Tempo / Materia: Fotografia (2012)

in Barbara Cattaneo, a cura di, Il restauro della fotografia. Materiali fotografici e cinematografici, analogici e digitali, Firenze, Nardini Editore, 2012,  pp. 9-14

 

L’assunto che ogni intervento di restauro non possa che darsi a proposito della sola “natura materiale delle singole opere”[1], costituisce ormai una posizione metodologica tanto consolidata da apparire ovvia e teoricamente aproblematica. Coerente a ogni rinuncia alla velleitaria intenzione di restituire qualsivoglia originalità originaria, nella consapevolezza che l’accessibilità storica e culturale al processo di produzione e di prima ricezione dell’opera non può che essere un’approssimazione alla continua ricerca del proprio limite[2]. Accanto a questa vive, indissolubilmente legata, la coscienza delle ragioni della sua permanenza, della sua presenza vitale nella cultura contemporanea[3]: ragioni su cui si fondano le stesse intenzioni di operare per la sua conservazione nel tempo, per la sua trasmissione alle generazioni future.

Stabilita l’inevitabile materialità dell’intervento di restauro[4], resta da comprendere cosa ciò possa significare quando si parla di fotografia. Sono almeno due le grandi classi di ragioni che è necessario considerare, qui per sommi capi, provando dapprima a chiedersi quali siano gli elementi costitutivi di questa particolare categoria di immagini che per più ragioni chiamiamo sensibili:

  • Il Tempo, che ne è l’elemento determinante, il vincolo assoluto in cui ogni fotografia accade, in cui l’immagine irreversibilmente si forma.
  • La Materia, il corpo tecnologico dell’oggetto, di volta in volta semplice ma non neutrale supporto fisico, componente espressiva o vero e proprio soggetto dell’operazione fotografica, ma anche presenza assente nella matrice digitale, che non si consuma.

Il tempo di ogni fotografia è molteplice: dalla produzione alla ricezione, per quanto dilatata, ma ciò che ora interessa maggiormente, ciò che più da vicino tocca queste riflessioni sono due altri ordini di problemi temporali. Restauro e Fotografia non solo sono stati definiti nel medesimo contesto storico, ma condividono un’analoga relazione col Tempo; anzi  – più in particolare, più intimamente – non con la condizione sostanziale o rappresentativa dell’accadere, bensì dell’accaduto, di ciò che è stato e che quindi, solo per questo, risulta inattingibile[5]. È questo l’orizzonte in cui è stata pensata, si può pensare anche l’analogia tra morte del corpo e fotografia: è qui e non c’è più è il pensiero che accompagna lo sguardo che si posa sul corpo privo di vita. Rimane una presenza nella quale riconosciamo, per certi gradi, sotto alcuni aspetti una somiglianza con una realtà che (forse) abbiamo conosciuto. Una certa relazione; un rapporto che è insieme traccia e memoria. Il corpo, la fotografia sono traccia e figura, simbolo a volte, di un accaduto di cui si ha memoria e ricordo. È proprio la Fotografia in quanto “oggetto di antiquariato istantaneo”, secondo la ben nota definizione di Susan Sontag, a illuminare, a certificare l’impossibilità del Restauro in quanto disciplina e in quanto teoria, quando questa pretende di volgere all’indietro non lo sguardo ma il percorso dell’angelo della storia. Ancor più problematica e incerta si fa la questione, ancor più improprio il ricorso a questo concetto quando accade, come per la fotografia, che proprio il corpo vitale dell’immagine, la sua materia signata nel tempo (non: dal tempo), la sua natura di traccia non possa essere sottoposta ad alcun trattamento che non sia di conservazione delle condizioni di esistenza del bene. Oltre quel “nulla di oggetto” che è l’immagine tutti i fototipi hanno una loro matericità che è tutto meno che indifferente, ma la cui considerazione non per questo risulta così ovvia e scontata. Se da un lato la materia e la tecnica che di volta in volta hanno contribuito a definire ogni immagine fotografica, dal punto di vista produttivo quanto linguistico e – in certi casi – in precisi termini di poetica e stilistici (si pensi alle tecniche pittorialiste, per esemplificare) sono oggetto di un’attenzione ampiamente condivisa, dall’altro la vicenda storica della fotografia ha solo in rari casi fatto i conti in modo esplicito con la sua corporeità, non limitandosi  a considerarla come mero dato o vincolo tecnico, ma quale territorio di possibile indagine ed elemento di espressione linguistica: dal cliché-verre ai frottage alla vasta categoria dei chimigrammi, ossidazioni e pirogrammi. Credo invece che una riflessione sul ‘restauro’ della fotografia non possa evitare di misurarsi anche con le implicazioni poste dal confronto con questi procedimenti e con le opere che ne sono derivate, alla ricerca di elementi di chiarezza che possano sostenere la consapevolezza critica necessaria a intervenire su questa particolare tipologia di beni. Ciò che mi pare strumentalmente interessante nell’accennare ai problemi posti da queste fotografie ‘pure’,  concrete[6], svincolate da ogni possibile, disorientante analogia per “liberare la forma sconosciuta della materia”[7],  è che qui processo, figura e materia coincidono al massimo grado, mentre il tempo continua ad essere quello della generazione dell’immagine stessa, sebbene liberata da ogni apparato ottico[8]. L’assoluta autoreferenzialità di queste immagini, dove la presenza dell’autore passa dallo sguardo al gesto, costringe ancor più a fare i conti con l’impossibilità di ogni ri-costruzione e  testimonia in modo inequivocabile quale sia stata l’incidenza dei materiali costituenti nella determinazione delle caratteristiche di ogni immagine fotografica, ben oltre il tempo dei pionieri. Queste particolari fotografie, che non possono trovare corrispondenza in ambito digitale, costituiscono a mio parere l’ulteriore conferma del fatto che è impossibile sostituire materia fotografica con altra materia fotografica dopo il suo trattamento (esposizione – sviluppo – fissaggio). L’atto fotografico che ha generato l’immagine non può essere ri-fatto; l’informazione registrata dal supporto fotosensibile non può essere sostituita. “Ciò che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta”[9]: è nell’irreversibile trasformazione dei materiali sensibili che avviene in quel momento che si definisce la fotografia; quando Tempo e Materia interagiscono facendo sì che ogni fototipo non possa darsi che quale esito di quel singolo e unico processo fotochimico, cioè materiale (e irreversibile, ma di questo diremo), accaduto in quel tempo. In ragione di questo processo ontologico diventa illusorio pensare di poter intervenire sulla materialità del bene quando questo è un fototipo: poiché nella Fotografia materia e tempo concorrono inestricabilmente a determinare l’opera, il solo elemento su cui pare possibile intervenire non può che essere il supporto. Il restauro della Fotografia è una contraddizione in termini[10].

Intorno alla questione fondamentale dei materiali fotosensibili si misura anche la distanza con le immagini realizzate con un dispositivo digitale, che condividono con quelle analogiche il solo momento della generazione ottica della traccia, essendo invece inconcepibile – come si è detto – ogni realizzazione off-camera. Quando il supporto fotosensibile manca (o diviene radicalmente altro, come nel digitale) credo non abbia più senso parlare di processo fotografico in senso proprio, mentre resta possibile e quasi ovvio parlare di pratica fotografica, ma solo in termini socioculturali, che qui non interessano[11].  Credo sia un errore grave sottovalutare le implicazioni che derivano dalle incommensurabili differenze tra paradigma analogico e paradigma digitale:  non è possibile assimilare le emulsioni fotosensibili, in cui l’energia luminosa determina delle modifiche strutturali stabili, di fatto irreversibili, a un sensore destinato a tradurre quella stessa energia in informazione codificata mantenendo immutata la propria struttura e a trasferire successivamente i dati a un supporto insensibile, in grado di registrare informazioni di qualsivoglia natura.  È la tecnologia dei materiali e dei processi che determina cosa sia o non sia un fototipo e allora, come già fu alle origini, credo che il problema sia sempre quello del fissaggio: può una sequenza numerica considerarsi ‘fissata’ così come la dimensione e la posizione di una molecola di argento o di gomma bicromatata dopo il trattamento? Tra agonia della stabilità analogica e definitivo sopravvento dell’instabilità digitale oggi pare che non si sappia bene che cosa sia, a cosa  dare il nome di fotografia (e a partire da quali condizioni), apparentemente incapaci di comprendere le differenze, e le conseguenze, tra irreversibilità del processo fotochimico e reversibilità indifferente del processo digitale. Questo però è un discrimine che è indispensabile riconoscere e su cui si deve riflettere anche – e forse specialmente – in termini di conservazione e restauro.

Posto che non è astrattamente in discussione lo statuto di bene culturale delle immagini digitali, ciò che qui interessa considerare sono le implicazioni connesse alle due tipologie di beni, le cautele necessarie per affrontare in modo criticamente attrezzato queste evenienze, a partire proprio dalla necessità di considerarne e comprenderne la diversa natura, oltre le apparenze formali[12].

L’immagine analogica, in virtù della sua natura di traccia fisico chimica non è restaurabile, ciò che invece risulta possibile con quella digitale, rispetto alla quale si può intervenire sui singoli elementi codificati, esattamente riproducibili, ripetibili all’infinito, in un processo che può portare l’intervento sino a sfiorare il limite pericoloso della copia perfetta, del rifacimento integrale e indistinguibile, secondo un iter sostitutivo che sovrappone l’identità nuova alla preesistente sino a cancellarla senza lasciare tracce[13]. Questa ‘disponibilità’, derivata dal sistema notazionale proprio della matrice digitale implica e comporta anche la trasformazione dello statuto di questi beni, che passano dal regime autografico proprio dell’analogico, per il quale aveva senso parlare di riproducibilità,  a quello allografico, più pertinente al digitale[14], in cui la stessa idea di replica perde di senso risultando ciascuna nuova occorrenza indistinguibile dal primo esemplare. È chiaro come questo ordine di problemi investa, anche in termini conservativi e di tutela, la questione della difficoltà nel definire – nei differenti ambiti – cosa si possa intendere per matrice originale, replica e copia così come sulla distinzione tra immagine e opera, tra il contenuto referenziale della prima, che possiamo pensare identico in ogni sua manifestazione, e il  significato e il valore individuale di bene  (senza voler affrontare questioni di valore artistico o estetico, qui ininfluenti) che contraddistingue, ma non necessariamente distingue ciascuna delle sue occorrenze, ognuna segnata da una particolare storia di produzione che può avere o non avere influito sulla sua determinazione attuale[15].

Da queste specificità del fotografico anche nel contesto del restauro è possibile far derivare conseguenze importanti, rese ancora più urgenti dall’avvento del digitale. Ribadita la necessità metodologica di fondare sulla consapevolezza critica del bene come documento/ monumento ogni programma di intervento sul manufatto, in prima approssimazione si può ritenere che:

  • In presenza di fotografie analogiche, cioè di fototipi si può procedere solo alla salvaguardia dello strato immagine, mentre l’eventuale intervento di restauro conservativo si applica alla materialità dei diversi supporti presenti, nelle più diverse accezioni e gerarchie.
  • In presenza di immagini digitali è possibile distinguere le modalità di intervento tra matrice e stampa. In presenza di un file danneggiato si può procedere a interventi di restauro richiamandosi alle metodologie classiche, integrando cioè eventuali lacune con elementi di identica natura (bit) senza alcuna perdita di informazione, a ulteriore dimostrazione dell’incommensurabile diversità intrinseca dei due media. Anche le stampe derivate, almeno quelle non realizzate con processo fotografico[16], possono essere restaurate mediante integrazione pittorica delle lacune, ma evitando accuratamente l’incauto riaffiorare delle lusinghe del restauro stilistico.

Non rientra nelle mie competenze illustrare né tento meno discutere le metodiche di intervento,  i loro limiti e i problemi connessi, ma qualche parola andrà ancora spesa per delineare almeno sommariamente altre implicazioni metodologiche  celate sotto la traccia delle prescrizioni e delle tecniche di intervento.

Oggi nessuno più potrebbe definire il restauro come il “procedimento tecnico volto ad assicurare la conservazione e a reintegrare gli aspetti compromessi [dell’opera]” [17], senza tener conto del fatto che i “photographic objects (…) owe their look and structure to commercial and cultural influences as much as they do to technological factors”[18]. Il doppio richiamo di Grant Romer ci pare ancora indispensabile per comprendere la natura storica dell’oggetto fotografico e per contribuire a stabilire i principi di intervento, specialmente se letto in relazione con la sua puntuale individuazione di due diversi e complementari accezioni del  concetto di permanenza dell’immagine: “Commercially, the image had to remain unchanging long enough to fulfill its initial consumer function. Culturally, the photographic image and its objective substance must survive as long as it has clear useful value to the culture that maintains it.”[19] La permanenza, ben oltre l’orizzonte pragmatico che tanto preoccupava i ricercatori ottocenteschi, oggi può distinguere tra immagine e materia, deve tradursi in “programma di esistenza” dell’opera, basato sulla consapevolezza del suo significato di bene culturale, obiettivo per il quale non può essere ritenuto sufficiente considerare i soli problemi che derivano dalla sua già complessa struttura fisica. Mentre il contenuto referenziale può essere preservato e duplicato ad libitum, diventa  indispensabile associare alla valutazione delle condizioni materiali la definizione storiografica delle sue condizioni di produzione e fruizione, in un più ampio processo di lettura storico critica che consenta di ri-definire le  modalità della sua ricezione, il suo impianto concettuale e culturale, nella consapevolezza che non solo la materialità del bene si modifica, e magari degrada nel tempo, ma anche il contesto di fruizione e comprensione in cui questo è inserito, in mutazione continua.

 

Note

[1] Carta della Conservazione e del Restauro, 1987, art.6/ comma a.

[2] Considerando il rapporto dialettico che deve essere posto in atto col bene quale testimonianza storica da interrogare, è necessario tener presente che la “verità storica [è] in continua ri-scrittura. Perciò è dall’inscrivere la problematica della passeità del passato nel grande cerchio della temporalità, che dipende in ultima istanza il destino di questa verità in sospeso, di questa veracità per sempre incompiuta.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, p.19. Pur senza addentrarci qui in una problematica troppo complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia. Particolarmente stimolante e produttiva risulta la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[3] Allora, non tanto e non solo All Art Has Been Contemporary, come recita il lapalissiano motto al neon di Maurizio Nannucci (1999), che tanta fortuna ha avuto in molti musei del mondo, da Berlino a Torino a Firenze. Semmai è contemporanea tutta l’arte, cioè tutta la cultura alle cui manifestazioni riconosciamo oggi un valore.

[4] Si utilizza qui il termine in senso lato e rischiosamente onnicomprensivo, non essendo questa l’occasione e la sede per procedere a ulteriori specificazioni dell’accezione teorica e metodologica del concetto. Quale riferimento generale può ancora essere utile la nuova edizione dello studio di Alessandro Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte.  Milano: Electa, 2002, con postfazione di Massimo Ferretti. Si vedano inoltre Chiara Piva, Ilaria Sgarbozza,  Il corpo dello stile: cultura e lettura del restauro nelle esperienze contemporanee: studi in onore di Michele Cordaro.  Roma: De Luca, 2005; Pasquale Gagliardi, Bruno Latour, Pedro Memelsdorff, eds.,  Coping with the past: creative perspectives on conservation and restoration. Firenze: Leo S. Olschki,  2010.

[5] “Parlare di trascorso non significa solamente vedere nel passato ciò che sfugge alla nostra presa, ciò su cui non possiamo più agire, ma significa anche voler dire che l’oggetto del ricordo reca indelebile la marca della perdita. L’oggetto del passato in quanto trascorso è un oggetto (d’amore, d’odio) perduto: l’idea di perdita è, da questo punto di vista, criterio decisivo della passeità.”, Ricoeur 2004, p.11.

[6] Per un’ampia e precisa definizione del termine si rinvia a Gottfied Jäger, Rolf H. Krauss, Beate Reese, Concrete Photography Konkrete Fotografie. Bielefeld: Kerber Verlag, 2005, mentre per sciogliere ogni ambiguità intorno alle pretese astrazioni fotografiche continua a essere di grande utilità l’Intervista a Massimo Cacciari, a cura di Paolo Costantini, “Fotologia”, v. 5, estate- autunno 1986, pp.74-79.

[7] Karl-Heinz Hargesheimer (Chargesheimer), dalla conferenza tenuta al Circolo Fotografico Milanese, 1950, citato in “European Photography”, n.57, 1995, p.46.

[8] Come ebbe a dichiarare Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Moholy-Nagy, “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, in Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup,  “History of Photography”, 18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86.

[9] Roland Barthes, La camera chiara. Torino: Einaudi, 1980, p.6. L’affermazione non è meno vera per la fotografia concreta, sebbene questa nella sua unicità non provenga da una matrice infinitamente riproducibile.

[10] Prova ne sia – tra l’altro – il fatto che non può essere attuato ricorrendo alla stessa materia e tecnica, allo stesso medium con cui l’opera era stata realizzata, tanto che, ad esempio, si parla comunemente e correttamente di “integrazione pittorica delle lacune” per quei casi in cui è necessario riequilibrare percettivamente una porzione di immagine. Qui le disquisizione filologiche sull’autografia o sulla necessità deontologica della riconoscibilità degli interventi non hanno ragione d’essere: semplicemente non esiste ‘materia’ del contendere.

[11] Si vedano le considerazioni di segno opposto espresse da William John Thomas Mitchell, Realismo e immagine digitale, in Roberta Coglitore, a cura di, Cultura visuale: paradigmi a confronto. Palermo: :duepunti edizioni, 2008, pp. 81-99. In questo breve testo, che sconta forse l’occasionalità della sua redazione, Mitchell considera “riduttiva” ogni ontologia che si limiti a indagare intorno all’essenza, poiché “se l’ontologia è lo studio dell’essere, allora (…) l’ontologia della fotografia dovrebbe concentrarsi sull’essere nel mondo”, non tenendo conto – a mio parere – del fatto che  proprio l’essere nel mondo non può che fondarsi sulla sua essenza, perché sennò?

[12] Si potrebbe dire – parafrasando un’efficace formulazione di Marra, che pure non concorderebbe con questa distinzione – che l’immagine digitale “assomiglia” a una fotografia ma “di fatto funziona come” un quadro. Per l’origine della parafrasi cfr. Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Milano: Bruno Mondadori, 1999, p. 15.

[13] In ambito digitale la difficoltà è semmai costituita dalla rapidissima  obsolescenza dell’hardware e del software con cui un’immagine è stata realizzata, processata e stampata.

[14] Nelson Goodman, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis: The Bobbs-Merrill Company, 1968 (trad. it. I linguaggi dell’arte. Milano: Il Saggiatore, 1976) la cui distinzione fondamentale tra sistemi notazionali e non notazionali  “si regge sulla differenza tra discreto e continuo, o digitale e analogico”, cfr. Roberto Diodato, Estetica del virtuale. Milano: Bruno Mondadori, 2005, p. 76. Per quanto riguarda le implicazioni delle teorie goodmaniane in relazione ai concetti di copia e di replica si veda Luca Marchetti, Arte ed estetica in Nelson Goodman. Palermo: Centro internazionale studi di estetica, 2006 , in particolare alle pp. 103-104. I nessi con l’ambiente digitale, anche per quanto riguarda la fotografia, solo accennati da Marchetti, sono stati affrontati da Ilaria Boeddu, Nelson Goodman: uno sguardo analitico sull’arte contemporanea. Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 138-141.

[15] A titolo esemplificativo si pensi agli estremi costituiti dalle diverse repliche di un file, per definizione identiche e indistinguibili, o alle diverse edizioni  tratte da uno stesso negativo sotto la diretta responsabilità dell’autore, che invece possono anche essere radicalmente diverse tra loro e quindi di fatto uniche pur essendo ricavate da una medesima matrice.

[16] Si vedano almeno. Richard Benson, The Printed Picture. New York: The Museum of Modern Art, 2008, Martin C. Jurgens, The Digital Print: Identification and Preservation. Los Angeles: Getty Conservation Institute, 2009.

[17] “Lessico Universale Italiano”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1977, ad vocem, citato da  Sergio Angelucci, Per una base teorica comune nel restauro di tutti i beni culturali, in Maria Regni, Piera Giovanna Tordella, a cura di, Conservazione dei materiali librari archivistici e grafici. Torino: Umberto Allemandi, 1999, pp.277-282 (277).

[18] Grant Romer, An Overview of the Current Development of the Field of Conservation of Photographs, in Regni, Tordella 1999, pp. 243-246 (243).

[19] Ibidem, corsivo di chi scrive.

Mostrare i documenti: una questione diplomatica (2012)

in  Silvia Paoli, Giorgio Zanchetti, a cura di, L’uomo in bianco & nero, atti degli incontri di studio Storie di fotografia (Milano, Castello Sforzesco, ottobre 2007-maggio 2010), “L’uomo nero: materiali per una storia delle arti della modernità”, N.S. 9 (2012), n. 9, dicembre, pp. 175-193

 

In memoria di Roberto Signorini

 

 

 

Una finzione è un documentario, ed è anche la realtà.

Nobuyoshy Araki, 2004

 

La conoscete anche voi, ne sono certo, la sensazione che si prova: mostrare i documenti è sempre perturbante. Specialmente quando questa richiesta ci è rivolta (magari) dal rappresentante di una qualche autorità (magari) in uniforme: spersonalizzato. Un brivido freddo, umido, per quanto leggero – non più di un fastidio – ci scivola lungo la schiena come la bava di un cane pavloviano. Affiora un senso di colpa e di pericolo insieme. Nasce dal confronto, impari, tra due opposti: la mia identità è indagata, messa in dubbio da qualcuno che nasconde la propria.

Inevitabile il disagio: in fotografia vengo così male!

Non mi riconosco e mi perdo, forse perché – come ha scritto il Barthes più lucidamente letterario – “non appena io mi sento guardato dall’obiettivo (…) mi trasformo immediatamente in immagine”[1], abdico alla mia identità, alla mia complessità quindi, a favore di un canone. Dev’essere per questo che “in fondo, una foto assomiglia a chiunque, fuorché a colui che essa ritrae”[2], ovvero che “a rigor di termini da una fotografia non si capisce mai nulla.”[3] È per questa consapevolezza, anche. È per questa somiglianza impossibile, che pare vanificare ogni sforzo e ogni eventuale volontà di collaborazione, che mostrare i documenti costituisce un problema, una vera e propria questione che supera i rituali della diplomazia per chiamare in causa le ragioni della diplomatica[4] e apre il fotografico vaso di Pandora della funzione documentaria, del nesso possibile tra somiglianza e testimonianza.

Le riflessioni che seguono non riguardano perciò, almeno non principalmente, lo “stile documentario” (Evans), né l’ “arte del documento” (Lugon) o le “platitudes” studiate da De Chassey[5]; semmai quei documenti che assumono la forma di fotografie, cioè tutte le fotografie (analogiche). Vorrei ragionare intorno alla Fotografia come Documento, e del cosa, sapendo che  “Ogni volta che commentiamo un’immagine, in effetti, facciamo della politica. Parlare delle immagini significa, di fatto, ‘prendere posizione’ riguardo all’efficacia di queste stesse immagini sulla comunità.”[6]

È arduo se non impossibile, forse non solo qui, ripercorrere le vicende che hanno segnato il formarsi e il modificarsi del “pregiudizio realista”[7], del carico documentario della fotografia; dell’espiazione di quel peccato originale da cui da sempre i fotografi (e i critici, dopo) hanno tentato di liberarla e di liberarsi utilizzando le più diverse strategie, poiché anche solo tentare di metterne a punto la successione costituirebbe un impegnativo progetto storiografico.  Basti forse provarsi a dire che tutte queste strategie si sono rivelate necessarie e inevitabili quanto inutili. Inefficaci: perché la referenzialità costitutiva della fotografia resiste a ogni tentativo di negarla. Inevitabili e storicamente necessarie perché è negli sforzi compiuti per accogliere come per superare questa referenzialità sorda che ha preso corpo, che si è mobilmente definito non solo il campo dell’espressività del mezzo e della conseguente riflessione intorno alla definizione della figura e del ruolo dell’ autore[8], ma anche l’insieme dei discorsi intorno e sulla natura stessa della fotografia. Per gran parte della cultura del XIX secolo questa è stata considerata testimonianza fedele del reale[9]; questo era considerato il suo maggior pregio, il suo massimo valore d’uso: il suo dato ‘positivo’. Se ne discutevano i modi semmai, non i fondamenti. Nella metafora quasi animista di François Arago ( 1839) le fotografie erano considerate “immagini [che] creavano sé stesse”; “specchi dotati di memoria” per Oliver W. Holmes (1856). Ancora all’inizio del XX secolo la convinzione di uno studioso raffinato come Peirce era che le fotografie fossero molto istruttive “poiché noi sappiamo che esse sono per certi aspetti esattamente come gli oggetti che rappresentano. Ma questa somiglianza è dovuta al fatto che le fotografie sono state prodotte in condizioni tali da dover corrispondere punto a punto alla natura.”[10] In questa pura constatazione fenomenologica, nell’inedito paradigma della costitutiva assenza di autorialità risiedeva il loro confortante statuto di prova e – ancor prima, ancora adesso – il loro insostituibile valore d’uso. Non toccate da mano d’uomo: non manipolate. È su queste basi che la fotografia venne quasi immediatamente accolta nel laboratorio dello scienziato come nella camera di sicurezza del criminologo; nello studiolo dell’architetto restauratore o dello storico dell’arte.

Considerando che “nella sua definizione classica, la fotografia non è altro che un processo di registrazione, una tecnica di iscrizione, in un’emulsione a base di sali d’argento, di un’immagine stabile generata da un irradiamento luminoso”[11], e che l’accezione diplomatica di documento è quella di “una cosa normalmente mobile (…) prodotta su un supporto (…) tramite un mezzo scrittorio (…) o un dispositivo [che è a sua volta, in senso neppure troppo lato, un mezzo scrittorio] per fissare l’immagine o la voce o, contestualmente, l’immagine e la voce”[12], allora possiamo non solo riconoscere che tutta la cultura del XIX secolo ha legittimamente considerato la fotografia come la più soddisfacente forma di documento visivo, ma anche provare ad avanzare timidamente l’ipotesi che una fotografia, quindi ogni fotografia sia di per sé un documento anche in senso diplomatico archivistico.  La contrapposizione ad alcune recenti posizioni di radicale revisionismo antibarthesiano non potrebbe essere più netta: “poiché la fotografia non è per sua natura un documento” – ha scritto André Rouillée – “il documento non sarebbe in grado di costituire una qualsivoglia essenza o noema della fotografia. Se la fotografia non è per sua natura un documento, ogni immagine racchiude comunque un valore documentario che, lungi dall’essere definito e assoluto, deve essere considerato nella sua variabilità nel contesto di un regime di verità; un regime documentario.”[13]

Resta per ora inevasa l’altra fondamentale questione del cosa una fotografia documenti: “Evidentemente il documento interessa per il suo contenuto, per le informazioni che tramanda, tuttavia le notizie che vi sono rappresentate o descritte richiedono in chi le confeziona delle capacità tecniche che si traducono in canoni di rappresentazione che a loro volta possono costituire oggetto di analisi essendo essi stessi testimonianza diretta dell’attività di documentare.”[14] La definizione diplomatica orienta inevitabilmente il nostro interesse verso il riconoscimento del contenuto e delle informazioni che il documento fornisce, ma ci invita anche a sfuggire al rischio del sinonimo, a scavare una piccola rete labirintica di solchi intermedi, interstiziali. In una distinzione che è più semplice verificare in termini empirici possiamo allora far corrispondere “il contenuto” al dato referenziale, alle notizie “rappresentate o descritte”, mentre nella più generale categoria delle “informazioni” possiamo comprendere tutti gli elementi canonici (storici, culturali, materiali) che determinano la forma, che informano la rappresentazione del contenuto stesso. Da ciò consegue che gli elementi di maggiore ‘valore documentario’ possano essere costituiti  proprio dalle relazioni tra contenuto e canone, tra rappresentato e rappresentazione, connotando in senso più ricco e complesso lo stesso concetto di documento.[15] La verifica sperimentale di questi nessi raggiunge tensioni problematiche particolarmente elevate, genera illuminanti corto circuiti in grado di verificarne la tenuta, quando rappresentazione e rappresentato vengono a coincidere, quando entra (letteralmente) in campo il soggetto autore, non troppo implicito antagonista della neutra oggettività della Natura nello spietato conflitto per la conquista della Verità sotto specie fotografica. Sin dalle origini la sua costitutiva esclusione aveva rappresentato il fondamento, e la garanzia, dello statuto di prova dell’immagine fotografica[16] ovvero, a voler essere precisi, del fototipo, e conseguentemente la negazione di ogni possibilità espressiva, ponendo la pratica e la produzione fotografica al di fuori di ogni possibile paradigma artistico. Non si trattava però di una verità assiomatica o sperimentale, semmai di un luogo comune, per quanto efficace.  Si consideri uno dei progetti più felicemente sofisticati di quella stagione: il notissimo autoritratto di Hippolyte Bayard intitolato Le Noyé, datato 18 ottobre 1840, del quale si conoscono tre varianti[17]. La suprema efficacia di questo modello di strategia comunicativa si fondava proprio sulla consapevolezza e sull’appropriato e conseguente uso narrativo della convenzione in base alla quale il documento (qui: la fotografia) assume validità di prova, accresce il proprio valore testimoniale in misura direttamente proporzionale alla scomparsa (della figura individuale) dell’Autore. E allora: quale miglior ritrarsi del suicidio.  Al verso di una di queste varianti[18] si può leggere l’altrettanto famosa lettera: “La salma che qui vedete è quella di M. Bayard, inventore del procedimento che vi è appena stato illustrato, e di cui vedrete presto i meravigliosi risultati. (…) Il governo che ha sostenuto M. Daguerre più del necessario, ha dichiarato di non essere in grado di fare qualcosa per M. Bayard, e l’infelice si è gettato nel fiume per la disperazione. Oh, incostanza umana! Per molto tempo artisti, scienziati e la stampa si sono interessati a lui, ma ora che giace da giorni alla Morgue nessuno l’ha riconosciuto o ha reclamato la sua salma! Signore e signori, parliamo d’altro in modo che il vostro senso dell’odorato non venga offeso perché, come probabilmente avrete notato, il volto e le mani hanno già cominciato a decomporsi. H.B., 18 ottobre 1840.” L’eccezionale interesse di questo insieme documentario risiede non solo (non tanto?) nelle diverse informazioni contenute, quanto nelle questioni che pone, per la chiarezza esemplare con cui mostra quanto la funzione documentaria di questa nuova categoria di immagini avesse sin dalle origini basi ontologiche e convenzionali a un tempo. Accogliendo l’autenticità del testo che la correda, siamo legittimati a dire che questa è proprio la prima fotografia destinata a valere come prova. Subito vera e falsa. Esemplare di tutti i discorsi che poi verranno fatti e si potranno fare; per questo assume un valore paradigmatico. Per questo bene si presta a essere studiata con gli strumenti analitici della diplomatica, nel cui ambito “lo studio del documento conduce inevitabilmente a porre in rilievo il rapporto tra la natura dell’atto giuridico e la forma dell’atto, e a evidenziare – astraendo dalla storicità del contenuto dell’atto – le connotazioni formali del documento.”[19] L’analisi diplomatica dei suoi caratteri[20] intrinseci (autore, data, contenuto) ed estrinseci (materia e tecnica, ‘stile’ e connotazioni culturali), mostra quanto alcuni possano essere dati per solidamente acquisiti (autore, data, materia e tecnica), mentre altri restano da considerare e circoscrivere; tutti per certi versi relativi alla definizione del contenuto informativo, pur avvertendo che ciò non necessariamente implica un giudizio di verità: non “se dice il vero”, ma “cosa dice, e perché”. È innegabile che l’intenzione dell’immagine apparente (non dell’autore) fosse esplicitamente documentaria, fondata sull’evidenza che ciò che si dava a vedere aveva tutte quelle caratteristiche – immediatamente recepite – di oggettività naturale, attribuite a ciò che oggi chiamiamo fotografia. Questa sua capacità persuasiva era poi ribadita, confermata e certificata dal titolo. Anche la semplicità della ripresa e l’assenza di manipolazioni evidenti, propria della fotografia delle origini, qualificavano (inevitabilmente?) lo stile come documentario; ciò che ulteriormente confermava l’osservatore del suo valore di prova. A questo statuto di traccia indiziaria si accompagnava però, senza contraddirlo, una sintassi compositiva tutta interna alla tradizione culturale dell’Accademia artistica, dove l’iconografia richiamava (se non proprio citava) La mort de Marat  di Jacques-Louis David (1793).  L’intenzione narrativa (dell’autore, quindi) era invece pragmatica (propositiva, pubblicitaria): tendeva a convincere, a costituirla – diremmo oggi – anche come immagine “agente di storia”. Questa somma di ragioni indica come questa fotografia sia sotto un certo rispetto autentica (prodotta intenzionalmente dall’autore dichiarato) e per un altro aspetto falsa, poiché ci inganna sulla realtà che pretende di mostrare. Questa attestazione di falsità è però vera e costituisce (non troppo paradossalmente) l’esito e la conseguenza del testo (che possiamo pensare come didascalia, per quanto insolitamente lunga) redatto dallo stesso autore, che mina la veridicità dell’immagine nel preciso momento in cui la propone come testimonianza documentale. La fotografia non riproduce (il mondo esterno) ma produce (messe in scena del mondo) e ciò nonostante ci consente di interpretarla come testimonianza o almeno come indizio. Non solo di dire che ci sono certamente stati un tempo e un luogo in cui una persona che nominiamo H.B. si è posta in posa di fronte all’obiettivo, ma anche quali fossero le sue sembianze. Non solo quale fosse la sua strategia politica, ma anche la sua cultura visiva; quale la sua competenza (tecnica, espressiva), quali gli oggetti di cui si circondava, quale forma avesse il cappello che usava per i lavori in giardino. Ennesima prova, se mai se ne sentisse il bisogno, di quanto il contenuto del documento fotografico, e l’interesse che può determinare in noi, non possa mai essere ridotto al puro referente fisico, sebbene senza di questo, qualunque sia il modo della sua restituzione, non si dia fotografia.  La pura referenzialità (indicale e primaria, fondante e irriducibilmente resistente) risulta inscindibilmente marcata (ma non eliminata) da connotazioni più o meno consapevoli o intenzionali (iconografiche, simboliche) che non possono che essere di tipo storico culturale e – nello specifico – artistiche.[21] Appartenenti cioè alla storia e alla cultura delle immagini. È questo che rende immediatamente problematica e riduttiva la nozione positivista di documento applicata alla fotografia, ma soprattutto dimostra come sin dalle origini l’antinomia documentario/ artistico, documentario/ narrativo, o documentazione/ finzione che dir si voglia, si dimostri inefficace se non inconsistente, forse semplice eredità della reazione modernista al perdurante pittorialismo. Negli stessi anni (1887-1908) in cui questo aveva cercato di ridurre al limite della riconoscibilità la relazione referenziale della fotografia, accentuandone le valenze simboliche e allontanandosi dal ‘fotografico’, Charles Peirce dava forma logica alla concezione che le aveva assegnato la cultura del XIX secolo[22] mettendo a punto quella teoria del “segno in relazione al suo oggetto” che tanto avrebbe influito decenni più tardi sulla definizione semiotica della fotografia e sull’analisi della sua funzione documentaria, sebbene la compresenza di indice e icona aprisse già allora lo spazio alla pratica artistica.[23] “Una fotografia è un indice avente un’icona incorporata in sé” affermava Peirce nel 1903[24] precisando e arricchendo alcuni cenni precedenti.[25]  “Il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.” E inoltre: “Il valore di un’icona consiste nel suo esibire i tratti di uno stato di cose considerato come se fosse puramente immaginario. Il valore di un indice è che ci assicura di fatti positivi. Il valore di un simbolo è che serve a rendere razionali il pensiero e la condotta e ci consente di predire il futuro. Spesso sarebbe desiderabile che un representamen esercitasse una di queste tre funzioni con esclusione delle altre due, o due di esse con esclusione della terza; ma i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile.”[26]

Sono queste le condizioni che consentono di dire che la fotografia è un esempio perfetto di segno, nel quale la funzione documentaria non può essere ridotta al suo valore indicale, ma neppure che questo può essere escluso quando prevalgano le componenti o le funzioni iconiche e simboliche, se lo spazio narrativo abitato dall’autore assume una dimensione preminente. Circa gli stessi anni, indizi sparsi di una concezione della fotografia meno manichea di quella modernista si ritrovano nelle affermazioni, magari ingenue e teoreticamente poco consapevoli, di Alfred Liégard,  promotore per la Francia della costituzione degli Archivi Fotografici Nazionali, per il quale “l’arte e il documento possono, anzi devono, intendersi sul terreno della fotografia (…). Il fotografo artista dovrebbe disdegnare il documento? Per quanto mi riguarda non lo credo. Nulla gli impedisce di trattare artisticamente il documento.”[27] Ma anche, sul versante della critica politica dell’indice, nelle parole di Bertold Brecht per il quale “una semplice restituzione della realtà [meno che mai] dice qualcosa sopra la realtà. (…) La realtà vera è scivolata in quella funzionale.”[28]  Paradigmatico in tal senso il caso delle riprese aeree, figlie del primo conflitto mondiale, quando guerra e fotografia si allearono per offrire alla vista immagini sconosciute del mondo, che ben esemplifica i termini della questione documentaria, rendendo evidenti i problemi che ci sono in ogni fotografia. L’automatismo di ripresa, l’esclusione programmatica di ogni intenzione autoriale rendevano ciascuna di queste immagini l’esempio più puro di documento, sebbene risultassero di fatto incomprensibili, cioè prive di qualsivoglia valore documentario (e strategico),  a meno di possedere gli strumenti adatti per la loro decifrazione. D’altro canto offrivano quella “esperienza più completa dello spazio (…) uno spazio in tutte le sue dimensioni, uno spazio senza limitazioni”[29] che tanto avrebbe inciso sulla cultura visiva e sulle avanguardie di primo Novecento, dal Futurismo alla Nuova Visione almeno. Reagendo alle manipolazioni della stagione pittorialista, all’equivoca, ingombrante presenza dell’Autore nella determinazione dell’immagine finale, è stato – come è ben noto – il modernismo a recuperare criticamente il valore positivo, specificamente fotografico, della rilevanza del mezzo e del dispositivo, con l’intenzione “di fare con la fotografia un’arte di pura rappresentazione impersonale, un’arte oggettiva”[30], nella convinzione che potesse “essere assai più vicina all’arte, più suggestiva, una immagine ottenuta con puri mezzi fotografici, che non un’altra ottenuta attraverso manipolazioni varie per darle, precisamente, un aspetto ‘artistico’.”

Da queste posizioni, ampiamente condivise dalla cultura fotografica occidentale tra le due guerre, prende l’avvio la questione dello stile documentario, il cui termine qualificativo lo stesso Walker Evans considerava “ingannevole”[31], ma che ha influenzato intere generazioni di autori, rappresentativi di quella che De Chassey ha definito come fotografia “piana”.  “Per funzionare come documenti – ha scritto Lewis Baltz – le fotografie devono innanzitutto persuaderci che esse descrivono correttamente e obiettivamente il loro soggetto; devono in primo luogo convincere il loro pubblico [sic] che si tratta veramente di documenti, che il fotografo ha pienamente utilizzato la propria capacità di osservazione e che ha messo da parte la sua immaginazione e i suoi ‘a priori’.[32] (…) Idealmente il fotografo dovrebbe essere invisibile e il mezzo trasparente; per lo meno è a questo livello di obiettività cui io aspiro. Io voglio che il mio lavoro sia neutro, diretto e libero da ogni intenzione estetica o ideologica affinché le mie fotografie possano essere viste come delle dichiarazioni fattuali sul loro soggetto piuttosto che come espressioni di ciò che io ne penso.”[33] La poetica della (presunta) “cancellazione del soggetto agente”, che si riappropria criticamente delle posizioni ottocentesche attraverso W. Evans, costituisce per Olivier Lugon “la regola fondamentale dello stile documentario”[34], ma si fonda a mio parere su di una concezione semplicistica e fondamentalmente errata.  Non sono infatti i modi (quindi neppure lo stile) a determinare lo statuto di documento di una fotografia, ma il suo essere (originata da) un fototipo[35], comunque consapevoli che questo, come ogni altro documento del resto, non possa mai essere letto come una “dichiarazione fattuale” della realtà: semmai di una realtà o – meglio – di una sua particolare porzione e manifestazione[36]. Come ha sarcasticamente dimostrato Duane Michals: There Are Things Here Not Seen in This Photograph, “Ci sono cose che non si vedono in questa fotografia: La mia maglietta era madida di sudore. La birra era buona, ma io avevo ancora una gran sete. Un ubriaco stava parlando a voce alta di Nixon con un altro. Io osservavo uno scarafaggio passeggiare lentamente lungo il bordo di uno sgabello. Dal jukebox, Glenn Campbell incominciava a cantare Southern Nights.  Avevo bisogno di andare in bagno. Un derelitto mi si stava avvicinando per chiedere soldi. Era ora di andare.”

Quella che per i critici delle origini era quasi solo una pura constatazione fenomenologica, e per i modernisti una rivendicazione estetica, è stata assunta da molti autori novecenteschi di tradizione, diciamo così, ‘topografica’ come posizione critica, senza rendersi conto (o non essendo interessati al fatto) che il funzionamento documentario è indifferente allo stile; che lo stile documentario è solo uno dei possibili; che ogni fotografia  (diversamente e più di ogni altro prodotto culturale) ha un elevato contenuto testimoniale dovuto al suo inevitabile carico referenziale. È dal seme della sua determinazione ontologica che germogliano poi le intenzioni, le condizioni e i condizionamenti del contesto e dell’autore, vale a dire tutti quegli ulteriori elementi che ne determinano/ configurano il senso storico e il valore documentario complessivo.[37]  Anche per questo risulta oggi difficile concordare con W. Evans quando affermava che “un esempio di documento in senso letterale sarebbe la fotografia di un crimine scattata dalla polizia. Un documento ha un’utilità, mentre l’arte è davvero inutile. Perciò l’arte non è mai un documento, anche se può adottarne lo stile.”[38] Di questa abusata citazione non mi pare possibile condividere la sostanza, e non solo perché la concezione di documento qui espressa appare irrimediabilmente datata e riduttiva per gli anni in cui è stata espressa (1971); non solo perché ogni opera (non solo fotografica, ovvio) può essere (usata come) documento, ma anche e soprattutto perché quando questa è una fotografia essa costituisce inevitabilmente un documento almeno nel suo più riduttivo senso referenziale, di segno indicale scalato nel tempo (“è stato”). Di più, e ribaltando in un qualche modo le convinzioni comuni, la storia della fotografia ci mostra come l’idea di documentario e la stessa realizzazione del documento non abbiano mai escluso la possibilità di interventi da parte dell’autore. La funzione documentaria convive da sempre con manipolazioni più o meno rilevanti, configurandosi come intenzione che accoglie i valori testimoniali di registrazione di ogni ripresa fotografica.  Si pensi ad esempio alla pratica di integrare i cieli inevitabilmente spogli delle riprese ottocentesche: per ovviare all’inconveniente non c’era buon fotografo che non si dotasse di “numerosi negativi di nuvole nei quali la posizione del sole varia di molto; [così] accade che qualcuno di questi negativi si adatti perfettamente alle condizioni di luce del momento in cui opero normalmente. Quel cielo viene perciò riprodotto in più vedute.”[39] Tecnicamente: un vero e proprio fotomontaggio, non diverso (neppure nelle motivazioni generali di efficacia dell’immagine finale) da quelli che ha realizzato ad esempio un autore di grande maestria documentaria come Vittorio Sella, sia in alcune delle sue notissime immagini di montagna, aggiungendo nuvole o figure, sia in un contesto apparentemente meno problematico quale è quello della documentazione etnografica, quando, ad esempio, è intervenuto incollando la figura di un galletto per riempire il primo piano di una scena di paese.[40] Nessuna volontà di praticare l’artificio come illusione, né di perpetrare un falso. La loro invenzione era realistica, non fantastica: destinata a rafforzare l’effetto di realtà, se necessario spettacolarizzandola. Così resta difficile credere che “affinché [una fotografia] possa ‘passare’ per foto documento è necessario che non appalesi, a livello di traccia dell’enunciazione, il suo essere un fotomontaggio.”[41]  Condizione forse necessaria (a patto di ben definire cosa si intenda per fotomontaggio), ma certo non sufficiente, e comunque problematica, essendo determinata dalla doppia competenza del produttore e del fruitore. Direi piuttosto che è indispensabile che il suo contenuto iconico sia verosimile, cioè coerente con le aspettative legittimate dall’enciclopedia di conoscenze del fruitore stesso. È quindi una questione di ricezione e di giudizio, che rimanda all’esperienza; che si fonda – prima di ogni altra possibile valutazione – sul riconoscimento di quell’immagine come fotografia e sull’accettazione delle sue implicazioni.

Riconsideriamo allora un elemento centrale di una delle già citate affermazioni di Peirce:  “il fatto che [della fotografia] si sappia che è l’effetto delle radiazioni provenienti dall’oggetto la rende un Indice, anche molto informativo.”[42] Questo sapere, questa consapevolezza (per quanto problematica), questo riconoscimento è il fondamento della funzione del medium: “in ogni atto di ricezione di una fotografia vi è un momento iniziale che consiste nell’identificazione dell’immagine come un’immagine fotografica. È dal realizzarsi di questa identificazione che in gran parte dipende la costruzione del segno. Se infatti essa manca, l’immagine non sarà tematizzata come indicale: la si guarderà come semplice icona analogica.”[43] Riconoscendo quell’immagine come fotografica sono indotto a credere all’è stato di ciò che raffigura; a interrogarmi non sulla sua esistenza, certificata proprio dalla fotografia, ma sulla sua identità. Credo però che non si possa neppure escludere l’inverso: se la forma analogica, se l’icona non viene riconosciuta, se non si riesce a individuare un possibile referente poiché nessuna somiglianza è colta, possono non darsi ragioni per stabilirne la natura di indice. Nella nota definizione di Schaeffer la fotografia è quindi un “segno di ricezione”, il cui riconoscimento, la cui esistenza significante è condizionata dalla competenza del recettore. Per comprenderla in quanto tale è fondamentale “il sapere dell’arché : una fotografia funziona come immagine indicale a condizione che si sappia che si tratta di una fotografia, e cosa questo fatto implica”[44], sebbene questa conoscenza non abbia “affatto bisogno di essere un sapere scientifico in senso stretto. È sufficiente che sia in grado di mettere in moto una ricezione che riferisca le forme analogiche a impressioni reali, anziché a una libera raffigurazione.”  Riportando queste considerazioni al nostro discorso possiamo provare a dire che la possibilità di accoglierne il valore documentario (non il suo ‘stile’) dipende dalla duplice capacità del recettore di identificarlo in quanto fotografia, cioè di comprenderne la natura fondante e primaria di indice, e di riconoscerne il referente, almeno in termini generali poiché – come ha ricordato Paul Ricoeur – “affinché l’impronta sia segno di qualcos’altro, è necessario che in qualche modo indichi la causa che l’ha prodotta.”[45]

Dalla necessità di considerare come costitutiva (e produttiva) questa tensione tra indice e recettore derivano due conseguenze metodologiche: A- L’orizzonte disciplinare peirciano fornisce la strumentazione teorica necessaria per comprendere perché la fotografia documenta. B- Poiché la fotografia è anche “segno di ricezione” di cui il “ricevente deve sciogliere di volta in volta la costitutiva ambiguità”[46], quello stesso orizzonte risulta insufficiente e di necessità deve essere esteso facendo ricorso alle scienze storiche, all’interrogazione della fotografia in quanto prodotto culturale. Il passaggio dalla Fotografia alla fotografia implica il riconoscimento della connessione logica tra il suo processo generativo (e conseguente funzionamento semiotico) astorico, e la sua manifestazione concreta, oggettuale e temporale: storica. “Il significato di ogni fotografia – ha ricordato Geoffrey Batchen – è profondamente embricato di elementi sociali e politici. [Ma non dobbiamo credere che ] i significati e gli elementi politici si infiltrino semplicemente dall’esterno in una fotografia in paziente attesa.  Cos’è la fotografia in sé stessa, prima che entri a far parte di uno specifico contesto storico politico? La domanda è tanto impossibile quanto necessaria: impossibile perché non può mai darsi un ‘prima’ incondizionato, necessaria perché il postulare un momento originario è la condizione fondante dell’identità stessa.”[47] Questo porta a dire che “la mobilità semiotica della fotografia richiede certamente una storicizzazione altrettanto mobile.”[48] Semiotica e storiografia sono quindi i due ambiti teorici e metodologici solo apparentemente inconciliabili che ci consentono di dare sostanza attuale alla definizione di documento stabilita dalla diplomatica, indicando percorsi di ricerca e metodi che consentano di rispondere infine alla domanda cruciale del ‘cosa’ un documento significhi, di quali diversi ordini possano essere le informazioni che lo qualificano. A questo proposito può essere utile riflettere sulle corrispondenze esistenti tra la definizione peirciana di segno e quella di documento così come si è andata costituendo in ambito filosofico e storiografico francese nella seconda metà del Novecento. Sappiamo dalla semiotica che i segni puri sono estremamente rari, anzi “i segni più perfetti sono quelli nei quali i caratteri iconico, indicativo e simbolico sono fusi il più ugualmente possibile”[49], e – analogamente – che i documenti non registrano meccanicamente il dato o l’evento, non costituiscono la descrizione oggettiva di un’ entità ‘reale’, ma sono essi stessi intrisi di valori simbolici e determinati da canoni rappresentativi. “La storia è ciò che trasforma i documenti in monumenti” ha scritto Foucault[50], aprendo lo spazio a quella revisione profonda del concetto, poi compiuta da Jacques Le Goff: “il documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca, della società che lo hanno prodotto, ma anche delle epoche successive (…) e la testimonianza e l’insegnamento che reca devono essere in primo luogo analizzate demistificandone il significato apparente. (…) Il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di sé stesse. Al limite non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico il non fare l’ingenuo.”[51] Più in particolare – come ha ricordato Paolo Fossati – “è inutile fingere innocenza, distinguere tra creatività e documento (e non c’è idea peggiore che provarsi a farlo): bisogna manovrare, lì in mezzo”[52], rifiutando tra le altre cose la tentazione di soccombere alla logica fuorviante dell’eccezionalità, quanto mai pericolosa specialmente quando si intenda dar conto del lavoro fotografico, dell’opera di un fotografo.[53]

Come non esiste un segno che sia puro indice, una fotografia che sia puro “atto-traccia” al di fuori del momento della sua esposizione[54], analogamente non esiste un documento oggettivo. Per questo possiamo dire che ogni fotografia, in quanto segno nella sua pienezza, è un documento/ monumento ovvero

dati: I = indice; D = documento; M = monumento; S = simbolo

si può scrivere: I : D = S : M

che sviluppando diviene: I/ S = D/ M

che traduce in formula algebrica (affettuosamente dedicata a Peirce – Le Goff) le considerazioni espresse in precedenza. In questo senso credo si possa dire anche che ogni fotografia è un buon esempio di “semioforo, ossia un oggetto visibile investito della significazione”, secondo la nota definizione di Pomian, accompagnata però dalla precisazione necessaria che questo carattere non definisce tanto un’essenza quanto una funzione, poiché “i semiofori si distinguono dai sistemi di segni soprattutto per il fatto che nel loro caso la storia è il necessario complemento della teoria, e questo non perché rimandino a un presunto sostrato metafisico della continuità ma perché, essendo visibili e quindi caratterizzati da estensione e temporalità, si trasformano, si inabissano, cambiano di  posto e di significato sempre restando semiofori, oppure perdono la loro funzione, non circolano più e, se non vengono abbandonati come residui, cominciano a venir utilizzati come cose.”[55]

Così facendo assegniamo a ogni fotografia, un doppio valore documentario e quindi di fonte: prodotto di una cultura (sociale e individuale, artistica e tecnologica) che è precisamente testimoniata da ciascuna fotografia in quanto tale, nella sua individuale materialità di oggetto, ma anche testimonianza di una realtà altra da sé, della realtà storica del referente, rispetto alla quale il valore documentario prescinde dalla sua propria natura di oggetto per essere fondato interamente sulla sua essenza, sul suo noema. Dal valore delle fotografie come documenti/ monumenti deriva la necessità di andare oltre la considerazione per la semplice registrazione del dato referenziale per prestare attenzione, per interrogarle (e interrogarsi) sui canoni e sui modi della rappresentazione; di dare un senso alla scelta dei temi, assegnando la stessa importanza alle presenze come alle assenze. Sono queste le ragioni che devono portare, anche per la fotografia, a considerare la singola immagine solo in senso relativo per collocarla all’interno di una serie, portando alla luce la rete di relazioni che questa sottende e implica.

 

 

Note

[1] Roland Barthes, La chambre claire: Note sur la photographie. Paris: Cahiers du Cinéma – Gallimard – Seuil, 1980 (trad. it. La camera chiara: Note sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1980), p. 12. Sulla tenuta delle posizioni espresse in questo notissimo testo, forse il più influente e citato saggio sulla fotografia degli ultimi decenni, oggetto in anni recenti di reazioni tardivamente isteriche, si vedano gli studi raccolti e l’ampia bibliografia citata in Geoffrey Batchen, ed., Photography Degree Zero: Reflections on Roland Barthes’s Camera Lucida. Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2009.

[2] Barthes 1980,  p. 103.

[3] Susan Sontag, On Photography. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1977 (trad. it. Sulla fotografia. Torino: Einaudi, 1978, p. 22).

[4] Intesa secondo la definizione classica come scienza che si occupa del documento in sé, dei suoi elementi formali e contenutistici allo scopo di verificarne e mantenerne nel tempo l’autenticità. Utili riferimenti al dibattito intorno alle relazioni fra la fotografia e la diplomatica sono stati indicati da Tiziana Serena, L’archivio fotografico. Possibilità derive potere, in Gli archivi fotografici delle Soprintendenze. Tutela e storia. Territori veneti e limitrofi, atti della giornata di studio (Venezia, 29 ottobre 2008), a cura di Anna Maria Spiazzi, Luca Majoli, Corinna Giudici. Crocetta del Montello: Terra Ferma, 2010, pp. 103-125 (105, nota 12)

[5] Cfr. Leslie Katz, Interview with Walker Evans, “Art in America”, 59 (1971), n.2,  March-April pp. 82-89 (87); Olivier Lugon, Le style documentaire. D’August Sander à Walker Evans 1920-1945. Paris: Éditions Macula, 2001 (trad. it. Lo stile documentario in fotografia. Da August Sander a Walker Evans 1920 -1945. Milano: Electa, 2008); Eric De Chassey, Platitudes. Une histoire de la photographie plate. Paris: Gallimard, 2006.

[6] Georges Didi-Huberman, intervistato da Isabella Mattazzi in occasione della presentazione del libro Come le lucciole. Una teoria della sopravvivenza,  “Il manifesto”, 40 (2010), n. 41, 20 febbraio, p. 11.

[7] Gérard Lagneu, Illusione e miraggio, in Pierre Bourdieu, dir., Un art moyen. Essais sur les usages sociaux de la photographie. Paris:  Les Editions de Minuit, 1965 (trad. it. La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media. Rimini: Guaraldi, 1972,  pp. 211-228 – 215).

[8] Tra queste una delle più interessanti e produttive è rappresentata dal paradosso della sua volontaria scomparsa quale strategia discorsiva destinata ad affermarne con maggior forza la presenza. Accogliendo le riflessioni ancora feconde di Vaccari e Flusser, per i quali l’autore si colloca buon ultimo nella determinazione dell’immagine, possiamo provare a dire che in alcune pratiche questo marca la fotografia in misura inversamente proporzionale alla sua esplicita volontà di farlo. Cfr. Franco Vaccari, Fotografia e inconscio tecnologico. Torino: Agorà, 1979 (nuova ed. Torino: Einaudi, 2011); Vilem Flusser, Fur eine Philosophie der Fotografie. Göttingen: European Photography, 1983 (trad. it. Per una filosofia della fotografia. Torino: Agora, 1987; nuova ed. Milano: Bruno Mondadori, 2006). Le vicende storiche delle diverse pratiche fotografiche, delle differenti concezioni della fotografia comportano anche un percorso distinto, sebbene fortemente intrecciato a quello qui considerato, a cui possiamo solo accennare: quello del passaggio (funzionale, culturale, mercantile) da documento a opera,  si veda P. Cavanna, Da strumento a patrimonio: documenti e opere, in Fototeche a Regola d’Arte, Atti delle giornate di studio (Siena, 30 novembre – 1 dicembre 2007), a curadi Giorgio Bonsanti, Siena, CERR Centro Europeo di Ricerca sulla Conservazione e sul Restauro – Fototeca Briganti, Atti disponibili in rete: https://www.yumpu.com/it/document/read/33408520/1863-4-giugno-inaugurazione-del-museo-civico-comune-di-siena (01 03 2023).

[9] La definizione puramente analogica della fotografia era condivisa anche dalle culture non occidentali: in giapponese ad esempio gli ideogrammi che corrispondono al termine fotografia (“Shashin”)  sono traducibili come “copia della realtà/ realtà copiata”. Con significativo parallelismo, nella concezione positivista anche il lavoro dello storico si proponeva come ‘trasparente’, nella convinzione ideologica di poter mostrare i puri fatti. Oggi, così come la fotografia non è più ‘invisibile’ e anzi ci interessiamo prevalentemente ai modi della sua visibilità, anche il lavoro dello storico si offre esplicitamente come discorso e narrazione, dove “il senso non deriva dai ‘fatti’ nudi e crudi e dagli ‘eventi’ isolati, bensì è un qualcosa che scaturisce dalla temporalità della narrazione”,  Iain Chambers, Culture after Humanism.  London: Routledge, 2001 (trad. it. Sulla soglia del mondo: L’altrove dell’Occidente. Roma: Meltemi, 2003, p. 18), che riprende Paul Ricoeur, Temps et récit.  Paris: Seuil, 1983-1985 (trad. it. Tempo e racconto. Milano: Jaca Book, 1986-1988). La pratica storiografica attuale adotta una “concezione dinamica delle fonti, con il richiamo alla loro creazione epistemologica da parte dello storico, [ciò che] segna il superamento sia dell’ ‘oggettivismo’ dell’impostazione positivistica, sia del soggettivismo intuizionistico dell’idealismo; oggetto e soggetto della conoscenza storica sono legati da una relazione di reciproca funzionalità.”, Giovanni de Luna, La passione e la ragione: Fonti e metodi dello storico contemporaneo. Milano: La Nuova Italia, 2001, p. 118, che rimanda alla concezione dinamica delle fonti di Jerzy Topolski.

[10] Charles Peirce, What is a Sign?, in Id., How to Reason: A Critik of Arguments (Gran Logic), 1909, citato in Roberto Signorini, Appunti sulla fotografia nel pensiero di Charles S. Peirce,  2009, p. 203, disponibile sul sito della SISF – Società Italiana per lo Studio della Fotografia: https://www.sisf.eu/wp-content/uploads/2014/08/Signorini_Peirce_2009.pdf   [20 12 2022]. Questo contributo, che costituisce l’esito ultimo del costante, solitario e faticoso impegno di Roberto per l’accrescimento della cultura fotografica italiana, il suo ennesimo impervio sforzo per contribuire a colmare l’enorme divario che la separa – che ci separa – dagli universi della ricerca più attrezzata e avanzata che caratterizzano la scena degli altri paesi, ha costituito per me, come altre volte, non solo una fonte imprescindibile per accedere in modo sistematico al pensiero di Peirce, ma anche e soprattutto un’occasione di riflessione e quindi di crescita di cui gli sono debitore pur non condividendo sempre le sue conclusioni.

[11] Hubert Damish, Cinq notes pour une phénoménologie de l’image photographique, “L’Arc”, 1963, n. 21, printemps, ora in Id., La Dénivelée. À l’épreuve de la photographie. Paris: Seuil, 2001, pp.7-11 (7). Damish richiama poi l’attenzione del lettore sul fatto fondamentale, di cui qui non possiamo considerare le conseguenze, “che questa definizione non presuppone l’impiego di un apparecchio non più di quanto implichi che l’immagine ottenuta sia quella di un oggetto o di uno spettacolo del mondo esterno.” Analoghe considerazioni sono state espresse da Henry Holmes Smith riprendendo un concetto già espresso dal suo maestro Lazlo Moholy-Nagy: “lo strumento essenziale del processo fotografico non è l’apparecchio ma il materiale  sensibile”, cfr. Joel Eisinger, Henry Holmes Smith’s Mother and Son Oedipal Syrup, “History of Photography”,  18 (1994), n.1, Spring, pp.78-86. Ben si adattano a questa concezione le riflessioni sulla fotografia condotte nell’ambito dei più recenti studi sul segno: “La modalità semiotica della fotografia è quella di una traccia su una superficie e che, in quanto traccia, adotta il regime dell’impronta.”, Hamid-Reza Shaïri, Jacques Fontanille, Approche sémiotique du regard photographique: deux empreintes de l’Iran contemporain, “Nouveaux Actes Sémiotiques”, nn.73-75. Limoges: Pulim, 2001, (trad it. Un approccio semiotico dello sguardo fotografico: due impronte dell’Iran contemporaneo, in Pierluigi Basso Fossali, Maria Giulia Dondero, Semiotica della fotografia. Investigazioni teoriche e pratiche d’analisi. Rimini: Guaraldi, 2008, pp. 217-242: p. 353, nota 209), con l’avvertenza che attenendosi alla sola “ontologia della traccia, che si imporrebbe al fruitore al di qua di qualsiasi interpretazione, la foto diverrebbe un oggetto teorico solo nel momento in cui è assunta come ‘testimonianza muta’, una ‘macula caeca rispetto all’interpretazione’. Ma (…) la percezione della fotografia o la sua apprensione affettiva passano per interpretanti (…) attraverso movimenti abduttivi.”, Pierluigi Basso Fossali, Peirce e la fotografia: abusi interpretativi e ritardi semiotici, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp.113-214 (207). Per queste ragioni la semiotica filopeirciana viene da questi autori considerata insoddisfacente, perché “ha ricondotto la significazione [della fotografia] all’atto produttivo, senza dedicare attenzione né alle forme testuali, né ai regimi discorsivi e alle prassi comunicazionali. Queste teorie, invece che moltiplicare gli strumenti metodologici per rendere conto delle diverse strategie estetiche ed enunciazionali delle occorrenze testuali, riducono il funzionamento del medium a un’unica definizione, a un’essenza (fotografia come icona, indice, simbolo del reale). (…) Chi sceglie invece la testualità come unità pertinente all’analisi (…) ha il merito di deontologizzare il discorso sull’immagine fotografica distaccandosi da una classificazione per medium produttivo e di aprire alla problematica delle diverse pratiche di interpretazione e fruizione della fotografia.”, Maria Giulia Dondero, Geografia della ricerca semiotica sulla fotografia, in Basso Fossali, Dondero 2008,  pp. 21-111 (21-22). Pur comprendendo la necessità di marcare il proprio territorio di ricerca mi pare che non poche siano le possibili intersezioni tra queste rivendicazioni della supremazia della testualità e le riflessioni di segno diverso di autori come Schaeffer o Ricoeur (cfr. nota 44 e testo relativo), mentre una sintesi efficace mi pare riconoscibile nel concetto di semioforo applicato alla fotografia, per quanto di cultura vi è nella sua produzione (determinata anche nella manifestazione concreta dell’atto-traccia da quello che Flusser ha chiamato “apparato”) e nella sua percezione, sempre storicamente mediata (cfr. nota 11 e testo relativo).

[12] Paola Carucci, Il documento contemporaneo: Diplomatica e criteri di edizione. Roma: NIS, 1987, p. 14.

[13] André Rouillé, La photographie. Paris: Gallimard, 2005, pp.25-26, che così prosegue: “Il valore documentario dell’immagine fotografica poggia sul suo dispositivo tecnico, ma non è garantito da questo. Esso varia in funzione delle condizioni di ricezione dell’immagine e delle convinzioni che si hanno su di essa. La registrazione, il meccanismo, il dispositivo contribuiscono a sostenere queste convinzioni, a consolidare la fiducia, a sostenere il valore, senza mai garantirli completamente. (…) Questa metafisica della rappresentazione, che si fonda tanto sulle capacità analogiche del sistema ottico quanto sulla logica dell’impronta del dispositivo chimico, conduce a un’etica della precisione e a un’estetica della trasparenza.”, Ivi, p. 73. Qui Rouillé pare non saper distinguere tra “valore documentario” (che può essere nullo, e che è inevitabilmente determinato dal variare del contesto storico culturale) e natura documentale della fotografia. Ricordo che, salvo diversa indicazione, le traduzioni dei testi di cui non è disponibile un’edizione italiana sono di chi scrive.

[14] Carucci 1987, p.14. La definizione non potrebbe essere più chiara e convincente, sebbene io consideri una necessità, e non una mera possibilità, l’analisi dei canoni adottati nella realizzazione del documento. Così se è vero che il documento iconografico prima di essere utilizzato quale “prova storica indubitabile” deve essere “liberato (…) da un complesso di superfetazioni – strumentali, sociali, corporative, di convenzione accademica – immancabilmente aggregate intorno al gesto creativo ed espressivo dell’artista” (Giovanni Romano, Iconografia e riconoscibilità, “Casabella”, 64 (1991), n.575/576, gennaio, p. 26), è innegabile che, oltre l’uso puramente referenziale della fonte, sia invece indispensabile per il procedere dell’indagine storiografica riconoscere e analizzare proprio quelle “superfetazioni” che costituiscono le condizioni che ne hanno determinato le stesse forme di esistenza, sino a “passare attraverso la mediazione della coscienza dell’autore della fonte.”, (Witold Kula, Riflessioni sulla storia, [1958]. Venezia: Marsilio, 1990 p.31, citato in De Luna 2001,  p.137). Per ricondurci al nostro contesto, risulta allora legittimo dire che “Ben più che un ‘è stato’ dell’oggetto, la fotografia attesta un ‘è stato vissuto’ dal fotografo” (Serge Tisseron, Le mystère de la chambre claire. Parigi: Flammarion / Les Belles Lettres, 1996, in Dondero 2008, p. 51), ma anche che “la fotografia riproduce meno di quanto non produca; o – piuttosto – essa non riproduce senza produrre, senza inventare, senza creare, artisticamente o meno, del reale; mai in alcun caso il reale”  (Rouillé 2005, p.169, corsivi dell’autore), senza per questo rinunciare al riconoscimento della sua natura di segno indicale.  Pur tenendomi prudentemente lontano dalle sirene del decostruzionismo ad libitum, per il quale “il senso non è immanente al testo, ma alla pratica di interpretazione” (François Rastier, Art et sciences du texte. Paris: Puf, 2001 – trad. it. Arti e scienze del testo. Roma: Meltemi, 2003, in Dondero 2008, p. 54) ovvero che “il segno deve essere studiato ‘sotto cancellatura’ [essendo] sempre già ‘occupato’ dalla traccia di un altro segno che non appare mai come tale; [ragione per cui] la semiologia deve lasciare il passo alla grammatologia” (Gayatri Spivak, Translator preface, in Jacques Derrida, Of Grammatology. Baltimora: Johns Hopkins University Press, p. xxxix, in Geoffrey Batchen, Each Wild Idea: Writing Photography History.  Cambridge, Massachusetts – London: The MIT Press, 2002, p. 204, nota 36), sono convinto che la costante consapevolezza del documento come sistema complesso (nella sua costituzione) e aperto, nella sua ricezione e interpretazione, debba costituire la condizione fondante della strumentazione metodologica applicata allo studio della fotografia (ciò di cui si sente particolarmente il bisogno), ma che le riflessioni che da questa nascono possano essere feconde per tutta la riflessione storiografica sui documenti e quindi sulle fonti. Si vedano a questo proposito i diversi interventi contenuti nel numero monografico di “History and Theory” e in particolare le riflessioni della curatrice Jennifer Tucker: “Piuttosto che postulare una mancanza di ‘esperienza’ o di ‘metodo’ nell’uso delle fotografie [da parte degli storici], sarebbe forse più rilevante considerare la fotografia in relazione alla complessità dell’uso storico di qualsiasi documento. Ciò che dovrebbe essere chiaro in questo contesto è che le fotografie non sono né più né meno trasparenti di ogni altra fonte documentaria. (…) in altre parole, le fotografie non si limitano a mettere semplicemente in evidenza le potenzialità e i limiti della fotografia quale fonte storica, ma le potenzialità e i limiti di tutte le fonti storiche e dell’indagine storica quale progetto intellettuale. Così questa è precisamente la promessa e la maggiore potenzialità insita nello studio storico delle fotografie: che spinge i suoi interpreti ai limiti dell’analisi storica.”,  Jennifer Tucker, con Tina Campt, Entwined Practices: Engagements with Photography in Historical Inquiry,  “History and Theory”, 50 (2009), n. 48, December, Theme Issue, pp. 1-8 (5).

[15] Nonostante l’inevitabile, superficiale assonanza è indispensabile ribadire che contenuto documentario, valore documentario e stile documentario non hanno tra loro relazioni privilegiate né tanto meno predefinite. Sull’affermarsi nella cultura fotografica internazionale del termine “documentario” nelle sue molteplici accezioni si vedano Lugon 2001; John Tagg, The Disciplinary Frame. Photographic Truths and the Capture of Meaning, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 2009. Nel ricostruire la fortuna critica del termine, che entrambi gli autori datano al terzo o quarto decennio del Novecento, questi non hanno però tenuto conto – per ragioni non immediatamente comprensibili – del fondamentale e fondativo dibattito ottocentesco: nell’ultimo decennio del secolo numerosi furono gli enti e le istituzioni europee e statunitensi specificamente dedicate alla “fotografia documentaria”, la cui nascita costituì di fatto il precedente e il presupposto del dibattito e dei progetti del secolo successivo. Tra i primi contributi in tal senso rimando a Alfred Liégard,  La question de la photographie documentaire, in “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 6-7, giugno-luglio, pp. 6-7.

[16] In questa prima stagione era proprio il suo statuto di documento, e non di rappresentazione, ad attrarre operatori, pubblico e critici, nella convinzione comune che fosse “compi­to della pittura (…) quello di creare, della fotografia di copiare e riprodurre” (Antoine  Claudet, La photographie dans ses relations avec les Beaux-Arts,  discorso letto alla Photographic Society of Scotland, poi pubblicato in “Gazette des Beaux-Arts”, 9 (1861), pp.101-114). Era infatti opinione diffusa che questa potesse restituire “le esatte apparenze della forma, ma non isprigionare dall’intelletto l’i­dea.”, Pietro Estense Selvatico, Sui vantaggi che la fotografia può portare all’arte, 1852, in Id., Scritti d’arte. Firenze: Barbera, Bianchi e C., 1859, pp. 338-339, ora in Carlo Bertelli, Giulio Bollati, L’immagine fotografica 1845-1945: Appendice di testi e documenti, “Storia d’Italia – Annali”, 2.2. Torino: Einaudi, 1979, pp.233-235.

[17] Tra le innumerevoli fonti bibliografiche che riproducono questa notissima fotografia segnalo il solo Helmut Gernsheim, Le origini della fotografia. Milano: Electa, 1981, p.49, mentre rimando a Geoffrey Batchen, Le Noyé, in Id., Burning with Desire: The Conception of Photography. Cambridge Massachusetts – London:The MIT Press, 1997, pp.157-173 per una affascinante lettura critica e  per la riproduzione del testo. A partire da Bayard la storia fornisce innumerevoli e precoci esempi di confutazione del “pregiudizio realista” della fotografia tra i quali mi piace ricordare almeno il doppio autoritratto spiritista di Francesco Negri, 1870 ca, cfr. P. Cavanna, Il Fondo Fotografico della Biblioteca Civica di Casale ed una mostra, “Fotologia”, n.14/15, 1992, pp. 46-53 (46).

[18] Archivio storico della Societé Française de Photographie, Paris, n. 0024.269.

[19] Carucci 1987, p.27. Vorrei far notare che eliminando il qualificativo “giuridico” – per altro fondamentale per la diplomatica – e facendo corrispondere la “storicità del contenuto” al referente, questa considerazione si può applicare anche alla fotografia.

[20] Mi pare interessante sottolineare come la loro determinazione corrisponda di fatto alla catalogazione critica del fototipo, cioè alla sua descrizione (autore, data, materia e tecnica) e alla sua interpretazione (riconoscimento del contenuto e sua veridicità).

[21] Tra le innumerevoli, possibili esemplificazioni di questi nessi rimando a una delle più note fotografie di William Eggleston, The Red Ceiling, 1973, a proposito della quale lo stesso autore notava: “Quando ne osservi una stampa dye-transfer, sembra sangue rosso fresco sulle pareti.  Questa fotografia era come un esercizio di Bach per me, poiché sapevo che il rosso era il colore più difficile con cui lavorare.”, William Eggleston, Ancient and Modern. New York: Random House, 1992, pp. 28-29. Quel richiamo è stato poi criticamente sviluppato da Mark Holborn, per il quale “la campitura rossa ha un peso emotivo; è come se il soffitto stesse sanguinando. Qui, il colore rafforza il riferimento della struttura visuale alla bandiera della Confederazione; metaforicamente, un campo di sangue.” Mark Holborn, William Eggleston, Democracy and Chaos,  “Artforum”, 36 (1988), n.10, Summer, p. 91,  citato in William Eggleston: Democratic Camera, Photographs and Video, 1961-2008, catalogo ella mostra (New York – Whitney Museum, Monaco – Haus der Kunst, 2008),  Elisabeth Sussman, Thomas Weski, eds. New York – Monaco, Whitney Museum – Haus der Kunst,  2009, p. 12.

[22] Si veda Signorini 2009, p. 223.

[23] Uso qui i termini in modo ingenuo/ convenzionale senza addentrarmi (per manifesta incompetenza) nel ginepraio delle questioni poste dalle scuole semiotiche di derivazione greimasiana, che tendono a considerare inappropriata o comunque irrilevante la questione ontologica (l’in sé della fotografia) per spostare l’accento sulla sua semiotica testuale e ricettiva (vedi anche nota 11), partendo dalla constatazione – innegabile – che affinché si dia un segno occorre necessariamente la presenza di una funzione interpretante (di qualcuno che lo interpreti come tale) e che lo stesso Peirce, ad esempio in Of Reasoning in General, in Id., Short Logic, I, 1895 (in Signorini 2009, p. 151-155), ha parlato di indice, icona e simbolo, come rappresentazioni, cioè come azioni (che ci riguardano) e non come proprietà di entità che ci sono esterne. Resta però a mio avviso indispensabile provarsi a definire le caratteristiche distintive della Fotografia per riuscire a comprendere le diverse strategie  – storicamente determinate – che la riguardano.

[24] Charles S. Peirce, On Existential Graphs, 1903 ca, in Signorini 2009, pp. 174-177.

[25] 1895: “Una fotografia è un’icona” ; 1896: “L’icona, che è la fotografia della quale l’indice costituisce la legenda (…)”. Salvo diversa indicazione le citazioni sono tratte da Signorini 2009, pp. 210-215.

[26] Vedi nota 24.

[27] Alfred Liégard,  Le document et l’Art, “La Fotografia Artistica”, 2 (1905), n. 1, gennaio, pp. 8-10.

[28] Citato in Walter Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, “Die literarische Welt”, 1931,  (trad. it. Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966, pp.59-79: 75)

[29] Lazlo Moholy-Nagy, in Lugon 2001, p. 70. Le Norme tecniche e d’impiego del servizio fotografico terrestre ed aereo emanate dal Comando supremo italiano nel 1918 mostravano invece di temere la deriva ‘artistica’ dei loro operatori, tanto da imporre che non si dovesse tenere alcun conto “dell’aspetto più o meno artistico che, in base a tale scelta, può assumere il panorama stesso”,  cfr. Antonio Zandonati, Il Servizio fotografico nell’esercito italiano durante la Grande Guerra, in Tiziano Bertè, Antonio Zandonati, Il fronte immobile. Fotografie militari italiane dal monte Baldo al Cimon d’Arsiero. Rovereto: Museo Storico Italiano della Guerra, 2000, pp.9-20 (16). È appena il caso di ricordare qui le posizioni di Giuseppe Pagano, di Carlo Mollino e ancor prima di Boggeri che, nel generoso tentativo di trapiantare in Italia i canoni della nuova visione tra costruttivismo e Bauhaus  indicava “lo spostamento del punto di vista dell’obiettivo: in alto e sopra la scena (e ciò in seguito ai risultati stupefacenti ed allo studio delle fotografie prese dall’aeroplano) e quindi in basso e al di sotto, secondo la conseguente teoria dei contrari.”,  Antonio Boggeri, Commento, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1929, pp. 9-16.

[30] Alberto Rossi, Fotografia come arte, in “Luci ed ombre. Annuario della fotografia artistica italiana”. Torino: Il Corriere Fotografico, 1933, pp. IX-XVIII (XIV).

[31] Walker Evans, 1971, qui ripreso da Lugon 2001, p. 19, che ha opportunamente definito la “neutralità documentaria” nulla più che un’apparenza. Anche per un interprete raffinato come Ghirri “Tutto all’interno delle sue fotografie sembra naturale.”, Luigi Ghirri, Le carezze fatte al mondo di Walker Evans, in “Gran Bazaar”, n. 46, ottobre-novembre 1985, pp. 18-19, ora in Id., Niente di antico sotto il sole: Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di Paolo Costantini, Giovanni Chiaramonte. Torino: Società Editrice Internazionale, 1997, pp.70-71, sottolineatura dell’autore; notazione tanto affascinante quanto problematica, dove “naturale” credo debba essere inteso nella doppia accezione di realizzato con naturalezza, ma anche – e insieme – di trasparenza, elemento da cui emergono le cose per quello che sono. O, almeno, “sembra”.

[32] Lewis Baltz, The New West by Robert Adams,  “Art in America”, 63 (1975), n. 2, March-April, p.41, in De Chassey 2006, p.152.

[33] Lewis Baltz, I want my work to be neutral and free from aesthetic or ideological posturing, in Carol Di Grappa, ed., Ladscape Theory. New York: Lustrum Press, 1980, p.26, in De Chassey 2006, p.153. Il riferimento esplicito è W. Evans, 1971 (vedi nota 5), che a sua volta si rifaceva a Flaubert (“L’assenza dell’autore, la non soggettività”), ma queste affermazioni hanno il sapore di una regressione. In Evans c’era la consapevolezza che si trattasse di uno ‘stile’ mentre Baltz, nonostante le buone intenzioni programmatiche, è proprio di un’ideologia che si appropria, quella mitica della neutralità oggettiva, della fotografia trasparente; mostra cioè di volersi ritrarre come autore proprio nel momento in cui definisce più precisamente il proprio ruolo, la sua presenza. Se proviamo a definire semioticamente lo stile documentario come quel modo di connotare le immagini in cui appare una corrispondenza massima tra indice e icona, tra registrazione e raffigurazione, con una rilevanza sostanzialmente nulla – in termini costitutivi – della componente simbolica, ne deriva che in questo dovrebbe essere il dispositivo a prevalere sull’autore, la componente materiale a vincolare quella culturale, ma allora: lo stile documentario non può esistere in sé, proprio in quanto scelta d’autore. Dove c’è volontà d’autore non può esservi stile documentario, ma può esserci – c’è – documento, poiché l’immagine risultante non può prescindere dalla messa in ordine della visione imposta e concessa dall’apparato fotografico, dalla sintassi propria della fotografia in quanto immagine ottica. Analogamente, il fatto che la fotografia sia (anche) indice non la riduce per ciò stesso a essere trasparente, oggettiva, a-narrativa. Semmai è proprio nella tensione tra queste polarità che risiedono tutte le sue potenzialità. Anche dal punto di vista ottico lo “stile documentario” è l’esempio massimo di convenzione, di finzione che si mostra autentica e come naturale: basti ricordare come il cono visivo che penetra il corpo della macchina venga ridotto sul piano a una innaturale per quanto ragionevole figura angolare, imponendo che una parte dell’immagine si riversi su superfici insensibili. Un furto, una perdita irreparabile della quale neppure ci rendiamo conto, ingenuamente certi che tutto accada entro i rassicuranti margini della ‘inquadratura’. Il cerchio è la forma dell’immagine pura. La sola che noi conosciamo (inconsapevoli), riversa al fondo del nostro occhio. È la figura primaria corrispondente alla formazione ottica di ogni immagine: analogamente a quanto accade nella proiezione retinica, non esiste figura rettangolare che racchiuda l’immagine proiettata da un sistema ottico. Dal foro stenopeico a qualsivoglia sistema di lenti, l’area della proiezione è sempre circolare: solo le convenzioni storico culturali e alcune difficoltà tecnologiche (quindi culturali anch’esse, ovvio) hanno fatto sì che anche la fotografia fosse comunemente racchiusa tra quattro angoli retti.

[34] Lugon 2001, p. 156. Per quanto risaputo, credo sia necessario ribadire che questa condizione costituisce la base di tutta la fotografia nominalmente documentaria (giudiziaria, scientifica e simili), nella quale la scelta non si opera per ragioni di stile ma normative: “Abbiamo trattato le nostre macchine fotografiche come strumenti di registrazione e non come apparecchiature per illustrare le nostre tesi” ha detto Gregory Bateson, a proposito del lavoro fatto con Margaret Mead a Bali (circa 25.000 scatti), cfr. Elizabeth Edwards,  Antropologia, in Robin Lenman, ed., Oxford Companion to the Photograph. New York: Oxford University Press, 2005 (edizione italiana a cura di Gabriele D’Autilia, Dizionario della fotografia. Torino: Einaudi, 2008, I, pp. 31-34: 32).  In questi ambiti la fotografia è intesa e utilizzata quale strumentazione scientifica in grado di fornire dati misurabili. All’indagine storico critica il compito di comprendere le ragioni per cui l’indicalità fotografica costituisca un dato positivamente acquisito in ambito scientifico e contemporaneamente negato in ambito espressivo e artistico, pur facendo ricorso alla stessa tecnologia. Non sono quindi i suoi principi a essere posti in discussione, ma gli usi e i canoni. Basti pensare alla diversa qualificazione del ruolo dell’autore, a cui nella fotografia documentaria non è dato di scegliere (meno che mai di ritrarsi), mentre nella fotografia ‘artistica’ questo comportamento si dà come alternativa possibile, scelta stilistica che ne ribadisce il ruolo e la presenza in absentia. Autorialità e crisi documentaria: se per la cultura delle origini della fotografia la sua fedeltà al vero si fondava sul prevalere della ‘natura’ sull’uomo, fu l’affermarsi della fotografia come immagine e l’inscindibile affermazione della figura dell’Autore a mettere in discussione e in crisi la (concezione della) fotografia come documento, sebbene nel solo ambito ristretto della fotografia ‘artistica’. Nessun tecnico di laboratorio, nessun operatore dei grandi studi internazionali attivi nel campo delle riproduzioni d’arte, della fotografia industriale e simili ha mai messo in dubbio questa accezione, prodigandosi semmai per individuare e adottare le migliori soluzioni tecniche e tecnologiche necessarie a che il compito potesse essere svolto nel migliore dei modi. Più interessante risulta oggi il riconoscere una valenza etica “nel ricorso a forme di immagini che propongono un concentrato di umiltà, di distanza riflessa e di audacia a privilegiare una forma ornata di virtù di fondo. Il documento è una risposta al mondo delle immagini sul terreno stesso delle immagini, forse il solo mezzo per opporsi al regno assoluto dello spettacolo. (…) è quindi un’utopia (…) il documento incarnerebbe così ‘l’ultima immagine’. L’ultima immagine possibile dopo le disillusioni e i dogmatismi (…) un’esperienza limite che contiene la promessa di una rivoluzione. (…) La potenza speculativa del documento risplende al giorno d’oggi come la sintesi improbabile di rappresentazione e informazione.”, Michel Poivert, La photographie contemporaine. Paris: Flammarion, 2002, p.140.

[35] In ambito fotografico, per fototipo si intende un’immagine positiva o negativa visibile e stabile ottenuta dopo esposizione e trattamento di uno strato fotosensibile.

[36] Si pensi alla riproduzione Alinari del dipinto di Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane, 1505, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze: un caso esemplare di documento fotografico se mai ve ne fu uno. Il confronto con l’opera di Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, fotografia su tela emulsionata, 30×24, da Ricostruzione nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dall’osservatore di questo quadro, 1967, spalanca però all’improvviso l’abisso del contesto: le due immagini – identiche (specie in una qualsiasi versione a stampa) – sono portatrici di informazioni per la gran parte radicalmente diverse, pur condividendo lo stesso contenuto referenziale, corrispondente al dipinto di Lotto, alle sue condizioni di esistenza in un momento dato e al livello tecnologico della riproduzione monocroma di un dipinto.

Un’eco della suggestione concettuale dell’opera di Paolini risuona anche nell’incipit de La camera chiara: “in quel momento, con uno stupore che da allora non ho mai potuto ridurre, mi dissi: ‘Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore’.”,  Barthes 1980, p. 5.

[37] Per questa ragione non potrei essere più lontano dalle posizioni di chi sostiene che “non sono i segni – e a maggior ragione le loro tipologie – a interessarci; sono le forme significanti, i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia, come di ogni immagine o di ogni testo, un oggetto di senso”, come se le due posizioni fossero antitetiche e inconciliabili. Soprattutto mi pare infondato sostenere che “il voler a ogni costo definire lo specifico della Fotografia impedisce di lavorare sulle fotografie e nega ogni possibilità, ogni probabilità, di smentire il suo a priori. Parlare di Fotografia, come di Pubblicità, significa accettare il taglio socio-culturale, dunque relativo e storico, dei linguaggi e dei mezzi di espressione. Cercare la loro specificità significa, tutt’al più, esplicitare un sistema connotativo.”, Jean-Marie Floch, Les formes de l’empreinte. Périgueux: Fanlac,  1986 (edizione italiana a cura e con traduzione di Luisa Scalabroni,  Forme dell’impronta. Roma: Meltemi, 2003) pp. 8-9. In parte diverse sono le ragioni di dissenso nei confronti delle riflessioni di John Tagg, sebbene complessivamente più stimolanti e articolate. “Il medium della fotografia non era dato e uniforme. Costituiva sempre un esito localizzato, l’effetto di una particolare delimitazione del campo discorsivo, la funzione di uno specifico apparato o macchina, nel senso in cui Foucault ha utilizzato questi termini. Il medium doveva essere costituito e venne definito in maniera molteplice. (…) Il medium non è qualcosa di semplicemente dato. Deve essere costituito, e deve essere istituito. E non è istituito uniformemente e omogeneamente, ma, piuttosto, in modo discontinuo, localizzato ed eterogeneo, quale proprietà di particolari strutture istituzionali e quale effetto di  specifiche delimitazioni del campo discorsivo.”, Tagg  2009, p. XXVIII, p. 15. Il riferimento, condiviso con Batchen, alla lezione magistrale di Foucault, il quale si proponeva di definire gli oggetti senza far riferimento al loro fondamento, ma mettendoli in relazione con il corpus di regole che consente loro di formarsi come oggetti di un discorso e porre così le condizioni per la loro comparsa storica, è prezioso, ma mi pare che proprio la possibilità del medium fotografico di costituirsi localmente in contesti e modi diversi non possa che essere fondata (e storicamente data) su quello che a suo tempo Barthes ha individuato quale noema della Fotografia. Voler negare questo dato sarebbe come dire che non riconosco legittimità o rilevanza ai principi della termodinamica perché il mio ambito di studio sono le funzioni storiche e sociali delle ferrovie. Non credo sia possibile comprendere dal punto di vista storico culturale “i sistemi di relazioni che fanno di una fotografia un oggetto di senso” senza interrogarsi, e capire, cosa sia la Fotografia, perché solo a questa condizione sono in grado di identificare geneticamente le ragioni e i modi del suo essere nella storia e nella cultura, nella cultura storica.

[38] “Talvolta vengo definito un ‘fotografo documentario’ – proseguiva Evans – ma questo presuppone la consapevolezza della sottile differenza che ho appena enunciato, che è piuttosto nuova. Si può agire in base a questa definizione e ricavare un piacere maligno dall’invertire i termini. Spesso faccio una delle due cose mentre si crede che stia facendo l’altra”, in Katz 1971, p. 87. Alla luce di queste dichiarazioni risulta criticamente infondato, per non dire gratuito, l’accanirsi nel verificare lo stato attuale dei luoghi a suo tempo ripresi da Evans. Più appropriata e fruttuosa ci pare la sua definizione, di poco precedente, dell’apparecchio fotografico come “incredibile strumento di realismo simbolico”, Walker Evans, Photography, 1969, ora in Mike Weaver, ed., The Art of Photography 1839-1989. London: The Royal Academy of Arts, 1989, p.301. In termini più complessi un analogo concetto è stato sviluppato da Flusser, che ha definito l’immagine tecnica quale apparato destinato a produrre simboli, e di cui i fotografi non sono che “funzionari” che “dominano un gioco di cui non sono competenti.”, Flusser 1987, p.  31. Anche l’interpretazione antropologica, sintetizzando una lunga serie di riflessioni, ha riconosciuto come “rispetto all’ideologia (…) la fotografia offra informazioni insostituibili. Essa è infatti strumento di formazione e trasmissione di forme simboliche, ma è essa stessa forma simbolica della realtà, costruita attraverso procedimenti sofisticati di codificazione.”, Francesco Faeta, Wilhelm von Von Gloeden: per una lettura antropologica delle immagini, “Fotologia”, n. 9, maggio 1988, pp. 88-104. Mi pare invece appropriata la qualificazione di stile documentario per molte produzioni artistiche di area concettuale, in particolare per quelle in cui entra in gioco l’elemento di archivio o la classificazione tipologica, come in Christian Boltanski e nei coniugi Becher, ma anche per le Esposizioni in tempo reale di Vaccari, nelle quali si ritrova, pur nelle diverse forme e intenzioni espressive, una evidente coerenza tra ‘stile’  (qui ‘documentario’) e intenzioni progettuali e discorsive.

[39] Da una lettera di Farham Maxwell Lyte al “Moniteur de la Photographie” del 15 novembre 1861, in Bernard Marbot, Des ciels dans les paysages photographiques, dossier della mostra Quand passent les nuages ( Paris, Bibliothèque nationale, 1988), consultabile all’indirizzo  http://expositions.bnf.fr/legray/reperes/nuages/index.htm   (11-05-2011). L’esempio più noto di questa pratica è certo la Vallée de l’Huisne  (River Scene, France) che  Camille Silvy espose al Salon parigino del 1859, cfr. Mark Haworth-Booth, Camille Silvy: River Scene, France. Los Angeles: Getty Museum Studies on Art, 1993; Id., Camille Silvy: Photographer of Modern Life 1834-1910. Los Angeles: Getty Trust Publications, 2010.

[40] Piazzetta della chiesa con muli, 1890, stampa all’albumina con fotomontaggio, ritocchi e annotazioni, prova di stampa per Vittorio Sella, Domenico Vallino, Monte Rosa e Gressoney. Biella: Amosso, 1890, t.36, Biella, Fondazione Sella.  Questa fotografia è stata pubblicata anche da Piergiorgio Dragone, La fotografia di Vittorio Sella, in Id., Pittori dell’Ottocento in Piemonte. Arte e cultura figurativa 1865-1895. Torino: Banca CRT, p. 275. Per altri fotomontaggi di Sella vedi Vittorio Sella: Fotografia e montagna nell’Ottocento, catalogo della mostra (Torino, Museo Nazionale della Montagna, 12 dicembre 1982-6 febbraio 1983; Aosta, Tour Fromage, 20 febbraio-10 aprile 1983) a cura di Claudio Fontana. Torino – Ivrea: Museo Nazionale della Montagna –  Priuli & Verlucca, 1982. Sulla figura di Vallino rimando a P. Cavanna Gli “Album di un alpinista”, “ALP”, 11 (1995),n.122, pp. 124-127. Analoghe pratiche di verosimiglianza segnarono anche molta fotografia modernista, come fu ad esempio per Cesare Giulio, cfr. Sul limite dell’ombra. Cesare Giulio fotografo, (Torino, Museo nazionale della Montagna, 17 maggio – 7 ottobre 2007), a cura di P. Cavanna. Torino: Museo nazionale della Montagna, 2007. Anche la fotografia etnografica propriamente detta, dietro e oltre una metodologia connotata da precise intenzioni documentarie lascia emergere pratiche meno lineari, che non escludono il ricorso all’artificio, quale ad esempio la ricostruzione della scena fotografata; cfr. Francesco Faeta, Fotografi e fotografie: uno sguardo antropologico. Milano: Mazzotta, 2006 e, per l’analisi di un caso specifico, P. Cavanna, Di un viaggio in Italia, passando per il Piemonte, in Sabina Canobbio, Tullio Telmon, a cura di, Paul Scheuermeier. Il Piemonte dei contadini 1921-1932, II. Ivrea: Priuli & Verlucca, 2008, pp. 319-331.

[41] Basso Fossali 2008, p. 15. Un’efficace testimonianza di quanto possa essere osmotico (quindi problematico e attraente) il confine che delimita l’area del documento fotografico è costituita da questa dichiarazione di Jeff Wall a proposito di Man with a Rifle, 2000, frutto della sintesi digitale di dieci distinte riprese: “Penso sia evidente che tutte le parti  assemblate per realizzare Man with a Rifle sono esempi di fotografia diretta [straight photography]; eccetto la performance dello sparatore (…) la maggior parte sono fotografie documentarie. (…) è anche importante notare che la cosiddetta ‘azione drammatica’ nell’immagine è una ricostruzione il più possibile precisa di un istante che accadde in strada, nella quotidianità. È parte della quotidianità, non è inventata.”, cfr.  Friederich Tietjen, Interview with Jeff Wall, “Camera Austria”, 24 (2003), n. 82, pp. 6-18.

[42] Vedi nota 24. La questione dell’atto culturale del riconoscimento non é però così semplice né così scontata. Sono note non poche esperienze etnografiche e antropologiche in cui l’immagine fotografica risulta priva di valore indicale poiché non viene neppure riconosciuta come icona (cfr. Vittorio Lanternari, Sensi, in “Enciclopedia”, v. 12. Torino: Einaudi, 1981, pp. 730-765). Questo fatto ha costituito per un certo tempo uno degli elementi a sostegno della definizione della fotografia quale messaggio codificato, mentre d’altro canto alcune ricerche di neuropsichiatria infantile hanno dimostrato che “il bambino dal terzo mese in poi non solo è in grado di riconoscere la madre tra le altre persone quando essa è presente, ma la riconosce anche in fotografia.”, Maria E. Barrera, Daphne Maurer, Recognition of mother’s photographed face by the three-month-old infant, “Child Development”, 52 (1981), n. 2, giugno, pp. 714-716, citato in Nicola Peluffo, Immagine e fotografia. Roma: Borla, 1984, p.13, nota 3. Altrettanto significativi i casi in cui la decifrazione dell’immagine fotografica, cioè il riconoscimento del suo contenuto indicale è reso problematico da ragioni percettive, di percezione della forma in particolare. Quando l’icona gioca con le nostre convenzioni rappresentative, improvvisamente risulta difficile stabilire di cosa, di quale referente quell’immagine sia indice e traccia. Si veda, a puro titolo di affascinante esempio la sequenza di Duane Michals, Things Are Qeer (Le cose sono strane), 1973 (cfr. Jonathan Weinberg, Things are Queer, “Art Journal”, 55 (1996), dicembre  , ora consultabile all’indirizzo  https://www.academia.edu/10840375/Things_are_Queer  – 22 12 2022). La questione resta quindi per molti versi ancora aperta, ma il fatto che in un determinato contesto o in certe condizioni di ricezione il riconoscimento divenga problematico sino a far perdere lo specifico statuto di segno non mi pare che possa di per sé inficiarne la primaria natura indicale. Non è la mancata comprensione da parte di un particolare interprete a stabilire la specificità del segno. Più difficile valutare le conseguenze in termini di analisi culturale del precoce riconoscimento infantile della raffigurazione fotografica come analogo del reale, a meno di sottolineare come questo prendesse corpo – letteralmente – nella figura della madre, come suggerisce anche l’episodio descritto dall’antropologo Melville Herskövits riportato da Allan Sekula, On the Invention of Photographic Meaning,  “Art Forum”, 13 (1975), n. 5, gennaio, pp. 36-46, ora in Victor Burgin, ed., Thinking Photography.  London: Macmillan, 1982. Anche le riflessioni ultime che Barthes ha dedicato alla fotografia ne La camera chiara si sono dipanate dal groviglio del rapporto proustiano con la madre.

[43] Jean-Marie Schaeffer, L’image précaire. Du dispositif photographique. Paris: éditions du Seuil, 1987, p. 111, (edizione italiana a cura e con traduzione di Marco Andreani, Roberto Signorini, L’immagine precaria: Sul dispositivo fotografico. Bologna: CLUEB, 2006). La funzione necessaria del riconoscimento è stata ribadita in termini più generali anche da Ricoeur, per il quale “la traccia lasciata è anch’essa un’impronta offerta alla decifrazione. Tuttavia, così come è necessario sapere – un sapere anteriore ed esterno – che qualcuno ha coniato la cera con il sigillo, è necessario sapere che un animale è passato di là, addirittura saper distinguere la traccia di un cinghiale da quella di un capriolo. Così l’enigma dell’impronta si ripete in quello della traccia; è necessario un sapere teorico preliminare riguardo le abitudini di chi ha lasciato la traccia, e un sapere pratico riguardo l’arte della decifrazione della traccia, che, solo allora, funge da effetto-segno del passaggio che ha lasciato la traccia.”, Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato. Bologna: il Mulino, 2004, pp.12-14. Pur senza addentrarci qui in una problematica tanto affascinante quanto complessa, segnaliamo almeno la suggestione linguistica e quindi concettuale che lega i termini traccia, testimonianza (prediletta da un freudiano come Ricoeur) e documento in ambito storico e fotografico. Se – con Marc Bloch – ogni testimonianza storica è “traccia” del passato, allora ogni fotografia è traccia di una traccia.  In questo orizzonte risulta particolarmente stimolante e produttiva la lettura in parallelo, a cui qui non posso far altro che invitare, dei testi di Ricoeur, di Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta. Torino: Bollati Boringhieri, 2009 e di Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra. Milano: Bruno Mondadori, 2010.

[44] Schaeffer 1987, p. 111. Queste posizioni sono state polemicamente contestate da André Rouillé: “Di fatto, se c’è del vero in una fotografia – documento, non è in ragione di una corrispondenza, e neppure di un adeguamento alle cose. La porzione di verità che può essere accreditata all’immagine risiede meno nella sua somiglianza con le cose che nel contatto che stabilisce con quelle. Si tratta di una modalità nuova della verità: una verità per contatto invece che per somiglianza.  In termini peirciani, la verità fotografica è più indicale (indiciaire) che iconica. L’impronta prevale sulla mimesi. O, piuttosto, la mimesi descrive mentre l’impronta attesta. È precisamente questa dialettica tra descrizione (ottica) e attestazione (chimica) che costituisce la forza della fotografia, e non la sua precarietà come crede  Jean-Marie Schaeffer nella sua opera L’Image précaire. Du dispositif photographique.”, Rouillé 2005, p. 118, che non ha però voluto tenere nel debito conto il fatto che il processo ricettivo stabilito da Schaeffer accoglie in pieno la concezione indicale di Peirce.

[45] Ricoeur 2004, p.19.

[46] Roberto Signorini, Arte del fotografico. Pistoia: Editrice C.R.T., 2001, p. 112.

[47] Batchen 2002, pp. viii-ix.

[48] Ivi, p. 106.

[49] Vedi nota 24.

[50] Michel Foucault, L’Archeologie du savoir. Paris: Gallimard, 1969, p. 15.

[51] Jacques Le Goff, Documento/Monumento,  in “Enciclopedia”, v. 5, 1978, pp.38-48, ora in  Id., Storia e memoria. Torino: Einaudi, 1982, pp.443-456. È interessante e utile accostare queste considerazioni a quelle espresse circa gli stessi anni da Barthes a proposito della fotografia, che “essendo per natura tendenziosa (…) può mentire sul senso della cosa, ma mai sulla sua esistenza.” (Barthes 1980, p. 87) In un ambito più circoscritto, anche Schaeffer 1987, p. 158, ha notato come “l’arte fotografica in quanto istituzione museale, sembra oscillare in permanenza tra il documento e il monumento.”

[52] Paolo Fossati, Appunti sull’autore e sul suo libro, in Angelo Schwarz, La fotografia tra comunicazione e mistificazione. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1980, p. 12. La posizione espressa da Fossati rispecchia quella di un altro intellettuale, anch’egli torinese ed einaudiano, come Giulio Bollati che nell’aprire gli Annali della “Storia d’Italia” dedicati alla fotografia dichiarava programmaticamente di voler situare quel libro “in una zona intermedia dove è lecito sperare che l’indeterminatezza favorisca effetti di alone utilizzabili dall’uno e dall’altro punto di vista.”, Giulio Bollati, Note su fotografia e storia, in Bertelli, Bollati 1979, pp. 3-55 (5).

[53] Per queste ragioni risulta indispensabile riflettere anche sulla “questione dell’unità di misura basilare della fotografia, che storici e commentatori hanno comunemente inteso essere la singola immagine, come se la storia della fotografia fosse una storia della pittura in miniatura.”, Ian Jeffrey, Photography. A concise History. London: Thames and Hudson, 1981, p. 7.

[54] Philippe Dubois, L’acte Photographique. Bruxelles: Éditions Labor, 1983, (edizione italiana a cura di Bernardo Valli, L’atto fotografico, Urbino, Edizioni Quattro Venti, 1996, p. 53).

[55] Krzysztof Pomian, Histoire culturelle, histoire des sémiophores, in Jean-Pierre Rioux, Jean-François Sirinelli, dir., Pour une histoire culturelle.  Paris: Seuil, 1996, pp. 73-100 (trad. it., Storia culturale, storia dei semiofori, in Pomian, Che cos’è la storia. Milano: Bruno Mondadori, 2001, pp.129-155), che sintetizza la riflessione ventennale dell’autore intorno a questa categoria di “oggetti che non hanno utilità” ma sono “dotati di significato” in quanto “partecipano allo scambio che unisce il mondo visibile a quello invisibile”, in accezione non necessariamente metafisica, cfr. K. Pomian, Collezione, in “Enciclopedia”, v. 3. Torino: Einaudi, 1978, pp. 330-364.