali erano certo diverse[296] ma il profilo culturale e  critico era certamente analogo, con una selezione in cui non solo prevalevano i fotografi amatoriali (il doppio dei professionisti) ma che registrava assenze clamorose. Non solo Carlo Mollino, che col suo Messaggio dalla camera oscura aveva fornito un contributo fondamentale alla crescita della cultura fotografica italiana[297], ma anche tutti quegli autori che non erano mai transitati per mostre e salon, che con quel mondo non avevano mai avuto a che fare. Una prospettiva critica  amatoriale in sé, analoga a quella espressa da Monti,  che non sapeva liberarsi dal contesto  dei dibattiti e delle vicende salonistiche che tanta parte avevano avuto negli interventi al convegno di Sesto San Giovanni. Quindi non propriamente la “Nuova fotografia italiana”  pretesa dal  titolo, a meno di non voler leggere tra le righe (ma con una certa forzatura)  il tentativo di  dimostrazione dell’assioma sulla fecondità degli amatori come linfa che nutre, sebbene Turroni tracciasse poi un quadro tutto sommato sconsolante di quella stessa fotografia, nel quale “il ponte della forma è storicamente attendibile, e necessario. È la spia – proseguiva –  di tutte le sovrastrutture ideologiche e intellettualistiche, avallate dai tanti cenacoli e scuole e associazioni e unioni che pullulano nel nostro Paese e talora, coi loro manifesti e programmi, riescono persino a inibire la buona volontà creativa dei giovani (…). Comunque la storia della cultura – e anche della cultura fotografica – va avanti poco alla volta. (…) . Era tempo di morte per ogni sorta di dilettantismo. La forma diventava emblema di uno specifico fotografico che tendeva a farsi riflesso di un mondo, di un costume, di una cultura. La lezione di Monti sarà decisiva”[298]. In effetti il pensiero e la figura di Monti, al quale Turroni aveva dedicato un ben più sensibile ritratto critico solo due anni prima sulle pagine di “Civiltà delle macchine”[299], costituivano un  riferimento costante per le sue riflessioni;  quasi un fil rouge che attraversava tutto il volume, nel quale (conseguentemente)   risultava l’autore più rappresentato, con ben venti fotografie che illustravano molta della sua produzione ma escludendo ogni suo lavoro professionale, con un solo esempio delle sue ricerche più sperimentali[300].  Non solo: il critico ne ricostruiva la vicenda artistica con omissioni che non possiamo che definire  tendenziose, non potendo immaginare che non conoscesse i primi lavori di questo autore tanto amato. Scriveva infatti:  “Notiamo [nelle prime fotografie] uno spirito razionale che rifugge dalle morbide contemplazioni dei cavalliani”[301], cancellando d’un sol tratto tutta la prima produzione a tono alto (tavv. 015, 023, 037).  Un’analoga mitografia sarebbe stata riproposta molti anni dopo da un critico e amico come Antonio Arcari,  che nel testo predisposto per il fascicolo monografico della collana “Grandi fotografi”, scriveva: “Di quegli inizi non ricordiamo toni alti alla Cavalli, non ricordiamo né rintracciamo nell’archivio di Paolo Monti, che con l’aiuto prezioso del suo amico Giancesare Rainaldi abbiamo setacciato minuziosamente, fotografie fatte nel chiuso della sala di posa, alla ricerca di rarefatte visioni di ispirazione surrealista come Giuseppe Cavalli continuava a fare.”[302]

 

“Non documento ma invenzione visiva”

Alla fine di maggio del 1959, con Romeo Martinez a fare da tramite[303],  Monti  incontrò il grafico svizzero Fritz Bühler per mettere a punto un progetto fotografico destinato a un volume  pubblicitario per la casa farmaceutica Sandoz di Basilea[304]; un incarico al quale doveva dare molta importanza, sul quale contava particolarmente tanto da redigere un vero e proprio Diario di lavoro, che ne registrava presupposti e tappe: un documento unico nella sua produzione sino a quella fase. Altri sarebbero seguiti, legati alle campagne emiliane, ma con intenti più programmatici e didattici, mentre qui troviamo riflessioni a un tempo tecniche ed espressive. Nelle settimane successive Monti si recò a Basilea per discutere il progetto coi referenti Sandoz e in particolare col Dott. W. Corti, che avrebbe dovuto essere  l’autore del testo, al quale  sembra riferibile il proposito di richiamarsi al  “Concetto della Metamorfosi: Empedocle, Ovidio ecc. – Magia della Chimica (…)”. Con Corti valutò anche le soluzioni suggerite dal volume di Gustav Schenk, Schöpfung aus dem Wassertropfen[305], nel quale si mostravano le infinite possibilità di restituzione visuale di un elemento liquido e semplice come l’acqua. Tra le sue fonti però doveva esserci anche l’opera di Georgy Kepes  (si consideri la stretta analogia tra  alcune immagini Sandoz e Fluid Forms, 1944[306]) e in particolare la selezione di fotografie per la mostra The New Landscape[307] che si tenne al Massachusetts Institute of Technology nel 1951, un’occasione per riflettere sulle corrispondenze formali tra la più avanzata produzione artistica e il nuovo universo visuale rivelato dalla strumentazione scientifica e tecnologica. La complessa elaborazione del progetto, puntualmente restituita nelle pagine del Diario, implicava la necessità di sondare  le risposte offerte da materiali e processi diversi sino a individuare la “possibilità di operare reazioni a colori nella glicerina – Comunque ci sono ottime occasioni di ottenere forme plastiche e lente[308],  ovvero di combinare “diversi fluidi nel liquido (…) con immissione di aria o gas, ecc. in modo da ottenere diverse formazioni sia cromatiche che morfologiche. (…) Non interessano solo le reazioni chimiche, ma i colori in quanto tali. Soprattutto non bisogna basarsi sulle possibilità dei soli colori fondamentali. Occorre agire con colori artificiali in concorrenza con quelli della natura. (…) coi cromogrammi su carta ottieni disegni astratti (…) sciogliere dei cristalli di alcuni coloranti in acqua- effetto fotografico? Da provare.”  Nel volgere di pochi giorni, già entro la metà di giugno, l’attenzione si concentrava soprattutto sull’uso di colori e coloranti (escludendo quindi altre materie e organismi come sangue, muffe, embrioni), in particolare per la possibilità che questi offrivano di “formare immagini astratte” e di sfruttare a tal fine “ tutte le possibilità del movimento-sfocato – movimento di macchina – doppie esposizioni – vetri deformanti – ecc.”,  mettendo quindi a frutto, qui con larga dovizia di mezzi, molte delle ricerche sperimentali da lui condotte in quegli anni Le prove svolte nel laboratorio fotografico dello stabilimento di Basilea proseguirono sino alla metà di agosto, quando Monti incontrò nuovamente Bühler, che si mostrò “in pieno accordo anche per quelle [foto] destinate alla copertina” del volume, che il fotografo aveva immaginato “parte negativa e parte positiva, a colori o solarizzata in stampa.” Poi accadde qualcosa: il 16 settembre  gli venne formalmente comunicato  il “divieto di fare per il momento nuove foto in fabbrica”. Forse la committenza non era soddisfatta di quanto prodotto sino ad allora,  forse era mutato l’organigramma interno e si attendeva un nuovo redattore scientifico che avrebbe potuto richiedere  “una nuova (o presumibilmente nuova concezione del volume) [che] comporta una revisione di tutte le foto eseguite. (…) COLLABORAZIONE MOLTO COMPLESSA E LABORIOSA – PARTECIPAZIONE DEL FOTOGRAFO – COME E QUANDO?  (…) 16/9 POMERIGGIO: FINITO IL LAVORO – ANNULLATO IL VOLUME/ FINE”.

Oltre lo smacco per la brusca conclusione di un’impresa affascinante, quel richiamo dubitativo al riconoscimento del ruolo del fotografo, al suo contributo autoriale, che forse Monti percepì come negato o almeno ridotto a  quello di semplice esecutore, dovette costituire un ostacolo insormontabile  per la sua etica professionale, per la sua deontologia. Monti si sentì relegato al ruolo di semplice esecutore, essendogli negata la “possibilità di formare”, di “divertirsi liberamente con questo mezzo straordinario di riproduzione, ma anche di creazione delle forme più varie e nuove. (…) Le fotografie professionali non possono che avvantaggiarsi dell’esperienza visiva di un fotografo che consuma almeno  una parte del suo tempo e della sua passione per l’esperimento, per la scoperta di nuove forme della visione”[309]. Non prelievi o astrazioni dalla natura quindi ma realizzazioni ex novo, sebbene qui il punto focale non fosse rappresentato dalla verifica delle operazioni fotografiche ma dalle variazioni sul tema delle combinazioni cromatiche sperimentalmente controllate, diversamente da quanto andavano proponendo altri autori italiani stimolati e sostenuti dalla produzione di pellicole fotografiche a colori da parte della Ferrania[310]. Si riferiva certo a quell’esperienza quando scriveva, nel 1963, di  “colore come nuovo mezzo espressivo (…). Il colore fotografico come favola, fantasia, invenzione (…) non documento ma invenzione visiva, da un realismo quasi magico all’astrazione”[311] (tavv. 072, 073). Quasi una didascalia a quelle lunghe sequenze di immagini realizzate per la Sandoz su pellicola di grande formato (9×12)[312] di fluidi a contrasto, di sfocature di vetri colorati, di colature di forte apparenza materica, di “melange di colori” di diversa natura e andamento, ma anche di più drammatiche diffrazioni ottenute fotografando fogli accartocciati di cellophane (1958-1959). Ne risultavano due distinti ambiti di indagine, come avrebbe lui stesso ricordato nella sua ultima intervista: “uno è il campo delle varie materie e l’altro campo è quello della diffrazione della luce, cioè il fenomeno della luce solare che si scinde nei suoi elementi passando attraverso delle piccole fessure. E così si possono fare delle fotografie che io metterei a livello della migliore arte astratta degli anni passati o dell’informale, con la differenza che non c’è niente di astratto, perché la fotografia non fa mai l’astratto, perché la fotografia fotografa sempre quello che esiste e quindi anche quando si fa una fotografia di una forma astratta si fa una fotografia reale perché non è che sia disegnata, è davanti all’obiettivo”[313].   Così chiudeva il cerchio, mostrando tutta la convenzionalità delle etichette e delle terminologie, e producendo immagini che solo per povera convenzione terminologica possiamo definire astratte, essendo consapevoli che l’atto fotografico implica sempre una registrazione. Ciò che quelle immagini mostrano (che è cosa ancora diversa da ciò che noi vediamo) è l’esito di una restituzione del dato reale mediata dall’ottica e dalla chimica (che qui è quella dello sviluppo cromogeno), mai un’invenzione pura come accadrà più tardi con i chimigrammi,  misurandosi direttamente con le superfici sensibili, andando alle origini del processo fotografico. Qui Monti lavorava con composti chimici e materie plastiche, con filtri colorati o polarizzati, si muoveva tra estrema prossimità e massima distanza dalla cosa fotografata, controllava luci e movimenti di macchina ed era dall’interazione tra tutti questi elementi – compreso il dato reale, esterno, così come la materia della carta fotografica  – che nascevano le figure. La sua cultura visiva, gli stimoli suscitati dalle correnti pittoriche più attuali (dall’astrattismo all’informale, all’espressionismo astratto) entravano in gioco al momento dello scatto e forse della selezione successiva. Una suggestione più precisa determinava poi il momento e i modi del taglio operato nel continuum spazio temporale per definire l’immagine finale, della quale erano preordinate le condizioni ma non gli esiti.

 

Muri, Manifesti, Materie

Ritornando a considerare il patrimonio bibliografico  posseduto da Monti relativo ai primi tre lustri della sua attività professionale, si nota una significativa trasformazione nelle categorie, nei generi che lo compongono:  nella manualistica prevalgono i testi specificamente dedicati alla pratica professionale[314], ma soprattutto aumentano i titoli propriamente fotografici, con molti volumi della Guilde du  Livre e delle edizioni Clairefontaine di Losanna[315], ben note per la qualità della loro stampa in héliogravure. A quelli  si aggiungono alcuni,  purtroppo inspiegabilmente pochi, tra i più noti titoli di quel decennio, come Les Parisiens tels qu’ils sont di Robert Doisneau, Da una Cina all’altra di Henri Cartier-Bresson, Le village des Noubas di George Rodger o The sweet Flypaper of Life di Roy de Carava e  Langston Hughes, mentre sorprendentemente mancano all’appello Un paese di Strand e Zavattini[316],  la New York di Klein (di cui possedeva Roma)  e Gli Americani di Frank, neppure nell’edizione italiana.  Un più utile indizio di un interesse sempre più consapevole e preciso per le ricerche sperimentali è la presenza non tanto dei volumi dedicati alla Subjektive Fotografie[317] quanto di quelli di autori tra loro tanto diversi quali Hayek Halke, Kepes e Brassaï [318].  Se col primo è più difficile cogliere analogie nella sua produzione più nota (tranne forse che in alcune doppie  esposizioni del ciclo dedicato a Meme, di certo tra le sue prove meno riuscite),  le sistematizzazioni di Kepes e la sua stessa opera  hanno costituito un punto di riferimento per le  sue  più analitiche sperimentazioni, mentre i Graffiti di Brassaï, pur nella diversità di presupposti e intenti non potevano non suscitare una eco suggestiva in un autore come Monti che si dichiarava, con un velo di ironia “un collezionista di foto di muri, di manifesti”[319].  Tra i libri della biblioteca di Monti c’è anche  Le paysage en photographie, 1947, di Daniel Masclet, con foto in cui muri, case sventrate e palizzate costituivano pretesti per la costruzione di composizioni sempre meno narrative, più ‘astratte’. Certo l’autore francese fu un importante punto di riferimento e non è difficile trovare analogie con il trattamento dei muri che connota alcune vedute veneziane o dei piccoli centri della laguna realizzate negli anni de La Gondola[320], quando la materia delle superfici aveva un ruolo ben definito nella strutturazione dell’immagine; ma si trattava ancora di un mero accidente, di un inevitabile accessorio del referente, sebbene trattato con particolare attenzione. “I  «muri» delle vecchie isole della laguna  (che ispirarono un mestissimo e vibrante cortometraggio a Michelangelo Antonioni, regista nato da una cultura non dissimile a quella del Nostro) – scriveva Turroni[321] –  si stagliano poveri e squallidi, pietra su pietra, ciuffo d’erba su fiori e graffiature.”  Turroni ritornava sul tema  in quello stesso anno con un articolo su “Ferrania” [322] nel quale ribadiva che “l’aspetto formale, è in Monti la visione stessa. (…) Il mondo di Monti (…)  si contorce, si intellettualizza vieppiù. Dal lirico naturalismo di prima egli trascorre a un astratto espressionismo. La lezione di più progredite culture straniere (…) in lui si macera nella visione formale, si cristallizza in una estrema e amara dialettica intellettualistica. L’oggetto non è più descritto ma interpretato come ‘occasione montaliana’, [così che]  una roccia, un lago, un muro, un po’ di neve, è come perdessero, per noi, la nozione elementare di oggetti quotidiani per diventare simboli di sé stessi, inchiodati alla forma irripetibile di una rabbiosa introspezione.” Una lettura che gli veniva dalle stesse parole di Monti citate nel testo:   “In sostanza è mia ferma opinione che  non c’è cosa più lontana dalla realtà fisico fenomenica di molte fotografie che ritraggono questa realtà alterandone tutti i rapporti per il solo fatto della trascrizione fotografica. Naturalmente questa trascrizione non è automatica, meccanica, frutto dell’ottica-chimica, ma è invece una particolare visione di mondo esterno che trova nel mezzo fotografico il modo di concretarsi. È logico che visione e tecnica finiscano col reagire l’una sull’altra. La prima costringe la seconda a adeguarsi a ciò che si vuole esprimere, ma la tecnica da parte sua può all’improvviso suggerire nuove soluzioni visive.” Più convenzionale  e semplicistica la lettura di quelle  particolari “espressioni riflesse di un dato realistico” offerta nel volume antologico del 1959[323], dove Turroni distingueva i muri veneziani che “sembrano fondali di palcoscenico”, dai successivi, milanesi, dei quali riconosceva che “non vengono scelti come fondali”  di un impossibile teatro, anzi in quelle fotografie “c’è molta tristezza (…) una tristezza  laboriosa ma non sorda”,  rinunciando a ogni possibile suggestione analogica o pittorica. Si potrebbe invece riconoscere, e dire, che poco alla volta era la materia di quelle superfici a diventare protagonista (Muro e albero, 1955 ca,  tav.075;  Treviso, 1949, tav. 076, progressivamente autonoma, liberata da ogni connotazione narrativa anche in casi quali Muro, 1950 ca, tav.077,  o Muro in Rio Terrà dei Pensieri, 1949, tav.  078,  in cui la presenza di parole o disegni graffiti avrebbe potuto riportare al racconto o almeno mostrare un qualche interesse per la connotazione semantica[324], consentendosi al più un esplicito gesto citazionista, come in quell’ Omaggio all’Informale realizzato a Milano nel 1953 che rimandava  esplicitamente a Franz Kline[325], o una reinterpretazione simbolica di una traccia gestuale, come La cometa, 1957 (tavv.079, 080)[326]. Ognuna di queste immagini ci appare  come un’epifania che mostra   “quello che è avvenuto, ma quello che è avvenuto nel momento in cui il fotografo era presente”,  come in Muro e nuvola (tavv. 081, 082), che era scoperte di un attimo  reinventato in camera oscura, sfruttando positivamente quella che nel suo intervento al convegno di Sesto San Giovanni aveva identificato come “la limitazione della fotografia”[327]. Erano accidenti offerti dal caso all’interpretazione dell’occhio, come quelli quasi coevi di Aaron Siskind  e di Lucien Hervé[328], o quelli che aveva incontrato sulla sua strada Walker Evans[329], ricavandone una serie di “wry compositions” (composizioni contorte) certo lontane dall’espressionismo di Monti, così come lo erano (nelle intenzioni e negli esiti figurativi) i Muri di Nino Migliori, che in quegli anni, pur parallelamente  impegnato sul doppio fronte del racconto sociale e della fotografia ‘concreta’,  erano per lui non solo  “un modo di manifestare l’avversione al tipo di fotografia contemporanea, al pittorialismo, al salonismo fotografico, e anche alla foto detta realistica ma basata su una ricerca estetizzante e non su un’analisi del reale”, ma anche – e qui le analogie con Monti si facevano più forti –  un’occasione e un modo per cercare “il passaggio del tempo, cioè la disgregazione della materia-muro dovuta alle intemperie, alle piogge, agli sfregamenti, ma ricercavo anche il passaggio dell’uomo (…) registravo ciò che era successo”[330]. Una produzione che aveva immediatamente attratto gli osservatori più attenti come Alfredo Camisa, che a proposito della vittoria di Migliori alla  IV Mostra Nazionale Premio Città di Padova del 1958, che lo vedeva tra i giurati,  scriveva: “Sentiremo parlare dei muri graffiti di Brassaï, forse dei muri di Monti, ma crediamo egualmente nell’originalità di questi muri, di questi muri veri, che parlano più di tanti formali ritratti o di tanto reportage non sentito”[331]. A questi nomi ormai noti va ora aggiunto quello di un outsider come Catone Ramello, riscoperto da Zannier su segnalazione di Paolo Gioli[332], che nel 1958 partecipò con Silvia Brown e Giorgio Giacobbi ad una mostra alla Galleria dell’Opera Bevilacqua La Masa (22 febbraio – 15 marzo) con fotografie di “muri veneziani”, a proposito delle quali Giuseppe Marchiori riconosceva  che l’autore si era “fatto un occhio ‘moderno’ frequentando gli studi dei pittori e leggendo molti libri sull’arte (…). A lungo interrogammo insieme i muri della città, i cantieri, le piccole botteghe degli artigiani, i luoghi sconosciuti, gli atri, le scale, i cortili, i campielli, i canali, che nessuno ‘vede’, perché non sono nemmeno pittoreschi. (…) Ramello ha voluto fissare per sé quei momenti e, forse senza pensarlo, li ha fissati anche per gli altri. Chi vorrà, potrà stabilire una serie di rapporti ideali con le differenti espressioni  dell’arte contemporanea e riconoscere in esse i più caratteristici valori ‘simbolici’ della modernità.” Il critico in quell’occasione non chiamava in causa i lavori di Monti, che invece avevano “estasiato” Ramello, sebbene all’epoca fosse troppo “timido e apprensivo” per poter anche solo osare di  entrare nella sede de La Gondola, “nemmeno trascinato con la forza”[333].

Alla Mostra della fotografia Italiana del 1953 Ferroni aveva esposto una Architettura della materia (n.7), che era la ripresa ravvicinata di un ceppo tagliato a colpi di scure. Più che un indizio dell’influenza che su di lui ebbe Monti, che in quegli anni trovava nelle diverse configurazioni dei Legni infinite occasioni di ricerca personale, da affrontare secondo intenzioni diverse. Così nei due tronchi bruciati fotografati ad Anzola d’Ossola (tav. 066), immersi nel paesaggio da cui si distaccano con la loro presenza scultorea, la forma e la materia risultavano espressione di un dramma, come fu già in Snag Near Scotia, 1938 ca, di Ansel Adams.  Tutte rivolte all’indagine delle superfici erano invece altre fotografie dello stesso periodo (tav. 083) nelle quali la materia quasi era presentata di per sé, senza altre elaborazioni che non fossero già nell’inquadratura, come accadeva anche nelle Chiome di pioppi (tav. 084), la cui leggerezza argentea si trasformava in corpo mantenendo la sua levità. Più evidenti interpretazioni espressionistiche, frutto di precisi interventi in stampa che reinterpretano i provini (tav. 085),  sono riconoscibili invece in Legno (tav. 086), che rivela forti rimandi (o richiami) ai Legni e le Combustioni di Alberto Burri, tra 1956 e 1958[334], e soprattutto nella serie dedicata alla Natura del legno (1953-1957) della quale Turroni pubblicò un esemplare nel suo Nuova fotografia (fig. 150), quindi certamente con l’assenso se non con la supervisione di Monti, in una disposizione che col porre i due nodi chiari nella parte alta dell’immagine ne accentuava la connotazione antropomorfa, mentre altre versioni della stessa immagine presentano un’inversione alto/ basso che ne accresce l’effetto di astrazione[335]. Certo è che il soggetto da cui  era più attratto, sul quale ha lavorato più a lungo con presupposti diversi è stato quello delle Rocce (tavv. 087, 088, 089); la materia più antica, segnata dal tempo. Un repertorio di forme disponibili dal quale a volte faceva emergere un dialogo, magari aspro, tra organico e inorganico, tra vegetale e minerale; un’occasione per riflettere e restituire in sintesi il confronto tra tempo biologico e tempo geologico. Un affidarsi alla forma per innescare una meditazione  esistenziale[336]. Qui torna a proposito la notazione coeva di Turroni, che  riferendosi ad analoghi lavori scriveva di “forma di reminiscenze astratte mai sopite (la materia oggi pare a un artista moderno sempre la forma di un contenuto astratto, e viceversa: una macchia su un muro è una zona di colore; per un fotografo come Monti, è un «nero» concreto, intoccabile, immobile nello spazio)”[337], ribaltando infine la nota categoria critica statunitense per parlare invece – come si è visto – di “astratto espressionismo”. Questa interpretazione critica appariva però  incerta, forse non pienamente convinta, se solo due anni più tardi parlando de “l’ultimo periodo di Monti [che] è contraddistinto dalla serie delle rocce, delle pietre, delle muffe”, ne riconosceva le  derivazioni “dalla pittura informale, nucleare, concretista, che dir si voglia. (…)  [Monti] vuole trasmetterci la bellezza delle cose, che lo sguardo spesse volte non coglie, tanto è distratto dalle apparenze, dalle esteriorità”, per concludere infine – con una notazione che il fotografo non credo potesse condividere – che “in questo, Monti si avvicina – per una prestigiosa abilità tecnica – alla fotografia scientifica”[338].

Il dibattito relativo allo statuto estetico di quel genere di immagini era in quegli anni particolarmente vivo, polarizzato intorno a due opposte interpretazioni. Per  Umberto Eco  “l’artista che scopre la natura come formatrice è dunque in fondo un critico dalla intuizione sicura che scopre analogie tra i comportamenti dell’arte e quelli del caso, e carica i secondi delle intenzioni dei primi (…); il fotografo colto e sensibile, attento alle tendenze stilistiche della pittura contemporanea, gira per la strada e individua accadimenti materici di indubbia suggestività. E da un lato li trova, e inquadrandoli, scegliendoli li propone, dall’altro li costruisce effettivamente poiché fotografandoli completa le possibilità del materiale con la scelta di una angolatura, di un dato tipo di luce, di un maggiore o minore ravvicinamento all’oggetto”[339]. Opposta l’opinione di Giuseppe Marchiori, per il quale “a un certo punto, col gusto che corre, si rischia di scambiare un ‘oggetto trovato’ con una vera scultura. (…) L’informe assume una forma, che gli scultori del nostro secolo hanno rivelato, mettendone in luce l’armonia e la bellezza. (…).  Ma lasciamo le radici nei boschi e i sassi nei fiumi, nel loro ambiente più vero. Collocati nelle mostre alimentano assurdamente il paradosso della natura che imita l’arte”[340]. Certo il critico veneto non si riferiva alla fotografia anzi, con scelta per più versi ambigua, l’articolo era illustrato proprio da una serie di fotografie di “accadimenti materici” di Monti, che si direbbero selezionate quale ‘documento’, quale esempio possibile di “oggetto infernale, misterioso e simbolico, che eccita la fantasia, ma che non induce alla contemplazione”, senza tener conto del forte, intenzionale carico interpretativo dell’autore fotografo a cui invece si riferiva Eco. In anni a noi più prossimi è stato Claudio Marra[341] a sostenere che “non convince l’interpretazione naturalistica dell’Informale avanzata da Eco [ma che già fu di Francesco Arcangeli[342]], e soprattutto non funziona perché alla fine le fotografie di muffe, ruggini e quant’altro, pur nascendo secondo lo statuto anti-pittorico proprio del ready-made, finiscono per risultare apprezzabili in quanto del tutto simili alla superficie di un quadro informale.” Se è ammirevole l’intento di superare le più superficiali letture analogiche, questa tesi offre però nel complesso una plausibilità critica più apparente che teoreticamente fondata per almeno due non secondarie ragioni: a fronte di queste operazioni, di questi prelievi reinterpretati, pare improprio richiamare lo statuto specifico del ready-made, mentre sarebbe semmai più fecondo adottare quello di object trouvé rielaborato, come lascia facilmente intendere, considerando anche il significato e il senso della materialità delle cose, proprio l’incommensurabile distanza tra  la superficie di una stampa fotografica e quella di un dipinto informale.  E infine, e soprattutto, è da tempo venuto il momento di smetterla di porre la questione in questi termini riduttivi e schematici di ‘combattimenti’ tra arti visive per provare a misurarsi con le ben più complesse e osmotiche culture dell’occhio.

Poi, dalla metà degli anni Cinquanta, i muri divennero elemento e supporto di altre “astrazioni involontarie”, una locuzione a cui Monti ricorreva sovente in quel periodo, tanto da  far supporre un progetto di serie poi non realizzato, come sembra suggerire anche una delle categorie del suo soggettario per le pellicole in formato 6×6 che recita “Astratto nei manifesti”. Con quel titolo identificava quello che era  forse il suo primo esempio di fotografia di questo soggetto, del quale conosciamo almeno due varianti, diverse per inquadratura e contrasto tonale, a conferma ulteriore del suo costante processo di elaborazione nel passaggio dalla ripresa alla stampa finale[343]. In quelle prime immagini – ma anche in Manifesto strappato, 1955 (tav. 093) e Fine di un manifesto,1962-1965 (tav. 094) – l’oggetto era presentato decontestualizzato, esaurendo in sé  le ragioni dell’inquadratura ed era dotato di una sua elevata figurabilità.  Certo quella Astrazione involontaria (così la titolazione autografa) richiama irresistibilmente alla mente i lavori di Mimmo Rotella e di altri artisti che confluiranno nel gruppo del Nouveu Réalisme di Pierre Restany, presentato per la prima volta a Milano  alla Galleria Apollinaire nel 1960, ma il senso di questa “astrazione”  appare lontano dalle ragioni di quei décollage, a proposito dei quali  Restany  parlava  di “moralità intrinseca del gesto dell’artista (…) ancor più dell’emergere, nel manifesto lacerato, di nuove forme direttamente scaturite dalla realtà sociologica, capaci solo per questo di trasformare radicalmente la nostra visione dell’universo che ci circonda (…); in una parola, ancor più di questa efficace e poetica ricarica della realtà, Rotella ci trasmette un messaggio di cultura, di umanità e di speranza”[344]. La visita alla personale dell’artista alla Galleria del Naviglio[345] di Milano nel 1955  poteva aver  confermato a Monti le possibilità  di questi soggetti come materiale artistico, ma vanno considerati due altri aspetti di non secondario rilievo. Come accade per le architetture, anche la maggior parte delle sue fotografie di manifesti strappati è in bianco e nero[346]; non si presentano quindi come un  prelievo, come  un object trouvé ricontestualizzato e risemantizzato, ma come l’esito di un processo di astrazione che libera l’oggetto dal contingente preservandone la sola natura di traccia di una ‘cosa’, senza alcuna intenzione o funzione emblematica, esistenziale. Non va dimenticato inoltre che i manifesti di spettacolo (dal vaudeville al cinema e al circo), specie nella loro condizione degradata da strappi e lacerazioni casuali (quasi l’esito di una scrittura automatica) avevano costituito un tema non così inconsueto nella produzione fotografica di molti maestri statunitensi, da Edward Weston (Pulqueria, 1926) a Walker Evans (Torn Movie Poster, 1930); da Frederick Sommer (Orminda, 1947; Venus, Jupiter and Mars, 1949) al Willian Klein di New York, (1956) e Tokyo (1961). Autori che si confrontavano con un paesaggio urbano più precocemente segnato dalla grafica di comunicazione di massa, quella stessa che si sarebbe imposta in Europa solo negli anni del secondo dopoguerra. Della genesi ‘realistica’ di quelle immagini avrebbe parlato lo stesso Monti, ricordando che “quand’era di moda l’astratto e l’informale, espressioni che ancora altamente stimiamo, le soddisfazioni non mancavano e sono molte tutt’ora. Macchie, manifesti strappati, lebbre preziose di colle e umidità varie e anche immagini surrealiste uscite dagli strappi multipli di manifesti sovrapposti. Collages o meglio décollages di alta qualità e grandi dimensioni per la delizia dei solitari camminatori notturni”[347].  Da questo brano  emergono molte suggestioni  e rimandi a una possibile genealogia iconografica, ma soprattutto riecheggiano ancora le parole di Eco a proposito della  macchina fotografica, che “ora viene invitata a trovare occasioni informali, macchie, graffiti, tes­siture materiche, colate, graffi, scrostature, secrezioni, gromme, stria­ture, lebbre, escrescenze, microcosmi di ogni specie approntati dal caso sui muri, sui marciapiedi, nella fanghiglia, sulla ghiaia, sui legni di vecchie porte, sulle massicciate o nelle colate di catrame non anco­ra steso, variamente calpestato e rappreso” [348], innescando un processo di riconoscimento ben descritto circa gli stessi anni da Ernst  Gombrich nel momento in cui riconosceva che ” l’arte è una fonte frequente di nuovi interessi. Artisti contemporanei come Rauschenberg sono rimasti affascinati dai motivi e dalle trame dei muri degradati, con i loro manifesti strappati e le macchie di umidità. Sebbene non mi piaccia Rauschenberg, devo ammettere con disappunto che non posso fare a meno di notare questi elementi in modo diverso da quando ho visto i suoi dipinti. Forse se la sua mostra non mi fosse così dispiaciuta, il ricordo sarebbe svanito più rapidamente. Poiché il coinvolgimento emotivo, positivo o negativo che sia, favorisce sicuramente la memoria e il riconoscimento”[349]. Diverse nella concezione e nel senso erano invece altre riprese milanesi tra anni Cinquanta e Sessanta nelle quali il manifesto pubblicitario veniva  letto come elemento costitutivo della scena urbana;  quasi che Monti avesse voluto realizzare un reportage dedicato a quell’ “aspetto effimero ma importante del paesaggio cittadino” di cui diceva Argan[350], attento specialmente a sottolinearne la funzione di controcanto (Manifesti a Milano, 1957, tav. 097), secondo una linea genealogica  rintracciabile in  alcune riprese di Giuseppe Pagano[351] come dei fotografi della Farm Security Administration.

Tra incarichi professionali e ricerche personali  si dipanava in quegli anni tutto l’arco dell’attività montiana, dalla fotografia di  architettura alla grafica editoriale e pubblicitaria, di cui è ottimo esempio quella Sovrimpressione d’un albero, 1953 (tav. 098)[352], che nel 1962 venne utilizzata come copertina per il disco della Capitol dedicato alla Sinfonia concertante di Joseph  Jongen (tav. 074) . L’immagine presenta forti analogie con  Multiple Exposure Tree, Chicago, 1956, di Harry Callahan (tav. 099)[353] sia per quanto riguarda le modalità di realizzazione – ottenuta per mascheratura e rotazione in fase di stampa – sia nel titolo, che risulta una traduzione quasi letterale nelle due lingue della stessa operazione. Non sussistono ad ora elementi per comprendere se si sia trattato di  un interessante (e certo non nuovo) caso di ‘migrazione’ iconografica, senza che sia dato comprenderne la direzione, ovvero dell’esito sorprendentemente coincidente di ricerche condotte parallelamente dai due autori, come sembra indicare l’appartenenza di ciascuna di queste immagini a serie più ampie e variate, che in Monti comprendevanoanche esemplari a colori, sebbene dai risultati meno convincenti.

Era stata proprio quell’ostinata capacità di non disgiungere urgenza espressiva e pratica professionale che lo aveva di fatto imposto come modello per molti e come la figura più autorevole della fotografia italiana, a partire almeno dal 1959, anno dell’edizione italiana del volume di Pollack, della partecipazione alla mostra Photography at Mid-Century[354],  e della celebrazione fatta dall’amico  Turroni, sebbene poi in quelle occasioni fossero proprio le esperienze più innovative ad essere taciute o almeno poco considerate. Fu la pratica sperimentale a costituire l’elemento di continuità dell’operare di Monti, a segnarne la volontà continuamente ribadita di mettere alla prova le proprie competenze come di verificare le potenzialità linguistiche che potevano scaturire dalla  “violazione di tutte le consuete norme tecniche”.  Ciò che  mi pare  gli studi precedenti hanno indicato in modo meno chiaro, presentandoli quasi come due aspetti schizofrenicamente separati, è però il fatto che quelle ricerche oltre ad avere una valenza autonoma erano strettamente collegate alla pratica professionale. Si trattava di “fotografia sperimentale in bianco nero e colori per associazione alla grafica e alla pubblicità”, come lui stesso scriveva nella breve nota biografica redatta per la mostra a Il Diaframma del 1967. E poi, basti considerare le date: se escludiamo alcune solarizzazioni variamente trattate, debitrici del Veronesi più ‘naturalistico’ degli anni de La Bussola[355], vediamo che le prime verifiche sperimentali (stampe in negativo[356], fotogrammi, sfocature e movimenti di macchina con effetti di mosso controllato) risalivano tutte agli anni successivi al suo passaggio al professionismo